Una ricerca racconta i numeri e il ruolo del Terzo settore in carcere di Luca Cereda vita.it, 23 settembre 2022 Il primo volume della ricerca “Al di là dei muri” curata dall’Iref per le Acli fa luce, tra numeri e dati, sul ruolo del Terzo settore nelle carceri italiane raccontando il crollo del volontariato ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020. La flessione maggiore si è avuta per le attività religiose (- 61,3%) e per le attività di formazione e lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno perso una percentuale consistente di volontari (-56,5%) È stata presentata nella Casa Circondariale di Busto Arsizio, in provincia di Varese, le Acli nazionali, in collaborazione con le Acli Lombardia, le Acli di Varese e la Fondazione Enaip Lombardia, la ricerca a cura dell’IREF, “Al di là dei muri”, un’analisi approfondita sul ruolo fondamentale del Terzo settore nel mondo del carcere. Prima della pandemia, l’apporto del terzo settore alla riforma sistema di detenzione era una questione rilevante, al punto da sollecitare l’amministrazione penitenziaria a riconoscere le nuove configurazioni assunte dalla società civile organizzata. A distanza di cinque anni, con di mezzo una crisi sanitaria senza precedenti, l’interazione tra carcere e società si è ridotta di molto. Nell’ambito di un percorso di riforma della giustizia nel quale, come al solito, si replica la contrapposizione tra giustizialismo e garantismo, la prospettiva del carcere come struttura aperta e in dialogo con le comunità e i territori, rischia di finire in secondo piano, anche perché la pandemia ha legittimato, non senza alcune ragioni, l’esigenza di chiudere i cancelli e rendere il carcere impermeabile rispetto all’esterno. Terzo settore in carcere spesso nasconde lacune e problemi del sistema - Il Terzo Settore è importante soprattutto per l’accoglienza esterna dei detenuti, utile per le misure alternative al carcere. Parliamo delle misure di comunità. Attualmente il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria spende il 97% dei fondi assegnatili per mantenere gli oltre 200 istituti di pena del territorio, quasi 3 miliardi ogni anno. Un investimento a perdere se si calcola l’altissimo tasso di recidiva, che porta gli stessi soggetti ad affollare nuovamente le stesse strutture dalle quali dovevano uscire invece rieducati e reinseriti nel contesto sociale. L’esecuzione penale esterna è quella che riceve meno soldi di tutti. Investire in esecuzione esterna significa anche non lasciare soli gli autori e le vittime, mentre nel sistema attuale i primi spesso sviluppano sentimenti di vittimizzazione e i secondi si sentono abbandonati dalle istituzioni preposte a difenderli. Va dato atto che c’è una crescita esponenziale delle misure di comunità grazie al Terzo Settore. Incrementarle sia completando la riforma dell’ordinamento penitenziaria, sia con i fondi, vuol dire che potremmo fare a meno di costruire nuove carceri. Soprattutto in questa fase di lenta fuoriuscita dalla pandemia, che così tanti danni ha compiuto anche nell’ambiente carcerario, occorre agire in modo sistematico per la ricomposizione del tessuto sociale nelle parti in cui più forti sono le lacerazioni, e più necessario è il lavoro di cura che è proprio del Terzo settore. Nonostante il disinteresse generale, ci sono centinaia di migliaia di cittadini italiani che si impegnano in associazioni, fanno volontariato, si attivano per rivendicare la dignità dei detenuti. La società civile organizzata è un attore fondamentale nel sistema penale italiano. Difatti, sempre nel documento finale degli Stati generali del 2016, si riconosce l’importanza che nel sistema italiano di esecuzione penale ha il volontariato che affianca gli educatori che sono 774 mentre l’organico previsto è di 895 persone (ovvero -13,5%). Ciò significa 1 educatore ogni 79 detenuti. Questa carenza di organico si è manifestata in tutta la sua gravità durante la pandemia, quando i penitenziari italiani hanno chiuso i cancelli e il terzo settore è rimasto fuori dalle carceri, riducendo in modo drastico l’offerta di attività trattamentali. Il ruolo “sistematico” del Terzo settore in carcere - I dati sulla presenza del terzo settore nel sistema carcerario non sono molti. Sino al 2008, la Conferenza nazionale volontariato e giustizia realizzava una rilevazione annuale sul volontariato penitenziario. Oggi, l’unica fonte primaria disponibile sono le cosiddette schede di messa in trasparenza con le quali il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria rende pubbliche la maggior parte delle sue attività. Ma si tratta di una fonte frammentaria e derivata da obblighi amministrativi, per cui le definizioni operative dietro i numeri sono spesso opache e astratte: sorprende che i dati di una pubblica amministrazione dalle funzioni così rilevanti non siano resi disponibili in formato aperto e interoperabile. Comunque sia, tramite le schede del Dap è almeno possibile iniziare a quantificare la portata del volontariato penitenziario. Nella tabella si propone il confronto tra il numero di soggetti esterni coinvolti in “attività ricreative” nel 2019 e nel 2020. Il primo dato da evidenziare è il dimezzamento del contingente di volontari (da 19mila a 9mila): la pandemia ha ridotto della meta gli ingressi all’interno delle carceri. Sebbene il numero di detenuti nei due anni considerati sia diminuito di 7.409 unità (dati fuori tabella), il corrispondente crollo del volontariato ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020. La flessione maggiore si è avuta per le attività religiose (- 61,3%) e per le attività di formazione e lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno perso una percentuale consistente di volontari (-56,5%); più bassa è la flessione rilevata tra i volontari impegnati in attività di sostegno alle persone e alle famiglie, diminuiti del 31%. Il Terzo settore porta in carcere formazione, lavoro e sport: i numeri - L’impegno del terzo settore e dei suoi operatori (volontari o meno) all’interno delle carceri si esplica in modi eterogenei, all’interno e all’esterno, attraverso progetti specifici o supportando i compiti istituzionali dell’amministrazione, in partenariato con altri enti o da soli, coinvolgendo solo i detenuti o anche i loro familiari. Purtroppo, solo una parte di queste attività sono tracciate statisticamente, ossia quelle svolte in diretta collaborazione con l’amministrazione penitenziaria. Anche in questo caso, occorre ribadire che il Dipartimento per l’amministrazione penitenziaria pecca in sistematicità. Lavoro - Il lavoro impegna solo un terzo dei ristretti, e bisogna precisare che nella stragrande maggioranza dei casi si tratta di un’occupazione alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, ovvero dei cosiddetti “servizi d’istituto” (pulizie, manutenzione ordinaria, lavanderia, cucina). Questo tipo di impieghi, nel concreto, non sono posti di lavoro, ma turni di lavoro che prevedono anche mesi di attesa tra un turno e l’altro. Peraltro, i servizi d’istituto sono ripetitivi e monotoni per cui offrono un incentivo molto basso in termini di soddisfazione lavorativa, tutt’al più hanno la funzione di permette una maggiore libertà di movimento all’interno della prigione. Negli ultimi 30 anni la percentuale di detenuti che lavora non alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, calcolata dal Dap sul totale dei lavoranti, è sempre rimasta compresa tra il 10% e il 15% e tranne una percentuale trascurabile dalla statistica, i detenuti vengono contrattualizzati solo da enti del Terzo settore, cooperative, soprattutto. Se si cambia la base di calcolo, considerando tutti i detenuti, e non solo il totale dei lavoranti, si ottiene che solo il 4% dei detenuti lavora con un soggetto esterno al carcere: a giugno 2021, si trattava di 2.130 persone. Formazione - Considerando i detenuti coinvolti in percorsi formativi, la ricerca dell’Iref segnala che la prima informazione che salta all’occhio è la percentuale di iscritti sul totale dei detenuti presenti: nell’ultimo quinquennio, il dato non ha mai superato un esiguo 5%, crollando all’1,4% nel primo semestre del 2020. La pandemia ha avuto sicuramente un impatto negativo sulle opportunità formative dei detenuti italiani. Tuttavia, anche prima di questo evento le chances erano comunque limitatissime. La platea di beneficiari degli interventi formativi si restringe ancora se si considerano solo i detenuti che terminano i percorsi, o meglio che sono riusciti a frequentare completamente un corso che non è stato, prematuramente, chiuso. È questa una condizione che riguarda, con oscillazioni di semestre in semestre, circa due detenuti su tre. Anche in questo ambito il ruolo degli Ets (Enti del Terzo Settore) è rilevante: tutti i principali enti di formazione, emanazione di sindacati e organizzazioni sociali di varia tradizione, realizzano percorsi formativi all’interno delle carceri. Sport - Gli ultimi dati disponibili sulla pratica sportiva nelle carceri, riferiti a fine 2017, restituiscono uno scenario nel quale l’offerta è molto inferiore alla domanda potenziale: dei 57.608 ristretti presenti a fine anno, solo il 28,2% ha svolto una qualche attività sportiva. E il dato potrebbe essere sovrastimato poiché alcuni detenuti potrebbero aver partecipato a più di un’attività sportiva nel corso dell’anno. Guardando alla composizione per genere dei praticanti sport non si notano divari significativi, mentre se si considera la nazionalità dei detenuti si nota una differenza in favore dei detenuti con nazionalità non italiani: nel 2017, ha praticato sport in carcere il 32,6% degli stranieri a fronte del 20,5% dei detenuti italiani; questo divario è probabile che sia legato all’età media più bassa dei detenuti stranieri. Anche in questo caso le attività offerte principalmente arrivano da associazioni e realtà del Terzo settore come Csi. L’impegno delle Acli in carcere - La ricerca descrive poi le attività che le Acli hanno avviato per rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e dopo. Attraverso un’analisi tematica di 16 interviste in profondità a testimoni privilegiati che si sono occupati della realizzazione dei progetti delle Acli in carcere, è posto in evidenza l’impegno sociale dell’associazione. Effettuato poi un focus su tre organizzazioni che da decenni si sobbarcano l’arduo compito di accompagnare i detenuti verso una possibile occasione di riscatto: il Centro di Accoglienza Padre Nostro nel quartiere Brancaccio di Palermo, eredità di don Pino Puglisi; Made in Jail nel quartiere Quadraro di Roma e la Comunità Nuova a Milano. La ricerca “Al di là dei muri” è solo un primo passo, come ha spiegato alla presentazione dentro la casa circondariale di Busto Arsizio Antonio Russo, vice presidente nazionale Acli: “Le Acli ritengono importante approfondire il ruolo del Terzo settore nel carcere, non una tantum, ma attraverso un’analisi cadenzata e regolare, capace di monitorare negli anni l’importante ruolo che esso svolge in questi luoghi. Il rapporto ci consegna un primo punto sull’impegno del mondo non profit in tema di detenzione e ci consente di individuare piste di lavoro per le successive edizioni del Rapporto con un focus particolare sull’importante tema della re-entry”. Carcere e Terzo settore: meno formazione per i detenuti e meno volontari a causa del Covid redattoresociale.it, 23 settembre 2022 I risultati di una ricerca di Iref e Acli. Il crollo del volontariato che ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020. La flessione maggiore si è avuta per le attività religiose (- 61,3%) e per le attività di formazione e lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno perso una percentuale consistente di volontari (-56,5%). È stata presentata oggi presso la Casa Circondariale di Busto Arsizio, la ricerca, a cura dell’Iref, “Al di là dei muri”, realizzata dalle Acli nazionali, in collaborazione con le Acli Lombardia, le Acli di Varese e la Fondazione Enaip Lombardia. Si tratta di un’analisi approfondita sul ruolo fondamentale del Terzo settore nel mondo del carcere. “Il senso di questo report consiste nel documentare quello che le organizzazioni del Terzo settore stanno già operando all’interno della realtà carceraria - ha detto il presidente nazionale Acli, Emiliano Manfredonia - e di come esse tendano ad accompagnare i detenuti in un percorso che è indubbiamente afflittivo, ma che deve essere finalizzato alla prospettiva della risocializzazione una volta espiata la pena”. La ricerca analizza dapprima la presenza del Terzo settore nelle carceri. “È difficile stimare il numero di organizzazioni impegnate con i detenuti, perché la maggior parte di esse sono piccole, alcune poggiano solo sul lavoro volontario - ha spiegato Gianfranco Zucca, ricercatore Iref e curatore della ricerca -. Negli ultimi due anni il numero di detenuti è diminuito di 7.409 unità, ma c’è anche stato un crollo del volontariato che ha fatto crescere il rapporto tra volontari e detenuti, da 1 a 3,1 del 2019 a 1 a 5,4 nel 2020”, ha continuato Zucca. La flessione maggiore si è avuta per le attività religiose (- 61,3%) e per le attività di formazione e lavoro (-60,5%); anche le attività sportive, ricreative e culturali hanno perso una percentuale consistente di volontari (-56,5%); più bassa è la flessione rilevata tra i volontari impegnati in attività di sostegno alle persone e alle famiglie, diminuiti del 31%. Cosa fa il terzo settore nelle carceri - L’impegno del terzo settore e dei suoi operatori (volontari o meno) all’interno delle carceri si esplica attraverso progetti specifici o supportando i compiti istituzionali dell’amministrazione, in partenariato con altri enti o da soli, coinvolgendo solo i detenuti o anche i loro familiari. In particolare, le associazioni sono attive con progetti di formazione, lavoro, sport e cultura. Purtroppo, anche se il lavoro è considerato il veicolo principale di risocializzazione dei detenuti, secondo i dati del Dap a giugno 2021 lavorava un detenuto su tre, per un totale pari a 17.957 individui su 53.637. La formazione è il secondo pilastro del modello riabilitativo adottato dal sistema penale italiano. Anche in questo ambito il ruolo degli Ets (Enti del Terzo Settore) è rilevante: tutti i principali enti di formazione, emanazione di sindacati e organizzazioni sociali di varia tradizione, realizzano percorsi formativi all’interno delle carceri. Negli ultimi cinque anni i corsi attivati hanno avuto un andamento altalenante, oscillando in un range che va da 120 a 230 nel periodo pre-pandemia, per poi crollare con l’avvento del Covid-19: la percentuale di iscritti sul totale dei detenuti presenti non ha mai superato un esiguo 5%, arrivando all’1,4% nel primo semestre del 2020. La pandemia ha avuto sicuramente un impatto negativo sulle opportunità formative e lavorativi dei detenuti italiani. L’impegno delle Acli - La ricerca descrive poi le attività che le Acli hanno avviato per rendere più umano il carcere e accompagnare i detenuti durante il periodo di reclusione e dopo. Attraverso un’analisi tematica di 16 interviste in profondità a testimoni privilegiati che si sono occupati della realizzazione dei progetti delle Acli in carcere, è posto in evidenza l’impegno sociale dell’associazione. Effettuato poi un focus su tre organizzazioni che da decenni si sobbarcano l’arduo compito di accompagnare i detenuti verso una possibile occasione di riscatto: il Centro di Accoglienza Padre Nostro nel quartiere Brancaccio di Palermo, eredità di don Pino Puglisi; Made in Jail nel quartiere Quadraro di Roma e la Comunità Nuova a Milano. La ricerca “Al di là dei muri” è solo un primo passo, come ha spiegato Antonio Russo, vice presidente nazionale Acli: “Le Acli ritengono importante approfondire il ruolo del Terzo settore nel carcere, non una tantum, ma attraverso un’analisi cadenzata e regolare, capace di monitorare negli anni l’importante ruolo che esso svolge in questi luoghi. Il rapporto ci consegna un primo punto sull’impegno del mondo non profit in tema di detenzione e ci consente di individuare piste di lavoro per le successive edizioni del Rapporto con un focus particolare sull’importante tema della re-entry”. Un altro suicidio in carcere tra l’indifferenza generale. E sono 63 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 23 settembre 2022 Mercoledì notte, al carcere di Verona, si è suicidato Maurizio Bertani, che scrisse un articolo nel 2007 per Ristretti Orizzonti proprio sulle morti in carcere. Nello stesso istituto si è ammazzata Donatella, dopo aver lasciato una struggente lettera. Il numero di casi fa comprendere che il sistema penitenziario è insostenibile. Mentre tutti i riflettori sono puntati alle elezioni politiche, tra una strumentalizzazione del tema penitenziario (chi parla ancora della “certezza della pena” e chi desidera riempire le carceri di colletti bianchi pensando così di risolvere il problema), i detenuti continuano a impiccarsi nell’indifferenza più totale. Mercoledì notte, al carcere di Verona, si è suicidato Maurizio Bertani, che scrisse un articolo nel 2007 per Ristretti Orizzonti proprio sulle morti in carcere. Aveva 71 anni. Quello di Verona è il 63esimo suicidio in carcere da gennaio - Siamo così giunti al 63esimo suicidio dall’inizio dell’anno. La penultima tragedia si è verificata qualche giorno prima al carcere di Forlì. Si tratta di Denis Markola, albanese di 28 anni che si è suicidato appena entrato in carcere per un ordine di esecuzione dopo otto anni dalla sentenza. Il numero dei suicidi potrebbe essere addirittura maggiore visto che, come ha recentemente rilevato il garante nazionale, sono da accertare le cause della morte di almeno una decina di detenuti. In quel carcere si suicidò Donatella che scrisse una lettera struggente al compagno - Alla notizia dell’ennesimo suicidio nel carcere di Verona (ricordiamo qualche tempo prima Donatella, la ragazza che si è ammazzata dopo aver lasciato una struggente lettera al proprio compagno), l’associazione veronese “La Fraternità” si è riunita come Direttivo ed è stata inviata lettera alla Direttrice del carcere e ai suoi collaboratori. La lettera dell’associazione veronese “La Fraternità” alla Direttrice del carcere e ai suoi collaboratori - “È triste - scrive Giuseppe Galifi, presidente dell’associazione -, dopo così breve tempo, tornare ad esprimere la nostra vicinanza e la nostra solidarietà dinanzi a un ulteriore caso di suicidio. Lo facciamo tuttavia con piena convinzione e con profonda commozione, nella consapevolezza che questo reiterarsi accresce il bisogno di creare tutte le sinergie possibili fra coloro che, istituzionalmente o volontariamente, lavorano a contatto con i detenuti e le detenute”. E infine conclude: “Confermiamo a Lei e ai suoi collaboratori la nostra piena disponibilità ad affiancarci alla vostra opera rappresentando, pur nei nostri limiti, la prossimità della nostra umanità a chi vive in stato di detenzione”. Nessuna regia mafiosa dietro le rivolte di due anni fa - Ma cosa sta accadendo? Ogni suicidio è a sé, ma il numero crescente fa comprendere che il sistema penitenziario è diventato insostenibile. Due anni fa ci sono state le rivolte dovute dall’esasperazione, ma a causa del solito conformismo mass mediatico, si è portato a far credere che dietro ci fosse stata una regia mafiosa che avrebbe poi portato alla resa dello Stato. Una riedizione della trattativa Stato-mafia. La relazione della commissione del Dap sulle rivolte ha chiarito tutto - Chi conosce a fondo le problematiche del sistema penitenziario, da Il Dubbio passando per le associazioni come Antigone o Yairaiha Onlus, gli attivisti radicali come Rita Bernardini reduce da un lungo sciopero della fame e i garanti, sa che si trattava di una tesi delirante. A mettere parola fine a questa teoria sconclusionata, recentemente ci ha pensato la relazione della commissione istituita dal Dap e presidiata dall’ex magistrato antimafia Sergio Lari. Nonostante la sensibilità della ministra Cartabia non è stato fatto nulla per il sistema penitenziario - Si trattava, come di consueto, del solito complottismo funzionale allo stato di polizia: nascondere sotto il tappeto i veri problemi, decisamente più complessi, e reprimere una ipotetica regia occulta che muove le fila. Dopodiché ai detenuti non gli è rimasto che optare per la battaglia non violenta attraverso lo sciopero della fame. Ma non è servito a nulla. Nonostante l’indiscutibile sensibilità e buona volontà della ministra Marta Cartabia, di fatto, non è stato attuato nulla di concreto. Anche perché, nel frattempo, il governo è stato fatto cadere su iniziativa del Movimento Cinque Stelle. Il Parlamento ostaggio del populismo penale e giudiziario - Guai a cedere, guai a riformare il sistema penitenziario. Sorvegliare e punire, la parola d’ordine che in qualche modo attraversa tutto il Parlamento ostaggio del populismo penale e giudiziario. Allora cosa è rimasto da fare ai detenuti (ma anche agli agenti che vivono lo stesso malessere) per farsi sentire? Da ribadire nuovamente che ogni suicidio è a sé, ha una sua storia e vicissitudine. Però nemmeno si può fare finta di nulla e bisogna constatare che i suicidi sono aumentati a dismisura, con una inquietante media di un suicidio ogni cinque giorni. C’è una evidente escalation che non può passare inosservata. Non si può fare a meno di pensare ai regimi sovietici quando le rivolte o i dissensi non erano ammessi. Se si provava a dissentire si era tacciati di essere eterodiretti dalle entità straniere. Ai dissenzienti non gli rimaneva che il suicidio. Così avvenne e così, con i dovuti distinguo, sta avvenendo