Quella vita complicata a cui Maurizio ha deciso di porre fine di Elton Kalica Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2022 È morto Maurizio. Si è tolto la vita nel carcere di Verona. Aveva poco più di settant’anni. Il giudice lo aveva condannato a sette anni per essere entrato in banca con un taglierino e aver rapinato la cassa. Al processo Maurizio ha sostenuto la sua innocenza. Invece l’assoluzione è arrivata solo per i suoi due presunti complici, suoi coetanei. Per lui invece una sentenza dura, che forse non voleva tanto retribuire la società delle poche centinaia di euro sottratte alla banca, quanto invece punire il nonno rapinatore per la sua scelta di vita. Ho conosciuto Maurizio nel 2006, quando entrò a fare parte della redazione di Ristretti Orizzonti nel carcere di Padova. Sapeva poco di computer e scrittura, ma aveva una vasta conoscenza del carcere. Detenuto dal 1976, era uscito sì, poche volte. Periodi brevi, conclusi sempre allo stesso modo. Maurizio rifiutava l’idea di derubare le persone o di fare altri reati, era un bandito ma un “bandito di altri tempi” per cui colpire le banche aveva una sua “morale”. Passata qualche settimana a guardarsi intorno, Maurizio si è talmente appassionato del lavoro di redazione che ha imparato velocemente ad usare il computer diventando una risorsa indispensabile. Lavorava continuamente. Partecipava con entusiasmo alle riunioni. Eravamo più di trenta detenuti a quei tempi in redazione. Diverse età, diverse etnie, diverse storie. Nonostante la rigidità apparente dei suoi principi da bandito e dei suoi codici da detenuto, riusciva sempre ad apportare un contributo costruttivo. Sapeva convertire i suoi tanti anni di esperienza carceraria in chiavi interpretative dei problemi che andavamo analizzando. Poi si portava le registrazioni in cella e le sbobinava offrendoci materiale prezioso su cui continuare a lavorare. Era sempre attivo nell’organizzazione dei convegni, gli piaceva stampare le etichette, preparare il materiale da distribuire ed era il primo ad aiutare i più giovani a scaricare le sedie e metterle in fila. Degli incontri con le scuole non ne perdeva uno. L’idea di fare prevenzione lo entusiasmava. Portava sempre la sua testimonianza raccontando le conseguenze delle sue scelte di vita: usava spesso anche l’autoironia per dire ai ragazzi che non c’è nulla di eroico nella vita del rapinatore, solo tantissima galera. A un certo punto ha ottenuto un lavoro esterno. Come tanti altri abbiamo sperato di non vederlo più sul giornale, ma dopo qualche mese abbiamo saputo che i suoi sessant’anni non gli avevano impedito di affrontare di nuovo il bancone di una filiale diventando per le cronache il nonno rapinatore. Così ha ricevuto altre condanne ed è finito al centro clinico del carcere di Opera. Non ne ho più saputo nulla per diversi anni, fino a quando ho letto sul giornale che era stato trovato alla stazione di Bologna accasciato per terra con il peacemaker scarico. Quindi arrestato in quanto evaso dagli arresti domiciliare che gli erano stati concessi perché malato. Forse, oltre all’evasione gli è stata poi contestata anche la rapina. Così, credo che sia stato condannato ad altri sette anni di carcere. Mentre la cronaca si diverte a chiamarlo il nonno rapinatore, io continuo a ricordarlo come attivista che scriveva per cambiare il carcere. E ricordo che dopo l’indulto del 2006 c’era stato un ritorno alle politiche di carcerizzazione con un aumento del numero dei suicidi. Ecco di fronte a tale tragedia mi è venuto in mente proprio un articolo che Maurizio aveva scritto in quel periodo. Diceva che “Il suicidio credo sia un attimo in cui il buio ti travolge, e non ti fa razionalmente capire cosa stia succedendo: io in carcere a volte ho passato quell’attimo, poi la ragione torna a riprendere il suo posto, e non si arriva più ad un gesto così estremo”(1). Non so se il suicidio di Maurizio sia stato un attimo di travolgente buio che ha sopraffatto la ragione. Quello che invece penso è che Maurizio non doveva essere condannato con la pesantezza con cui lo avevano condannato nel 1979. Non un settantenne accusato di aver portato via poche centinaia di euro da una banca. Così come sono convinto che non doveva essere detenuto in carcere. E chiudo questo ricordo di Maurizio citando ancora il suo articolo, “Mi chiedo se è giusto che tante persone muoiano in galera in una società che orgogliosamente si vanta di aver presentato all’ONU la moratoria contro la pena di morte, così lodevole sotto il profilo umanitario. E mi domando anche se non sia il caso che chi si batte contro la pena di morte cominci a indignarsi e a chiedere a gran voce che si faccia di più perché in carcere si muoia un po’ meno. O forse è meglio lasciare le cose come stanno, tanto, chi può scandalizzarsi se si suicida un detenuto, cioè un emarginato dalla società? alla fine non se ne accorge quasi nessuno, se non i suoi stessi famigliari”. (1) “In carcere le persone sono più fragili, serve più attenzione a chi sta male”, di Maurizio Bertani, Ristretti Orizzonti, dicembre 2007 In carcere le persone sono più fragili, serve più attenzione a chi sta male di Maurizio Bertani (scritto nel dicembre 2007) Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2022 Il suicidio credo sia un attimo in cui il buio ti travolge, e non ti fa razionalmente capire cosa stia succedendo: io in carcere a volte ho passato quell’attimo, poi la ragione torna a riprendere il suo posto, e non si arriva più ad un gesto così estremo. Nel “mondo libero” però ci sono più opportunità di recupero del proprio raziocinio, per il semplice fatto che qualunque sia la disgrazia che capita, le persone hanno almeno un forte ambiente sociale e famigliare che fa da scudo e protegge. Io in carcere ci sto vivendo e anche se “a spezzoni” vi ho trascorso gli ultimi trent’anni, cosi ho avuto modo di vedere molte vite spegnersi dietro quel gesto irrazionale del suicidio. Ho visto ragazzi, ma anche adulti stremati nel fisico e nella mente per la gravità del reato commesso, ho visto gente prendere elevatissime condanne, e vivere in quel limbo di mancanza di raziocinio che spinge a gesti estremi, ho vissuto sulla mia pelle la realtà della morte di una persona cara e il fatto di non voler accettare che un padre sopravviva al proprio figlio. Più di una persona non è riuscita a “rientrare” da quella perdita totale di equilibrio e razionalità, qualcuna per fortuna ha poi ritrovato un minimo di desiderio di vivere. Ma raramente ho visto le istituzioni delle carceri dove sono stato attivarsi per prendere in carico davvero le persone, attraverso psicologi e personale competente, e dare loro assistenza e sostegno, eppure non mi possono dire che non si sono accorti del loro star male. Perfino a me, semianalfabeta in materia di psicologia, spesso queste situazioni si sono presentate chiarissime. Io sono consapevole che in carcere le persone sono più fragili perché non hanno neppure la protezione della famiglia e degli amici, ma allo stesso tempo sono convinto che chi deve sorvegliare ha le sue responsabilità: la sorveglianza di persone private della libertà dovrebbe infatti prevedere un costante lavoro di recupero sociale e di salvaguardia della vita umana. Certo ci sono episodi che nessuno può realmente prevenire, ma ce ne sono altri, forse troppi, che si potevano evitare, e non credo che sia impossibile immaginare un’attenzione diversa per le persone detenute che manifestano un disagio particolare. Mi chiedo se è giusto che tante persone muoiano in galera in una società che orgogliosamente si vanta di aver presentato all’ONU la moratoria contro la pena di morte, così lodevole sotto il profilo umanitario. E mi domando anche se non sia il caso che chi si batte contro la pena di morte cominci a indignarsi e a chiedere a gran voce che si faccia di più perché in carcere si muoia un po’ meno. O forse è meglio lasciare le cose come stanno, tanto, chi può scandalizzarsi se si suicida un detenuto, cioè un emarginato dalla società? alla fine non se ne accorge quasi nessuno, se non i suoi stessi famigliari. “Sbarre di Zucchero” contro i suicidi rosa in carcere di Alessandra Ventimiglia La Discussione, 22 settembre 2022 Dopo l’ennesimo suicidio di una giovane donna in carcere, quello della ventisettenne Donatella Hodo, avvenuta a Montorio il 18 agosto scorso, un gruppo di detenute ed ex detenute si sono unite dando vita al gruppo social “Sbarre di Zucchero”, con l’unico scopo di denunciare le gravi condizioni degli istituti penitenziari femminili e combattere affinché le detenute siano rispettate e trattate come esseri umani. Solidali con la giovane mamma cui avevano tolto il figlio alla nascita e per questo suicida, vogliono spiegare perché le carceri femminili non funzionano. Ce ne ha parlato Michela Tosato, ex compagna di cella di Donatella e creatrice del gruppo. Com’è nata questa iniziativa? Nessuna di noi si aspettava quel gesto di Donatella, l’idea del gruppo è nata subito dopo. Conoscendo i vuoti e le mancanze, il senso di abbandono che si prova dentro, con tutte le ragazze che hanno condiviso un pezzo di vita con lei abbiamo deciso di unire le forze per raccontare la realtà che si nasconde dietro la detenzione femminile. Da gennaio a settembre si sono tolte la vita ben 62 persone (15 nel solo mese di agosto), di queste 4 erano donne. Un numero alto se si considera che la percentuale della popolazione detenuta femminile rappresenta solo il 4,2% del totale. Quali sono le maggiori criticità che incontra una donna detenuta in carcere? La vita di una detenuta è più dura di quella di un detenuto uomo, in quanto limitata nelle strutture e nelle attività. Nel carcere di Verona, ad esempio, alcuni spazi prima destinati alle donne ora sono diventati luoghi per svolgere solo attività maschili [per una loro superiorità numerica - ndr]. Nelle celle c’è quasi sempre solo acqua fredda e le docce esterne sono utilizzabili solo per un’ora al giorno. All’interno delle piccole celle si cucina dentro i bagni… Le strutture in cemento sono caldissime in estate e fredde e umide in inverno, quindi nocive per la salute. Spesso la donna in carcere non è solo detenuta, ma anche madre; in ogni caso ha una affettività diversa rispetto agli uomini e, quindi, ha un grande bisogno fisico e mentale di avere maggiori contatti con la famiglia, cosa che è sempre difficile e complicato da attuare. Per non parlare della femminilità: è la prima cosa che ti tolgono appena entri in carcere. Difficile procurarsi cosmetici e altri effetti personali, non esistono trucchi, profumi e anche i saponi per la pulizia quotidiana scarseggiano. Perché, a tuo parere, ci sono tanti suicidi in carcere? I suicidi avvengono per lo più tra i giovani, ragazzi e ragazze spesso con problemi legati alla tossicodipendenza. È un ambiente difficile, se non sei strutturato e forte per sopportarlo la tua mente finisce per esserne distrutta. Il tempo infinito, il dover aspettare per ricevere qualsiasi cosa logora. E poi c’è la solitudine, il senso di abbandono, lo sconforto, il sentirsi continuamente sbagliati, la sensazione di essersi rovinati la propria vita e di non avere più alcun un futuro. Perdi la speranza e se in quel momento sei solo ti lasci andare alla disperazione e commetti atti terribili. Quali sono gli scopi e le azioni che il gruppo si è prefissato di raggiungere in concreto? Ancora non sappiamo cosa faremo da “grandi”, ma il nostro obbiettivo è testimoniare per fare conoscere tante realtà celate. Tanti parlano di carcere ma non lo conoscono veramente. Lo faremo con il nostro gruppo Facebook e con i vari eventi che stiamo organizzando sia on line che in presenza. La nostra mission è cercare di cambiare una esecuzione penale che non funziona. Vi rivolgete, quindi, soprattutto alle istituzioni, cosa chiedete? Solo cose realizzabili: poter fare più telefonate all’interno degli istituti penitenziari, mentre ora sono a discrezione delle direzioni; misure alternative al carcere e maggior accompagnamento al reinserimento sociale. Perché quando un detenuto esce e ritorna in libertà ma senza soldi, casa, famiglia, con il nulla con cui è entrato, torna inevitabilmente a delinquere e scatta quella terribile cosa che è la recidiva. C’è bisogno di una maggior collaborazione con la società esterna, il detenuto non è sempre e solo una persona da cui stare alla larga, non è un mostro né per forza un delinquente seriale e spacciato. È una persona che ha sbagliato, ha pagato e che molto spesso ha solo tanta voglia di riscatto. Che riscontri avete avuto, ci sono persone che vi sostengono? Abbiamo accanto a noi tante persone, tanti professionisti. Avvocati, giornalisti, medici, garanti, associazioni. Tengo a precisare che noi ex detenute ci conosciamo, ci siamo scelte e abbiamo un obbiettivo comune: quello di raccontare le nostre storie, far comprendere che a chiunque può succedere di sbagliare e di entrare in carcere, ma anche che la vita non termina nel momento in cui supera la porta carraia. Dopo c’è tanto di più. Dopo hai una consapevolezza diversa di te e, se riesci a rialzarti, anche se un po’ ammaccato, riparti. Il carcere è un’esperienza forte e drammatica ma anche umana. O ti fortifica o ti distrugge. Ma comunque ti cambia. Progetti futuri? Siamo nati poco più di un mese fa, difficile parlare di progetti ora. Ma siamo sicure che, grazie alla nostra forte motivazione e al supporto che abbiamo trovato in tante persone, le nostre richieste di cambiamento, porteranno a qualcosa di concreto. Magistrati in carcere: cari pm, seguite l’esempio dei vostri colleghi in Belgio di Riccardo Polidoro Il Riformista, 22 settembre 2022 In Belgio cinquantacinque magistrati hanno deciso di trascorrere il fine settimana nel carcere di Haren, nella zona di Bruxelles, per conoscere “dal vivo” la quotidianità della detenzione. La struttura sarà inaugurata il 30 settembre. Non è la prima volta che ciò avviene. Nel luglio 2018 circa cento persone, tra avvocati, giudici, giornalisti, poliziotti, furono rinchiusi per quarantotto ore nel carcere belga di Beveren che si sarebbe inaugurato successivamente, al fine di collaudare il nuovo istituto ed in particolare il corretto funzionamento dei sistemi di sorveglianza e della piattaforma digitale destinata ai detenuti per seguire i corsi on-line. Agli ordini del personale penitenziario, i giudici ed i pubblici ministeri - privati del telefono cellulare - sono stati rinchiusi nelle stanze, hanno mangiato il cibo del carcere, hanno lavorato in cucina e in lavanderia, hanno curato la pulizia dell’istituto e partecipato ad attività trattamentali. L’esperimento va accolto con favore, pur con gli evidenti suoi limiti. Trascorrere due giorni in una struttura nuova, non ancora deturpata dal sovraffollamento, priva del tanfo che caratterizza i corridoi dove sono collocate le celle e igienicamente ancora intatta, non equivale certo a sperimentare effettivamente quali sono le reali condizioni di detenzione. Né possono essere verificate sulla propria pelle le carenze sanitarie, in caso di malattie ovvero l’effettivo accesso a corsi e laboratori. Ma, come dire, meglio di niente. Crediamo che siano, invece, indispensabili visite periodiche agli istituti di pena da parte di tutti gli operatori della Giustizia, per comprendere davvero la reale situazione e il dramma di una detenzione, nella maggior parte dei casi, fuorilegge. Non è necessario fingere di essere detenuti, ben sapendo che in qualsiasi momento si può chiedere di uscire. Una tale situazione assomiglia più ad un reality e, forse, in alcuni casi, può appagare la voglia di sperimentare qualcosa di diverso. Entrare in carcere, vedere, toccare con mano la quotidianità di un istituto a regime. Aprire il blindato di una cella e vedere persone rinchiuse in pochi metri quadrati a disposizione, in condizioni igieniche disastrose, muffa alle pareti, a volte il water a vista o nascosto da una tendina, poca la luce che entra. Mortificarsi vedendo lo stato di abbandono del reparto docce. Verificare che sono pochissimi quelli che possono accedere al lavoro ovvero ad attività trattamentali. Mangiare il cibo che proviene dalla cucina che, come nella casa circondariale di Poggioreale, deve provvedere ad oltre duemila persone. Ascoltare e verificare i molteplici drammi personali dovuti a immorali ritardi nelle cure mediche. Informarsi sulle modalità d’intervento per urgenti cure specialistiche. È questo che andrebbe fatto. Su queste pagine, il mese scorso, il giudice Eduardo Savarese ha scritto che la visita delle carceri “andrebbe prescritta come medicina socio-politica ineludibile almeno una volta all’anno a beneficio di molte altre espressioni della classe dirigente cittadina, non solo della magistratura, ovviamente coinvolta in maniera diretta nell’istituzione penitenziaria”. Siamo d’accordo. Risale al dicembre 2018, la visita (unica?) della giunta dell’Associazione Nazionale Magistrati di Napoli alla casa circondariale di Poggioreale, mentre iniziative analoghe in altre città non ci risultano o, comunque, con certezza, si conteranno sulle dita di una mano. Del resto, i magistrati di Sorveglianza che dovrebbero, per compiti del proprio Ufficio, visitare continuamente gli istituti penitenziari, spesso non vi accedono. Gli avvocati delle Camere Penali, da sempre, si recano in carcere con visite periodiche e, con le loro relazioni, descrivono le reali condizioni di vita dei detenuti. C’è dunque da porsi una domanda? Perché l’avvocatura mostra tale particolare sensibilità che, invece, sembra del tutto estranea alla magistratura? Non vi è dubbio che una maggiore conoscenza delle condizioni di detenzione aiuterebbe l’opinione pubblica a comprendere che quel mondo non va considerato estraneo, ma è parte integrante della società perché dovrebbe svolgere la funzione primaria di recupero del condannato, proprio nell’interesse stesso della collettività. L’Unione Camere Penali, alcuni anni fa, ideò il progetto “Carceri Porte Aperte”, dando la possibilità ai cittadini interessati di visitare gli istituti di pena. Pubblicato l’annuncio sui quotidiani, in poche ore fu raggiunto il numero chiuso stabilito. A Napoli cinquanta persone ebbero la possibilità di entrare nella casa circondariale di Poggioreale e rendersi conto dell’effettivo svolgersi della vita detentiva. La trasparenza è il sale della democrazia e il carcere ne ha un gran bisogno. La misurazione delle pene prescinde dalla reale condizione di vita dei detenuti di Alberto Cisterna Il Riformista, 22 settembre 2022 Questo è il vero problema. Non si deve solo depenalizzare, mitigare le pene, aumentare le misure alternative... si deve affrontare il punto cruciale: la misurazione delle pene prescinde dalla reale percezione di quale sia la condizione dei detenuti. Sessanta suicidi dall’inizio dell’anno. 60 morti tra le mura di un carcere. In gran parte giovani vite che non sopportano la carcerazione, la convivenza forzata, le promiscuità, il caldo, le prospettive della cella con i letti a castello. Il buio che avvolge improvvisamente e repentinamente spegne la vita. Non si tratta di individuare colpe e responsabilità. O meglio non si deve fare solo questo. La polemica è scontata, l’indignazione inevitabile, ma poi la clessidra della morte torna a scorrere e ingoia, come granelli di sabbia, esistenza dopo esistenza. Urgerebbe una riflessione più ampia, una meditazione meno condizionata da posizioni preconcette o polemiche faziose. È innegabile che una parte, tutt’altro che marginale, della società è completamente indifferente a questo dramma. “Qualche delinquente in meno” è l’impronunciabile che tanti recitano a mente o sibilano complici, facendo finta di provare compassione. In fondo il carcere è stato concepito per secoli come una sorta di pattumiera della società, il luogo degli scarti e la sentina degli avanzi (non a caso di galera). È quasi scontato non ci sia vera pietà o vera compassione per chi è in cella e quindi anche per chi in cella decide di togliersi della vita. In fondo, si sussurra velenosamente, se la sono cercata. Così guadagna spazio e cerca legittimazione una sorta di terrificante doppio binario sanzionatorio: il carcere per tutti e poi la morte per i fragili, per quelli che sopprimono la propria esistenza perché non sopportano le mura e i lori miasmi. Da dove partire, quindi. Da dove prendere le mosse per riannodare le fila di un discorso sulla detenzione che si