“Carceri, situazione infernale. La politica batta un colpo” di Simona Musco Il Dubbio, 1 settembre 2022 Il dossier del Partito Radicale dopo le visite in 40 istituti di pena “Il legislatore è lontano dall’articolo 27 della Costituzione”. “Una situazione infernale”. Irene Testa, tesoriere del Partito Radicale, riassume così il dossier consegnato alla ministra Marta Cartabia e al capo del Dap Carlo Renoldi, dossier che racchiude i dati della visita effettuata in 40 istituti penitenziari nel periodo di Ferragosto. Un documento che mette in evidenza carenze ataviche, problematiche ignorate dalla politica, nonostante il dato allarmante dei suicidi in carcere: ben 58 da inizio anno. Sovraffollamento, personale di polizia penitenziaria sottodimensionato, carenza di educatori e psicologi, servizi malfunzionanti, presenza di malati psichiatrici: sono solo alcune delle problematiche alle quali la politica sembra non voler trovare una soluzione. “Il Partito Radicale da sempre si occupa di carceri, per evidenziare non solo le condizioni degli istituti, ma anche la presenza degli innocenti in cella spiega Testa al Dubbio -. Su 56mila detenuti, circa 16mila persone sono in custodia cautelare. Abbiamo inviato il dossier a ministro e capo del Dap e abbiamo chiesto un incontro a Cartabia, visti i numeri dei suicidi e dal momento che in questa campagna elettorale carceri e giustizia sono temi pressoché assenti. Vogliamo accendere un faro su questi luoghi bui, dove difficilmente la politica si affaccia”. Il dato dei detenuti con problemi psichiatrici è forse quello più preoccupante: le Rems sono infatti poche e in molti aspettano in carcere in lista d’attesa. “Si verificano condizioni davvero allucinanti - aggiunge Testa - a volte più che di uomini parliamo di bestie, perché per tenere queste persone al sicuro, quando la patologia psichiatrica è molto grave, si fa ricorso alla cella liscia, senza lenzuola, coperte e a volte anche senza materasso. Recentemente, a Regina Coeli, abbiamo visto persone mangiare con la ciotola per terra, in quanto essendo soggetti pericolosi anche per se stessi non hanno disponibilità di nulla. Ma come si può avere la pretesa di curare persone malate all’interno di un carcere? Inoltre, gli agenti sono pochi e non si può avere la pretesa che facciano anche da psichiatri, psicologi ed educatori, cosa che spesso fanno. Se ha un senso l’articolo 27 della Costituzione il nostro legislatore non lo applica ed è lontano anni luce da quel precetto”. Analizzando il report, sono diversi i casi problematici segnalati dai Radicali. Come a Siracusa, dove nella Casa circondariale Cavadonna il tasso di sovraffollamento del carcere è di circa il 115%. Gli agenti di polizia penitenziaria sono sotto organico e mancano psicologi ed educatori. “Ciò non consente lo svolgimento di molte attività come la possibilità di far chiamate ai familiari o avere accesso a visite mediche specialistiche - si legge nel report -. I ristretti quindi non possono contare su visite e assistenza sanitaria di base. Mancano medici (5 presenti all’interno dell’istituto) e infermieri. Gli psicologi eseguono un numero di ore di servizio assolutamente insufficiente e non ci sono psichiatri. Circa 160 detenuti hanno patologie accertate da certificazione medica di tipo psichiatrico ma risulta un numero più alto se si contano i casi di patologie non certificate”. A Trieste la carenza di organico in termini di ispettori, educatori socio-pedagogici e guardie “ha importanti ripercussioni sull’organizzazione e gestione umana, sanitaria ed amministrativa”. In alcuni casi le misure alternative alla detenzione carceraria non vengono concesse, “nonostante il parere favorevole del funzionario giuridico pedagogico”. E il servizio pubblico per la salute mentale “sembra non aver garantito una ottimale gestione della questione psichiatrica in carcere”. A Lecce ci sono solo due psichiatri per 1100 detenuti, di cui quasi la metà tossicodipendenti, mentre a Palermo, nella Casa circondariale ‘ Antonio Lorusso’ Pagliarelli, le maggiori criticità riguardano la sanità, al punto che per le detenute donne non sono nemmeno disponibili visite ginecologiche. “Al Pagliarelli - si legge inoltre - il caldo soffocante non può essere contenuto neppure dalla possibilità di avere celle dotate di ventilatore, perché il voltaggio non reggerebbe”. A Cassino “risulta quasi impossibile garantire il diritto alla salute dei detenuti a causa di ritardi o dinieghi nel trasferimento dei ristretti con patologie specifiche”. Per un detenuto colpito recentemente da un infarto, la visita di controllo è stata fissata addirittura ad aprile del 2024. Le docce sono inadeguate e non dignitose e, inoltre, gli agenti di polizia penitenziaria molto spesso si trovano a dover coprire più turni contemporaneamente. A Poggioreale il reparto “Napoli” presenta celle con pareti ammuffite, nelle quali sono ammassati anche fino a 10 detenuti, un wc a vista e un’unica doccia in pessime condizioni. Gravi sono il sovraffollamento dei detenuti (2.200 detenuti su una capienza di 1571) e il sottodimensionamento degli agenti: il rapporto tra poliziotti e reclusi è di circa 1 a 100. Critiche anche le condizioni del carcere di Sollicciano, a Firenze, struttura fatiscente e “non dignitosa”. Le docce sono inutilizzabili, così come bagni e celle. “L’autolesionismo è dominante nel carcere e si produce alcool con tutto quello che capita”, si legge nel report, che denuncia un alto numero di suicidi e una carenza di educatori. Questo segnala un profondo malessere, evidente anche dal numero di suicidi in carcere. Un altro esempio è quello del Cerulli di Trapani, dove si segnalano docce esterne alle celle, condizioni igieniche inadeguate, grate a maglie strette nelle finestre e la mancanza di psichiatri. “Credo che alla politica in realtà non interessino le carceri - conclude Testa - sono un luogo da tenere nascosto, più che da visitare o di cui denunciare le condizioni. Sicuramente perché i detenuti non portano consensi. Ma ci sono situazioni in cui anche le cose minime vengono negate. Parliamo di diritti: non chiediamo pietas, ma che la politica riconosca i diritti delle persone che finiscono in carcere. Se il senso è restituire alla società una persona che non nuoccia più, bisogna lavorare perché questo avvenga”. Le detenute scrivono a Mattarella e Cartabia: “Intervenite per aiutare le donne in carcere” di Rossella Grasso Il Riformista, 1 settembre 2022 È una vera e propria strage silenziosa quella che sta avvenendo nelle carceri italiane nella tremenda estate 2022. Sono 58 i detenuti che dall’inizio dell’anno hanno deciso di togliersi la vita in carcere. L’ultimo sabato 27 agosto a Capanne. Aveva solo 34 anni ed era in attesa di giudizio. È stato secondo suicidio in 3 giorni in Umbria. Solo poche ore prima, un 49enne era deceduto all’ospedale di Terni in seguito agli atti di autolesionismo che si era procurato in cella. Una condizione disastrosa che si porta dietro una scia di morti che troppo spesso resta nel silenzio o interessa pochissimi. A questo silenzio non sono disposte a cedere le detenute ed ex detenute del carcere di Verona e Torino, che hanno scritto al presidente della repubblica Sergio Mattarella e alla ministra Marta Cartabia. L’iniziativa è stata raccontata sulla pagina Facebook “Sbarre di Zucchero…quando il carcere è donna in un mondo di uomini” che le amiche di Donatella Hodo, morta suicida a 27 anni nel carcere di Verona hanno messo su per raccontare quel mondo troppo spesso dimenticato o ignorato del carcere femminile. La perdita di Donatella fu un dolore enorme, e così hanno deciso di non tacere e mettere insieme le testimonianze e i racconti perché “tante voci diventano un urlo”. Le voci le hanno messe insieme da ex detenute e detenute scrivendo a Mattarella. “Siamo le ex detenute compagne di carcerazione di Hodo Donatella, suicida bella Casa