nelle patrie galere. Suicidi in carcere, lo scritto del detenuto che si è ucciso a Verona Il Dubbio, 23 settembre 2022 L’articolo di Maurizio Bertani, apparso su Ristretti Orizzonti, che si è tolto la vita mercoledì notte nel carcere di Verona. Pubblichiamo un articolo del 2007 apparso su “Ristretti Orizzonti”, a firma di Maurizio Bertani. È colui che si è ucciso l’altra notte al carcere di Montorio. Un profondo articolo che parla proprio dei sucidi in carcere. La direttrice Ornella Favero di Ristretti, lo ha ritrovato in suo ricordo. Il suicidio credo sia un attimo in cui il buio ti travolge, e non ti fa razionalmente capire cosa stia succedendo: io in carcere a volte ho passato quell’attimo, poi la ragione torna a riprendere il suo posto, e non si arriva più ad un gesto così estremo. Nel “mondo libero” però ci sono più opportunità di recupero del proprio raziocinio, per il semplice fatto che qualunque sia la disgrazia che capita, le persone hanno almeno un forte ambiente sociale e famigliare che fa da scudo e protegge. Io in carcere ci sto vivendo e anche se “a spezzoni” vi ho trascorso gli ultimi trent’anni, cosi ho avuto modo di vedere molte vite spegnersi dietro quel gesto irrazionale del suicidio. Ho visto ragazzi, ma anche adulti stremati nel fisico e nella mente per la gravità del reato commesso, ho visto gente prendere elevatissime condanne, e vivere in quel limbo di mancanza di raziocinio che spinge a gesti estremi, ho vissuto sulla mia pelle la realtà della morte di una persona cara e il fatto di non voler accettare che un padre sopravviva al proprio figlio. Più di una persona non è riuscita a “rientrare” da quella perdita totale di equilibrio e razionalità, qualcuna per fortuna ha poi ritrovato un minimo di desiderio di vivere. Ma raramente ho visto le istituzioni delle carceri dove sono stato attivarsi per prendere in carico davvero le persone, attraverso psicologi e personale competente, e dare loro assistenza e sostegno, eppure non mi possono dire che non si sono accorti del loro star male. Perfino a me, semianalfabeta in materia di psicologia, spesso queste situazioni si sono presentate chiarissime. Io sono consapevole che in carcere le persone sono più fragili perché non hanno neppure la protezione della famiglia e degli amici, ma allo stesso tempo sono convinto che chi deve sorvegliare ha le sue responsabilità: la sorveglianza di persone private della libertà dovrebbe infatti prevedere un costante lavoro di recupero sociale e di salvaguardia della vita umana. Certo ci sono episodi che nessuno può realmente prevenire, ma ce ne sono altri, forse troppi, che si potevano evitare, e non credo che sia impossibile immaginare un’attenzione diversa per le persone detenute che manifestano un disagio particolare. Mi chiedo se è giusto che tante persone muoiano in galera in una società che orgogliosamente si vanta di aver presentato all’Onu la moratoria contro la pena di morte, così lodevole sotto il profilo umanitario. E mi domando anche se non sia il caso che chi si batte contro la pena di morte cominci a indignarsi e a chiedere a gran voce che si faccia di più perché in carcere si muoia un po’ meno. O forse è meglio lasciare le cose come stanno, tanto, chi può scandalizzarsi se si suicida un detenuto, cioè un emarginato dalla società? alla fine non se ne accorge quasi nessuno, se non i suoi stessi famigliari. Carcere: l’unica riforma possibile è l’abolizione di Diego Mazzola* Il Riformista, 23 settembre 2022 L’impagabile Gherardo Colombo, in una trasmissione televisiva, ha definito sé stesso “abolizionista del sistema penale”. Anche noi, come Colombo, auspichiamo una riforma del Sistema Giustizia in un quadro che finalmente non parli di “pene alternative”, ma di “alternative al sistema penale”. È forse giunto il momento di dare seguito al “soggetto politico” caldeggiato da Luigi Manconi che preveda il superamento del sistema penale e, con esso, di quello carcerario. Ricordo che Altiero Spinelli, già nel 1949 sulla rivista “Il Ponte”, scriveva: “Più penso al problema del carcere e più mi convinco che non c’è che una riforma carceraria da effettuare: l’abolizione del carcere penale”. Del resto furono molte le personalità che si espressero per l’abolizione della vergogna del carcere penale, ovvero della “vendetta di Stato”. Soprattutto oltre i nostri per molti versi angusti confini nazionali. Solo per fare qualche esempio, devo ricordare che Thomas Mathiesen ha trascorso molti anni della sua vita a ripetere che “la ‘prigionizzazione’ è l’opposto stesso della riabilitazione, ed è l’ostacolo maggiore sulla strada del reinserimento”. Mathiesen, deceduto nel 2021, fu anche direttore dell’Istituto di ricerca sociale dell’Università di Oslo e uno dei fondatori dell’Associazione norvegese per la riforma penale. Egli chiede a noi tutti, perché continuare a segregare cittadini dal momento che il carcere è una delle più “grandi e distruttive Istituzioni della società moderna”? Prima di lasciarci egli fu anche uno dei firmatari del manifesto di “No Prison”, di Livio Ferrari e Giuseppe Mosconi. C’è un intero mondo che ha pensato all’abolizione del carcere come alla precondizione per un salto in avanti dell’umanità verso una società migliore. Mi basta ricordare Alain Brossat con il suo “Scarcerare la società”, Louk Hulsman con il suo “Pene perdute” o Nils Christie con il suo “Il business carcerario, ovvero la via occidentale al Gulag”. Se su un tema di questo genere non si cimenta la forza di un movimento transnazionale ad hoc, temo si corra il rischio di rallentare il processo abolizionista in tempi tali da permettere ancora troppe vittime di questa vera e propria barbarie e il rischio di altrettante illusioni totalitarie. Temo sia per la solida attitudine al provincialismo di casa nostra che ancora si voglia ignorare il lavoro che continua a essere svolto da I.C.O.P.A. (International Conference on Penal Abolition). Di straordinaria importanza è stato anche il lavoro di Michael Zimmerman (“The Immorality of Punishment”) e, mi dicono, di Fay Honey Knopp che negli USA scrisse “Instead of Prisons”. Come risultato di questo impegno nel 1981 i quaccheri canadesi raggiunsero una posizione comune sull’abolizione del carcere con un documento di opposizione al penalismo e al modello retributivo. Anche per loro il sistema carcerario è sia una causa sia un effetto della violenza e dell’ingiustizia sociale. Noi siamo pronti a fare nostre quelle tesi, perché ce ne siamo fatti una ragione, morale ancorché politica. A costo di ripetermi ricorderò che il Cardinal Martini era solito dire che “Qualsiasi pena [afflittiva] ha la distretta della pena di morte e della tortura, e che già il pensiero di affliggere un altro essere umano è intollerabile e perverso”. È sempre più evidente come l’incarcerazione di esseri umani, al pari della loro resa in schiavitù, è intrinsecamente immorale ed è distruttiva tanto nei confronti dei detenuti quanto nei confronti dei detenenti. I dati ufficiali ci dicono che non è in ambienti come le carceri che si garantisce sicurezza ai cittadini, proprio perché in essi si demolisce il senso stesso della dignità personale. La libertà personale può essere sospesa solo per il tempo strettamente necessario allo scampato pericolo e al reinserimento sociale del reo, e solo in luoghi aperti al controllo democratico. Confermando la tesi di Hulsman per la quale è necessaria la partecipazione delle Istituzioni, alla “politica” resta la responsabilità del fare. Tra le cose da fare, ad esempio: perché escludere una “riforma radicale” che si concentri sull’abolizione del concetto di “pena” ovvero della sofferenza e della punizione - della tortura legale di coloro che hanno trasgredito alle regole - per consentire un progetto di reinserimento consapevole nel tessuto sociale? Perché non dedicare molta più attenzione alla teoria e alla prassi della nonviolenza per introdurne la visione anche nel Sistema Giustizia, per un confronto civile in ogni genere di contenzioso, anche in quello tra Stato e cittadino? Per parte mia, sapendo che “il cattivo” non esiste, sono anni che spero che perfino Topolino non debba sempre confrontarsi con il solito Gambadilegno, supponendo che “delinquenti si è per sempre”, e che anche quelle avventure possano essere costruite intorno a una fantasia di nonviolenza. *Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino Botte ai detenuti, prassi inumana di Luigi Manconi La Stampa, 23 settembre 2022 Piacerebbe, per amor di patria, poter ridimensionare gli orribili “fatti di Ivrea”, ma la cosa risulta assai ardua. E non solo perché, come hanno scritto Giuseppe Legato e Lodovico Poletto su questo giornale, le indagini della Procura suggeriscono che violenze e abusi sono avvenuti con “preoccupante regolarità”. Il problema vero è che i presunti reati commessi in quel carcere rientrano in qualcosa di simile a una tendenza, se non a una prassi: se è vero come è vero che attualmente sono in corso almeno una ventina tra inchieste e processi che hanno per oggetto comportamenti illegali di appartenenti alla Polizia Penitenziaria. Intendiamo, con ciò, generalizzare e attribuire a un intero corpo le responsabilità personali di alcune decine di sciagurati? Assolutamente no. Ma il fatto è che questa modesta percentuale statistica di persone indagate e, talvolta, già condannate per violenze su detenuti sembra ritrovarsi in un numero significativo di istituti penitenziari (San Gimignano, Viterbo, Monza, Torino, Palermo, Milano Opera, Melfi, Pavia, Santa Maria Capua Vetere e altri ancora). E che tutte, senza eccezione, queste vicende giudiziarie evidenziano l’esistenza, all’interno di ciascun carcere, di una rete di connivenze e di complicità tali da costituire un vero “sistema omertoso”, che interviene per tutelare gli agenti coinvolti, intimidire i testimoni e le vittime, alterare e falsificare la relativa documentazione. Non a caso, in molti istituti sono stati indagati sia il direttore che il comandante della Polizia Penitenziaria; e nella vicenda a tutt’oggi più atroce, quella di Santa Maria Capua Vetere, nella catena gerarchica chiamata a rispondere di quanto accaduto si trovano figure di vertice come il responsabile regionale di tutti gli istituti della Campania. Attualmente, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, è persona seria e sollecita dei diritti della popolazione detenuta, ma la macchina che dirige è torpida e vischiosa. Servirebbero delle scosse particolarmente intense e c’è da augurarsi che il prossimo ministro della Giustizia non arrivi a rappresentare un ostacolo rispetto alla necessaria politica di radicale rinnovamento. Anche perché la crisi del carcere è strutturale. Nelle scorse settimane sono stati resi noti i dati relativi al numero dei suicidi in cella: la loro frequenza è undici volte maggiore di quella che si registra tra le persone non detenute. Ma c’è un dato ulteriore, per certi versi ancora più significativo: dal 2011 al 2022 si sono tolti la vita 78 poliziotti penitenziari, più di quanti sono stati i suicidi tra gli appartenenti agli altri corpi di polizia. Ora, basta aver sfogliato qualche fascicolo di un corso di psicologia a dispense per trarre alcune ragionevoli ipotesi. Ovvero che il carcere sia, di per sé, già a partire dalla sua struttura fisico-materiale, una macchina immanente e opprimente, destinata a produrre patologie, depressione, psicosi: per i custodi e per i custoditi. Come stupirsi che quel sistema chiuso e quella istituzione totale possano generare violenza? E che, a parte i rarissimi casi di individui inclini al sadismo, quella violenza possa apparire come la via d’uscita, comunque impotente e “disperata”, da uno stato frustrante e, alla lettera, in-sensato? È probabile che proprio così sia e che questo valga per i detenuti come per gli agenti: e che, per questi ultimi, l’esercizio della violenza, all’interno di una struttura fortemente gerarchizzata, sia una forma di affermazione di sé rispetto a una condizione lavorativa spesso molto pesante (turni assai lunghi e straordinari obbligatori), povera di soddisfazioni e soprattutto - cosa che troppo spesso si dimentica - pressoché interamente concentrata su quella singolare attività che vuole esseri umani imprigionare, custodire e controllare altri esseri umani. E manovrare chiavi e chiavistelli, sbarre e blindati, vigilare su cancelli e perquisire letti, indumenti, corpi. Si aspetti dunque il processo per apprendere se gli indagati di Ivrea siano colpevoli o meno, ma non si dimentichi mai che il carcere quale è costituisce un sistema patogeno e criminogeno indirizzato come una insidia contro l’intera collettività. Il corpo recluso senza alcuna difesa di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 23 settembre 2022 Anche nei fatti di Ivrea emerge in modo inquietante il ruolo dei medici. Inquietante perché appaiono silenti o complici attivi della violazione del corpo recluso, quel corpo che Daniel Gonin, medico penitenziario che molto ne ha scritto, descrive come “quel sacco di pelle” dentro cui chi è detenuto tenta di proteggersi, di rimanere intero. Un sacco di pelle aggredito, offeso, lacerato, che si ritrova senza alcun difensore. Il medico dovrebbe essere questo difensore: per deontologia, per dovere, per dignità, per autonomia. La complicità dovrebbe essere quella tra medico e paziente, con il suo diritto all’inviolabilità e alla cura, non con chi vi attenta. Inquietante anche perché questa subordinazione ancillare dei medici ai poteri che governano il carcere, e ai suoi riti più oscuri e violenti, è ricorrente, non una eccezione. Fa impressione leggere i verbali delle violenze a Sollicciano, a San Gimignano, a Torino, fino ai morti del carcere di Modena: pongono interrogativi radicali non solo sui singoli medici coinvolti, ma su un sistema e su una cultura della pena. Il corpo di chi è recluso/a appare un corpo a perdere, un corpo-oggetto, su cui già si esercitano tutti i dispositivi di annichilimento della detenzione, ed è proprio per questo che dovrebbe scandalizzare che chi ne ha (ne dovrebbe avere) la tutela, giri lo sguardo o peggio regga il gioco, come se lavorare lì dentro significasse derogare a tutto ciò che un medico deve fare ed essere. Con il passaggio della medicina penitenziaria al Servizio sanitario nazionale, nel 2008, si intendeva avvicinare il diritto alla salute di chi è recluso a quello di ogni altro cittadino. Insomma, pari prestazioni e pari diritti. Non è andata così, non sta andando così. E non solo nelle situazioni più estreme, dove il gesto di un medico può salvare incolumità, dignità e vita di chi è recluso; ma anche spesso - fatti salvi quanti restano fedeli alla loro professione - nel quotidiano, quando si ha a che fare con il rispetto di privacy e riservatezza, con il diritto alle cure, con condizioni (aria, luce, movimento, cibo, isolamento…) che violano salute e diritti fondamentali. Troppo spesso si glissa, si deroga, si delega. Si tace. Questa ancillarità non è giustificata dalla legge, è solo una questione di potere, tra poteri. La professione medica dovrebbe rivendicare il suo, di potere: che è quello di non permettere che “quel sacco di pelle” venga lacerato. *Forum Droghe “Mai più bambini in carcere”: la politica ha dimenticato questa promessa di Viviana Lanza Il Riformista, 23 settembre 2022 “Mai più bambini in carcere”, aveva detto la ministra Marta Cartabia quasi un anno fa. Il governo si era impegnato a votare la proposta di legge presentata dal deputato napoletano Paolo Siani, una proposta che è stata lasciata per tanto tempo chiusa in un cassetto e poi rispolverata a fine maggio quando finalmente alla Camera c’è stata la prima approvazione con 241 voti favorevoli e 7 contrari. La proposta di legge è finalizzata a promuovere il modello delle case famiglia protette per detenute madri con figli piccoli al seguito, in modo da escludere che donne e figli conviventi di età inferiore ai sei anni siano costretti a vivere da reclusi. Una soluzione per porre rimedio a un orrore italiano, quello dei bambini dietro le sbarre. Perché anche se in questi anni (pochi per la verità) si è passati dalle carceri vere e proprie ai cosiddetti Icam (istituti a custodia attenuata) è pur vero che si tratta di istituti di pena, di luoghi concepiti per la reclusione. Il fatto che gli agenti della penitenziaria non indossino la divisa e che le pareti siano colorate invece di essere tutte bianche o grigie non modifica la natura di quei luoghi, concepiti per sorvegliare e limitare la libertà di chi li vive. Quindi anche dei bambini. Si era detto mai più piccoli in cella, dicevamo. E invece i numeri diffusi nell’ultimo report del Ministero della Giustizia ci dicono che sono ancora quasi tutti lì dove sono sempre stati da quando sono nati. Quasi tutti, perché in questi ultimi mesi in Campania si è registrata una sola “scarcerazione”, un solo caso di un bambino che ha potuto lasciare l’Icam di Lauro (unica struttura di questo tipo in Campania). Gli altri piccoli sono tutti “dentro”: hanno cominciato un nuovo anno scolastico vivendo all’interno di custodia attenuata, aspettando il pulmino di buon’ora, perché ogni mattina va prenderli prima degli altri alunni in modo da non far vedere a nessuno dei compagni di scuola che quei piccoli vivono in una sorta di carcere invece che in un normale condominio, e tornando a casa più tardi di tutti gli altri, perché sono gli ultimi ad essere accompagnati a casa sempre per lo stesso motivo di cui sopra, e cioè per non far vedere che la loro casa è dietro i cancelli e le mura alte di una struttura penitenziaria. Vi sembra tutto normale? Possibile che la politica abbia dimenticato la sua promessa? Possibile che se ne disinteressi soltanto perché si tratta di numeri piccoli? Parliamo di ventitré donne detenute con ventiquattro bambini al seguito complessivamente in Italia, la maggior parte dei quali, tra l’altro, sono donne e bambini stranieri. I dati del Ministero della Giustizia, aggiornati al 31 agosto, confermano che è in Campania il numero più consistente di piccoli “detenuti”: dieci bambini, costretti a vivere in celle camuffate da monolocali con le loro mamme. Parliamo di dieci donne in totale. Numeri che non allettano la politica, attirata da cifre a molti più zeri. Numeri che però sono sufficienti a far parlare di un dramma silenzioso e ignorato. Un dramma che la stessa ministra Cartabia aveva definito inaccettabile, tanto da affermare pubblicamente l’impegno del governo ad evitare in futuro bambini in carcere. Poi la caduta del governo, i diversi scenari politici, le imminenti elezioni che spostano le priorità di chi ambisce a guidare il Paese, e il tema dei minori in cella e delle mamme detenute è per forza di cose finito nell’ombra, dimenticato e accantonato. Eppure bisognerebbe tenere a mente questa realtà, perché riguarda bambini innocenti, piccoli di pochi mesi o di pochi anni, costretti a muovere i primi passi all’interno di luoghi delimitati dalle sbarre, a scandire i ritmi delle loro giornate con le rigide regole penitenziarie, ad ascoltare il rumore delle chiavi nei cancelli e pronunciare come prime parole “apri”, “chiudi” e tutti i termini del gergo penitenziario, conoscendo il mondo attraverso i filtri e le sbarre della reclusione. Vi sembra giusto? “Sbattiamoli in cella e facciamoli lavorare”. Magari... solo il 13% dei detenuti è occupato di Viviana Lanza Il Riformista, 23 settembre 2022 Il lavoro nobilita l’uomo, recita un antico proverbio. La mancanza di lavoro è tra le cause del degrado e della criminalità, sostengono quelli che studiano le dinamiche sociali. Il lavoro sarà la priorità, promettono i politici salvo poi non riuscire quasi mai a mettere in pratica quello che dicono. L’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro, recita la nostra amata e a volte dimenticata Costituzione. Già, il lavoro. Un tema centrale nella vota di ognuno. Anche di chi vive dietro le sbarre, se è vero che è l’ago della bilancia negli equilibri della vita di ogni cittadino. In Campania, regione con i più alti livelli di disoccupazione, sembra quasi un’incongruenza parlare di lavoro per i detenuti, perché ci sono migliaia di disoccupati nel mondo fuori dal carcere. Ma questo non può essere l’alibi per evitare di affrontare di petto uno dei nodi centrali del sistema penitenziario, uno dei tanti nodi irrisolti che ingarbugliano la funzione rieducativa della pena costituzionalmente prevista, mortificano i diritti di chi vive dietro le sbarre, rendono un inferno i luoghi della pena. I dati sui suicidi e sulle morti in cella hanno raggiunti cifre che urlano tutta la violenza che c’è nel mondo penitenziario, tutta la drammaticità, tutto il fallimento dell’intero sistema. Di carcere si è sempre parlato poco, perché non è un tema che interessa alla politica, non fa avere voti, non incide sui consenti populistici e popolari. Anzi, per decenni si è cavalcata l’onda del populismo giustizialista e tutti a dire che bisognerebbe buttare la chiave, salvo poi ritrovarsi con una società sempre più votata alla violenza, con tassi di recidiva alti e un senso di insicurezza ancora più diffuso di prima. Che vuol dire? Vuol dire che la direzione deve essere un’altra, che bisogna rendere i luoghi della pena luoghi di responsabilizzazione e reinserimento sociale in modo da ridare alla pena la sua naturale funzione, quella di rieducare come dice la Costituzione. Vuol dire tener presenti studi ed esempi europei secondo cui la recidiva si abbassa nei casi di detenuti che hanno seguiti percorsi alterativi alla reclusione finalizzata a sé stessa, che in carcere hanno avuto la possibilità di studiare e di lavorare. Torniamo al