Carcere, suicidi, speranza di Franco Corleone Il Manifesto, 21 settembre 2022 Continua lo stillicidio delle morti in carcere e non si può cedere alla rassegnazione e alla assuefazione. L’ultima tragedia si è verificata a Forlì e ha portato il numero totale delle vittime a 62. Denis Markola, albanese aveva 28 anni e si è suicidato appena entrato in carcere per un ordine di esecuzione dopo otto anni dalla sentenza. Era stato preceduto da due casi a San Vittore e a Palermo, sempre nell’imminenza dell’ingresso in galera. Evidentemente schiacciati dal senso di vuoto e dalla mancanza di prospettive, non dalle condizioni di vita determinate dal sovraffollamento. Una analisi puramente quantitativa su sessanta casi ci dice che sono coinvolti 25 stranieri e 4 donne; la modalità del suicidio vede la prevalenza dell’impiccagione (55), rispetto alla inalazione di gas (4) e in conseguenza di ferita da taglio (1). Diciannove persone si sono suicidate dopo pochi giorni dall’entrata in carcere, quasi tutti erano vicini al fine pena (1-2 anni), 20 non usufruivano di colloqui né visivi né telefonici. Per 11 persone vengono indicate patologia legate a problemi di salute mentale (disturbi di personalità, scompensi psicotici, disturbi antisociali di personalità, abuso di alcol o sostanze stupefacenti). La frequenza maggiore si è verificata a Foggia (4), San Vittore (3), Piacenza (2), Regina Coeli (2), Torino (2), Vibo Valentia (2), Opera (2), Pavia (2), Ucciardone (2). Il dato più eclatante è legato alla presenza di 55 persone in sezioni di media sicurezza e in cinque casi nelle sezioni dedicate ai “protetti”. Plasticamente si mostra così il peso della detenzione sociale, di soggetti deboli e fragili, che contrasta con la concezione del carcere come extrema ratio. Un numero davvero impressionante è costituito dagli oltre mille tentati suicidi, che indicano uno stato di sofferenza diffusa. Eppure il dolore per vite soppresse non può limitarsi a sentimenti caratterizzati da paternalismo e spesso da ipocrisia, ma deve obbligare a mettere in campo una proposta di riforma, una grande riforma, perché “il cimitero dei vivi” come lo definiva Filippo Turati nel 1904, non si trasformi in un cimitero tout court. Ho scritto il 21 agosto un commento sull’Espresso, Mauro Palma, ha proposto una riflessione densa su Questione Giustizia il 5 settembre, Carlo Renoldi ha illustrato le azioni e una circolare del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria in una intervista sul Corriere della Sera l’8 settembre. Potremmo dire che le analisi sono esaustive e con evidenza impongono fatti concreti. Le urgenze sono ben individuate, l’Amministrazione Penitenziaria deve garantire la copertura delle direzioni degli Istituti, una presenza adeguata di educatori e di mediatori culturali, il Servizio sanitario deve prevedere un impegno del Dipartimento di salute mentale con una equipe di psichiatri e psicologi per assicurare attenzione e sensibilità, costruendo progetti di luoghi adatti per chi soffre particolarmente la costrizione. Nella Relazione del Garante nazionale è stata denunciata la presenza di 1301 persone ristrette per scontare una pena inferiore a un anno e questo dato clamoroso è aggravato dalle migliaia di soggetti che hanno un fine pena fino a tre anni e potrebbero godere di misure alternative. Non va dimenticato che la bulimia carceraria è legata alla legge criminogena sulle droghe, infatti il 35% dei detenuti è responsabile di violazione dell’art. 73 (detenzione e piccola spaccio) e il 28% è classificato come “tossicodipendente”. Dopo il 25 settembre dovremo organizzare la difesa dell’art. 27 della Costituzione minacciato di una sostanziale cancellazione. La speranza come audacia viene dal Vaticano dove si è tenuto un incontro della Fondazione “Fratelli tutti” con la presenza del mondo del volontariato per pensare cose grandi e realizzare bellezza e dignità. Varcare l’inferno delle nostre celle costa fatica. Ma è indispensabile di don Vincenzo Russo* Il Dubbio, 21 settembre 2022 Ho letto con vero interesse la lettera affidata alla stampa dal Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, Dottor Bortolato. Da sempre penso (e quando mi viene permesso, affermo) che per conoscere bisogna guardare dentro e per capire toccare con mano la realtà delle situazioni. Il Dottor Bortolato lo ha fatto, è entrato a Sollicciano e, su invito a vedere, ha varcato il cancello di una sezione e si è trovato immerso nella disperazione di un girone dantesco quale è qualunque corridoio o cella di un carcere in questo ed in altri periodi. Ne ha ricavato turbamento ma anche, direi, una nuova consapevolezza e credo, spero, nuova assunzione di responsabilità. Stessa cosa è capitata al Sindaco Dottor Nardella nelle due volte che è entrato a Sollicciano: abbiamo “registrato” le sue parole e gliene faremo memoria, finita la fase elettorale. Dunque entrare, farsi aprire i cancelli, guardare da vicino come vivono i detenuti e come sono costretti a lavorare gli operatori, ascoltare tutti, è utile, forse necessario. Dall’ordine e dalla pulizia di un ufficio non è possibile farsene una idea. Questa mia è per sollecitare coloro che hanno altre competenze sul carcere, a entrare nelle sezioni, a parlare in diretta coi detenuti lì rinchiusi, a osservare gli operatori nello svolgere un lavoro faticoso e poco dignitoso. Non voglio parlare di questioni economiche e ridurre tutto ai finanziamenti che mancano per il necessario e ci sono per il superfluo. Forse però occorrerà cominciare a pensare a come la crisi energetica e sociale generale potrà rovesciarsi sul carcere, già adesso e nei prossimi mesi. Un’ultima considerazione: è sì necessario entrare, guardare, assorbire ma poi occorre agire di conseguenza, testimoniare, cercare di dare un contributo alla soluzione dei problemi, per quanto possibile e non rinchiudersi nei comodi uffici. Sono testimone della fatica e delle difficoltà nell’incarnare il ruolo di chi vede, sente e parla, di chi cerca di portare l’attenzione sui problemi veri. Costa, costa in solitudine ed in ostacoli ulteriori alle proprie attività. Costa, ma la sofferenza che sento attorno ogni volta che passo quei cancelli, non ha prezzo. *Cappellano del carcere Sollicciano di Firenze Garante detenuti e Unicef firmano un protocollo, “Mai più bambini in carcere” di Luca Cereda vita.it, 21 settembre 2022 Il protocollo, della durata di 3 anni, mira a promuovere i diritti dei minori, con particolare attenzione ai figli di genitori detenuti. Palma: “Il carcere non è un luogo dove crescere”. Pace, Unicef: “Realizzare ambienti che siano a misura di bambino”. Il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma e Carmela Pace, e la presidente dell'Unicef Italia hanno firmato un Protocollo di intesa della durata di 3 anni al fine di promuovere i diritti dei bambini, con particolare attenzione ai figli di genitori detenuti. La firma è avvenuta a Roma presso la sede del Garante Nazionale dei Diritti delle persone private della libertà personale. “Con il Protocollo firmato oggi vogliamo dare particolare attenzione a tutti quei bambini figli di genitori detenuti che vivono in realtà difficili; insieme vogliamo promuovere i loro diritti e realizzare ambienti che siano a misura di bambino, utili al loro sviluppo - ha dichiarato Carmela Pace, Presidente dell'unicef Italia. “Ringrazio il Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, per questo impegno. Il nostro comune obiettivo è sensibilizzare la collettività e l'opinione pubblica sulla necessità che non vi siano mai più bambini in carcere”. “Questo protocollo è un importante passo avanti soprattutto per la diffusione della cultura dei diritti umani e più in particolare sui diritti dei bambini - ha detto Mauro Palma, Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà. Il carcere non è un luogo dove crescere, ogni sforzo perché non vi siano bambini in carcere va nella giusta direzione”. In particolare il protocollo prevede di: Realizzare iniziative di formazione destinate al personale dell'amministrazione penitenziaria, o, più in generale, a coloro che a vario titolo operano nel mondo carcerario, tese a promuovere la conoscenza della Convenzione dei Diritti ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza nelle strutture penitenziarie dislocate sul territorio nazionale; Condividere modelli che consentano di evitare, quanto più possibile, la permanenza dei minorenni in carcere; Sollecitare l'ideazione e l'attivazione di percorsi di rieducazione e trattamento che tengano conto delle specifiche esigenze dei figli di minore età delle persone private della libertà personale, implementando buone prassi; Promuovere progetti di formazione e di percorsi di istruzione in tema di tutela dei diritti umani, con particolare attenzione ai diritti delle bambine, dei bambini e degli adolescenti; Individuare specifiche modalità di intervento per agevolare un sereno legame con il proprio genitore quando destinataria del provvedimento restrittivo della libertà personale è la madre di prole inferiore a 10 anni; Sensibilizzare la collettività rispetto alla cultura dei diritti di bambini, bambine e adolescenti, secondo la Convenzione ONU sui diritti dell'infanzia e dell'adolescenza, i quali non possono essere scalfiti per effetto della situazione di detenzione di un genitore, nella consapevolezza che l'inclusione a livello sociale dei genitori detenuti e/o dei loro figli durante e dopo il periodo di carcerazione costituisca un presupposto indispensabile per lo sviluppo sano delle relazioni sociali e familiari, nonché presidio fondamentale della legalità; Istituire momenti di riflessione e formazione sulle specificità dei percorsi di reinserimento o risocializzazione delle persone detenute con figli minorenni e l'allontanamento dal carcere delle donne detenute con figli al seguito. Via Arenula recluta 57 direttori di carcere a 25 anni dall'ultimo concorso di Davide Varì Il Dubbio, 21 settembre 2022 A ben 25 anni dall’ultimo concorso, entrano finalmente nell’Amministrazione penitenziaria 57 nuovi direttori. A darne notizia è una nota di via Arenula, e la ministra della Giustizia in particolare che, rivolta ai vertici appena reclutati, dice: “Il vostro ingresso interrompe una prolungata assenza, che ha contribuito ad aggravare le condizioni di difficoltà di molte carceri. Ora non si aspettino altri 25 anni: va assicurata regolarità in tutti i concorsi del settore giustizia. Una presenza costante alla guida di un istituto - sottolinea la guardasigilli - fa la differenza nel far vivere il carcere come parte integrante della comunità civile. Con un sapiente lavoro di squadra, il direttore può favorire la fiducia nel cambiamento possibile”. Prima di prendere servizio alla guida di molte carceri, i nuovi dirigenti frequenteranno uno specifico percorso di alta formazione, presentato ieri alla Scuola Superiore dell’Esecuzione Penale “Piersanti Mattarella”, alla presenza della ministra e di tutti i vertici dell’Amministrazione Penitenziaria. Anche per