sfrangia in mille rivoli e perde di vista la sostanza della questione. Non si deve solo depenalizzare, mitigare le pene, contenere il carcere come luogo privilegiato della punizione, sostituirlo con misure alternative, trasformare la detenzione domiciliare (soprattutto per la carcerazione preventiva) come lo strumento privilegiato della costrizione personale, certo con tutte le precauzioni del caso (in primo luogo i cosiddetti braccialetti elettronici). Cose necessarie, reclamate da decenni, sempre al centro del dibattito e sempre affossate dalle folate giustizialiste che attraverso il paese cavalcando le vesti di questa o quella forza di politica a caccia di facile consenso. Il punto cruciale sta nel fatto che la misurazione delle pene, per come concepita nel codice penale fascista tuttora in vigore e alimentata dalle cicliche emergenze del paese - il terrorismo interno, la mafia, il terrorismo internazionale, gli omicidi stradali, lo stalking e via seguitando - prescinde dalla reale percezione di quale sia la condizione dei detenuti nelle carceri del paese. Si guarda sempre e soltanto alla pena dall’alto, la si contempla nella sua astratta capacità dissuasiva, inibitoria, preventiva e la politica, impreparata e ignara, pensa semplicisticamente che più alta sarà la sanzione comminata più speranze vi sono che ci si astenga dal delinquere. Quasi che l’ubriaco alla guida, il picchiatore delle risse, il compagno ossessivo - prima di commettere delitti efferati - vadano a compulsare il codice penale per verificare quale pena gli tocchi. Una società polverizzata dalle pulsioni mediatiche, sorvegliata dai social che ciascuno adopera e in cui ciascuno si disvela all’altro, disarticolata dall’affievolimento delle relazioni interpersonali, isolata dall’indifferenza consumistica non risponde più agli strumenti della dissuasione punitiva o al diritto penale totale (come lo definiva il compianto Filippo Sgubbi) inteso come panacea per ogni devianza. Per cui la cella, le promiscuità, la società carceraria sono vissute, dai più, come un dramma gigantesco, inaspettato, inatteso, impreparato. Per secoli le mura hanno recluso i delinquenti e li hanno così tenuti separati da una società civile che poi era non così diversa nelle sue condizioni di vita materiale tra un “dentro” e un “fuori”. Tra la vita carceraria e le condizioni della stragrande maggioranza delle classi di popolazione da cui provenivano i reclusi non vi era l’abisso di questi tempi. È vero che anche oggi tanti sono extracomunitari, molti sono soggetti dediti allo spaccio di droga e ai microreati, ma obiettivamente pochi di costoro hanno condizioni di vita che possono anche solo avvicinarsi alla detenzione in carcere di questi tempi. La modernità, il complessivo miglioramento delle condizioni di vita hanno interrotto la linea di continuità che rendeva almeno tollerabile la reclusione carceraria. Finita l’osmosi, le carceri sono diventate il luogo della totale separazione, dell’irreversibile interruzione tra il “dentro” e il “fuori” e così le vite implodono e si spezzano spesso nelle coscienze, altre volte con la violenza dell’autodistruzione. Consulta, è l’ora del coraggio: fermate l’ergastolo ostativo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 22 settembre 2022 L’elezione alla presidenza della professoressa Sciarra è l’occasione per dire un no definitivo a una misura incostituzionale, sulla quale - vedi le proroghe concesse al Parlamento - serviva più nettezza. Si è rivelata da subito una brava politica, la professoressa Silvana Sciarra, eletta due giorni fa presidente della Corte Costituzionale, nel confermare come suoi vice i due contendenti sconfitti, Daria De Pretis e Nicolò Zanon. Quest’ultimo, l’unico di area liberale, non è stato neppure preso in considerazione, all’interno di un seggio elettorale che somigliava tanto a un congresso del Pd “allargato”. Lo scontro si è giocato tutto sulle due candidature femminili, tutte e due, come del resto Zanon, con curricula di tutto rispetto. Giuslavorista e allieva di Gino Giugni la prima, amministrativista e vicina a Sabino Cassese la seconda. È finita otto a sette, con la Consulta spaccata come una mela. Ma non pare siano state le reciproche storie personali e politiche a creare le differenze. Semmai, sarebbe stata più interessante una presidenza Zanon. La quale avrebbe forse aperto uno spiraglio a quella possibilità di far sapere pubblicamente ogni dissenso individuale sulle decisioni della Consulta. O anche aprire alla possibilità che anche il singolo cittadino possa accedere all’Alta Corte. Lo scontro è stato politico, e tutto interno alla sinistra. Bisogna riferirsi al mondo del 2014, quando Daria De Pretis fu nominata dal presidente della Repubblica Giorgio Napolitano e Silvana Sciarra fu eletta dal Parlamento in seduta congiunta al ventunesimo scrutinio, dopo lungo travaglio dovuto alla complicata situazione politica del momento, con un accordo tra il Pd di Matteo Renzi e il neonato Movimento cinque stelle. Il partito di Grillo, quello estraneo ai giochi di potere, trattò sottobanco lo scambio con l’elezione di Alessio Zaccaria come membro laico del Csm. Questi furono i giochi. Nessuna verginità della Corte quindi, come del mondo della politica del resto. E nessuno scandalo per l’entusiasmo odierno di Giuseppe Conte, che aveva proposto la candidatura di Sciarra anche per il Quirinale. Del resto, le congratulazioni alla nuova Presidente sono arrivate un po’ da tutto il mondo politico. Anche perché è (solo) la seconda volta che un organismo di garanzia così rilevante come la Consulta è diretto da una donna, dopo la prima esperienza di Marta Cartabia. Manca ancora, in Italia, la svolta di genere a Palazzo Chigi e al Quirinale. Chissà. Ma non sarà facile, per la nuova Presidente, mantenere, come ha già detto, un tono di sobrietà senza disconoscere, all’interno di un lavoro “collettivo”, la continuità con l’esuberanza esplicitamente politica di un predecessore ingombrante come Giuliano Amato. Non si possono eliminare le consuete conferenze stampa, infatti già il primo giorno la professoressa Sciarra non si è sottratta. Così come non ha dimenticato di valorizzare la necessità di mantenere un lavoro comune con gli organismi europei ma anche con il Parlamento italiano. Ha ricordato con orgoglio quei sessanta voti in più rispetto al necessario quorum dei tre quinti con cui il 6 novembre del 2014 la Camere in seduta comune l’avevano mandata alla Corte. Ma non può dimenticare le parole di commiato di Amato, che nel suo ultimo discorso si è rammaricato proprio delle difficoltà che la Consulta incontra quando le proprie decisioni necessitano di un successivo intervento di tipo legislativo. “Capita più volte -aveva detto il Presidente uscente- di incontrare o il silenzio del Parlamento o voci in esso discordi, che ne prevengono le scelte”. Il riferimento era chiarissimo, e riguardava soprattutto il mancato intervento con una legge sul fine vita, ma anche quello più recente sull’ergastolo ostativo. Quel che il presidente Amato non ha detto in quella circostanza e che probabilmente neanche Sciarra dirà, è che, prima ancora della pusillanimità del mondo politico, andrebbe sottolineato anche lo scarso coraggio dei giudici. Che paiono troppo spesso lanciare il sasso e nascondere la mano. Tutta la vicenda delle modifiche all’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario è molto chiara. Come è chiaro il convincimento sulla materia di almeno quattordici giudici su quindici (uno, Marco D’Alberti, è appena stato nominato dal presidente Mattarella). Il quesito è: si può uscire “rieducati” dal carcere, come prevede l’articolo 27 della Costituzione, solo collaborando con la magistratura, o anche facendo un percorso diverso? In poche parole, è costituzionale quella forma di pena di morte sociale che impedisce a una certa tipologia di ergastolani di vedere anche un orizzonte diverso dalle mura del carcere? La Consulta ha già manifestato il proprio pensiero in due occasioni. La prima quando si è espressa sui permessi premio, e poi quando ha dichiarato tout court incostituzionale l’ergastolo ostativo. È successo circa un anno e mezzo fa, nel maggio del 2021. Se quel giorno avessero avuto il coraggio di mettere un punto fermo alla loro decisione, sarebbero passati alla storia. E con loro il presidente Giuliano Amato. Per quale motivo dunque hanno, una volta ancora dopo la decisione sul suicidio assistito, passato la palla a un Parlamento così distratto sui diritti civili? E l’altra domanda è (l’ha già posta in conferenza stampa la nostra Angela Stella citando l’intervento del costituzionalista Andrea Pugiotto): usque tandem, fino a quando alle Camere saranno concessi rinvii per legiferare su qualcosa che dovrebbe essere pacifico? La prima volta, era il 2021 ed eravamo anche in piena pandemia, il Parlamento ebbe un anno di tempo e se lo prese tutto per raffazzonare alla Camera una legge che pone tali e tanti paletti al detenuto “ostativo” che volesse fruire dei benefici previsti dalla legge, da vanificare del tutto la possibilità. È a quel punto che la Consulta ha concesso altri sei mesi perché anche il Senato potesse deliberare. Cosa che non è accaduta. Inoltre le Camere sono state sciolte e fino al 26 ottobre non si insedieranno quelle uscite dalle elezioni di domenica prossima. La scadenza della prossima udienza pubblica che ha l’argomento all’ordine del giorno è l’8 novembre. È escluso che per quella data ci sarà una nuova legge. Presidente Sciarra, lei e gli altri quattordici giudici costituzionali avete un’occasione. Mettete un punto fermo. Fate una definitiva dichiarazione di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo e dimostrate di non essere subalterni alla politica. Scusi Cirielli, lei era quello della prescrizione: perché vuole più taser per tutti? di Errico Novi Il Dubbio, 22 settembre 2022 Appello al deputato di Fratelli d’Italia, indignato perché il Dap vuole concedere più videochiamate ai detenuti pur di contrastare l’ecatombe di suicidi: non crede, Onorevole, che elettrificare le carceri non sia proprio questa gran soluzione? Onorevole Edmondo Cirielli, mi rivolgo direttamente a Lei. Ci ripensi. Ridimensioni la portata dei suoi attacchi sul carcere, sui detenuti, sul Dap. Lei si dice contrario, anzi disgustato persino dalle videochiamate concesse da Carlo Renoldi ai reclusi per attenuare la disperazione che ha fin qui prodotto 53 suicidi in cella: non le sembra di esagerare? Non le sembra di superare un po’ la soglia della ragionevolezza, quando invoca “più taser per tutti”. Capisco che Lei, come parlamentare e candidato di Fratelli d’Italia, considera la polizia penitenziaria anche come un bacino elettorale: più che legittimo. Ma non crede che, in fondo, solo una minoranza degli agenti la pensa davvero come Capece, il segretario del Sappe che vorrebbe penitenziari premedievali? E poi, Onorevole Cirielli, Lei è noto per aver predisposto una riforma della prescrizione, poi certo modificata e da Lei disconosciuta, ma insomma ha anche un profilo garantista. Il responsabile Giustizia del Suo partito, Andrea Delmastro, in un’intervista al Dubbio ha confermato di considerare il ripristino della prescrizione come un obiettivo della destra. Ora, perché Lei vuole passare alla storia come il politico che sogna di elettrificare le carceri? Meglio abbassare i toni e anche la tensione. In tutti i sensi. E la esorto a non trascurare mai il seguente dettaglio: in carcere c’è gente che (non sempre, dimostrano i dati) ha sbagliato, ma che non per questo va segregata come in una galera cartaginese. “Una Corte che non tolleri violazioni dei diritti: ecco cosa ci aspettiamo” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 settembre 2022 La Corte costituzionale, oltre ad avere cambiato sei presidenti negli ultimi quattro anni (l’ultima arrivata due giorni fa è Silvana Sciarra), è stata investita anche da altre trasformazioni, a partire dalla comunicazione esterna ed interna. Quindi non solo i Viaggi nelle scuole e in carcere o i comunicati stampa in inglese, ma altresì un mutamento del dialogo “anche serrato” tra giudici costituzionali e avvocati. Proprio quest’ultimi - ci siamo chiesti in questo articolo - cosa si aspettano per il futuro dalla Consulta? Abbiamo posto la domanda agli avvocati Vittorio Manes e Michele Passione, entrambi assidui frequentatori della “Fabbrica della Sagra Consulta”. Il primo, protagonista di importanti decisioni della Corte costituzionale - tra le altre, la nota “saga Taricco”, il caso Dj Fabo, l’ergastolo ostativo e permessi premio, applicazione retroattiva della “spazzacorrotti', da ultimo la decisione sul ne bis in idem -, ci dice: “Credo che quello che si aspettano gli avvocati è un giudice delle leggi sempre ostinatamente intollerante nei confronti delle violazioni dei diritti fondamentali e sempre coraggioso nell’affermazione dei principi costituzionali al più alto livello di tutela. Questi valori mai devono soccombere nel bilanciamento con altri interessi che non siano assiologicamente omogenei e che non abbiano lo stesso peso, come quelli votati all’efficienza del processo o all’effettività del sistema penale”. Da questo punto di vista, secondo Manes, “negli ultimi anni, da parte della Corte costituzionale vi sono state sentenze molto innovative, in particolare sul fronte del diritto penale sostanziale. Penso alle decisioni sul fine- vita, sulla proporzionalità della pena e sulle cosiddette pene fisse, sulle garanzie da riconoscere alle cosiddette pene nascoste, ivi comprese le norme dell’esecuzione penale con contenuti afflittivo- punitivi, sulla tassatività e il divieto di analogia, sino a quella più recente sul ne bis in idem”. Per l’Ordinario di diritto penale all'Università di Bologna, “una medesima attenzione dovrebbe essere posta sul processo penale, perché spesso è proprio lì che si annidano delle pericolose zone franche che nascondono possibili torsioni dei diritti fondamentali”. La sottoposizione al procedimento penale - ci spiega Manes - “non implica solo una gravissima ingerenza nel diritto alla libertà personale ma porta con sé anche conseguenze su tutta la corona dei diritti fondamentali - onore, reputazione, vita familiare e lavorativa, eccetera. Riguardo a questo, devo dire che la sentenza recente 205/ 2022, di cui è stata redattrice la giudice Emanuela Navarretta (“Incostituzionale la disciplina sulla responsabilità dei magistrati pre-riforma del 2015: vanno risarciti i danni non patrimoniali da lesione di tutti i diritti inviolabili”, ndr), è stata molto apprezzabile perché vi si prende atto che subire un processo ingiusto - anche quando non si è subita la privazione della libertà personale - implica sempre un sacrificio spesso irrimediabile dei diritti personali la cui lesione deve essere risarcita, come appunto ha affermato la Corte”. In ultimo, conclude Manes, “credo che gli avvocati si aspettino una analoga vigile attenzione e severi interventi nei confronti di ogni violazione che possa essere riconnessa ad un abuso del processo penale e dei mezzi investigativi. Penso al delicatissimo equilibrio che oggi andrebbe ripristinato sul tema delle intercettazioni telefoniche e delle nuove tecnologie di captazione, come i trojan. La loro ingerenza nella sfera della vita privata e familiare non può essere sistematicamente giustificata per presunte esigenze di accertamento di reati; il loro uso dovrebbe essere limitato in base a presupposti molto tassativi e significativi, e circoscritto da un criterio davvero di extrema ratio”. Un altro punto di vista ce lo offre appunto l’avvocato Michele Passione, già componente del Tavolo XIII degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale, della Commissione ministeriale Pelissero ed ora di quella Ceretti in materia di Giustizia riparativa. Anch’egli ha più volte discusso in Corte costituzionale, in particolare in difesa dei diritti dei detenuti (sent. 253/ 2019, in materia di permessi premio per gli ergastolani ostativi; a breve discuterà sulla conformità costituzionale della libertà vigilata applicata ad ergastolano in liberazione condizionale). L’ultima sentenza a favore di un suo assistito è quella che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 47-quinquies dell’op. “Ho apprezzato molto le nuove regole sullo svolgimento delle udienze davanti alla Consulta, secondo le quali la trattazione delle cause sarà segnata dal dialogo anche vivace fra giudici costituzionali e avvocati. A questa iniziativa si potrebbe aggiungere la pubblicazione della dissenting opinion. Nel momento in cui la Corte riduce il self- restraint a cui ci aveva abituati, abbandona il metro delle “rime obbligate”, intraprende il Viaggio nelle Scuole e nelle Carceri e utilizza i podcast, sarebbe un ulteriore segno di apertura all’esterno dare conto anche dei pensieri difformi all’interno della Camera di Consiglio. Questo non metterebbe a rischio la solidità della Corte e fornirebbe un ulteriore contributo per l’evoluzione giurisprudenziale, così come accade nella Corte Edu. Del resto, non sempre si può avere una visione unanime, come dimostra la recente votazione 8 a 7 per la neo Presidente o, proprio in materia di ergastolo ostativo, la decisione presa a stretta maggioranza, per quanto pubblicato in proposito nei giorni successivi su un quotidiano”. Su un possibile limite che la Corte dovrebbe porre ai rinvii da concedere al legislatore, in particolare in tema di fine pena mai, l’avvocato ci dice: “Innanzitutto il primo pensiero va a chi, da detenuto, resta in attesa ogni volta che c’è un rinvio. In secondo luogo la Corte ha davanti a sé un Parlamento che ha fatto cadere nel vuoto recentemente i moniti non solo sull’ergastolo ostativo ma anche sul fine vita e per quanto riguarda le pene detentive per i giornalisti. Ma andando indietro nel tempo, ricordo la sentenza 279/ 2013: un altro monito inascoltato perché i giudici costituzionali, pur dichiarando inammissibili le questioni sollevate dai Tribunali di sorveglianza di Venezia e di Milano, avevano comunque invocato una valutazione da parte del legislatore sulla congruità dei mezzi per porre un freno al sovraffollamento. Ma oggi siamo sempre lì, ossia con carceri overcrowded e a tal proposito credo sia tornato il momento di tornare a ribussare alla Consulta in tema di detenzione domiciliare da concedersi quando c’è sovraffollamento carcerario”. In pratica, per Passione “la Corte dovrebbe sapere bene a chi rivolge i moniti, valutare attentamente l’effetto che hanno, guardare scrupolosamente cosa fa il Parlamento per seguire le indicazioni date. Se il legislatore si sta muovendo nella direzione opposta, e pure con estremo ritardo, non resta che dichiarare definitivamente l’incostituzionalità della norma. Credo che Godot non giovi alla stessa Corte, che non può restare ostaggio dell’inerzia parlamentare”. Fatevi dettare le riforme dalla Carta: così salverete la giustizia dalle sue derive di Bartolomeo Romano* Il Dubbio, 22 settembre 2022 In questa inusuale e, per certi versi, assente campagna elettorale il tema della giustizia non è stato centrale nel dibattito tra le varie forze politiche. Il Covid, la guerra in Ucraina, il caro- bollette e la crisi economica hanno avuto il sopravvento. Eppure, le questioni sul tappeto, in materia di giustizia, si intersecano con quei temi predominanti e, comunque, segneranno il quadro del nostro Paese nei prossimi anni. E ciò non soltanto perché inchieste giudiziarie (spesso poi sfociate nel nulla) hanno visto cadere Governi e travolgere storie personali; oppure perché certa politica ha provato ad incidere sulla azione della magistratura. Vi è molto di più: vi è un interesse di ciascuno di noi e dunque di noi tutti e, estremizzando il concetto, della nostra stessa democrazia che chiunque governi il nostro Paese sappia attuare la Costituzione e garantire fino in fondo il funzionamento dello Stato di diritto. A tal fine, occorre che politica e magistratura percorrano due linee parallele, ciascuna nei suoi confini; e semmai abbiano, quali convergenze parallele (per richiamare una nota espressione politica del passato), solo il superiore interesse nazionale. Occorre che la prima abbandoni il populismo legislativo e la seconda il populismo giudiziario. Da un trentennio, sia pure per contrastare fenomeni particolarmente gravi e diffusi - come la corruzione, a partire dalla stagione di “mani pulite”, e la