Circondariale di Verona il 2 agosto scorso. In seguito al suo inspiegabile gesto, abbiamo deciso di aprire un gruppo Facebook dove raccontare la detenzione femminile, spesso dimenticata e poco considerata per gli esigui numeri”, si legge nella lettera. “Il carcere è stato costruito da uomini per uomini, per contenerne la violenza, che poco ha a che fare con noi donne, abbiamo un’affettività diversa, bisogni diversi, non smettiamo di essere madri, abbiamo bisogno di stare vicino alle famiglie, di poter fare colloqui con i figli, di poterli sentire maggiormente al telefono. I numerosi suicidi di questo anno sono la tangibilità di un non funzionamento dell’esecuzione penale. Dell’ inadeguatezza delle strutture, della poca presenza di educatori, psicologi, criminologi”. “Del bisogno di una maggior formazione del personale di Polizia penitenziaria che spesso si trova a dover fronteggiare situazioni a cui non è preparato. Chiediamo insieme alle ragazze del femminile del carcere Le Vallette di Torino, un suo intervento nell’attenzionare la classe politica alla disastrosa situazione in cui versano le carceri italiane. La detenzione deve essere rieducativa, riabilitativa, giusta e corretta, non umiliante e degradante, altrimenti diventa una scuola di delinquenza e si esce peggio di come si è entrati. Le ricordiamo che solo nella sezione femminile della Casa Circondariale di Verona Montorio, nell’ ultimo anno vi sono stati due suicidi e due tentativi di suicidio. Ci rivolgiamo a Lei in quanto Garante della Costituzione Italiana, perché questa venga rispettata anche nelle carceri, perché si è detenuti ma non si smette di essere persone, e come tali degne di rispetto”. E ancora la lettera dal carcere di Torino. “Siamo le detenute del carcere di Torino - si legge nella lettera - Ci rivolgiamo a lei, in quanto garante della Costituzione, chiedendole di riportare l’attenzione della classe politica sul rispetto della dignità e delle possibilità che la carta costituente sancisce per tutti i cittadini. Reclusi compresi. Questo sistema, penale e penitenziario, è fallimentare e genera recidiva e non reinserimento. È un sistema pieno di storture e diseguaglianza. In questo, riflette le stesse problematiche della società libera. Non c’è niente di più pericoloso del creare invidia sociale e conflitti tra gli ultimi. A noi, tutto ciò, appare gravissimo. Siamo un paese degradato per quanto riguarda i temi sociali e del rispetto dei diritti e delle libertà. Durante il discorso del suo giuramento, ha esportato il Parlamento e il Governo a riportare la centralità del diritto e le garanzie per la dignità di tutti al centro delle loro azioni. Non hanno ascoltato neppure lei che è il Presidente della Repubblica e tutto ciò è preoccupante!”. Il gruppo di Sbarre di zucchero ha poi inoltrate la sua lettera anche alla ministra Cartabia. Torturato all’Asinara, ora lo Stato gli chiede il conto per il “soggiorno” in cella di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2022 Chiesti a Carmelo Musumeci circa 14mila per il mantenimento in carcere, nonostante proprio per quel periodo gli siano stati riconosciuti 28mila euro di risarcimento ai quali ha rinunciato per la liberazione anticipata. Oltre al danno, la beffa. Per lunghi periodi di detenzione gli è stato riconosciuto il trattamento disumano e degradante, compresi quelli riguardanti la reclusione presso il famigerato carcere dell’Asinara. Finito di scontare la pena, gli è arrivata la cartella esattoriale dove si ritrova costretto a pagare il mantenimento anche per quei periodi di tortura ricevuta. Parliamo dell’ex ergastolano ostativo e scrittore Carmelo Musumeci, noto per le sue battaglie per i diritti dei detenuti e per essere l’esempio vivente di come una persona può cambiare, tanto da essere un esempio per tutti coloro che sono aggrappati alla speranza. Rinunciò al risarcimento per ottenere la liberazione anticipata - E pensare, che per ottenere la liberazione anticipata dovette rimuovere un ostacolo: ha dovuto rinunciare al risarcimento di 28mila euro che aveva ottenuto per le condizioni disumane e degradanti che ha subito negli anni 90 nel famigerato carcere dell’Asinara. Da una parte il ministero della Giustizia ti risarcisce, ma dall’altra si riprende i soldi. Però l’ha fatto ben volentieri pur di ottenere la libertà e dimostrare, con un comportamento concreto, il ravvedimento anche lasciando allo Stato i soldi che gli spettavano. Questo fino a poco tempo fa. A Musumeci lo Stato chiede 14mila euro per il mantenimento in carcere per quel periodo - Ora che è arrivato il conto da pagare per il mantenimento (più di 14 mila euro), oltre ad aver rinunciato ai soldi che gli spettavano, gli toccherà pure tirarli fuori di tasca sua. Lo Stato ci guadagna due volte: si riprende i soldi del risarcimento e ne vuole quasi altrettanto per il periodo di mantenimento, compreso quello dove subì la tortura. A Carmelo Musumeci toccherà pagare il mantenimento carcere per il periodo che ha subito atti inumani e degradanti dallo Stato. Per comprenderne l’assurdità può venire in aiuto questo passaggio della Cassazione del 2008: “I periodi di detenzione caratterizzati dalla accertata illegalità convenzionale del trattamento non possono fondare il diritto di credito dell’amministrazione, atteso che è proprio l’offerta trattamentale che è causa di danno”. I giudici della Corte suprema sottolineano che “ostano a tale riconoscimento ragioni di carattere logico, in quanto le modalità trattamentali inumani o degradanti determinano una detenzione illegittima nel quomodo, tale che il primo rimedio apprestato dal legislatore alla detenzione in condizioni inumane è quello della riduzione di pena, e sistematico, non potendo la condotta contra legem comportare l’esistenza di un contestuale onere a carico del soggetto che quel danno ha subìto”. Musumeci non ha mai appartenuto alla criminalità organizzata - Ricordiamo che Musumeci non è un ex boss, non ha mai fatto parte di Cosa nostra, ma era a capo di una banda, un clan che era dedito alla bisca clandestina. Non ha mai negato di essere stato un criminale. Anzi, ha sempre ammesso di aver commesso crimini di sangue per guerra tra “clan”. “O sparavo io, oppure loro sparavano me”, ha sempre raccontato. Il suo spirito ribelle, però, lo ha sempre portato fuori dall’appartenenza alla criminalità organizzata: non ha mai accettato una struttura verticistica dal quale prendere ordini o professare obbedienza. Ha commesso dei reati, anche gravi, ma paradossalmente è stato condannato all’ergastolo ostativo per un omicidio che lui dice di non aver mai commesso. Per questo ora si sta attivando per chiedere la revisione del processo. Parliamo dell’omicidio dell’imprenditore carrarese Alessio Gozzani avvenuto nel 1991. Fu il periodo nel quale, il mafioso colletto bianco Antonino Buscemi (personaggio che fu considerato uno dei massimi consiglieri di Totò Riina), aveva il controllo delle cave di Massa Carrara entrando in società con il gruppo Ferruzzi Gardini. Prendendo il controllo, Buscemi mandò a gestire le cave suo cognato Girolamo Cimino. Fu proprio quest’ultimo che ebbe un battibecco con Gozzani perché si oppose alla loro presenza. Dopo qualche giorno, quest’ultimo fu assassinato in autogrill. Su questo omicidio stava indagando l’allora procuratore Augusto Lama, colui che aveva condotto l’inchiesta sull’infiltrazione mafiosa nelle cave, ma fu travolto da provvedimenti disciplinari del Csm. Abbandonò l’indagine e da allora fa il giudice del lavoro. Alcuni pentiti, tra i quali Angelo Siino, hanno scagionato Musumeci - Nel frattempo, però, per la giustizia il mandante dell’assassinio era senza se e senza ma Musumeci. E questo nonostante che in seguito cominciarono a collaborare taluni pentiti, Angelo Siino in primis, che hanno affermato il contrario, indirizzando i responsabili proprio verso i Buscemi. Quindi