lavoro. Che in carcere non c’è. Che a volte non c’è nemmeno per quelli che potrebbero beneficiare di misure alternative, figurarsi per chi è in cella e basta. “Eppure il lavoro in carcere dovrebbe essere una parte fondamentale del percorso trattamentale e del processo di risocializzazione delle persone detenute”, ci ricorda Antigone, associazione impegnata da anni nella tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale e penitenziario. “Eppure in carcere il lavoro è poco e nella maggior parte dei casi dequalificato e con scarsa spendibilità all’esterno”. Antigone ha visitato diversi istituti di pena e raccolto dati relativi alla presenza di esperienze lavorative nei percorsi di recupero dei detenuti. Il risultato è questo: in media solo il 33% dei detenuti è impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria e solo il 2,2% dei reclusi è in media impiegato alle dipendenze di altri soggetti. Questi numeri descrivono la situazione all’inizio dell’anno. E sono numeri ancor più avvilenti quelli che fanno riferimento alla realtà napoletana, e più in generale campana. In Campania, infatti, queste percentuali scendono drasticamente fino ad arrivare allo 0,3%. A Poggioreale, tanto per prendere come riferimento il più grande carcere della città, della regione e per la verità dell’Italia intera, su una popolazione di oltre duemila detenuti (si arriva a sfiorare e talvolta a superare i duemiladuecento reclusi) è merso che lavorano solo in 280, cioè meno del 13%. Antigone sottolinea che inoltre gli istituti scelgono di far lavorare i detenuti solo per poche ore e per pochi giorni, così da offrire possibilità lavorative a più persone possibile. “Ma questo - fanno notare - fa sì che lo stipendio percepito sia molto ridotto e spesso basti solo a pagare i costi del mantenimento”. Il carcere cancella perfino il diritto a piangere i lutti di Ginevra Lamberti* Il Domani, 23 settembre 2022 Non esiste letteratura scientifica sul lutto vissuto da chi è in carcere. La scelta di partecipare oppure no a un rito funebre è molto personale e soggettiva: ma questa possibilità per chi sta scontando una pena di reclusione dipende da molti (e variabili) fattori esterni. Le persone carcerate spesso vengono completamente escluse dagli ultimi momenti di vita dei loro cari e non hanno modo di piangerne la morte. Siamo abituati a percepirci come amministratori generali del nostro dolore. Anche se capita di subire influenze esterne, pressioni sociali o famigliari, anche se veniamo fuorviati dallo stress o dalla frenesia degli eventi, ci sentiamo incaricati di decidere per noi stessi. In modo più o meno opportuno, più o meno informato, ma comunque in autonomia. Tra le molte situazioni che prevedono di dover prendere una decisione, quella di partecipare oppure no a un funerale, di confrontarsi oppure no con la visione di una salma, è questione molto soggettiva. Lo spettro dei pareri è ampio e piuttosto fluido, la propensione di un individuo verso una direzione piuttosto che un’altra può dipendere dai più vari fattori (l’età, una particolare fase della vita) e modificarsi nel tempo. Pensiamo di rado, o piuttosto non pensiamo mai, al fatto che quella di vivere il lutto e partecipare al rito funebre non è per tutti una scelta che possa essere davvero compiuta in libertà. Lutto e carcere - Ogni mattina ci alziamo e sappiamo che la nostra giornata sarà scandita da una serie più o meno precisa di impegni inderogabili e piccoli riti, e che il principio vale anche per gli archi temporali più estesi, fatti di settimane, mesi e anni. Una sera risalente a poco prima dello scorso Natale, per esempio, partecipavo alla presentazione di un libro calendarizzata da tempo. Era strano parlare in pubblico dopo mesi di fermo, era un piacere incontrare persone che non vedevo almeno dall’inizio del 2020. Tra queste c’era Giulia Ribaudo, fondatrice dell’associazione culturale Closer. Closer esiste dal 2016 e si occupa di portare cultura nei luoghi in cui è più difficile farla arrivare. Una delle realtà in cui volontarie e volontari sono più attivi è quella del carcere femminile della Giudecca, a Venezia. Fin dal suo principio la pandemia ha per forza di cose bloccato e rallentato anni di attività che, in un’operazione di osmosi tra il dentro e il fuori, hanno visto la nascita di eventi aperti al pubblico e gestiti dalle stesse donne detenute. Proprio dal blocco pandemico è nata l’idea di creare Piombi, una newsletter che continuasse a parlare al mondo fuori di che cosa vuol dire essere dentro. Quella sera Ribaudo mi ha chiesto se avrei avuto piacere di scrivere un contributo. Nello specifico chiedeva se potessi scrivere qualcosa sul lutto vissuto dalla detenzione. Le ho confermato che ero senz’altro interessata. Ero interessata, soprattutto, a iniziare a ragionare su un tema rispetto al quale non mi ero mai posta domande. Il vuoto di ricerca - Le ho chiesto a quale tipo di lutto si riferisse esattamente. Ha risposto: “A quello di chi sta dentro al carcere e perde qualcuno che si trova fuori”. Ho cercato materiale che potesse aiutarmi ad avere un primo approccio teorico a un campo per me nuovo e quel che ho trovato è stata un’approssimazione abbastanza precisa del nulla. Ho attribuito lo stallo a una mia mancanza di famigliarità con il tipo di ricerca e fatto quel che faccio in genere in questi casi, ovvero chiedere a chi ha molta più esperienza di me. Ho scritto alla professoressa Ines Testoni. Nei pezzi a tema “morte” non è raro che la citi, perché è una delle massime esperte italiane in tanatologia e death education. Testoni ha risposto con l’usuale prontezza e detto qualcosa che, in tutta onestà, forse ingenuamente, non mi aspettavo. Ha confermato che “non esiste letteratura scientifica sul lutto vissuto dalle persone carcerate” e sottolineato che non esiste perché, anche in questo campo, si tratta di una popolazione messa ai margini, tenuta lontana dagli occhi e da qualunque forma di ricerca che implichi una riflessione etica sulla sua condizione. Il primo passo per parlare di una mancanza è parlare del vuoto che la configura come tale, di com’è fatto, del perché esiste e per quali ragioni andrebbe riempito. Procederemo dunque per piccoli passi e partiremo dal considerare che vivere in un carcere, insieme alla naturale scansione del tempo, fa saltare i concetti di passato, presente, futuro e, con essi, quello del rito. Chiediamoci, dunque: che cosa significa attraversare un eterno presente svalorizzato e svuotato dei contenuti che fanno una società? Che cosa succede quando in questo eterno presente fanno irruzione la morte e il lutto? Problemi burocratici - “Volevo che venisse trattato il tema della morte in carcere perché, parlando con le donne detenute, mi sono resa conto che questo tema non viene particolarmente affrontato. In questo contesto, il fatto che una persona possa partecipare o meno al rito dipende da diversi fattori”. Quando affrontiamo l’argomento, Ribaudo spiega che la possibilità di partecipare a un funerale dipende dall’avere un permesso, dal vederselo negato, oppure dal non riceverlo in tempo. “Questo”, prosegue, “è l’aspetto burocratico, poi c’è quello della comunicazione. I problemi di comunicazione sono legati al fatto che la persona detenuta può non ricevere notizia della morte del suo caro in tempo utile per richiedere il permesso. Nel caso di malattia, non è inoltre scontato che i parenti ne diano informazione”. Poiché a causa dell’aspetto burocratico non è detto che il lutto possa essere vissuto insieme, per non arrecare ulteriore sofferenza le persone carcerate sono talvolta tenute all’oscuro dello stato di malattia irreversibile dei loro affetti. “È successo”, spiega Ribaudo, “che mi venisse raccontato dell’omissione del lutto stesso”. Emergono in particolare due casi, che dettagliamo il meno possibile per rispettare l’anonimato donne detenute. Il primo è quello di una dolente che non riceve notizia della morte di un affetto, ma arriva a comprenderlo da sé attraverso una serie di indizi legati a comunicazioni mancate da parte della persona defunta. Il secondo è quello di una dolente che riceve notizia della morte di un affetto, ma non può partecipare al rito né ha modo di condividere la fase dell’elaborazione con le altre persone coinvolte. Questo lutto sarà messo da parte - quasi fosse chiuso in una scatola mentale - per un tempo lungo e, infine, riproposto dopo anni a interlocutori esterni come fosse una novità recente. L’elaborazione del lutto è il percorso attraverso cui processiamo una perdita. La sua importanza consiste nel fatto che ci permette di ricominciare a vivere nonostante il dolore. Ci permette, in altre parole, di reagire in modo che questo non si cristallizzi in forme traumatiche, patologiche o invalidanti. Questo non significa negare la sofferenza né cancellare la memoria, bensì affrontare l’una e dare un posto all’altra. Può essere un percorso lungo e difficile, durante il quale si proveranno una vasta gamma di sentimenti. A fasi alterne e in modi imprevisti e imprevedibili si proveranno rabbia, vuoto, negazione, depressione, difficoltà di concentrazione, scollamento dalla realtà, desiderio di coprire tutto con forme di iperproduttività. Immaginiamo ora di vivere questa esperienza da un carcere. Un pezzo di quella costellazione che rappresenta il mondo fuori, verso cui tendiamo e che ci fa andare avanti, non esiste più. Nella migliore delle ipotesi lo abbiamo visto e salutato, magari esprimendo il nostro affetto, durante una visita in tempi relativamente recenti. Sempre nella migliore delle ipotesi, le comunicazioni con l’esterno e con gli altri affetti coinvolti sono state adeguate, i tempi della burocrazia hanno collimato con quelli della morte e, infine, siamo riusciti ad assistere alla cerimonia funebre. Nella peggiore delle ipotesi niente di tutto questo si è verificato e il quadro risulterà ben diverso: le comunicazioni potrebbero essere state difficoltose, i tempi della burocrazia ostici, il permesso di assistere al rito potrebbe essere stato negato o essere giunto troppo tardi. Nel periodo successivo a questi eventi si potrebbe poi desiderare la solitudine. Si potrebbe voler sentire spesso, o in momenti specifici e improvvisi, la voce dei dolenti che condividono la stessa perdita. Si potrebbe desiderare di partecipare con gli altri cari alla cernita degli oggetti del defunto, e magari avere con sé qualcosa di suo. Si potrebbe non desiderare niente di tutto ciò e versare in uno stato di profondo ottundimento. Si potrebbe aver bisogno, senza magari neanche saperlo, di una psicoterapia mirata. Tutto questo, all’interno di un carcere, risulterà essere molto complesso o impossibile, e questa complessità o impossibilità appesantiranno ulteriormente il carico della persona dolente. *Scrittrice Carceri: è emergenza salute mentale in Italia e Francia di Veronica Gennari thebottomup.it, 23 settembre 2022 L’estate 2022 è stata particolarmente problematica per gli istituti carcerari italiani e francesi. In Italia si denuncia l’anno con il più alto tasso di suicidi (59 fino ad ora, superando i 57 totali del 2021), mentre in Francia i detenuti nella prigione di Fresnen, nella periferia sud di Parigi, vivono in condizioni malsane, come mostrato dalla tv BFMTV. Alla luce di questi avvenimenti, The Bottom Up ha ha cercato di capire la condizione della salute mentale dei detenuti nelle carceri italiane e francesi, e quanto le attività proposte dagli istituti (prima fra tutte la possibilità di seguire lezioni scolastiche e diplomarsi) possano in parte prevenire l’aggravarsi di fenomeni depressivi. Emergenza salute mentale - “In tanti istituti gli operatori ci parlano dell’emergenza salute mentale. Ci sono molti detenuti con malattie mentali importanti, e non sono ben voluti dagli altri detenuti perché sono molesti o violenti. La domanda dei servizi relativi alla cura della salute mentale è aumentata, e gli operatori non sono sufficienti per garantire le cure necessarie”, dichiara Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizioni di detenzione per Antigone, associazione per i diritti e le garanzie nel sistema penale. Le sue parole sono indice di un’emergenza che sta attraversando tutti i 189 istituti penitenziari italiani, testimoniata da un numero straordinario di suicidi. Il perché di questa emergenza rimane in gran parte sconosciuto. Non sembrano esserci variazioni o fenomeni specifici del 2022 che possano spiegare numeri così alti. L’unica differenza rimarcata dal coordinatore dell’osservatorio è, in realtà, esterna alle carceri stesse: un aumento della depressione anche nella società “libera”, fenomeno dimostrato dall’introduzione del bonus psicologo. È’ un fatto mai avvenuto prima, indice di una popolazione che presenta una fragile salute mentale, fenomeno acutizzato in un universo piccolo e singolare come quello del carcere. Patrizia Volpe, dottoressa di scienze politiche all’università di Rennes 1 e autrice del libro Il carcere, un luogo dimenticato. Una ricerca sociologia tra Italia e Francia, conferma che anche in Francia il numero dei suicidi in carcere è alto. L’associazione Oip (Observatoire International des Prisons) riporta che nel 2020 119 persone sono morte suicide in carcere. I dati non sorprendono la dottoressa: “l’emergenza salute mentale è un po’ il fil rouge del carcere”, dice. “In un ambiente molto rigido, violento e ristretto, se è presente una persona malata di mente, il disagio non resta isolato: l’ambiente stesso diventa in qualche modo contagioso”. La vita in prigione: il carcere come causa del suicidio? Il carcere non è la causa diretta dei suicidi dei detenuti al suo interno, ma ne è un’aggravante. A una popolazione (quella carceraria) già molto fragile a livello emotivo e di salute mentale a causa della mancanza di libertà, si aggiungono infatti ambienti sovraffollati, violenza, monotonia e mancanza di igiene. In Italia la vita in carcere si svolge in celle piccole, spesso progettate come singole ma usate già in partenza per due o più persone. In Italia molti istituti si trovano in edifici vecchi, a volte storici, non adatti a fornire una condizione di vita dignitosa a un gran numero di persone. In Francia le condizioni di vita non sono molto diverse, anche se Patrizia Volpe sottolinea che, mentre in Italia si attua una sorveglianza dinamica, grazie alla quale il prigioniero è più libero di muoversi nel carcere, in Francia la vita è molto più statica. Una grande differenza si trova sicuramente anche nella garanzia della salute. Se l’Italia garantisce un medico presente in prigione 24 ore su 24, in Francia questo servizio è garantito fino alle ore 17. È inevitabile, quindi, che ogni problema medico insorto dopo quell’ora (autoinflitto o di causa naturale) comporti un rischio di mortalità molto più elevato. In entrambi i Paesi sono inoltre garantite attività diverse all’interno dell’istituto stesso: lavoro, formazione professionale, istruzione. Queste sono fondamentali per spezzare quella che Volpe ha definito come “la più grande malattia” del carcere, che porta a fenomeni distruttivi quali il suicidio ed l’autolesionismo: l’apatia. In Francia i detenuti vivono molto più separati e affrontano in questo modo anche gran parte delle formazioni. In Italia la vita è più comunitaria: corsi, di formazione o scolastici, sono seguiti in gruppo e le lezioni sono garantite in presenza. Una debolezza del sistema italiano è costituita dalla sua forte disparità. Alessio Scandurra di Antigone spiega che tutte le attività del carcere sono garantite dal territorio e, in quanto tali, dipendenti da esso. Scontare la pena nel carcere di una grande città permette di avere accesso a più formazioni e corsi più vari rispetto alle attività fruibili in un carcere di un piccolo centro o di un territorio meno attivo. Diversamente, in tutta la Francia, le attività di formazione sono state fortemente potenziate. La formazione professionale propone tanti corsi diversi ed è presente un centro dedicato (pole emploi) che si occupa del reinserimento professionale post carcere. Questo va a scapito dell’istruzione, che è messa in secondo piano rispetto al lavoro. “Mancano tutti i corsi straordinari che ci sono in Italia, per esempio l’università”, dice Patrizia. “In Francia ho incontrato solo il caso dell’Université Paris Diderot, mentre in Italia in questo momento c’è un coordinamento nazionale con 32 poli che operano dentro le prigioni con lezioni in presenza”. Le soluzioni - È difficile parlare di soluzioni valide sempre e per tutti. Un primo passo importante, secondo il coordinatore dell’osservatorio di Antigone, è sicuramente quello di “cercare di dirottare nei limiti del possibile questi casi al di fuori del carcere, in istituti appositi”. Questo può avvenire nei casi in cui è prevalente la dimensione della patologia psichiatrica rispetto a quella della pena, e permetterebbe di fornire ai detenuti che ne hanno bisogno le cure necessarie e creerebbe un ambiente più disteso e positivo. Le due principali soluzioni preventive sono i legami familiari e affettivi, e le attività proposte. Il mantenimento del rapporto con la famiglia è in gran parte ostacolato nelle prigioni italiane. Prima dell’emergenza Covid-19 i detenuti godevano di soli dieci minuti di telefonate alla settimana, secondo una legge che risaliva al 1975, e tuttora non godono della possibilità di avere colloqui intimi non supervisionati con il/la proprio partner (come è invece possibile in tanti altri stati europei, tra cui la Francia). “È un grande tema”, spiega Alessio, “perché il risultato di tutti questi ostacoli è che la persona quando esce può ritrovarsi solo, senza una famiglia. Uscire dal carcere senza una rete di persone che ti sostengono porta facilmente al ritorno alla criminalità”. Anche Patrizia Volpe concorda su questo punto. Per lei il rapporto con la famiglia è da tutelare perché capace di abbassare il tasso di recidiva: “Se uno ha degli affetti che lo aiutano e lo sostengono, se il detenuto è comunque stato parte della casa e della famiglia e non ritorna come un estraneo dopo anni, il tasso automaticamente si abbassa e il ritorno in società è più facile”. Per quanto riguarda i rapporti affettivi, la Francia dona più possibilità di contatto tra detenuti e famiglie. Esiste infatti il diritto a passare tempo non supervisionato con la propria famiglia in appositi appartamenti chiamati unità parentali. Altro punto importante: le visite sono meglio organizzate e gestite. Se in Italia queste comportano lunghe attesa in sale spoglie, in Francia l’attesa è attrezzata per ospitare famiglie con bambini e cerca di sveltire al massimo le procedure. Questo influenza direttamente il colloquio con il detenuto. “Immaginiamoci un bambino che è stato un’ora e mezza in fila”, dice Patrizia Volpe. “Arriverà di malumore e non sarà contento di vedere suo padre in prigione. La volta successiva non vorrà andare, perché avrà serbato un cattivo ricordo del carcere”. Un secondo punto fondamentale nella lotta alla malattia mentale è costituito anche dall’insieme delle attività proposte. In un micro-universo in cui le giornate si assomigliano l’una all’altra, in cui la speranza di un futuro viene a mancare e l’inattività è un problema, le attività proposte dal carcere stesso (lavori, formazioni, scuola) hanno la possibilità di movimentare la vita dei carcerati e donare loro speranza. L’educazione soprattutto ha un ruolo di rilievo. “Il mio mantra”, dice Patrizia Volpe, “è che bisogna potenziare l’educazione. La differenza tra l’educazione in carcere e la formazione professionale è che lo studio cambia la testa, è proprio una questione di forma mentis. È un fenomeno graduale ma arriva molto più in profondità. Serve a sviluppare una mente critica: lo studio garantisce un lavoro introspettivo che un corso di formazione fino a se stesso non può garantire”. Voci dal carcere: l’insegnante - “Insegnare in carcere? È impossibile”. Queste le parole di una professoressa di italiano, greco, latino e storia di liceo, insegnante al carcere di massima sicurezza di Parma tra il 2016 e il 2017. La professoressa spiega le complessità dell’insegnamento in prigione, che rendono molto difficile il normale svolgimento di una lezione. Già dall’ingresso nell’edificio le limitazioni sono tante. L’accesso è consentito solo tramite previo riconoscimento e metal detector e si è sempre scortati da una guardia carceraria. “Il passaggio è nettissimo”, spiega. “Tutti quegli step necessari per entrare in classe per un anno per me sono stati psicologicamente pesanti”. Ogni supporto digitale, tra cui il computer, è proibito e il materiale si basa sulle sole (poche) fotocopie fornite dall’insegnante e controllate dalle guardie. Le lezioni, svolte in un’aula con lavagna di ardesia nera, si svolgono davanti a piccoli gruppi di circa 15 persone. “Il gruppo era estremamente eterogeneo. La fascia di età andava dai 25 anni fino ai 60 o 65 anni”. L’eterogeneità della classe è data da due fattori. Il primo: i detenuti che vanno a scuola ricevono una piccola sovvenzione, così come quelli che lavorano, spendibile dentro al carcere stesso. Il secondo: la rottura della routine, trovare una fonte di interesse. “Mi ascoltavano sempre tutti”, ricorda. “Pochi alunni mi hanno mai seguita così quando parlavo di Angelica e Medoro, de La Gerusalemme Liberata o di Machiavelli”. In parte al mattino, in parte al pomeriggio, le lezioni trattano raramente di argomenti di attualità, mentre si concentrano sulla storia e sulla letteratura. “Erano molto interessati dalle lezioni di Storia, curiosi e attenti. Nelle lezioni di italiano abbiamo spesso affrontato, così come si fa in tutte le scuole