Riforma penale, Cartabia: “Una nuova cultura, non solo carcere e punizione” di Maria Carmela Fiumanò dire.it, 24 settembre 2022 La ministra parla di riforma del sistema penale all’Università di Milano e fa il punto sui 18 mesi di permanenza al ministero della Giustizia. La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha partecipato alla prima delle due giornate del X Convegno nazionale dell’Associazione italiana professori di diritto penale, dal titolo “I nuovi percorsi del sistema sanzionatorio tra ricerca di efficienza e garanzie” all’Università degli studi di Milano. Durante l’incontro la guardasigilli ha parlato della riforma della giustizia penale, ormai quasi a compimento - manca l’ultimo passaggio in Consiglio dei ministri - sottolineando: “Questa riforma è animata da una nuova cultura della pena. Non solo carcere. Non solo punizione”. Il saluto portato da Cartabia al Convegno è stato anche l’occasione per fare il punto dei suoi 18 mesi di permanenza al Ministero e del lavoro “intenso e ininterrotto, che ha mobilitato molte persone” e che a volte “ha richiesto anche maratone notturne”. La ministra ha ringraziato i tanti professori, avvocati magistrati e studiosi - circa 200 - che “con generosità hanno messo le proprie competenze e il proprio tempo a servizio del Paese: un piccolo esercito di volontari che ha lasciato il segno nel nostro ordinamento”. La comunità scientifica come “un laboratorio di idee, un luogo di pensiero critico, caratterizzato da uno sguardo lungo che si proietta nel tempo” che per Cartabia è stata “una vera risorsa, il cui punto sorgivo è il gusto del sapere per il sapere”. Ai lavori, aperti dal saluto del rettore Elio Franzini, la Guardasigilli - riferendosi alla riforma della giustizia penale che attende oramai solo l’ultimo passaggio in Consiglio dei ministri - ha offerto quelle che ha definito “istantanee”: sulla giustizia deflattiva, “si è ampliato l’ambito di applicazione di istituti quali la non punibilità per particolare tenuità del fatto”, per incentivare la riduzione dei procedimenti penali; sulle ‘sanzioni sostitutive e pene pecuniarie’, si è colta l’occasione per dare loro nuova linfa; infine, sulla ‘giustizia riparativa’, ha rammentato a tutti i presenti il grande lavoro culturale che dovrà essere portato avanti nelle aule universitarie e nella formazione permanente perché essa “ci interpella tutti”. Cartabia ha però precisato che: “Ogni riforma è sempre un incompiuto, è sempre perfettibile. Alle riforme della giustizia, per quanto ampie e incisive, non si può mai mettere la parola fine. La giustizia è sempre un cantiere aperto e le sue riforme un work in progress”. Ma soprattutto, ha concluso: “Questa riforma è animata da una nuova cultura della pena. Non solo carcere. Non solo punizione”. Il corpo recluso senza alcuna difesa di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 24 settembre 2022 Anche nei fatti di Ivrea emerge in modo inquietante il ruolo dei medici. Inquietante perché appaiono silenti o complici attivi della violazione del corpo recluso, quel corpo che Daniel Gonin, medico penitenziario che molto ne ha scritto, descrive come “quel sacco di pelle” dentro cui chi è detenuto tenta di proteggersi, di rimanere intero. Un sacco di pelle aggredito, offeso, lacerato, che si ritrova senza alcun difensore. Il medico dovrebbe essere questo difensore: per deontologia, per dovere, per dignità, per autonomia. La complicità dovrebbe essere quella tra medico e paziente, con il suo diritto all’inviolabilità e alla cura, non con chi vi attenta. Inquietante anche perché questa subordinazione ancillare dei medici ai poteri che governano il carcere, e ai suoi riti più oscuri e violenti, è ricorrente, non una eccezione. Fa impressione leggere i verbali delle violenze a Sollicciano, a San Gimignano, a Torino, fino ai morti del carcere di Modena: pongono interrogativi radicali non solo sui singoli medici coinvolti, ma su un sistema e su una cultura della pena. Il corpo di chi è recluso/a appare un corpo a perdere, un corpo-oggetto, su cui già si esercitano tutti i dispositivi di annichilimento della detenzione, ed è proprio per questo che dovrebbe scandalizzare che chi ne ha (ne dovrebbe avere) la tutela, giri lo sguardo o peggio regga il gioco, come se lavorare lì dentro significasse derogare a tutto ciò che un medico deve fare ed essere. Con il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, nel 2008, si intendeva avvicinare il diritto alla salute di chi è recluso a quello di ogni altro cittadino. Insomma, pari prestazioni e pari diritti. Non è andata così, non sta andando così. E non solo nelle situazioni più estreme, dove il gesto di un medico può salvare incolumità, dignità e vita di chi è recluso; ma anche spesso - fatti salvi quanti restano fedeli alla loro professione - nel quotidiano, quando si ha a che fare con il rispetto di privacy e riservatezza, con il diritto alle cure, con condizioni (aria, luce, movimento, cibo, isolamento…) che violano salute e diritti fondamentali. Troppo spesso si glissa, si deroga, si delega. Si tace. Questa ancillarità non è giustificata dalla legge, è solo una questione di potere, tra poteri. La professione medica dovrebbe rivendicare il suo, di potere: che è quello di non permettere che “quel sacco di pelle” venga lacerato. *Forum Droghe Giustizia, lo scontro infinito tra i partiti di Matteo Indice Il Secolo XIX, 24 settembre 2022 Il centrodestra insiste sulla separazione delle carriere dei magistrati. La ricetta del Pd guarda alle misure alternative al carcere. I processi lenti restano per molti l’emergenza primaria, ma la soluzione potrebbe non essere facilmente conciliabile con i capisaldi politici del programma. Coalizioni e partiti si presentano al voto con proposte molto variegate, e in alcuni frangenti confuse oppure (quasi) inesistenti sul tema Giustizia, ancorché qualche denominatore comune e intreccio siano analizzabili. Sono severissimi nei confronti dei magistrati, e concettualmente punitive nel senso che insistono con forza sulla certezza della pena detentiva, le linee di Fratelli d’Italia e Lega, traino del centrodestra, radicali in primis sulla necessità di suddividere le carriere di chi giudica e chi accusa, ovvero i pubblici ministeri. Ma se nel caso di Fdi la sintesi un po’ sbrigativa, e comprensiva d’una tranciante “abolizione del tribunale dei minorenni per evitare altri casi Bibbiano”, consente d’intravedere solo un’idea generale e abbastanza riduzionista del comparto giudiziario, essendo il movimento di Giorgia Meloni più orientato verso il lavoro delle forze dell’ordine, il ragionamento si fa differente sulla Lega. Il Carroccio ha affidato l’elaborazione specialistica a Giulia Bongiorno, snocciolando dettagli quasi millimetrici sul possibile riassetto ambito per ambito. E svaria dalla magistratura onoraria, cui dedica una vera e strategica attenzione poiché quella branca s’accolla ormai il 50% dei procedimenti, al contrasto delle baby gang, descritte in un paio di frangenti come pericolo quasi iperbolico. Il Pd non si dilunga granché, ma squaderna un programma lineare. E richiama la depenalizzazione “dove possibile e necessario” (inclusa quella di forma e di sostanza sull’autoproduzione della cannabis), la giustizia riparativa e soprattutto le misure alternative al carcere quali vie obbligate al contenimento dei tempi, mentre sul fronte opposto s’insiste sulla necessità di assunzioni massive e costruzione di nuovi penitenziari. Ancora i Dem, sempre mantenendosi sui precetti generali, certificano attenzione verso i precari del ministero che tengono in piedi la macchina e sulle potenziali responsabilità dei giudici restano morbidi, promuovendo la creazione di un’Alta Corte dedicata. Al contrario, dai conservatori arrivano input forti alla sanzione per chi tarda nel lavoro o commette errori macroscopici. Il Movimento Cinque Stelle si dilunga parecchio, con un po’ di verbosità. E mescola la sua peculiare impronta giustizialista e protettiva nei confronti dei pm all’attenzione verso i diritti delle fasce deboli - minorenni, donne e anziani - risultando su quest’aspetto il partito più incisivo, così come lo è in maniera netta sul “diritto alla morte medicalmente assistita”. Sulla necessità di rimettere in sesto un meccanismo elefantiaco se la sfanga invece con il binomio assunzioni & informatica, e tanto deve bastare. E il Terzo Polo? C’è molto di Matteo Renzi, che contro la magistratura inquirente sta conducendo una dichiarata battaglia dopo essere stato coinvolto nell’inchiesta sui contributi alla Fondazione Open, in un programma che insiste sulla riservatezza delle indagini per evitare strumentalizzazioni mediatico-politiche, non è tenero nei confronti delle toghe e basa lo snellimento sulla sublimazione del garantismo. Cioè limitando molto le possibilità d’appello da parte dell’accusa dopo le assoluzioni in primo grado - elemento rimarcato con veemenza e pluralità di declinazioni pure dalla Lega - e profilando stimoli diffusi a tutte le vie alternative al dibattimento, oltre a stringere i confini delle misure cautelari. Si può essere d’accordo o meno, ma quelle del binomio Azione/Iv, della Lega e del Pd sono le piattaforme forse più omogenee, coerenti e comunque approfondite. Dove insomma le soluzioni alle questioni impellenti via via inserite, sovente agli antipodi da un partito all’altro, non contrastano con quelle proposte per altri problemi magari nel paragrafo successivo. Forza Italia, alleata di Meloni e Salvini, si limita a un paio di micro-punti sottoscritti nel generico programma di coalizione. E sintetica risulta pure la proposta di “Noi moderati”, quarta gamba del centrodestra, che ha come mantra “la segretezza dell’avviso di garanzia” prima dei disagi patiti da milioni d’italiani per la macchinosità, delle udienze penali e soprattutto civili. Sull’altro versante, gli junior partner dei Democratici Più Europa e Verdi-Sinistra, sono sostanzialmente in linea con le proposte Pd nei cardini, ma divisi non poco sulla separazione delle carriere, molto caldeggiata da Più Europa e non dal resto del raggruppamento progressista. Ultima nota di merito, prima dell’anamnesi sul metodo. Su due mali patologici come mafia ed evasione fiscale, Fdi e Lega se la cavano abbastanza in fretta sostenendo in modo un po’ teleologico la necessità di contrastarli, e paiono molto più allarmate dalle bande giovanili anziché dalle cosche; il Pd insiste sulla necessità di assistere i familiari che si smarcano dai clan e confida nell’Europa, sperando si riesca a creare in tempi stretti l’Agenzia internazionale antiriciclaggio con sede in Italia; M5S va a fondo su entrambi i punti, proponendo d’irrigidire tutte le norme ad hoc. E però lo studio dei pilastri programmatici va messo sulla bilancia insieme al contrappeso dei principi di “selezione” e “fattibilità”. Il bisogno di strizzare l’occhio a più categorie possibili (dai magistrati nelle loro varie accezioni ai funzionari amministrativi, passando per avvocati, poliziotti, carabinieri, agenti penitenziari, testimoni e pure pentiti) espone al rischio miscellanea, dove s’include un po’ di tutto in un impercorribile libro dei sogni. Non lo fanno i due principali partiti di destra, che tengono evidentemente in maggior considerazione avvocati e uomini in divisa, sempre ribadendo che la Lega scende nei particolari pure sulla giustizia bancaria. Ma le risorse da reperire restano abnormi, e non si capisce bene da dove arriveranno aldilà del taumaturgico Pnrr. Dem e Terzo Polo, puntando più sulle politiche deflattive seppur declinate diversamente (depenalizzazione generalizzata dei reati bagatellari nel primo caso, limiti fortissimi ai poteri dell’accusa per ridurre in automatico i processi nel secondo) paiono perlomeno più aderenti alla realtà dei fondi carenti. I Cinquestelle sulla questione giustizia puntano molto, basti ricordare che vi dedicano quasi 20 pagine a fronte dell’una risicata che si può trovare nel “programma per le elezioni politiche 2022” di Fratelli d’Italia. Ma la quantità delle proposte rende impensabile che sia davvero alla portata. Tutto il Csm (o quasi) alle correnti: ora guai a ripetere gli errori di Valentina Stella Il Dubbio, 24 settembre 2022 Completata la griglia dei togati: una pace Area-Md toglierebbe il primato a “Mi”. Mirenda, unico outsider: “Peggio di così...”