criminalità mafiosa, che ha avuto il suo culmine con le terribili stragi del 1992 - si è abbandonata la via maestra del rispetto delle garanzie e delle regole. Penso - per il populismo legislativo - a taluni aspetti della I. 6 novembre 2012, n. 190 (c. d. legge Severino), per arrivare alla I. 9 gennaio 2019, n. 3 (c. d. riforma Bonafede), generalmente conosciuta (purtroppo, e non a caso) come “legge spazza- corrotti”. Penso a certe coloriture assunte da leggi in materia di “pedofilia”, con toni da diritto penale del nemico. Penso alla lunga stagione delle riforme in materia di prescrizione, prima “allungata” dalla l. 23 giugno 2017, n. 103 (c. d. riforma Orlando), poi sostanzialmente eliminata ad opera della citata l. n. 3 del 2019, e nel frattempo “raddoppiata”, per molti reati, ad opera di altrettante leggi. A ciò si aggiunga la recente tendenza del diritto penale a cadere nella atipicità e nella indeterminatezza, come evidenziato da disposizioni- simbolo, quali l’abuso di ufficio o il traffico di influenze illecite. E, talvolta a cascata, altre volte con effetti anticipatori, la giurisprudenza ha coltivato il pericoloso seme del populismo giudiziario. Si pensi alle contestazioni generiche, agli avvisi di garanzia “a strascico” (ad esempio, nel settore sanitario), a certe interpretazioni assai late del concorso esterno, all’uso ancora troppo esteso della custodia cautelare, al fastidio che talora serpeggia per l’attività difensiva, ai filtri spesso eccessivi in Cassazione. Talvolta, il primato del popolo è diventato sottoposizione all’opinione pubblica; l’affermazione che “La giustizia è amministrata in nome del popolo” (art. 101 Cost.) è stata tradotta volgarmente nei processi di piazza. Del resto, qualche politico affermava che “il sospetto è l’anticamera della verità”; e un noto magistrato, ora a sua volta sottoposto a processo, dichiarava solennemente che “non ci sono innocenti, ma solo imputati dei quali non si è riusciti a dimostrare la colpevolezza”. Ecco, vorrei che chiunque governi abbandoni quelle pericolose derive e si aggrappi alla nostra Costituzione che - in materia penale - rappresenta ancora un sicuro e condivisibile punto di riferimento. Forse non è “la più bella del mondo” (affermazione di chi la vorrebbe immutabile e cristallizzata), ma è certamente una ottima Legge fondamentale, che in molte parti non sembra avvertire l’inarrestabile scorrere del tempo. Una Costituzione, però, non ancora del tutto attuata e rispettata sino in fondo. Basterebbe ricordare che l’art. 25 della Costituzione cristallizza il principio di legalità: la legge penale la deve scolpire il Parlamento con la dovuta precisione, senza punire retroattivamente e senza consentire la “creazione” dei reati da parte della magistratura (in violazione del divieto di analogia in malam partem). Sembrano regole ovvie e scontate; ma purtroppo spesso non sono attuate. Poi, l’art. 27 della Costituzione fissa il principio di non colpevolezza: l’imputato non si considera colpevole sino alla sentenza definitiva di condanna. Concetto che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo esplicita in maniera più netta: l’imputato si considera innocente, sino alla eventuale sentenza di condanna. Anche qui: sembra ovvio. Ed invece spesso si ragiona e si agisce in senso opposto, ricorrendo ampiamente alla custodia cautelare (l’art. 13 Cost. parla, più brutalmente ma più correttamente, di carcerazione preventiva...), e triturando le persone nel gorgo giudiziario e massmediatico. Ancora, occorrerebbe riappropriarsi del finalismo rieducativo della pena, sempre scolpito nell’art. 27 della Costituzione. E ciò, sia chiaro, non per mero “buonismo”, ma perché accanto al bastone della pena, che va mantenuto, occorre utilizzare la carota della speranza, che rafforza l’ordine penitenziario e tende ad attenuare il fenomeno del recidivismo, che certifica la sconfitta dello Stato e alimenta l’insicurezza sociale (perché il detenuto, una volta libero, commette un nuovo reato). Inoltre, occorrerebbe attuare pienamente l’art. 111 Cost., con il processo accusatorio ed il “giusto processo”, facendo sì che ogni processo si svolga nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Ovviamente, con una separazione di carriere tra giudici e pm. E poi assicurando realmente la ragionevole durata del processo e che la persona accusata di un reato sia, nel più breve tempo possibile, informata “riservatamente” della natura e dei motivi dell'accusa elevata a suo carico. E occorrerebbe garantire che la persona accusata disponga del tempo e delle condizioni necessari per preparare la sua difesa; che possa interrogare o far interrogare le persone che rendono dichiarazioni a suo carico, nonché ottenere la convocazione e l'interrogatorio di persone a sua difesa nelle stesse condizioni dell'accusa e l'acquisizione di ogni altro mezzo di prova a suo favore. Requisiti oggi non sempre assicurati. Certo, tutto ciò non è sufficiente. Occorre, ancora, poter avere fiducia nella magistratura, nelle regole che la riguardano (l’ordinamento giudiziario) e negli organi di controllo e di garanzia, come dovrebbe essere il Consiglio Superiore della Magistratura. Se fosse liberato dall’abbraccio soffocante delle correnti e se operasse sempre in piena trasparenza. Anche qui, sarebbero necessari cambiamenti coraggiosi e non rinviabili, mentre le varie riforme Cartabia, pur certamente meritevoli nelle intenzioni, sono state troppo tiepide e parziali. Speriamo che, chiunque vinca, abbia chiari questi valori. E soprattutto che poi sappia inverarli nel difficile compito del governare. *Ordinario di diritto penale e già componente Csm Nuovo Csm, vento di destra. La sinistra divisa di Liana Milella La Repubblica, 22 settembre 2022 Fa il pieno di voti l'ex segretaria di Mi Paola D'Ovidio. A sinistra vince Area su Magistratura democratica e passa il suo candidato Cosentino. Albamonte di Area: “È ancora presto per dire che la magistratura sterza verso destra”. Musolino di Md: “Siamo tornati a incuriosire i colleghi”. Vento di destra per il nuovo Csm. Mentre la sinistra si divide, anche se per la somma dei voti ha la maggioranza. Per il momento, e solo per i primi due eletti, c’è anche una “vittoria” delle correnti rispetto ai candidati senza sponsor. Dalla Cassazione escono i primi due futuri consiglieri di palazzo dei Marescialli, i magistrati di legittimità in arrivo dalla Suprema corte. Bisognerà aspettare stasera, o addirittura domani per 5 pubblici ministeri pm, e forse venerdì, per i 13 giudici. Ma dopo la prima giornata di spoglio - si è votato tra domenica e lunedì - ecco che al primo posto si piazza Paola D’Ovidio, l’ex segretaria di Magistratura indipendente, quindi una toga “di apparato”. Che nella vita è sostituto procuratore generale in piazza Cavour. I votanti sono stati 7.911. D’Ovidio porta a casa 1.860 voti, con un netto distacco rispetto ad Antonello Cosentino, esponente della sinistra di Area, giudice civile ugualmente in Cassazione, che ne prende 1.226. Puntiamo un riflettore sui 634 voti di distacco tra D’Ovidio e Cosentino. E confrontiamoli con i 696 voti che ha portato a casa Antonello Magi, il candidato di Magistratura democratica - le storiche “toghe rosse” - che per la prima volta dopo anni si è presentata da sola “divorziando” da Area. Anche se la separazione, per niente consensuale, era già maturata da tempo. Quei voti, in termini di tendenza, dicono che la sinistra di fatto ha la maggioranza dei consensi delle toghe con 1.922 voti. Ma, come accade anche nella politica, proprio le divisioni a sinistra fanno il gioco della destra. I segretari delle due correnti, Area e Md, reagiscono diversamente. Eugenio Albamonte di Area si dichiara “soddisfatto per il risultato della Cassazione che, nonostante la scissione di Md, ci consente di riconquistare il seggio dopo quattro anni con un magistrato eccellente”. Ma aggiunge che “è ancora presto per anticipare valutazioni generali su un’elezione i cui esiti rimangono imprevedibili”. Quanto a Md che ha scelto di correre da sola, Albamonte non nasconde di essere critico, come del resto ha fatto anche in passato. “Se avesse fatto scelte diverse il risultato sarebbe più visibile”. Ma proprio Albamonte mette in rilievo i numeri “forti” della sinistra: “Sommando i nostri voti con i loro si capisce che è ancora presto per dire che la magistratura sterza verso destra”. Non ha dubbi invece sulla corsa separata il segretario di Md Stefano Musolino. “Il risultato di Lello Magi dice che Md è tornata ad incuriosire la magistratura. Il risultato ci dà entusiasmo per far vivere le nostre idea e la nostra sensibilità culturale. Ottenere oltre il 10% dei voti validi, nel brevissimo tempo concesso dalla campagna elettorale feriale e quando ancora stiamo riorganizzando il gruppo, dopo il recupero di autonomia da Area, è un risultato incoraggiante”. E che ne è degli altri candidati delle correnti e degli indipendenti, questi ultimi la vera novità dell’elezione del nuovo Csm che ha visto in corsa ben 87 aspiranti per 20 poltrone a palazzo dei Marescialli? Un numero che via Arenula, con la Guardasigilli Marta Cartabia, cita come esempio di una nuova legge elettorale (un maggioritario binominale con una quota proporzionale) che ha funzionato e ha bloccato i soli candidati delle correnti tradizionali, addirittura solo quattro pm per quattro posti nel 2018. Come si sono piazzati gli altri candidati? Ecco i voti: Milena Falaschi di Unicost ha totalizzato 816 voti; Stanislao De Matteis, che si presentava come indipendente, 780 voti; Marco Rossetti, anche lui indipendente, 601; Giacomo Rocchi, sorteggiato da Altra Proposta, 522 voti; l’indipendenza Stefano Giaime Guizzi 244, mentre Silvia Salvadori, sorteggiata dalla Cassazione per garantire la parità di genere, 210 voti. Sono 768 le schede bianche e le nulle 187. Il maggiore pettegolezzo della giornata riguarda proprio i 780 voti di De Matteis. “Indipendente quello? Ma non scherziamo, fino all’altro ieri era di Unicost” dice una fonte che vuole restare anonima. Certo è che De Matteis è una toga nota tra i colleghi, quale componente del Consiglio di giustizia tributaria, il Csm dei giudici fallimentari. I bene informati dicono che proprio su di lui sarebbero confluiti i voti spostati da Cosimo Maria Ferri, l’ex toga candidata con Renzi e deputato uscente, ma da sempre uomo forte di Mi, mentre non avrebbe goduto del suo appoggio Stefano Giaime Guizzi, avvocato di Luca Palamara nella sua controversia disciplinare. Il conteggio dei voti riprende stamattina con i 5 pm, ma non è detto che il risultato esca già stasera, mentre i conteggi più complessi riguardano i 13 giudici, dove s’interseca il meccanismo maggioritario con quello proporzionale, e che si svolgeranno da domani. Csm, nel collegio della Cassazione prima la destra di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 settembre 2022 Un seggio a Magistratura indipendente e un altro alla sinistra di Area, mentre Magistratura democratica giudica incoraggiante il suo risultato. Spoglio lento, oggi i risultati per i collegi dei pm. Prima la candidata sostenuta dalla corrente di destra della magistratura, secondo il candidato della (più grande) corrente di sinistra. Il voto delle toghe per i consiglieri del Csm del collegio della Cassazione restituisce un’immagine bipolare che è corretta se si guarda ai seggi assegnati - nel sistema maggioritario del collegio vincono i primi due - ma lo è meno se si guarda al complesso delle schede scrutinate. Le prime due correnti infatti mettono insieme solo il 38% dei voti totali e il resto si distribuisce sugli altri candidati in maniera abbastanza omogenea. E c’è sono anche il 12% di schede bianche e nulle, il doppio rispetto alla precedente elezione (2018): malgrado la varietà dell’offerta e più di una candidatura anti-sistema (il sistema delle correnti), le schede non valide si sono “classificate” terze. L’affluenza è rimasta alta, praticamente identica a quella di quattro anni fa - assai più alta dunque di quella registrata nelle tre suppletive successive allo scandalo Palamara e alle dimissioni dei consiglieri del Csm. Nel collegio della Cassazione - l’unico scrutinato ieri, ne restano altri sei per altri 18 posti da assegnare tra oggi e domani - hanno votato 7.911 magistrate e magistrati, l’88% degli aventi diritto. 1.860 voti sono andati a Paola D’Ovidio, una delle leader della corrente di destra Magistratura indipendente della quale è stata segretaria generale (eletta proprio all’indomani dell’esplosione dello scandalo dell’hotel Champagne). 1.226 ad Antonello Cosentino, candidato di Area democratica per la giustizia. Al terzo posto con 816 voti Milena Falaschi, candidata di Unità per la costituzione (Unicost) la corrente di centro alla quale apparteneva Palamara che è quella che ha subito i maggiori scossoni dallo scandalo. Al quarto posto Stanislao De Matteis, il primo dei candidati al di fuori delle correnti, un magistrato che ha però una storia di adesione a Unicost. E che avrebbe raccolto l’appoggio della corrente degli ex davighiani, Autonomia e Indipendenza oltre a quello sotterraneo di Cosimo Ferri, già leader di Magistratura indipendente e impegnato in queste elezioni del Csm nel sostegno ad alcuni candidati formalmente indipendenti. Ferri, secondo i rumors pre voto, avrebbe dovuto appoggiare Stefano Guizzi ma si è spostato una volta capito che si trattava di un candidato debole (è arrivato infatti penultimo). Quinta posizione con 696 voti per Raffaello Magi, candidato di Magistratura democratica, la corrente di sinistra che dopo 14 anni si è presentata divisa da Area. Non è da escludere che abbia perso qualche voto per la logica del voto utile al candidato progressista più forte. Cosentino del resto è stato sul punto di diventare il candidato comune della due correnti di sinistra. Soddisfatto Eugenio Albamonte, segretario di Area: “Pur correndo da soli e senza il sostegno di Md abbiamo riconquistato il seggio in Cassazione che avevamo perso quattro anni fa”. Quanto all’affluenza alta, per Albamonte “è un segnale di vitalità e di reazione agli scandali, ma anche della volontà di resistenza contro le cattive riforme della giustizia che vengono annunciate dal centrodestra”. “Noi non abbiamo recuperato autonomia per far perdere Area, ma per fare vivere le nostre idea e la nostra sensibilità culturale”, commenta il segretario di Md Stefano Musolino, “il risultato che abbiamo ottenuto nel brevissimo tempo concesso dalla campagna elettorale feriale e quando ancora stiamo riorganizzando il gruppo è incoraggiante”. Per Musolino “la magistratura non è più cristallizzata in due blocchi, vi è una varietà di orizzonti culturali che possono essere la base del rinnovamento futuro”. Troppi libri nella cella, il carcere glieli toglie. “Sono per studiare”, i giudici: violato un diritto ternitoday.it, 22 settembre 2022 Detenuto nel carcere di Terni e poi trasferito a Novara, il cinquantenne aveva chiesto un dizionario di latino, uno di spagnolo e una guida Microsoft. “No” della casa circondariale, il ministero della giustizia: esigenze di sicurezza legate al regime carcerario. Per un pugno di libri. Quattro, quindici? Tutti insieme o da consultare a gruppi? Sembrerà strano ma ciò che “fuori” è normale, dietro le sbarre può non esserlo più. E per poter consultare qualche testo, bisogna arrivare fino ai giudici della Corte di cassazione. Classe 1970, nato a Siracusa, il suo nome compare in alcuni importanti processi di mafia. Il cinquantenne è già stato condannato perché ritenuto al vertice dell’organizzazione mafiosa Bottaro-Attanasio e lo scorso 15 luglio - otto giorni prima era uscito dal carcere di Nuoro - è finito nuovamente dietro le sbarre per un omicidio avvenuto a Siracusa nel marzo del 2001. Nel maggio del 2012 si trovava nel carcere di Terni, sottoposto al regime del 41bis. Fu allora che il magistrato di sorveglianza di Spoleto emise un’ordinanza con la quale disponeva che “a completa garanzia del diritto allo studio di (…) fosse consentito allo stesso dalla direzione della casa circondariale di Terni di tenere presso di sé tutti i libri di cui avesse bisogno per l’incombente di studio che volta a volta lo occupasse senza limitazioni numeriche predefinite”. “Negli anni successivi al 2012, (…) è stato trasferito in vari istituti penitenziari, facendo pervenire numerose istanze di ottemperanza rispetto a quella pronuncia, nelle quali se ne chiedeva l’esecuzione. Da ultimo, il condannato risulta essere stato trasferito a Novara, dove con istanza in data 7 maggio 2021 ha chiesto all’istituto penitenziario di prelevare dal magazzino tre volumi e precisamente un dizionario latino, un dizionario spagnolo e un manuale Microsoft 2007 poiché necessari ai fini di studio, da tenere anche oltre il numero massimo di quindici consentitogli, in aggiunta, invero, ai quattordici già detenuti - la direzione della casa circondariale di Novara ha rigettato la richiesta, ribadendo che il numero massimo di libri consentiti era fissato inderogabilmente in quindici”. Per questo il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha rilevato la necessità di “ordinare alla direzione (del carcere di Novara) l’esatta ottemperanza ai contenuti dell’ordinanza in data 4 maggio 2012”. Contro il provvedimento del giudice si è mosso il ministero della giustizia tramite l’avvocatura distrettuale dello Stato di Perugia. Tra i motivi del ricorso, è stato anzitutto sollevato che “la competenza spetta al tribunale o al magistrato di sorveglianza aventi giurisdizione sull’istituto di prevenzione o di pena in cui si trova l’interessato all’atto della richiesta”. “E al più (…) avrebbe potuto invocare la pronuncia del magistrato di sorveglianza di Spoleto come precedente a lui favorevole, non certo agire in ottemperanza di quella disposizione per contrastare un diverso provvedimento emesso da un direttore di una diversa casa circondariale in condizioni detentive diverse. Il magistrato di sorveglianza spoletino, qualificando il provvedimento come decisione di ottemperanza, non solo avrebbe esteso indebitamente la sua cognizione a provvedimenti che avrebbe dovuto valutare il magistrato di sorveglianza naturalmente competente, nella specie quello di Novara, ma ha privato l’amministrazione del doppio grado di giudizio”. Il ministero ribadisce dunque che “il provvedimento della direzione della casa circondariale di Novara non era contestabile con l’ottemperanza ad un giudicato ormai attuato, in relazione alla quale era cessato l’interesse del detenuto, ma doveva essere impugnato ex novo”. Il magistrato di sorveglianza di Spoleto ha affermato che l’interessato può tenere presso la propria camera detentiva senza limitazioni numeriche predefinite i libri di cui ha bisogno: tale affermazione si pone in contrasto col regime custodiale cui lo stesso è sottoposto La circolare del 2 ottobre 2017 ha previsto la disponibilità in camera detentiva di un numero di quattro volumi per volta, da potere aumentare secondo le esigenze didattiche e il prudente apprezzamento della direzione. Pertanto, la direzione della casa circondariale di Novara - ha sostenuto l’avvocatura di Stato - ha consentito di tenere un numero di libri di quasi quattro volte maggiore a quello previsto dalla circolare. Il dictum del magistrato di sorveglianza viene, pertanto, a stravolgere il regime carcerario sulla base di una supposta ottemperanza ad un provvedimento già a suo tempo eseguito”. Infine, sono le conclusioni del ricorso del ministero, “a fronte del numero certamente congruo di libri messi nella disponibilità del detenuto, nell’ampliarlo ulteriormente”, il magistrato di sorveglianza “non tiene conto delle esigenze di sicurezza interna ed esterna sottese al regime differenziato”. “Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato”, scrivono nella sentenza i giudici della prima sezione penale della suprema corte, presieduta da Vincenzo Siani con Gaetano Di Giuro in qualità di relatore. “La competenza a decidere sulla richiesta di ottemperanza spetta allo stesso magistrato di sorveglianza che ha emesso il provvedimento non eseguito, non rilevando l’eventuale trasferimento del detenuto in altro istituto penitenziario (…). Ciò che rileva in caso di mutata allocazione del detenuto, è esclusivamente la permanenza dell’inottemperanza ai contenuti della decisione che ha accertato la lesione del diritto soggettivo, il che radica l’interesse