Musumeci avrebbe scontato l’ergastolo ostativo, alternato da lunghi periodi al 41 bis e trattamenti disumani accertati, per un reato che non avrebbe mai commesso. Ora si ritrova a dover pagare perfino il mantenimento per la tortura subita. Asinara e Pianosa: le carceri speciali chiuse dal ministro Flick nel 1997 di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 settembre 2022 Dopo le denunce di Amnesty International e le sentenze della Cedu. Come scritto in questa stessa pagina de Il Dubbio, l’ex ergastolano ostativo Carmelo Musumeci si ritrova costretto a pagare il mantenimento anche per quanto riguarda il suo “soggiorno” presso il carcere dell’Asinara. Chiuso a seguito di numerose denunce da parte di Amnesty International e da sentenze come quelle della Corte Europea di Strasburgo. Ricordiamo che sia il carcere di Pianosa che quello dell’Asinara, furono riaperti nei primi anni 90. In quel momento particolare della vita dello Stato, per stroncare sul nascere quello che fu definito l’attacco della mafia al cuore dello Stato, il regime del carcere duro, ossia il 41 bis, rappresentò la risposta più dura e radicale da parte delle istituzioni. A seguito del verificarsi della strage di Capaci e di Via D’Amelio, il governo di allora, in piena emergenza, varò il decreto legge n. 306/ 1992, che introduceva il secondo comma all’art. 41 bis. Contestualmente, nel giro di qualche giorno, furono immediatamente riaperte le sezioni di massima sicurezza degli istituti di pena delle isole di Pianosa e Asinara, che fino a quel momento avevano avuto funzioni di colonie agricole, adatte più ad una popolazione detenuta di livello attenuato di sorveglianza. Quando venne barbaramente ammazzato Borsellino, la risposta dello Stato fu dura e vennero trasferiti in massa tutti i detenuti mafiosi - ma non solo - nelle carceri speciali. Diversi ergastolani denunciarono le vessazioni e portarono il caso (Sentenza Labita c. Italia, 6 ottobre 2000, n 26772/ 94) alla Corte europea dei diritti umani che dovette prendere atto che, in effetti, all’epoca dei fatti, nel carcere di Pianosa persisteva una situazione allarmante seppur di carattere generale. Solo nel 1997 venne chiuso assieme a quello dell’Asinara, grazie all’intervento dell’allora ministro della Giustizia, Giovanni Maria Flick. Tra i magistrati che rivelarono le torture, ci fu l’allora magistrato di sorveglianza di Livorno, il dottor Rinaldo Merani. Parliamo del 5 settembre 1992, in pieno emergenzialismo scaturito dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. “Nel corso della permanenza in sezione - così scrive Merani nel rapporto del 1992 - si è notato l’utilizzazione di metodiche di trattamento nei confronti dei ristretti sicuramente non improntate nel rispetto della persona e principi di umanità”. E fa un elenco di casi che cristallizzavano talune violenze. Parla di detenuti, che nel camminare, vengono obbligati a tenere la testa bassa e lo sguardo fisso per terra, oppure “al momento in cui i ristretti vengono inviati al cortile di passeggio, aperta la porta che vi dà accesso, devono andare di corsa sino ad infilarsi nel corridoio che conduce al cortile” e sottolinea un episodio emblematico: “Di tale pratica si è chiesto conto ad uno sottoufficiale che ha risposto, per verità molto seccato e iattante, che trattatasi di scelta dei detenuti: il che francamente appare quanto meno poco credibile”. Ma il magistrato va oltre e denuncia un fatto oscuro. “Si è avuto notizia - scrive Merani - che due detenuti sono stati recati fuori della sezione, l’uno interno alla carriola da muratore, certamente non in grado da camminare da solo, l’altro ammanettato e trascinato per le braccia: entrambi venivano portati verso il blocco centrale dove non è dato sapere cosa sia successo poi”. Il magistrato Merani, sempre nel suo rapporto, ha scritto chiaro e tondo che “il quadro si presenta pertanto non soltanto fosco e preoccupante, ma anche con caratteristiche delittuose” e aggiunge che “non è certamente questo il modo di riaffermare la legalità e la primarietà dello Stato, di contrastare credibilmente la criminalità organizzata, di coltivare la buona amministrazione”. “Sulla giustizia la priorità è attuare le riforme Cartabia”, ci dice Rossomando (Pd) di Ermes Antonucci Il Foglio, 1 settembre 2022 Intervista alla vicepresidente del Senato e responsabile giustizia e diritti del Partito democratico: “La partita del garantismo si gioca moltissimo sulla riduzione dei tempi del processo. Ci sono in ballo i fondi del Pnrr e la credibilità della politica stessa”. “Leggendo le dichiarazioni di Nordio, Ostellari e Bongiorno sull’immunità parlamentare e sulla giustizia appare evidente che il centrodestra non abbia un programma condiviso. Già litigano su tutto. Mi sembra anche che ci siano anzitempo molti pretendenti a incarichi di governo, che già scalpitano”. Così, intervistata dal Foglio, Anna Rossomando, vicepresidente del Senato e responsabile giustizia e diritti del Partito democratico, commenta lo scontro emerso nelle ultime ore tra Fratelli d’Italia e Lega attorno alla proposta di ripristino dell’immunità parlamentare, avanzata dall’ex pm Carlo Nordio, ora candidato di FdI. Una proposta che Rossomando respinge con parole molto chiare: “Noi abbiamo detto più volte che la guerra dei trent’anni tra politica e magistratura è finita. Invece, ci viene riproposto un ennesimo ritorno al passato”. “Noi del Pd - aggiunge - ci siamo sempre impegnati per il garantismo vero, non di facciata. Lo abbiamo fatto lavorando per l’approvazione delle riforme Cartabia, che contengono innovazioni importanti: processi più rapidi, presunzione di innocenza, più riti alternativi e pene sostitutive al carcere, impossibilità di chiedere il rinvio a giudizio se non c’è una ragionevole previsione di condanna, stop alla gogna mediatica. Ora la priorità è attuare queste riforme. Ci sono in gioco i fondi del Pnrr e la credibilità della politica stessa”. Rossomando non ci sta a far passare l’immagine di un Pd meno garantista del centrodestra: “Le riforme in senso garantista in questo Paese sono state bloccate proprio da chi oggi si propone come garantista. I partiti di destra sono sempre stati quelli del ‘marcire in galera’ e del ‘buttare via la chiave’. Nella discussione della riforma penale si sono opposti strenuamente all’estensione delle pene alternative al carcere. All’inizio di questa legislatura hanno affossato la riforma dell’ordinamento penitenziario. Non contano le parole, ma i fatti. I voti di questa destra sono sempre stati contro le riforme garantiste. Noi invece le abbiamo proposte, le abbiamo votate, certo a volte sulla base di compromessi necessari, considerata l’eterogeneità della maggioranza parlamentare”. Sulla giustizia, quindi, la priorità per il Pd è dare attuazione alle riforme Cartabia: “La partita del garantismo si gioca moltissimo sulla riduzione dei tempi del processo”, spiega Rossomando. “Ovviamente - aggiunge - noi avremmo voluto di più sui riti alternativi. Aggiungo che erano già state incardinate due nostre proposte di legge: una sulla modifica della legge Severino, con riferimento specifico alla sospensione dei sindaci condannati in primo grado, un’altra sull’abuso d’ufficio. Le destre hanno però boicottato la discussione e l’approvazione di questi provvedimenti”. Un’altra riforma che andrà attuata sarà quella del Csm e dell’ordinamento giudiziario. “In quella riforma, che ha suscitato reazioni dell’Anm, ci sono interventi importanti, come quelli sulle nomine agli incarichi apicali, sugli illeciti disciplinari, sul voto degli avvocati nei consigli giudiziari”, afferma Rossomando. E la separazione delle carriere? “Si tratta di un tema già superato dalla riforma Cartabia, inoltre vorrei ricordare il fallimento del referendum”, replica Rossomando, che aggiunge: “Andando oltre la riforma, proponiamo un sistema più aperto, con l’istituzione