. Mentre in Spagna il presidente del Consiglio superiore della magistratura, Carlos Lesmes, ha avviato il procedimento necessario per preparare le proprie dimissioni a causa di un Csm che funziona ormai ad interim dal 2018, finalmente ieri qui in Italia, dopo quattro faticosi giorni di attesa, al termine dello spoglio del Collegio 2 dedicato ai pubblici ministeri, abbiamo conosciuto la nuova formazione togata del nostro prossimo Csm. Vi riassumiamo brevemente la situazione. Magistratura indipendente conquista 7 poltrone (Paola D’Ovidio per la legittimità, Eligio Paolini e Dario Scaletta tra i pm, Maria Luisa Mazzola, Bernadette Nicotra, Edoardo Cilenti e Maria Vittoria Marchianò per il merito). AreaDg avrà 6 consiglieri (Antonello Cosentino per la legittimità; Maurizio Carbone tra i pm; Mariafrancesca Abenavoli, Marcello Basilico, Tullio Morello, e Gianantonio Chiarelli per il merito). Unicost raggiunge quota 4 (Marco Bisogni tra i pm; Michele Forziati, Roberto D’Auria e Antonino Laganà per il merito). Magistratura democratica ufficialmente ha eletto un candidato, ossia Domenica Miele per il merito, ma potrà contare anche sul pm milanese Roberto Fontana, il quale, benché abbia corso come indipendente, è iscritto ad Md - e non più ad Area - e ha avuto, oltre ad un sostegno trasversale, quello del gruppo guidato da Stefano Musolino. Infine, siederà al plenum di Palazzo dei Marescialli il sorteggiato Andrea Mirenda (Ufficio di sorveglianza di Verona). Niente da fare, quindi, per i volti noti della magistratura, candidati sempre come indipendenti. Non sono stati eletti Henry John Woodcock e nemmeno il procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, pubblico ministero nel caso in cui è imputato il figlio di Beppe Grillo. Sparisce dal Consiglio anche Autonomia e Indipendenza, fondata da Davigo, che pure aveva espresso il favore per Woodcock. Per il resto, a causa anche di un sistema elettorale che ha previsto collegi troppo ampi e che ha premiato i potentati regionali e la loro grande capacità di raccolta del voto, le correnti hanno avuto la meglio a scapito dei candidati privi dell’appoggio di un gruppo associativo. Chi dà una chiave di lettura molto critica alla partita che si è appena concluso è proprio Andrea Mirenda, che al Dubbio ha dichiarato: “Credo che queste elezioni siano andate particolarmente male. È quasi irrilevante che sia stato eletto un sorteggiato, perché c’è stato un plebiscito a favore di quel sistema mercimonioso che, direttamente o indirettamente, è stato il primo responsabile di quella modestia etica stigmatizzata dal Capo dello Stato. Le faccio un esempio: nel collegio 1 giudicanti su 2000 votanti circa 1700 hanno riconfermato le correnti. Ciò dimostra l’estrema difficoltà che c’è in seno alla magistratura ad elaborare un pensiero profondo su quanto accaduto in questi ultimi anni e a confrontarsi con la grave questione morale interna. La conclusione è che una élite come la magistratura non ha alcuna spinta auto-riformista”. Mirenda ci saluta promettendo che “porterà all’attenzione del Consiglio i temi della sorveglianza spesso ancillari, poco sentiti a Palazzo dei Marescialli ma, al contrario, molto importanti soprattutto in questo momento difficile per le carceri”. Via Arenula: non basta un sistema elettorale - Come aveva più volte sottolineato la ministra Marta Cartabia nel commentare la riforma del Csm, frutto di una a tratti estenuante mediazione politica, di certo i sistemi elettorali non sono la panacea di tutti i mali che la magistratura sta tentando di sanare. A via Arenula comunque c’è apprezzamento per essere riusciti a garantire il pluralismo. Alla fine si è assicurata la rappresentanza di diverse componenti, con l’elezione, in un caso, di un candidato indipendente. Il meccanismo ha favorito la presentazione di molte più candidature rispetto al passato, dunque una assai più diffusa, tra i magistrati, propensione ad assumere la responsabilità dell’autogoverno. Dietro ciò vi si legge un buon segnale per il futuro. I possibili equilibri nel nuovo plenum - Ma che equilibri ci saranno all’interno del prossimo Consiglio superiore della magistratura? È evidente che “Mi” ha il maggior numero di seggi, ma se ci fosse una sorta di tregua tra Area e “Md”, che pure hanno subito le conseguenze della scissione, le due correnti di sinistra potrebbero avere una maggioranza relativa a Palazzo dei Marescialli. L’ago della bilancia è rappresentato da Unicost gruppo che, nonostante l’uragano che ha interessato e travolto l’ex leader Luca Palamara, non è uscito affatto male da questa tornata. “A urne chiuse - ha detto la presidente Rossella Marro - possiamo esprimere la nostra gioia per il risultato conseguito. Il gruppo di Unicost vive ed il suo progetto è attuale. Il percorso di vero rinnovamento e le qualità umane e professionali dei candidati hanno pagato. Un sincero augurio anche a tutti gli altri consiglieri eletti. Adesso inizia la parte difficile, rifondare il Csm su basi di fiducia e credibilità interna ed esterna. I consiglieri di Unicost faranno la loro parte” . Non dimentichiamo però che in Consiglio siedono come membri di diritto Luigi Salvato, il nuovo Procuratore Generale di Cassazione, esponente proprio di Unicost, e Pietro Curzio, Primo presidente di Cassazione, in quota Md. Insomma difficile fare pronostici. Bisognerà vedere su ogni singolo atto come si schiereranno i gruppi e che partita giocherà l’outsider Mirenda. Occorrerà anche attendere l’elezione dei dieci membri laici, che dovrebbe svolgersi - si spera - entro la fine dell’anno: sei dovrebbero essere della maggioranza politica espressa in Parlamento, quattro della minoranza. Probabile un vice presidente designato dal centro-destra. Eletti i nuovi togati del Csm: prevalgono le correnti di sinistra di Ermes Antonucci Il Foglio, 24 settembre 2022 Scelti i 20 componenti togati del nuovo Consiglio superiore della magistratura. La riforma Cartabia fa flop: eletto soltanto un candidato indipendente. Si impongono le correnti di sinistra Area e Md. Il governo che verrà troverà un Consiglio superiore della magistratura a trazione “centrosinistra”, più battagliero che mai e pronto a contrastare sul piano politico ogni ipotesi di riforma radicale dell’ordine giudiziario. Si è infatti concluso, dopo ben tre giorni, lo spoglio delle schede per l’elezione della componente togata dell’organo di governo autonomo delle toghe: le correnti di sinistra, Area e Magistratura democratica, seppur presentatesi divise, hanno conquistato ben otto seggi sui venti disponibili, contro i sette ottenuti dalla corrente conservatrice di Magistratura indipendente, i quattro della corrente centrista Unicost e l’unico seggio ottenuto da un candidato indipendente, il giudice Andrea Mirenda. Il secondo dato significativo emerso dal rinnovo del Csm è infatti la conferma dello strapotere delle correnti nelle elezioni. La riforma del sistema elettorale, voluto dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia proprio con l’obiettivo di attenuare il ruolo delle correnti, ha fallito completamente il suo obiettivo. Se è vero che la riforma è riuscita ad ampliare la platea dei candidati (ben 87), grazie all’eliminazione dell’obbligo di raccolta firme per presentare le candidature, è altrettanto vero che essa non è riuscita a intaccare in alcun modo il potere delle correnti di indirizzare le preferenze nel momento dell’elezione. Risultato: soltanto un candidato indipendente è riuscito a essere eletto, tramite ripescaggio, nella categoria dei giudici. D’altronde l’esito fallimentare era quasi scontato. Su queste pagine avevamo evidenziato come non bastasse affatto eliminare l’obbligo di raccolta firme per rendere le elezioni più democratiche, se poi i candidati non vengono posti nelle condizioni di competere su un piano di parità in termini di mezzi e risorse. Il pensiero va inevitabilmente agli effetti che si sarebbero potuti ottenere se, invece di introdurre questo complicato sistema elettorale maggioritario binominale con correttivo proporzionale, fosse stato adottato il meccanismo del sorteggio temperato o del voto singolo trasferibile (quest’ultimo suggerito dalla commissione di studio Luciani istituita dalla stessa Guardasigilli). Fatto sta che le correnti restano vive e vegete, e non per colpa loro. A votare per i candidati delle correnti sono stati i magistrati (con un’affluenza dell’82 per cento), segno del fatto che sono le stesse toghe, in fondo, a essere disinteressate a qualsiasi vera forma di autocritica delle degenerazioni correntizie e a un rinnovamento serio della magistratura dopo lo scandalo Palamara. Area avrà sette consiglieri: Antonello Cosentino (consigliere di Cassazione), il pm Maurizio Carbone e Roberto Fontana (presentatosi come indipendente, ma da sempre appartenente ad Area), i giudici Mariafrancesca Abenavoli, Marcello Basilico, Genantonio Chiarelli e Tullio Morello (colui che, come rivelammo, definì in campagna elettorale la Cartabia come “riforma canaglia”). Per Md eletta la giudice Domenica Miele. Magistratura indipendente avrà sette consiglieri: Paola D’Ovidio (sostituta presso la procura generale della Cassazione), i pm Eligio Paolini e Dario Scaletta, i giudici Maria Luisa Mazzola, Bernadette Nicotra, Edoardo Cilenti e Maria Vittoria Marchianò. L’ex corrente di Palamara, Unicost, regge il colpo, tanto da conquistare quattro consiglieri: il pm Marco Bisogni e i giudici Michele Forziati, Roberto D’Auria e Antonino Laganà. L’unico candidato indipendente a essere eletto, dicevamo, è stato Andrea Mirenda, giudice del tribunale di sorveglianza di Verona, da sempre tra i critici più feroci del sistema correntizio e della trasformazione del Csm in un poltronificio, nonché sostenitore dell’impiego del sorteggio temperato per l’elezione dei togati di Palazzo dei Marescialli. Fanno rumore anche alcune sconfitte eccellenti. La corrente di Autonomia e Indipendenza, fondata da Piercamillo Davigo, non ha ottenuto alcun seggio e scompare dal Csm. Inoltre, non sono risultati eletti il pm napoletano Henry John Woodcock (famoso per le maxi inchieste dal grande impatto mediatico nei confronti di politici e vip, quasi sempre finite con un buco nell’acqua), Mario Palazzi (sostituto procuratore a Roma che con l’aggiunto Paolo Ielo si è occupato dell’indagine sul caso Consip) e Antonio Patrono (procuratore della Spezia, ex presidente dell’Anm e già per due volte membro del Csm). I magistrati eletti al Csm resteranno “congelati” fino all’elezione della componente laica da parte del nuovo Parlamento. I giuristi non potranno mai essere sostituiti dall’intelligenza artificiale di Luigi Viola e Luca Caputo Il Domani, 24 settembre 2022 Ben vengano strumenti di ausilio all’esercizio della professione forense, come a quella di magistrato o di notaio, ma senza dimenticare che, specie quando si entra in un campo così delicato come quello della tutela dei diritti, l’elemento umano non è surrogabile. Recentemente ha fatto discutere molto l’iniziativa dell’avvocato Angelo Greco, direttore de “LaLeggePerTutti.it”, con cui ha lanciato il “primo avvocato digitale gratuito”. In pratica l’idea realizzata prevede che chiunque “ha un dispositivo come Amazon Echo (Alexa) o Google Assistant potrà ottenere informazioni sul mondo della legge e della giurisprudenza in formato vocale, in qualsiasi momento della giornata”. Ne è sorto un vivace dibattito. Il presidente dell’Aiga, l’associazione italiana giovani avvocati, Francesco Perchinunno ha parlato di svendita della professione legale. Più moderata è la posizione di Carla Secchieri, consigliera