il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi, “l’inizio della formazione e poi l’ingresso di 57 futuri direttori, dopo un quarto di secolo, rappresenta una giornata davvero storica: un direttore è una figura fondamentale per l’Amministrazione penitenziaria, garanzia di equilibrio, legalità e visione nell’attuazione in carcere dei principi costituzionali”. Nella stessa Scuola, lo scorso 5 settembre, era stato avviato un altro corso di formazione per 37 nuovi dirigenti, entrati dopo 28 anni nell’Amministrazione, e destinati all’esecuzione penale minorile e di comunità. Giustizia riparativa, se la vittima diventa “pietra d’inciampo” di Marco Bouchard* Il Dubbio, 21 settembre 2022 Il processo penale è particolarmente lastricato di occasioni che possono indurre il magistrato al pre- giudizio, prigioniero di qualche bias irrisolto. Proprio per questo il codice di rito è disseminato di rimedi per disinnescare il pericolo d’inciampo. La previsione di un invio d’autorità dell’accusato tra le braccia dei mediatori (art. 129 bis c. p. p.) persegue un palese obiettivo deflattivo, tutte le volte che sia auspicabile una definizione anticipata nell’interesse dell’imputato. Quella norma ha certamente uno spirito paternalistico e, a dirla tutta, non credo piaccia molto neppure ai puristi della giustizia riparativa. Ma ci sono precise disposizioni (artt. 48, 54 e 58 del decreto) destinate ad escludere conseguenze negative derivanti dal fallimento di quell’invio. Poteva essere più coerente ricalcare il meccanismo utilizzato per la sospensione del processo con messa alla prova, lasciando al solo imputato (e ora anche al pubblico ministero) la facoltà di formulare la richiesta di accedere ad un programma riparativo. Si è voluto percorrere la strada dell’incentivo, esportando dall’economia comportamentale e dalla filosofia politica la tecnica del nudge, la spintarella gentile, che ci ha indicato nuove prospettive nel descrivere i margini effettivi di libertà dell’individuo (Thaler e Sunstein, Nudge. La spinta gentile, 2009). Il processo penale deve essere luogo aperto alle trasformazioni positive. Non è - ammesso che lo sia mai stato - un luogo sacro: sacro può esserlo l’imputato o il condannato e non mi pare che questo decreto ne calpesti i diritti. Trovo però sintomatico che, di fronte ad una disciplina organica della giustizia riparativa che “si affianca, senza sostituirsi, al processo penale, nell’interesse della vittima di reati” (comunicato ufficiale del Ministero della giustizia, 5 agosto 2022), finora nessuno abbia commentato l’art. 129 bis c. p. p. rispetto al ruolo dell’offeso. Il giudice, infatti, in vista dell’invio è tenuto a sentire le parti e i difensori nominati. Non la vittima. Curiosa asimmetria, posto che il luogo di destinazione presuppone la pari dignità dei protagonisti del fatto. Ancor più preoccupante è la spiegazione offerta dalla Relazione allo schema di decreto: “non appesantire eccessivamente il procedimento onerando il giudice della ricerca della vittima e della sua audizione”: una pietra d’inciampo, certo non un soggetto di diritti. Ci sarà, dunque, per questa via, un programma di giustizia riparativa senza vittima? E nell’interesse di chi? L’ipotesi è tutt’altro che remota perché il decreto apre l’ingranaggio del programma riparativo ad una “vittima di un reato diverso da quello per cui si procede”: una vittima surrogata, sostitutiva di quella che ha patito l’offesa. Sarebbe un valore aggiunto - sostiene la Relazione - e la prova sarebbe fornita dal caso della vittima di un reato commesso da ignoti “alla quale, di tutta evidenza, la giustizia penale non ha nulla da offrire”. Peccato che i procedimenti contro ignoti si chiudono rapidamente con un’archiviazione e non credo che un pubblico ministero, non potendo offrire giustizia, abbia il coraggio di imporre alla persona offesa un incontro con un autore - questo sì - aspecifico, surrogato, sostitutivo. In realtà l’interesse che qui si persegue non è quello della vittima ma quello dell’accusato o del condannato quando la persona da lui offesa non sia disponibile, non si trovi, sia scomparsa o deceduta. In sede di audizione ho invitato i membri della commissione ministeriale a condizionare quest’ipotesi al consenso della vittima diretta e, almeno, ad una valutazione che escluda il rischio di una seconda vittimizzazione. Non sono stato convincente. Forse bisognerebbe rileggere il dialogo tra Ivan e Alëša Karamazov sulla sofferenza dei bambini o le pagine di Vladimir Jankelevitch sul perdono concesso dagli ebrei. “Si può perdonare - ha ribadito il concetto un po’ di tempo fa Claudio Magris - solo in nome proprio, per i torti fatti a noi, non ad altri, neppure se ci sono cari come la vita”. Si creano, dunque, presupposti preoccupanti rispetto alla finalità dichiarata di sviluppare una giustizia riparativa anche nell’interesse della vittima. Inoltre, una persona offesa, eventualmente in nome d’altri, parteciperà a dialoghi riparativi (più o meno allargati “a componenti della comunità”) anche se l’accusato o il condannato non avrà riconosciuto i fatti per cui è in corso un procedimento penale. È uno strano silenzio, questo, su uno dei presupposti indefettibili per l’accesso ai programmi riparativi, secondo quanto prevedono la lettera c) dell’art. 12 della Direttiva 2012 e l’art. 30 della Raccomandazione 2018: il riconoscimento dei fatti essenziali (o principali) del caso. È certamente un limite della legge delega a cui il governo si è conformato. Ma è un’anomalia tutta italiana perché tutti i paesi europei che disciplinano la giustizia riparativa impongono quel presupposto (Dünkel e altri, Restorative justice and Mediation in Penal Matters, 2015). E, soprattutto, l’art. 12 della Direttiva è una tipica norma self- executing: avvocati, magistrati e operatori s’incaricheranno di riempire questo buco. *Già magistrato, Presidente di Rete Dafne Italia Consulta, un’altra donna presidente. Ma la Corte si spacca di Valentina Stella Il Dubbio, 21 settembre 2022 Silvana Sciarra succede a Giuliano Amato al vertice della Corte Costituzionale: un solo voto in più di Daria de Pretis, Cartabia fece l’en plein. Ieri la Corte costituzionale, riunita in camera di consiglio, ha eletto Silvana Sciarra come nuova presidente. Sciarra, prima donna eletta dal Parlamento come giudice costituzionale, ha iniziato il proprio mandato nel novembre 2014, dopo aver ricoperto il ruolo di ordinaria di Diritto del lavoro e Diritto sociale europeo presso l’Università di Firenze e l’Istituto Universitario Europeo. È professoressa emerita nell’Università di Firenze. Succede a Giuliano Amato, di cui è stata vicepresidente. Il suo mandato scadrà a novembre 2023. Il nome di Sciarra era tornato all’attenzione della cronaca qualche mese fa, quando Giuseppe Conte la propose per la corsa al Quirinale. L’elezione nel 2014, patto Pd-5S - Lo stesso Movimento 5 Stelle disse di sì, dopo aver chiesto il via libera alla piattaforma Rousseau, alla sua nomina quale giudice costituzionale quando fu proposta dal Pd di Matteo Renzi, in cambio dell’elezione di Alessio Zaccaria al Csm, aveva ricordato Il Foglio. L’accordo su Sciarra fu una eccezione in un periodo, il 2014, in cui non esisteva nell’orizzonte dei pentastellati la parola alleanza. Non a caso uno dei primi a congratularsi per l’elezione è stato Giuseppe Conte: “A Silvana Sciarra, nuova Presidente della Corte Costituzionale, auguri di buon lavoro dal Movimento 5Stelle. La sua riconosciuta competenza costituisce sicura garanzia per l’esercizio di un ruolo istituzionale fondamentale per gli equilibri del Paese”. Come primo atto da presidente, Silvana Sciarra ha confermato come vicepresidenti Daria de Pretis e Nicolò Zanon. I voti a favore della neo presidente sono stati 8 su 15. Gli altri 7 voti sono andati a Daria De Petris. Dunque una Corte spaccata questa volta se si vanno a riprendere le precedenti votazioni dei Presidenti: Giorgio Lattanzi nel 2018 fu eletto con 12 voti a favore e una scheda bianca su 13 votanti, poi nel 2019 per Marta Cartabia i voti a favore furono 14 (lei si astenne), Giancarlo Coraggio e Giuliano Amato ottennero poi l’unanimità. Solo Mario Rosario Morelli negli anni recenti aveva diviso la Consulta prendendo 9 voti contro i 5 di Amato. Difficile immaginare le ragioni che hanno diviso ieri la Corte ma anche perché in partita non sia entrato proprio Zanon. Il dopo Amato - Certo è che il modello di comunicazione della neo Presidente sarà molto diverso da quello del suo predecessore Giuliano Amato, come lei stessa ha ammesso: “L’esempio del presidente Amato è quello di un grande comunicatore, è un po’ difficile emulare le sue abilità comunicative”. Se Amato è sembrato spesso più un politico nelle sue affermazioni - e per questo lo abbiamo anche criticato -, la Sciarra è apparsa in conferenza stampa molto più abbottonata, abilissima nel dribblare le domande. Ad esempio quella sull’ergastolo ostativo. Le abbiamo chiesto se c’è un limite ai rinvii concessi al Parlamento, al di là di quella che sarà la decisione il prossimo 8 novembre. Una domanda sul metodo di lavoro della Corte alla quale ha risposto “non posso esprimermi, sarà il collegio sovrano a prendere questa decisione”. Non siamo riusciti ad avere una risposta neanche su cosa pensi personalmente sulla possibilità di rendere pubblica la dissenting opinion: “Nulla esclude l’apertura di una riflessione all’interno della Corte”. “Sul lavoro serve più attenzione” - La presidente ha avuto più parole per il tema, a lei caro, del diritto del lavoro: “L’Italia ha un corpo di norme su tutela sicurezza sui luoghi di lavoro molto avanzato, che è studiato come modello. Saremmo idealmente in un contesto avanzato, ma questo non ci può consolare. Ci sono errori, omissioni, a monte di questi eventi drammatici, c’è bisogno di insistere utilizzando leggi che sono già molto avanzate. C’è una scarsa attenzione nell’attuarle nel modo migliore”. Alla domanda sui femminicidi si è detta “sempre più sconvolta. Forse le risorse non sono abbastanza, forse i sistemi di tutela non sono abbastanza forti”. Mentre era in corso la conferenza ieri si sono susseguiti messaggi di auguri e apprezzamento, a partire dalla presidente del Cnf Maria Masi, che ha inviato a Sciarra un telegramma: “Pregiatissima Presidente, a nome dei componenti tutti il Consiglio nazionale forense, e mio personale, esprimo vivissime congratulazioni per suo alto incarico alla guida della Corte costituzionale e auguro proficuo e sereno lavoro nel comune interesse della tutela dei valori della Carta”. “Una bella notizia”, ha scritto sui social la ministra per le Pari opportunità e la Famiglia Elena Bonetti. Plauso anche da parte dalla responsabile giustizia del Partito democratico, Anna Rossomando: “È significativa la nuova affermazione di una donna autorevole per un incarico di rilievo istituzionale”. Soddisfazione anche da parte di Anna Maria Bernini, presidente dei senatori di Forza Italia: “L’attenzione ai giovani come interlocutori principali delle istituzioni, una