di un’Alta Corte competente a giudicare le impugnazioni sugli addebiti disciplinari dei magistrati e sulle nomine contestate, e con l’attuazione dell’articolo 106 della Costituzione, rendendo possibile l’accesso in magistratura agli avvocati che sono già cassazionisti”. Centrale, nel programma del Pd, è infine il rilancio della riforma penitenziaria. “Dobbiamo restituire al carcere la funzione che la Costituzione gli attribuisce. Investire su trattamenti umani e dignitosi vuol dire anche investire nella sicurezza dei cittadini. E, ancora, serve una riforma radicale delle professioni penitenziarie sia per trattamenti economici che per valorizzazione di ruoli e competenze”, conclude Rossomando. “Basta garantismo, serve il taser!”, FdI già rinnega Nordio di Errico Novi Il Dubbio, 1 settembre 2022 Il magistrato ipotizza un diritto penale innovativo. Ma allora qual è il vero volto della destra? Un po’ dissonanti. Come minimo. Prendete Carlo Nordio. Confrontatelo con Andrea Delmastro, responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia. Parlano lingue diverse. Il primo basa la propria ricetta non solo sul ripristino dell’immunità parlamentare, ma anche su un sistema penale più agile, per esempio sulla riparazione dei danni connessi al reato: “Oggi se uno imbratta i muri rischia sei mesi, ma il giudice gli dà la condizionale e tutto finisce lì, invece”, dice Nordio, “quel condannato non deve andare in prigione, ma pulire le strade per un anno”. Molto americano. Delmastro viceversa dichiara al Corriere della Sera edizione Torino di oggi quanto segue: “Bisogna smetterla con il garantismo!”. Come se in Italia non fossimo stati travolti negli ultimi anni da leggi assurde sulla prescrizione e continui insensati innalzamenti di pena. L’avvocato e parlamentare di FdI prosegue: “Non ci devono essere più fughe dai processi e pene con misure alternative”, bisognerebbe piuttosto “costruire nuove carceri”. Perché appunto chi è condannato deve andare in galera e basta. Dulcis in fundo: “Gli agenti penitenziari devono avere il taser”. Vengono spontanee molte domande. La prima: qual è il vero volto di FdI nel campo della giustizia? Il garantismo innovatore di Nordio o l’oscurantismo penale di Delmastro? Sembra un doppio binario, proprio nel senso delle rette parallele che non possono incontrarsi. Altro interrogativo: Delmastro intende buttare a mare quel poco che Marta Cartabia, assediata da una maggioranza poliforme, è riuscita a far passare in materia di misure alternative, pene pecuniarie e giustizia riparativa? La riforma penale e il successivo decreto costituiscono piccoli passi avanti, persino controversi in qualche venatura ritenuta un po’ “paternalistica” da alcuni studiosi e avvocati, come è stato sostenuto sul Dubbio. E però, un dietrofront su quel minimo di apertura sarebbe devastante, anche come segnale ai detenuti pigiati nelle carceri pollaio. Delmastro descrive una controriforma cupa, un po’ inquietante. Nordio cosa c’entra con tutto questo? Ecco, c’è un’ulteriore domanda suggerita dalle parole di Delmastro. E cioè, se per caso l’ex procuratore aggiunto di Venezia che Giorgia Meloni ha voluto candidare alla Camera non rischi di diventare un uomo-immagine rassicurante ma un po’ ingannevole, rispetto agli obiettivi reali del partito. Con parole più crude dovremmo dire: Nordio rischia di essere una foglia di fico, per Fratelli d’Italia. Una figura autorevole che impreziosisce la superficie ma non cambia la sostanza. Non sarebbe il massimo. E non solo in termini di correttezza nei confronti degli elettori, ma anche sul piano degli equilibri interni alla coalizione. Forza Italia è un partito schiettamente garantista. Sarà minoritario, ormai, ma non è immaginabile governarci insieme e farle passare sopra la testa una giustizia legge, ordine, manette e restaurazione. Persino la Lega rischia di essere messa a disagio da un programma sulla giustizia incorniciato con il mantra “basta garantismo”, come fa Delmastro. Si tratterebbe di assurdi passi indietro rispetto a quanto la stessa Lega ha contribuito a fare nella legislatura giunta al capolinea. E oltretutto proprio in un settore, quello dell’esecuzione penale e del carcere, in cui di fatto molti dei progetti di Cartabia sono rimasti nel cassetto, a cominciare dalle soluzioni per la vivibilità proposte dalla commissione Ruotolo. Nordio propone l’inappellabilità delle assoluzioni. Delmastro dice che per tutelare gli agenti bisogna dar loro il taser. Come se fosse uno strumento ordinario di gestione dei detenuti. Anche Cartabia, è vero, ha avviato una sperimentazione di quello strumento. E anche Delmastro parla di “protocolli chiari” che dovrebbero suggerire alla polizia penitenziaria se e quando ricorrere alla scossa elettrica. Ma è il tono spiccio, sbrigativo, che colpisce, nel responsabile Giustizia di FdI. È chiaro che tutto il centrodestra dovrà fare i conti con una certa ambivalenza, sulla giustizia. Vale per il dualismo fra Nordio e la leghista Giulia Bongiorno, così distanti sull’ipotesi dell’immunità parlamentare ma anche sulla depenalizzazione, che emoziona poco il Carroccio. C’è, nella stessa Lega che sul referendum è sembrata smarcarsi dal modello legge e ordine riproposto da Delmastro, la pretesa di una sintesi fra garantismo e ansie securitarie che continua a convincere poco. Jacopo Morrone, sottosegretario leghista alla Giustizia con Alfonso Bonafede, dice per esempio: “Siamo garantisti fino in fondo e sosteniamo la certezza della pena, due posizioni assolutamente complementari: è la stragrande maggioranza degli italiani a chiedere che la pena sia certa e che serva effettivamente a rieducare chi si sia macchiato di un delitto al di là di ogni dubbio”. A lasciare perplessi è l’impressione che dietro quella “certezza della pena” si nasconda una visione ancora un po’ carcerocentrica, diffidente nei confronti delle misure alternative che, come dice Delmastro, rappresenterebbero una “fuga” dall’unica pena ritenuta credibile, evidentemente, cioè la reclusone in cella. Se davvero dovesse prevalere uno spirito così claustrofobico, Nordio finirà per ridursi davvero a un ingannevole paravento. Ma è giusto credere che, invece, il pm illuminato e innovatore aiuti Fratelli d’Italia ad aprirsi a un orizzonte diverso. Forse più consono a una forza politica che aspira a rappresentare almeno un quarto della popolazione italiana. “Serve un Csm nuovo, basta con le carriere decise solo dalle Lobby”, intervista al giudice Pupo di Viviana Lanza Il Dubbio, 1 settembre 2022 “Le gravi difficoltà in cui versa la magistratura italiana sono sotto gli occhi di tutti. È indispensabile pertanto che le correnti ritornino ad essere solo espressione di diversità culturali tra i magistrati e non veri e propri centri di potere”. Ne è convinta Maria Rosaria Pupo, attuale consigliere dell’ottava sezione civile della Corte d’Appello di Napoli, in passato pm a Sant’Angelo dei Lombardi, prima gip e poi giudice civile a Santa Maria Capua Vetere. È tra i candidati indipendenti al Csm scelti con il meccanismo del sorteggio dal Comitato Altra Proposta. “Grazie ad un’esperienza così variegata ho potuto maturare una visione complessiva della giurisdizione e dell’ordine giudiziario. Al referendum indetto dall’Anm nella prospettiva della riforma del Csm, ho votato a favore del sistema del sorteggio “temperato” perché sono fermamente convinta che, allo stato, onde ridurre il potere delle correnti (ormai vere e proprie lobby) occorre da un lato consentire a tutti i magistrati di essere candidati (ponendo fine alle nomine correntizie) e dall’altro garantire agli elettori la possibilità di scegliere i candidati con cui hanno comunanza d’idee, di prospettive e di valori”. Già, le lobby. “Nel corso della mia carriera, con grande rammarico, ho assistito impotente allo scemare inesorabile del prestigio della magistratura, all’esaltazione