del Cnf e vicepresidente del Comitato IT del CCBE, secondo cui si tratterebbe solo di una versione più moderna del libro L’avvocato nel cassetto, presente in molte famiglie. In realtà, il tema è cruciale e ruota intorno alla domanda: è possibile che in un futuro non così lontano il “giurista umano”, sia esso avvocato, magistrato o notaio, possa essere sostituito da sistemi di intelligenza artificiale? La risposta non può che essere negativa. La tecnologia, anche più avanzata, è strumento, non sostituto dell’uomo. Il giurista, prima di essere un esperto di diritto, è un essere umano. Il servizio con cui si propone di offrire consulenze giuridiche tramite “Alexa” è uno strumento che può dare risposte generiche alle domande, scrutinando sul web, ma la consulenza dell’avvocato è altro, è un’attività molto più complessa: un buon avvocato è capace di correggere la domanda posta dal cliente, al fine di rispondergli meglio; può dare risposte non solo citando una sentenza, ma anche trend giurisprudenziali in evoluzione o intravedendo, nelle pieghe di orientamenti apparentemente consolidati, nuove strade per la tutela dei diritti; può suggerire un comportamento specifico in rapporto al caso - perché, è bene ricordarlo, nessun caso è uguale all’altro, ancorché la legge sia uguale per tutti; può prospettare una soluzione conciliativa, bilanciando costi e benefici di una possibile decisione, favorevole o sfavorevole che sia. Insomma, l’avvocato è ben altro. E allora ben vengano strumenti di ausilio all’esercizio della professione forense, come a quella di magistrato o di notaio, ma senza dimenticare che, specie quando si entra in un campo così delicato come quello della tutela dei diritti, l’elemento umano non è surrogabile. Non completamente, almeno. Hasib: senza sequestro, la casa degli orrori è ora libera di essere manomessa di Eleonora Martini Il Manifesto, 24 settembre 2022 Caso Omerovic. Riconsegnate le chiavi dell’alloggio di Primavalle, pieno di dettagli utili alle indagini. L’appartamento di Primavalle dove viveva Hasib Omerovic con la sua famiglia, fino al giorno in cui la polizia ha bussato alla porta e lui è finito in coma all’ospedale, da ieri mattina è stato riconsegnato all’Ater, l’azienda per l’edilizia residenziale del comune di Roma. Dentro sono rimasti mobili e suppellettili che i genitori Fatima e Mehmedalija (musulmani rom fuggiti dalla guerra in Bosnia nel 1992, lasciando una casa per una vita forzata da “nomadi”, come dicono loro) non vogliono più vedere, per non ricordare e andare avanti. L’appartamento non è mai stato posto sotto sequestro: da oggi stesso potrebbe passare ad altri locatari e qualsiasi traccia di ciò che è avvenuto quel 25 luglio in quelle due camere bagno e cucina sarebbe completamente cancellata. Nessuno della famiglia, né l’avvocato Arturo Salerni che li tutela, sa dire se la polizia scientifica abbia fatto i rilievi del caso. Se qualcuno abbia mai controllato quello che ieri la famiglia ha scoperto quasi casualmente: spruzzi di sangue - o almeno così sembrano - sul soffitto della camera di Hasib. “Prima non c’erano”, assicurano. Il manifesto ieri è entrato in quell’appartamento insieme ai coniugi Omerovic e a tre dei loro figli tra i quali Sonnita, la ragazza disabile che è l’unica testimone oculare di quanto avvenne quel giorno. Sonnita, che sembra abituata ad un linguaggio di affetti più che di parole, quasi non voleva entrare in quella casa. Poi, su richiesta, ha mimato ciò che ricordava. E ha pianto. Di sicuro si sa solo che il 37enne disabile volato giù dalla finestra della propria camera mentre in casa si erano introdotti - senza alcun permesso - alcuni agenti di polizia, non è mai stato sottoposto a visita medico-legale. E ogni giorno che passa sarà sempre più difficile rispondere a quelle domande che si dovrebbe porre qualsiasi Paese democratico, non solo la famiglia: sono compatibili con la sola caduta le ferite riportate sul certificato medico stilato dal pronto soccorso dell’ospedale Gemelli, dove Hasib è stato ricoverato, e acquisito dall’Inps? Una caduta che, a detta della polizia, dovrebbe essere avvenuta nel tentativo di fuggire, quindi saltando giù dalla finestra sulle proprie gambe, non certo a testa in giù. “Frattura del massiccio facciale, della base cranica e dell’osso frontale, orbitaria sinistra e della fossa cranica di sinistra”, si legge sul certificato. Segue la descrizione di una serie di fratture sulla parte destra del corpo, soprattutto spalle, sterno, coste e braccio, oltre al “traumatismo” di milza, fegato, rene e polmone. E infine anche “presenza di ematomi periorbitali”. “Come è possibile che abbia contemporaneamente sia la nuca spaccata che il naso rotto e l’orbita completamente sfondata?”, si chiedono i familiari. I primi interventi chirurgici sul giovane disabile sono stati per la “riduzione della frattura mascellare e nasale con ricostruzione di pavimento orbitario”, e la “rimozione di frammenti ossei nell’avambraccio sinistro”. Ieri è stata ascoltata per oltre 5 ore dal pm Stefano Luciani anche la sorella Erika, 16 anni, che ricevette sul telefonino l’immagine del fratello sanguinante a terra. Scattata da chi, ancora non è dato sapere. Intanto agli Omerovic è stato assegnato un nuovo alloggio popolare, in un altro quartiere. In un lungo post su Fb Nella Converti, presidente della Commissione Politiche sociali di Roma, ha rivendicato il “risultato” che l’ha resa “felice”, malgrado “i segni visibili della mia stanchezza” dovuta allo sforzo. Ebbene, la nuova casa è completamente vuota, senza neppure una lampadina (tanto manca l’elettricità), né un lavello in cucina. Così, dopo dieci giorni di vita in macchina, la famiglia Omerovic ora dormirà “al sicuro”, come dice Converti, ma in terra, a lume di candela. In un appartamento che per fortuna ha reso “felice” qualcuno. Quei delitti d’onore che dobbiamo fermare di Karima Moual La Stampa, 24 settembre 2022 “L’ho uccisa io, l’ho uccisa per la mia dignità e per il mio onore”. Quelle di Shabbar Abbas, il padre di Saman, la ragazza pakistana di appena 18 anni, scomparsa nella notte del 30 aprile 2021 a Novellara, non sono solo parole che consegnano una confessione del delitto - seppur fatta durante una telefonata a un parente in Italia, mentre lui e madre Nazia, sono già lontani e al sicuro in Pakistan, dopo la fuga. Le parole di questo “padre” sono l’ennesimo sfregio alle numerose battaglie per i diritti delle donne, e non solo. Ma insieme sono anche l’immagine agghiacciante sullo stato di integrazione del fenomeno migratorio in Italia e la complessità che custodisce, fatta di culture, tradizioni e usanze che alle volte sono in contrasto con valori e diritti conquistati con fatica, e uno di questi riguarda proprio il delitto d’onore, insieme alla concezione che si ha sulla figura femminile. Fino a 40 anni fa, proprio nel nostro paese la legge prevedeva una pena ridotta a chi uccidesse la moglie o il marito, la figlia o la sorella per difendere il proprio onore o quello della famiglia. Fino al 1981, lo Stato italiano, dava rilevanza legale al concetto di onore per punire un omicidio con una pena molto più bassa dei 21 anni, il minimo del carcere previsto. Oggi, questa drammatica storia di immigrazione che proviene dalla comunità pakistana in Italia - ma non solo - ci riporta a quegli anni bui, ricordandoci ancora una volta come le battaglie sui diritti hanno bisogno di un presidio continuo, mentre dall’altra non può che aprirsi con un quesito fondamentale: come sia possibile che la famiglia Abbas, e molto probabilmente molte altre ve ne sono, possano vivere nel nostro paese, lavorare, crescere, sfiorarci, condividendo spazi, parole, e financo l’aria che respiriamo senza essere contaminati positivamente in conquiste importanti e decisive per la nostra società, come quelle dei diritti e delle libertà? Saman, la figlia di Shabbar e Nazia, per come ci ha consegnato la sua storia di ribellione ci era riuscita ma è dovuta scappare, e infine ha pagato il prezzo più alto. È facile oggi, raccontare questa famiglia come proveniente da un contesto sicuramente retrogrado, misogino e patriarcale, ma quella famiglia di origini pakistane, viveva da molti anni nel nostro paese, e la verità che dobbiamo confessarci è che nell’indifferenza totale abbiamo permesso che in maniera indisturbata crescesse qualcosa di aberrante. Perché non ci siamo preoccupati del percorso di integrazione e sradicamento di aspetti culturali che non devono avere alcun alibi per poter proliferare tranquillamente? Forse perché continuiamo ancora a percepire il fenomeno migratorio, con i suoi uomini, donne, figli e figlie come qualcosa di provvisorio, anziché radicato, nostro, che ci riguarda da vicino e può compromettere in negativo o in positivo il futuro di tutti noi. Un errore fatale che non possiamo più permetterci, e in questo senso, va portata avanti anche la battaglia giudiziaria contro i genitori di Saman, fuggiti in Pakistan. Bisognerà attivarsi a più livelli perché questa storia italo-pakistana, che si è consumata nel nostro paese, venga riportata alla giustizia italiana. Lo si deve a Saman della quale non si è trovato neppure il corpo, alle tante donne che portano avanti le loro battaglie in silenzio e nella paura, a chi crede nei diritti come bene comune, e che l’integrazione sia la via maestra per una convivenza pacifica. La parola “onore” continua a seppellire le donne ovunque si trovino. In Italia, in Pakistan come in Iran in questi giorni dove l’onore si misura anche per come si indossa un pezzo di stoffa sul capo, per coprire i capelli, scomodando un Dio. Ma è sempre la stessa maledetta storia: misoginia, patriarcato e odio per le donne e la loro libertà. Ecco, solo avendo bene in chiaro le radici si può fermare insieme questo male, ovunque si annidi. Lettore cd vietato al 41 bis: si potrebbe usare per i messaggi di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 24 settembre 2022 Secondo una recente sentenza della Cassazione, il lettore cd può essere manomesso da chi è recluso al 41 bis e quindi usato per veicolare messaggi. I giudici della corte suprema accolgono il ricorso del ministero della giustizia contro l’ordinanza della magistratura di sorveglianza che ne ha consentito l’acquisto. Accade che il Tribunale di sorveglianza de L’Aquila ha confermato la decisione del magistrato precedente che aveva accolto il reclamo proposto da Giovanni Tarallo, sottoposto al 41 bis, il quale aveva lamentato di non essere stato autorizzato ad acquistare e detenere, all’interno del carcere, il cd e relativo lettore digitale. Secondo il Tribunale, il divieto di utilizzare i cd, incidendo sulla possibilità del detenuto di ascoltare musica, attività rientrante nel trattamento rieducativo come le altre (culturali, ricreative e di svago) previste e consentite all’interno degli Istituti di pena, pregiudicherebbe il diritto del detenuto al trattamento stesso. A essere compresso e leso non sarebbe, in particolare, il diritto di scelta dell’apparecchio con cui ascoltare musica, ma il diritto di poter ascoltare musica a propria scelta. Ad avviso del tribunale, tale divieto non sarebbe giustificato da ineludibili esigenze di sicurezza imposte dal regime duro, essendo i beni in parola acquistabili solo tramite la cosiddetta impresa di mantenimento, modalità che scongiurava il rischio di un uso improprio dei supporti in funzione di comunicazioni con l’ambiente esterno. Ma il ministero della Giustizia non ci sta, e ha fatto ricorso in Cassazione evidenziando che per i detenuti al 41 bis, la mera apposizione, sul singolo cd, del contrassegno Siae non sarebbe idonea a scongiurare i rischi paventati e, in particolare, ad escludere la possibilità della veicolazione di “messaggi di violenza e di adesione a stili e modi di vita criminali”. La Corte suprema ritiene fondato il ricorso, premettendo però che la possibilità di ascoltare musica per mezzo dei cd rientra, a pieno titolo, nel contesto