maggiore consapevolezza delle donne sui loro diritti, l’accento posto sulla sobrietà da cui le istituzioni traggono autorevolezza e indipendenza sono i messaggi potenti e preziosi con i quali la Presidente Sciarra, nel suo primo intervento, ha tratteggiato il percorso del suo incarico. Un incarico che, siamo certi, saprà esercitare con saggezza ed equilibrio”. “Migliori auguri di buon lavoro” alla Sciarra sono giunti anche dalle avvocate e dagli avvocati giuslavoristi italiani (Agi). La presidente Tatiana Biagioni ha dichiarato: “Ricordiamo con piacere, e come un grande onore, la sua partecipazione alla video-tavola rotonda con i quattro giudici di matrice giuslavorista della Corte costituzionale in occasione del convegno Agi di Bologna del 2018 e il suo intervento in streaming sullo Statuto dei lavoratori in un altro evento Agi da remoto durante la pandemia, nel 2020. Conoscendo la sua sensibilità non possiamo che essere certi dell’attenzione che porrà sui temi del lavoro”. Pure il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale “osserva con favore il fatto che per la seconda volta sia stata chiamata una donna al vertice dell’autorevole Istituzione. Giuslavorista di elevato spessore, è stata tra i giudici costituzionali che con grande sensibilità hanno partecipato nel 2018 alla memorabile esperienza di incontro con le persone detenute, documentata in Viaggio in Italia. La Corte costituzionale nelle carceri, progetto che aveva visto l’attiva collaborazione dello stesso Garante nazionale. In quell’occasione, la Presidente Sciarra aveva mostrato grande attenzione al tema del lavoro in carcere, questione di cruciale importanza”. Consulta. Primo nodo la decisione sull'ergastolo ostativo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 21 settembre 2022 Per tre volte il Parlamento non ha accolto i moniti rafforzati della Corte. Certo ieri la neopresidente ha ribadito l'indispensabilità di una corretta collaborazione istituzionale, certo ha sottolineato la volontà di proseguire sulla strada di quei “moniti rafforzati” al Parlamento che, decisi peraltro “in piena collegialità “, hanno caratterizzato gli ultimi tempi della dialettica tra Corte e Camere, tuttavia una delle primissime decisioni, forse la principale, che la Consulta a guida Sciarra dovrà prendere riguarda proprio un tema dove i giudici costituzionali sono rimasti, ancora una volta, inascoltati. Si tratta della pronuncia che la Corte dovrà emanare nell'udienza già fissata tra circa un mese e mezzo, l'8 novembre, sull'ergastolo ostativo o meglio sugli effetti della mancata collaborazione dei detenuti per gravi reati di mafia sulla richiesta di libertà condizionale. Un tema di grande delicatezza, dove la Consulta, che già si era espressa per il riconoscimento, al posto di una preclusione assoluta, di margini di discrezionalità all'autorità giudiziaria nel caso dei permessi premio, ha affidato per ben due volte al Parlamento la sollecitazione a un intervento. Ma, come già avvenuto nei due precedenti di ammonimenti accompagnati da scadenze entro le quali intervenire (la disciplina del fine vita e la diffamazione con il carcere per i giornalisti), il Parlamento alla fine non è intervenuto. Ieri la conferenza dei capigruppo di Palazzo Madama ha definitivamente affossato la legge che pure aveva ricevuto l'approvazione, a marzo, della Camera. Un'approvazione che aveva spinto una speranzosa Corte costituzionale a rinviare per la seconda volta la decisione. Lo aveva già fatto nel 2021, affidando alle Camere la facoltà di intervenire sul punto entro il io maggio di quest'anno; poi, di fronte a un primo sì parlamentare, la scadenza era stata fatta slittare appunto all'udienza dell'8 novembre, dando sei mesi di tempo alle Camere per un'approvazione definitiva. Improbabile, se non impossibile, che il nuovo Parlamento che uscirà dal voto di domenica possa collocare un intervento sull'ergastolo ostativo tra le priorità, magari avviando un esame del provvedimento in tempi rapidissimi, tanto da indurre la Corte a un terzo rinvio. A questo punto i giudici costituzionali dovranno intervenire con una scelta che, comunque, sarà oggetto di dissensi e polemiche, esito però di una collaborazione istituzionale che troppo spesso sembra avvenire a una sola corsia. Del resto era stato il presidente uscente, Giuliano Amato, congedandosi dalla Corte pochi giorni fa, a ricordare il silenzio o le troppe voci discordanti del Parlamento che bloccano le decisioni. La battaglia contro i femminicidi di Silvana Sciarra, nuova presidente della Consulta di Liana Milella La Repubblica, 21 settembre 2022 “Più tutele per le donne”. L’impegno per la tutela dei diritti: “Morti sul lavoro, adesso basta errori e omissioni”. Se la Consulta è la “casa” della Costituzione e dei diritti, da quel palazzo arriva un nuovo e buon segnale per le donne, nell’anno nero dei femminicidi. Perché, per la seconda volta nella sua storia, e dopo Marta Cartabia, una donna diventa presidentessa. Lo “scettro” tocca a Silvana Sciarra, dopo la stagione di Giuliano Amato. E con lei, in una raffica di domande, diventano protagonisti proprio i più deboli, i morti delle Marche, le donne uccise e comunque ancora escluse, i tanti caduti per gli incidenti sul lavoro, i carcerati senza diritti, i migranti sfruttati e sottopagati. Sciarra sta dalla parte di tutto questo. E lo teorizza. È una professoressa universitaria giuslavorista. E nel suo curriculum può vantare di essere stata allieva di Gino Giugni a Bari. Otto su 15 colleghi hanno votato per lei. Sette avrebbero preferito Daria de Pretis, l’esperta di diritto amministrativo che sarà sua vice assieme al costituzionalista Nicolò Zanon. La camera di consiglio è stata breve, con una sola votazione, lei è uscita al primo colpo. Si chiude così la sfida tra i tre aspiranti più anziani per nomina. Con un tocco di charme la stessa Sciarra parla della sua età appena affronta la prima conferenza stampa: “Ho il privilegio di avere i capelli bianchi. La Corte ha voluto forse premiare questo criterio”. E in effetti la sua chioma è proprio bianca, e spicca sul tailleur marrone bruciato. Sciarra prende di petto i temi caldi del futuro politico che ci attende, con una destra che se vincesse potrebbe ridurre i diritti. Quando le chiedono un pronostico lei è ferma: “Ho fiducia nelle istituzioni, non posso non averla, non posso immaginare che se ci fosse una forte maggioranza non ci sarà attenzione al pluralismo. Il mio è un messaggio di fiducia e rispetto nelle istituzioni stesse”. E subito dopo una riflessione sulla magistratura e sulla sua indipendenza, a rischio in paesi europei dove la destra è al potere: “Noi rispettiamo ed applichiamo le sentenze della Corte di giustizia. Qualche Corte in Europa le mette in dubbio. Certamente non possiamo dire che l'indipendenza della magistratura possa violare i valori comuni, il diritto europeo”. Ed è proprio sui diritti dei deboli che Sciarra gioca la sua performance migliore. Per esempio quando parla subito della tragedia delle Marche “così duramente colpite”. E dice che “garantire la tutela dell’ambiente è un’assoluta necessità”. E ricorda che proprio “il tema dei mutamenti climatici non è mai stato assente dal dibattito della Corte” come nella sentenza del 2007 sul paesaggio “che è un valore costituzionale”. Il filo dei diritti mancati si allunga. Eccoci alle morti sul lavoro. “Ci sono errori e omissioni - dice Sciarra -. Non siamo in un terreno privo di regole, ma c’è scarsa attenzione nell'attuarle nel modo migliore”. E ancora sui lavoratori stranieri sfruttati e malpagati: “Per loro è già stato fissato il principio della parità di trattamento, ancora una volta dialogando con le corti europee”. Per arrivare al mondo delle carceri, laddove “la Corte con i suoi viaggi ha acceso i riflettori, ma questo non basta per i suicidi, né per la tutela dei figli”, quelli chiusi in carcere con le mamme perché il Parlamento non ha convertito la legge. E chiudiamo con i femminicidi e con le donne. Sciarra ne cita una, un’icona come Ruth Ginsburg, “una giudice che ha saputo parlare ai giovani” e di cui ripete l’iconica frase “combatti per le cose in cui credi ma fallo in modo da indurre gli altri a unirti a te”. Per le donne non è ancora così. A ogni femminicidio “resta sempre più sconvolta”. Sono fatti su cui “non si può non avere una sensibilità accentuata”. E poi, con onestà intellettuale, una serie di “forse”: “Forse i sistemi di tutela non sono abbastanza forti. Forse le risorse non sono abbastanza. Forse le donne non sono abbastanza informate”. Per questo “va rafforzata in loro la consapevolezza dei diritti”. Eppure la riforma Cartabia lascia uno spiraglio garantista sui sequestri di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 21 settembre 2022 La polemica sugli effetti dell’improcedibilità che, interrotto il giudizio penale, manterrebbe l’imputato esposto alle misure di prevenzione. La relazione al testo attuativo segnala che i provvedimenti patrimoniali resteranno in piedi solo nei casi cui già la vecchia norma li sganciava dal processo vero e proprio. Come noto, la disciplina della prescrizione del reato già oggetto delle riforme del 2005 (legge ex Cirielli), del 2017 (legge Orlando) e del 2019 (legge Bonafede) - è stata da ultimo modificata dalla riforma Cartabia. Confermata la scelta di fondo, compiuta con la Bonafede, di bloccare il corso della prescrizione del reato dopo la sentenza di primo grado, sia essa di condanna o di assoluzione: in aggiunta, l’introduzione nel codice di rito di una nuova causa di improcedibilità dell’azione penale, destinata a operare nei giudizi di appello e di legittimità. Il nuovo art. 344- bis c. p. p. stabilisce infatti che la mancata definizione del giudizio di appello entro il termine di due anni, e del giudizio di cassazione entro il termine di un anno - i termini di ragionevole durata previsti, per quei gradi di giudizio, dalla legge Pinto - “costituisce causa di improcedibilità dell’azione penale”. Immediatamente v’è chi ha rilevato una possibile stortura con i principi costituzionali nei casi in cui il soggetto nei cui confronti è stata dichiarata l’improcedibilità fosse contemporaneamente sottoposto a misura di prevenzione patrimoniale. Si è sostenuto, infatti, che con l’introduzione di tale causa di improcedibilità l’accertamento o il mancato accertamento del reato nel precedente o nei precedenti gradi di giudizio evaporerebbe, “galleggerebbe” nel nulla. Tale convinzione deriverebbe dalla circostanza secondo cui nei casi in cui un soggetto venisse assolto in un primo grado o addirittura nei casi di doppia conforme - e parallelamente (e anticipatamente) fosse stato sottoposto a misure di prevenzione patrimoniale - tale pronuncia non verrebbe considerata dal giudice della prevenzione per dichiarare una possibile estinzione anche del provvedimento ablatorio. Secondo tali commentatori l’introduzione dell’improcedibilità, e quindi l’estinzione del processo, di fatto dovrebbe comportare l’altrettanto necessaria caducazione del provvedimento di natura ablatoria applicato in sede di prevenzione (che, come noto, per i delitti di stampo mafioso, è trai primi procedimenti ad attivarsi, ancora prima di quello penale). Eppure, un simile attentato alle garanzie di difesa non pare potersi ravvisare. Nella Relazione illustrativa del decreto legislativo di riforma del processo penale, in attuazione della delega di cui alla legge Cartabia, si prevederebbe l’introduzione dell’art. 578- ter c. p. p. a mente del quale “1. Il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344- bis, dispongono la confisca nei casi in cui la legge la prevede obbligatoriamente anche quando non è stata pronunciata condanna. 