del carrierismo a tutti i costi, favorito dal peso sempre più crescente ed ormai soffocante delle correnti - racconta il giudice Pupo - . Ho visto colleghi bravissimi e stimatissimi surclassati da altri che, ai vari concorsi per incarichi direttivi o semidirettivi avevano come unico titolo preferenziale l’appartenenza alla corrente più forte in quel momento. Ho raccolto la delusione ed il disincanto di colleghi che hanno rinunciato a partecipare al concorso per Presidente o Procuratore, pur di non perdere la propria dignità “questuando” al potente di turno. Ho spesso subito l’ostracismo ed il mobbing solo perché non ero né iscritta né simpatizzavo per la potente corrente di turno. Ma non per questo mi sono arresa. Non ho ceduto a ricatti, dispetti, ritorsioni, né ho lasciato correre, denunciando tutto alla Procura Generale presso la Cassazione ed al Csm e pagandone in prima persona le conseguenze”. Di qui la scelta di accettare la candidatura. “Sono consapevole di partecipare ad un’avventura difficilissima, ma non impossibile, perché la Giustizia è sempre stata uno dei capisaldi del mio credere civile e la speranza che ripongo in una sua rinascita è grande e dura a morire. Il caso Palamara, non ha sconfitto le logiche correntizie che anzi, a mio parere, sono andate consolidandosi sotto forme nuove e “più accorte”“. “In questi ultimi anni abbiamo assistito a una deriva clientelare ed autoreferenziale della magistratura generata dalla riforma Mastella/Castelli la quale, ai fini della valutazione dei magistrati per il conferimento degli incarichi direttivi, semidirettivi e di legittimità, ha sostituito il criterio oggettivo dell’anzianità, con quelli “soggettivi” delle specifiche attitudini e del merito. A ben vedere, si tratta di scatole terminologiche vuote, idonee ad essere riempite di qualunque significato a secondo della convenienza. Si è così pervenuti alle “disgraziate” nomine a “pacchetto”, adottate dal Csm all’unanimità (si badi bene) per rispondere a logiche puramente spartitorie”. “Il “carrierismo” - aggiunge - ha infettato la magistratura producendo gli effetti nefasti che ormai a tutti noti. L’incarico al Csm spesso non è altro che il coronamento di una carriera politica iniziata con i Consigli giudiziari, proseguita con gli incarichi extragiudiziari o con le varie deleghe dei capi degli uffici (che in tal modo costruiscono “la carriera” del magistrato appartenente alla loro corrente, assegnandogli quelle che sono definite in gergo “medagliette”, utili ai fini della valutazione delle attitudini specifiche)”. Per il giudice Pupo occorre puntare su criteri come l’anzianità, “criterio mai dismesso dalla giustizia amministrativa che infatti non ha vissuto gli scandali che hanno afflitto quella ordinaria”. Posto, poi, che la soluzione dei problemi che attanagliano la magistratura passa anche attraverso la razionale distribuzione delle risorse tra Tribunali e Procure, uno dei punti programmatici riguarda gli incarichi extragiudiziari. “Sottraggono capacità lavorativa ai Tribunali e alle Corti e creano, col sistema attuale del merito e delle specifiche attitudini (interpretati ad arte dalle correnti) corsie preferenziali per avanzamenti di carriera. Vanno drasticamente ridotti disponendo, quale criterio di legittimazione per partecipare a concorsi per posti direttivi, semidirettivi o di legittimità, che al termine dell’incarico extragiudiziario il magistrato debba necessariamente tornare ad esercitare, per un determinato periodo di tempo, le medesime funzioni giurisdizionali svolte in precedenza, onde evitare che detti incarichi costituiscano, come lo sono attualmente, trampolini di lancio per raggiungere in brevissimo tempo le più alte vette della carriera in magistratura”. “Riformare il Csm, inaccettabile che le carriere dei magistrati sia determinata dalle correnti” di Paolo Comi Il Dubbio, 1 settembre 2022 “Non è accettabile che la carriera di un magistrato non sia determinata dal merito, ma dall’iscrizione a una corrente. E non è pensabile che la magistratura agisca guidata dalle convinzioni politiche e non dal diritto”, afferma il senatore di Italia viva Francesco Bonifazi. Senatore, il ‘Palamaragate’ prima e poi gli impegni presi con Bruxelles per il Pnrr hanno rappresentato una occasione irripetibile per riformare la giustizia. È soddisfatto del risultato ottenuto o pensa si potesse fare di più? No non sono soddisfatto. La riforma Cartabia è l’unica riforma del governo Draghi su cui ci siamo astenuti. La cosa sorprendente è che in un qualunque Paese democratico che si rispetti, di fronte allo scandalo esploso a seguito del ‘Palamaragate’, ci sarebbe stata una reazione fortissima della politica per fare una vera riforma di sistema: invece è stato approvato un pannicello caldo. La riforma Cartabia ha avuto il solo grande merito di superare l’orrore giuridico della riforma Bonafede, senza però toccare le correnti all’interno del Csm. Cosa fare allora? In Aula noi di Italia viva abbiamo condotto una dura battaglia perché si arrivasse al sorteggio dei componenti del Csm: l’unica strada per disarticolare il sistema correntizio. La magistratura associata ritiene che i problemi di organici negli uffici giudiziari dipenda anche dalla decisione, presa all’epoca dal suo governo, di abbassare drasticamente da 75 a 70 l’età pensionabile delle toghe. Che risponde? La decisione del governo Renzi fu e resta sacrosanta. Non si risolvono i problemi di organico allungando l’età pensionabile, ma implementandolo con magistrati giovani e appassionati, magari anche limitando il numero spropositato di magistrati collocati fuori ruolo nei ministeri. Sembra che i problemi di organico scompaiano quando c’è da occupare un posto come capo di gabinetto. Fra l’altro, quella riforma parificava semplicemente l’età pensionabile dei magistrati ad altre categorie come i medici e i professori universitari. Ricordo bene le polemiche di allora, come ricordo quando aveva provato ad allungarla Bonafede per salvare il suo amico e ideologo Piercamillo Davigo. Anche pochi mesi fa ci fu un nuovo tentativo di innalzarla a 72 anni a cui ci siamo opposti con durezza. Le regole che riguardano i magistrati devono essere in linea con quelle delle altre categorie, così anche la loro responsabilità nell’esercizio delle loro funzioni. Il primo provvedimento che andrebbe approvato in tema di giustizia? Se devo sceglierne uno, è la riforma del Csm, ma il mio faro è il referendum sulla giustizia dello scorso giugno. Sette milioni di italiani, di cittadini, pur sapendo che il quorum non sarebbe stato raggiunto, hanno deciso di recarsi alle urne per esercitare il loro diritto: un numero enorme. Quei SI non possono restare inascoltati. Sono un grido di denuncia forte e consapevole che abbiamo il dovere di fare nostro. Il programma del Terzo Polo sulla giustizia è molto netto e orientato al più assoluto garantismo, che in Italia sembra una posizione radicale, ma non rappresenta altro che il rispetto dei principi costituzionali. Lei è un tributarista. Questo mese il Parlamento, anche con il voto di Iv, ha approvato la riforma della giustizia tributaria. Una riforma attesa che però contiene un enorme “conflitto d’interessi”, essendo il Mef, da cui dipendono i giudici tributari, anche parte nel processo con l’Agenzia delle entrate. Fd’I ha già fatto sapere che una volta al governo cambierà la legge... Guardi, lei tocca un tema a me caro conoscendo in prima persona i problemi del processo tributario, quindi la mia visione può differire da alcune decisioni prese. Detto ciò, la sua osservazione è fondata: dovremo prima o poi arrivare a far diventare il giudice tributario un giudice di serie A, il compromesso raggiunto non lo ha consentito. Gli accertamenti tributari hanno un risvolto molto penetrante nella vita delle persone che li subiscono quindi lo Stato deve offrire il massimo della terzierà