di quei “piccoli gesti di normalità quotidiana”. Ma non sempre tale soluzione deve ritenersi imposta in ogni situazione e contesto. “L’interesse del detenuto - sottolineano i giudici -, pur qualificato sotto il profilo trattamentale, deve essere infatti bilanciato con le esigenze di controllo dell’Amministrazione penitenziaria, particolarmente avvertite proprio nei casi in cui, come quello in esame, il soggetto sia sottoposto a regime penitenziario differenziato”. La Cassazione ricorda che il 41 bis prevede, come noto, una serie di limitazioni all’ordinario trattamento intramurale, funzionali a impedire che il detenuto possa liberamente comunicare con l’esterno, mantenendo un legame con l’ambiente delinquenziale di provenienza e continuando, per tale via, a partecipare alle attività illecite proprie del gruppo criminale di riferimento. In questa prospettiva, l’eventuale autorizzazione all’acquisto del lettore e dei cd musicali, da parte della direzione d’istituto, “dovrebbe assicurare la piena salvaguardia di così pregnanti esigenze di sicurezza, ben potendo tali strumenti essere oggetto di manipolazione, a fine di introduzione in istituto di contenuti illeciti; di qui la necessità di assoggettarli a previe adeguate verifiche, come avviene, del resto, per i cd di tipo ammesso e per i relativi dispositivi di lettura”. Per la Cassazione va ribadita la necessità che il Tribunale, prima di riconoscere il diritto del detenuto ad utilizzare cd a uso ricreativo, verifichi se tale impiego possa nondimeno comportare inesigibili adempimenti da parte dell’Amministrazione penitenziaria in relazione agli indispensabili interventi su dispositivi e supporti, tali da rendere ragionevole la scelta, operata dalla direzione di istituto, di non autorizzarne l’ingresso nei reparti ove vige il 41 bis. Per questo i giudici accolgono il ricorso e annullano con rinvio l’ordinanza della magistratura di sorveglianza. La truffa a mezzo web: quando sussiste l’aggravante della minorata difesa? di Matilde Bellingeri Il Sole 24 Ore, 24 settembre 2022 Al ricorrere della configurazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 5 c.p., il reato di truffa diventa procedibile d’ufficio, così come stabilito dall’art. 640 comma 3 c.p. “La distanza, connessa alle particolari modalità di vendita con l’utilizzo del sistema informatico o telematico, di cui l’agente consapevolmente approfitta e cui si aggiunge di norma l’utilizzo di clausole contrattuali che prevedono il pagamento anticipato del prezzo del bene venduto, configura l’aggravante in questione, che connota, in tali casi, la condotta dell’agente quale elemento ulteriore, peculiare e meramente eventuale rispetto agli artifici e raggiri tipici della truffa semplice […]”. Con la pronuncia n. 18252/2022, depositata il 6 maggio 2022, la Corte di Cassazione, condividendo il maggioritario (e più recente) orientamento della giurisprudenza, ha affermato che nel caso della c.d. “vendita online”, la distanza tra il luogo ove si trova l’acquirente e quello in cui si trova il reo (venditore del prodotto online) è l’elemento che consente all’autore della truffa di porsi in una posizione di maggior favore rispetto alla vittima permettendogli “di schermare la sua identità, di non sottoporre il prodotto venduto ad alcun efficace controllo preventivo da parte dell’acquirente e di sottrarsi agevolmente alle conseguenze della propria condotta; vantaggi che non potrebbe sfruttare a suo favore, con altrettanta facilità, se la vendita avvenisse de visu”. Secondo tale pronuncia, ai fini dell’integrazione del reato di truffa aggravato ai sensi dell’art. 640 comma 2 n. 2) bis c.p. è necessario che: -esista una distanza tra il venditore e l’acquirente connessa alle modalità di vendita attraverso uso di sistemi informatici o telematici; -il venditore consapevolmente approfitti di tale distanza; -il pagamento del prezzo sia anticipato (secondo quello che rappresenta la prassi di simili transazioni). Al ricorrere della configurazione della circostanza aggravante di cui all’art. 61 n. 5) c.p., il reato di truffa diventa procedibile d’ufficio, così come stabilito dall’art. 640 comma 3 c.p.. Palermo. Morto suicida un altro detenuto, secondo caso in pochi giorni di Ignazio Marchese blogsicilia.it, 24 settembre 2022 È stata dichiarata la morte cerebrale per il detenuto straniero che la scorsa settimana che aveva tentato il suicidio legandosi le lenzuola attorno al collo nel carcere maresciallo Di Bona, ex Ucciardone nella nona sezione a Palermo. Il detenuto nei giorni scorsi ha utilizzato le lenzuola in dotazione e ha tentato di togliersi la vita. Era stato soccorso dal personale in servizio e gli erano state praticate le prime manovre di rianimazione in attesa dell’arrivo dei sanitari del 118. Poi la corsa in ospedale. Il personale di polizia in servizio alla nona e i medici e il personale infermieristico avevano tentato di salvarlo. E’ il secondo detenuto morto a Palermo in pochi giorni. Alcuni giorni prima era morto un altro detenuto nel carcere Lorusso di Pagliarelli. Anche il palermitano aveva cercato di togliersi la vita impiccandosi ed è morto all’ospedale Civico. Osservatorio Antigone - “Apprendiamo la notizia della morte del giovane detenuto nel penitenziario palermitano dell’Ucciardone che alcuni giorni fa aveva tentato il suicidio. Ieri, invece, un altro detenuto aveva provato a togliersi la vita a Caltanissetta. Di fronte a questa escalation è necessario che la politica faccia qualcosa”. Lo dice Pino Apprendi, dell’Osservatorio Antigone. “Tutto questo - aggiunge - accade nell’indifferenza di tutti i segretari di partito, che in questi giorni girano l’Italia per la campagna elettorale. A loro diciamo che dietro i numeri ci sono persone in carne ed ossa, quasi sempre giovani dei quali non si occupano”. “Una vergogna che denunciamo da anni - conclude Apprendi - e che denunceremo anche domenica 25 settembre, alle ore 24, davanti il tribunale di Palermo, per sollecitare chi governerà ad intervenire”. Il triste precedente - Si verifica un nuovo caso di suicidio di un detenuto in un carcere siciliano. E’ morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo Roberto Pasquale Vitale, il 29enne che aveva tentato di impiccarsi nel penitenziario del “Pagliarelli” di Palermo. Da giorni in coma - Il giovane era stato trovato con il lenzuolo attorno al collo e soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria. Le sue condizioni appena giunto in ospedale furono ritenute da subito molto gravi dai medici. Negli ultimi giorni era entrato in coma. Oggi è arrivata la morte. L’indagine statistica preoccupante - Nei giorni scorsi è stata pubblicata un’indagine inquietante che riguardava proprio le carceri siciliane. La Sicilia è la seconda regione in Italia, dopo la Campania, per numero di violenze sessuali in carcere secondo quanto aveva denunciato il segretario generale della Spp, un sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, per il quale gli stupri sono il propellente per i suicidi dei detenuti, fenomeno piuttosto esteso nelle carceri siciliani: gli ultimi due casi si sono registrati nei giorni scorsi nei penitenziari di Siracusa e Caltagirone. Il sindacalista aveva reso noto che la Campania presentava 20 casi, dopo di lei la Sicilia con 14. Il caso nel Catanese - Appena pochi giorni fa un detenuto catanese recluso nella casa circondariale di Caltagirone si era impiccato. L’uomo era imputato di furto aggravato per avere sottratto un telefonino ed un portafogli poi restituiti ai legittimi proprietari. Il legale della vittima aveva preannunciato che i familiari avrebbero presentato un esposto alle Autorità Giudiziarie per “accertare se vi siano state negligenze da parte del personale dell’Istituto penitenziario”. Carceri: Apprendi (Antigone) - “Apprendiamo la notizia della morte del giovane detenuto nel penitenziario palermitano dell’Ucciardone che alcuni giorni fa aveva tentato il suicidio. Ieri, invece, un altro detenuto aveva provato a togliersi la vita a Caltanissetta. Di fronte a questa escalation è necessario che la politica faccia qualcosa”. Lo dice Pino Apprendi, dell’Osservatorio Antigone. “Tutto questo - aggiunge - accade nell’indifferenza di tutti i segretari di partito, che in questi giorni girano l’Italia per la campagna elettorale. A loro diciamo che dietro i numeri ci sono persone in carne ed ossa, quasi sempre giovani dei quali non si occupano”. “Una vergogna che denunciamo da anni - conclude Apprendi - e che denunceremo anche domenica 25 settembre, alle ore 24, davanti il tribunale di Palermo, per sollecitare chi governerà ad intervenire”. Palermo. Escalation di suicidi nelle carceri. “Il Comune nomini subito il Garante dei detenuti” palermotoday.it, 24 settembre 2022 A dirlo è il presidente del Comitato “Esistono i diritti”, Gaetano D’Amico, che aggiunge: “Il regolamento è già stato approvato lo scorso anno, la politica non può permettersi il lusso di perdere altro tempo”. La richiesta, trasversale e transpartitica, arriva dopo gli ultimi due tragici episodi che si sono verificati al Pagliarelli e all’Ucciardone Di fronte all’escalation di suicidi, gli ultimi due tragici episodi si sono verificati al carcere Pagliarelli e all’Ucciardone, il comitato Esistono i diritti sollecita la nomina del garante comunale dei diritti dei detenuti. L’ennesimo appello al Comune arriva da Gaetano D’Amico, presidente del comitato: “Il regolamento è già stato approvato lo scorso anno, adesso l’amministrazione scelga subito chi dovrà monitorare le condizioni di vita nei penitenziari”. “Sappiamo - aggiunge D’Amico - che sono state presentate delle candidature, aspettiamo di essere ricevuti dal sindaco Roberto Lagalla, già al corrente della nostra richiesta”. Quella del comitato Esistono i diritti, avamposto radicale a Palermo, è una richiesta trasversale e transpartitica, come tutte le battaglie che finora a condotto. Nelle città dove non c’è il garante comunale, è possibile rivolgersi soltanto al garante regionale (ruolo ricoperto in Sicilia dal giurista Giovanni Fiandaca), che però è oberato di lavoto e non smpre riesce a rispondere tempestivamente alle singole richieste dei carcerati. Motivo per cui, conclude D’Amico, “la politica non può permettersi il lusso di perdere altro tempo, bisogna fare in fretta: c’è l’urgenza di intervenire per garantire diritti e dignità ai carcerati, affinché la pena da scontare sia davvero rieducativa e non punitiva”. Verona. “Quarto suicidio nel carcere di Montorio nell’ultimo anno: serve supporto psicologico” di Luca Stoppele veronasera.it, 24 settembre 2022 La Camera Penale Veronese si è espressa con una nota dopo la nuova tragedia registrata nella casa circondariale: “È evidente che il carcere, così com’è strutturato oggi, non è purtroppo il luogo adatto per attuare per queste persone il fine rieducativo della pena”. “Ancora un suicidio nel carcere di Montorio, il quarto nell’ultimo anno. E da gennaio oltre sessanta sono le persone che si sono tolte la vita in cella”. Inizia così la nota della Camera Penale Veronese la nuova tragedia purtroppo registrata nella casa circondariale di Verona. Episodi che starebbero diventando sempre più numerosi: “Assistiamo esterrefatti a un incremento dei casi in cui il disagio della vita detentiva diventa insopportabile oltre ogni umana comprensione, spingendo chi lo prova a compiere il gesto estremo. Leggiamo, ancor più esterrefatti, che il problema sarebbe da individuare nel regime delle cosiddette “celle aperte”, che costituisce ormai un diritto acquisito dal 2015 per sopperire al sovraffollamento carcerario, in seguito alla condanna dell’Italia da parte della CEDU per il trattamento inumano e degradante riservato ai detenuti nelle nostre carceri, avvenuta nel 2013. Quando leggiamo di carcere, spesse volte leggiamo argomentazioni fuorvianti, di certo suggestive per chi le legge senza avere consapevolezza o conoscenza della realtà e della quotidianità che si vive in regime