2. Fuori dai casi di cui al comma 1, se vi sono beni in sequestro di cui è stata disposta confisca, il giudice di appello o la Corte di cassazione, nel dichiarare l’azione penale improcedibile ai sensi dell’articolo 344- bis, dispongono con ordinanza la trasmissione degli atti al procuratore della Repubblica presso il Tribunale del capoluogo del distretto o al procuratore nazionale Antimafia competenti a proporre le misure patrimoniali di cui al titolo II del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159. 3. Il sequestro disposto nel procedimento penale cessa di avere effetto se, entro novanta giorni dalla ordinanza di cui al comma 2, non è disposto il sequestro ai sensi dell’articolo 20 o 22 del decreto legislativo 6 settembre 2011, n. 159”. Ad escludere quella sorta di pregiudiziale tra l’esito del procedimento di merito e la pendenza di quello di prevenzione è proprio la natura dell’improcedibilità di cui alla riforma Cartabia. La dichiarazione di improcedibilità nei giudizi di impugnazione rispetto ad una ipotetica precedente sentenza di assoluzione (da capire poi con quale formula, atteso che l’accertamento del merito di un’assoluzione piena o ex art. 530 comma II è ben differente!) ovvero di condanna, comporterebbe, nei fatti, l’impossibilità di proseguire l’azione penale e, dunque, la “consumazione” dello stesso potere di decidere del giudice sul merito dell’imputazione. Dunque, non ci sarebbe nessun giudizio di merito da far valere nei confronti del giudice della prevenzione, il quale proseguirebbe autonomamente. In definitiva, come opportunamente rilevato dall’Ufficio del Massimario presso la Suprema Corte, se in presenza di una causa di estinzione del reato il giudice è legittimato a pronunciare sentenza di assoluzione a norma dell’art. 129, comma secondo, c. p. p. soltanto nei casi in cui le circostanze idonee ad escludere l’esistenza del fatto, la commissione del medesimo da parte dell’imputato e la sua rilevanza penale emergano dagli atti in modo assolutamente non contestabile, diversa è l’ipotesi in cui sussista, invece, una causa di improcedibilità dell’azione penale. Secondo il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite Martinenghi, la mancanza di una condizione di procedibilità osta, infatti, a qualsiasi altra indagine in fatto (Sez. U, n. 49783 del 24/ 09/ 2009, Rv. 245163). Sulla base di tale principio potrebbe, dunque, ritenersi che, ove sia maturato il termine di durata del giudizio di impugnazione, al giudice sia ormai preclusa la possibilità di emettere una sentenza di proscioglimento dell’imputato secondo una delle formule contemplate dall’art. 129, comma 1, cod. proc. pen., trattandosi, comunque, di una pronuncia sull’azione penale che ne presuppone la procedibilità e la possibilità di esaminare il merito dell’imputazione. *Avvocato, Direttore Ispeg La protesta dei magistrati minorili: la riforma non tutela i più deboli di Giuseppe Guastella Corriere della Sera, 21 settembre 2022 “Una riforma reazionaria” che “snatura” il sistema della giustizia minorile “per ragioni che nulla hanno a che vedere” con la tutela dei “soggetti più deboli” e che è del tutto “irrealizzabile”: con una durezza di cui non si ricordano precedenti e dopo mesi e mesi di denunce e di richieste di modifica, l’Associazione italiana dei magistrati per i minorenni e la famiglia si scaglia contro la riforma della giustizia minorile già in parte attuata dal governo che dovrebbe entrare in vigore definitivamente a giugno 2023 e sulla quale solleva anche dubbi di costituzionalità. A firmare la nota di “denuncia” di una situazione divenuta evidentemente insostenibile è la presidente dell’ Aimmf, Cristina Maggia, che critica per l’ennesima volta e “a futura memoria la gravità delle scelte” fatte con la riforma della Cartabia della giustizia civile che contiene le modifiche a quella minorile, riforma approvata dal parlamento dieci mesi fa nonostante, ricorda Maggia, i “numerosissimi documenti e contributi” di magistrati e esperti che chiedevano profonde correzioni. Per Maggia, la riforma che ha creato il “Tribunale per le persone, i minorenni e le famiglie”, che sostituirà l’attuale Tribunale per i minorenni, non si limita a un cambio di denominazione, ma compie un “deliberato snaturamento dell’attuale sistema della giustizia minorile” in “nome di ragioni che nulla hanno a che vedere con la tutela effettiva dei soggetti più deboli” e che non sarà mai possibile realizzare “senza un intervento imponente” che destini più “risorse umane e materiali” agli uffici. Una ricognizione fatta da Aimmf nei principali uffici giudiziari per i minorenni con il contribuito dei loro capi, che ha messo in luce criticità e “ingestibilità” delle nuove norme, è stata “del tutto ignorata” dal Parlamento cui è stata consegnata, nonostante i magistrati siano stati “da più parti rassicurati sulla possibile introduzione di correttivi”. Tra i punti principali contro i quali si scagliano i magistrati minorili c’è l’esclusione dei giudici onorati (esperti come psicologi, psichiatri infantili e assistenti sociali) “grazie ai quali la gran parte dei Tribunali per i minorenni più oberati riesce a garantire un funzionamento qualitativamente e quantitativamente adeguato”. Senza queste determinanti figure professionali sarà impossibile “garantire solleciti interventi” nelle situazioni di emergenza. C’è dell’altro. L’associazione denuncia anche i problemi nei sistemi telematici che, con la cronica carenza di personale amministrativo, renderanno “la riforma del tutto inattuabile e ingestibile”. Una riforma, conclude il comunicato, che si concentra “solo sulle situazioni di violenza di genere” trascurando “la centralità della tutela del minore inserito in famiglie fortemente disfunzionali e in ragione di ciò gravemente traumatizzato” a “favore di una struttura ordinamentale e processuale che privilegia coloro che potranno sostenerne le spese”. Fuga dal Csm? Macché: toghe al voto in massa per difendersi dalla politica di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 21 settembre 2022 Nessuna sorpresa dell’ultima ora. Anche per queste ultime elezioni, la percentuale di votanti per la componente togata del Consiglio superiore della magistratura è stata particolarmente elevata. Chi riteneva che gli scandali precipitati negli ultimi anni sulla magistratura avrebbero generato “disaffezione” nella base dei magistrati ha sbagliato i propri calcoli. L’alto numero di votanti (il dato ufficiale non è ancora disponibile ma pare attestarsi oltre l’80 percento) si presta, però, ad alcune considerazioni. Senza dubbio, il voto per il Csm continua ad essere visto come un “dovere” da parte del magistrato, che ha una alta considerazione dell’istituzione consiliare e pertanto vuole essere in qualche modo “determinante” nella future decisioni del Plenum. Dall’altro lato, invece, vi è una forma di “autotutela” nei confronti degli altri poteri, il legislativo e l’esecutivo: una bassa affluenza avrebbe costituito un segnale di debolezza, aprendo la strada a riforme maggiormente invasive rispetto a quelle già realizzate dal Parlamento. Lo “spauracchio”, in altre parole, è che si possa arrivare a mettere in discussione l’autonomia e l’indipendenza della magistratura. A leggere i programmi dei vari candidati, sostanzialmente simili al netto di qualche sfumatura, “autonomia” ed “indipendenza” sono stati i termini maggiormente ricorrenti. In questi giorni è poi forte il timore che dalle consultazioni di domenica prossima possa manifestarsi una maggioranza parlamentare in grado di nominare da sola tutti i dieci componenti laici. Visto che i sondaggi danno per vincente lo schieramento di centrodestra, storicamente non proprio “pro toghe”, il voto dei laici diventerebbe, in quest’ottica, l’occasione per un regolamento dei conti. In uno scenario del genere, non può sottacersi il ruolo che il prossimo Csm avrà nella fase di applicazione della riforma dell’ordinamento giudiziario. Molti punti della legge presentano criticità. Si pensi solo alle cosiddette pagelle, legate anche alla tenuta dei provvedimenti nei gradi successivi. Un meccanismo che crea una “casta” di magistrati non valutabili: i giudici in servizio presso la Cassazione. Con tali regole sono automaticamente esclusi da ogni giudizio, creando una sperequazione con i colleghi. Sperequazione molto fastidiosa in quanto i magistrati si differenziano fra loro solo per funzioni. Prima di concludere, un accenno al tema annoso delle nomine. Negli ultimi periodi la situazione è sfuggita di mano e non c’è nomina che non venga impugnata e, molto spesso, annullata. L’ultimo caso questa settimana per l’incarico di presidente del Tribunale di Palermo. Il cittadino utente del servizio giustizia cosa può pensare? Quale credibilità ha un Consiglio i cui provvedimenti vengono cassati con elevata frequenza? E poi qual è l’autorevolezza interna ed esterna all’ufficio di un presidente di Tribunale o di un procuratore la cui nomina è stata bocciata dal Tar? Come può esercitare al meglio le proprie funzioni sapendo che esiste la concreta possibilità che dall’oggi al domani debba lasciare l’incarico? L’unica variabile, a questo punto, riguarda chi avrà vinto. Se avranno prevalso i candidati chiaramente riferibili a un gruppo associativo, vorrà dire che il ‘ sistema’ è comunque apprezzato dai magistrati. Se, invece, avranno avuto la meglio i magistrati ‘ indipendenti’, che erano la maggioranza dei candidati, è il segnale che si è chiusa una stagione e si volta pagina... Napoli. Detenuto morto in carcere, lo sfogo dei familiari “Da tempo chiedeva una visita medica” di Viviana Lanza Il Riformista, 21 settembre 2022 Sarà l’autopsia a chiarire se la morte sia stata effettivamente causata da un infarto e soprattutto a dire se poteva essere evitata con un intervento diverso, forse più tempestivo. Parliamo della morte di Luigi Perrone, 56 anni, detenuto del carcere di Poggioreale deceduto in una cella del reparto Livorno, nel più grande penitenziario cittadino. Ennesima morte di carcere, siamo ormai oltre i centodieci casi tra suicidi e malori fatali nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno. Ed ennesimo dramma di una strage che si consuma nel silenzio dell’indifferenza politica e di gran parte dell’opinione pubblica. Ci sarà un’autopsia sul corpo di Luigi Perrone, ci sarà un’indagine per chiarire e capire. I familiari del detenuto, che viveva a Quarto (Napoli), intendono nominare un proprio consulente di parte e denunciano una serie di ritardi. “Mio zio chiedeva da tempo di essere sottoposto a una visita specialistica perché diceva di non stare bene, ma le sue richieste non sono state accolte”, racconta Enzo, un nipote di Perrone. “Io facevo spesso i colloqui con lui in carcere, mi diceva che i detenuti sono solo numeri, da lasciare in attesa, sospesi per chissà qualche tempo e se i dolori sono troppo forti il rimedio è prendere una peppola e via. Nel caso di mio zio sarebbe servita invece una visita specialistica”, aggiunge il nipote. “Da giorni mio zio si sentiva peggio del solito, lamentava dolore al braccio e vomito. Che cosa sarebbe costato al carcere chiamare un’ambulanza? Mi chiedo. Perché con quei sintomi mio zio non è stato portato in ospedale?”