superiori, argomenti importanti: il suicidio, la libertà, l’autolesionismo”, dice l’ex professoressa carceraria. Parlando dell’importanza della comunicazione all’interno della prigione, della riflessione e dell’ascolto, dice: “la scuola è molto utile, serve a restituire quell’umanità che, in carcere, manca”. Nonostante le difficoltà di quel lavoro, l’insegnante è convinta dell’utilità dell’istruzione per i detenuti, che siano essi da reinserire in società o che siano condannati all’ergastolo, “dà loro speranza”. Processi “lumaca” e carceri strapiene. Giustizia alla prova del dopo Cartabia di Vincenzo R. Spagnolo Avvenire, 23 settembre 2022 Mancano oltre 1.600 magistrati. A Roma il Tribunale ha annunciato la sospensione delle udienze collegiali da metà ottobre per sei mesi. Nel settore giustizia, osservato speciale dall’Unione Europea anche per via dei fondi collegati al Pnrr,sono ancora molti i nodi da sciogliere e i problemi da risolvere. E, nonostante i primi tentativi avviati con le riforme targate Marta Cartabia, i segnali di insofferenza sono ancora tanti. Uno dei più visibili, quasi un Sos, l’ha lanciato a fine agosto il Tribunale penale di Roma, con un annuncio choc: l’intenzione di sospendere da metà ottobre per sei mesi le udienze collegiali provenienti dalle decisioni dei gup, per via dei vuoti nell’organico negli uffici giudiziari capitolini. Un gesto a effetto, inedito, per denunciare lo stato in cui versa il tribunale romano, che tuttavia non è certo il solo in Italia, anche se la sua mole di procedimenti arretrati incide in termini percentuale rilevanti sul carico nazionale. Proprio il problema dell’organico carente è uno di quelli più rilevanti, in questi anni, nel settore. Attualmente mancano circa 1.617 magistrati, su una pianta organica di 10.558, in pratica oltre il 15% in meno. Con vuoti, in molti tribunali, che costringono i colleghi in servizio a una redistribuzione dei carichi di lavoro non sempre agevole da sopportare, allungando i tempi della definizione dei processi, che invece dovrebbero essere abbreviati. Gli obiettivi fissati infatti dalla Commissione Europea per il 2026 sono chiari e impongono la riduzione del disposition time (il tempo di durata dei procedimenti) complessivo per i tre gradi di giudizio, con tre asticelle differenti: il 40% in meno nel settore civile; 25% in quello penale; l’abbattimento del 90% dell’arretrato. L’introduzione dell’Ufficio del processo, realizzata dalla Guardasigilli uscente Cartabia insieme al governo, e le assunzioni già avviate o in programma sono un robusto tassello della strategia per arrivare a dama. Il personale in arrivo e coloro che hanno già superato o supereranno i prossimi concorsi andranno infatti a sopperire in parte alle carenze. Ma, e questo è il nodo più urgente, non da subito. Se infatti è stato annunciato a fine agosto un nuovo bando da 400 posti a concorso, pare che si dovrà attendare l’insediamento del nuovo esecutivo e l’emanazione dei nuovi decreti legislativi in materia per regolare l’accesso dei nuovi assunti. Il piano di assunzioni legato al Pnrr prevede anche il reclutamento di oltre 16mila funzionari (8mila dei quali già entrati in servizio) e concorsi per l’assunzione di 5.400 tecnici statistici e informatici, per favorire la digitalizzazione dei vecchi faldoni e aiutare l’amministrazione e smaltire l’arretrato. Nel frattempo, i magistrati in servizio e il personale di cancelleria e amministrativo continuano a confrontarsi con la montagna di cause arretrate e con quelle appena aperte. Nel settore penale, a inizio anno, la pendenza complessiva ammontava a oltre due milioni e 540mila processi (con una variazione del 3,8% in meno rispetto all’anno prima). Nel settore civile, si è registrato un incremento (più 9,8%) delle definizioni dei processi rispetto all’anno precedente, mentre le nuove iscrizioni di cause sono cresciute solo dell’1,9, cosa che fa ben sperare rispetto alla possibile ulteriore riduzione dell’arretrato, che è sceso a 3 milioni e 100 procedimenti pendenti, dato positivo, se si pensa che una decina di anni fa erano oltre 5 milioni. Resta tuttavia una concentrazione di cause civili, circa 110mila, in attesa in Cassazione. Negli ultimi due anni alcune risposte, attraverso le riforme, sono arrivate, ad esempio attraverso le modifiche del diritto fallimentare o la legge delega del processo civile, pensata per snellire le procedure e favorire le forme alternative di risoluzione delle controversie, in grado di alleggerire il carico dei tribunali grazie a strumenti come la mediazione, gli arbitrati o la negoziazione assistita. Per migliorare l’efficienza della giustizia penale, sono stati previsti termini massimi per la conclusione dei processi in Appello e in Cassazione, introducendo in caso del loro superamento una improcedibilità. C’è tuttavia da monitorare i processi in corso per scongiurare il rischio che le nuove misure incidano in negativo sulle cause pendenti, alterando il corretto equilibrio tra l’interesse pubblico all’efficienza del procedimento e i diritti di difesa e quelli delle vittime ad avere giustizia. La legge delega sulla riforma del processo penale è stata pensata per semplificare l’apparato procedurale, prevedendo incentivi per i riti alternativi (comprese forme alternative di sanzione rispetto alla detenzione in carcere e l’innovazione della giustizia riparativa). Quella carceraria, nel pianeta giustizia, è una delle situazioni più allarmanti e gravi, da anni. Il sovraffollamento dei 190 istituti penitenziari è tornato a essere pesante: In estate, a fronte di quasi 51mila posti disponibili sulla carta, si contavano quasi 55mila detenuti. Ma secondo l’associazione Antigone, in realtà almeno “3.665 posti non sono disponibili” per vari problemi logistici, il che porterebbe la capienza effettiva a 47mila, “con un sovraffollamento reale del 112%”. Almeno 130 istituti versano in condizioni peggiori e 25 hanno un sovraffollamento sopra il 150%, alcuni oltre il 190%, come a Latina o nel milanese San Vittore, a Busto Arsizio, Lucca o Lodi. Gli osservatori di Antigone hanno scoperto, nelle loro visite, che in un istituto su tre esistono celle in cui non vengono garantiti i 3 metri quadri calpestabili minimi per persona. Inoltre, quasi nel 60% delle celle non c’è nemmeno una doccia, nonostante un regolamento penitenziario datato 2000 (ossia 22 anni fa) prevedeva la realizzazione di docce in ogni camera di pernottamento entro il 2005. Condizioni di detenzione, dunque, ancora arcaiche, che spesso contribuiscono ad aumentare un malessere che arriva a sfociare in gesti estremi. Un’altra emergenza è infatti la tragedia dei continui suicidi, in netto aumento rispetto al 2021 e che ha destato la preoccupazione del Garante per le persone private della libertà Mauro Palma e del Dap, che ha varato una circolare a fine estate. Su alcuni aspetti della situazione carceraria, ad esempio sulla delicata questione delle madri detenute, nei programmi di alcune forze politiche sono presenti proposte di riforma. Ma è presumibile che l’inizio della nascente legislatura vedrà la riproposizione in Parlamento anche di alcuni nodi e proposte al centro dei referendum di giugno, proposti da Lega e Radicali ma falliti per mancato raggiungimento del quorum. Su tre di essi - relativi alla separazione delle funzioni dei magistrati, all’intervento degli avvocati nei consigli giudiziari e alla cancellazione delle firme per le liste di candidati al Csm - sono intervenute poi norme contenute nella riforma dell’ordinamento giudiziario e del Consiglio superiore della magistratura prevista nel ‘pacchetto Cartabia’. Gli alttri due toccavano nodi ancora aperti e oggetto anch’essi di proposte in campagna elettorale: l’abrogazione delle disposizioni in materia di incandidabilità e decadenza previste dalla legge Severino per gli ammini-stratori locali condannati anche solo in primo grado; la limitazione della custodia cautelare, cioè la detenzione di un indagato o imputato prima della sentenza definitiva, per evitare alcuni eccessi commessi negli ultimi decenni. Due questioni su cui è possibile che si eserciti il prossimo Parlamento, insieme alle altre urgenze sul tappeto. Le proposte dei partiti - Nel programma dem si punta a ridurre durata e costi della giustizia, con la riduzione del contenzioso civile, la “depenalizzazione” di alcuni reati e forme riparative. Proposti pure “l’assunzione di cancellieri e magistrati”, una riforma dell’ordinamento carcerario e il potenziamento delle misure alternative. Nel programma 5s si parla di legalità e diritti. Proposti il potenziamento del contrasto a mafie e corruzione, ma anche un “superamento dell’improcedibilità nel processo penale”, che vada oltre la prescrizione processuale ex riforma Cartabia. Per i diritti, ‘matrimonio egualitario’ e una legge anti-omotransfobia. Il programma di Azione e Iv si ispira in buona parte alle proposte dell’Unione Camere penali e prevede la separazione fra carriera di pm e di giudice, l’irrobustimento dell’organico e il rafforzamento del rito telematico. Nel penale, punta a evitare l’abuso di custodia cautelare. E, nel civile, a valorizzare la mediazione. Le proposte del centrodestra s’incentrano sulla necessità di riforme sull’ordinamento giudiziario, civile e penale e sulla separazione assoluta delle carriere di pm e giudice. In cantiere pure il “giusto processo”, la riforma del Codice degli appalti e del diritto penale dell’economia. Né Nordio, né Bongiorno: alla Giustizia ora spuntano i forzisti Bernini e Sisto di Simona Musco Il Dubbio, 23 settembre 2022 I due berlusconiani farebbero dormire sonni più tranquilli al fronte garantista, interessato più diritto di difesa nel processo che a ordine e sicurezza. Non ci sono solo la leghista Giulia Bongiorno e il candidato di Fratelli d’Italia Carlo Nordio nel totonomi per il dopo Cartabia al ministero della Giustizia. A pochi giorni dal voto, sono diverse le ipotesi che circolano attorno a via Arenula, partita sul cui esito niente si dà per scontato, nonostante l’assoluta preferenza di Matteo Salvini per la propria senatrice e l’investitura ufficiale dell’ex procuratore aggiunto di Venezia da parte di Giorgia Meloni. E tra i papabili spuntano ora anche due berlusconiani di peso: l’attuale sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto e la presidente di Forza Italia al Senato Anna Maria Bernini. Due nomi che farebbero dormire sonni più tranquilli al fronte garantista, interessato più diritto di difesa nel processo che a ordine e sicurezza, aspetti sui quali sia Bongiorno sia Nordio, in linea con lo spirito dei due partiti che li vedono in lista, sono più sbilanciati. I due forzisti, stando ai rumors, potrebbero rappresentare inoltre la soluzione per un altro eventuale problema con cui fare i conti: da un lato il possibile “conflitto di interessi” di Bongiorno, avvocata penalista tra le più brave in Italia e impegnata in processi di peso - tra i quali quello al leader della Lega Matteo Salvini -; dall’altro un nome forte, quello di Nordio, che però più di una volta è entrato in contrasto con l’associazionismo giudiziario, aspetto che potrebbe creare qualche frizione proprio a via Arenula, dove i magistrati fuori ruolo sono circa un centinaio. Nelle scorse settimane sui giornali erano circolate diverse indiscrezioni su un possibile “scontro” interno al centrodestra rispetto ai nomi di Bongiorno e Nordio, date le distanze tra i due candidati. Oggetto del contendere, in particolare, l’immunità parlamentare, con l’ex magistrato orientato verso un ripristino del vecchio articolo 68 e l’avvocata leghista categorica sul fatto che non si tratti di una priorità. Ma l’ex ministra, ieri, ha smentito definitivamente qualsiasi conflittualità con il candidato di Meloni: “Credo sia un tipico giochino da campagna elettorale, quello di farci apparire in contrasto - ha dichiarato in un’intervista a Libero -. Ma la realtà è che siamo in sintonia su quasi tutto. Entrambi riteniamo indispensabile la riforma sulla separazione delle carriere, sosteniamo il sorteggio per il Csm e siamo favorevoli alla inappellabilità delle sentenze di assoluzione; su altri temi si troverà una sintesi. In tema di giustizia, i programmi di Lega, Fratelli d’Italia e Forza Italia dimostrano che il centrodestra è compattissimo”. Ma che i giochi non siano chiusi è stato lo stesso responsabile Giustizia del partito di Giorgia Meloni a lasciarlo intendere. “Su ministeri chiave come la Giustizia, l’Interno, gli Esteri, l’Economia - ha dichiarato qualche giorno fa al Dubbio Andrea Delmastro Delle Vedove -, in caso di vittoria FdI introdurrà la logica degli obiettivi da cogliere, e della necessità che per raggiungerli si ricorra al massimo dell’autorevolezza. Sulle figure chiave, i partiti, le pur legittime aspettative che avanzeranno rispetto alle percentuali ottenute, dovranno stare un passo indietro rispetto alle necessità del Paese”. Proprio per tale motivo, la scelta potrebbe ricadere su una figura non necessariamente pescata nel paniere del partito più forte, in termini percentuali. E l’autorevolezza è una caratteristica che sia Sisto sia Bernini, entrambi avvocati, sembrano possedere. Il primo, responsabile nazionale Giustizia di Forza Italia e in Parlamento da tre legislature, è tra i principali promotori delle iniziative del centrodestra in materia in questo ambito. Legale di Silvio Berlusconi, è stato tra i più duri critici delle riforme firmate dall’allora ministro grillino Alfonso Bonafede. La sua idea di giustizia va dalla separazione delle carriere alla riscrittura dei reati fallimentari, con interventi per la velocizzazione del processo penale e sull’ordinamento penitenziario, con un “dogma” preciso: prima i diritti e le garanzie, poi l’efficienza. Bernini, già professore associato di Diritto pubblico comparato all’università di Bologna, è parlamentare dal 2008 ed ha ricoperto nel 2011 il ruolo di ministro per le Politiche dell’Unione europea. Liberale di destra, molto attenta al tema dei diritti, nel corso della campagna elettorale ha posto l’accento sulla necessità di una giustizia più giusta, capace di dare certezza agli investitori. Nell’ambiente forzista, al momento, le bocche rimangono cucite. “C’è una buona girandola di nomi, inclusi quelli di Sisto e Bernini, ma alcuni vengono fatti circolare adesso soltanto per essere bruciati dopo. La cosa riguarda tutti, anche Nordio e Bongiorno - rivela un membro azzurro del Senato -. Credo che al momento non siamo in grado di fare nomi: ci sono troppi equilibri da considerare e la probabile premier Giorgia Meloni non ha un’idea di coalizione allargata diffusa. Di certo ha dichiarato che chi ha fatto parte del governo Draghi sarà fuori dal prossimo. Ma è chiaro che se deciderà di indicare il nome del ministro dell’Economia agli alleati deve lasciare altri dicasteri pesanti. Per ora tutti i nomi interessati smentiscono per una questione di cautela”. La leader di Fratelli d’Italia, dal canto suo, ha annunciato che sulla composizione di governo “ho varie idee in mente. Se gli italiani ci daranno la loro fiducia lavoreremo per fare una squadra di governo di altissimo livello”. Ma in casa Lega Salvini ha ribadito che la squadra di governo “la faremo insieme. Ognuno ha le sue ambizioni, le sue aspirazioni legittime, aspettiamo il voto degli italiani e poi la squadra la costruiamo insieme. Non ci sono donne o uomini soli al comando, la squadra si costruisce insieme”. Insomma: i giochi sono ancora aperti, anche a via Arenula. Giulia Bongiorno: la riforma Cartabia non è servita di Pierpaolo La Rosa Il Tempo, 23 settembre 2022 Giulia Bongiorno, senatrice della Lega e responsabile Giustizia del partito, candidata alle elezioni Politiche di dopodomani. Quali sono le priorità della Lega, in materia di giustizia, per la prossima legislatura? “Occorre agire su tre piani distinti: garantire il pieno funzionamento dei tribunali con nuove assunzioni di magistrati, cancellieri e personale informatico; intervenire sul codice di procedura penale per assicurare celerità nella celebrazione dei processi senza scalfire il diritto di difesa; riformare completamente il Csm”. Perché non vi piacciono le riforme della giustizia varate da Marta Cartabia? “Sono insufficienti: possono essere un punto di partenza, non di arrivo”. Per quali motivi, secondo lei, il Consiglio superiore della magistratura deve essere demolito e completamente ricostruito? “Sono stati confermati tutti i miei dubbi sulla scarsa incisività della riforma Cartabia. Alle recenti elezioni hanno vinto ancora una volta gli esponenti delle principali correnti. Naturalmente saranno magistrati validi, ma il dato di fatto è che non è cambiato nulla. Il Csm è un organo importantissimo, ma l’esasperato correntismo ha prodotto distorsioni che possono incidere anche sulla terzietà e imparzialità del giudice. È proprio il profondo rispetto per i magistrati ad imporre una riforma che renda il Csm all’altezza dei suoi compiti. Sono gli stessi magistrati autonomi che chiedono tutela dal potere delle correnti. Soltanto introducendo il meccanismo del sorteggio temperato per l’elezione dei membri del Csm, sarà possibile recidere il cordone ombelicale con le correnti”. Siete sempre, come Lega, a favore della separazione delle carriere dei magistrati? “Assolutamente sì. Siamo favorevoli alla separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, mantenendo l’assoluta indipendenza di tutti i magistrati dal potere esecutivo”. Lei è sempre stata particolarmente sensibile sul tema del femminicidio. Come contrastare con misure più incisive, nel prossimo Parlamento, un fenomeno che non accenna purtroppo a placarsi, come testimoniano le cronache anche degli ultimi giorni? “Nel 2009, come presidente della commissione Giustizia della Camera, mi sono battuta per la legge sullo stalking che sta dando ottimi risultati. Nell’ultima legislatura, per il “Codice Rosso”, un pacchetto di norme contro la violenza di genere: un ottimo provvedimento che purtroppo non sempre viene applicato. Bisogna lavorare per assicurarne la piena applicazione, garantendo tutela immediata alle donne”. Il segretario della Lega, Matteo Salvini, ha parlato di lei come di un “ottimo ministro della Giustizia”, aggiungendo che lei “ribalterebbe la giustizia”. Sembra una vera e propria investitura... “Il mio obiettivo è tornare in Parlamento. Si può fare molto anche da parlamentare: nel 2009, quando ho spinto per l’introduzione del reato di stalking, non ero ministro della Giustizia, e nemmeno quando ho promosso il “Codice Rosso”. È importante che ci sia un’affermazione del centrodestra con una Lega forte. Non dimentichiamo che la Lega in tutti i territori in cui ha amministrato ha sempre dato prova di buon governo”. Alla giustizia amministrativa serve ancora più sinergia tra giudici e avvocati di Stefano Bigolaro Il Dubbio, 23 settembre 2022 C’è una domanda che non ti devi porre: a che cosa servono le mozioni approvate in un Congresso nazionale forense. Già presentarle è un gioco con le sue regole; ma dopo? Andrà fatto, certo, ogni sforzo per valorizzarle. Ma lo so per esperienza, quanto sia improbabile che mozioni splendide, approvate plebiscitariamente, portino a dei risultati concreti e misurabili. Lo so, ma non importa. Ciò che importa è impegnarsi nella ricerca di una giustizia migliore. Ciascuno nel proprio ambito, ma contribuendo come in un “patchwork” a un lavoro complessivo. È difficile che un avvocato possa oggi avere quell’interesse intersettoriale per il diritto nel suo complesso che era invece frequente nelle generazioni che ci hanno preceduto: la complessità e la specificità delle materie in cui operiamo ci impongono una specializzazione che sta nei fatti ben prima che nelle norme professionali. Ma il Congresso forense è anche il momento in cui le famiglie degli avvocati, per quanto ormai distanti tra loro, si riuniscono e ritrovano ciò che è loro comune. E anche noi amministrativisti - avvocati di un settore importante, ma un po’ periferico e pure piuttosto in crisi - abbiamo così l’occasione di percepire che dietro al carattere tecnico delle nostre istanze vi sono le ragioni di fondo della funzione che ci è affidata e i valori di una civiltà cui apparteniamo. E dunque, in linea con i tre temi generali del prossimo Congresso nazionale forense (a Lecce, al 6 all’ 8 ottobre), tre idee per il nostro settore meritano di essere tenute a mente. (Che corrispondano alle mozioni presentate dall’Unione degli amministrativisti è un fatto accidentale: come si diceva, non sono le mozioni che contano, ma il tentativo di migliorare il servizio giustizia). Va bene, per prima cosa, rivendicare all’avvocatura il ruolo di “protagonista” in un nuovo ordinamento per la tutela dei diritti (come da programma congressuale). Ma, nel mondo a parte della giustizia amministrativa, siamo rimasti indietro: è già molto far sì che l’avvocatura non sia un corpo estraneo. Non che siano mancate, negli anni, positive esperienze di collaborazione tra giudici e avvocati nella “governance” della giustizia amministrativa. Ma l’apporto che l’avvocatura può offrire all’efficienza del sistema deve ancora trovare un inquadramento istituzionale e permanente. Per questo sarebbe una buona cosa prevedere per legge che presso ogni Tar e presso il Consiglio di Stato siano costituiti degli organismi che consentano a giudici e avvocati di cooperare nella programmazione e nella gestione giudiziaria. Insomma, per dare un nome, e nonostante i problemi del modello (di cui tutto va rivisto): una versione amministrativa dei Consigli giudiziari. Certo, c’è già il Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa; ma è altra cosa. È