di detenzione”. Secondo l’associazione, il verificarsi di questi gesti estremi è dovuto soprattutto al mancato aiuto psicologico a questi individui, spesso non in grado di affrontare determinate difficoltà: “Il problema non risiede nelle celle aperte, che - come detto - sono un diritto dei detenuti. Il problema è la carenza di risorse e strumenti in grado di sopportare il percorso psicologico delle persone recluse più in difficoltà. E ciò, nonostante il carcere di Verona sia una delle strutture maggiormente in grado, in Italia, di seguire i detenuti, di dare attenzione in situazioni di disagio psicofisico; eppure, il fatto che anche qui nell’ultimo anno abbiamo a ben quattro casi di persone che persone che si sono tolte la vita è indicativo di uno stato di malessere generale. Un valido aiuto dovrebbe venire dal Consiglio di Aiuto Sociale, previsto dal codice dell’ordinamento penitenziario già da diversi anni ma purtroppo mai attuato: è un organismo composto dal tribunale, dai Servizi sociali, dalle comunità assistenziali e da rappresentanti delle stesse carceri, che dovrebbe mirare a reintrodurre gradualmente nel tessuto sociale i detenuti che hanno terminato di scontare la propria condanna, ma che non hanno strumenti quali casa e/o lavoro per poter vivere senza più commettere reati. Non va dimenticato che il 70% delle persone rinchiuse in carcere ha problemi di tossicodipendenza, e il 50% ha anche disturbi psichici”. La Camera Penale Veronese conclude indicando le figure che permetterebbero alle case circondariali di svolgere il loro compito di rieducazione del detenuto: “È evidente che il carcere, così com’è strutturato oggi, non è purtroppo il luogo adatto per attuare per queste persone il fine rieducativo della pena, e ciò anche in ragione del fatto che - al suo interno - vi è carenza di figure come psicologi, psichiatri ed educatori che possano occuparsi di loro”. Genova. Carcere Pontedecimo. “Sistema di formazione professionale in crisi, serve intervenire subito” lavocedigenova.it, 24 settembre 2022 Il consigliere regionale Rossetti (Pd), dopo la visita al penitenziario, sottolinea come il sistema di formazione professionale sia in crisi e ribadisce l’importanza di un intervento tempestivo per incrementare l’inserimento nel mercato del lavoro. “Nel carcere di Pontedecimo il sistema di formazione professionale è fortemente in difficoltà: molti imprenditori che hanno creduto in un progetto di lavoro con i detenuti oggi si ritrovano a dover mettere in cassa integrazione. Eppure le potenzialità per l’inserimento nell’attività lavorativa dei detenuti sono tante e le diverse iniziative messe in campo negli anni lo dimostrano. Per questo non si può rischiare di mandare tutto in fumo ed è indispensabile intervenire al più presto con iniziative mirate a sostegno delle imprese e del sistema di formazione, affinché il carcere non sia solo un luogo punitivo, ma da cui poter ricominciare, come prevede la Costituzione. Per questo ci faremo portavoce in Regione di questa difficoltà e chiederemo quali sono le misure che si vogliono mettere in campo”, lo dichiara il consigliere regionale del Partito Democratico Pippo Rossetti dopo la visita nel Carcere di Pontedecimo con Stefano Petrella dell’associazione Nessuno tocchi Caino e la consigliera comunale del PD Cristina Lodi. “La visita - aggiunge Rossetti - ha permesso di rilevare che è assolutamente necessario, soprattutto per la sezione femminile, dare una risposta sanitaria più completa. La Asl 3 ha già aperto un centro clinico a Marassi, ora la Giunta la sostenga per incrementare i servizi a Pontedecimo” “Ci auguriamo inoltre che la circolare annunciata dal capo del Dap Carlo Renoldi - dopo lo sciopero della fame di Rita Renoldi - per aumentare il numero di videochiamate e chiamate dei detenuti ai loro familiari sia presto recepita, come speriamo che anche il diritto al voto sia garantito, visto che stando alle informazioni in possesso dell’associazione Nessuno tocchi Caino e dai numeri di Pontedecimo, sono davvero pochi i detenuti che alle elezioni scelgono di votare. Un diritto di tutti che va tutelato anche in carcere”, conclude il consigliere. Pavia. I detenuti sono audioattori con un podcast di Daniela Scherrer La Provincia Pavese, 24 settembre 2022 Una decina di persone coinvolte nel progetto intitolato “Povero gabbiano” “Attraverso un racconto inventato si descrivono aspetti della detenzione”. Sono già pubblicate su Spotify, su Apple Music e sul sito del progetto europeo Sharad i primi tre poadcast del Radiodramma “Povero gabbiano”, che ha come protagonisti una decina di detenuti della casa circondariale di Torre del Gallo. L’idea è dell’associazione Amici della Mongolfiera (presieduta da Vanna Jahier), che nel 2021 ha aderito al progetto europeo Sharad (che gode del sostegno del programma Erasmus plus) in collaborazione con altri partner europei: Istituto Cossa (capofila), Share Radio Milano, Almada Mundo dal Portogallo, Théâtre de l’Opprimé dalla Francia e Sigma dalla Romania. Gli Amici della Mongolfiera hanno appunto pensato di dare vita a un Radiodramma, uno spettacolo teatrale ma con l’utilizzo della sola voce per recitare, con il beneplacito della direttrice della casa circondariale Stefania D’Agostino: sotto la supervisione di Vanna Jahier gli autori di questa bella iniziativa sono Lisa Lanfranchi, già volontaria dell’associazione e ora impegnata nel servizio civile, insieme ai collaboratori Vincenzo Cammarata e Marco Bianciardi, scrittore e attore teatrale. “Gli obiettivi del progetto sono ambiziosi -spiega Vanna Jahier- le attività previste vanno dall’analisi delle situazioni nelle diverse carceri e delle legislazioni dei paesi interessati alla realizzazione di interventi di radio animazione e comunicazione con altri codici e linguaggi in contesti diversi. Ci si aspetta dai partecipanti al progetto, non solo l’acquisizione di competenze operative, ma anche una migliore conoscenza di sé, del proprio mondo, della comunità in cui è inserito e una migliore capacità di rappresentarsi”. “Si avverte forte l’esigenza di raccontare la situazione carceraria in diversi paesi europei -aggiunge Lisa Lanfranchi- e questo prevede di mettere al centro la radio come strumento di osservazione e narrazione, coinvolgendo direttamente operatori, detenuti, persone con percorsi penali alle spalle o che rischiano di viverli”. E Marco Bianciardi conclude con un aspetto importante: “E’ stato rilevato infatti che in carcere la comunicazione è un tema centrale, la comunicazione interna in primo luogo. Per migliorare la capacità di comunicare, appare necessario poter sviluppare anche competenze tecniche e di linguaggio, sia nei detenuti che negli operatori. Noi con questo Radiodramma abbiamo scelto di lavorare su un teatro di fiction, trasformando i detenuti in attori e cercando anche di semplificare il testo, considerano che la metà di loro è straniera”. “Povero gabbiano” è tratto dal racconto “Come rain or come shine” di Kazuo Ishiguro, ma si confronta con il fenomeno virale esploso su TikTok. In totale saranno dodici puntate, realizzate grazie all’aiuto delle educatrici Letizia e Manuela e con un grazie speciale dei protagonisti alla guardia carceraria Domenico. Trieste vuole sfrattare Marco Cavallo simbolo delle lotte contro i manicomi di Peppe Dell’Acqua* Il Dubbio, 24 settembre 2022 Contro l’abbandono, la marginalizzazione, l’esclusione, il razzismo. Contro la svendita ai privati del Servizio Sanitario Nazionale e per la ricostruzione di una rete territoriale che rimetta al centro l’individuo con tutti i suoi bisogni. Per rimettersi in cammino, sostenuti dal pensiero, negli ultimi anni messo in ombra ma che non ha mai perso la sua forza e oggi quanto mai necessario, che ha fatto dell’Italia il primo Paese al mondo che ha abolito gli ospedali psichiatrici. Così, alla vigilia dell’appuntamento elettorale, la VII Assemblea del Forum della Salute Mentale esprime la sua netta determinazione a schierarsi. Esprime la sua insoddisfazione nella lettura dei programmi elettorali che poco o nullo spazio riservano al problema della salute mentale, preferendo, piuttosto che affrontare problemi complessi, lanciare messaggi che possano attrarre. Certo, quello della salute mentale è fra gli argomenti che non sembrano “attirare”, respingenti piuttosto. Eppure, si tratta di una questione cruciale che riguarda la vita di milioni di cittadini, e coinvolge scienza medica, vita civile, controllo politico sociale e civiltà giuridica. Ma non possiamo non sperare in un cambio radicale e auspichiamo che ci sia, ritrovando, la politica, la forza e la volontà di portare a sistema il meglio delle attività fino ad oggi condotte in Italia e nel mondo, e che pur eccellenti risultati hanno dato. E chiediamo di interloquire, come portatori di un pensiero che ha fatto una delle riforme riconosciute, nel mondo, fra le più importanti dell’ultimo mezzo secolo. Oggi la legge 180 sembra persa per strada, frantumata, ma ancora pulsa. Nel territorio dove è nata e dove ha sviluppato una pratica radicata in un sistema di relazioni giocate intorno alla persona (che non è più solo malattia), e che avremmo voluto vedere trasferita in tutta la penisola, sono bastati tre anni di un’amministrazione a guida di destra per distruggere tutto quello che era stato costruito e che ha pur ben funzionato, in termini di accoglimento, territorialità della cura, comunità, vicinanza, equità, libertà, sicurezza. Con Trieste cade l’ultimo baluardo, Trieste ancora una volta laboratorio, ma in direzione tristemente opposta a quanto costruito dagli anni Settanta a oggi. E vediamo l’uniformarsi nel senso peggiore che possiamo immaginare, quanto la regionalizzazione spinta dovuta dalla riforma del titolo V della Costituzione ha in maniera così evidente scomposto. Il nostro è un appello ai partiti, alle forze che pur percependo, vedendo il problema, attraversano un momento di sostanziale indifferenza, spostando lo sguardo su altro. Perché il servizio pubblico interessa così poco? Certo il territorio non produce denaro, la salute mentale finché resta un servizio pubblico ancora nelle mani dei privati, come tutta la salute diventa un affare d’oro. Ma sappiamo che sul territorio ci sono forze disponibili a ricostruire reti territoriali. Amministratori che chiedono, anche loro, confronto e interlocuzione, e se denunciamo una psichiatria che, tornata nel chiuso degli ospedali, si è richiusa su se stessa, pensiamo che siamo ancora in tempo per invertire la rotta e ricostruire i servizi di oggi ricordando quanto fatto in passato. Un episodio, che può sembrare marginale, ma non lo è. Ricorderete Marco Cavallo, il grande cavallo azzurro di legno e cartapesta che nel 1973 a Trieste ruppe i muri del manicomio di San Giovanni e da allora la storia vivente della battaglia contro tutte le contenzioni… Da un po’ d’anni, quando non è in giro a ribadire il suo no allo stigma e all’esclusione, sverna in uno spazio che era stato messo a disposizione dall’amministrazione di Muggia, a due passi da Trieste. Ebbene, in questi giorni, ha ricevuto “avviso di sfratto” dal sindaco leghista. Sembra che l’amministrazione della cittadina necessiti di spazio. Di quello spazio. Considera Marco Cavallo un ingombro. Brutto gesto, brutto segnale. Segno amaro dei tempi. Ma noi, che siamo dalla parte di Marco Cavallo, sappiamo che il nostro gigante di cartapesta, che in tanti viaggi, fisici e simbolici, ci ha accompagnato, troverà nuova ospitalità. Questo paese non può permettere che si perda il risultato dello straordinario esperimento che ha trasformato l’assistenza psichiatrica “ricollegando l’esistenza delle persone ai mondi quotidiani”. *Per il Forum Salute Mentale I sommersi e i salvati: storia delle terapie per la tossicodipendenza di Vanessa Roghi Il Domani, 24 settembre 2022 Dall’approccio fondato sul carcere e gli ospedali psichiatrici ai centri di riabilitazione: l’evoluzione incerta delle cure. Negli Cinquanta e