. I familiari di Perrone hanno molte domande a cui attendono di avere risposta. Molte domande e altrettanti dubbi. “Mio zio ha sbagliato e per questo era detenuto, aveva commesso un reato di ricettazione ma non meritava di morire così. Nessun essere umano merita di morire così. Il diritto alla salute è un diritto che deve essere garantito a tutti”, aggiunge il nipote di Perrone. Il timore è che questa storia sia l’ennesimo dramma in cui hanno un peso anche tutte quelle criticità che affliggono il sistema penitenziario, criticità che riguardano il funzionamento dell’intera macchina nazionale, appesantita dal sovraffollamento, dalla carenza di personale e dalla difficoltà di garantire assistenza a tutti i detenuti. Poi un dramma nel dramma, nella storia di Luigi Perrone: i familiari hanno saputo del decesso tramite i giornali e i social. “Stavamo consultando alcuni siti di informazione ed è apparsa la notizia del detenuto deceduto nel carcere di Poggioreale. Abbiamo letto il nome, il padiglione, l’età. Tutto faceva pensare a nostro zio - racconta Enzo -. Abbiamo immediatamente contattato l’avvocato, il quale ci ha risposto di non sapere nulla e fino a ieri mattina nulla gli era stato ancora ufficialmente comunicato. Fino alle cinque e mezzo del pomeriggio abbiamo brancolato nel buio, con la terribile sensazione che il Luigi detenuto di cui parlavano gli articoli di giornale fosse nostro zio”. Poi in serata la conferma, e ora l’attesa per l’autopsia e per l’esito delle indagini che chiariranno le cause reali del decesso e se eventualmente si sarebbe potuto evitare. “C’è un allarme silenzioso e silenziato sulle morti in carcere e di carcere - commenta il garante regionale Samuele Ciambriello -. Ogni diversamente libero ha alle spalle qualcosa di unico, per questo la pena non deve dimenticare l’unicità di ciascuno. Per il carcere occorre fare di più e fare presto”. Il garante cittadino Pietro Ioia punta il dito ancora una volta sul sovraffollamento, problema irrisolto del sistema penitenziario: “Sovraffollamento e precarietà della situazione igienica e sanitaria sono le costanti della vita in carcere a Poggioreale - e lo Stato non garantisce gli standard minimi di dignità e di assistenza sanitaria”. La storia di Luigi potrebbe indirettamente essere l’ennesimo dramma che affonda le sue radici anche nell’indifferenza carceraria causata dal sovraffollamento eccessivo, in quei diritti mortificati da un sistema che è al collasso e non ce la fa a prendersi carico di tutti. La popolazione detenuta è in aumento. In Campania siamo a quota 6.694 detenuti a fronte di una capienza regolamentare di 6.131 complessiva nei quindici istituti di pena della regione. In Italia il numero di detenuti, secondo i dati diffusi dal ministeri e aggiornati al primo settembre, è di 55.637 reclusi, a fronte di 50.922 posti. Parliamo di cinquemila detenuti in più nelle celle italiane, di oltre cinquecento detenuti in eccesso nelle celle campane dove le carceri sono per lo più strutture già di per sé fatiscenti o comunque poco idonee ad ospitare tante persone, perché mancano gli spazi, manca il personale. Come si fa a garantire in luoghi simili il più elementare dei diritti? Come si fa in queste condizioni a fermare la strage silenziosa delle morti in cella? Pisa. Detenuto morto in carcere. “Ora si faccia chiarezza” di Carlo Venturini La Nazione, 21 settembre 2022 Il garante Alberto Marchesi convocato in Commissione comunale: “Affrontava un percorso, nessun presupposto per forme di autolesionismo”. “Che cosa ci faceva quel fornellino a gas nel suo alloggio? Si faccia chiarezza sulla morte del detenuto 41enne e non si facciano, allo stato dell’arte, ipotesi di possibili atti di autolesionismo finché non si concluderanno le indagini e ci saranno i risultati tossicologici ed autoptici disposti dalla Procura di Pisa”. Lo dice l’avvocato Alberto Marchesi garante dei detenuti, convocato nella seconda commissione consiliare del Comune dalla lista civica “Una città in Comune-Rifondazione Comunista”. Federico Olivieri di Rifondazione Comunista riferisce della riunione dicendo: “Quel fornellino a gas non doveva essere nella sua disponibilità. Inoltre, per quanto raccolto a livello di informazioni qui in commissione, non c’erano i presupposti psicologici per forme di autolesionismo”. Olivieri chiede che si faccia piena luce dopo quanto emerso in commissione così come l’altro consigliere Francesco Auletta di Diritti in Comune. Entrambi sono concordi sul non sottovalutare nessuna pista. “L’uomo aveva di fronte a sé una situazione in via di risoluzione. Stava affrontando un percorso di disintossicazione e c’erano buone prospettive perché finisse di scontare la pena in una comunità fuori dal carcere. Inoltre aveva riallacciato i rapporti con la famiglia ed era pieno di amici che lo aspettavano” spiega Olivieri. Dunque si dovranno aspettare i tempi tecnici (fino a 90 giorni) per i risultati di autopsia con conseguenti indagini della Procura. Altro punto affrontato è la gara d’appalto per il punto vendita interno al carcere Don Bosco. Martedì 13 settembre si è scatenata una violenta protesta dei detenuti per la mancata consegna di genere alimentari, il così detto sopravvitto che consiste in prodotti alimentari che vengono consegnati da ditte esterne e possono essere acquistate dagli stessi detenuti. “Chiediamo - dice Olivieri - che ci venga fornito il protocollo di appalto perché da quanto appreso in commissione consigliare, sembra che la ditta appaltatrice di Bari non abbia un magazzino di stoccaggio in Toscana. Questa situazione non fa che aggravare la già difficilissima situazione carceraria di una casa circondariale ormai vecchia”. Il vitto in carcere è sentito come sacro ed inviolabile ma lo stesso carcere non può sopperire alle mancanze altrui. Il problema del sopravvitto esiste, ma è forse stato la scintilla di una protesta che covava da tanto tempo a causa del sovraffollamento che ha acuito decisamente la convivenza de detenuti “reduci” da un’estate torrida difficilmente addomesticabile in condizioni di spazi angusti ed affollati. La violenta protesta ha suscitato la reazione di Francesco Oliviero, segretario regionale per la Toscana del sindacato autonomo polizia penitenziaria (Sappe), che racconta: “I detenuti del primo piano Reparto giudiziario hanno dato luogo a una rivolta, distruggendo l’intera sezione. La motivazione è dovuta alla mancata consegna dei generi alimentari cosiddetti sopravvitto. Da quando è subentrata la nuova ditta, gli alimenti non vengono consegnati con regolarità”. Milano. “Io, avvocato mancato ora coltivo la solidarietà” di Alessandra Zanardi Il Giorno, 21 settembre 2022 Stefano Piatti alla fattoria San Giuda dà lavoro a migranti, ex drogati e detenuti. “Quando ho iniziato l’università, sognavo di diventare un magistrato minorile. Poi quella tesi di laurea e quel viaggio in Brasile mi hanno fatto cambiare idea”. Stefano Piatti, classe 1989, una laurea in giurisprudenza alla Cattolica di Milano, ha rinunciato alla carriera di avvocato per fare dell’agricoltura uno strumento d’inserimento lavorativo per le persone in difficoltà: migranti, ex tossicodipendenti, detenuti ed ex carcerati. In pochi anni ha vinto la sua scommessa, costruendo a Rozzano un’impresa agricola, la fattoria San Giuda, con un forte risvolto sociale. Vi si allevano bovini da carne e galline ovaiole, si produce miele, si coltivano cereali e ortofrutta e si vendono direttamente questi prodotti a chilometro zero nello spaccio aziendale, oltre che nei mercati di Campagna amica. Il tutto grazie anche alla collaborazione di soggetti fragili che, inseriti in azienda attraverso la sinergia con cooperative sociali ed enti del terzo settore, hanno l’occasione di riscattarsi mediante il lavoro. Due di loro sono diventati dipendenti fissi della fattoria. “Mentre preparavo la tesi di laurea in diritto penitenziario - racconta -, sono stato in Brasile a studiare le Apac. Si tratta di carceri dove non ci sono guardie né manganelli e si punta a generare nei detenuti prima la consapevolezza di aver commesso un errore, quindi la voglia di cambiare vita. Sono rimasto molto colpito da quell’esperienza e ho iniziato a convincermi di volerla replicare in Italia, pur in un contesto e con modalità diverse”. Così, nel 2015 Piatti è subentrato a un contratto d’affitto di un’area di 50 ettari, in via Di Vittorio a Rozzano, dove ha realizzato la sua azienda agricola. E dove le persone svantaggiate vengono impiegate nella coltivazione degli ortaggi, o nelle attività di vendita all’interno dello spaccio. I programmi d’inserimento hanno una durata media di sei mesi, “in genere la formula funziona perché molte di queste persone non hanno mai avuto in precedenza delle vere occasioni di lavoro e vedono quest’esperienza come un’opportunità. L’agricoltura, coi suoi ritmi e le sue mansioni, è uno dei contesti migliori per l’aiuto e l’inclusione dei soggetti fragili”. La fattoria San Giuda è tra quelle che hanno ricevuto l’Oscar green, un riconoscimento tributato dalla sezione lombarda della Coldiretti alle giovani imprese che fanno innovazione. L’azienda rozzanese è stata premiata nella categoria “coltiviamo solidarietà”. “Una grande soddisfazione e un orgoglio, che mi spingono a stare ancor più vicino a questi ragazzi - sono le parole di Piatti -. Vorrei poter fare di più, ad esempio aiutarli nella ricerca di una casa. Magari, col tempo, ci arriverò”. Arienzo. Corso di portamento per i detenuti del carcere casertano edizionecaserta.net, 21 settembre 2022 Corso di portamento nel carcere di Arienzo, ieri il saggio finale. Il progetto di portamento è nato all’interno dell’offerta trattamentale individuata dagli operatori dell’area giuridico pedagogica per l’anno 2022 come attività da promuovere finalizzata a favorire il reinserimento sociale dei ristretti presenti nella C.C. “G. De Angelis” di Arienzo. Il progetto si propone come ponte tra il dentro e il fuori in funzione delle partnership instaurate con realtà esterne impegnate in progetti sociali così da rispecchiare quanto indicato nell’art. 17 dell’ordinamento penitenziario che regolamenta la partecipazione