del detenuto ad ottenere l’esecuzione della decisione”. “Ne consegue, pertanto, l’infondatezza anche del secondo motivo di ricorso - è un altro passaggio della sentenza - non potendo, invero, ritenersi cessato l’interesse del ricorrente. E ciò considerato che il provvedimento oggetto di ottemperanza ha affermato la sussistenza di una manifestazione di diritto soggettivo operante in ogni istituto penitenziario, consentendo, a garanzia del diritto allo studio dell’interessato, la possibilità di tenere presso di sé tutti i libri di cui avesse bisogno per l’incombente di studio che a volta a volta lo occupasse, senza limitazioni numeriche predefinite. Come, invero, correttamente evidenziato dall’ordinanza che in questa sede si impugna, il ricorrente ha chiarito di avere bisogno dei testi specificati in punto di fatto e sul punto l’istituto penitenziario, nelle note fatte pervenire al magistrato di sorveglianza per l’udienza, non ha sollevato alcuna contestazione, limitandosi a ritenere inderogabile il numero massimo di quindici volumi”. Rilevano infine i giudici della Suprema corte che “riguardo al numero di testi che il condannato può tenere presso di sé” l’ordinanza “non lo fissa ma lo funzionalizza alle esigenze di studio che di volta in volta si appalesino. E precisa che l’interessato potrà conservare i volumi presso la stanza detentiva o anche nell’apposita bilancetta esterna alla sua camera a scelta, con facoltà per l’amministrazione di prevedere dei limiti massimi al numero di libri che l’interessato può tenere contemporaneamente nella camera detentiva, invece che nella bilancetta (e, quindi, non comunque depositati al magazzino, con le conseguenti difficoltà di scambio) per evitare che dall’ingombro derivi un concreto pericolo di non poter effettuare adeguatamente i controlli ordinari all’interno della camera”. Abruzzo. Voci di dentro Onlus: “Detenuti abbandonati e senza futuro” ilpescara.it, 22 settembre 2022 L'associazione “Voci di dentro” onlus, che si occupa di attività formative e culturali all'interno delle carceri abruzzesi, interviene in merito alla questione della sicurezza dopo le aggressioni avvenute negli ultimi giorni ai danni di agenti di polizia, e l'allarme per le condizioni in cui gli stessi detenuti vivono. La onlus spiega di conoscere bene la realtà chiedendo di affrontare il problema da punti di vista diversi rispetto al semplice potenziamento dell'organico di polizia penitenziaria: “Da tre mesi i 1.848 detenuti richiusi negli istituti abruzzesi non fanno attività trattamentali, la scuola è ancora chiusa, i laboratori delle associazioni di volontariato non sono ancora ripartiti, il lavoro è ridotto al lumicino. E così 24 ore su 24 i 1848 detenuti sono abbandonati a sé stessi, confinati nelle celle o nei corridoi. Tanti senza futuro e speranza. Tanti (il 70 per cento almeno) sotto terapia tipo Tavor, Valium, Depakin, Rivotril e chissà quale altro psicofarmaco. Abbandonati a se stessi, privi di contatti con le loro famiglie se non per una telefonata di 10 minuti a settimana e a un colloquio di un’ora non tutte le settimane. Bisognosi di tutto, anche di una lettera che tarda ad arrivare o di un pacco viveri di tanto in tanto. Praticamente inesistenti anche gli incontri con gli educatori (appena 4 a Pescara a fronte di 345 detenuti; solo uno a Chieti più un secondo ma solo per due giorni a settimana a fronte di 110 detenuti). Facile dire (soprattutto per creare allarme) che l’aggressore dell’agente è un detenuto con problemi psichiatrici”. Spesso, prosegue l'associazione, pazienti psichiatrici ci si diventa per le condizioni disumane di vita e perchè i medici sono costretti a barcamenarsi fra le richieste dei pazienti e il freno agli abusi di psicofarmaci. “Più difficile capire che una telefonata di 10 minuti in più alla famiglia (telefonata negata all’autore dell’aggressione in carcere a Pescara) può allentare un po’ di tensione. Telefonata vitale. Come ha rimarcato lo stesso capo del Dap, il dottor Renoldi. Ricordiamo qui che nelle carceri italiane ci sono stati mille tentati suicidi, che nel solo nel mese di agosto si è ucciso un detenuto un giorno sì e uno no; che dall’inizio dell’anno si sono uccise 62 persone, uno ogni 4 giorni. Suicidi anche se noi non li chiamiamo suicidi. Troppo facile definirli così”. Servono dunque più educatori e psicologi, più attività e laboratori, più apertura al mondo esterno e lavoro: “Sapendo bene che è solo tramite la convergenza tra un potenziamento del lavoro psicopedagogico e quello prettamente di sorveglianza della Polizia Penitenziaria che si può auspicare un cambiamento del sistema carcere”. Ivrea (To). Il carcere delle torture di Giuseppe Legato e Lodovico Poletto La Stampa, 22 settembre 2022 Nel penitenziario di Ivrea 25 indagati tra agenti di Polizia penitenziaria, medici e carcerati omertosi. Botte ai detenuti, verbali falsificati, l’infermeria trasformata in stanza delle violenze. Botte e omissioni, violenze e bugie. Un’infermeria trasformata per alcuni mesi nella stanza dei pestaggi. E ancora: verbali falsificati per raccontare un’altra storia, per coprire le percosse, i pugni, i calci, le manganellate che alcuni detenuti avrebbero subito nel carcere di Ivrea tra il 2015 e il 2016 con preoccupante regolarità. Una decina, i casi finiti agli atti dei magistrati, 25 gli indagati tra agenti, medici interni del penitenziario e detenuti omertosi che l’altro ieri hanno ricevuto l’avviso di garanzia dalla procura generale di Torino (Pg Giancarlo Avenati Bassi e Carlo Maria Pellicano). Le accuse: lesioni e falsi aggravati. Gli inquirenti non contestano il reato di tortura, ma solo - pare di capire - perché l’entrata in vigore della fattispecie è successiva alla consumazione dei presunti reati. L’11 novembre 2015 Hamed fu picchiato - secondo l’accusa - con pugni e calci da sette agenti. In due gli tenevano ferme le braccia, gli altri menavano. “E il medico di turno della casa circondariale continuava a sorseggiare il caffè alla macchinetta automatica”. Non un cenno “non un intervento per fermarli”. Nemmeno “una comunicazione al direttore come sarebbe stato suo dovere”. scrivono i pm. Ma è lunga la lista di casi diventati oggi - dopo decine e decine di audizioni di testimoni - titoli di reato. Il 25 ottobre del 2016 il detenuto Angeli G. viene accompagnato dagli agenti in infermeria. Lo prendono a pungi, lo colpiscono con manganello. Il certificato medico dirà che lo avevano conciato male: “estese ferite al volto, a naso, al costato”. Uno degli agenti che per i pm avrebbe partecipato al pestaggio, scriverà poche ore dopo in una falsa relazione di servizio che “il detenuto perdeva l’equilibrio sul pavimento reso scivoloso dall’acqua utilizzata per spegnere i focolai accesi da alcuni detenuti in sezione e sbatteva la faccia contro una cella”. Manganellate, schiaffi, pugni e calci li avrebbe subiti anche Marco D. Al costato, al viso, sulle braccia: “Dopo le botte - si legge agli atti - lo hanno lasciato per un’intera notte in infermeria nudo”. Seguono anche in questo caso false attestazioni di servizio che parlano di “scivolamento su materiale residuo lanciato per terra dai detenuti”. Senza vestiti, al freddo dell’infermeria, dopo essere stato picchiato, è rimasto anche Edoardo S. ma al comandante della polizia penitenziaria arriverà tutt’altra narrazione in un verbale firmato dai suoi agenti. E cioè che “era il detenuto che mentre si trovava nella saletta di attesa dell’infermeria cominciava sbattere violentemente la testa contro un vetro pronunciando testuali parole: Ora mi faccio male cosi vi rovino pezzi di m…”. Tra le ferite riportate dai carcerati lacerazioni del timpano, zigomi e nasi fratturati. La spiegazione dei secondini al comandante sempre la stessa: “Ha battuto volontariamente la testa contro un pilastro dicendo che ci avrebbe messo nei guai sostenendo che eravamo stati noi”. Tra i legali che difendono gli indagati, tutti attesi in procura nei prossimi giorni per un primo interrogatorio ci sono Enrico Calabrese e celere spaziante. Quest’ultimo assiste una decina di agenti: “Al netto del fatto che confidiamo di provare l’insussistenza delle contestazioni, faccio presente come siamo lontanissimi dagli scenari già evocati nell’inchiesta del carcere di Santa Maria Capua Vetere. I miei clienti sono amareggiati per le bugie dette sul loro conto. I manganelli? Non sono in dotazione in carcere e non ci possono entrare”. L’indagine avviata inizialmente dalla procura di Ivrea su due episodi sui quali i magistrati eporediesi avevano chiesto l’archiviazione è stata avocata dal procuratore generale in persona Francesco Saluzzo. Bolzano. Caso Kozlowski, “Morte senza colpevoli” Corriere dell'Alto Adige, 22 settembre 2022 La Procura di Bolzano ha archiviato l’indagine relativa alla morte di Oskar Kozlowski, il polacco di 23 anni deceduto lo scorso maggio nella sua cella del carcere di Bolzano per aver inalato del gas da un fornelletto da cucina. Nel corso dell’indagine non sono infatti emerse responsabilità a carico di terzi ed anche la presenza del fornelletto nella cella era in regola con le disposizioni penitenziarie. L’inalazione mortale potrebbe quindi essere avvenuta volontariamente oppure per un incidente, ma comunque senza responsabilità di terzi. Kozlowski si trovava in carcere, in attesa di processo, dopo aver confessato di aver ucciso, con una coltellata alla gola il 28 luglio dell’anno scorso a Brunico, il suo conoscente Maxim Zanella, che aveva incontrato con l’intenzione di compiere un piccolo rito satanico. Zanella era stato accoltellato all’improvviso ancora prima che il rito avesse inizio. Il giovane polacco non aveva poi saputo fornire un movente del delitto ed era stata disposta nei suoi confronti una perizia psichiatrica, che era ancora in corso. Poi, in maggio, il tragico epilogo. Reggio Calabria. Denuncia del garante: “Detenuto psichiatrico abbandonato tra i propri escrementi” ilreggino.it, 22 settembre 2022 “Si fosse trattato di una bestia si sarebbero mobilitate le associazioni animaliste con sit-in e manifestazioni di protesta varie ma, si tratta solo di un essere umano e si lascia marcire”. “Desidero portare all’attenzione pubblica il caso di un detenuto disabile psichiatrico ristretto presso il carcere di via San Pietro a Reggio Calabria; il soggetto in questione versa in uno stato di totale degrado, vivendo seminudo tra i propri escrementi che per quanto ripuliti periodicamente dal personale addetto, tuttavia non è sufficiente a consentirgli una detenzione normale”. Quella raccontata dal garante dei detenuti Paolo Pratticò è una storia ai limiti del reale che mette in evidenza le condizioni di un detenuto malato. “Le urla lamentose si avvertono da tutti i reparti.il personalei sanitario e gli agenti penitenziari fanno il possibile per contenerlo ma risulta inutile, è stato chiesto il trasferimento in una struttura adeguata, anche dal sottoscritto, con spirito di collaborazione e per evitare eventi infausti piuttosto che accertare responsabilità successive. La risposta è stata che appena si libererà il posto verrà trasferito e questo dura da circa sei mesi. Si fosse trattato di una bestia si sarebbero mobilitate le associazioni animaliste con sit-in e manifestazioni di protesta varie ma, si tratta solo di un essere umano e perciò può essere lasciato marcire. questo ufficio ha deciso di fare un esposto alla procura della repubblica perché accerti eventuali responsabilità e di costituirsi parte civile nel caso venissero individuate o la situazione dovesse precipitare”. Brescia. Recupero dei detenuti, Confindustria in campo per lavoro e formazione di Alessandro Carini Giornale di Brescia, 22 settembre 2022 È un unicum in tutta Italia, uno strumento che il sistema Brescia può orgogliosamente appuntarsi al petto. Lo era già nel 2019, al momento della prima sottoscrizione, lo è ancora oggi: si tratta del protocollo di collaborazione tra Confindustria Brescia, Istituti di pena, Garante dei detenuti e Tribunale di sorveglianza finalizzato a creare percorsi di inserimento lavorativo per la popolazione carceraria. È stato rinnovato ieri nella sede dell’associazione degli industriali bresciani, “portando avanti con piacere - ha detto il presidente Franco Gussalli Beretta - un’iniziativa realizzata da chi mi ha preceduto alla guida di Confindustria Brescia”. Valore legalità - L’accordo del 2019 ha portato all’assunzione stabile in un’azienda, alla fine del tirocinio di reinserimento sociale previsto dal documento stesso, con contratto a tempo pieno e determinato di una persona in esecuzione penale nel carcere di Verziano. “Nonostante le difficoltà legate al Covid - ha sottolineato Beretta - abbiamo raggiunto questo importante risultato: un primo piccolo passo, che si è concretizzato. Ora andiamo avanti, convinti del fatto che il tema della legalità è centrale per la nostra associazione, che vuole essere attore credibile sul territorio e portatrice di un sistema etico-valoriale fondante per la nostra comunità. L’accordo è un passo avanti che testimonia la capacità di fare sistema delle istituzioni bresciane, con ricadute positive sugli ambienti di lavoro e sulla società civile nel suo complesso”. L’attenzione di Confindustria Brescia alla legalità è testimoniata dalla delega specifica conferita alla vicepresidente Silvia Mangiavini, che ha evidenziato l’importanza del reinserimento dei detenuti: “Una persona in meno che vive di espedienti è una persona in più che contribuisce alla ricchezza della società. Inoltre, altro aspetto di primaria importanza, si aiuta a superare lo stigma sociale che colpisce il detenuto”. Gli strumenti individuati sono, oltre al percorso di tirocinio finalizzato all’assunzione di una persona, un corso di formazione in carcere tarato sui bisogni formativi della popolazione carceraria e della domanda del mercato del lavoro del territorio (con probabile inizio a gennaio) e la sensibilizzazione degli iscritti a Confindustria ad ospitare tirocini finalizzati all’inclusione sociale e all’autonomia delle persone in esecuzione penale. In più si vuole instaurare, come ha sottolineato la stessa Mangiavini, “il dialogo tra gli imprenditori ed il mondo carcerario. In questa direzione andrà la riunione del Comitato direttivo dei Giovani imprenditori di Confindustria Brescia che si terrà all’interno del carcere, probabilmente già nel prossimo mese di novembre”. Risposte - L’importanza del protocollo è stata sottolineata anche dai rappresentanti delle istituzioni che lavorano ogni giorno con i detenuti. Per il Garante, Luisa Ravagnani, “i detenuti chiedono ascolto e la sensibilità degli imprenditori bresciani è già una prima risposta. Ora posso tornare da loro e dire che c’è qualcun altro, al di fuori del mondo carcerario, che crede nel reinserimento”. Per Francesca Paola Lucrezi, direttrice delle carceri di Brescia, “l’accordo mostra la lungimiranza degli imprenditori bresciani: il lavoro è cardine del recupero dei detenuti e un contributo fondamentale alla legalità”. Sostegno convinto anche dalla presidente del Tribunale di sorveglianza, Monica Cali. Roma. Un evento a Rebibbia inaugurerà la stagione sportiva di Atletico Diritti di Andrea Oleandri* Ristretti Orizzonti, 22 settembre 2022 Parteciperanno anche i vertici del Dap. Il 27 settembre, dalle ore 10.00, un'iniziativa alla Casa di Reclusione di Rebibbia (Via Bartolo Longo, 72) inaugurerà la nuova stagione dell'Atletico Diritti. La Polisportiva, nata nel 2014 per volontà di Antigone e Progetto Diritti, con il patrocinio dell'Università Roma Tre, è attualmente attiva nel calcio a 11, nel basket, nel cricket, nel calcio a 5 femminile e nel tennistavolo. Per quanto riguarda queste ultime due discipline le squadre sono composte, rispettivamente, dalle detenute del carcere femminile di Rebibbia e dai detenuti della stessa CR Rebibbia. Ed è proprio un triangolare di ping pong che sarà al centro dell'iniziativa. A sfidare la squadra di casa saranno una selezione dell’Università Roma Tre e una dello studio Legance - Avvocati Associati (sponsor della Polisportiva). A partecipare ci saranno anche i vertici dell'Amministrazione Penitenziaria con il Capo, Carlo Renoldi e il vice Capo, Carmelo Cantone. Con loro anche Anna Lisa Tota, Prorettrice dell'Università Roma Tre e Andrea Pizzi, presidente regionale della Federazione Italiana Tennistavolo a cui Atletico Diritti è iscritta. In occasione dell'evento si terrà un ricordo di Cosimo Rega, attore ed ex detenuto, da poco scomparso. A ricordarlo ci sarà il suo amico, anche lui attore, Salvatore Striano. Per partecipare è necessario accreditarsi entro il 25 settembre 2022 scrivendo a segreteria@antigone.it o oleandri@antigone.it. Oltre a nome e cognome, numero del tesserino professionale o documento di identità, andrà comunicato anche se si vorrà accedere con telecamera o fotocamera. *Ufficio Stampa Associazione Antigone Roma. Sport in carcere, a Casal del Marmo da ottobre 5 discipline per i giovani detenuti di Elmar Bergonzini Corriere della Sera, 22 settembre 2022 Nel carcere minorile di Casal del Marmo per 5 giorni alla settimana, da metà ottobre, i giovani detenuti potranno praticare uno sport a scelta tra calcio, rugby, tennistavolo, zumba e fitness. Il progetto durerà 3 anni. Nel carcere minorile di Casal del Marmo, da metà ottobre, partirà un progetto che riguarda lo sport: per 5 giorni a settimana, infatti, i detenuti potranno praticare una disciplina a scelta fra calcio, rugby, tennistavolo, zumba e fitness. Il progetto, portato avanti dal dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Sport e Salute, la società del ministero dell’Economia, che si occupa della promozione dello sport sul territorio, e il Dipartimento per lo sport, durerà 3 anni. Proprio nel carcere di Casal del Marmo, alla presenza di 40 detenuti, sono stati firmati da Vito Cozzoli, il presidente di Sport e Salute, Giuseppe Cacciapuoti, direttore generale del Dgpram, e Stefania Pizzolla, dirigente del Dipartimento per lo sport, i documenti necessari per avviare il progetto atto a migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti. “Lo sport - ha detto Cozzoli - supera le barriere ed è una straordinaria opportunità di crescita oltre che un diritto anche in carcere. Per questo abbiamo deciso di investire nel progetto anche grazie al supporto finanziario della sottosegretaria allo Sport Vezzali”. Il protocollo prevede la redazione di un programma annuale di attività sportive sia di squadra sia individuali, riservato ai minorenni e ai giovani adulti in carico alla giustizia minorile. Verranno forniti il materiale e le attrezzature necessarie per l’arredo di impianti sportivi e di mezzi da competizione, e istituiti inoltre corsi per la formazione di istruttori indicati dal Dipartimento. Sport e Salute renderà disponibili tecnici e allenatori qualificati al fine di predisporre un’adeguata attività formativa ed educativa dei giovani detenuti. Per la realizzazione degli obiettivi indicati nel Protocollo e per consentire la pianificazione strategica degli interventi programmati, sarà altresì costituito un Comitato tecnico-scientifico paritetico. Tutto per sfruttare lo sport come mezzo rieducativo. Trasmettendo valori sani ai giovani in difficoltà. Firenze. Glorie viola in campo con una rappresentativa dei detenuti di Sollicciano gonews.it, 22 settembre 2022 Promosso dalla Camera Penale di Firenze, il 23 settembre alle ore 17.45 presso il campo sportivo dell'U.S. Sales Calcio Firenze Via San Giovanni Bosco, 33, si terrà un incontro tra le 'Glorie Viola' e una rappresentativa di detenuti del carcere di Sollicciano. “Il carcere - spiega il Presidente della Camera Penale avv. Luca Maggiora - deve tornare ad essere un luogo aperto alla società civile. Come giustamente è scritto nella nostra Costituzione le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Lo sport, in questo senso può svolgere una funzione positiva, in particolare per i detenuti di un istituto come quello di Sollicciano che vive una situazione difficile dovuta al sovraffollamento e a diversi problemi strutturali. Alla manifestazione parteciperà anche l'Assessore allo Sport del Comune di Firenze Cosimo Guccione. “Lo sport e l’attività motoria - ha sottolineato l'assessore allo sport Cosimo Guccione - possono essere la base di un processo rieducativo per trasmettere ai detenuti i valori della solidarietà, della lealtà e del rispetto dell’altro. In questo