lontano, nella geografia e nelle funzioni. Non serve a coinvolgere nessuno nella concreta gestione degli uffici giudiziari. E poi al suo interno non è rappresentata l’avvocatura (tantomeno quella specialistica). La sua composizione andrebbe ripensata: i meccanismi attuali portano spesso a farne parte chi non ha una conoscenza tecnica adatta a muoversi in un ambito così specifico. Ma - in attesa di una più ampia riforma - pare giusto garantire almeno che l’avvocatura sia consultata quando il Consiglio di presidenza si esprime su temi strutturali e gestionali della giustizia amministrativa. Non si tratta - sia chiaro - di inserire l’avvocatura nelle decisioni sullo stato giuridico dei magistrati; ma di assicurare forme di cooperazione organizzativa tra chi è corresponsabile di una funzione. Dalla prospettiva della giustizia amministrativa si arriva così a un concetto non limitato ad essa, e che va declinato in ogni settore. Un concetto che ha a che fare con la democraticità dell’ordinamento: è bene che la magistratura si confronti istituzionalmente con l’avvocatura sulle decisioni organizzative. Anche perché queste devono essere adeguate a un mondo che cambia. Si può pensare, ad esempio, a un efficiente passaggio al processo telematico e all’uso di tecnologie sempre più evolute senza un’intensa collaborazione? E qui arriviamo al tema dell’intelligenza artificiale. È, non a torto, oggetto del prossimo Congresso forense (che ha cura di abbinarvi il richiamo alla salvaguardia del “giusto processo”). Ed è la direzione verso cui stiamo andando: avvocati e giudici, e in realtà la società intera. Bene esserne consapevoli, nei pro e nei contro. E, se si parla di giustizia amministrativa, bene averne presente le caratteristiche. Ogni provvedimento che finisce davanti al giudice fa storia a sé: ha un suo mondo di presupposti fattuali e procedurali, e i suoi eventuali difetti vanno individuati confrontandosi con quel mondo, a partire dalla comprensione del processo motivazionale. Dunque, bene essere aiutati, non sostituiti: la quantità delle informazioni disponibili non sostituisce la sensibilità del caso concreto. E poi il diritto amministrativo è fatto di giurisprudenza pretoria. È un sistema che ha più norme delle stelle in cielo, e le sentenze dei giudici sono come la bussola, diventando il primo riferimento. Il rischio da evitare è quindi che la giustizia diventi troppo predittiva: non sarebbe un buon esito bloccare l’evoluzione della giurisprudenza (che, quando si compie, smentisce le predizioni). Il tema - anche qui - è lo stesso per tutti: il generale rapporto tra informatica e giustizia. Ma va calato nella realtà del settore (incentrato tra l’altro su una attività amministrativa, che - prima di giungere al contenzioso - vive già di procedimenti informatizzati). E infine: tutto cambia, ma alcune cose rimangono intoccabili. Di solito, le peggiori. Ci libereremo mai di un contributo unificato che nella giustizia amministrativa, e specie per gli appalti, è sproporzionato? Non so più quante volte abbiamo documentato che è oggettivamente sperequato, sia rispetto a ogni altro ordinamento europeo sia rispetto agli altri settori del nostro ordinamento. Quante volte abbiamo spiegato che ogni ricorso non proposto a causa del contributo unificato è un problema di giustizia sostanziale che riguarda l’intera società. E non so più quante mozioni abbiamo fatto approvare. Tutto inutile. Ma una cosa sbagliata resta sbagliata. È comprensibile che non si vogliano troppi ricorsi in una materia come gli appalti. Ma porre una barriera economica d’ingresso è come pensare di curare una malattia impedendo di andare dal medico. E dunque, riproviamo. *Consigliere Unione Nazionale Avvocati Amministrativisti Condannata a 5 mesi, Evelyn chiusa in cella per un reato prescritto di Fabio Falbo Il Riformista, 23 settembre 2022 La condanna, per una patente falsa, risale al 2007, quella definitiva a marzo 2018. Ad agosto è stata arrestata per l’esecuzione della pena. Ora la vita che aveva ricostruito nella legalità si sta sgretolando. La sentenza è stata emessa “in nome del popolo italiano”, ma il popolo italiano non è a conoscenza di quello che succede nella vicenda personale e penale di Witanacy De Oliveira, alias Evelyn. Ve la racconto io. Evelyn viene tratta in arresto a fine agosto in seguito a una condanna a mesi cinque di reclusione risalente al 2007 per una patente falsa. La prescrizione massima per questo reato è di anni sette e mesi sei e la sentenza definitiva è del 10 marzo del 2018. Come si può conciliare il diritto con il vissuto penale e carcerario di Evelyn, se la stessa è detenuta per un reato prescritto a una pena di mesi cinque? Il “popolo italiano” è a conoscenza della ratio e dello strazio della norma? Perché, a distanza di molto tempo dal fatto, viene meno sia l’interesse dello Stato a punire il fatto-reato, sia la necessità di un processo di riabilitazione e reinserimento sociale del reo. Il carcere, dovrebbe costituire l’extrema ratio, invece oggi è la soluzione anche alle malefatte della giustizia che arriva dopo tanti anni e dopo che una persona ha cambiato vita, Stato, si è rifatta una famiglia e vive nella legalità. Cesare Beccaria nel Dei delitti e delle pene, parlando della “prontezza della pena” affermava: “Quanto la pena sarà più pronta e più vicina al delitto commesso, ella sarà tanto più giusta e tanto più utile”. Sono passati due secoli e francamente di prontezza, giustizia e utilità della pena non se ne vede traccia sulla terra di Beccaria, la Patria del Diritto. L’avvocatessa Arianna Liguori ha preso questo caso a cuore rivolgendosi sia al Giudice del fatto che a quello della persona, facendo capire che vi è una esecuzione illegittima della pena per un reato estinto da prescrizione. Che è estremamente urgente intervenire per il rispetto, anche in questo caso, dei principi di extrema ratio, adeguatezza e proporzionalità. Sarebbe umiliante per il nostro Paese portare anche questa assurda storia davanti alla Corte Europea per i Diritti dell’Uomo, se si pensa alla gravità dell’attuale sistema carcerario italiano, al numero dei suicidi che quest’anno ha raggiunto livelli mai visti prima, al sovraffollamento carcerario, al costo giornaliero anche economico della detenzione. Ripeto: sarebbe mortificante rivolgersi al vicino di casa per tentare di avere giustizia quando i danni sono già stati irrimediabilmente prodotti e non più risarcibili. È giusto ricordare chi era Evelyn e chi è ora. La vita non è stata semplice per lei. Prima dell’anno 2007 viveva in Italia e svolgeva la professione di escort. Dopo l’illecito risalente a quindici anni fa, Evelyn ha voluto cambiare vita e Paese, si è rifatta una nuova vita, nel 2014 si è sposata, ha regolarmente pagato un canone d’affitto con la clausola dell’acquisto di un immobile in Spagna. Da allora, ha lavorato nella legalità. Prima della privazione improvvisa della sua libertà, frequentava un corso di formazione nell’arte gastronomica. La cultura è stata una manna dal cielo che ha dato valore alla sua nuova vita. Questo corso culinario è stato interrotto dall’assurdità dell’esecuzione di una pena fuori oltre ogni termine di prescrizione e senso di riabilitazione. Evelyn ora abita a Rebibbia, sezione Venere del braccio G8, e rimpiange il corso che volgeva al termine, in lacrime lo definisce affascinante, istruttivo e impegnativo. Non le lasciava spazio ad altre distrazioni. Ogni suo minuto libero era volto ad allenarsi tra i fornelli. Purtroppo oggi il suo sogno di cucinare è infranto, come sono infranti tutti i progetti di avere un lavoro e una casa. Evelyn rischia di non fare in tempo a uscire dal carcere per continuare a pagare le rate del mutuo, con il rischio di perdere tutto. In Spagna se non vengono pagate tre rate di fila si perde casa e tutto ciò che è stato pagato. Evelyn non vuole più ripercorrere la sua prima vita. La vittoria più grande per lei è stata quella di riabbracciare la legalità, il rispetto per il prossimo e il conforto di tutti quelli che hanno creduto nel suo cambiamento. Evelyn è una cittadina residente in Europa da prima della sentenza definitiva, non si è mai sottratta a una qualsiasi responsabilità. Ha continuato a viaggiare dopo la sentenza definitiva. È stata a Milano nel giugno del 2018, a Torino a fine 2019, con i relativi pernottamenti in hotel. A giugno del 2021 ha viaggiato in Turchia con partenza dal Portogallo. Un bel giorno, tornata in Italia, l’hanno fermata e portata a Rebibbia. Evelyn è stata giudicata, condannata a cinque mesi e sbattuta in carcere “in nome del popolo italiano” che non era a conoscenza della caduta in prescrizione del suo reato e della sua rinascita a nuova vita. Processo infinito per un furto da 1,80 euro, il ladro rischia anni di carcere di Federica Orlandi Il Resto del Carlino, 23 settembre 2022 Un 24enne aveva rubato nel 2020 da una lavanderia a gettoni a Bologna. L’iter giudiziario va avanti da mesi. Tre udienze (almeno) per un episodio di furto aggravato, con tanto di testimoni. Fin qui, nulla di strano. Peccato che a occupare le aule di giustizia, il tempo e il lavoro di avvocati, giudici e pm, in questo caso, è la vicenda di un ladro che ha rubato... un euro. E ottanta centesimi, per la precisione. La situazione quasi surreale - eppure come questa ce ne sono tante altre che si discostano di poco, e resta vero il fatto che il furto è un reato, anche quando si tratta di un euro e ottanta, e la giustizia deve fare il suo corso - è capitata ieri mattina al tribunale di Bologna. In un’aula infatti si è tenuto il processo per questo furto aggravato avvenuto il 22 aprile di due anni fa ai danni di una lavanderia a gettoni della periferia della città. Il ladro, un ventiquattrenne arcinoto alle forze dell’ordine, entra nel locale, dà un pugno alla macchinetta e, dopo che da questa escono le monetine, se le intasca e fugge. Il tutto a favore di telecamere, dato che gli apparecchi di videosorveglianza dell’esercizio commerciale hanno ripreso tutta quanta l’attività del ladro. Il quale viene in un batter d’occhio identificato dai carabinieri. Viene sporta querela; la Procura è costituzionalmente obbligata a esercitare l’azione penale. Si arriva al processo. E qui viene il punto. Non ci si può appellare all’articolo 131 bis del Codice penale, che prevede l’esclusione della punibilità, per l’imputato, per la particolare tenuità del fatto. Questo perché il ventiquattrenne è un ladro ‘abituale’: ha numerosi precedenti specifici, con reiterazione del reato e recidiva infraquinquennale. Quindi, la pena viene aumentata di due terzi e supera il limite previsto per consentire l’esclusione della punibilità. In più, il furto è aggravato dalla “violenza sulla cosa” (il pugno alla macchinetta dei soldi della lavanderia), e la pena minima prevista schizza da sei mesi a due anni. Insomma, bisogna celebrare il processo. La prima udienza in cui si sarebbe dovuti entrare nel vivo del dibattimento era per alcuni mesi fa: ma a quanto si apprende per un difetto di notifica all’imputato senza fissa dimora e per l’assenza del suo avvocato d’ufficio, si deve rinviare tutto a ieri. Giornata in cui arrivano anche i testimoni - cioè la parte offesa e i carabinieri che si sono occupati delle indagini -, pronti a rendere davanti al giudice le proprie versioni dei fatti. Ma anche stavolta, l’avvocato dell’imputato manca; viene sostituito da un collega presente in tribunale, il quale chiede i termini a difesa. Si rinvia tutto a gennaio 2023. I testimoni dovranno tornare un’altra volta. Gli avvocati, i magistrati, i giudici dovranno tornare a discutere la vicenda. L’aula verrà nuovamente occupata dal processo per furto aggravato, come vuole la legge, perché questo fatto, anche se si parla solo di un euro e 80, non è legale. Così si dovranno impiegare forze, tempo e denaro. Fino alla sentenza. Per la liberazione condizionale del pentito non basta la collaborazione ma va provato il sicuro ravvedimento di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2022 A fronte di indici di stabile rieducazione il giudice se nega il beneficio deve motivare se ritiene che la restrizione subita non è congrua. Il pentito di mafia, che abbia collaborato con la giustizia alla scoperta di gravissimi reati e alla condanna dei responsabili, per ottenere il beneficio della liberazione condizionale deve comunque dimostrare il proprio “sicuro ravvedimento”. E non può solo far rilevare l’entità dei risultati di repressione criminale, raggiunti grazie alla propria collaborazione. Infatti, per la concessione del beneficio il giudice deve acclarare l’esistenza di indici sintomatici di una stabile rieducazione raggiunta dal condannato. Non può però il giudice negare la liberazione condizionale fondando il suo parere negativo su un aprioristico rapporto proporzionale tra gravità dei delitti commessi dal condannato e lunghezza della detenzione fino a quel momento patita. Come spiega la Cassazione - con la sentenza n. 35357/2022 - se il giudice di sorveglianza intende dare rilevanza alla durata della carcerazione ai fini del diniego del beneficio è comunque tenuto a fornire una piena motivazione sul fattore tempo per giustificarne la prevalenza sugli altri sintomi di un intrapreso percorso di emenda dalla vita criminale. Cioè, dice la Cassazione, non si può ritenere necessario un ulteriore periodo di messa alla prova della nuova scelta di vita senza fornire adeguate motivazioni. Nel caso in esame, che riguarda uno dei più famosi pentiti di mafia, il giudice di sorveglianza affermava seccamente che l’entità e la gravità dei delitti di cui si era macchiato il condannato imponeva necessariamente che il percorso di rieducazione fosse lungo e proprozionato alla caratura criminale espressa. E che la nuova scelta di vita necessitava ancora di un congruo periodo di messa alla prova. In conclusione va detto che quando sia dimostrato il percorso di pentimento intrapreso dal condannato il giudice non può negare la liberazione senza motivazione puntuale. Il termine di sei mesi per il trasferimento del richiedente asilo non è stato sospeso dall’emergenza Covid di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2022 Ostacoli materiali non giustificano sospensioni e la competenza passa allo Stato che non ha potuto provvedere al passaggio. Lo stop imposto dal Covid ai trasferimenti dei richiedenti asilo all’interno dell’Ue non ha bloccato il decorso del termine di 6 mesi entro cui lo spostamento nel Paese membro competente deve essere effettuato. E, chiarisce la Corte Ue, che una volta decorso il termine la competenza sulla richiesta di asilo passa allo Stato che doveva provvedere al trasferimento dello straniero. Quindi come espresso dalla decisione sulle cause riunite C-245/21 e C-248/21 va affermato che il decorso del termine, previsto per il trasferimento dei richiedenti asilo, non si è interrotto a causa della sospensione di tali trasferimenti imposta dall’emergenza della pandemia da Covid-19. E, soprattutto, è stato chiarito che una volta giunto a scadenza, la competenza a valutare la domanda del richiedente asilo passa allo Stato membro, che non ha potuto effettuare nel termine di sei mesi il trasferimento. Quindi nessuna conseguenza sul decorso del termine dalla disposta sospensione amministrativa della decisione di trasferimento per cause materiali anche se non imputabili allo Stato membro. La vicenda - Nel corso del 2019 alcuni stranieri avevano presentato domande di asilo in Germania. Di questi uno aveva già avanzato la medesima richiesta allo Stato italiano. Gli altri due erano invece entrati irregolarmente in Italia e qui registrati come richiedenti protezione internazionale. Per risolvere le situazioni verificatesi, l’autorità tedesca competente ha chiesto alle autorità italiane sia di dare nuovamente corso alla domanda precedentemente presentata in Italia sia di prendere in carico i due stranieri irregolari registrati su suolo italiano, in base al regolamento Dublino III, ai fini del riconoscimento della protezione internazionale. E successivamente la medesima autorità tedesca dichiarava irricevibili le domande di asilo ricevute dagli interessati e ne disponeva l’allontamento verso l’Italia. A febbraio 2020, le autorità italiane hanno risposto che - a causa della pandemia di Covid-19, i trasferimenti verso e dall’Italia non avrebbero più avuto luogo. Con decisioni adottate a marzo e aprile 2020, l’autorità tedesca competente decideva di sospendere, fino a nuova comunicazione, l’attuazione dei provvedimenti di allontanamento degli interessati con la motivazione che, in considerazione dell’evoluzione della pandemia di Covid-19, l’esecuzione di tali trasferimenti non era possibile. Con sentenze pronunciate a giugno e agosto 2020, il Tribunale amministrativo tedesco ha annullato le decisioni con le quali l’autorità aveva dichiarato irricevibili le domande di asilo degli interessati e disposto il loro allontanamento. Tale organo giurisdizionale ha constatato che, anche supponendo che l’Italia fosse stata competente per l’esame delle domande di asilo degli interessati, tale competenza era poi stata trasferita alla Germania a causa della scadenza del termine di trasferimento previsto dal regolamento Dublino III. La Corte dichiara che in tal caso il decorso del termine non poteva essere sospeso. In particolare, fa rilevare la Corte Ue che l’effetto sospensivo del ricorso contro una decisione di trasferimento fa sì il termine per l’attuazione decorre a partire dalla decisione definitiva su tale ricorso. In attesa dell’esito del ricorso la sospensione è quindi legittima. Il presupposto è previsto dalla norma del regolamento che espressamente consente agli Stati membri di autorizzare le autorità competenti a sospendere l’attuazione della decisione di trasferimento in casi in cui tale stop non operi per legge. In effetti, si tratta di un termine che è posto a tutela dello straniero richiedente a vedere trattata la propria domanda senza dilazioni indefinite e consentire decisioni di sospensione, non connesse con la tutela giurisdizionale della persona interessata, rischierebbe di rendere inefficace il fine del termine di trasferimento e di alterare la ripartizione delle responsabilità tra gli Stati membri, compreso il prolungamento indebito delle domande di protezione internazionale. Per cui, in conclusione, va affermato che per la sospensione ha rilievo solo la finalità di garantire alla persona richiedente una tutela giurisdizionale effettiva, di fatto autorizzandola a rimanere nel territorio dello Stato membro fino all’adozione di una decisione definitiva sul proprio ricorso. Non è pertanto presupposto per un’eventuale decisione di sospensione la circostanza materiale che impedisce di fatto il trasferimento. Lavoratore socialmente utile, insussistenza del requisito di subordinazione di Andrea Pagnotta e Marco Proietti Il Sole 24 Ore, 23 settembre 2022 Nota a sentenza, Cassazione Civile Sezione L. n. 27125/22.”Deve ritenersi insussistente il requisito della subordinazione nel rapporto di lavoro istauratosi per finalità sociali e di recupero disciplinato dalla normativa in tema di impiego in lavori socialmente utili”. Nel caso in oggetto, il lavoratore di un’azienda adiva la Suprema Corte a seguito del rigetto della domanda rivolta al Giudice di prime cure prima, e della Corte d’Appello territorialmente competente, poi, volta al riconoscimento del rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato instaurato precedentemente con un’azienda speciale di igiene urbana di cui lo stesso era impiegato a titolo di lavoratore socialmente utile secondo la disciplina vigente al momento. Secondo quanto stabilito dall’art. 2094 c.c. in tema di prestazione di lavoro subordinato, “è prestatore di lavoro subordinato chi si obbliga mediante retribuzione a collaborare nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore “. Ciò posto, rileva ai fini della sussistenza del requisito della subordinazione che : i. Il lavoratore sia assoggettato al potere direttivo ed organizzativo del datore; ii. Il lavoratore renda prestazione fungibile ricevendo come corrispettivo una retribuzione proporzionata alla stessa; iii. Nell’esercizio delle sue mansioni il lavoratore si avvalga dei mezzi di produzione messi a disposizione dall’impresa; Ciò premesso, la costituzione di un rapporto di lavoro prescinde ad ogni buon conto dalla effettiva volontà delle parti atteso il medesimo rapporto soggiace alla normativa di portata generale delle obbligazioni e dei contratti disciplinata dal nostro codice civile.In questo contesto, particolare rilievo, a parere di chi vi scrive, assume la disciplina di cui all’art. 1325 c.c. (in tema di requisiti del contratto) e quella di cui all’art. 1362 c.c.(interpretazione del contratto). Orbene, il punctum dolens si rappresenta giust’appunto nella esatta individuazione (peraltro ben articolata dal Giudice di legittimità nei motivi del provvedimento emanato) della causa (quale funzione economico sociale del contratto) e, soprattutto, della interpretazione del contratto, intesa quale reale volontà delle parti desumibile sia dalle loro condotte, sia dal tenore letterale del contratto stesso. In riferimento al primo requisito è da ritenersi pienamente legittimo il rinvio a quanto previsto dall’art. 4 del d.lgs. 81/2000 , secondo cui” L’utilizzo nelle attività’ di cui all’articolo 3 (e di cui l’attività del ricorrente fa parte) non determina l’instaurazione di un rapporto di lavoro”. Ciò in quanto la finalità dell’impiego di personale in lavori socialmente utili non è (come anche ampiamente specificato nelle motivazioni del provvedimento de quo) quella della costituzione di un nuovo rapporto di lavoro, ma quella di formare, riqualificare e fornire nuove competenze a soggetti secondo un più chiaro principio assistenziale della norma di riferimento. Tale inquadramento è pienamente aderente ai principi della Giurisprudenza consolidatasi nel tempo, secondo cui “la causa, come funzione economico-sociale del negozio, va intesa, nei contratti tipici, come funzione concreta obiettiva, che corrisponde ad una delle funzioni tipiche ed astratte determinate dalla legge (cfr. Cass. Civ. Sez. Unite n 63. 