della comunità esterna all’azione rieducativa. Il contatto e lo scambio, in realtà, con una società interessata e pronta a fornire il proprio contributo per il bene della comunità. La scelta di effettuare un corso di portamento all’interno delle mura detentive si propone, inoltre, di essere un fattore di promozione e di riscatto per i partecipanti attraverso l’acquisizione di una diversa immagine di sé e catalizzatore di abilità sopite. Il progetto ha previsto come saggio finale una sfilata di moda maschile che si è tenuta il 19 settembre all’interno dell’istituto come ulteriore suggello dell’incontro tra la realtà detentiva e la società esterna anche attraverso la presenza di quanti hanno partecipato alle varie fasi relative alla realizzazione del progetto e di graditi ospiti. Roma. Lo sport entra nel carcere minorile di Casal del Marmo Il Messaggero, 21 settembre 2022 Firmato protocollo per far praticare calcio e rugby ai detenuti. Progetto pilota: l'intesa ha una durata di tre anni. Lo sport entra nel carcere minorile di Casal del Marmo, a Roma. Si tratta di un progetto pilota: cinque giorni di sport a settimana per i giovanissimi detenuti a partire da metà ottobre. Il progetto è possibile grazie a un protocollo tra Sport & Salute, Dipartimento Giustizia Minorile e Dipartimento per lo Sport per benessere psico-fisico dei detenuti. I detenuti potranno praticare una disciplina tra calcio, rugby, tennistavolo, zumba e fitness. Un protocollo di intesa che durerà tre anni tra il dipartimento per la giustizia minorile e di comunità, Sport e Salute, la società del ministero dell'Economia, che si occupa della promozione dello sport sul territorio, e il Dipartimento per lo sport. È stata firmata questo pomeriggio, nel carcere stesso alla presenza di 40 detenuti da Vito Cozzoli, presidente di Sport e Salute, Giuseppe Cacciapuoti direttore generale del Dgpram, e Stefania Pizzolla, dirigente del Dipartimento per lo sport, l'intesa che punta a migliorare il benessere psico-fisico dei detenuti. Introdotti dalla vicedirettrice dell’istituto Elisabetta Ferrari erano presenti anche il professor Natalino Irti e Silvio Martucelli del cda della Fondazione Nicola Irti. La firma s’inserisce anche nella celebrazione della Settimana europea dello sport. “Lo sport supera le barriere - ha detto Cozzoli. È una straordinaria opportunità di crescita anche qui ed è un diritto anche in carcere. Per questo abbiamo deciso di investire nel progetto anche grazie al supporto finanziario della sottosegretaria allo Sport Vezzali”. Il protocollo prevede la redazione di un programma annuale, riservato ai minorenni e ai giovani adulti in carico alla Giustizia minorile, di attività sportive sia di squadra che individuali, la fornitura di materiale e attrezzature necessarie per l’arredo di impianti sportivi e di mezzi da competizione. E ancora l'organizzazione di corsi per la formazione di istruttori indicati dal Dipartimento Sport e Salute, inoltre renderà disponibili tecnici e allenatori qualificati al fine di predisporre un’adeguata attività formativa e educativa dei giovani detenuti. Per la realizzazione degli obiettivi indicati nel Protocollo e per consentire la pianificazione strategica degli interventi programmati, sarà costituito un Comitato tecnico-scientifico paritetico composto da sei componenti. Milano. Gli attori detenuti di Bollate contro il bullismo metronews.it, 21 settembre 2022 Giovedì 22 settembre nella sala Shakespeare dell’Elfo Puccini, saranno in scena, dalle 20.30, gli attori detenuti della Compagnia art. 27 della II Casa di Reclusione Milano Bollate, interpreti dello spettacolo Ci avete rotto il Caos. Scritto e diretto dai detenuti dell’Associazione Culturale PrisonArt, lo spettacolo offre uno spunto riflessivo su un tema molto attuale: il bullismo. In scena il disagio giovanile che sfocia in dinamiche spesso pericolose, inadeguate, con un messaggio potente rivolto soprattutto alle nuove generazioni. Storie di vita vera, autentica, che oscillano tra gli equilibri instabili del “bene” e del “male” ponendo l’accento sugli interrogativi quotidiani che la società si trova ad affrontare. E anche quando ormai il danno è stato compiuto, c’è sempre una via d’uscita percorribile. In un esplicito parallelismo tra la vita carceraria e quella che si svolge invece fuori dalle mura gli attori detenuti hanno scelto di mettersi a nudo ripercorrendo, ricordando e ricucendo insieme pezzi di un vissuto che, se da una parte li ha condotti alla reclusione, dall’altra ha offerto loro una possibilità di riscatto. Uno spettacolo duro, toccante, che racconta il bullismo e va oltre toccando anche le guerre di quartiere e l’omofobia tra un ladro gentiluomo e baby gang. Lo spettacolo è prodotto da Società Cooperativa Sociale Le Crisalidi che dal 2020 opera stabilmente all’interno della II Casa di Reclusione Milano Bollate svolgendo attività e laboratori teatrali con i detenuti. I costumi sono firmati da Serena Andreani, le scene da Beatrice Masi mentre alle luci e al suono c’è Carlos Tineo. Biglietteria: biglietteria@elfo.org, tel. 02.0066.0606, whatsapp 333.20.49021, elfo.org La Roma di piombo raccontata dai carabinieri che vinsero le Br di Alessandro Gnocchi Il Giornale, 21 settembre 2022 La storia della Sezione Speciale in cinque puntate. Per la prima volta, oltre a terroristi e studiosi, parlano le forze dell'ordine. Di recente, Giorgia Meloni ha ricevuto minacce di morte da parte delle Brigate Rosse. I terroristi sono stati sconfitti ma ogni tanto rialzano il capo come accadde con le Nuove Brigate Rosse che uccisero Massimo D'Antona (1999) e Marco Biagi (2002) prima di essere sgominate dalle forze dell'ordine. Non è il caso di sottovalutare i messaggi criminali rivolti alla leader di Fratelli d'Italia. Le organizzazioni estremistiche traggono linfa dal malcontento sociale e dalla convinzione (insensata) di proseguire la Resistenza contro il fascismo. Proprio il fascismo evocato, a sproposito e con l'unico fine di allarmare, dalla propaganda elettorale più ignorante e dagli intellettuali meno seri ma più seriosi. A questo, dobbiamo aggiungere che l'autunno sarà gelido in casa, a causa della carenza di gas, e infuocato in strada, a causa della povertà. Brutti segnali che riportano alla memoria la notte della Repubblica dalla quale, tutto sommato, ci siamo svegliati da poco. La storia delle Brigate Rosse è stata raccontata spesso (e anche bene) dal punto di vista dei carnefici, dei parenti delle vittime e degli storici. A queste voci possiamo aggiungere ora quelle delle forze dell'ordine impegnate sul campo a contrastare le cellule di terroristi. Per questo motivo, spicca la docu-serie Roma di piombo. Diario di una lotta in onda su Sky Documentaries, realizzata da Ballandi, ideata da Paolo Colangeli, scritta da Michele Cassiani con Egilde Verì e la regia di Francesco Di Giorgio. Sono cinque puntate, tre già andate in onda, comunque disponibili in streaming su Now e on demand. Sotto la guida del generale Dalla Chiesa, un gruppo di carabinieri forma la Sezione Speciale Anticrimine di Roma, che ha il compito di combattere le organizzazioni sovversive ed eversive, e in particolare le Brigate Rosse. Gli uomini della Sezione neppure sembrano militari: si chiamano con nomi di battaglia, vestono casual, hanno la barba e i capelli lunghi. Insomma, non danno nell'occhio nei luoghi di ritrovo (università, piazzali delle fabbriche, locali) dove plausibilmente i brigatisti trovano le nuove reclute. All'inizio non c'è nulla nonostante i terroristi abbiano già rapito e ucciso Aldo Moro. Non c'è un archivio. Non è possibile incrociare rapidamente i dati con altre sezioni. La Sezione parte da zero. La frustrazione non tarda a presentare il suo conto. Infiltrarsi è impossibile (nessuno ha un passato credibile come rivoluzionario). Le Brigate Rosse agiscono con prudenza e intelligenza. Dice il comandante Domenico Petrillo, nome di battaglia Baffo: “Tantissime volte abbiamo subito le umiliazioni del fallimento, e ci siamo scoperti impotenti davanti agli attentati”. Dalla Chiesa però insiste: è la strada giusta. La Sezione inizia a raccogliere e studiare sistematicamente volantini, delibere pubbliche, materiale di propaganda. Dalla mole di carte, esce qualche informazione preziosa sulla struttura dell'organizzazione terroristica. L'8 settembre 1978, a Patrica, viene assassinato il magistrato Fedele Calvosa, insieme alla sua scorta (Giuseppe Pagliei) e al suo autista (Luciano Rossi). Resta a terra anche un criminale, abbattuto dal fuoco amico. In tasca ha le chiavi di un'automobile. È la primissima crepa nell'organizzazione. I carabinieri raccontano come abbiano scovato la vettura (un colpo di genio investigativo) e come l'abbiano sorvegliata, alla stazione ferroviaria di Latina, fino all'arrivo di un altro criminale. Ma la vera voragine si apre dopo l'assassinio, a Genova, del sindacalista Guido Rossa, stimato da tutti e militante del Partito comunista. Un errore strategico clamoroso, che non a caso divide l'organizzazione (la colonna di Roma emette un comunicato per criticare l'azione). Molti comunisti ortodossi, e il Pci stesso, non sono più disposti a coprire “i compagni che sbagliano”. Eloquenti sono le parole degli operai a commento della morte di Rossa: “Aveva ragione lui” (sottinteso: a voler disgiungere la lotta di classe dalla lotta armata). Proprio la collaborazione di un militante del Partito comunista permetterà alla Sezione speciale di “decapitare” la colonna romana (rappresentata, nel documentario, da Francesco Piccioni). Nel frattempo, però, le Brigate Rosse sono all'apice della forza militare. Il 3 maggio 1979, un commando di una dozzina di terroristi assalta l'edificio in piazza Nicosia a Roma in cui si trovavano gli uffici regionali per il Lazio della Democrazia cristiana. Una prova di forza impressionante. Non solo la posizione è centrale. Ma le vie di fuga sono limitate dal fatto di trovarsi in pratica sul Lungotevere. Le Brigate Rosse volevano danneggiare il palazzo con tre cariche esplosive ma le cose vanno subito storte a causa di una suora in fuga. Ci sarebbe da sorridere se non ne fosse uscito uno scontro a fuoco nel quale persero la vita il maresciallo Antonio Mea e l'appuntato Pierino Ollanu. Pasquale Pandoli, detto Kawasaki, è tra i primi ad arrivare sulla scena del delitto: “C'era sangue dappertutto. E l'odore del sangue non si dimentica. Mai”. “L’Italia è solida nel diritto Ue” di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 21 settembre 2022 L'avvertimento della nuova presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra ai sovranisti: siamo pienamente nell'ordinamento europeo, i nostri principi fondamentali coincidono. Una Corte costituzionale italiana inserita pienamente nel circuito delle Corti e della giustizia europea. Per un sistema giuridico italiano che è in tutto e per tutto interno all’ordinamento europeo. È questo il messaggio più forte che viene da Silvana Sciarra, la nuova presidente della Corte eletta con una votazione rapidissima ieri