modo, lavorando su loro stessi, possono migliorarsi come persone e ricostruire, una volta tornati in libertà, i rapporti sociali” Il Presidente della Sales Maurizio Razzi si è reso ben disponibile ad ospitare questa bellissima iniziativa, spiegando “che questa partita possa rappresentare un momento di socialità e di condivisione, una piccola goccia nel mare dell'indifferenza che troppo spesso circonda il mondo del carcere”. La raccolta fondi ha l'obbiettivo di acquistare i kit di primaria necessità per i detenuti che accedono al carcere. L'ingresso è fino ad esaurimento posti e richiede un'offerta di 10 € Matera. Le sacche dei detenuti di Made in Carcere per il Congresso eucaristico di Franco Martina giornalemio.it, 22 settembre 2022 C’è un pezzo di inclusione, redenzione, recupero (usate pure il termine che più vi piace) tra i significati e le motivazioni del congresso eucaristico nazionale che Matera ospita fino al 25 settembre e che culminerà con la visita di Papa Francesco. Ed è quello che riguarda il contributo dei reclusi per l’evento, nobilitato dalla dignità del lavoro e dalla possibilità di “svoltare” appena fuori dal luogo di detenzione. Le sacche prodotte con il marchio “Made in carcere” saranno tra le mani e gli occhi dei partecipanti al congresso. L’incontro che il presidente della conferenza episcopale, cardinale Matteo Zuppi, ha avuto con gli ospiti della casa circondariale di Matera, insieme a monsignor Giuseppe Antonio Caiazzo e al cappellano, fra Gianparide Nappi, hanno evidenziato attenzione verso le buone pratiche di “politiche rigenerative” che in concretezza possono aiutare persone che hanno sbagliato a trovare nuove motivazioni per rifarsi una vita. Una visita alla Casa Circondariale di Matera per esprimere gratitudine ai detenuti che hanno realizzato le sacche per i partecipanti al XXVII Congresso Eucaristico e, soprattutto, per lanciare un messaggio di speranza. Accompagnato dall’arcivescovo di Matera-Irsina, Mons. Antonio Giuseppe Caiazzo, e da una delegazione del Comitato per i Congressi Eucaristici Nazionali, il Presidente della CEI, Card. Matteo Zuppi, si è recato ieri pomeriggio nell’istituto penitenziario per incontrare una rappresentanza dei 163 detenuti. Accolto dalla direttrice Sonia Fiorentino, dal dirigente della Polizia Penitenzia, Bellisario Semeraro, e dal Cappellano, fra Gianparide Nappi, il Cardinale ha visitato tre sezioni della struttura penitenziaria e i laboratori del progetto “Made in Carcere”, promosso dalla Onlus Officina Creativa, dove sono state preparate le 3000 sacche per il Congresso Eucaristico. “Questa visita - ha detto il Cappellano - è un momento di restituzione e di gratitudine. Parla dell’amore di tutta la Chiesa”. Mons. Caiazzo ha ricordato ai detenuti come anche loro siano partecipi “in modo diretto del Congresso Eucaristico: le borse sono un contenitore dove verranno messi i sussidi. Se pensiamo alla vita di ciascuno di noi, ecco che le borse diventano contenitore del cammino di vita. In queste borse porteremo le speranze di ciascuno di voi. Non siete lo scarto della società”. Questo incontro, ha detto la direttrice della Casa Circondariale, “è uno stimolo in più per le persone in stato detentivo per intraprendere scelte di vita orientate all’impegno, al lavoro, alla progettualità per un futuro migliore. Con la vostra presenza date un contributo significativo al processo di rieducazione e reinserimento sociale che è la mission delle strutture penitenziarie”. Luciana Delle Donne, promotrice di “Madre in Carcere”, ha evidenziato che “il progetto promuove un modello di economia rigenerativa, riparativa e trasformativa, che fa bene a tutti: individuo, comunità e ambiente, trasformando la detenzione in una molteplicità di valori, come la rieducazione personale, l’abbattimento della recidiva e la sostenibilità ambientale”. “Abbiamo bisogno di una società solidale, più aperta e accogliente verso gli ultimi, perché i detenuti sono gli ultimi”, è stato l’appello di Pietro, uno dei carcerati che ha realizzato le sacche che, nel suo messaggio di saluto, ha fatto riferimento al dramma dei suicidi in carcere e al ruolo rieducativo della detenzione. “Il tempo trascorso in questo buco di ferro e cemento - ha confidato - può diventare, per chi lo vuole, un’immensa occasione di cambiamento, con la progettazione di specifiche attività”. “Queste borse così belle fanno supporre che anche ognuno di voi abbia qualcosa di bello. Le mamme sanno vedere la bellezza di ciascuno. La Chiesa è una madre che cerca di vedere sempre qualcosa di bello in ogni persona”, ha osservato il Presidente della CEI sottolineando che “questa bellezza verrà diffusa in tutta Italia e si propagherà”. “Le borse, oltre che belle, sono anche resistenti. L’auspicio - ha concluso - è che questa bellezza che ci donate con le borse resista in ciascuno di voi. Non buttatela via! La Chiesa vi è vicina perché è una madre e lo sarà sempre”. Firenze. “L’altra libertà” il libro del Consiglio regionale che dà voce ai detenuti intoscana.it, 22 settembre 2022 Il libro è stato presentato al carcere di Sollicciano, dal presidente dell’assemblea legislativa, in occasione della ventunesima edizione del premio letterario nazionale “Emanuele Casalini”. “L’altra libertà, voci dal carcere” è una pubblicazione realizzata dal consiglio regionale della Toscana che oggi, 21 settembre, è stata presentata al al Premio letterario nazionale “Emanuele Casalini”, giunto alla ventunesima edizione. L’opera raccoglie tutte le opere premiate che hanno partecipato al concorso, riservato a detenute e detenuti dell’intero territorio nazionale. Il premio letterario nazionale “Emanuele Casalini” è nato nel 2002, per volontà della società di San Vincenzo De Paoli e dell’Università delle Tre Età, che svolgevano da anni opera di volontariato nel carcere di Porto Azzurro. A quel tempo era morto da poco Emanuele Casalini, preside e professore, ma soprattutto uomo capace di leggere tra le righe dell’animo umano le tante storie della gente che ruotavano intorno a lui: un uomo che aveva fatto amare ai detenuti di Porto Azzurro la grande poesia e al quale è stato dedicato il premio. A Sollicciano, non a caso, erano presenti la vedova, Lucia Casalini, e il figlio Davide. Una sorta di passaggio di testimone per parlare di speranza, con lo sguardo fisso al sociale e alle giovani generazioni. Il presidente dell’assemblea toscana non solo ha idealmente consegnato un riconoscimento a un detenuto nel carcere di Nuoro, ma ha anche proposto di far conoscere “L’altra Libertà” in tutte le scuole toscane, in collaborazione con l’ufficio scolastico regionale. Come sottolineato dal presidente dell’assemblea legislativa, il premio letterario intitolato al professore Emanuele Casalini, dopo ventuno edizioni, si conferma un momento di grande umanità, prima ancora che essere un grande presidio di espressione letteraria e di libertà. Una rottura tra carcere e mondo esterno, per permettere sia a chi legge che a chi scrive di abitare insieme uno spazio di confronto e di vicinanza, tra errori, storie di vita e scelte coraggiose : “Con orgoglio - ha aggiunto il presidente del Consiglio regionale - il Consiglio regionale ha potuto dare il proprio contributo stampando l’ennesima edizione di “L’altra libertà” e dando l’opportunità a questo premio di proseguire in un cammino che guarda al futuro, grazie all’impegno partito anni fa da Porto Azzurro e da Volterra, per merito del professor Casalini”. Napoli. Un corto realizzato da minorenni detenuti: “Dura lex” al Napoli film festival napolitoday.it, 22 settembre 2022 Regia di Maurizio Braucci, verrà presentato fuori concorso. L'aula di un tribunale. Imputato e giudice sono uno di fronte all'altro. L'attesa del verdetto diventa elemento catalizzatore di due storie diametralmente opposte, ma che hanno impresso nella pelle la stessa origine. Questa la storia di “Dura Lex”, cortometraggio diretto da Maurizio Braucci, che verrà proiettato in anteprima il 26 settembre alle ore 18,45 all’Istituto Francese di Napoli, come evento Fuori Concorso alla 23esima edizione del Napoli Film Festival. Prodotto da Antonio Acampora e Armando Ciotola per CinemaFiction, casa di produzione e scuola di recitazione cinematografica con sede a Napoli, in associazione con CCO - Crisi Come Opportunità, “Dura Lex” è stato ideato e scritto dai detenuti del corso di sceneggiatura condotto da Fabrizio Nardi, e realizzato nell’ambito del progetto “Presidio Culturale Permanente nell’Istituto Penale per minorenni di Airola”, con il sostegno di Fondazione “Alta Mane Italia” e coordinato dal rapper Luca Caiazzo, in arte “Lucariello”, grazie alla collaborazione della Direttrice dell’IPM di Airola Marianna Adanti. “Come regista mi sono messo al servizio di un’idea venuta dai detenuti di Airola. Il rapporto con gli avvocati, l’attesa della sentenza, la trepidazione dei familiari lì convenuti, si sono mischiati in loro alla visione di un legame inatteso con chi doveva decidere di una condanna o di un’assoluzione. È una storia che ho sentito come misteriosa, perché conteneva al suo interno qualcosa di simile all’illusione e alla speranza, esprimeva una visione sentimentale e che infatti è stata radicata dagli autori-detenuti nel loro passato adolescenziale. Il tema è certamente relativo alla differenza tra obbligo morale ed esercizio di una funzione giudiziaria, relativo alla complessa relazione che può esserci tra amicizia e visione obiettiva. Il risultato è una storia amara in cui il protagonista ripone la sua speranza di libertà in una resa dei conti morale che viene dal passato. Anche se basata su un assurdo, io credo che questa storia abbia un significato più profondo di quanto appaia, cerca infatti di comunicarci la consapevolezza di un dissidio tra la forza dei legami umani e quella della legge”, così nelle note di regia. In scena Antonio Braucci, Manfredo Palumbo, i giovani Raffaele Russo e Cristian Isaia, e ancora Emanuele Valenti, Domenico Ciruzzi e Anna Lucia Pierro. La fotografia in bianco e nero è firmata da Stefano Falivene. Senza sbarre, per un carcere umano di Federica Farina Left, 22 settembre 2022 Il modello della detenzione dura non porta alcun beneficio ma molti svantaggi per tutta la collettività. Per realizzare a un cambiamento culturale bisogna coinvolgere le scuole, i luoghi i cui si formeranno gli adulti di domani, racconta l’ex direttrice dell’istituto di pena di Bollate in un libro scritto con Serena Uccello. Quando penso al direttore di un carcere, l’immagine che mi viene in mente è quella di Samuel Norton nel film Le ali della libertà, un individuo che impone la sua legge sui detenuti con violenza e prevaricazione. Niente di più lontano dalla verità nel caso di Cosima Buccoliero, già vicedirettrice del carcere di Opera, direttrice del carcere di Bollate e dell’Istituto penale minorile Beccaria di Milano, nonché autrice, insieme a Serena Uccello, del libro “Senza sbarre. Storia di un carcere aperto”, edito da Einaudi. Una donna pratica ma sensibile, che ha saputo portare l’umanità tra le mura del carcere, che non crede che ci siano solo il bianco o il nero: “C’è anche il grigio, ed il bianco può diventare nero e viceversa”. Una professionista che ha voluto esserci, condividendo i problemi di coloro che sono detestati o, peggio ancora, dimenticati da tutti: i detenuti, convinta che la persona non sia il suo reato e che tutti abbiano diritto a una seconda possibilità. “Il carcere può diventare un luogo profondamente ingiusto, che spoglia l’individuo della propria identità”, ci dice l’autrice che ci spiega che se il carcere è coartazione e violenza, questa violenza si ribalterà nella società, rendendola a sua volta violenta e insicura. In questo libro viene descritto il modello di carcere a cui ha lavorato Buccoliero con i suoi collaboratori: un luogo che non vuole essere di segregazione, dove anzi le porte sono aperte per fare entrare “energia”, dove i diritti e la dignità dell’uomo devono essere garantiti in linea con quanto previsto dalla Costituzione. Quanto è stato realizzato a Bollate deve essere raccontato perché dove manca la conoscenza, sono i pregiudizi e i cliché a tenere banco. Bollate offre ai detenuti un trattamento penitenziario particolare, con stanze di detenzione aperte di giorno, celle singole (riservate soprattutto ai detenuti condannati all’ergastolo, così da rendere più umana la prospettiva del “fine pena mai”), celle da due o da quattro posti, con la possibilità graduale di ottenere libertà di movimento all’interno dell’istituto, aderire a offerte lavorative, formative e culturali. Un modello di carcere in cui non si pensa solo ai bisogni primari ma dove si punta a sfruttare bene il tempo della detenzione, lavorando perché la persona possa uscirne migliorata e pronta ad essere reinserita nella società. Nel libro si spiega chiaramente che il modello della detenzione dura non porta alcun beneficio ma molti svantaggi per tutta la collettività. Il detenuto che si trova a vivere una condizione di totale afflizione si sentirà vittima del sistema, non compirà nessun passo in avanti (ma verosimilmente moltissimi passi indietro) e una volta uscito tornerà a delinquere. Un carcere diverso determina risultati decisamente più positivi per tutti: detenuti, operatori e anche per la collettività poiché la recidiva di chi esce da un carcere come Bollate è del 20% contro l’80% della media nazionale. Inoltre, un detenuto che vede riconosciuti i propri diritti e la propria dignità sarà più propenso a compiere un’opera di rielaborazione e riflessione su quanto accaduto, su cosa lo ha portato a commettere il reato, sul danno provocato alla persona offesa e ai suoi familiari. Discorsi sensatissimi che però non riescono a squarciare la cortina di silenzio e pregiudizio che avvolge da sempre l’argomento carcere. La mancanza di conoscenza su cosa sia realmente il carcere è un grande problema, ci dice Cosima Buccoliero. I media non si interessano di quello che accade dentro quelle mura, ne parlano solo quando succede qualche fatto negativo e, allo stesso tempo, i politici, anche a livello locale, preferiscono non occuparsene. Un’altra difficoltà che porta il carcere ad essere un argomento impopolare è la difficoltà di coniugare i diritti dei detenuti con quelli delle vittime dei loro reati. Perché pensare ai diritti dei carcerati quando questi non hanno di certo rispettato quelli delle loro vittime? La Buccoliero risponde con un pensiero semplice e carico di sensibilità: forse non si è obbligati a sanare questa contraddizione, basta sapere che esiste e tener conto di una prospettiva e dell’altra. Ma lo Stato deve comportarsi come stabilito dalla Carta Costituzionale, rispettando il detenuto in quanto persona che dovrà essere reinserita nella società e, in effetti, il modello Bollate va proprio in questo senso. Viene da domandarsi cosa si può fare perché questa tipologia di carcere diventi l’unica possibile e l’autrice ci indica una strada da seguire: ripartire dalle nuove generazioni. Per arrivare a un cambiamento culturale bisogna coinvolgere le scuole, i luoghi i cui si formeranno gli adulti di domani. L’autrice ci racconta dei risultati positivi prodotti negli ultimi dieci anni dagli accordi col Ministero dell’Istruzione, dei progetti che sono stati realizzati e che hanno visto coinvolti moltissimi ragazzi. Gli studenti sono stati accolti nelle carceri, si sono confrontati con i detenuti, con la polizia penitenziaria e con gli operatori. Altre volte, sono stati i detenuti, i poliziotti e i dirigenti delle carceri ad andare nelle classi e le esperienze sono state importanti e formative. La scuola è un luogo di educazione ma anche di formazione delle nuove personalità e, ancora una volta, è chiaro come sia importante investire su di essa perché si possa costruire una società migliore, una cultura più sana, in cui il carcere possa essere visto come l’extrema ratio e possa essere percepito con una diversa sensibilità. Promesse impossibili, è caccia agli indecisi di Alessandra Ghisleri La Stampa, 22 settembre 2022 Le campagne elettorali sono una vetrina per permettere ai politici di raccontarsi e farsi conoscere al loro meglio. Tutto diventa vero, verosimile e spinto fino oltre il possibile. Anche la capacità di stimolare una reazione viscerale tra gli elettori di fronte ad una forte provocazione si trasforma in una ferita all’intero corpo sociale. Tutto è amplificato. L’indignazione non è più un fatto personale, è un risentimento dell’intera collettività: “ne va della nostra sopravvivenza” così dicono. Insomma una campagna elettorale breve, estiva, inaspettata e a tratti improvvisata come questa, sta producendo, in questa ultima settimana, una forte spinta di valutazioni sommarie per una buona parte di elettori. I cittadini che si sentono ancora indecisi sulle scelte inerenti il voto di domenica - e sono molti (tra il 30% e il 40% a seconda delle regioni)- interrogati sul tema del voto si esprimono con valutazioni rapide, in una frazione di secondo nella quale appare chiaro che l’istinto prevale spesso sulla valutazione ragionata. L’àncora alle tradizioni e alla propria storia familiare in molti casi vengono meno e, più facilmente, la valutazione cade su quell’offerta politica che presenta la migliore convenienza per sé e per la propria famiglia. Capita che nelle interviste venga ricordata e citata a memoria l’ultima affermazione di un politico sentita o letta in un approfondimento televisivo, su un giornale, in un comizio. Si registra una migliore attenzione rispetto al mese di agosto. L’impatto è robusto perché i toni e le promesse dei politici ora generano nuove attese presso l’elettore che ovviamente si aspetta che gli sia restituito molto di più di quanto le parole non lascino intendere. La campagna elettorale, oltre ad essere il terreno di scontro politico tra le diverse forze impegnate e i loro leader, ha sempre avuto un’ufficialità nel chiarire ai cittadini le differenze tra le parti, come momento di riflessione e di apprendimento nella ricerca di una letture di quale futuro per ciascuno e per l’intero Paese. Protagoniste indiscusse in questa corta marcia verso il voto sono state sicuramente le parole spese per il caro bollette, la crisi energetica e l’inflazione, l’aumento dei prezzi, la flat tax, la lotta alla disoccupazione e, dopo la tragedia dell’alluvione nelle Marche, è riemersa con una buona eco anche la tutela ambientale. Le piazze, non solo quelle virtuali e televisive, sono tornate a riempirsi. Tuttavia, in questo clima di autunno, lo spazio per l’offerta del sogno è stato molto limitato e l’engagement con il consenso ha ripreso quota sugli interessi del singolo e sulla tutela di quanto già acquisito da ciascuno in questi ultimi anni (come ad esempio il reddito di cittadinanza o delle posizioni di privilegio…). La ricerca del benessere personale e familiare come molla più che per l’evoluzione, per la stabilità e la pianificazione è diventata la vera spinta al voto. E infatti temi più delicati e divisivi all’interno delle coalizioni e dei singoli partiti, come la sanità e la salute, insieme ai vaccini - dopo due anni di pandemia - sono stati più assenti nei dibattiti. Nel frattempo in questa corsa verso il traguardo ogni leader politico cerca la sua definizione c’è chi si d\efinisce liberale, chi progressista, antifascista, mazziniano, europeista, democratico. Qualcuno ribadisce addirittura il suo genere con forza, mentre qualcun altro cerca di raccontare le sue origini. Si prova ad uscire dagli schemi perché ci si rende conto che i cittadini si riconoscono immersi in una società senza vertice e senza baricentro. Si sono cercati nuovi mezzi per raggiungere un elettorato stanco e distante regalando anche momenti divertenti e stravaganti sui social network e in televisione. Vince l’interpretazione dei desideri degli elettori, rispetto alla cruda realtà e alle prospettive di un ambiente sociale estremamente complesso. Non si conoscono le garanzie per il futuro. I principi e i valori urlati in campagna elettorale potrebbero non trovare coerenza negli interventi che gli stessi leader potrebbero essere costretti a fare nei prossimi mesi. Insomma è un “voto cieco”, una scelta sull’onda del sentimento e della percezione, della simpatia e dell’emozione, che lascia ancora molti dubbi e insicurezze in una parte dell’elettorato - ancora incerto - sulla bontà della loro scelta. Il futuro della