e della professionalità. Osservo però che Fd’I ha introdotto una modifica estendendo il concorso per i giudici tributari ai laureati in economia, persone degne e preparate, ma non giudici né giuristi, contribuendo a marcare ancora una volta la distinzione tra giudice ordinario e giudice tributario. Inoltre prima o poi dovrà essere introdotto come mezzo di prova la testimonianza orale. Non posso non farle una domanda sul carcere. Siamo già a 57 suicidi dall’inizio dell’anno… Il carcere è tutto da riformare, anche a livello infrastrutturale. Non possiamo avere tutti questi suicidi. Il carcere dovrebbe essere l’ultima ratio e soprattutto dovrebbe essere un ambiente di rieducazione, non disumano e degradante. Invece troppo spesso accade che si abusi della carcerazione preventiva anche per quei reati che non destano particolare allarme sociale e in casi in cui si potrebbero tranquillamente applicare misure non così profondamente restrittive della libertà personale, congestionando inutilmente le carceri. Attenzione poi al tema della mediaticità di alcuni arresti preventivi: si rovinano le vite delle persone per visibilità, trascurando - in alcuni casi - situazioni dove davvero è in ballo la sicurezza delle persone. Processo penale e Covid 19, i chiarimenti su deposito degli atti e richiesta di riesame di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 1 settembre 2022 La Cassazione, sentenze nn. 31770 e 31781 depositate oggi, affronta i casi della mancata allegazione delle conclusioni inviate dalla difesa a mezzo Pec e della richiesta di riesame delle misure cautelari sempre a mezzo Pec. La Cassazione rende alcuni chiarimenti sulla applicazione della disciplina emergenziale emanata nel corso della pandemia da Covid-19. Con la sentenza n. 31770 depositata oggi, i Giudici di legitittimità chiariscono che la mancata allegazione agli atti processuali delle conclusioni inviate dalla difesa a mezzo Pec integra un’ipotesi di nullità generale a regime intermedio. Mentre con la sentenza n. 31781 sempre di oggi, con riguardo alle misure cautelari, viene specificato che è inammissibile la richiesta di riesame trasmessa ad una casella Pec diversa da quella indicata dal provvedimento (del 9 novembre 2020) del Direttore generale dei sistemi informativi del Ministero. La prima decisione prende la mosse dalla conferma da parte della Corte d’Appello di Messina, sentenza del 5 novembre 2021, della condanna del ricorrente per abusivismo edilizio. Secondo l’imputato però la Corte territoriale ha ignorato le conclusioni scritte “tempestivamente depositate”, così violando il suo diritto alla partecipazione al procedimento penale. Le conclusioni, infatti, sarebbero state inviate nei termini previsti tramite Pec, come opportunamente prescritto dal protocollo d’intesa stipulato tra la Corte d’Appello di Messina e il locale Ordine degli Avvocati e pertanto dovevano essere oggetto di valutazione da parte dei giudici del merito. Motivo accolto dalla Terza Sezione penale che ricorda come l’intervento dell’imputato, “cui è riconducibile la facoltà di presentare conclusioni scritte ex art. 23, Dl 28 ottobre 2020 n. 137, deve essere inteso come partecipazione attiva e cosciente al processo”. Mentre, nel caso di specie le conclusioni, spedite all’indirizzo di posta certificata della Corte di appello, “non risultano esaminate dai giudici di secondo grado, i quali nulla hanno motivato in ordine alla normativa regionale che veniva evidenziata in tali conclusioni”. Ragion per cui la sentenza è stata annullata con rinvio per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte di appello di Messina. Nel secondo caso invece nulla da fare per l’imputato ricorrente. Con la decisione n. 31781 infatti la Cassazione ha respinto il ricorso contro il provvedimento del Tribunale di Bologna che aveva dichiarato inammissibile il riesame dell’ordinanza del Gip di Verona in quanto l’impugnazione (proposta il 4 ottobre 2021) era stata inviata a un indirizzo non incluso tra gli indirizzi Pec individuati per la ricezione telematica nel provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati. Era dunque assente uno dei requisiti previsti a pena di inammissibilità dall’articolo 24 della legge n. 176 del 2020 (l’impugnazione era stata inoltrata all’indirizzo riesame.tribunale.bologna@giustiziacert.it. in luogo di quello corretto, depositoattipenali2.tribunale.bologna@giustiziacert.it). La Terza sezione ripercorre la disciplina emergenziale ricordando che, come evidenziato anche dalla rubrica del Dl n. 137 del 2020, essa “è volta a semplificare le modalità di deposito degli atti in conseguenze del diffondersi della pandemia e della conseguente necessità di contenere l’emergenza sanitaria in corso, ricorrendo a un sistema di dematerializzazione del deposito degli atti del processo penale, anche se d’impugnazione”. Il Legislatore, all’articolo 24, comma 6-sexies, ha poi previsto alcune cause espresse di inammissibilità dell’impugnazione proposta al di fuori degli schemi legali delineati, che si aggiungono a quelle stabilite in via generale dall’articolo 591 Cpp. L’atto di impugnazione presentato in via telematica è dunque inammissibile: a)quando non è sottoscritto digitalmente dal difensore; b) quando le copie informatiche per immagine, non sono sottoscritte digitalmente dal difensore per conformità all’originale; c) quando l’atto d’impugnazione è trasmesso da un indirizzo di posta certificata che non è presente nel Registro generale degli indirizzi certificati; d) quando l’atto è trasmesso da un indirizzo di posta elettronica certificata che non è intestato al difensore; e) quando - e d è il caso affrontato oggi dalla Corte - l’atto è trasmesso a un indirizzo di posta elettronica certificata diverso da quello indicato per l’ufficio che ha emesso il provvedimento impugnato dal provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi e automatizzati di cui al comma 4 o nel caso di richiesta di riesame o di appello contro ordinanze in materia di misure cautelari personali e reali, a un indirizzo di posta elettronica certificata diverso da quello indicato per il tribunale di cui all’articolo 309 c.p.p., comma 7, dal provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi ed automatizzati. Tale specifica causa di inammissibilità dunque si riferisce ai casi nei quali il deposito dell’atto di impugnazione avvenga tramite una casella di posta elettronica non indicata nel provvedimento del Direttore generale dei sistemi informativi ed automatizzati. Una giustizia sbilanciata di Paola Piazzi* bandieragialla.it, 1 settembre 2022 Nel marzo 2021 la Regione Emilia Romagna e la Camera Penale di Bologna, su proposta dall’ “Osservatorio diritti umani, carcere e altri luoghi di privazione della libertà personale”, hanno patrocinato la pubblicazione di una guida sintetica per orientarsi negli articoli dell’Ordinamento penitenziario finalizzati a ottenere misure alternative al carcere. La giurisdizione in materia è infatti articolata in quanto prevede benefici differenziati in base al reato commesso e alle condizioni psicofisiche in cui si trova la persona detenuta (es: tossicodipendenza, stato interessante, ecc.). Una guida in questo senso risulta certamente molto utile a chi si trova detenuto affinché possa avviare un percorso di reinserimento sociale, ma lo è anche per chi come cittadino sente parlare di queste misure (magari in relazione a fatti di cronaca) senza sapere esattamente in cosa consistano: Una breve riflessione a premessa può quindi aiutare a meglio comprendere le finalità che stanno alla base di questi provvedimenti. L’immagine che rappresenta e simboleggia la giustizia è dai tempi degli antichi greci una dea bendata che sorregge una bilancia, a richiamare il valore dell’imparzialità e dell’equilibrio nell’emettere la sentenza di condanna, non a caso denominata anche “pena”. In altre parole