pomeriggio all’incarico appena lasciato da Giuliano Amato. Sciarra ha prevalso di un solo voto, otto a sette, sull’altra candidata, Daria de Pretis, che aveva la sua stessa identica anzianità di mandato ma è più giovane d’età. Come primo atto, Sciarra ha confermato nella vicepresidenza de Pretis e il giudice Nicolò Zanon, ma nessuno dei due ha più la possibilità di diventare presidente, il loro mandato terminerà infatti assieme a quello di Sciarra, tra un anno e due mesi. Ha prevalso dunque la giudice eletta dal parlamento - Sciarra lo è stata su indicazione del Pd - sui giudici, de Pretis e Zanon, nominati contemporaneamente, era il novembre 2014, dal presidente Napolitano. Sarà questa una presidenza lunga, al termine della quale si riproporrà la corsa tra tre possibili presidenti con la medesima anzianità di ruolo (Modugno, Barbera, Prosperetti). Una situazione che perdura e che è ancora il frutto della difficoltà e lentezza con cui le camere uscite dalle elezioni del 2013 riuscirono a scegliere i giudici costituzionali. Silvana Sciarra è una giuslavorista, allieva di Gino Giugni. Nata a Trani nel 1948 si è laureata a Bari e ha insegnato in diverse Università in Italia (Siena, Firenze) e all’estero (New York, Cambridge, Londra). È la seconda presidente donna della Corte costituzionale dopo l’attuale ministra della giustizia Marta Cartabia, mentre era stata la prima giudice donna eletta dal parlamento. Nella conferenza stampa successiva alla sua elezione, sul tema assai attuale del rapporto tra diritto europeo e diritto nazionale (argomento di battaglia per i sovranisti), Sciarra ha detto che non si deve “guardare alle fonti in senso gerarchico”, perché l’Italia “è dentro il diritto europeo e lo applica. A meno che non sia necessario fare dei rinvii pregiudiziali” alla Corte di giustizia europea, le cui sentenze - ha ricordato - “sono a tutti gli effetti vincolanti dunque le rispettiamo e applichiamo”. Non che questo accada in tutti i paesi Ue, come ad esempio il caso della Polonia insegna, “certamente noi non arriveremo mai a dire che il grado di indipendenza della magistratura possa dipendere dalla identità del paese tanto da poter arrivare a violare i principi europei”. “I nostri diritti fondamentali - ha detto - coincidono con quelli previsti dal diritto europeo. La Corte italiana è forte e solida sui principi e può dare il buon esempio in Europa”. Non ritiene però che per dare effettività alla tutela dei diritti fondamentali sia arrivato il momento, anche in Italia come in Germania, Spagna e Austria, di aprire al ricorso diretto dei cittadini alla Corte costituzionale. Perché “non si possono trapiantare pezzi di altri ordinamenti, nel caso ci sarebbe bisogno di una riforma complessiva certo possibile, magari anche auspicabile ma che non può essere improvvisata. Le istituzioni democratiche sono solide - ha aggiunto - anche perché hanno una storia alle spalle”. Riguardo al rischio che l’eventuale ampia maggioranza, quella che può uscire dalle elezioni di domenica prossima, possa avere i numeri per eleggere in solitudine sia i consiglieri laici del Csm che i giudici costituzionali di competenza del parlamento, Sciarra è stata molto accorta ma molto chiara: “Io parto sempre dal presupposto che bisogna avere fiducia nelle istituzioni - ha detto - di conseguenza non posso non sperare che anche in situazione di forte maggioranza ci sarà attenzione al pluralismo. Questo è davvero quello che mi auguro, poi previsioni non posso farne”. Stati Uniti. Migranti “deportati”, aperta la prima indagine di Marina Catucci Il Manifesto, 21 settembre 2022 Lo sceriffo di Bexar vuole indagare sull'iniziativa del governatore del Texas DeSantis che ha spedito su due aerei 48 migranti latinoamericani in una località di villeggiatura di lusso in un altro Stato. Lo sceriffo della contea di Bexar (Texas), Javier Salazar, ha aperto un’indagine sull’iniziativa del governatore della Florida Ron DeSantis di caricare 48 migranti, per lo più venezuelani, che si trovavano a San Antonio su due aerei privati, per spedirli a Martha’s Vineyard, località turistica elitaria e di aperte simpatie democratiche in Massachusetts. Salazar è intervenuto perché i voli sono decollati dalla sua città e, secondo lo sceriffo, tutta l’operazione è stata un atto di propaganda politica a scapito dei migranti. Al momento Salazar non ha detto quali leggi potrebbero essere state violate con questa mossa, gli investigatori hanno parlato solo con avvocati che rappresentano alcuni dei migranti e finora non hanno nominato alcun potenziale sospetto che potrebbe essere accusato. Durante la conferenza stampa dello sceriffo, De Santis è stato un convitato di pietra, mai menzionato direttamente: “I migranti sono stati lasciati a badare a se stessi - ha detto Salazar - dopo essere stati attirati a Martha’s Vineyard con la falsa promessa di trovare lavoro”. L’ufficio di DeSantis ha risposto con una dichiarazione in cui afferma che ai migranti erano state date più opzioni e che alla fine sono partiti volentieri, così ora hanno l’opportunità di “cercare pascoli più verdi in uno Stato santuario che offrirà loro maggiori risorse”. In realtà, come è stato appurato, i migranti venezuelani credevano di andare a Boston per formalizzare la richiesta di asilo, e non in una località di villeggiatura esclusiva stile Capalbio. Alcuni politici democratici, tra cui il governatore della California Gavin Newsom e il deputato Joaquin Castro, il cui distretto comprende San Antonio, hanno esortato il Dipartimento di Giustizia a indagare sull’iniziativa di DeSantis Aprire un’indagine federale potrebbe, però, essere un’impresa complicata: non è chiaro se qualcuno dei migranti sia salito a bordo di autobus o aerei controvoglia, o se ci sia stata una violazione di diritti civili. I diritti dei richiedenti asilo che arrivano negli Stati uniti sono limitati, perché non sono cittadini: la costituzione statunitense, tuttavia, li protegge da “discriminazioni basate sulla razza o sulla nazione di origine” e da un trattamento improprio da parte del governo. Tutto questo si verifica in un anno che ha visto un numero record di arresti di migranti al confine tra Stati uniti e Messico e con ben 750 persone, un altro numero record, morte lungo la strada. Assange, anche l’Australia alza il muro di gomma di Stefania Maurizi Il Fatto Quotidiano, 21 settembre 2022 Vietati alla stampa i documenti sul caso. Per Canberra rendere noti gli scambi con gli Usa sul giornalista in carcere è dannoso per le relazioni tra i due Paesi. La stampa non ha diritto ai documenti del caso Julian Assange, perché se diventassero pubblici danneggerebbero le relazioni internazionali dell’Australia o potrebbero rivelare informazioni comunicate da un governo straniero in modo confidenziale. Così ha deciso l’Administrative Appeals Tribunal di Canberra in risposta alla nostra battaglia legale per ottenere la documentazione dal ministero degli Esteri australiano. Questa sentenza è solo l’ennesimo muro di gomma per impedire al Quarto Potere di scoprire cosa è accaduto dietro le quinte del caso Assange e WikiLeaks. Un caso che deciderà i confini della libertà di stampa nel mondo occidentale e che è costellato da gravi violazioni, come la rivelazione che la Cia guidata da Mike Pompeo aveva pianificato di rapire o uccidere il fondatore di WikiLeaks. Julian Assange rimane incarcerato nella prigione più dura del Regno Unito, quella di Belmarsh a Londra, in attesa che la giustizia britannica si pronunci sul suo appello contro l’estradizione negli Stati Uniti, dove rischia una condanna a 175 anni per aver ottenuto e pubblicato i documenti segreti del governo americano sulle guerre in Afghanistan e in Iraq, sulla diplomazia statunitense e sui detenuti di Guantanamo. Da Amnesty International all’International Federation of Journalists, tutte le più grandi organizzazioni per i diritti umani e per la libertà di stampa hanno chiesto che non venga estradato e che sia liberato. Assange, che è cittadino australiano, è stato detenuto arbitrariamente, come ha stabilito il Working Group on Arbitrary Detention delle Nazioni Unite. È stato torturato psicologicamente, come documentato dall’ex Relatore Speciale Onu contro la Tortura, Nils Melzer. È stato spiato all’interno dell’ambasciata dell’Ecuador, dove è rimasto confinato fino al suo arresto e al suo trasferimento in carcere a Belmarsh. E la Cia ha pianificato di ucciderlo. Solo un’indagine indipendente può ricostruire in modo rigoroso questi fatti e le responsabilità delle autorità coinvolte. Ma è necessario accedere ai documenti. Chi scrive cerca di ottenerli da ben sette anni con il Foia, lo strumento che consente ai cittadini di consultare la documentazione del governo di interesse pubblico. Quattro nazioni - il Regno Unito, gli Stati Uniti, l’Australia e la Svezia - si oppongono al rilascio di questi documenti, costringendoci a una battaglia legale su quattro giurisdizioni, in cui siamo rappresentati da ben sette avvocati. Un processo tremendamente difficile e costoso, ma grazie al quale sono emersi alcuni fatti importanti e a dir poco sospetti. Nel Regno Unito, ad esempio, abbiamo scoperto che le autorità del Crown Prosecution Service hanno distrutto documenti chiave su Assange e da ben cinque anni rifiutano di fornire spiegazioni su cosa hanno distrutto esattamente, su ordine di chi e come. Anche in Svezia - dove il fondatore di WikiLeaks è stato indagato per stupro, indagine ormai chiusa e che non ha mai portato alla sua incriminazione - è stata distrutta almeno un’email proveniente dall’Fbi. Nel corso della nostra battaglia legale, le autorità svedesi hanno ammesso che l’email era stata inviata da un funzionario di alto livello dell’Fbi, ma, soprattutto, hanno negato risolutamente di essere in possesso di migliaia di pagine di corrispondenza che il Crown Prosecution Service ha dichiarato al giudice di aver scambiato con loro. Quanto all’Australia, si è rivelata la peggiore giurisdizione tra le quattro, in termini di trasparenza del governo. A gennaio del 2018, abbiamo presentato una richiesta Foia al ministero degli Esteri dell’Australia (Dfat), chiedendo copia dell’intera corrispondenza sul caso Assange dal 2016 al 2018 tra il ministero australiano e quello inglese, il Foreign Office, e quello americano, il Dipartimento di Stato. Le autorità australiane ci hanno rilasciato solo 24 pagine completamente censurate, a eccezione di pochissime parole qua e là, che non permettono di ricostruire una sola conversazione. Abbiamo provato per quattro anni a ottenere i documenti, senza risultato. Alla fine abbiamo citato in giudizio il ministero degli Esteri, rappresentati da due avvocati australiani di alto profilo: Peter Bolam e Greg Barns. Ora, però, l’Administrative Appeals Tribunal ha dato ragione al ministero degli Esteri. In un verdetto appena emesso dal vicepresidente, Mr. B.W. Rayment, il Tribunale ha stabilito che la stampa non ha diritto di accedere alla documentazione sul caso Assange, perché il rilascio della corrispondenza tra le