scuola nel silenzio dei partiti di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 22 settembre 2022 I promossi sfiorano ormai sempre il 100 per cento. Dato solo apparentemente ultrapositivo, infatti di questi promossi oltre il 20% abbandona l’università dopo il primo anno e alla laurea non arriva neppure la metà delle matricole. Anche in questa campagna elettorale per l’ennesima volta sull’istruzione è calato il silenzio. Nessun partito ne ha fatto un tema centrale della sua piattaforma politica. Il fatto è che della scuola e dell’istruzione, in realtà, la politica non sa né si cura di sapere nulla. Ubriacata dal mare di demagogia che negli ultimi trent’anni essa stessa ha prodotto al riguardo e che la burocrazia ministeriale si è incaricata di moltiplicare per mille, ignora la realtà critica delle cose. Ignora che l’intero sistema italiano dell’istruzione pubblica, dalla scuola dell’infanzia all’Università, fa acqua da ogni parte. E per conseguenza non si rende conto che questa sta diventando sempre di più una delle cause principali della nostra arretratezza complessiva come Paese. Basta a confermarlo il dato di cui abbiamo avuto notizia proprio da questo giornale (Corriere della Sera , 19 settembre): le altissime cifre dell’evasione dell’obbligo scolastico e dell’abbandono degli studi (quelli universitari compresi). Il che fa sì che ben il 23,1% (una cifra enorme) dei giovani italiani tra i 15 e i 29 anni di età non studia e non lavora. Si spiega così la situazione del nostro mercato del lavoro che specie nel Mezzogiorno e specie tra le donne vede un altissimo numero di persone prive di qualunque competenza professionale, destinate perciò alla disoccupazione o a lavori dequalificati e perlopiù in nero: due categorie, detto tra parentesi, alle quali appartengono anche molti percettori del reddito di cittadinanza. Ma la crisi del sistema dell’istruzione ha un significato ancora più vasto e grave. La scuola che c’è è una scuola che - non per colpa di chi in essa lavora ma a causa dell’impostazione che le è stata data da scelte politiche sconsiderate - non ha come sua stella polare l’importanza cruciale del sapere, non motiva allo studio, non pone al primo posto il merito e quindi non educa in questo senso le nuove generazioni. Stando alle prove Invalsi è una scuola che non riesce neppure a insegnare ai suoi alunni (ci riesce infatti solo la metà) a comprendere il significato di un testo scritto non in cinese ma in italiano. È insomma una scuola che a dispetto di tutte le sue intenzioni non aiuta la società italiana a essere migliore, più dinamica, più competente, più colta, più civile. Per rimediare non basta tuttavia farla finita con le conseguenze di prassi o di scelte sbagliate compiute in passato. Non servono controriforme. Ciò che è necessario è ripensare l’intera organizzazione dei cicli scolastici: non solo stabilendo finalmente la durata dell’obbligo al termine delle secondarie (17-18 anni), ma adottando un principio nuovo, e cioè partendo dal punto d’arrivo degli studi, da quella che oggi è l’Università. Per avere una scuola nuova bisogna innanzi tutto immaginare un nuovo modello per gli sbocchi che essa apre ai suoi studenti dopo l’esame finale di licenza di scuola secondaria. L’esistenza - come avviene ancora oggi - di un solo sbocco, quello universitario tradizionale, a cui da mezzo secolo è possibile accedere con il diploma di qualsiasi scuola secondaria, condiziona e distorce profondamente il carattere della scuola. L’esistenza di un unico sbocco presuppone infatti due cose del tutto irreali: innanzi tutto l’equivalenza sostanziale della qualità dei contenuti dell’insegnamento e dei suoi risultati in qualunque tipo di scuola, da quella professionale al liceo classico; in secondo luogo presuppone l’eguaglianza delle vocazioni e delle attitudini di tutti i giovani licenziati, tutti ottimi potenziali candidati ai medesimi studi universitari. Sono proprio queste due premesse irreali che a loro volta costringono la scuola e chi vi insegna - anche contro ogni loro volontà - a imboccare una delle due strade seguenti, entrambe negative. O cominciare ad esercitare già nelle sue aule un vaglio delle competenze effettive degli alunni, delle loro vocazioni e attitudini, con il solo strumento a disposizione che è quello della bocciatura: in tal modo esponendosi però all’accusa di far assumere alla scuola un connotato che può facilmente essere interpretato come un connotato classista; ovvero la strada consistente nell’adottare il criterio della più larga longanimità e cioè di fatto promuovere sempre tutti salvo casi rarissimi. La quale strada - inutile dirlo - è proprio quella presa da tempo pressoché dovunque: prova ne sia che all’esame di licenza sia media che liceale la percentuale dei promossi sfiora ormai sempre il cento per cento. Un dato apparentemente ultrapositivo che però contrasta davvero singolarmente con il fatto che poi di questi promossi oltre il 20% abbandona l’università dopo il primo anno dall’iscrizione e che alla laurea non arriva neppure la metà delle matricole. La scuola italiana va dunque riorganizzata profondamente pensando a due tipi diversi di sbocchi, cioè a due tipi diversi di studi superiori. E cioè, sull’esempio tedesco, a due tipi diversi di università, ognuno punto di arrivo di due tipi diversi di percorsi scolastici. Un’università che prepara e abilita essenzialmente solo alla ricerca e all’insegnamento e quindi con un taglio disciplinare dal forte carattere teorico, e che quindi è l’unica a rilasciare un diploma di dottorato; ed un’università di scienze applicate che invece prepara in maniera specifica all’immediato esercizio professionale nel campo dell’ingegneria e architettura, della medicina di base, della tecnologia, del design, della formazione, delle scienze sociali e della comunicazione ecc., servendosi di docenti inseriti da tempo nelle relative professioni e stabilendo forti legami con le attività produttive e professionali connesse ai vari settori. È evidente che un tipo siffatto di università duale presuppone da un lato una diversificazione del ciclo scolastico già dopo 7 -8 anni dal suo inizio e quindi intorno ai 13 anni di età degli alunni, e successivamente, accanto a un ciclo più o meno simile all’attuale liceo classico-scientifico, un ciclo scolastico tutto da reinventare e magari differenziato al proprio interno, orientato allo sbocco universitario di cui sopra ma che al suo termine preveda già un diploma effettivamente professionalizzante. In Italia c’è un bisogno assoluto di ridare dignità culturale e sociale e quindi economica al mondo del lavoro, di tutto il lavoro, e il modo di farlo parte dalla scuola. Se il dibattito elettorale si fosse compiaciuto di parlare anche di un tema del genere scommetto che avrebbe suscitato un interesse almeno pari a quello delle “bollette”. I giovani e le droghe, il mito intramontabile della gioventù bruciata di Vanessa Roghi Il Domani, 22 settembre 2022 Dall’alcol alle pasticche alla cannabis: dagli anni Cinquanta si parla della dissolutezza dei giovani come di un dato costante. In realtà molto è cambiato, nell’approccio, nelle consapevolezze, nei rischi Le sostanze psicotrope sembrano fatte apposta per irretirli, moderni vampiri che una volta provate trasformano i malcapitati in soggetti perduti, senza scampo. Esiste un allarmismo diffuso sullo “sballo” degli adolescenti, dei giovani. Un allarmismo che nasce, innanzitutto, dall’assunto per cui i ragazzi non saprebbero mai quello che fanno, ieri come oggi. Le sostanze psicotrope sembrano fatte apposta per irretirli, moderni vampiri che una volta provate trasformano i malcapitati in soggetti perduti, senza scampo. Niente di nuovo, ogni generazione da che mondo è mondo è stata vista come in pericolo da chi ormai aveva superato gli anta. Soprattutto a partire dal dopo-guerra, quando i “giovani” sono stati “inventati” dall’industria dei consumi (e da due guerre mondiali che ne avevano fatto scempio), i vecchi li hanno guardati con sospetto, con disagio e preoccupazione. Gioventù bruciata. Gioventù dannata. Gioventù perduta. Nel 1959 il giornalista Franco Di Bella dedica un lungo reportage ai fatti di cronaca nera del decennio trascorso e scrive: “La cosiddetta gioventù bruciata che, a nostro giudizio, ci elargirà nei prossimi anni grossi dispiaceri”. E ancora: “Psicopatici, nevropatici affetti da una angoscia tutta letteraria che per un istante trovano nella droga l’appagamento di desideri altrimenti irrealizzabili. Queste schiere di disancorati morali, i “teen years boys & girls”, gli adolescenti, come li chiamano in America, rappresentano il vero pericolo per la società. Appartengono di solito a famiglie benestanti e sono i più assidui clienti degli spacciatori che dal mercato nero degli stupefacenti traggono guadagni favolosi.” Stavolta è Indro Montanelli a descrivere questa nuova gioventù “che ha il delitto facile perché ha difficile tutto il resto. Nulla le manca, materialmente, ha più libertà e più soldi di quanti noi ne abbiamo avuti, ha il cinematografo, l’automobile o almeno la motoretta, ha le vacanze al mare, ha le ragazze. Ma non ha una Gerusalemme da conquistare come, per sbagliato che fosse, l’avevamo noi, e non sa contro chi drizzare una barricata. Per questo si stordisce con il cool jazz e cerca una “evasione” nel delitto. Noi quando avevamo voglia di sparare, potemmo farlo contro gli abissini, contro i russi, contro gli inglesi. Questi ragazzi non possono farlo che contro di noi”. Drogomania - E quando i giovani irrompono sulla scena politica e la occupano, con il Sessantotto, l’allarme si fa altissimo e per certa stampa giovani e droga diventano un sinonimo del decennio che sta per aprirsi, gli anni Settanta. La “capellomania” e la “drogomania” sembrano essere due mode che uccideranno una intera generazione destinata a non incidere di una virgola nella storia del paese. Ma, come scrive nel 1979 lo psicanalista Elvio Fachinelli chi la usa o chi la condanna, la droga, la mitizza ma ne sa assai poco: anche la stampa ne parla per sentito dire e non si pone problemi pratici come spiegare, per esempio, il significato del “taglio della sostanza”, che è fra le cause principali di intossicazione e di morte. Mentre in Eroina (Feltrinelli, 1976) Guido Blumir aveva scritto: “L’ignoranza del concetto di dipendenza fisica è una delle cause principali della diffusione delle tossicomanie”. E non aveva tutti i torti. Ovviamente nemmeno un certo grado di consapevolezza diffusa sui suoi effetti e i suoi rischi è stato sufficiente a evitare la diffusione dell’eroina negli anni Ottanta, ma certo è che, e ormai lo dimostrano numerosi studi, dopo l’epidemia di Aids e la grande diffusione di morti fra i tossicodipendenti, hanno iniziato a diffondersi comportamenti meno a rischio, come il fumare la sostanza e non iniettarla, segno di una accresciuta propensione verso quella che è stata chiamata “riduzione del danno”, messa in pratica dagli stessi consumatori. Scrive Grazia Zuffa, psicologa, in uno studio dedicato alla cocaina: “Studiare i controlli che i consumatori esercitano sulle droghe può sembrare una contraddizione poiché nell’opinione corrente la parola droga è associata alla dipendenza. La scienza asseconda questa visione e si concentra sugli assuntori intensivi e sulle proprietà additive delle sostanze. Eppure, un consistente corpo di ricerche internazionali mostra che molti consumatori sono in grado di dominare le droghe invece che esserne dominati. Ciò avviene tramite l’apprendimento di regole sociali e personali volte a impedire che il consumo comprometta la “normalità” quotidiana”. La vita normale della droga - Oggi chi consuma sostanze, anche fra i giovani, ha in tutto e per tutto, e nella grandissima maggioranza dei casi, una vita normale. I ragazzi che ricorrono ai SerD o passano dal pronto soccorso, sono una minoranza che non sposta di una virgola la percezione che hanno gli altri di sé stessi: persone “normali”, perfettamente integrate, che passano tranquillamente da sostanze legali come alcol e tabacco a sostanze illegali come cannabis. Ma questa “gioventù”, oggi, è nel complesso così ignara delle conseguenze di ciò che fa? Ne parlo con Alessio Guidotti, operatore della riduzione del danno per la cooperativa Folias: “L'ampiezza del fenomeno, il suo continuo evolvere come diffusione ma anche, come stili di consumo, fa certamente pensare che ci sia una maggiore conoscenza tra le fasce di giovani, grazie ai mezzi di comunicazione e ai progetti di riduzione dei rischi e in generale dagli interventi a bassa soglia rivolti a giovani che non hanno sviluppato una dipendenza. Questi progetti, che hanno differenti forme di finanziamento tra cui quello delle Asl, svolgono un ruolo importantissimo sia per la diffusione di informazioni sulle sostanze (effetti, rischi, modalità di assunzione corretta ecc.) ma anche perché consentono, a chi utilizza, di potersi confrontare con operatori che hanno un approccio non giudicante”. Mettiamoci anche le serie tv e la rete, e le possibilità di accedere a informazioni, un tempo accessibili solo con il passaparola, diventa infinita. Tuttavia sappiamo bene quanto un eccesso di informazioni sia potenzialmente inutile se non si hanno bussole che consentano di navigarvi in mezzo consapevolmente. Il ruolo degli adulti - E qui entriamo in gioco noi adulti. Dobbiamo mettere ordine, fare chiarezza, e non fare finta che i ragazzi non sappiano niente o, peggio, limitarsi a un divieto perentorio e senza appello. Così certe serie Tv, certe canzoni, si potrebbero discutere a scuola per esempio, in progetti dedicati, senza far intervenire sempre il poliziotto o l’ex drogato a dire: non si fa. Perché non funziona, lo dimostrano i dati raccolta dalla Relazione al parlamento sulle tossicodipendenze 2022: relativamente ai consumi nell’anno, nello studio del 2021 il 98,6 per cento dei rispondenti ha fatto uso di cannabis, il 21,4 per cento di cocaina, il 12 per cento di ecstasy/Mdma, il 5,9 per cento ha consumato amfetamine, il 2,9 per cento metamfetamine, l’8,7 per cento ha fatto uso di Nps e il 3,3 per cento eroina nell’ultimo anno. Nel 2012 Asl Roma 2, Regione Lazio e cooperativa Parsec hanno pubblicato una ricerca sulla percezione dei rischi fra i giovani romani. Nella stessa ricerca si faceva chiarezza sul compito della prevenzione “Compito della prevenzione, secondo un approccio cognitivo-informatico, è informare sui rischi a breve /lungo termine correlati all’uso di droghe per accrescere consapevolezza della pericolosità e aumentare le conoscenze scientifiche sulla sostanza (per evitare effetti boomerang questo approccio deve essere sostenuto da una corretta informazione/necessità di andare oltre la comunicazione dissuasiva e arrivare a una comunicazione del rischio e ad una informazione corretta su come ottenere aiuto, altrimenti può essere inefficace”. Meglio, allora, sarebbe ragionare laicamente sul concetto di educazione fra pari e puntare su questo. In questo tipo di approccio, sempre secondo la ricerca della Asl Roma 2, si incoraggia la capacità da parte di un individuo di assumere il controllo della propria situazione mentale ed ambientale. “I destinatari dell’intervento vengono considerati in modo completamente nuovo: non più utenti da istruire perché carenti di informazioni, bensì soggetti portatori di risorse, conoscenze, abilità, potere di cambiamento. Gli adulti, cioè i formatori, gli insegnanti e gli operatori dei servizi, esplicano il loro ruolo in due direzioni: essi da una parte sono responsabili della formazione dei peer e, dall’altra, sono gli unici in grado di legittimare ciò che i ragazzi portano nelle classi”. Quindi gli adulti svolgono la funzione di costruire una cornice “che sia legittimante rispetto alla presenza dei peer e dell’intervento. I peer educator utilizzano come strumento una comunicazione paritaria e agiscono come agenti di cambiamento. Il gruppo costituito da peer e studenti non è strutturato secondo gerarchie e non viene assunta una funzione autoritaria e di tipo formale: i peer educator non tengono una lezione e non sono giudicanti, ma rimangono parte del gruppo e sono percepiti come un modello positivo che stimola l’identificazione in un clima di fiducia”. E l’alcol? L’alcol è un oggetto di intervento specifico della ricerca. Una delle sostanze che suscita maggiore allarme e verso cui l’ambivalenza sociale è più evidente. Scrive ancora Grazia Zuffa: “Oggi, al ragazzo del Flaminio che dice di bere “tre birre e poi stop… altrimenti non riesco a guidare la moto”, si contrappone la profezia degli Alcolisti Anonimi: “E’ così che si inizia. Anzi è così che si scivola nella dipendenza”. Siamo al rilancio del famoso slogan guerresco A drugfree world, we can do it?”. In una revisione delle ricerche qualitative lungo un ventennio (condotta da Franca Beccaria nel 2010 poi nel 2016), usciva smentita la immagine dei giovani italiani del tutto omologati al modello dell’extreme drinking, “privi di valori e molto più attratti da comportamenti rischiosi rispetto alle generazioni precedenti”: invece, i ragazzi del Duemila mostravano una nuova consapevolezza degli effetti ricercati nell’alcol, e anche del “posto” (temporale, sociale, psicologico) da riservare all’uso occasionale più intenso. La stessa razionalità che durante il lockdown ha spinto molti consumatori a diminuire l’uso di alcol, venendo meno i contesti di socialità e non ritrovando “senso” nel bere solitario (come da una ricerca sui consumi durante la chiusura pandemica, in via di pubblicazione)”. Sempre secondo le ricerche di Franca Beccaria i consumi di alcol in Italia, come in altri paesi dell’area mediterranea, sono in calo negli ultimi 20 anni, un dato che invece nei paesi anglosassoni viaggia nella direzione opposta Questo non significa che non esista un problema per alcuni, quelli che finiscono al pronto soccorso in coma etilico, ma il punto è che non rappresentano la regola, mentre stando a certa stampa sembrerebbe di sì. Legale o illegale? - Secondo Raimondo Maria Pavarin, responsabile dell’Osservatorio Epidemiologico Metropolitano Dipendenze della Azienda USL Bologna, l’orientamento attuale, soprattutto tra le giovani generazioni, sembra superare la dicotomia legale/illegale, e sempre più spesso si osserva un uso delle bevande alcoliche in alternativa o in concomitanza con altre sostanze psicoattive, ma con motivazioni simili. Questo, nonostante la forte influenza dei contesti culturali di riferimento in cui permangono modelli tradizionali che vedono l’alcol come parte integrante di cultura e alimentazione, si verifica all’interno di un processo nel quale l’uso di alcol è stato gradualmente de-culturalizzato e si avvia inoltre ad essere de-contestualizzato. Oggi è saltata completamente, rispetto a trenta anni fa, la distinzione tra legale e illegale, i motivi per cui i ragazzi bevono una birra o fumano una canna sono gli stessi, non ci sono aspetti di controcultura lo fanno solo per divertirsi quando sono adolescenti, come forma di autocura, quando iniziano a crescere e hanno bisogno di fumare o di bere qualcosa per dormire. Comportamenti ritenuti normali o comunque accettabili in un adulto e stigmatizzati invece quando a compierli è un ragazzo. Il punto è che noi adulti non siamo abituati a considerare i nostri comportamenti come fattori di rischio: le medicine che teniamo in casa, nell’armadietto del bagno, l’aperitivo che prendiamo con gli amici, la sigaretta, la canna che fumiamo fanno parte di uno stesso scenario di normalità ai quali i ragazzi attingono. Una normalizzazione dell’uso delle sostanze a 360° che poi, in modo del tutto schizofrenico, stigmatizziamo nei “giovani”. Parallelamente al processo di normalizzazione della cannabis, nel quale il consumo sembra stia divenendo un fenomeno non solo tollerato, ma anche accettato e condiviso da ampi strati della popolazione, il processo in corso di de culturalizzazione dell’alcol sta determinando una sorta di normalizzazione dell’abuso, interpretato dai giovani come parte integrante della loro vita, all’interno di una più ampia ricerca del piacere, dell’eccitazione e del divertimento. Per entrambi i processi rimane valido il concetto di scelta razionale, che implica una comparazione tra il piacere che l’uso può dare contrapposto alla valutazione dei rischi per la salute e dei possibili costi da pagare. Apprendimento sociale - Ancora Guidotti: “C'è da dire però che nel passato, e penso anche al mio di passato, era forse differente il modo in cui le sostanze venivano significate, si contestualizzava il consumo. Dovremmo quindi pensare che la consapevolezza sul consumo di sostanze, unica vera forma per ridurne i rischi, possiamo e dobbiamo adoperarci tutti perché si diffonda. Ma come detto non basta la sola, certamente maggiore rispetto a ieri, informazione: si tratta di costruire, in una vera logica educativa, un “ orizzonte di senso” al consumo stesso”. Ovviamente la psicologia sociale, la sociologia, si sono ampiamente cimentate nel tentativo di spiegare i meccanismi che portano i giovani a consumare droghe: interpretano il fenomeno in base ai processi di socializzazione. Si chiama teoria dell’apprendimento sociale. Tuttavia, lo sottolinea un saggio di Marcella Ravenna e Claudio Baraldi (Fra dipendenza e rifiuto. Una ricerca su percorsi e immagini della droga tra i giovani) “è ormai assunto come un punto fermo dalla letteratura in ambito psico-sociale che il consumo delle diverse sostanze psicoattive disponibili sul mercato (lecito e illecito), in ragione della diffusione che ha progressivamente assunto fra i giovani, non può più essere considerato l'effetto di processi di sviluppo anormali o devianti (ciò è vero semmai per le fasi estreme e maggiormente deteriorate) ma deve essere compreso nel quadro più complessivo delle problematiche adolescenziali” Ma i comportamenti a rischio svolgono una funzione molto importante nella crescita di un individuo poiché rappresentano una strada per diventare soggetto riconosciuto, attivo, all’interno di un gruppo e non possono essere ignorati, negati, marginalizzati. Per questo è fondamentale che questo individuo giovane abbia, come gli adulti che lo circondano del resto, chiari i significati di queste sperimentazioni, i loro rischi, le loro conseguenze. Sette proposte contro chi giudica i migranti come un’emergenza di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 settembre 2022 Basta all’approccio emergenziale sul tema immigrazione!”