11 gennaio 1973)”. Ancor più rilevante appare il richiamo alla norma civilistica in tema di interpretazione del contratto e della effettiva volontà delle parti. E’ evidente l’intenzione del legislatore con l’adozione del d.lgs. 81/2000 di non dare vita a nuovi rapporti di lavoro subordinato, relegando le effettive intenzioni al contenuto della normativa licenziata. Sul punto la giurisprudenza è stata sempre ben chiara, potendo affermare che “in tema di interpretazione del contratto, in base ai criteri legali di cui agli artt. 1362 e 1363 c.c., avuto riguardo in primo luogo allo scopo pratico che le parti hanno inteso realizzare con la stipulazione del contratto, le clausole vanno interpretate le une per mezzo delle altre, attribuendo a ciascuna il senso che risulta dal complesso dell’atto (Cass.Civ. Sez. III 30 agosto 2019, n. 21840)”. Peraltro, e più precisamente in aderenza al caso di specie ivi prospettato, si ricorda che la Corte di cassazione ha già avuto modo di indicare il principio di diritto secondo cui “fra la pubblica amministrazione e i lavori socialmente utili si instaura un rapporto giuridico previdenziale, che viene disciplinato da una legislazione volta a garantire al lavoratore diritti, che trovano il loro fondamento nel disposto dell’art. 38 Cost., che impedisce al suddetto lavoratore, impegnato in attività presso le amministrazioni pubbliche, la rivendicazione nei confronti di dette amministrazioni di un rapporto di lavoro subordinato, e dei suoi consequenziali diritti” precisando che” il lavoratore socialmente utile, svolgendo la sua attività per la realizzazione di un interesse di carattere generale, ha diritto ad emolumenti, cui non può riconoscersi natura retributiva (Cass. Civile SS.UU. n. 3508 del 22.02.2005) Crotone. Muore suicida in carcere dopo poche ore in cella Ristretti Orizzonti, 23 settembre 2022 Un detenuto nuovo giunto si è impiccato nella notte nella casa circondariale di Crotone dopo poche ore in cella. Si tratta di un giovane del Crotonese (con problemi psichici e che già aveva tentato il suicidio in libertà) appena giunto in carcere per il reato di maltrattamenti in famiglia, che si è impiccato al letto della cella nella quale era rinchiuso, durante il cambio turno degli Agenti, utilizzando i lacci delle scarpe. Inutili i tentativi di rianimazione dei sanitari e dei poliziotti. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, il primo e più rappresentativo dei Baschi Azzurri. “Come sapete, abbiamo sempre detto che la morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato”, commenta amareggiato Donato Capece, segretario generale del Sappe. E richiama un pronunciamento del Comitato nazionale per la Bioetica che sui suicidi in carcere aveva sottolineato come “il suicidio costituisce solo un aspetto di quella più ampia e complessa crisi di identità che il carcere determina, alterando i rapporti e le relazioni, disgregando le prospettive esistenziali, affievolendo progetti e speranze. La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Proprio il suicidio è spesso la causa più comune di morte nelle carceri. Gli istituti penitenziari hanno l’obbligo di preservare la salute e la sicurezza dei detenuti, e l’Italia è certamente all’avanguardia per quanto concerne la normativa finalizzata a prevenire questi gravi eventi critici. Ma il suicidio di un detenuto rappresenta un forte agente stressogeno per il personale di polizia e per gli altri detenuti e sconforta che le autorità politiche, penitenziarie ministeriali e regionali, pur in presenza di inquietanti eventi critici, non assumano adeguati ed urgenti provvedimenti”, . Per Capece “La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Anche la consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici è causa da tempo di gravi criticità per quanto attiene l’ordine e la sicurezza delle carceri del Paese. Il personale di Polizia Penitenziaria è stremato dai logoranti ritmi di lavoro a causa delle violente e continue aggressioni. Ed è grave che, pur essendo a conoscenza delle problematiche connesse alla folta presenza di detenuti psichiatrici, le Autorità competenti non siano ancora state in grado di trovare una soluzione”, evidenzia. Impietosa la denuncia del leader del Sappe: “Se i vertici del Ministero della Giustizia e del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria non sono in grado di trovare soluzioni alla gravissima situazione delle carceri italiane ed alla tutela degli appartenenti al Corpo di Polizia Penitenziaria devono avere la dignità di dimettersi!”. Ivrea (To). Avvisi di garanzia per le presunte violenze in carcere di Andrea Oleandri Ristretti Orizzonti, 23 settembre 2022 Antigone: “grazie alla Procura di Torino per le indagini dopo anni di disinteresse”. Sarebbero 25 gli avvisi di garanzia recapitati ad agenti penitenziari, funzionari e medici in servizio al carcere di Ivrea e accusati, a vario titolo, di lesioni e falsi aggravati per le presunte violenze su alcuni detenuti. I casi indagati dalla Procura si riferiscono al periodo che va dal 2015 al 2016. “Antigone - sottolinea l’avvocata Simona Filippi, che per l’associazione segue il contenzioso legale - era venuta a sapere di diversi casi di presunte violenze e aveva presentato alcuni esposti alla Procura di Ivrea, territorialmente competente, anche a seguito delle denunce presentate dal Garante comunale della città piemontese. Nei mesi successivi - sottolinea Filippi - abbiamo registrato un sostanziale immobilismo da parte della Procura eporediese che portò a ben due richieste di archiviazione a cui ci opponemmo. Proprio a seguito di quello che, a nostro rilievo, era un mancato esercizio dell’azione penale, chiedemmo l’avocazione delle indagini al Procuratore generale presso la Procura di Torino che, a due anni di distanza, avrebbe emanato questi avvisi di Garanzia”. Nell’atto dell’accusa - come riporta anche La Stampa - si legge che Hamed, uno dei detenuti il cui caso Antigone aveva segnalato con un esposto e ora oggetto delle indagini, fu picchiato con pugni e calci da sette agenti. In due gli tenevano ferme le braccia. Gli altri menavano. E il medico di turno della casa circondariale continuava a sorseggiare il caffè delle macchinette automatiche. Non un cenno, non un intervento per fermarli. Nemmeno una comunicazione al direttore come sarebbe stato suo dovere. “Anche se i fatti in oggetto, se confermati, si riferiscono pienamente alla fattispecie di tortura - dichiara Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - questo reato non è stato contestato poiché non ancora presente nel codice penale al momento della presentazione degli esposti e dell’apertura delle indagini. Fortunatamente oggi questo reato c’è e ci consente di perseguire pienamente chi commette questi crimini, nonostante ci sia ancora chi ritiene che sia di impedimento ai poliziotti nello svolgimento del proprio lavoro, tanto da avanzare la richiesta di abolizione o ampia modifica della fattispecie penale. In attesa che si giunga alla verità processuale, speriamo presto per evitare prescrizioni, in questo momento di campagna elettorale chiediamo a tutte le forze politiche di esprimersi intorno a questo e, soprattutto, rispetto a quello che deve essere la pena in una società democratica” conclude il presidente di Antigone. Anche il Comitato per la Prevenzione della Tortura (CPT), in un suo rapporto pubblicato a seguito di una visita svolta nell’aprile del 2016, aveva segnalato le violenze che sarebbero avvenute nel carcere di Ivrea. Lo stesso aveva fatto il Garante nazionale delle persone private della libertà personale a seguito di una visita del novembre 2016. Nella pagina sui processi seguiti da Antigone, presente sul sito dell’associazione, ci sono ulteriori dettagli sui tre procedimenti penali che si riferiscono al carcere di Ivrea. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Carcere Ivrea, 25 indagati per pestaggi di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 settembre 2022 Agenti penitenziari e sanitari accusati di violenze sui detenuti e falsificazione di referti. Interviene la Procura generale. “Grazie alla Procura generale di Torino, dopo anni di disinteresse, le indagini sui fatti accaduti nel carcere d’Ivrea dal 2015 al 2016 hanno ora portato a 25 avvisi di garanzia recapitati ad agenti penitenziari, funzionari e medici in servizio alla Casa circondariale eporediese e accusati, a vario titolo, di lesioni e falsi aggravati per le presunte violenze su alcuni detenuti”. L’associazione Antigone, che accoglie così la notizia diramata ieri da La Stampa, segue da anni i casi di presunte violenze e, come spiega l’avvocata Simona Filippi che per l’associazione segue il contenzioso legale, a suo tempo aveva già “presentato alcuni esposti alla Procura di Ivrea, anche a seguito delle denunce presentate dal Garante comunale della città piemontese. Nei mesi successivi - continua Filippi - abbiamo registrato un sostanziale immobilismo da parte della Procura eporediese che portò a ben due richieste di archiviazione a cui ci opponemmo. Proprio a seguito di quello che, a nostro rilievo, era un mancato esercizio dell’azione penale, chiedemmo l’avocazione delle indagini al Procuratore generale presso la Procura di Torino”. Ora, due anni dopo, arriva la notizia degli avvisi di garanzia emessi dai Pg Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano. Sarebbero una decina i casi di detenuti pestati da poliziotti penitenziari, con la complicità di alcuni sanitari, per i quali si potrebbe arrivare a processo. Le 25 persone indagate sono accusate di violenze sui reclusi e falsificazione di perizie e referti medici. Secondo l’accusa mossa dai pm, per esempio, nel novembre 2015 il medico di turno nel carcere avrebbe assistito al pestaggio del detenuto Ahmed Alì da parte di almeno quattro agenti di polizia penitenziaria mentre altri due lo tenevano fermo. Il referto medico che attesta le lesioni riportate dalla vittima è agli atti del fascicolo, ma il medico indicato dagli inquirenti avrebbe continuato a sorseggiare una bevanda presso il distributore automatico mentre il detenuto veniva colpito con calci e pugni invece che “impedire l’evento come sarebbe stato suo obbligo” o avvisare “immediatamente il comandante di polizia penitenziaria”. E poi ancora altri casi di reclusi seviziati da agenti che avrebbero successivamente stilato false relazioni di servizio, attingendo ogni volta a quel catalogo di giustificazioni divenuto stucchevole perfino nelle fiction: “Il detenuto perdeva l’equilibrio sul pavimento reso scivoloso dall’acqua utilizzata per spegnere i focolai accesi da alcuni detenuti in sezione e sbatteva la faccia contro la cella”; “il detenuto, mentre si trovava nella saletta d’attesa dell’infermeria, cominciava a sbattere violentemente la testa contro un vetro pronunciando testuali parole: Ora mi faccio male così vi rovino, pezzi di m…”, etc. Nel 2016 il carcere di Ivrea era stato segnalato anche dal Comitato per la Prevenzione della Tortura e dal Garante nazionale dei detenuti dopo alcune ispezioni. Tutti gli agenti accusati “negano con fermezza ogni addebito”, ha fatto sapere ieri l’avvocato Celere Spaziante che li difende. “Se i fatti fossero confermati - afferma Patrizio Gonnella, presidente di Antigone - saremmo pienamente di fronte alla fattispecie di tortura”. Formalmente però il reato non può in ogni caso comparire tra le ipotesi accusatorie perché la legge che lo ha introdotto nel nostro ordinamento (n°110 del 14 luglio 2017) è successiva ai fatti contestati. “Fortunatamente oggi questo reato c’è e ci consente di perseguire pienamente chi commette questi crimini, nonostante ci sia ancora chi ritiene che sia di impedimento ai poliziotti nello svolgimento del proprio lavoro”, continua Gonnella che conclude rivolgendosi a tutte le forze politiche affinché si esprimano sul tema “e, soprattutto, rispetto a quello che deve essere la pena in una società democratica”. Ivrea. Le denunce dei detenuti: “Calci e botte in carcere solo per una telefonata” di Andrea Bucci e Irene Famà La Stampa, 23 settembre 2022 Le voci dall’incubo: la stanza delle torture era definita “acquario”. Il carcere è pensato per scontare una pena, non per espiare i peccati come se fosse un girone dell’inferno. E Taufic, che stava scontando la sua condanna nel penitenziario di Ivrea, voleva solo poter sentire i propri familiari, i suoi figli e la moglie. “Vorrei fare una chiamata, ma non è possibile”. Ha fatto richiesta agli agenti di custodia, ma “ho preso calci e schiaffi. Ho domandato di poter fare una telefonata e per punizione sono finito in isolamento per dieci giorni”. E no, “non è successo solo a me. È capitato a tanti altri. Hanno preso botte gratuite, io li ho visti”. Taufic, nel 2016, raccontava tutto questo alla garante dei detenuti di Ivrea e all’associazione Antigone. Come lui, Gerardo che è finito con “uno zigomo tumefatto e un labbro rotto”. E ancora Hamed: “Mi hanno immobilizzato e trasportato di peso”. Hanno denunciato le violenze. Hanno parlato per sé e per gli altri che non trovavano il coraggio di farsi avanti. Perché il timore era più o meno questo: se ne ho prese così tante per aver chiesto di fare una telefonata, chissà succede se denuncio. E ancora. Chi potrebbe credere a dei malviventi? A chi ha rubato, rapinato, magari ucciso? Lo ha fatto l’associazione Antigone, che quelle denunce, su fatti tra il 2015 e il 2016, le ha portate in procura. Dopo una rivolta, scoppiata sei anni fa nel penitenziario e repressa con violenza spropositata, è partita un’inchiesta, poi archiviata. Ora la procura generale di Torino ha avocato il fascicolo e ha indagato 25 persone tra agenti e medici. “Avevamo più volte sollecitato la procura di Ivrea, ma non arrivavano mai risposte”, commenta l’avvocata Simona Filippi che rappresenta la onlus. Detto in altri termini: “Finalmente qualcuno ci ascolta”. Violenze e omertà. Ecco il quadro che raccontavano i detenuti. Qualcuno, con qualche operatore del carcere, si era pure confidato. Era finito nella stanza delle punizioni, quella che chiamavano “acquario” perché il vetro era quasi totalmente oscurato ma da fuori si poteva assistere a tutto ciò che accadeva dentro. Uno dei difensori degli indagati, l’avvocato Celere Spaziante, ribatte: “Il quadro che emerge dalle indagini non è veritiero”. E aggiunge: “Credo sia più che mai opportuno sottolineare le difficoltà in cui, ad Ivrea, operano gli agenti con analogo disagio da parte dei detenuti che stanno scontando la loro pena nel rispetto delle leggi”. Che in quel penitenziario ci fossero “tensioni e gravi conflittualità” lo ha annotato, in visita nel novembre 2016, anche l’allora garante nazionale dei detenuti. Che per ricostruire gli accadimenti incontrò non poche difficoltà: “Nell’istituto sono assenti i registri degli eventi critici e dei provvedimenti disciplinari, sostituiti dall’archiviazione in un unico database informatico degli eventi quotidiani”. Tensioni, dunque. Com’è normale in un carcere. E nelle denunce è spiegato bene: “Il fatto che Gerardo fosse un detenuto “fortemente aggressivo”, se può rappresentare il movente delle violenze, non ne può elidere la valenza illecita”. La legge è cosa ben diversa dalla vendetta. E dall’esaltazione della forza. Vale per tutti. Ivrea. “Gli agenti mi picchiavano in infermeria e intanto il medico sorseggiava il suo caffè” di Federica Cravero La Repubblica, 23 settembre 2022 Dagli atti dell’indagine sul carcere di Ivrea i primi dettagli sui pestaggi. Avvisi di garanzia a 24 uomini della polizia penitenziaria e un sanitario. Due agenti picchiavano Alì, calci e pugni, e “il medico di turno della casa circondariale, anziché impedire l’evento come sarebbe stato suo obbligo, continuava a sorseggiare il caffè al distributore automatico”. Ivrea, 7 novembre 2015. Questo episodio è il primo di una serie di contestazioni che la procura generale di Torino ha fatto a 25 indagati, 24 agenti di polizia penitenziaria e un medico, coinvolti a vario titolo in pestaggi e punizioni che avvenivano principalmente nell’“acquario”, come era soprannominata l’infermeria che dava sul corridoio. È arrivata a una svolta l’inchiesta sui pestaggi al carcere di Ivrea, dove i muri dell’infermeria almeno per due anni hanno coperto percosse e umiliazioni compiuti dagli agenti nei confronti di diversi detenuti. Finora erano stati solo loro, con le testimonianze, a far uscire allo scoperto il trattamento che ricevevano, mentre i verbali falsificati provavano a sviare le indagini sostenendo che i detenuti fossero caduti “accidentalmente sul pavimento reso scivoloso dall’acqua degli idranti usati per spegnere i focolai appiccati in sezione”. Ora la magistratura ha riconosciuto la fondatezza delle accuse individuando i possibili responsabili, che nei giorni scorsi hanno ricevuto l’avviso a comparire per essere interrogati, difesi dagli avvocati Celere Spaziante ed Enrico Calabrese. Alcuni agenti sono ancora in servizio nel carcere eporediese, altri nel frattempo sono stati trasferiti in altri penitenziari. Le carte dell’inchiesta dipingono un quadro inquietante di quello che accadeva dietro le sbarre. Detenuti malmenati anche con manganelli, umiliazioni come quelle di tenere i carcerati nudi, tutto con l’omertà di altri detenuti e di un sistema che fingeva di non vedere. Sono sette anni che si cerca di far luce su quello che accadeva nel carcere di Ivrea. Gli episodi contestati risalgono al 2015 e 2016. Da allora l’inchiesta aperta dalla procura di Ivrea ha subito parecchie traversie, tra richieste di archiviazioni e opposizioni fatte dall’associazione Antigone, fino a quando la procura generale non l’ha avocata. Sono stati i sostituti pg di Torino Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano, partendo dalle denunce, ad allargare le indagini ad altri episodi e a individuare i reati ipotizzati: lesioni e falsi aggravati. “Le contestazioni mosse dalla magistratura a 25 indagati sono la dimostrazione che il sistema giudiziario funziona e che quest’avocazione che aveva fatto tanto rumore è stata la strada giusta per fare giustizia - commenta Antigone - I fatti sono precedenti all’introduzione del reato di tortura, tuttavia dall’inchiesta emerge come quello di Ivrea fosse un carcere punitivo, come ce ne sono in Italia, e lontano dallo scopo rieducativo che gli istituti penitenziari dovrebbero perseguire” Palermo. Suicidi in carcere, domenica protesta davanti al Tribunale palermotoday.it, 23 settembre 2022 L’iniziativa di Antigone. Obiettivo: “Richiamare l’attenzione delle istituzioni sul drammatico fenomeno”. Richiamare l’attenzione delle istituzioni sul drammatico fenomeno dei suicidi nelle carceri. È l’obiettivo del sit-in di Antigone Sicilia che si terrà a Palermo davanti al Tribunale, domenica 25 settembre, alle 24. “Scendiamo in piazza - spiega Pino Apprendi dell’osservatorio Antigone - perché la politica è indifferente rispetto al gesto estremo compiuto da decine di detenuti ogni anno e a circa un migliaio di atti di autolesionismo. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di giovani in carcere per reati minori e perlopiù in condizioni di fragilità psicofisica. A chi è stato condannato è giusto far scontare le pene inflitte per i reati commessi, ma queste non possono e non devono trasformarsi in condanne a morte, bensì in una speranza di cambiamento, come peraltro è previsto dal nostro ordinamento”. Busto Arsizio. Presunta violenza sessuale in carcere: detenuto denuncia medico di valentina reggiani Il Giorno, 23 settembre 2022 L’uomo ha raccontato l’episodio tramite il suo legale. Il direttore del penitenziario: avviata un’indagine interna. Sarebbe stato sottoposto a violenze sessuali da parte di un medico del penitenziario in cui si trova ristretto. Dopo la violenza, sotto choc per l’accaduto, avrebbe tentato il suicidio. Presunta vittima delle molestie avvenute all’interno della casa circondariale di Busto Arsizio un 30enne brasiliano, finito in carcere a seguito di reati contro il patrimonio. Il giovane, particolarmente scosso, avrebbe trovato il coraggio di raccontare l’accaduto al proprio legale di fiducia, che ha subito depositato la denuncia nell’ufficio del comando della casa circondariale ma anche in Procura. Dalla direzione della casa circondariale fanno sapere di aver ricevuto la segnalazione della vicenda che ora è oggetto di una verifica interna. Ma cosa sarebbe accaduto esattamente all’interno dell’ambulatorio, presunto teatro delle avances sessuali prima e della violenza poi? Il giovane ha spiegato di essere stato chiamato ad agosto scorso nell’ambulatorio dell’istituto appunto per eseguire una radiografia al mignolo, essendosi infortunato qualche giorno prima mentre svolgeva attività in palestra. Giunto in ambulatorio il medico presente - a lui sconosciuto - lo avrebbe accolto iniziando subito una “ambigua” conversazione sul fatto di essere stato in Brasile. “Mi ha chiesto di spogliarmi - spiega nella denuncia il giovane - e mi ha toccato”. “Una volta arrivato accanto al macchinario - continua il racconto - ha iniziato a dirmi che ero bellissimo, che avevo dei bei muscoli e che mi voleva”. Il trentenne sottolinea poi di essere stato toccato in tutte le parti del corpo e, messo in ginocchio accanto al macchinario radiografico, di essere stato “bloccato”. “Ha iniziato a strusciarsi su di me - ha denunciato ancora - ho cercato di svincolarmi ma lui ha continuato a farmi complimenti spinti”. Secondo le accuse del detenuto il medico lo avrebbe poi spogliato, molestato sessualmente e si sarebbe tolto a sua volta i vestiti. “Mi ha detto di stare zitto, altrimenti avrebbe dato la colpa a me - racconta ancora il giovane nella denuncia - ed io ero pietrificato. Il medico ha cambiato espressione e si è arrabbiato perché non ero consenziente e mi ha chiesto poi di far finta di farmi male per tornare da lui”. Ora è stata aperta un’indagine interna per chiarire l’accaduto. Il ragazzo, pochi giorni dopo le presunte violenze, avrebbe anche tentato il suicidio. “Nella struttura di Busto Arsizio i problemi sono tanti - spiega il legale del detenuto, l’avvocato Simonetta Lo Re - sovraffollamento, carenza di educatori e di qualsivoglia attività trattamentale”. Ancona. A ruba caciotte e miele del carcere: i prodotti dei detenuti al mercato di piazza Mazzini Corriere Adriatico, 23 settembre 2022 Sono andati a ruba caciotte, miele e olio prodotti nel carcere di Barcaglione, presenti per la prima volta al mercato di Falconara grazie all’iniziativa Campagna Amica di Coldiretti. In piazza Mazzini, nella mattinata di ieri, è stato infatti allestito uno stand della Fattoria Barcaglione, una realtà interna al penitenziario anconetano che permette a 60 detenuti di produrre formaggi con il latte delle 20 pecore allevate, olio dai 300 ulivi coltivati e miele dai 30 alveari. Dietro il bancone i falconaresi hanno trovato Antonio Carletti, imprenditore agricolo, presidente di Federpensionati Coldiretti Ancona e tutor dell’orto sociale del carcere. Ad affiancarlo c’era uno dei detenuti di Barcaglione che, dai prossimi giorni, comincerà a lavorare all’interno della fattoria. Ad accoglierli c’era l’assessore al Commercio, Clemente Rossi. “Grazie a Coldiretti - spiega l’assessore - i frequentatori del mercato del giovedì possono conoscere i prodotti della fattoria di Barcaglione, formaggio, olio e miele a filiera cortissima, visto che provengono dalle colline del nostro territorio. Soprattutto, l’iniziativa permette di conoscere questa realtà, a cui abbiamo dato il massimo appoggio perché unisce la qualità del prodotto a un’iniziativa di grande respiro sociale”. Una grossa soddisfazione per i detenuti-lavoratori che grazie a questo progetto hanno modo di ritrovare fiducia nelle loro capacità, imparare un mestiere e avere un’occasione di riscatto. “La Fattoria Barcaglione è in grado di produrre ogni anno 800 forme di caciotta e tra i sette e gli otto quintali di olio - spiega Carletti - mentre gli alveari quest’anno hanno permesso di raccogliere quattro quintali e mezzo di miele. Falconara, in questo primo giorno, ha risposto benissimo: si tratta di un bel segnale in vista dei prossimi appuntamenti”. Campagna Amica, il mercato di Coldiretti che permette di acquistare prodotti a filiera corta e made in Marche, è presente dal settembre 2021 ogni giovedì in piazza Mazzini, dove sono arrivati anche i venditori del mercato ambulante alimentare un tempo ospitati in piazza Catalani. Arienzo (Ce). “Girone”, nel carcere sono di scena i detenuti di Raffaele Sardo La Repubblica, 23 settembre 2022 “Girone”, nel carcere di Arienzo sono di scena i detenuti. “E’ lo spettacolo della vita attraverso cui cercano un riscatto” dice il regista Gaetano Battista. E c’è chi pensa di fare l’attore anche dopo aver scontato la pena. E’ un viaggio attraverso un mondo contemporaneo, ma distorto dalla realtà dell’onirico e dell’immaginario. Parliamo di “Girone” lo spettacolo messo in scena nel carcere di Arienzo dalla compagnia “La Flotta”, composta per lo più da detenuti dello stesso istituto di pena. Lo spettacolo è andato in scena, grazie alla disponibilità della direttrice diretto da Annalaura de Fusco, nello spazio all’aperto interno del carcere dal 13 al 17 settembre, a cui hanno potuto assistere ogni pomeriggio, circa 50 persone alla volta, riscuotendo tantissimi apprezzamenti. “E’ come un viaggio dantesco. Un “Girone”, appunto in cui gli spettatori vengono portati con mano da clown in questo racconto che rappresenta un po’ la vita di tutti noi - spiega il regista Gaetano Battista che da anni lavora nelle carceri in laboratori teatrali con i detenuti - Realtà e fantasia si incontrano in un cammino fatto di parole, di visioni e di giochi. Voci urlate e sussurrate che diventano monito e guida per chi le ascolta. L’uomo ha paura del confronto con la realtà preferendo abbassarsi a compromessi”, spiega Gaetano. I giovani detenuti si sono calati dentro questo spettacolo costruito collettivamente, dal mese di febbraio. Cioè da quando sono ricominciati i laboratori teatrali. “All’inizio erano 40 i detenuti che hanno chiesto di partecipare - spiega Gaetano Battista - ma col passare del tempo c’è stata una selezione naturale e sono rimaste una quindicina di persone sulle quali è stato costruito lo spettacolo” Ma qui l’essenza di tutto, sono loro, gli attori, a partire dal parcheggiatore, Michele Romano, che sconta dieci anni di carcere e che il giudice di sorveglianza ha affidato proprio a Gaetano Battista. Viene da Scampia. Nella vita ha seguito le orme del padre. Ma è qui che è venuto fuori il suo talento naturale che sta cercando di mettere a frutto per non tornare indietro, in un abisso che ha risucchiato la sua giovane vita. “Questa esperienza - insiste il regista - a lui come agli altri ragazzi, è servita per capire che si può vivere anche diversamente da come avevano sempre pensato di fare. Non è quella l’unica vita possibile”. Il lavoro che è venuto fuori è anche e soprattutto un lavoro sulla memoria, quella di chi ha sofferto l’uccisione di un proprio caro, ma anche di chi subisce l’indifferenza, il disagio, condizioni di vita poco dignitose, del lavoro che non c’è, o di uno Stato che lascia tanti territori in balia di se stessi. “All’inizio il lavoro teatrale che stavamo mettendo in scena - dice ancora Gaetano Battista - non è stato accolto bene da parte dei detenuti. Perché siamo partiti a parlare di vittime di criminalità, di terrorismo. Poi hanno capito che non c’era alcuna denuncia da fare, ma solo memoria, contro l’indifferenza. In questo lavoro teatrale, alla fine, vittime e carnefici si incontrano e cercano uno sbocco comune, un’ancora di salvezza. Perché c’è molta indifferenza negli essere umani”. La fantasia del regista, che ha scritto il testo in collaborazione con Riccardo Sergio, ha creato gli “uomini bombetta”, che sono le voci della coscienza, di quello che è accaduto, delle perdita della memoria, dell’indifferenza, della solitudine dell’omertà”. “Questa esperienza - aggiunge ancora Gaetano Battista - è anche un modo per riscattare l’esistenza di questi ragazzi e per dare la possibilità a quanti hanno lavorato in questo spettacolo non solo di sentirsi protagonisti, ma anche di non sentirsi più come scarto dell’umanità. Ognuno di loro può diventare una persona che ha delle carte da spendere nella società. Qualche risultato già si vede. Michele, che vive a Scampia, vuole continuare a fare l’attore, vuole costruire qualcosa per i bambini, ma soprattutto non vuole che i suoi tre figli intraprendano la strada del padre. E noi lo vogliamo aiutare attraverso il teatro”. Airola (Bn). All’Ipm di “musica, ritmo, parole e lingua” di Catia Paluzzi gnewsonline.it, 23 settembre 2022 Il progetto “Ti Leggo” della Fondazione Treccani Cultura ha accompagnato nel percorso rieducativo minori e giovani adulti ristretti nell’Istituto penale per i minorenni di Airola, offrendo loro un’opportunità di reinserimento nella vita sociale. Le attività laboratoriali in cui sono stati coinvolti i ragazzi hanno utilizzato il genere musicale del rap come strumento di partenza, unito a corsi di studio della lingua italiana scritta e parlata, con approfondimenti dedicati al teatro e alla lettura creativa. Una sezione del progetto è stata dedicata alla catalogazione dei libri della biblioteca, per imparare un mestiere spendibile in ambito lavorativo. Grazie alla musica, che utilizza linguaggi fatti di parole ma anche di sentimenti e di affetti tradotti in suoni e in ritmo, i ragazzi con le loro storie di vita sono diventati protagonisti: scrivendo versi, costruendo un loro stile, esprimendo emozioni che hanno cercato di canalizzare in qualcosa di costruttivo. In occasione della giornata conclusiva, a cui ha presenziato il capo del Dipartimento della giustizia minorile e di comunità, Gemma Tuccillo, si è esibito Amir Issaa, rapper romano protagonista nel panorama musicale italiano, che ha collaborato e accompagnato i ragazzi nelle attività laboratoriali. Amir, che nei suoi testi affronta anche il tema del razzismo, ha voluto insegnare ai ragazzi - partendo dalla sua personale storia di disagio, soprattutto sociale - come attraverso la musica, il ritmo, le parole e le emozioni, si possa trovare la forza per un riscatto personale. Ucraina. Il rapporto Onu: “Commessi crimini di guerra. Scosse elettriche e botte ai detenuti” Il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2022 Il rapporto della commissione d’inchiesta istituita a maggio ha raccolto prove e testimonianze su quanto accaduto dall’invasione dell’Ucraina lo scorso febbraio, senza specificare quale delle parti abbia commesso i crimini. Dai documenti emerge che è stato riscontrato che un numero imprecisato di soldati russi ha commesso violenza sessuale o di genere, con vittime di età compresa tra 4 e 82 anni. Hanno visitato 27 città e insediamenti, nonché tombe e centri di detenzione e tortura, hanno intervistato più di 150 vittime e testimoni e hanno incontrato gruppi di difesa e funzionari del governo. La conclusione: a partire dell’invasione dell’Ucraina lo scorso 24 febbraio, sono stati commessi crimini di guerra, anche contro minori che sono stati “stuprati e torturati”. Sono i risultati della commissione d’inchiesta istituita a maggio e incaricata dal Consiglio diritti umani dell’Onu di indagare su violazioni di diritti in Ucraina. Il presidente Erik Mose ha riferito che “sulla base delle prove raccolte, si è concluso che crimini di guerra sono stati commessi in Ucraina”, senza specificare quale delle parti abbia commesso i crimini. Gli esperti si sono concentrati finora su quattro regioni, cioè Kyiv, Chernihiv, Kharkiv e Sumy. Il team ha esaminato due episodi di maltrattamento contro soldati russi da parte delle forze ucraine; e Mose riferisce anche che è stato riscontrato che un numero imprecisato di soldati russi ha commesso violenza sessuale o di genere, con vittime di età compresa tra 4 e 82 anni. Presentando i risultati finora più dettagliati della loro ricerca, gli esperti incaricati dall’Onu hanno citato le testimonianze di ex detenuti che hanno raccontato di percosse, scosse elettriche e di essere stati costretti a spogliarsi nelle strutture di detenzione russe. Il team ha inoltre espresso grave preoccupazione per le esecuzioni verificate nelle quattro regioni: “Siamo rimasti colpiti dal gran numero di esecuzioni nelle zone che abbiamo visitato. La commissione sta attualmente indagando su morti di questo tipo in 16 città e insediamenti”, ha riferito Mose, aggiungendo che la sua squadra ha ricevuto segnalazioni e sta documentando “accuse credibili riguardanti molti altri casi di esecuzioni”. Stati Uniti. Storia di Adnan Syed, scarcerato grazie alla stampa che non teme i Pm di Valerio Fioravanti Il Riformista, 23 settembre 2022 Una diciottenne di origini sudcoreane, Hae Min Lee, venne strangolata a morte nel gennaio 1999 a Baltimora, ordinata e ricca città più o meno a 150 chilometri da New York (a nord) e altrettanti da Washington (a sud). Venne sospettato un suo compagno di liceo, di qualche mese più giovane, con cui aveva avuto un flirt, Adnan Masud Syed. Il giovane Syed, di origini pachistane e famiglia musulmana, dicono fosse uno studente dotato, sportivo, popolare. Secondo l’ipotesi accusatoria aveva litigato con la ragazza perché era disturbato dal fatto di essere stato lasciato. Prove fisiche nessuna, alcuni elementi indiziari, e una telefonata anonima che aveva suggerito alla polizia di “attenzionarlo”. Un altro ragazzo della stessa scuola prima disse di non sapere niente, poi disse di sapere qualcosa, infine disse di aver aiutato Adnan a seppellire, sotto pochi centimetri di terra in un parco pubblico, il cadavere della ragazza. 20 giorni dopo il ritrovamento del corpo, il “pachistano” venne arrestato. Dopo tutto, nella patria dei telefilm seriali, il movente “sentimentale” sembra ragionevole a tutti, e poi gravita sempre un pizzico di pregiudizio sul fatto che i musulmani proprio non sopportano il confronto paritario con una donna. La famiglia, per fortuna non povera, ha assunto tre avvocati per difendere il giovane, il quale però, nel febbraio 2000, venne condannato all’ergastolo + 30 anni. All’epoca in Maryland era ancora in vigore la pena di morte (verrà abolita nel 2013), ma almeno su questo Syed era stato fortunato: al momento dell’omicidio non aveva ancora compiuto 18 anni, e quindi almeno il braccio della morte gli è stato risparmiato. La famiglia licenziò gli avvocati e ne assunse altri. Trovarono tracce di un possibile alibi che nessuno aveva approfondito: una compagna di scuola che ricordava di averlo visto in biblioteca all’ora dell’omicidio. La pubblica accusa sostenne che non verificare l’alibi fosse stata una mossa intenzionale della “vecchia” difesa, una specie di “cartuccia di riserva” nel caso il processo fosse andato male. In quanto “negligenza volontaria”, la nuova prova doveva essere scartata perché presentata troppo tardi. Un giudice d’appello però, forse vittima anche lui dei telefilm seriali, non deve aver considerato verosimile l’altruismo contemporaneo di tre avvocati disposti a farsi licenziare (e non pagare) pur di aiutare un giovane pachistano, e nel 2015 riconobbe il diritto di Syed ad ulteriori udienze nel corso delle quali circostanziare meglio le sue contestazioni. In queste udienze i nuovi difensori riuscirono a dimostrare che polizia e pubblica accusa erano stati volutamente ambigui nella ricostruzione, fatta attraverso le celle telefoniche dei cellulari, degli spostamenti di vittima e imputato. Con un approfondito “accesso agli atti” dimostrarono poi che la polizia aveva due piste alternative che non erano state comunicate né ai difensori, né men che mai alla giuria popolare, e, in ultimo, portarono in aula la compagna di scuola, Asia McClain, che confermò di aver parlato con Syed nella biblioteca della scuola nella fascia oraria in cui la pubblica accusa aveva collocato con certezza l’omicidio. Tra il 2016 e il novembre 2019 due volte il verdetto di colpevolezza venne annullato, e, contestando soprattutto i ritardi con cui la difesa portava le nuove prove, “ripristinato”. Durante questo “ping-pong”, una giornalista bianca, Sarah Koenig, sollecitata e aiutata dai tre avvocati difensori (due donne, una di origini pachistane, e un uomo) aveva iniziato a seguire il caso con attenzione. La giornalista pensò che le molte cose che a suo avviso non tornavano nelle indagini e nei processi avrebbero richiesto un libro troppo tecnico, che inevitabilmente avrebbe attratto pochi lettori. Virò sull’idea del podcast, e nel 2014 (allora lo strumento era ancora poco diffuso) pubblicò 12 puntate sotto il titolo di Serial. Dopo una iniziale “ricostruzione”, la Koenig ricorse ad un artificio letterario ben collaudato (alla Rashomon verrebbe da dire): ogni puntata conteneva una lettura diversa di quelle che avrebbero potuto essere le ultime 24 ore della giovane Hae. Tutte ricostruzioni diverse, tutte verosimili, e coerenti con i pochi dati certi. Il podcast ha successo, molto successo: 300 milioni tra ascoltatori in streaming e download. Al punto che la Koenig fonda una vera e propria casa editrice, viene contattata da Spotify, e alla fine viene acquisita dal New York Times, scusate se è poco. Il 19 settembre, ormai superati i 40 anni d’età, Adnan Masud Syed è stato scarcerato su cauzione e cavigliera elettronica. Nelle foto all’uscita dal carcere è visibilmente contento (difficile pensare il contrario), indossa un copricapo islamico, un elemento ricorrente nell’iconografia penitenziaria Usa, dove il carcere riavvicina molti alla un tempo trascurata religione degli avi. Cosa è successo? Avevamo lasciato Syed al termine di un ping-pong che apparentemente, seppure solo per motivi procedurali, vedeva la pubblica accusa in vantaggio. Ma il “peso” della visibilità che il podcast e alcuni approfondimenti televisivi avevano conferito al caso hanno indotto la pubblica accusa ad accettare una proposta dei difensori: ripetere le analisi sui reperti fisiologici utilizzando tecnologie che negli ultimi 20 anni sono certamente migliorate. Fatti i test del Dna, nessuna delle tracce rinvenute sul cadavere può essere ricondotta a Syed. L’ufficio del Procuratore ha ammesso che a questo punto il caso era veramente debole, e non si è opposto alla richiesta di scarcerazione dell’imputato. La procura non dice che l’imputato è innocente, ma sostiene di aver bisogno di tempo per riordinare le carte, e rifare il processo, e accetta che l’imputato nel frattempo rimanga “quasi libero”. Vedremo come finirà. Chi scrive segue, lavorando per Nessuno tocchi Caino, la cronaca giudiziaria statunitense da un quarto di secolo. Non succede tutti i giorni che un procuratore ammetta gli errori dei suoi predecessori, ma non è nemmeno un evento così incredibilmente raro come sarebbe in Italia. Notiamo poi che negli Usa un test del Dna dopo 20 anni si può ripetere, perché, per legge, tutte le prove fisiologiche vengono conservate in locali appositi, dove non ammuffiscono. Anche questo in Italia purtroppo sarebbe impossibile. E poi l’elemento più importante di tutti: i giornalisti. Non che quelli americani siano tutti straordinari, ma qualcuno che riesce a contestare radicalmente un pubblico ministero c’è. Non esistono sistemi giudiziari perfetti, ma se i giornalisti non effettuano con la necessaria tranquillità la loro opera di verifica, alcuni sistemi giudiziari diventano molto peggio di altri. Il giornalista “giudiziariamente controcorrente” in Italia, da molto tempo, quasi non esiste più: il pm “criticato” fa causa a lui, al suo direttore e al suo editore, e la vince. Chi viene dopo sta molto attento a tenersi alla larga dalle polemiche. Certo ci sono eccezioni, Il Riformista lo sa, ma sono poche, molto poche. Gli egiziani senza giustizia di Vivian Yee, Allison McCann e Josh Holder Internazionale, 23 settembre 2022 Un’inchiesta del New York Times ha calcolato che sono migliaia le persone in carcere senza prove e senza processo, e spesso senza neanche un’accusa formale. Quando è stato arrestato mentre faceva una ricerca sulla magistratura egiziana, Waleed Salem, dottorando dell’università di Washing­ton, negli Stati Uniti, ha chiesto di cosa era accusato. Adesione a un gruppo terroristico e diffusione di notizie false, ha risposto la procura. “Per un attimo sono stato sollevato, perché era così assurdo, non c’erano prove, era tutto molto facile da confutare”, dice il ricercatore di 42 anni. Ma come poi avrebbe scoperto “una volta che ti appioppano queste etichette, entri in un buco nero”. Ormai era intrappolato. Trattenuto in custodia cautelare, Salem non è mai stato processato né formalmente incriminato. Invece, ogni volta che arrivava la scadenza del periodo di detenzione legale, un magistrato prolungava la sua reclusione in un’udienza che di solito durava circa un minuto e mezzo. “I primi cinque mesi cerchi di convincerti che sono solo cinque mesi”, afferma Salem. “Ma una volta che passano e tu sei sempre lì, cominci a temere il peggio”. Secondo i ricercatori e le organizzazioni per i diritti umani, l’Egitto detiene decine di migliaia di prigionieri politici. Il loro numero è lievitato a causa della repressione sempre più dura attuata dal presidente Abdel Fattah al Sisi contro i dissidenti. Anche i predecessori di Al Sisi incarceravano gli oppositori, ma lui lo ha fatto su scala enormemente più vasta, trasformando la procedura amministrativa della detenzione preventiva nel motore principale della repressione. Le forze di sicurezza arrestano le persone in strada o nelle loro case, facendole sparire senza comunicarlo alle famiglie o agli avvocati. Quando i detenuti ricompaiono sotto custodia i procuratori li accusano di attività terroristica e li trattengono per mesi o anni senza neppure dover presentare le prove in un processo. La vicenda di cui Salem è rimasto vittima nel 2018 ha colpito egiziani di ogni tipo, etichettati come nemici dello stato anche per critiche molto blande. Un politico è stato arrestato perché pensava di candidarsi contro Al Sisi; due donne per essersi lamentate dell’aumento del biglietto della metropolitana; e una recluta per aver pubblicato su Facebook un’immagine di Al Sisi con le orecchie da Topolino. Alcuni prigionieri politici hanno avuto dei processi, anche se sbrigativi, e hanno ricevuto condanne pesanti. Ma ai detenuti in custodia cautelare non è concessa nemmeno questa giustizia di facciata. Nei tribunali speciali per il terrorismo, in cui il governo di Al Sisi trascina gli oppositori politici, le autorità non presentano accuse formali o prove, e in molti casi non consentono ai detenuti neanche di difendersi. Non esistono atti pubblici che documentino quante persone sono detenute in custodia cautelare. Ma un’analisi fatta dal New York Times sui registri