l’ideale di giustizia viene identificato con la capacità di valutare senza condizionamenti di parte il danno recato, al fine di definire la “giusta pena” che porti sulla stessa linea invisibile i due piatti del reato commesso e della pena inflitta. Posto quindi che una giustizia così esercitata ai comuni mortali non è concessa, in realtà viene da domandarsi se poi rappresenti davvero un ideale. Innanzitutto, perché bendare il soggetto giudicante, ovvero rendere invisibile il contesto, i condizionamenti in cui il fatto delittuoso è avvenuto? E infatti il sistema giudiziario italiano ha introdotto il concetto di attenuanti e la “condizionale” nell’esecuzione della condanna, ovvero elementi che entrano nel gioco del riequilibrio tra i due piatti. L’obiettivo del giudice è quello di arrivare a comminare al reo una pena adeguata ovvero di intensità pari a quella generata nella vittima dal danno arrecatole attraverso un atto delittuoso. Condanna = pena: questa equazione rimanda all’art. 27 della nostra Costituzione laddove si dice che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Mi domando: qualcosa che mi reca dolore (la pena) ha il potere di redimermi, di cambiarmi in meglio o piuttosto non sono alcuni accadimenti o situazioni particolari a cambiarmi, pur dentro ad una condizione di dolore? Viene poi da domandarsi chi possieda il misuratore di pena, di afflizione o di dolore di chi ha subito un danno affinché questo venga risarcito nella giusta misura (non meno perché si tratterebbe di un’ingiustizia, non di più perché si configurerebbe come una sorta di vendetta) e se in questa “misurazione” si tenga in adeguato conto il fattore tempo per giungere alla sentenza finale e definitiva, sia nei confronti delle vittime che aspettano spesso molti anni per venire risarciti o vedere condannato l’esecutore del reato, sia nei confronti del reo che sovente viene arrestato e portato in carcere quando da anni ha avviato un percorso di revisione del suo operato ed è stato reintegrato nel tessuto sociale. Nei miei colloqui con persone detenute spesso sento alcune di loro lamentarsi perché il Magistrato di Sorveglianza, pur trovandosi esse nei termini per ottenere dei benefici o una riduzione della pena, non concedono quanto da loro atteso. Io dico loro che se fosse sufficiente sommare tutti gli elementi numerici previsti dalla legge che concorrono all’ottenimento di un beneficio, non servirebbe un giudice, ma basterebbe un ragioniere oppure un semplice programma informatico, invece quella discrezionalità di valutazione data al Magistrato è garanzia di rispetto dei diritti di tutti i soggetti coinvolti e di tanti elementi che non sono solo di carattere numerico. Come non pensare all’ultimo drammatico caso che ha visto una giovane donna suicidarsi in carcere. Il conoscere di questa donna il nome, Donatella, fa si che sia entrata di fatto nella nostra memoria, mentre una notizia del genere sarebbe passata del tutto inosservata come tutte le altre che riguardano suicidi quasi quotidiani in carcere, se il Magistrato di Sorveglianza che la seguiva non avesse dichiarato la sua responsabilità personale all’interno di un sistema giudiziario che di fatto non risponde in maniera adeguata al dettato costituzionale. Anche la dottrina cattolica per molto tempo ha considerato il dolore, il sacrificio, l’afflizione come un mezzo per diventare migliori (avvicinarsi a Dio), ma Papa Francesco ripete continuamente che solo la misericordia può garantire un’efficace e duratura giustizia sociale. L’ordinamento penitenziario prevede le misure alternative alla detenzione, ovvero un’esecuzione della condanna, quindi della pena, fuori del carcere. Queste misure vengono percepite da molti cittadini come “scorciatoie” del condannato per non pagare il suo debito con la società e nei confronti delle vittime del suo reato, uno sconto della pena ingiusto e irriguardoso del dolore altrui oltre che una minaccia per la sicurezza sociale. La realtà dei dati rilevati (vedi sito del Ministero di Giustizia) ci dice invece che dare opportunità alternative alla detenzione in carcere garantisce a fine pena un miglior reinserimento nel contesto sociale del condannato, questo a tutto vantaggio della qualità complessiva della nostra vita in quanto si riduce la recidiva e la reiterazione dei reati. Come afferma Luciano Eusebi, ordinario di Diritto penale nella Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano nel suo libro “Misericordia: superamento del diritto o dimensione della giustizia?”:ì, “La giustizia che ingloba la misericordia non è la giustizia che rinuncia a vedere il male, ovunque esso si trovi. Piuttosto è la giustizia che rinuncia a volere il male di chi, pure, abbia compiuto del male: che non intende delegittimarsi, dunque, ponendosi sullo stesso piano del male.” Dunque si tratta di continuare in una revisione dell’ordinamento penitenziario e del codice penale che metta al centro la persona sia essa vittima che reo, avendo come riferimento culturale e valoriale una “giustizia sbilanciata” in cui sul piatto dei “rimedi” ai mali commessi sappia mettere non tanto le pene quanto le occasioni di rinascita e di ripartenza. *Socia Cooperativa Sociale “Dai crocicchi” Umbria. Allarme suicidi tra detenuti: il procuratore Sottani visita le carceri Corriere dell’Umbria, 1 settembre 2022 Il procuratore generale, Sergio Sottani, ieri in visita negli istituti penitenziari di Spoleto, Terni e Orvieto dove ha incontrato dirigenti, personale della polizia penitenziaria e delegazioni di detenuti. Il momento è particolarmente delicato anche per l’emergenza suicidi di cui nei giorni scorsi si è fatto portavoce il Garante regionale dei detenuti, l’avvocato Giuseppe Caforio. Durante la visita del procuratore Sottani sono state trattate le problematiche inerenti la sofferenza dell’organico della polizia penitenziaria, il sovraffollamento carcerario, i tempi di definizione dei procedimenti giudiziari quale fattore di disagio nella condizione di detenzione, i colloqui con i familiari dei detenuti dopo l’emergenza Covid oltre alla necessità di un supporto psicologico per questi ultimi. E proprio quello del supporto psicologico nelle carceri è, in questo momento, un tema particolarmente sentito che ha visto, nei giorni scorsi, intervenire pure il presidente nazionale dell’Ordine degli psicologi, David Lazzari. “Se con la riforma della sanità in carcere, il tema del disagio mentale è rimandato ai presidi sanitari e ai colleghi dell’azienda - ha detto Lazzari - la complessità del suicidio rende necessario un lavoro di staff che male si fa con chi è presente poco in termini di ore e di visibilità. Inoltre, per provare a incidere sulle molteplici cause di fatti così gravi è necessario a nostro avviso saper leggere il contesto per agire anche con e sull’organizzazione”. Il disagio psicologico cui sono costretti i detenuti è pure per il garante Caforio la principale causa dei suicidi tra detenuti. Sette quelli che si sono verificati dall’inizio dell’anno negli istituti penitenziari dell’Umbria, l’ultimo risale alla notte tra sabato e domenica quando un 34enne di origini marocchine è stato trovato morto impiccato a Capanne. Disagio psicologico, carenza di organico, sovraffollamento, visite più frequenti dei familiari dei detenuti sono problematiche interconnesse l’una con l’altra. Il procuratore generale Sottani sta cercando di avere un quadro il più possibile veritiero della situazione per individuare, insieme a chi nelle carceri dell’Umbria vive e lavora tutti i giorni, le soluzioni più consone. Ascoli. Tensioni in carcere, trenta detenuti si rifiutano di rientrare in cella di Luigi Miozzi Corriere Adriatico, 1 settembre 2022 Tensione all’interno del carcere di Marino del Tronto. Nella giornata di ieri un gruppo di detenuti ha messo in atto una protesta pacifica e si è rifiutato di rientrare in celle dopo l’ora