. Mancano tre giorni alle elezioni politiche e sono due i temi impopolari, ma fondamentali per uno Stato civile e di diritto, che non sono funzionali al consenso elettorale: la questione carcere e quello dell’immigrazione. Sulle pagine de Il Dubbio sono state riportate le varie proposte sull’esecuzione penale dove il dramma dei suicidi (siamo giunti a quota 62 dall’inizio dell’anno) va di pari passo al sovraffollamento, mancanza dell’affettività e poca attenzione al carcere come extrema ratio. Ora è la volta degli immigrati. Il Tavolo Asilo e Immigrazione, che rappresenta la principale coalizione nazionale di associazioni del Terzo Settore impegnate in questo ambito, presenta ai partiti impegnati nella campagna elettorale un documento in sette punti per affrontare le questioni più urgenti e superare la “rappresentazione distorta del mondo dell’immigrazione”. Il documento affronta il tema in maniera articolata, partendo dalla premessa che le politiche sull’immigrazione e il diritto d’asilo sono state, almeno negli ultimi venti anni, frutto di numerosi interventi, volti quasi tutti a ridurre lo spazio dei diritti delle persone di origine straniera. Secondo il Tavolo, questa tendenza, con poche eccezioni, ha accentuato la condizione di precarietà degli stranieri e la loro ricattabilità, fino a determinare pesanti forme di discriminazione. Dal 2011 ad oggi il discorso pubblico sull’immigrazione si è sempre più polarizzato, sviluppandosi principalmente intorno al binomio “migrazione- sicurezza” e adottando un approccio emergenziale anziché strutturale e progressivamente concentrato sull’accesso al diritto d’asilo e sull’accoglienza dei richiedenti asilo e rifugiati. “Inoltre - si legge nel documento rivolto ai partiti politici -, nonostante i numeri testimonino la netta prevalenza, nel nostro paese, di migranti con permesso di soggiorno per motivi di lavoro o familiari (quest’ultimo titolo di soggiorno legato in prevalenza ad un familiare in possesso dei requisiti per soggiornare regolarmente) o nati in Italia, il dibattito politico e culturale si è concentrato in questi ultimi anni quasi esclusivamente sulla gestione delle frontiere e sull’accoglienza di richiedenti asilo e rifugiati, con toni spesso allarmistici quando non del tutto fuorvianti”. Ciò ha amplificato nell’opinione pubblica l’idea che l’Italia sia un paese in prima linea nella gestione dei flussi migratori in Europa, anche a causa del continuo ricorso, da parte di media e rappresentanti politici, a semplificazioni, luoghi comuni o palesi strumentalizzazioni. In realtà, oltre al dato che vede i richiedenti asilo e rifugiati come una piccola minoranza (circa il 10 per cento) dei migranti presenti in Italia, va tenuto conto del fatto che, a livello globale, l’Europa è una delle aree meno investite dai flussi di immigrazione forzata, e all’interno dell’Ue, il nostro Paese è ben al di sotto della media per domande d’asilo e rifugiati. “Questa rappresentazione distorta del mondo dell’immigrazione impedisce ancora oggi di affrontare le questioni che riguardano l’ingresso e il soggiorno delle persone di origine straniera con misure efficaci e realmente rispettose della loro dignità”, osserva il Tavolo con forza. Sette i temi principali in cui si articola il documento. Parte dal rapporto tra stranieri e Pubblica Amministrazione, il quale - secondo il Tavolo - risente del ruolo sproporzionato attribuito al ministero dell’Interno, e in particolare alle sue articolazioni territoriali come Prefetture e Questure, cui è necessario rivolgersi per ogni esigenza legata a rilasci e rinnovi dei titoli di soggiorno anche dopo anni di regolare presenza sul territorio. Ferma restando la necessità per il Viminale di effettuare i controlli in materia di sicurezza, si propone che in materia di rilascio e rinnovo dei permessi di soggiorno si trasferiscano le competenze, e le relative risorse, dalle questure agli enti locali, consentendo una relazione di prossimità con la pubblica amministrazione e alleggerendo in questo modo il carico del personale prefettizio e di polizia. Altro tema è l’accesso in Italia per motivi di lavoro che, di fatto, è impedito dall’attuale legislazione: prevede meccanismi irrealizzabili di incontro tra domanda e offerta di manodopera, in cui il lavoratore dovrebbe essere assunto all'estero, senza aver mai incontrato di persona il potenziale datore di lavoro. Per questo le associazioni del Tavolo propongono di modificare la norma che regola l’ingresso in Italia di persone straniere, secondo quanto previsto dalla proposta di legge di iniziativa popolare Ero Straniero, prevedendo quindi un nuovo meccanismo di incontro tra domanda e offerta di lavoro, la reintroduzione della figura dello sponsor e un meccanismo di regolarizzazione permanente su base individuale nei casi in cui le persone siano presenti sul territorio nazionale a qualsiasi titolo e possano dimostrare di aver ricevuto una proposta di lavoro regolare o il buon esito del percorso di integrazione. Altro punto spinoso è l’accesso alla procedura di protezione internazionale e gestione delle frontiere esterne e interne all’Unione europea. Il diritto d’asilo è diventato, per volontà dei governi e non delle persone migranti, ormai l’unica via d’accesso agli Stati Membri dell’Ue. “È necessario rendere pienamente effettivo questo diritto, impedendo ogni tentativo sia di delegare ai paesi terzi l’esame delle richieste di protezione e l’accoglienza dei richiedenti, sia di rendere l’accesso alla procedura di protezione nel nostro paese sempre più difficile, sommario e privo di garanzie fondamentali, anche tramite l’identificazione di cosiddetti “paesi sicuri”, nozione che riteniamo del tutto illegittima”, propone il Tavolo. L’altro tema riguarda una riforma del sistema d’accoglienza per richiedenti asilo e titolari di protezione che vada nella direzione del documento presentato dal TAI nel giugno del 2022. I due elementi principali sono la necessità di andare speditamente verso un sistema unitario basato sul SAI, superando la frammentazione e la differenza di servizi erogati, e superare la precarietà del modello “a progetto”, inserendo l’accoglienza nella rete dei servizi stabilmente erogati dal sistema di welfare locale. Il Tavolo Asilo e immigrazione ritiene, inoltre, necessario “procedere a una riforma dell’Unar (Ufficio nazionale anti discriminazioni razziali), introducendo finalmente il principio di autonomia previsto dalla Direttiva europea come per tutti gli altri uffici di garanzia previsti dalla legge”. Altro tema degno di nota è quello che riguarda la privazione della libertà attraverso la cosiddetta detenzione amministrativa nei Centri di permanenza e rimpatrio (Cpr). Il Tavolo Asilo e immigrazione ritiene che sia necessario chiudere i Cpr, “anche in considerazione della grave violazione del principio di uguaglianza introdotto con questa misura, che lede il principio dell’habeas corpus, e implementare misure alternative alla detenzione”. Inoltre, prosegue il Tavolo, “è necessario rivedere profondamente la normativa sulle espulsioni, limitando il ricorso a tale provvedimento e garantendo che siano sempre sottoposti al Parlamento gli accordi di riammissione con i paesi terzi”. L’utopia concreta della pace per mettere fuorilegge tutte le guerre di Sergio Segio vita.it, 22 settembre 2022 Mai come quest’anno la ricorrenza del 21 settembre, Giornata mondiale per la pace, suona tragicamente beffarda. Del resto, dice l’antica massima, hanno fatto un deserto e l’hanno chiamato pace. Senza scomodare Tommaso d’Aquino, che pure introdusse il concetto di “guerra giusta” nel XIII secolo, e stando solamente a ieri, la guerra si è persino dichiarata “umanitaria”, oltre che “permanente” e “preventiva”. Erano i tempi di George Bush e Dick Cheney, fautori dell’invasione dell’Iraq. Assai determinati poiché molto interessati: il primo all’industria petrolifera di famiglia, il secondo a quella militare e della sicurezza, oltre che del petrolio, essendo stato al vertice della multinazionale Halliburton prima di diventare vicepresidente USA. Per poter scatenare quella guerra, il presidente statunitense, assieme al sodale e complice Tony Blair, premier britannico e leader laburista, allestirono allo scopo prove false su una presunta “pistola fumante”: le armi chimiche che sarebbero state nelle mani di Saddam Hussein. “Prove” con le quali ingannare le Nazioni Unite e l’opinione pubblica mondiale per forzarle ad accettare l’occupazione di quel paese da parte di una “coalizione dei volenterosi” (capitolo a parte meriterebbe l’analisi dell’evoluzione della retorica e del vocabolario bellicista negli ultimi decenni e così pure dell’uso bellico delle fake news e della propaganda), cui aderirono e in parte contribuirono con invio di contingenti militari dozzine di paesi, Italia compresa. Fu scarsa l’opposizione politica a quella che, assieme alla precedente dissoluzione violenta della ex Jugoslavia, sponsorizzata e perseguita dall’Occidente, costituì la premessa dell’attuale quadro di conflitto permanente, di disordine e devastazione globale. Un potente movimento scese allora in piazza in tutto il mondo, ma fu sconfitto dagli ancor più potenti interessi dei signori della guerra. Il piccolo errore di Blair e i pacifisti “imbecilli” - Il “signore” corresponsabile della guerra e devastazione irachena, Tony Blair, nel 2007 è stato gratificato del paradossale incarico di inviato di pace in Medio Oriente del Quartetto (Nazioni Unite, USA, Unione Europea e Russia). Incarico che ha mantenuto, senza peraltro ottenere alcun risultato, sino al 2015. Solo allora sono venute le sue autocritiche per la guerra irachena, con l’ammissione che lui e Bush “si erano sbagliati”. Un errore costato centinaia di migliaia di morti e la perdurante destabilizzazione di un’intera regione: le vittime dirette di quel conflitto sono quantificate tra le 275.000 e le 306.000, in gran parte civili (tra i 185.000 e i 208.000). Nessuna Corte o Tribunale internazionale ha sinora ritenuto di chiederne conto. A ricordare, insomma, che l’ipocrisia di politica e governi (e media mainstream) non ha confini e pudori. E neppure sincere resipiscenze: nell’estate 2021, conteso dai media internazionali, Blair è tornato a discettare di governance mondiale e di geopolitica. In particolare, criticando il ritiro delle truppe dall’Afghanistan ed evidenziando un inalterato approccio bellicista alle strategie globali e all’affrontamento del problema islamista; una sfida, da lui paragonata a quella verso il comunismo novecentesco, nei cui riguardi, a suo parere, l’Occidente esprimerebbe una pericolosa debolezza e mancanza di volontà. Per Blair (al tempo faro di molte parti del centrosinistra italiano ed europeo), il ritiro delle truppe occidentali dall’Afghanistan (dopo ben venti anni di guerra e occupazione, e 176.000 vittime, giova anche qui rammentare) costituisce la rinuncia a una visione e a interessi strategici, una scelta compiuta “in obbedienza a uno slogan politico imbecille sulla fine delle “guerre per sempre”“. Il 21 settembre, insomma, è la ricorrenza che noi imbecilli ci ostiniamo a ricordare. Perché l’obiettivo della cultura (e delle politiche) di pace è esattamente quello: la fine delle guerre per sempre. Obiettivo meno utopico di quanto troppi commentatori e decisori pensano, o fingono di pensare. Anche qui l’ausilio della memoria è strumento - di verità e di cambiamento - potente, ancorché svilito e insidiato non solo dai disinformatori professionali, ma dalla stessa mutazione epocale avvenuta nella comunicazione con i social network. Il patto di rinuncia alla guerra del secolo scorso - Bisognerebbe allora ricordare che nella storia del Novecento - che è stato sì secolo terribilmente insanguinato ma anche, e forse perciò, contraddistinto da utopie concrete e potenti - esistono precedenti come il Patto Kellogg-Briand del 1928 (altrimenti detto Patto di Parigi o Patto di rinuncia alla guerra). Pur rimanendo inapplicato, arrivò a essere ratificato da 63 Stati. È significativo che, anche allora, siano stati i movimenti sociali a sollecitare e indirizzare quella proposta politica a livello istituzionale. A promuoverla fu un movimento, principalmente statunitense e francese, che, a posteriori del grande macello della Prima guerra mondiale, sollecitò a mettere fuorilegge la guerra. Perché, a differenza dei loro governanti, i cittadini sanno per tragica e secolare esperienza che sono i popoli a pagare per intero i prezzi delle guerre, non gli “oligarchi” di ieri e di oggi che, anzi, con le guerre realizzano ulteriori business e incrementano i loro poteri. Di una nuova guerra mondiale siamo oggi alla vigilia, se non ai primi atti, data l’escalation quotidiana e l’evidente e pericolosa strategia occidentale di mettere nell’angolo, senza vie di uscita, non solo la Russia di Putin ma la stessa Cina. Perché la guerra in Ucraina abbia termine, occorre che le armi tacciano e si ridia spazio e possibilità alla politica e alla diplomazia. E che le Nazioni Unite tornino a essere sede di confronto, e sia pure di scontro, anziché di pericola esclusione. Poi, così, potrà venire il tempo del giudizio e dei bilanci. Anche il tempo per indagare e per punire i crimini di guerra. Senza dimenticare la necessità di colpire e di mettere in condizione di mai più nuocere anche “i profittatori di guerra”. Ovvero ricordando qual è la fabbrica di quei crimini: la guerra in quanto tale. Scambio di prigionieri tra Ucraina e Russia: soldati e i comandanti del reggimento Azov scambiati con l'oligarca Medvedchuk di Daniele Raineri La Repubblica, 22 settembre 2022 La liberazione è avvenuta nella regione di Zaporizhzhia. Lividi i commentatori russi. Il reggimento Azov ha una carica simbolica enorme e la propaganda russa lo ha spesso accusato di essere un reparto nazista. Prova che la Russia ha fatto bene a invadere l'Ucraina. Questa notte, forse approfittando del fatto che il discorso di Putin copre tutte le altre notizie, ucraini e russi hanno fatto lo scambio di prigionieri più importante dall'inizio dell'invasione. I russi hanno consegnato 215 prigionieri e tra loro anche il comandante del reggimento Azov Denys Prokopenko, nome di battaglia “Redis”, e il suo vice Svyatoslav Palamar, nome di battaglia “Kalyna”, che si erano consegnati a maggio dopo avere resistito assediati dentro all'acciaieria Azovstal di Mariupol per tre mesi. Il reggimento Azov ha una carica simbolica enorme: la propaganda russa lo ha spesso accusato di essere un reparto nazista e quindi di essere la prova che la Russia ha fatto bene a invadere l'Ucraina, mentre invece gli ucraini lo considerano un reparto formato da eroi nazionali. Una campagna molto determinata da parte delle famiglie dei combattenti di Azov chiede uno scambio di prigionieri e nel centro della capitale Kiev, a poca distanza dal Maidan della rivoluzione del 2014, un enorme manifesto ricorda i prigionieri dell'assedio e dice: “Libertà per i prigionieri della Azovstal!”. Sembrava una campagna velleitaria, perché i russi mai e poi mai avrebbero accettato di restituire combattenti così significativi, è invece è successo. Molti commentatori russi sui canali militareggianti Telegram che seguono il conflitto sono lividi, non si aspettavano che sarebbe finita così per gli arcinemici nazionalisti ucraini (ma chissà che il Cremlino non abbia un disegno politico). Gli ucraini in cambio hanno consegnato 55 russi e anche l'oligarca ucraino Viktor Medvedchuk, che era il leader dei politici filorussi in Ucraina ed era accusato di avere pianificato un colpo di stato per installare un governo putinista a Kiev. Medvedchuk era stato catturato dagli ucraini dopo l'inizio dell'invasione mentre fuggiva verso il confine con la Bulgaria travestito da soldato La liberazione è avvenuta dove sempre avvengono questi scambi, nella regione di Zaporizhzhia e per quel poco che si sa dei negoziati si è occupata la Gur, l'intelligence militare del potentissimo generale ucraino Kirilo Budanov. Poche ore prima c'era stata un'altra liberazione, ottenuta dal principe saudita erede al trono Mohammed Bin Salman, che è riuscito a ottenere da Putin la restituzione di dieci prigionieri di nazionalità straniera che combattevano con gli ucraini. Tra loro cinque britannici, un americano, un croato e un marocchino. Tra i liberati ci sono anche gli inglesi Aiden Aslin e Shawn Pinner, che i separatisti di Donetsk avevano condannato a morte. E' una manovra del principe saudita per recuperare credito internazionale. Stati Uniti. Adnan Syed, scarcerato dopo 23 anni il protagonista del podcast “Serial” di Simone Sabattini Corriere della Sera, 22 settembre 2022 Svolta clamorosa per uno dei casi che ha più appassionato gli Stati Uniti negli ultimi anni: il podcast “Serial” lo ha ricostruito con telefonate dal carcere e contribuito a riaprire il caso. Dopo 23 anni Adnan Syed è fuori dal carcere. Con ogni probabilità non ha ucciso lui l’ex fidanzata Hae Min Lee , strangolata e semi-seppellita in un parco di Baltimora, in Maryland, nel 1999, quando entrambi i ragazzi frequentavano la Woodlawn High School: avevano all’epoca 17 e 18 anni. È una svolta clamorosa per uno dei casi che ha più appassionato l’America negli ultimi anni, almeno otto, da quando cioè nel 2014 il pluripremiato podcast “Serial” recuperò la storia di quell’omicidio attraverso la ricostruzione capillare di un vero e proprio labirinto investigativo e giudiziario; e diede voce a Syed con una serie di incredibili telefonate dal carcere tra il ragazzo (a quel punto ormai trentenne) e l’autrice dell’inchiesta audio, Sarah Koenig. “Serial” divenne così il capostipite di un genere e di un mezzo che oggi ha enorme successo in tutto il mondo. Syed - che si è sempre dichiarato innocente ma non ha mai avuto un alibi chiaro che lo discolpasse - fu definitivamente condannato nel 2000 dopo la testimonianza di un amico che disse di averlo aiutato a seppellire il corpo di Lee. Il suo movente sarebbe stata la gelosia per la nuova vita sentimentale della ragazza. L’avvocata di Adnan fu radiata un anno dopo per le macroscopiche carenze nella sua difesa e il caso venne riaperto nel 2018, ma i giudici del Maryland confermarono poi la condanna e la Corte Suprema degli Stati Uniti non volle ascoltare il caso. Ora sono stati gli stessi procuratori di Baltimora a mollare la presa, ammettendo che