autorità di Canberra e quelle di Londra e Washington danneggerebbe o potrebbe danneggiare le relazioni internazionali del Commonwealth - l’organizzazione di stati che trae origine dall’impero britannico e di cui fanno parte il Regno Unito e l’Australia - o potrebbe portare alla rivelazione di informazioni comunicate confidenzialmente da un governo straniero. Colpisce che le autorità di Canberra abbiano blindato in questo modo i documenti riguardanti un giornalista australiano che la Cia pianificava di ammazzare in modo stragiudiziale. I contribuenti australiani e, più in generale, l’opinione pubblica mondiale non hanno il diritto di sapere se il governo australiano era stato informato di quei piani, se li approvava o meno? Il Fatto Quotidiano ha chiesto al ministero degli Esteri dell’Australia se abbia mai preteso spiegazioni dal governo americano. Il ministero non ha risposto alla nostra domanda, ma ha commentato: “Il Dipartimento degli Affari Esteri e del Commercio è informato degli articoli di stampa sulla questione. Il governo australiano continua a monitorare attentamente il caso di Julian Assange. Il governo ritiene che il caso di Mr. Assange si sia trascinato troppo a lungo e dovrebbe essere risolto”. Dopo quasi un decennio di governi di destra, l’Australia ha un primo ministro progressista: Anthony Albanese, che ha origini italiane. Tra i sostenitori della libertà di stampa e dei diritti umani sono in tanti a chiedere una svolta sul caso Assange e a guardare con speranza ad Albanese. Il mese scorso anche l’Alto Commissario dell’Onu per i diritti umani, Michelle Bachelet, ha ricevuto il team legale di Assange e ha messo in guardia l’opinione pubblica dalla sua estradizione, dichiarando anche di essere “preoccupata per la sua salute fisica e mentale”. Iran. Proteste in piazza per Mahsa Amini, contro la “polizia morale” di Farian Sabahi Il Manifesto, 21 settembre 2022 “Zan, zendeghì, azadì” (donna, vita, libertà) è uno degli slogan dei dimostranti che in questi giorni protestano per la morte della ventiduenne Mahsa Amini, arrestata e malmenata dalla polizia morale perché non indossava il velo secondo lo stretto dettato della Repubblica islamica. Se inizialmente le forze dell’ordine utilizzavano lacrimogeni e pallottole di gomma per disperdere i dimostranti, ora nel Kurdistan iraniano i morti sarebbero almeno cinque. Secondo il governatore di questa provincia, le vittime sarebbero state “uccise con armi non utilizzate dalle forze di sicurezza iraniane”. Si tratterebbe quindi di “un complotto fomentato dal nemico”. Se le autorità della Repubblica islamica cercano di scaricare la colpa della morte dei dimostranti su potenze straniere, in merito all’uccisione di Mahsa Amini la polizia parla di “incidente” e adduce presunte malattie pregresse, smentite dai famigliari. La morte di Mahsa Amini dopo tre giorni di coma sta convogliando nelle piazze la rabbia degli iraniani, esasperati dalla crisi, dall’aumento vertiginoso dei prezzi, dalla disoccupazione e dal giro di vite nei confronti delle donne. Obbligate a coprire i capelli con il foulard, ma anche discriminate da un sistema giuridico secondo cui la loro testimonianza in tribunale vale la metà rispetto a quella di un uomo, ricevono il cinquanta percento di risarcimento in caso di ferimento e di morte violenta, ereditano la metà rispetto ai fratelli, faticano a ottenere il divorzio e ancor più la custodia dei figli. Inoltre, vengono escluse da certe facoltà universitarie a causa delle quote azzurre introdotte anni fa dal governo dell’ultraconservatore Mahmud Ahmadinejad per garantire i posti in aula agli studenti di sesso maschile. Oltre alle donne, il giro di vite colpisce anche le minoranze religiose (in particolare i bahai) e la comunità Lgbtqia+. Le proteste di questi giorni attirano l’attenzione internazionale e, anche per questo motivo, il presidente Ebrahim Raisi ha chiesto di aprire un’inchiesta sulla morte di Mahsa Amini. Ora, l’uccisione di questa ragazza sta mettendo in discussione l’esistenza della stessa polizia morale. Lunedì circolavano voci di una rimozione o una sospensione del capo della Gasht-e Ershad, la “pattuglia della morte”, circostanza negata dalla polizia di Teheran. In questi giorni di proteste, in diverse parti dell’Iran, centinaia di manifestanti ne hanno invocato l’abolizione, e ora anche alcuni parlamentari hanno chiesto la revisione e persino l’abolizione di questo corpo inviso alla popolazione. Il deputato Jalal Rashidi Koochi ha dichiarato che la polizia morale “non ottiene alcun risultato, se non quello di causare danni al Paese”. Il presidente del Parlamento, Mohammad Bagher Ghalibaf, già sindaco di Teheran, ha chiesto che la condotta della polizia morale sia oggetto di un’inchiesta: per evitare che si ripeta quanto accaduto a Mahsa Amini, dice il presidente del Parlamento, -i metodi utilizzati da queste pattuglie dovrebbero essere rivisti”. Ancora più radicale un altro parlamentare, Moeenoddin Saeedi, che intende proporre l’abolizione totale della polizia morale e infatti ha dichiarato: “A causa dell’inefficacia del Gasht-e Ershad nel trasmettere la cultura dell’hijab, questa unità dovrebbe essere abolita, in modo che i bambini di questo Paese non ne abbiano paura quando vi si imbatteranno”. Se l’obbligo del velo è la punta dell’iceberg di un sistema che non garantisce l’uguaglianza di genere, la sua abolizione minerebbe le basi della Repubblica islamica perché a introdurlo era stato l’Ayatollah Khomeini nel 1979 all’indomani della rivoluzione che aveva portato alla fine della monarchia. Insieme allo slogan “Morte all’America”, il foulard è uno dei principi cardine della Repubblica islamica. Se lo slogan danneggia l’Iran sul fronte internazionale, isolandolo, l’obbligo del velo fa sì che una parte della popolazione si rivolti contro le autorità. Entrambi i principi sono nocivi per il benessere degli iraniani. Sarebbe più saggio lasciar perdere sia l’uno sia l’altro. Ma il pragmatismo è stato sepolto l’8 gennaio 2017 con le spoglie mortali del suo maggior fautore, l’ex presidente Ali Akbar Rafsanjani. Stato islamico, è allarme nell'inferno di Al Hol per i figli dell'organizzazione jihadista salafita di Micol Conte La Repubblica, 21 settembre 2022 Il campo profughi nella città nel governatorato di al-Hasakah orientale, nel Nord-Est siriano, è considerato una vera e propria “bomba a orologeria”. Un inferno: è difficile chiamare il campo di Al Hol in modo diverso. Il centro di raccolta per gli sfollati dell’ex Califfato e le famiglie dell’Is - il cosiddetto stato islamico - nella provincia siriana di Hasakeh, accoglie 56 mila persone, il 93 per cento delle quali sono donne e bambini. Nei fatti è ancora una roccaforte per gli integralisti del sedicente Stato Islamico, le cui cellule “dormienti” continuano a organizzare attentati e omicidi. Nei giorni scorsi le Forze democratiche siriane SDF (cioè le milizie anti Is a maggioranza curda) hanno concluso la fase finale dell’operazione denominata “Umanità e sicurezza”: alla fine dei controlli, hanno fermato 226 persone, “fra cui 36 donne estremiste coinvolte in attività di terrorismo e omicidi”, dice un comunicato delle SDF citato dal sito della tv curda Rudaw, secondo cui nel campo sono stati scoperti 25 tunnel scavati clandestinamente. Il campo: una bomba a orologeria. Al Hol è considerato una bomba a orologeria, tanto più che sulle milizie curde grava sempre la minaccia di un attacco turco: per Ankara le SDF e soprattutto le componenti curde YPG (Unità di protezione popolare) sono un gruppo terrorista, fiancheggiatore del PKK, il Partito dei lavoratori curdi, fuori legge in Turchia. A poco è servito il fatto che grazie agli sforzi delle SDF la coalizione anti Isis sostenuta dagli Stati Uniti abbia sconfitto il Califfato: il presidente turco Recep Tayyp Erdogan ha ordinato alle forze turche di non dare tregua ai curdi e vuole evitare con tutti i mezzi la creazione di una entità para-statale curda come quella che stava nascendo nella regione del Rojava, all’interno dei confini siriani. I bambini. Ma su Al Hol c’è un’altra minaccia incombente: la quasi certezza che i minori cresciuti in condizioni di detenzione, fra vedove dell’Isis e superstiti fondamentalisti, possano abbracciare l’ideologia dell’islam radicale e diventare così un incubo globale. Metà di essi è sotto i dodici anni: in gran parte vivono con la madre siriana o irachena, ma è significativa anche la presenza delle vedove di foreign fighters, cioè miliziani arrivati da una cinquantina di nazioni estere, oggi riluttanti a riaccoglierne le famiglie. I rimpatri. Molti detenuti ad Al Hol sono di nazionalità irachena, ma Bagdad, scrive il New York Times, procede lentamente ai rimpatri, perché molti iracheni sono ostili al ritorno delle famiglie dell'Is. Secondo Timothy Betts, coordinatore antiterrorismo del Dipartimento di Stato Usa, l'Iraq ha rimpatriato circa 600 combattenti dell'Isis e altre 2.500 persone da Al Hol, appena un decimo dei suoi cittadini detenuti. Recentemente la Francia ha rimpatriato 16 donne e 35 bambini, tra cui alcuni orfani. Resterebbero circa 165 bambini francesi, 65 donne e 85 uomini adulti. Secondo funzionari di Al Hol, la Germania conta tre - quattro dozzine di adulti in custodia, mentre Belgio e Gran Bretagna ne hanno circa due dozzine ciascuno, Turchia e Russia diverse centinaia. Il motivo dei ritardi, scrive il quotidiano americano, è che molti paesi europei sono particolarmente restii a riprendersi uomini, poiché temono che con i loro sistemi legali la carcerazione durerebbe solo pochi anni. Traumatizzati. Save the Children sottolinea la necessità di non dimenticare i minori rinchiusi e di portarli via prima che sia troppo tardi da un contesto tossico, dove assistono ad abusi e omicidi. Per Matthew Sugrue, responsabile dell’organizzazione per la Siria, questi omicidi stanno terrorizzando i piccoli abitanti di Al Hol, che trascorrono le ore della veglia pensando: ‘ Chi sarà il prossimo? ’ Crescono con la paura che la loro famiglia sarà la prossima a essere attaccata. “Dobbiamo trovare urgentemente soluzioni durature affinché i bambini possano accedere ai servizi di cui hanno bisogno per riprendersi dalle loro esperienze. Meritano le stesse opportunità che hanno tutti i bambini: crescere in modo sicuro e felice. Non possono farlo mentre sono intrappolati ad Al Hol”. La scuola. Secondo Kathryn Achilles, portavoce della ONG per la Siria, ad Al Hol ci sono sei “spazi di apprendimento temporaneo”, incluso uno che l'organizzazione ha recentemente ricostruito dopo che è stato dato alle fiamme. Qui i bambini imparano le basi di inglese, arabo, matematica e scienze. Ma la violenza crescente, ha detto la Achilles al NYT, li sta traumatizzando ulteriormente. “Questi ragazzi non hanno scelto di andare in Siria o di nascere lì e sono intrappolati in un ciclo di violenza che li sta punendo per i peccati dei loro padri. Questi bambini sono vittime del sistema, ma l’unica cosa di cui avrebbero bisogno è di essere riportati a casa”, conclude.