Sessanta l’approccio prevalente è quello di trattare il drogato come un criminale o un malato psichiatrico, la dipendenza è vista come un problema di debolezza psicologica o inclinazione a delinquere. Poi nascono i primi centri di riabilitazione, ma con molte contraddizioni: il drogato deve espiare la sua colpa, più che trovare le forze e gli strumenti per uscire da una situazione di cui ha perso il controllo. Negli anni Settanta e Ottanta si afferma l’idea che dalla droga bisogna uscire da soli, anche il metadone viene somministrato in dosi basse per timore che si sostituisca l’eroina con una “droga di stato”, ma così l’intervento risulta meno efficace. Nel novembre del 1982, nove anni dopo il primo morto di overdose da eroina censito in Italia, esce, pubblicato dalla Nuova Italia Scientifica, un saggio dallo stranissimo titolo: Quei temerari sulle macchine volanti. Strano il titolo, perché non di un romanzo si tratta, bensì di un saggio, scritto da uno psichiatra molto noto all’opinione pubblica italiana per essere stato il primo a prendere sul serio il problema della cura dei “drogati”. L’autore del libro è, infatti, Luigi Cancrini che, da ormai quindici anni, è impegnato in serie ricerche di taglio scientifico sulla dipendenza da oppioidi. Il suo primo studio risale al 1969, l’ha finanziato la Fondazione Agnelli e fa il punto sulla “tossicomania” in Italia. Lo studio cerca di rispondere al quesito: chi usa le sostanze, perché le usa, quali sono le reazioni della famiglia, della società, cosa si può fare per affrontare un problema che appare in espansione anche se ancora non gravissimo. Tredici anni dopo, a crisi da eroina conclamata, Cancrini sente la necessità di fare il punto e ricostruire la storia delle terapie messe in campo in Italia a partire da quel lontano 1969. Si concentra sui diversi approcci psichiatrici evidenziando la miopia di chi ha sempre considerato la dipendenza da eroina come una patologia sociale come le altre, senza bisogno di cure specifiche. Il suo racconto è parte di una vicenda troppo poco conosciuta che vale la pena iniziare a ricostruire. La storia dei vari approcci alla cura della tossicodipendenza. Oggi un tema di una attualità drammatica, anche se facciamo finta di no. Una vicenda che parla dei legami fra psichiatria, dipendenza patologica, eroina, servizi pubblici e nascita di comunità private, ma anche di errori, ripensamenti, successi e un sistema di protezione che ha fatto sì che, per esempio, negli ultimi trent’anni non si verificasse da noi quella epidemia da oppioidi che uccide ormai 100.000 persone all’anno negli Stati Uniti e non è destinata ad arrestarsi. Allora partiamo dall’inizio. Dall’anno della prima ricerca di Luigi Cancrini, dal 1969. Nel 1969 vige ancora in Italia la legge 1041 sugli stupefacenti, una legge promulgata nel 1954 che, abolendo la distinzione fra spacciatore e consumatore, di fatto, ha aperto la strada al carcere o al manicomio per i tossicodipendenti. Secondo la ricerca di Cancrini: “il 62 per cento del campione di tossicomani studiati è passato attraverso le cliniche di malattie mentali e nervose. La metà è stata dirottata verso gli ospedali psichiatrici o trasferita in case di cura private”. Una testimonianza particolarmente emblematica è quella di un ragazzo di 17 anni che fa abuso di farmaci. “Sono stato preso dalla polizia che mi stavo siringando. Dal pronto soccorso mi hanno fatto ricoverare alla neuro. Mi hanno legato a un letto, poi mi hanno portato al manicomio”. Una decisione, quella del manicomio, che viene presa in accettazione, senza nessuna figura di supporto (assistenti sociali, medici). D’altra parte, nella ricerca coordinata da Cancrini, si legge che i medici del Centro di igiene mentale, nel solo 1968, hanno eseguito 7.900 visite: non possono reggere da soli quella che a tutti gli effetti inizia comunque ad essere una questione nuova da affrontare. Chi sono poi gli infermieri dei manicomi incaricati di occuparsi, fra gli altri, anche dei tossicodipendenti, lo sappiamo bene grazie alle inchieste di quegli anni sulla psichiatria e sull’istituzione manicomiale. Evidentemente occorre fare qualcosa e presto. L’Italia è del tutto impreparata ad affrontare un fenomeno che sembra essere in espansione. C’è da dire che negli anni Cinquanta, ma anche negli anni Sessanta, la “tossicomania” in Italia riguarda minoranze molto riconoscibili: la “morfinomania” è tipica degli adulti, normalmente di buona estrazione sociale; i barbiturici, seppur legali, vengono usati senza controllo medico (provocando sovente decessi) dalle donne, casalinghe, ragazze. La cocaina è una droga di élite o della malavita, come abbiamo visto in una delle puntate precedenti di questa inchiesta. L’eroina, di fatto, non circola se non in ambienti ristrettissimi. La droga più diffusa è, senza dubbio, l’alcol che non conosce limitazioni di alcun tipo e nemmeno viene percepita come tale. Poi, a partire dai tardi anni Sessanta, iniziano a diffondersi fra i giovani la cannabis e i suoi derivati. Individuati, secondo un modello proibizionista di matrice statunitense, come sostanze pericolose quanto l’eroina, suscitano immediato allarme: si susseguono servizi giornalistici, azioni repressive della polizia, che in pochi anni incarcera moltissimi piccoli spacciatori più che altro dipendenti dalle sostanze che vendono. Ospedale psichiatrico - Ma la cronaca riporta anche alcuni casi celebri e drammatici come quello dell’attrice Carolyn Lobravico arrestata la notte fra il 5 e il 6 agosto 1970 nella sua villa in Costiera amalfitana per detenzione di sostanze stupefacenti (hashish). La donna viene portata a Pozzuoli nell’ospedale psichiatrico giudiziario, lì rimane per 70 giorni, chiede di essere curata, sostiene di essere malata di epatite virale, dice di stare molto male. Viene legata al letto di contenzione, dove muore. Una storia atroce e dimenticata che mette in luce, in questi primi anni Settanta, la necessità di un cambio di passo nella gestione di quello che appare essere diventato un problema, se non di ordine pubblico, senza dubbio di ordine sanitario. Cancrini si batte affinché la cura della tossicodipendenza sia delegata a strutture pubbliche specialistiche e non ai manicomi e riesce a far passare nel Pci, l’idea della non punibilità della modica quantità che con tutti i limiti di questa definizione viene abbracciata anche da settori progressisti della Democrazia cristiana. Insiste sulla depenalizzazione del consumo di droghe leggere perché da medico ha visto come punire i consumatori non serva a niente, anzi, chi fa un uso saltuario o ancora non problematico di sostanze, una volta portato in carcere diventa quasi senza eccezioni un soggetto dipendente. Anche dalle sue ricerche prende forma la nuova legge sugli stupefacenti del 1975 che prevede la nascita di centri anti-droga che, come sempre accade in Italia, vedranno esiti assolutamente diversi a seconda dei diversi contesti regionali che si troveranno ad aprirli. Questa diversità di applicazione delle norme, dell’interpretazione delle possibilità messe in campo dalla legge, porterà conseguenze ancora oggi visibili, come del resto in ogni ambito del sistema sanitario. Intanto in diversi capoluoghi sono sorti, nei primi anni Settanta, alcuni centri dedicati alla “cura” delle tossicomanie, pubblici e privati. A Torino c’è il Gruppo Abele: il gruppo fondato a metà degli anni Sessanta da don Luigi Ciotti, fa attività di volontariato e nel 1973, quindi molto presto, si rende conto dell’emergenza sostanze fra gli emarginati della città industriale, dove la politica è solo la fabbrica. L’associazione apre a Torino il Centro-droga Molo 53, al quale le persone tossicodipendenti possono rivolgersi 24h/24. L’anno successivo nasce in provincia di Alessandria la prima comunità, la Cascina Abele. E due anni dopo, nel 1975 l’associazione si mobilita con una tenda in piazza Solferino per sollecitare l’approvazione di una nuova legge sulle droghe. A Milano nasce il CAD, Centro aiuto drogati, grazie al supporto del sindaco socialista Aldo Aniasi, per volontà di uno psichiatra, Alberto Madeddu. L’approccio del CAD anticpa alcune questioni che esploderanno negli anni a venire: bisogna che la cura avvenga dentro il contesto in cui la persona sviluppa la dipendenza senza, però, l’uso di terapie sostitutive. Si sta, infatti, diffondendo anche in Italia il metadone e subito iniziano le polemiche sulla sua somministrazione: non si può combattere un veleno con un altro veleno, si dice. Il metadone è niente meno che una “droga di stato”. Questa diffidenza, alimentata da ambienti cattolici ma anche dal Partito Radicale e da vasti settori di Medicina democratica, quindi del Pci, rallenterà moltissimo la piena applicazione delle terapie sostitutive in Italia, creando di fatto una situazione drammatica e insostenibile negli anni del primo boom dell’eroina, cioè i tardi anni Settanta. Salta agli occhi quello che il farmacologo Ernesto De Bernardis definisce “il peccato originale della clinica italiana, che vuol far da sé anche se è ben a conoscenza di come fanno, e bene, gli altri. Chi ha inventato e applicato originariamente la terapia con metadone riportava di servirsi di un’ampia gamma di dosi (…) tra 50 e 180 mg”. In Italia, invece, si suggerisce di usare dosi notevolmente inferiori. Massimo 40 mg. Perché? Perché, secondo alcuni studi italiani, anche con dosi molto elevate non viene soppresso il “desiderio di droga”. Dunque, mentre la legge del 1975 a cui abbiamo accennato, depenalizza l’uso di droghe leggere e mette a sistema la terapia con il metadone come cura della dipendenza da eroina, parallelamente la società italiana vede crescere una forte diffidenza verso ogni ipotesi di cura attraverso farmaci. Insomma quella da eroina è una malattia che non richiede medicine. Uscirne da soli - Dalla “droga” bisogna uscire da soli e pure convinti. Il craving, il desiderio della sostanza, oggi riconosciuto come sintomo da prendere in considerazione nello studio delle dipendenze patologiche, è moralmente inaccettabile. Così, nel febbraio del 1976, quando iniziano ad aprire i primi centri pubblici di sostegno ai tossicodipendenti, prende avvio la vera e proprio campagna mediatica contro il metadone, “veleno di stato”. Uno dei primi centri pubblici nati a Roma, quello di via Merulana, è gestito dal dottor Massimo Barra, poi fondatore di Villa Maraini. Barra nel 1983 racconta questi inizi difficili: “Mi ricordo che i primi tempi, in via Merulana, davamo il metadone in fiale, e i ragazzi le “sparavano”. Allora decidemmo di sciogliere le fiale nell’aranciata e l’amministratore dell’ufficio di igiene si sconvolse al concetto di pagare l’aranciata. Poi inventammo lo sciroppo con l’acqua di via Merulana, cioè scioglievamo le fiale da 11 mg. di un farmaco con un Kg. di zucchero in modo che lo sciroppo diventasse particolarmente denso. Quindi sono sorte tantissime difficoltà di ordine amministrativo e lo zucchero lo portavamo noi da casa, perché l’ufficio di igiene non poteva giustificare l’acquisto di esso per un centro antidroga. Attualmente, a Villa Maraini, avendo la disgrazia di dipendere da 4 enti pubblici, nel momento in cui parte un finanziamento questo non arriva. I fondi che sono stati stanziati nel 1979 non sono ancora arrivati. Nel momento in cui si ipotizza un’attività per un ragazzo, sarebbe opportuno, in quel momento, acquistare il materiale per poterlo facilitare. Invece per la realizzazione passano 6-7-8 mesi, e nel frattempo quel ragazzo se n’è andato, è morto, ha avuto tutti gli avvenimenti caratteristici della vita di un tossicomane”. Sono i centri stessi, spesso, a svolgere un’azione demoralizzatrice nei confronti dei loro assistiti. Scrive nel 1976 il giornalista Carlo Rivolta su Repubblica: “Il centro del Comune così funziona solo al pomeriggio per la distribuzione del metadone e alla mattina per l’assistenza psicologica. Sono tornato di pomeriggio. Questa volta il girone era pieno di “dannati” che aspettavano il loro turno: a piccoli gruppi, sulle scale, sulle panche, sul tavolo dell’ingresso erano in ansia, in vista del momento in cui avrebbero avuto la loro dose. Una ragazzina bionda, capelli lunghi, un viso molto dolce e triste, mi ha raccontato la sua storia: “Vengo qui da due mesi. Appena arrivata mi hanno fatto compilare una scheda. C’è la mia condizione sociale. Mi hanno chiesto subito se volevo assistenza psichiatrica. Ho detto di no, da allora nessuno si è mai più interessato al mio stato psichico. E io invece sto male: prima avevo degli amici, quelli con cui mi bucavo, ora mi hanno isolata. Qui al Centro invece siamo tutti divisi, ci vergogniamo tutti un po’ di essere qui, e tra noi non c’è rapporto. Tanto meno abbiamo il minimo rapporto con gli assistenti sociali. Insomma, si viene qui, si prende il metadone, e si va via. Chi vuole tirarsi fuori dall’ero, in pratica lo fa da solo”. Malattia da eroina - Giovanni Berlinguer, medico, deputato del Pci, è fra le voci più autorevoli in questi anni a ribadire la necessità di inserire nella riforma del sistema sanitario nazionale, che sta prendendo forma, anche una specifica attenzione alle tossicodipendenze. La medicina sociale deve guardare al mantenimento della salute e non solo alla cura della malattia. Per questo devono essere incoraggiati servizi di prossimità, cure domiciliari, assistenza psicologica. Con questo tipo di approccio va visto anche il problema delle tossicodipendenze. Tuttavia larghi settori di Psichiatria democratica e di Medicina democratica non sono disponibili ad accettare una specifica attenzione verso la “malattia da eroina”. Il drogato, in qualche modo, se l’è cercata. Scrive lo psichiatra Giovanni Jervis sulla rivista Quaderni piacentini: “Droga è, come la follia, l’immagine di ciò a cui ciascuno rinuncia, nel nome dell’ordine, della repressione, della produttività. Ma a differenza della follia l’essere drogati è sì essere alienati e pazzi, e anche pericolosi, ma per colpa”. Eppure non basta agire politicamente in una dimensione collettiva per risolvere il problema. Il socialismo da solo non guarisce dall’eroina. Lo scrive al “manifesto” Marco Lodi, un medico, che lamenta la mancanza di uno sguardo che miri, prima di tutto a mettere a centro dell’intervento di cura il benessere della persona “malata”. Mentre l’eroina ha invaso tutte le piazze italiane e inizia a delinearsi all’orizzonte la soluzione già sperimentata in numerose circostanze negli Stati Uniti, la comunità terapeutica fondata da personalità carismatiche che presto colonizzeranno interamente l’immaginario italiano. Sullo sfondo gli anni Ottanta e lo spettro dell’Aids. Francia. Emmanuel Carrère: “Dopo il processo del secolo sono più fragile” di Anais Ginori La Repubblica, 24 settembre 2022 Era partito con l’idea di immergersi nel racconto delle vittime, ascoltando “esperienze estreme di vita e di morte messe alla prova”, nella convinzione che al capolinea qualcosa in lui sarebbe cambiato. Dopo aver seguito per dieci mesi il maxiprocesso degli attentati del 13 novembre 2015 - 130 vittime, tra cui l’italiana Valeria Solesin - Emmanuel Carrère pubblica in Francia V13, il nome in gergo usato da magistrati, avvocati e giornalisti che hanno partecipato a questo kolossal giudiziario. Il libro, che sarà tradotto l’anno prossimo da Adelphi, raccoglie, integrandoli, gli articoli apparsi sull’Obs e Robinson. Un diario di bordo in cui Carrère riesce a cogliere l’umanità dei protagonisti, la terribile ironia delle parole e delle situazioni, dando una dimensione universale al groviglio di orrore e ideologia sfilato in aula. “Non immaginavo che sarebbe stato così emozionante” confida nel suo appartamento inerpicato in un vecchio passage del decimo arrondissement. “Quando nell’autunno scorso ho proposto a L’Obs di seguire le udienze non avevo escluso di smettere se fosse diventato troppo noioso”. E invece è stato difficile salutare a luglio questa strana carovana che si è creata nel Palazzo di Giustizia? “Come tanti cronisti di giudiziaria pensavo che il processo non aveva una reale rilevanza penale. Sul banco degli imputati erano assenti gli esecutori materiali dei massacri. La voce delle parti civili, in numero impressionante, rischiava di essere diluita. E poi questo processo era presentato come una sorta di grande spot per la giustizia e la democrazia. Invece siamo stati tutti sorpresi di essere così coinvolti da non voler perdere nessuna udienza”. È andata così: uno spot per la giustizia e la democrazia? “Il dibattimento si è svolto in modo sereno, c’è stato rispetto tra le parti, compresi gli imputati. All’inizio era legittimo chiedersi: c’era davvero bisogno di tutti questi mesi di processo? Ci siamo poi accorti che questo periodo lungo ha permesso alle cose di dispiegarsi e a noi di metabolizzarle”. C’è un filo di frustrazione perché nel processo molte domande sono rimaste in sospeso? “Non significa che non abbiamo imparato nulla. È stato affascinante capire come si costituisce una cellula terroristica. Le testimonianze delle parti civili sono state sconvolgenti. Di solito chi segue i processi è interessato soprattutto agli imputati. Sono loro il mistero da scavare. Nel V13 si trattava di un mistero povero. Al contrario, le parti civili hanno svelato invece quello che si potrebbe definire il mistero del bene”. In circostanze così tragiche la maggior parte delle vittime ha dato il meglio di sé? “Una delle parti civili, a cui era stato chiesto cosa si aspettasse dal processo, ha detto: “Mi aspetto che si formi una narrazione collettiva”. È qualcosa che abbiamo visto scorrere davanti ai nostri occhi. Dalle testimonianze individuali è emersa una storia collettiva. Per quanto ognuna di queste voci fosse terribile, il coro era magnifico. Abbiamo pianto molto anche se non sono un tipo che si commuove facilmente. Più volte mi sono svegliato in lacrime nel mezzo della notte”. Lei scrive che era importante ascoltare anche una voce discordante, come quella di Patrick Jardin, che ha perso la figlia al Bataclan ed è ancora abitato dall’odio. Perché? “Molte delle parti civili hanno mostrato una dignità e una nobiltà impressionanti, che illustrano la frase del libro di Antoine Leiris: “Non avrete il mio odio”. Dietro a questa frase c’è l’idea che la legge e la serenità del processo fossero il modo migliore per combattere il terrorismo. È bello e giusto. Ma pensare che si possa fare completamente a meno dell’odio, almeno in una fase, mi insospettisce”. Rende omaggio agli avvocati della difesa... “La difesa degli imputati è stata condotta bene. Molte delle parti civili non hanno confuso i terroristi con i loro avvocati. Ognuno ha svolto il suo ruolo al meglio delle capacità. Mi è sembrata un’eccezionale prova di maturità civile”. Quando ha capito che queste cronache potevano diventare un’opera letteraria? “Avevo già un progetto di libro sul jihadismo che ho abbandonato perché nel corso del processo ho capito che non volevo passare altro tempo con dei terroristi e comunque non avevo le capacità per farlo. Non sono un islamista, né un musulmano, né un arabista. Ho preferito quindi rielaborare queste cronache, articolarle, incrementarle”. Durante il suo reportage in Russia, all’inizio della guerra in Ucraina, ha avuto voglia di non scrivere più del V13? “Avevo organizzato il viaggio in Russia in modo da perdere solo un giorno del processo. Per puro caso sono arrivato a Mosca all’indomani dell’inizio della guerra e ho deciso di rimanere per scrivere un reportage. Tornando a Parigi, come tanti ho avuto l’impressione che questo processo avesse perso rilevanza e non interessasse più a nessuno. Ma dopo qualche giorno tutti abbiamo sentito che dovevamo essere lì e che avremmo continuato”. L’intuizione originale era giusta: questo processo l’ha cambiata? “È un po’ enfatico dirlo ma ha cambiato un po’ tutti quelli che hanno partecipato senza che possa dire esattamente come. Ascoltare un tale coro di esperienze umane, di sofferenza, di pietà, di terrore, cambia qualcosa nella propria sensibilità. Forse rende più vulnerabile”. Perché vulnerabile? C’è stata anche la forza della resilienza... “Sì, ma la forza della resilienza, a mio avviso, deriva sempre dall’accettazione della vulnerabilità”. Da un punto di vista letterario, cosa ha imparato? “La forma della rubrica settimanale - con uno spazio limitato e una scadenza di consegna - mi ha affascinato. Non ho mai avuto la sensazione di essere a corto di materiale, anche se all’inizio era una preoccupazione. In realtà, mi è piaciuto molto essere inquadrato in questo ritmo di pubblicazione”. E il suo prossimo progetto? “Non ho idea di cosa fare. Non ho nessun progetto, ma arriverà”. Libano. La strage dei migranti di Francesca Mannocchi La Stampa, 24 settembre 2022 Decine di siriani diretti a Cipro muoiono annegati a Beirut. La gente in miseria li picchia par farli fuggire, nessuno li vuole più e il dittatore Assad li aspetta. Almeno settanta persone sono morte annegate quando la barca di legno su cui viaggiavano è affondata a largo delle coste siriane. Erano partiti in 120, forse 150, dalla regione settentrionale libanese di Minyeh all’inizio di questa settimana diretti a Cipro, la sponda europea più vicina alle coste libanesi. Invece martedì il direttore del piccolo porto dell’isola di Arwad, al largo delle coste di Tartus, ha informato il ministero dei trasporti siriano che era stato avvistato il corpo di una persona annegata. Quando il ministero ha inviato una barca per recuperare il corpo, intorno c’erano i cadaveri di alcuni bambini e altre decine di persone. Morti di fronte al paese in guerra da cui erano scappati, dal paese in cui non volevano tornare a nessun costo. Nelle stesse ore Cipro mobilitava le squadre di ricerca per altre due navi che trasportavano persone dal Libano che avevano lanciato segnali di soccorso: 300 in una nave, 177 nell’altra. Tutti tratti in salvo, secondo la nota del Joint Rescue Coordination Center dell’isola. Il naufragio di martedì è il tentativo di fuga che causato il maggior numero di vittime dal 2019 in Libano, anno delle proteste di piazza, della crisi economico finanziaria che ha fatto precipitare l’80 per cento della popolazione del paese - circa tre milioni di persone - al di sotto della soglia di povertà. Nel marzo 2020, il Libano è stato inadempiente per la prima volta per aver rimborsato il proprio debito, che ha poi raggiunto i 90 miliardi di dollari, ovvero il 170% del prodotto interno lordo. A seguito della crisi il numero di persone che hanno lasciato o tentato di lasciare il Libano via mare è quasi raddoppiato nel 2021 rispetto al 2020, ed è aumentato di nuovo di oltre il 70% nel 2022 rispetto allo stesso periodo dello scorso anno. Con una differenza: se prima a partire dalle coste di Tripoli erano solo rifugiati siriani e palestinesi (due milioni in totale in un paese di sei milioni di persone), negli ultimi tre anni la disperazione crescente ha portato sempre più libanesi a pagare trafficanti per salire a bordo di barche sovraffollate dirette in Europa. L’assalto alle banche - È notizia di ieri che le banche libanesi rimarranno chiuse “a tempo indeterminato”. Troppo bassa la sicurezza garantita dalle autorità, recita il comunicato dell’associazione bancaria nazionale. La decisione arriva dopo mesi di proteste e dopo le ultime due settimane di assalti armati da parte di comuni cittadini che chiedevano indietro parte dei risparmi svaniti negli ultimi anni. l primo caso di attacco a una filiale bancaria era stato segnalato a gennaio. Un uomo aveva forzato l’entrata tenendo in ostaggio qualche decina di persone dopo che gli era stato comunicato che non avrebbe più potuto ritirare il suo denaro in valuta estera ma sono in lire libanesi, che ormai da tempo sono poco più che carta straccia. Dopo ore di trattative ha ottenuto un po’ dei sui risparmi e si è arresto. Un mese fa, ad agosto, un uomo armato ha di nuovo tenuto in ostaggio dipendenti