prove ambigue, nuove evidenze e un generale riesame del caso hanno fatto emergere dubbi giganteschi, oltre a due possibili autori alternativi dell’omicidio, che però non sono stati nominati. Di più e di peggio: l’accusa non mise a disposizione della difesa l’esistenza di elementi a discolpa del ragazzo, un obbligo a cui in America i procuratori sono tenuti. “Non c’è la certezza che non sia stato Syed”, hanno spiegato gli inquirenti. Ma gli indizi si fermano ben prima della soglia del “ragionevole dubbio” che governa la giustizia americana. Insomma: “Non crediamo più nell’integrità della condanna”. Il giudice non poteva che mettere l’oggi 41enne Syed in libertà vigilata. Ora ci sono 30 giorni di tempo per decidere se istruire un nuovo processo o abbandonare il caso. Sarah Koenig ieri era fuori dal tribunale e ha già annunciato una nuova puntata speciale di “Serial”, a 7 anni e 9 mesi di distanza dall’ultima. In questo lasso di tempo - mentre a Syed la vita presentava ogni giorno le quattro mura della stessa cella e una routine carceraria potenzialmente senza fine - per Koenig, “Serial” e i podcast in generale è cambiato tutto. Le inchieste audio su casi dimenticati del passato hanno cominciato a spuntare come funghi in ogni parte del mondo (Pablo Trincia, l’autore di “Veleno”, che ha lanciato i podcast anche in Italia ed è diventata anche una serie video di Amazon Prime, ha più volte dichiarato di essere stato mosso dalla volontà di realizzare un prodotto come “Serial”) e nel luglio 2022 il New York Times ha comprato la Serial Productions per 25 milioni di dollari. Da allora si sono moltiplicate anche le svolte a vecchi casi giudiziari innescate proprio da podcast. Una delle più clamorose è stata quella di “In The Dark”, che portò a scagionare l’afroamericano Curtis Flowers dall’accusa di omicidio di 4 persone in Mississippi, dopo 24 anni passati nel braccio della morte: un devastante e vergognoso esempio di razzismo giudiziario che raccontammo qui. Naturalmente “Serial” ha gemmato anche un documentario in 4 parti della “Hbo”, andato in onda nel 2019. C’entra il razzismo anche nel caso di Adnan Syed, che è musulmano di origini pachistane? Koenig non ne è mai stata troppo convinta. Ma negli anni si è creato un ampio dibattito. Fatto sta che, se l’incubo per Syed e i suoi cari si avvia forse alla conclusione (“Non posso credere ai miei occhi”, ha detto il ragazzo attraverso la sua nuova avvocata), la famiglia di Hae Min Lee (che invece era nata in Corea del Sud ed emigrata negli Usa a 12 anni) si è detta “tradita” dalla svolta e resta convinta della colpevolezza di Syed: “Questo per noi non è un podcast - ha gridato il fratello - ma un dolore che non finisce mai e ci uccide ogni giorno”. Forse, benché sia passato quasi un quarto di secolo, i colpi di scena sono solo all’inizio. Migranti, dall’incubo delle carceri in Libia alle speranze che si accendono in Ruanda di Micol Conte La Repubblica, 22 settembre 2022 Il piano per le persone vulnerabili dell’Alto commissariato ONU per i rifugiati. Arrivati a Kigali, i profughi sono stati trasferiti nel campo gestito dall’UNHCR a Gashora, nella Provincia Orientale del Paese. Nella seconda metà di agosto, dai centri di raccolta di Tripoli centinaia di migranti sono scappati, per sfuggire al fuoco incrociato della guerriglia tra le milizie che sostengono i due governi del Paese, con una trentina di morti. Nello stesso periodo l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR) ha evacuato un gruppo di 103 richiedenti asilo dalla Libia verso il Ruanda. Il gruppo, composto principalmente da eritrei, etiopi, sudanesi e somali, includeva donne, già vittime di violenza e trentotto bambini. Arrivati a Kigali, i profughi sono stati trasferiti nel campo gestito dall’UNHCR a Gashora, nella Provincia Orientale del paese, nel distretto di Bugesera. La scelta dell’Unione africana. Nel 2017, quando iniziarono a circolare le prime immagini delle torture nei cosiddetti centri di accoglienza libici - in realtà veri e propri centri di detenzione - i leader dell’Unione Africana, all’epoca presieduta dal ruandese Paul Kagame, decisero di adottare tutte le soluzioni possibili, anche se in via temporanea, per mettere in sicurezza i profughi detenuti nel paese nordafricano. Niger e Ruanda furono tra i primi Stati ad accogliere una fetta di richiedenti asilo, grazie al programma “Evacuation Transit Mechanism (ETM): un accordo firmato tra i governi, l’Unione Africana e l’UNHCR. Il meccanismo giuridico. “I meccanismi di transito per l’evacuazione sono un programma fondamentale perché forniscono rimedi legali per garantire la partenza di persone vulnerabili dalla Libia, visto che nel paese manca un quadro giuridico nazionale in materia di immigrazione” spiega a Repubblica Carole Gluck, responsabile delle relazione esterne di UNHCR Libia. “In un contesto di movimento misto come quello libico è molto importante distinguere tra richiedenti asilo, rifugiati e semplici migranti”, continua Gluck. Le persone selezionate nell’ambito del programma ETM sono richiedenti asilo, ovvero persone costrette a fuggire dal paese di origine e nel quale non possono fare ritorno, perché rischierebbero la vita. Nel programma ETM non vengono selezionati i semplici migranti. Pur non essendoci una definizione giuridica formale e universalmente riconosciuta della parola migrante, la valutazione diffusa è che siano persone che lasciano la propria casa per cercare condizioni di vita migliori, ma che se decidessero di farvi ritorno non sarebbero costretti ad affrontare minacce per la propria sicurezza. In altre parole, l’elemento di distinzione è il rischio. I programmi in Niger e in Ruanda. Attualmente sono in vigore due programmi ETM in Africa: in Niger e in Ruanda, istituiti rispettivamente nel 2017 e nel 2019. Da novembre 2017 a oggi, secondo i dati forniti da UNHCR, 3667 persone sono state trasferite con i voli umanitari dalla Libia verso il Niger, mentre 1279 richiedenti asilo sono stati evacuati dalla Libia verso il Ruanda tra settembre 2019 e fine agosto 2022, nonostante lo scorso anno gran parte dei voli umanitari da Tripoli siano stati sospesi. I trasferimenti in base al programma ETM sono soluzioni provvisorie, messe in atto esclusivamente per proteggere la vita delle persone più fragili, in attesa che le istituzioni internazionali e i governi trovino soluzioni definitive, come il reinsediamento in un paese terzo sicuro. I reinsediamenti. Purtroppo però - spiega Gluck - i posti messi a disposizione dagli Stati per accogliere i profughi sono sempre pochi rispetto alle esigenze reali. E ai governi spetta sempre l’ultima parola sull’accoglienza. Per questo motivo l’UNHCR attraverso i programmi ETM cerca di garantire la protezione dei soggetti più deboli, che in Libia sarebbero esposti a serie minacce per la propria vita. Si tratta di persone sopravvissute a episodi di violenza o di torture o in gravi condizioni di salute, donne a rischio, richiedenti asilo che hanno esigenze specifiche di protezione, minori, disabili. I paesi che fino a oggi si sono resi maggiormente disponibili ad accogliere i profughi trasferiti dalla Libia soprattutto verso il Ruanda sono stati la Svezia, il Canada, la Finlandia, la Francia, i Paesi Bassi e la Norvegia. Canada. La Nuova Scozia porrà fine alla detenzione degli immigrati nelle carceri di Alessandra Fabbretti La Repubblica, 22 settembre 2022 La conferma della Nuova Scozia che terminerà il suo contratto di detenzione per immigrati con la Canada Border Services Agency (CBSA) è un'altra vittoria per i diritti dei migranti e dei rifugiati, hanno dichiarato oggi Human Rights Watch (Hrw) e Amnesty International Canada. La mossa segue una decisione storica della British Columbia del 21 luglio di rescindere il proprio contratto con l'agenzia di frontiera. “Una vittoria epocale”. “La decisione della Nuova Scozia è una vittoria epocale dei diritti umani che sostiene la dignità e i diritti delle persone che vengono in Canada in cerca di sicurezza o di una vita migliore”, ha dichiarato Samer Muscati, direttore associato per i diritti dei disabili di Human Rights Watch. “Con due province che ora annullano i loro contratti di detenzione per immigrati entro poche settimane, il governo federale dovrebbe mostrare leadership annullando gli accordi rimanenti, che sono al centro di così tante violazioni dei diritti”. Cifre enormi per ogni detenuto. Negli ultimi cinque anni, la CBSA ha incarcerato migliaia di persone per motivi di immigrazione in dozzine di carceri provinciali in tutto il Paese. In Nuova Scozia, sono detenuti nelle carceri provinciali per impostazione predefinita perché la provincia non ha un centro dedicato all'immigrazione. Secondo le informazioni a cui si accede ai sensi del Freedom of Information and Protection of Privacy Act, ad aprile 2021 il governo federale paga alla Nuova Scozia uno dei tassi più alti del paese, CAD $ 392,30 al giorno, per ogni detenuto di immigrazione. La fine degli isolamenti e delle violenze. “Come risultato della decisione della Nuova Scozia, i detenuti immigrati saranno presto risparmiati dalle condizioni corrosive e lesive dei diritti umani delle carceri della provincia, dove l'isolamento, i blocchi di massa e altre forme di violenza istituzionale di routine si sono intensificati dall'inizio della pandemia di Covid-19”, ha dichiarato Sheila Wildeman, co-presidente della East Coast Prison Justice Society e professore associato di diritto presso la Dalhousie University. “Chiediamo al governo federale di utilizzare le risorse dedicate al mantenimento di questa pratica brutale per investire invece in supporti sostenibili per l'immigrazione nella comunità”. I migranti incatenati. In un rapporto del giugno 2021, Human Rights Watch e Amnesty International hanno documentato che le persone detenute in Canada per immigrazione sono regolarmente ammanettate, incatenate e trattenute con pochi o nessun contatto con il mondo esterno. Il Canada è tra i pochi paesi del nord del mondo senza limiti legali sulla durata della detenzione degli immigrati, il che significa che le persone possono essere detenute per mesi o anni senza fine in vista. L'assenza di standard legali. L'agenzia di frontiera ha piena discrezionalità su dove sono detenute le persone in detenzione per immigrazione, senza standard legali che guidino la decisione dell'agenzia di tenere una persona in una prigione provinciale piuttosto che in un centro di detenzione per l'immigrazione. Nell'anno successivo all'inizio della pandemia di Covid-19, l'agenzia ha fatto più affidamento sulle carceri provinciali, trattenendo il 40% dei detenuti immigrati in quelle strutture, almeno il doppio della percentuale in ciascuno dei tre anni precedenti. Le discriminazioni verso i disabili. Le persone con disabilità psicosociali (condizioni di salute mentale) subiscono discriminazioni durante tutto il processo di detenzione dell'immigrazione. Ad esempio, la politica della CBSA indica che i detenuti immigrati con disabilità psicosociali possono essere incarcerati in carceri provinciali piuttosto che in centri di detenzione dell'immigrazione federali dedicati per accedere a “cure specializzate”. Le persone provenienti da comunità di colore, e i neri in particolare, sembrano essere incarcerati per periodi più lunghi in detenzione per immigrati e spesso in carceri provinciali invece che in centri di detenzione per immigrati. I traumi per chi fugge dalle guerre. “Attraverso le province atlantiche e in tutto il paese, i migranti e i richiedenti asilo troppo spesso affrontano una detenzione abusiva e a tempo indeterminato, particolarmente traumatica per coloro che fuggono da guerre o persecuzioni in cerca di un rifugio sicuro”, ha dichiarato Julie Chamagne, direttore esecutivo della Halifax Refugee Clinic. “La decisione della Nuova Scozia è un importante passo avanti per i diritti umani. Chiediamo al governo federale di attuare solide modifiche legislative e normative per fermare le violazioni dei diritti in questo sistema in tutto il paese”. La decisione della Nuova Scozia sta creando un forte slancio per porre fine alla detenzione degli immigrati nelle carceri provinciali, hanno dichiarato Human Rights Watch e Amnesty International. Dall'inizio della campagna #WelcomeToCanada in Nuova Scozia sei mesi fa, circa 4.600 persone hanno chiesto alla provincia di fare questo passo. Le congratulazioni alla Nuova Scozia. “Ci congratuliamo con la Nuova Scozia per la sua decisione di smettere di rinchiudere i richiedenti asilo e i migranti nelle carceri della provincia esclusivamente per motivi di immigrazione”, ha dichiarato Ketty Nivyabandi, segretaria generale di Amnesty International Canada. “Ora c'è una chiara pressione per porre fine a questa pratica dannosa in tutto il paese. Esortiamo le altre province e il governo federale a seguire l'esempio”. “In Iran è rivoluzione delle donne: con il velo brucia il regime” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 22 settembre 2022 Quinto giorno di proteste in Iran, almeno 14 morti. Intervista al regista curdo-iraniano Fariborz Kamkari: “Non è una semplice rivolta: riguarda tutto il paese, non solo il Kurdistan o il sud est arabo, e coinvolge tutte le classi sociali, non solo i poveri o la classe media. E non è esplosa per la povertà: la gente chiede libertà, dice no alla natura stessa della Repubblica islamica”. Avere notizie certe della sollevazione che da cinque giorni infiamma l’Iran non è semplice: la rete internet è debolissima, tagliata da Teheran. Ieri l’ultima app disattivata è stata Instagram. Di certo la protesta si sta allargando, quasi tutte le province sono ormai coinvolte. Sarebbero almeno 14 i manifestanti uccisi, centinaia i feriti, ignoto il numero degli arrestati. In Rojhilat, il Kurdistan iraniano, è stato indetto lo sciopero generale. In prima fila ci sono le donne: bruciano i veli, tagliano i capelli, si scontrano con la polizia. A scatenare la sollevazione è stata l’uccisione, per mano della polizia morale, della 22enne curda Mahsa Amini, venerdì scorso. Alla sua famiglia un consigliere dell’Ayatollah Khamenei ha espresso le condoglianze del leader religioso che avrebbe promesso di indagare. Ma gli slogan sono chiari: “Morte al dittatore”, “Donna, vita, libertà”. Nella città di Sari un manifestante si è arrampicato sulla facciata del Comune e ha distrutto l’immagine di Khomeini, il padre della Repubblica islamica. A intervenire ieri sarebbe stato anche Anonymous, il collettivo hacker chiamato in causa dagli iraniani sui social perché aiutasse a disattivare i siti del governo: pare lo abbia fatto, bloccando la tv di Stato e alcuni servizi governativi per qualche ora. Della sollevazione abbiamo parlato con Fariborz Kamkari, regista curdo-iraniano, autore tra gli altri dei film I fiori di Kirkuk e Essere curdo e del romanzo Ritorno in Iran. Cosa sta accadendo in Iran? Non è una rivolta di quelle che ormai si verificano ogni anno: stavolta ha le caratteristiche di una rivoluzione. Per quattro motivi. Primo, per la prima volta in 43 anni riguarda tutto il paese e non solo una sua parte, che sia il Kurdistan o il sud est a maggioranza araba, come accaduto due settimane fa, proteste subito sedate. Secondo, partecipano tutte le classi sociali: in passato abbiamo assistito a proteste della piccola borghesia, altre volte della classe bassa. Stavolta partecipano poveri, lavoratori, classe media. Terzo, non ci si è mobilitati per motivi economici, la gente sta chiedendo libertà. Quarto, è completamente fuori dal controllo di qualsiasi organizzazione interna al regime che per anni ha mostrato una doppia faccia, riformisti contro conservatori. Oggi la rivolta è contro il regime in sé e lo si capisce dalla reazione compatta di tutte le forze politiche. Bruciare il velo è bruciare la bandiera: questo regime ha usato il velo come rappresentazione della propria ideologia. Oggi la gente dice no all’intero sistema politico del paese, alla natura stessa della Repubblica islamica. Perché ora? La morte di Amini è stata la scintilla di un dissenso che cercava sfogo? Il suo vero nome non è Mahsa ma Jhina. In Iran non possiamo usare nomi curdi, che restano ufficiosi, diversi da quelli ufficiali dei documenti di identità. Jhina significa “nuova vita”. E sta davvero dando una nuova vita al paese. È successo oggi perché l’Iran sta già soffocando da tempo. Negli ultimi otto anni ci sono state rivolte cicliche, ma il regime è riuscito a scollegarle tra loro, usando diversi strumenti. Prendiamo il Kurdistan: lì le proteste ci sono dal 1979, mentre Khomeini veniva portato in trionfo i partiti curdi avevano già coniato lo slogan “Autonomia per il Kurdistan, democrazia per l’Iran”. Con le rivolte curde, il regime spaventa gli iraniani dicendo che si tratta di indipendentisti. Se protestano i lavoratori, il regime spaventa la classe media. Ma stavolta la sollevazione è l’accumulazione di tutte le sofferenze del popolo iraniano. La situazione economica è terribile, ma lo slogan che risuona è il diritto a poter scegliere per sé. Per decenni, quando contestavamo l’obbligo del velo, molti rispondevano che non era certo il problema principale. Oggi la gente mostra che lo è perché rappresenta la libertà individuale, la possibilità di scegliere per sé, il simbolo della propria volontà. Gli iraniani non stanno chiedendo solo pane o lavoro, ma libertà. Altre volte ci rispondevano dicendo che l’hijab è una caratteristica della nostra cultura. Non è così: è stato imposto dalla rivoluzione islamica che ha obbligato le donne a indossarlo. Bruciando il velo, bruciano quel mito. Che ruolo hanno le donne? Il sistema è stato disegnato per marginalizzare le donne e togliere loro ogni ruolo politico, culturale, sociale. La donna deve essere moglie e madre, il suo dovere è procreare e crescere i figli. Le donne iraniane non lo hanno mai accettato e sono sempre state motore di cambiamento. Andate in Iran, vedrete che fanno qualsiasi cosa. Questa è una rivoluzione femminile perché sono loro che organizzano la piazza, che vanno contro la polizia, che bruciano il velo. E sono sostenute dagli uomini, è la novità. La furbizia del regime è stata creare divisioni che sono entrate anche in casa: se crei un sistema a favore degli uomini, gli uomini diventano i rappresentanti del regime anche tra le mura domestiche. Oggi però sono al fianco delle donne. E i giovani? Oggi i giovani usano internet, conoscono il mondo fuori, sono più difficili da domare. Il 60% della popolazione iraniana ha meno di 30 anni, persone che non ricordano o non hanno partecipato alle grandi rivolte del 1999 e del 2009. Le università si sono risvegliate. Dopo le proteste del 2009 il regime era riuscito a disinnescare gli studenti, ma oggi sono nuovo motore di protesta contro il tentativo di escluderli dal discorso politico e sociale. Teheran saprà mostrare elasticità, concedere qualcosa per sopravvivere? È difficile, è costruito su questi principi. Se vengono meno, cade l’intera impalcatura della Repubblica islamica. Per questo non cambia nonostante la maggioranza degli iraniani non voglia più l’hijab o il controllo sulla libertà personale. Nelle grandi città i cittadini vengono trattati in modo più morbido, ma nelle piccole città o in Kurdistan vengono gestiti con la violenza. E nessuno paga per queste violenze: il presidente Raisi in queste ore è all’Assemblea generale dell’Onu, eppure è il “giudice della morte”, nel 1988 partecipò alla condanna a morte di 6mila prigionieri politici, per lo più mujaheddin e comunisti. Ma partecipa al consesso internazionale. Tra le richieste della piazza c’è la soppressione della polizia morale... La polizia morale è stata una delle prime invenzioni di Khomeini per costruire la sua società ideale, a fronte della contrarietà della maggior parte della popolazione all’hijab o di altri comportamenti pubblici non in linea con i principi del regime, dall’abbigliamento alla pettinatura fino al linguaggio. All’inizio della rivoluzione tanti di noi ricordano le punizioni corporali, come gli aghi in fronte. La polizia morale è uno strumento efficace per terrorizzare, soprattutto i giovani: è davanti a ogni liceo e a ogni facoltà, controlla come si ci veste, cosa si scrive sui telefoni. Ferma le auto dove ci sono uomini e donne per verificare i loro rapporti familiari. In ogni caso la protesta in corso non vuole la fine della polizia morale, ma la fine dell’intera natura del regime.