dei tribunali scritti a mano da avvocati difensori volontari mostra per la prima volta il numero di persone detenute senza processo, e la spirale di procedure legali che può trattenerle a tempo indeterminato. Per stimare quanti sono stati incastrati in questo circolo vizioso, il New York Times ha confrontato i nomi e i numeri di fascicolo delle persone comparse più volte in tribunale. Spesso sono usate grafie e numeri di fascicolo diversi, rendendo impossibile un calcolo esatto. Ma abbiamo usato un soft­ware per esaminarli e controllare attentamente tutte le voci tenendo conto delle grafie simili. Il totale reale è probabilmente maggiore della nostra stima, che è solo un’istantanea parziale del sistema. Infatti il nostro calcolo non considera i detenuti arrestati e rilasciati entro i cinque mesi, che è il limite dopo il quale si viene chiamati in tribunale per la prima volta. E non include neppure gli egiziani incriminati fuori della capitale. Inoltre non ci sono resoconti pubblici dei prigionieri trattenuti in modo non ufficiale nelle stazioni di polizia e nelle basi militari, o di chi è semplicemente scomparso. “I cittadini comuni finiscono in arresto sempre più spesso”, afferma Khaled Ali, un avvocato per i diritti umani. La custodia cautelare dovrebbe servire per dare alle autorità il tempo di indagare, dice. “Ma in realtà è usata come punizione”. Le organizzazioni per i diritti umani stimano che in Egitto ci siano 60mila prigionieri politici, un numero che comprende i detenuti in custodia cautelare e quelli che sono stati processati e condannati, le persone sospettate di terrorismo o accusate di avere opinioni politiche non allineate. L’Egitto da tempo smentisce di avere prigionieri politici. Le persone arrestate con l’accusa di criticare le autorità, dicono i funzionari, minacciano l’ordine pubblico. “Anche protestare è vietato per legge”, ha dichiarato in un’intervista Salah Sallam, ex esponente del consiglio nazionale per i diritti umani, un organo di nomina governativa. “Non si può definire prigioniero politico una persona che ha cospirato contro lo stato”. Alcuni funzionari hanno cominciato ad ammettere che s’incarcerano persone per le loro idee politiche, affermando però che è una pratica necessaria per ripristinare la stabilità dopo la rivoluzione del 2011. In carcere e nei tribunali non c’è mai stata alcuna finzione sulla natura del reato. Secondo avvocati ed ex detenuti, le guardie e i giudici si riferiscono apertamente ai detenuti non legati a crimini violenti chiamandoli “politici”. Ufficialmente, però, la maggior parte di quelli che si trovano in custodia cautelare è accusata di adesione a gruppi terroristici, indipendentemente dal fatto di essere o meno legati a fatti violenti. Così le autorità arrestano in nome della sicurezza chi è considerato un oppositore. Il governo non fa distinzione tra un militante che piazza bombe e un utente di Facebook che si lamenta dell’aumento dei prezzi: entrambi sono etichettati come terroristi. Un gruppo di ricerca egiziano che monitoria il sistema giudiziario ha scoperto che dal 2013 al 2020 circa 11.700 persone sono state incriminate per reati di terrorismo. La stragrande maggioranza non ha legami con l’estremismo violento. “Questo dimostra come l’accusa di terrorismo abbia perso qualunque significato”, dice Mohamed Lotfy, direttore della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecrf), che rappresenta i prigionieri politici. “È una cosa insensata, irrazionale”. Il quadro giuridico della custodia cautelare dà una parvenza di giusto processo. Ma le interviste condotte con decine di persone - tra cui detenuti, ex detenuti, familiari, avvocati, attivisti e ricercatori - dipingono un sistema in cui procuratori e giudici restringono o negano sistematicamente qualunque diritto dei carcerati. Nei primi cinque mesi, i detenuti possono essere trattenuti legalmente per due settimane sulla base delle accuse presentate dai procuratori, e il periodo può essere prorogato se i procuratori chiedono più tempo per indagare. È quello che succede nella maggior parte dei casi, così la reclusione si rinnova ogni quindici giorni senza che siano presentate accuse formali o prove. Dopo cinque mesi il detenuto ottiene un’udienza davanti al giudice di un tribunale antiterrorismo, che può rinnovare la reclusione per 45 giorni. In teoria le udienze danno ai detenuti la possibilità di contestare la loro incarcerazione. In realtà, gli avvocati difensori sono rari e quasi mai vengono presentate delle prove. Le udienze sono chiuse al pubblico, perfino ai familiari dei detenuti. Gli imputati compaiono in gabbie di vetro affollate e insonorizzate, quindi non possono parlare al giudice né sentire i verdetti. Dopo cinque mesi di custodia cautelare, Waleed Salem è passato al tribunale antiterrorismo. Quando è stato fatto il suo nome, il giudice ha premuto un pulsante riattivando l’audio della gabbia e consentendogli di parlare. “Vostro onore, io sono solo uno studioso come lei”, ha detto. “Ho una figlia, la prego, lo tenga in considerazione”. Un avvocato nominato per rappresentare Salem e una mezza dozzina di altri imputati si è avvicinato al banco, spiegando che l’accusa non aveva mostrato prove e che le incriminazioni erano vaghe e infondate. Il giudice ha prorogato la reclusione per altri 45 giorni. Salem è stato liberato nel dicembre 2018, quasi sette mesi dopo il suo arresto. Ma non può ancora lasciare il paese, e non può vedere la figlia che vive in Polonia con la madre. “Sapevo cosa aspettarmi”, dice, “ma ci si aggrappa sempre alla speranza”. La pandemia ha peggiorato la situazione. Dal 2021 gli agenti portano i detenuti in stanze sotto le aule senza condurli davanti al giudice: un modo per rispettare l’obbligo di trasferirli in tribunale impedendogli però di rivolgersi al giudice, e per risparmiare tempo. Le autorità presentano le misure come precauzioni contro il covid-19. Ma questa spiegazione sarebbe più credibile, dicono avvocati e organizzazioni per i diritti umani, se le carceri non fossero sovraffollate, se le autorità non avessero negato i dispositivi di protezione ai detenuti e non avessero impedito ai familiari di fornirglieli. Alcune udienze durano pochi minuti prima che il giudice firmi l’ordine di rinnovo. “Tutto questo non ha nulla a che fare con la giustizia”, dice Khaled el Balshy, il direttore di Darb, uno dei pochi mezzi d’informazione non allineati al governo. “Recitiamo tutti una parte. È una farsa”. I periodi di 45 giorni possono essere rinnovati ripetutamente per un massimo di due anni. Dopodiché la legge prevede che il detenuto sia rilasciato, ma non sempre succede. In molti casi le procure aprono un nuovo procedimento, facendo ricominciare da capo il conto dei due anni. Tra il gennaio 2018 e il dicembre 2021 è capitato ad almeno 1.764 detenuti, secondo l’Egyptian transparency center for research, documentation and data management. Più di un quarto di loro ha dovuto affrontare due inchieste. Alcuni sette. Ola Qaradawi, 56 anni, e suo marito Hosam Khalaf, 59, sono stati arrestati durante una vacanza con la famiglia nel nord dell’Egitto nel 2017. I coniugi, entrambi residenti negli Stati Uniti, sono stati accusati di legami con un gruppo terroristico. Ma sembra che il vero crimine fosse che erano vicini a un dissidente di spicco del colpo di stato che nel 2013 aveva portato al potere Al Sisi. Dopo due anni di carcere, che Qaradawi ha trascorso in isolamento, è arrivato l’ordine di scarcerazione per entrambi. Ma invece di mandarli a casa, gli agenti li hanno portati in procura, dove sono stati accusati di aver commesso nuovi reati in carcere. “Stavamo organizzando la festa per il rilascio”, racconta la figlia, Aya Khalaf, cittadina statunitense. “Era come se tutto quello che avevamo passato fosse stato gettato al vento”. Ola Qaradawi è stata rilasciata nel dicembre 2021, dopo quattro anni di detenzione. Suo marito è ancora in carcere. Anche se custodia cautelare e pena detentiva sono legalmente due cose diverse, spesso la prima equivale a una pesante punizione. I detenuti sono chiusi in carceri sovraffollate e sporche, a volte per anni. Sono spesso privati di visite, lenzuola, cibo e cure mediche. La tortura è diffusa. Le organizzazioni per i diritti umani affermano che negli ultimi cinque anni in Egitto centinaia di persone sono morte mentre erano in custodia cautelare. Il governo sostiene che uno dei motivi per cui bisogna aspettare tanto per avere un processo è che il sistema giudiziario è intasato. Procure e tribunali non riescono a stare dietro al ritmo degli arresti, aumentati man mano che l’Egitto estendeva la sua crociata contro il dissenso. Andato al potere dopo che nel luglio 2013 l’esercito aveva deposto Mohamed Morsi (il primo presidente democraticamente eletto del paese) Al Sisi aveva promesso sicurezza e prosperità, tutto quello che molti egiziani desideravano dopo anni di caos e conflitto sociale. Ma ha usato la stabilità per giustificare l’autoritarismo. All’inizio il governo si è concentrato sui Fratelli musulmani, il movimento islamista guidato da Morsi, accusandoli degli attacchi armati che tormentavano il paese. Il gruppo era considerato una minaccia politica, così le autorità hanno preso di mira chiunque fosse sospettato di farne parte o di andare alle sue manifestazioni. Poi è stato il turno di oppositori politici, attivisti, giornalisti e professori universitari. Secondo l’organizzazione che monitora il sistema giudiziario, dal 2013 al 2020 sono stati arrestati 110 attivisti, 733 operatori dell’informazione e 453 professori. Alla fine la repressione ha toccato anche manifestanti e cittadini comuni. Quando nel 2019 ci sono state deboli proteste antigovernative sono state arrestate almeno quattromila persone, comprese molte che erano solo di passaggio. Questi arresti hanno anticipato un giro di vite molto più ampio in cui le autorità, memori della rivoluzione del 2011, hanno cercato di prevenire nuove agitazioni arrestando persone che secondo loro potevano avere idee sovversive. A piazza Tahrir, nel centro del Cairo, dove nel 2011 Facebook e Twitter avevano contribuito a radunare centinaia di migliaia di manifestanti, gli agenti della sicurezza hanno cominciato ad arrestare i passanti dopo averli fermati in modo casuale e aver ispezionato i loro telefoni e i profili sui social network alla ricerca di contenuti politici. Al ministero dell’interno esiste un’unità apposita, che passa al setaccio i social network alla ricerca di post critici verso il governo, facendo arrestare alcuni utenti per aver semplicemente cliccato “mi piace” o condiviso i contenuti. Durante gli anniversari politicamente sensibili come quello della rivoluzione, la polizia fa retate e arresta i giovani che camminano vicino ai punti caldi della protesta del 2011. Secondo l’Egyptian transparency center, tra il 2020 e il 2021 più di 16mila persone sono state incarcerate, arrestate o convocate dai servizi di sicurezza per ragioni politiche, una cifra che non include gli arresti nel Sinai del nord, dove il governo combatte un’insurrezione islamista e da dove arrivano poche informazioni. Nella maggior parte dei casi queste persone sono finite direttamente in custodia cautelare, anche se per lo più non compaiono nelle stime del New York Times, perché sono state rilasciate entro i cinque mesi. L’impennata di casi ha intasato il sistema, rallentando i tribunali e affollando le carceri. I giudici faticano a smaltire le cause. Gli avvocati raccontano di aver assistito a sessioni in cui ottocento imputati sono rimasti ammassati nelle gabbie ben oltre la mezzanotte. L’accumulo di arretrati rende le lunghe attese prima dei processi “inevitabili”, afferma il generale Khaled Okasha, capo del Centro egiziano per gli studi strategici, un istituto di ricerca filogovernativo. E ha anche prodotto una corsa alla costruzione di penitenziari. Dal 2011 in Egitto ne sono stati aperti sessanta, secondo la stampa e l’Arabic network for human rights information, un’ong con sede al Cairo costretta a chiudere nel gennaio 2022 per le intimidazioni del governo. Quando le persone scompaiono in Egitto - trascinate via da casa in piena notte da uomini armati, prelevate mentre camminano per strada - non possono neppure fare una telefonata. Le famiglie a volte aspettano mesi prima di sapere che i loro cari sono entrati nel limbo della custodia cautelare. Alcune non sapranno mai nulla. Genitori e fratelli vanno a bussare ai commissariati e agli uffici della sicurezza nazionale, spesso solo per sentirsi dire dai funzionari che chi cercano non è lì. I legali spiegano che possono volerci una o due settimane prima che i sospettati siano portati in procura per essere interrogati. A volte gli avvocati per i diritti umani li aspettano, allertati dalle famiglie. Hanno sviluppato un modo semplice per verificare chi c’è: alle udienze espongono un foglio di carta con un nome scritto a mano, sperando che qualcuno dalla gabbia risponda con un saluto. Per alcuni detenuti è l’unico modo per far sapere ai familiari dove si trovano. “Le famiglie sono catapultate in un vortice di incertezza”, dice Khaled Ali, l’avvocato per i diritti umani. “A volte si augurano che chi è stato arrestato compaia in procura, perché così almeno sanno che è vivo”. Per reagire alle critiche della comunità internazionale sulle violazioni dei diritti umani e per placare il presidente statunitense Joe Biden, che in campagna elettorale aveva promesso che non ci sarebbero stati più “assegni in bianco” per Al Sisi, nell’autunno 2021 il governo egiziano ha inaugurato una “strategia nazionale per i diritti umani”. Quest’anno inoltre Al Sisi ha lanciato un “dialogo nazionale”, un’opportunità per l’opposizione, afferma, di tornare a confrontarsi e sollecitare le riforme. Un comitato presidenziale ha concesso l’amnistia a decine di detenuti politici. Alcune figure vicine al governo hanno discusso pubblicamente l’ipotesi di limitare la durata della detenzione preventiva. Ma pur avendo rilasciato alcuni dissidenti e politici dell’opposizione, l’Egitto ne ha condannati altri al carcere. Gli arresti continuano a ritmo sostenuto. E le famiglie dei detenuti dicono che gli abusi nelle carceri non si sono mai fermati. La maggior parte dei funzionari egiziani contattati per questo articolo si è rifiutata di commentare. Le richieste inviate all’ufficio del procuratore di stato, ai penitenziari e alla presidenza non hanno ricevuto risposta. Salah Sallam riconosce che ci sono state alcune “infrazioni”, ma afferma che spie e organizzazioni straniere hanno esagerato questi problemi per danneggiare il governo. Nel gennaio 2022 l’amministrazione Biden ha deciso di trattenere 130 milioni degli 1,3 miliardi di dollari in aiuti militari che gli Stati Uniti assicurano all’Egitto ogni anno come lascito del trattato di pace del 1979 tra Egitto e Israele, affermando che le riforme in tema di diritti umani erano insufficienti rispetto a quanto chiesto da Washington. Ma ne ha concessi altri 170 milioni, anche questi in teoria subordinati alle riforme. E poi c’è stato un premio di consolazione: un accordo da 2,5 miliardi di dollari per la vendita di armi, svelato qualche giorno prima del taglio degli aiuti. A volte il detenuto sparisce nelle fauci del sistema, e non viene mai più ritrovato. Abdo Abdelaziz, un commerciante di pesce in salamoia di 82 anni che vive ad Assuan, nel sud del paese, in un piccolo appartamento impregnato dell’odore acre della merce, ha aspettato per giorni nella stazione di polizia dopo che gli agenti della sicurezza avevano arrestato suo figlio nel 2018. Era certo che Gaafar sarebbe uscito presto: era un autista, padre di quattro figli, non aveva tempo per la politica. “Quando sentivo che qualcuno era arrestato pensavo che doveva aver fatto qualcosa di sbagliato”, dice. “Ma siccome noi non facciamo politica e non siamo fondamentalisti, ero sicuro che l’avrebbero lasciato andare”. In seguito Abdelaziz è andato in tribunale, e gli avvocati gli hanno spiegato che per loro aiutarlo poteva essere rischioso. Allora ha contattato il procuratore capo egiziano. Non avendo ricevuto risposta, è andato al Cairo per la prima volta in vita sua viaggiando in treno per quindici ore, determinato a smuovere qualcosa. Cacciato anche dalla procura della capitale, è stato indirizzato all’ufficio di Assuan, che l’ha liquidato. “Credevo che la legge e la costituzione fossero rispettate. Per questo ci sono andato”, dice Abdelaziz. “E non ho trovato nulla di tutto ciò”. I due uffici non hanno risposto alle richieste di commenti. Alcuni avvocati senza scrupoli hanno approfittato della disperazione di Abdelaziz, dicendogli che Gaafar era stato incriminato per adesione a un’organizzazione terroristica, e che avrebbero potuto trovarlo per circa 640 dollari. Lui ha pagato. Poi è tornato ancora al Cairo, ma non ha mai visto suo figlio. Allora ha fatto un altro tentativo: è andato in tutti i padiglioni della famigerata prigione di Tora, nella remota possibilità che gli agenti gli confermassero che Gaafar era lì. Le guardie hanno controllato i registri e hanno risposto che suo figlio non era nell’elenco. Non sapendo più cosa fare, Abdelaziz è tornato ad Assuan. Ha avuto un po’ di speranza quando Biden è stato eletto alla fine del 2020. “Con lui forse la libertà varrà qualcosa”, si è detto. Dopo le elezioni statunitensi l’Egitto ha liberato più di duecento prigionieri in quello che alcuni hanno interpretato come un gesto di buona volontà. Poco dopo, riferiscono gli avvocati, contro almeno 140 di loro sono stati aperti nuovi procedimenti. Iran. Si moltiplicano le città della protesta. E i morti: 31 di Farian Sabahi Il Manifesto, 23 settembre 2022 Internet rallentato, app bloccate. Mobilitazione ovunque: “No al turbante, sì alla libertà”. Il padre di Mahsa sfida le autorità e parla con la Bbc: “Non mi fanno vedere il suo corpo”. “No al foulard, no al turbante, sì alla libertà e all’uguaglianza!”. È uno degli slogan dei manifestanti che in tutto l’Iran protestano per l’uccisione di Mahsa Amini, fermata dalla polizia morale martedì 13 settembre e morta venerdì scorso dopo tre giorni di coma. La scomparsa cruenta di Mahsa ha scatenato proteste in oltre venti città dell’Iran: innescate nella provincia orientale del Kurdistan, sono arrivate nella capitale Teheran per diffondersi nel sud del Paese a Bandar Abbas, nel centro a Isfahan e nella città santa di Mashad, a est. Quelle in atto in Iran sono le proteste più significative dopo quelle del novembre 2019 motivate dall’aumento del prezzo del carburante. Oggi, di diverso, c’è la presenza in prima linea di tante donne. In questi sei giorni di proteste, secondo le autorità iraniane i morti sono almeno 17. Per l’ong Iran Human Rights con sede a Oslo, i civili uccisi dalle forze di sicurezza sarebbero almeno 31. Numerosi i feriti, un migliaio le persone arrestate. Tra queste, le fotografe Niloufar Hamedi del giornale riformatore Shargh, e Yalda Moayeri che lavora per i media locali. A fare notizia è l’intervista di Amjad Amini, padre di Mahsa, al servizio in lingua persiana della Bbc: “Non mi è stato concesso vedere il cadavere di mia figlia e nemmeno leggere l’autopsia. Ne ho potuto vedere di sfuggita il viso e i piedi nel momento in cui l’abbiamo seppellita. I piedi erano segnati dalle ferite. Mahsa godeva di ottima salute. Testimoni mi hanno riferito che è stata picchiata dalla polizia”. Bbc Persian è l’emittente maggiormente invisa alla leadership di Teheran perché dà voce - in lingua originale - all’opposizione all’estero ed è un canale molto seguito all’interno del Paese. Nel tentativo disperato di diminuire la diffusione di notizie, le autorità hanno rallentato internet e bloccato l’accesso a Instagram e a WhatsApp. Amini avrebbe compiuto ventitré anni due giorni fa. Abitava nella città nordoccidentale di Saghez, nel Kurdistan iraniano. Era arrivata nella capitale per qualche giorno di vacanza, con la famiglia. Dopodiché, sarebbe tornata a casa per studiare all’università. “Microbiologia, voleva diventare dottore”, ha raccontato il padre alla Bbc. Era stata fermata dalla polizia morale perché il suo abbigliamento non rispettava il severo codice della Repubblica islamica. Le autorità negano sia stata malmenata e sostengono che abbia avuto un infarto improvviso. In prima battuta Mehdi Faruzesh, direttore generale di Medicina Forense nella provincia di Teheran, aveva dichiarato che “non ci sono segni di ferite sulla testa e sul viso, non ci sono graffi attorno agli occhi, e nemmeno fratture alla base del cranio”. Le autorità hanno anche negato che vi fossero ferite agli organi interni. Il direttore di Medicina Forense aveva aggiunto che la ragazza aveva subito un’operazione chirurgica al cervello all’età di otto anni. Un particolare che sia la famiglia sia le compagne di scuola di Mahsa, raggiunte dalla Bbc, hanno negato con fermezza. In questi decenni di repressione alle famiglie delle persone detenute e uccise, non necessariamente attivisti, la magistratura iraniana ha sempre detto di tacere per non incorrere in guai ulteriori. Ora a testimoniare che Mahsa è stata picchiata è anche il fratello Kiarash, 17 anni, che era con lei. Altre persone hanno riferito che la ragazza è stata percossa dentro la camionetta e successivamente nel commissariato di polizia. “Mio figlio ha implorato che Mahsa non fosse portata via, ma se la sono presa anche con lui, i suoi abiti sono stati lacerati”. In Iran le forze dell’ordine sono dotate di telecamera ma quel giorno “le batterie erano scariche”. In merito all’abbigliamento di Mahsa, il padre sostiene che “era vestita in modo appropriato, con il soprabito lungo sopra ai pantaloni”.