e correntisti in una banca del centro di Beirut. Aveva chiesto i suoi risparmi per pagare le cure private del padre malato di cancro, ma i soldi non c’erano più, il loro valore svanito per effetto della crisi. La settimana scorsa un uomo ha di nuovo fatto irruzione in una filiale di BankMed nella città di montagna di Aley e nello stesso giorno una donna, Sali Hafiz, è entrata nella sede di Blom Bank a Beirut con una pistola giocattolo. Anche lei aveva bisogno di soldi per pagare le cure di sua sorella malata di cancro. Anche lei non ha ricevuto niente. Ha versato la benzina che aveva con sé sul pavimento minacciando di dare fuoco alla banca se non avesse avuto i suoi soldi. È uscita da lì con la sua pistola giocattolo, 13 mila dollari, mentre la folla, all’esterno, la acclamava e applaudiva. Il giorno dopo, sulla scia del gesto di Sali Hafiz, altre cinque banche sono state assaltate: un negoziante padre di sette figli e disoccupato da mesi ha chiesto i suoi soldi armato con un fucile da caccia, a Sud della città, un altro lavoratore ormai alla fame ha assaltato una filiale della Banque Libano-Française e dopo aver ottenuto 20 mila dollari si è arreso. A sostegno dei due, come nel caso di Sami Hafiz, si è creato un movimento spontaneo, i Depositors’ Outcry che hanno annunciato giovedì che è solo l’inizio della “battaglia per liberare i nostri risparmi rubati da decenni di corruzione”. È in un clima come questo, in un paese in cui i cittadini ridotti alla fame, diventano rapinatori per ottenere i propri soldi e ottengono indietro qualche spiccio e il consenso popolare, che sta montando, sempre più massiccia la guerra tra poveri. Quando manca il lavoro e i soldi, quando manca da mangiare, a farne le spese sono, sempre, i più vulnerabili tra i vulnerabili. Le Nazioni Unite da mesi lanciano allarmi sui casi di discriminazione e violenza contro rifugiati siriani in Libano. “Abbiamo assistito a tensioni tra libanesi e siriani nelle panetterie di tutto il paese”, aveva detto a giugno Paula Barrachina, portavoce dell’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati. “In alcuni casi anche sparando e usando bastoni contro i rifugiati”. In alcune aree del Libano il governo ha imposto il coprifuoco per i rifugiati e chiesto ai panifici di dare la priorità ai cittadini libanesi, in un video condiviso sui social media, un gruppo di uomini nel quartiere di Bourj Hammoud, a Beirut, ha picchiato un adolescente siriano con dei bastoni e gli ha preso a calci in faccia vicino a una panetteria. Prima i libanesi accusavano i siriani di abusare delle già fatiscenti infrastrutture del paese e rubare loro il lavoro. Oggi, effetto della crisi finanziaria e della guerra ucraina, li accusano di rubare loro il pane, e non li vogliono più. I funzionari libanesi stanno sempre più favorendo il rimpatrio forzato dei rifugiati nelle aree della Siria che ritengono essere ormai al sicuro e sta coordinando con il governo siriano a Damasco su un piano che potrebbe vedere fino a 15 mila rifugiati rimandati nel Paese ogni mese. È anche per questo che più di un milione di rifugiati siriani che risiede in Libano da dieci anni vede nella fuga dal paese, a ogni costo, l’unica possibilità di salvarsi. Fughe disperate dal Libano, 80 migranti morti in mare di Pasquale Porciello Il Manifesto, 24 settembre 2022 Mediterraneo. Decine i dispersi. Tra le vittime siriani, libanesi e palestinesi. Le partenze si moltiplicano insieme alla crisi economica: ottenere un visto è sempre più difficile, si scappa in barca verso l’Europa. È salito a 80 il numero dei morti nel naufragio, giovedì, di una nave piena di migranti partita da Minyeh, nord del Libano. Il ministro dei trasporti siriano Khazim stima che l’imbarcazione avesse a bordo tra 120 e 150 persone: libanesi, siriani e palestinesi. La nave, diretta in Italia attraverso una rotta sempre più battuta da quando la crisi in Libano è scoppiata nel 2019, si è capovolta al largo della costa siriana di Tartus. La guardia costiera siriana si è occupata delle operazioni di recupero dei corpi e dei pochi sopravvissuti, una ventina, di cui sei accertati libanesi, trasportati all’ospedale al-Bassel di Tartus. Tanti ancora i dispersi. Il primo ministro libanese Mikati ha dichiarato di star lavorando con il governo siriano per il rientro delle vittime in patria, mentre il presidente Aoun promette assistenza alle famiglie. L’esercito ha fermato giovedì due uomini con l’accusa di traffico di persone nella regione di Akkar, la più povera del Libano e dalla quale proviene la maggior parte dei migranti libanesi. Martedì un’altra imbarcazione con a bordo 55 migranti, salpata dal nord del Libano e sulla stessa rotta la settimana scorsa, era stata intercettata dalla guardia costiera greca a largo di Creta dopo un guasto e i migranti portati a Izmir in Turchia. Sempre al largo della Grecia, un’altra barca di migranti partita il 19 settembre dalla stessa zona era stata trasferita a Kalamata giovedì pomeriggio. Questa volta per fortuna nessuna vittima. La lista è lunghissima e le tragedie si moltiplicano. Ad aprile aveva fatto scalpore la vicenda della nave affondata a poche miglia dalla costa di Tripoli dopo una collisione con la marina libanese, che i sopravvissuti avevano raccontato come un vero e proprio speronamento. Tanti gli appelli per la giustizia, nulla di fatto in pratica. Il Libano ha una popolazione di quattro milioni di persone e accoglie circa due milioni di rifugiati siriani in un territorio di 10mila mq. Il numero di siriani è approssimativo: oltre alla difficoltà oggettiva di monitorare in alcune aree di confine gli ingressi, l’Onu ha smesso di contarli nel 2019. I palestinesi registrati dall’agenzia Onu Unrwa sono circa 500mila. La nuova rotta è conseguenza della crisi che ha colpito duramente il paese nel 2019, che non accenna a migliorare e che ha precipitato i tre quarti della popolazione in povertà assoluta. I migranti provengono in larga parte da zone come quelle di Akkar, storicamente abbandonate a loro stesse anche da prima del 2019. Il 46% della popolazione è alla fame secondo l’ultimo rapporto del World Food Program. Situazione aggravata dalla guerra in Ucraina: il Libano, come tutta l’area mediterranea in percentuali diverse, dipende da Russia e Ucraina per grano e olio di semi. La devastante crisi economico-finanziaria che ha messo in ginocchio il Libano e con le spalle al muro il popolo libanese non sembra avere soluzioni al momento, nonostante i ripetuti proclami interni e le spinte da parte della comunità internazionale. Da quando nel 2019 i conti bancari sono stati congelati, la valuta ha subito una svalutazione da 1.500 lire per un dollaro ai 38mila di questi giorni. Nonostante la dollarizzazione dell’economia e la doppia moneta, gli stipendi pubblici, ma anche buona parte di quelli privati, vengono ancora pagati in lire e c’è stato solo un insignificante incremento. L’elettricità è già razionata da un paio d’anni. Sono proprio di questi ultimi giorni gli assalti, tra il simbolico e il disperato, alle banche per riprendersi i propri risparmi. Ottenere un visto per uscire dal Libano è al momento molto difficile. Le domande negli ultimi tre anni sono aumentate a dismisura e le liste d’attesa sono infinite. La disperazione è tale in alcune fasce della popolazione che ci si affida al mare. E anche la morte, nell’indifferenza e a causa di chi gestisce il potere, è un’opzione più degna di ciò che ci si lascia alle spalle. Russia. La grande fuga degli obiettori: “Scappiamo dalla guerra fratricida” di Giovanni Pigni La Stampa, 24 settembre 2022 Sarebbero già 70 mila gli uomini scomparsi dal radar dei reclutamenti militari. Chi non può andarsene scappa nei boschi e c’è chi prova a raggiungere il confine a piedi. Aleksandr ha capito subito che tirava una brutta aria quando martedì sera hanno annunciato un imminente discorso del presidente russo Vladimir Putin. Il ventinovenne di San Pietroburgo ha subito iniziato a cercare biglietti aerei per la Turchia e l’Armenia. Ma era già tardi: la maggior parte dei voli erano pieni, quelli rimanenti costavano migliaia di dollari. La mattina dopo i suoi peggiori timori si sono avverati: Putin ha annunciato la mobilitazione parziale del Paese, chiamando alle armi 300 mila riservisti per sostenere lo sforzo bellico in Ucraina. “Sono anni che mi oppongo a questo governo, non ho nessuna intenzione di andare a combattere per esso”, spiega Aleksandr. A corto di opzioni, il ragazzo ha comprato in fretta e furia un volo interno per Ekaterinburg, sui monti Urali. Da lì è riuscito a ottenere un passaggio in macchina fino al confine con il Kazakhstan. Quando è arrivato alla frontiera si erano già formate lunghe file di uomini in fuga. “Ho dovuto aspettare almeno dieci ore per passare il confine”, ricorda Aleksandr. Ora il ragazzo si trova a Kostanay, la prima città kazaka dopo il confine. Trovare un alloggio è stata un’impresa: la città è invasa dai russi che scappano dalla mobilitazione. Il piano ora è raggiungere Astana, la capitale, dove Aleksandr verrà raggiunto dalla moglie Veronika e dal figlio di un anno, Mark. Vivranno lì per tre mesi, poi si vedrà. “Sono triste perché lascio la mia famiglia e i miei genitori anziani, perché non so quando potrò tornare. Mia nonna è già molto vecchia, non so se la rivedrò ancora”, racconta il giovane. A dargli forza, la consapevolezza che sta agendo per il bene della sua famiglia, per il futuro di Mark. Nell’ultimo periodo, vivere in Russia era diventato difficile a causa dell’onnipresente propaganda bellicista, presente perfino nelle scuole. “Se le cose non cambiano in Russia, non vedo un futuro per mio figlio”, dice Aleksandr. “Il nostro governo non solo sta distruggendo il Paese vicino, ma anche il nostro stesso Paese”, commenta. Come Aleksandr, migliaia di altri uomini stanno fuggendo dalla Russia per sottrarsi alla mobilitazione. Il tempo stringe, visto che molti dei Paesi limitrofi hanno chiuso i confini. La prossima a farlo sarà la Finlandia, ai cui valichi si stanno formando lunghe code. Secondo la ong Guide to the Free World circa 70 mila russi sono già fuggiti o stanno escogitando piani di fuga. Chi non è riuscito a prendere un biglietto aereo e non ha altri mezzi sta fuggendo a piedi verso il confine. Il timore diffuso è che il governo imponga la legge marziale e chiuda i confini. Mentre molti scelgono la fuga all’estero, altri preferiscono darsi alla macchia. Come Pavel, 31 anni, programmatore. La mattina della mobilitazione, Pavel è stato bombardato di chiamate da amici e parenti che lo volevano convincere a lasciare il Paese immediatamente: lui è un ufficiale in riserva, dunque rientra nella categoria di quelli che verranno mobilitati per primi. Alcuni amici, trasferitisi negli Emirati Arabi all’inizio del conflitto in Ucraina, volevano comprargli un biglietto aereo per permettergli di raggiungerli. Una volta lì, gli hanno detto, non sarà difficile trovare un lavoro ben pagato. Dopo una breve riflessione, Pavel ha deciso che non partirà: è troppo legato alla sua terra, alla sua amata San Pietroburgo. Ha così lasciato il suo appartamento di città per rifugiarsi nella sua dacia (la casa di campagna dei russi) in mezzo ai boschi. Resterà lì per il prossimo futuro, dove le autorità difficilmente potranno rintracciarlo. Eviterà accuratamente i trasporti pubblici, dove pattuglie di poliziotti, secondo alcune fonti, già fermano uomini in età militare. “Alla stazione dei treni ho già visto che fermavano persone e le portavano via per interrogarle”, racconta il ragazzo. Pavel si è sempre considerato un patriota della Russia. Per lui, il conflitto in Ucraina è una “guerra fratricida” in cui non vuole avere nulla a che fare. “La Russia avrebbe potuto attrarre l’Ucraina a sé in molti modi, dare un buon esempio, sviluppando i nostri legami culturali, sociali ed economici”, commenta amaro. “Invece questo governo ha scelto le armi e ha distrutto i rapporti tra i nostri popoli”.