d’aria. Stando a quanto si apprende, lo stato di agitazione dei detenuti sarebbe scaturito dal fatto che già da tempo i reclusi hanno chiesto un incontro con il comandante degli agenti della polizia penitenziaria per discutere su alcuni aspetti che attengono lo svolgimento di alcune attività all’interno del carcere, la socializzazione e altre richieste che dovrebbero essere valutate dallo stesso comandante e dal direttore del carcere. In questa ottica, una trentina di detenuti rinchiusi nella sezione alta sicurezza da alcuni mesi avrebbero chiesto di conferire con il comandante ma senza ottenere risposta. Da qui, la protesta. Un primo accenno lo si era avuto subito dopo Ferragosto ma in quel caso era subito rientrata dopo che l’ispettore di Polizia penitenziaria che era in servizio e che era intervenuto, aveva informato i carcerati che in quel momento il comandante era in ferie e che al suo ritorno lo avrebbe messo al corrente di quanto accaduto. Per questo motivo, i detenuti avrebbero aspettato alcuni giorni ma ieri è scattata nuovamente la protesta pacifica rifiutandosi di rientrare nelle celle poichè nonostante il comandante sia rientrato in servizio non avrebbe ancora convocato l’incontro. Comandante che, scattato lo stato di agitazione, ha immediatamente informato le autorità preposte tanto che sin dalla mattina davanti al carcere di Marino del Tronto è stata notata la presenza di una pattuglia della polizia. Bergamo. Un kit salvavita anti overdose per i detenuti che escono dal carcere di Federico Rota Corriere della Sera, 1 settembre 2022 È la sperimentazione attuata grazie alla collaborazione tra carcere, Asst Papa Giovanni XXIII e cooperativa di Bessimo, con il sostegno delle Politiche sociali del Comune. Un kit sanitario con all’interno siringhe pulite, salviettine disinfettanti, profilattici, una fiala fisiologica e il farmaco Nyxoid, uno spray nasale a base di Naloxone, principio attivo salvavita in caso di overdose da oppiodi come l’eroina. Ma esistono “pacchetti” analoghi anche per le persone dipendenti dalla cocaina o dall’alcool. È grazie a questi strumenti, all’apparenza semplici, che a Bergamo si sta cercando di ridurre i rischi connessi alle intossicazioni e di garantire assistenza ai detenuti che, nella fase delicata della scarcerazione, hanno bisogno di aiuto socio-sanitario. A ciò risponde il progetto “Esci in sicurezza”, una sperimentazione attuata grazie alla collaborazione tra carcere, Asst Papa Giovanni XXIII e cooperativa di Bessimo, con il sostegno delle Politiche sociali del Comune. L’iniziativa è stata presentata ieri al Drop In della stazione, che da ottobre 2020 accoglie chi vive in condizioni di grave marginalità, in occasione della giornata mondiale di sensibilizzazione contro l’overdose. “Prima s’interviene - sottolinea Elisabetta Bussi Roncalini, responsabile del Serd interno al carcere per l’Asst Papa Giovanni XXIII - maggiore è la probabilità di salvare una persona. Questo farmaco è accessibile, poco costoso e non ha effetti collaterali. Bisogna fare però attenzione ai mix di sostanze. Grazie a questi kit si limita la trasmissione di malattie infettive. Ma è importante garantire anche la prosecuzione dei trattamenti al Serd e la continuità terapeutica per chi esce dal carcere; per questo consegniamo opuscoli con i contatti e i luoghi di accesso ai servizi”. I dati raccolti confermano la bontà delle azioni di sensibilizzazione e di riduzione dei rischi connessi all’overdose. “In passato la nostra equipe interveniva, in media, due volte al mese attorno alla stazione - commenta Marco Delvecchio, coordinatore della cooperativa di Bessimo, ente gestore di Drop In. Ora sono almeno 7 mesi che non si registrano overdose. Alle persone che assistiamo consegniamo lo spray nasale e le informazioni per usarlo”. Tra le iniziative presentate ieri, anche la mostra fotografica “No overdose! #Tisosteniamo”, organizzata in partenariato con la cooperativa Pugno Aperto. “Il contrasto alle dipendenze deve essere messo al centro del dibattito e degli impegni della politica - osserva l’assessore alle Politiche sociali, Marcella Messina. Oggi si parla troppo poco e in modo non sempre competente dei rischi connessi alle droghe. Ma è un tema che tocca fasce sempre più giovani della popolazione. Una corretta informazione è fondamentale”. Venezia. Morte di Maria Teresa “Sissy” Trovato, il gip ordina nuove indagini Corriere del Veneto, 1 settembre 2022 Per la terza volta il gip di Venezia riapre l’inchiesta sul giallo di Maria Teresa “Sissy” Trovato Mazza, la giovane agente di Polizia penitenziaria uccisa da un colpo di pistola alla testa nell’ascensore dell’ospedale civile di Venezia dove si trovava in servizio esterno per verificare la situazione di una detenuta che aveva partorito. Dopo l’udienza di inizio luglio, in cui per l’ennesima volta i famigliari si erano opposti alla tesi della procura di Venezia che sia stato un suicidio, il gip ha respinto richiesta di archiviazione e ordinato nuove indagini sia sul telefonino della donna che sulla dinamica balistica, visto che la perizia di parte dell’ex generale dei Ris Luciano Garofano dimostrerebbe la presenza di un’altra persona. Sissy fu trovata agonizzante l’1 novembre 2016 e rimase in coma fino alla morte, nel gennaio 2019. “Esprimiamo soddisfazione per il provvedimento del gip - commentano i legali - confidiamo che si arrivi alla verità”. Mostra di Venezia: Metamorfosi che il carcere può realizzare di Antonella Barone gnewsonline.it, 1 settembre 2022 Con “Metamorfosi: un canto del mare”, corto di Giovanni Pellegrini, alla 79ma Mostra del Cinema di Venezia arrivano immagini di un carcere lontano dai generi cinematografici e dalla cronaca, quello ancora sconosciuto a parte della società libera. Presentato oggi presso lo spazio Regione Veneto/Veneto film Commission dell’Hotel Excelsior, il documentario racconta come, grazie a un progetto pilota promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, dall’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli e dal DAP, il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria del Ministero della Giustizia, legni di barconi utilizzati da migranti per venire in Italia - siano stati trasformati da detenuti del carcere di Milano Opera in strumenti musicali dal raro valore evocativo. Non nascondono dietro laccature e levigature il loro passato, ma portano i segni della salsedine, raccontano viaggi verso un futuro migliore, a volte mai giunti a destinazione. Alcuni di questi strumenti costituiranno il primo quartetto d’archi che suonerà una sinfonia appositamente composta dal maestro Nicola Piovani. “Il carcere ha tanti volti, ai più sconosciuti - ha commentato il Capo Dipartimento Carlo Renoldi - Questa preziosa occasione qui alla Mostra del Cinema di Venezia per il progetto Metamorfosi, di cui siamo particolarmente orgogliosi, evidenzia, alla società libera, un carcere impegnato nella promozione delle persone detenute. L’attività della liuteria offre infatti un lavoro qualificante e autenticamente riabilitativo, come devono essere tutti i percorsi di reinserimento avviati all’interno degli Istituti. Il progetto ha anche un grande valore simbolico perché i violini sono realizzati con i legni dei barconi su cui i migranti cercavano una nuova vita attraverso il lavoro. Raccontare anche questo aspetto contribuisce ad accendere nuova luce su un mondo che è parte della nostra Repubblica”. All’incontro di oggi, moderato dal giornalista Andrea Pancani, erano presenti - insieme al Capo DAP, al Direttore Generale delle Dogane e Monopoli, Marcello Minenna, e al presidente della Casa dello Spirito e delle Arti, Arnoldo Mosca Mondadori, il sindaco di Lampedusa, Filippo Mannino, e il regista del corto, Giovanni Pellegrini. Gli altri protagonisti del progetto, i detenuti del laboratorio di liuteria del carcere di Opera narrano invece nel documentario un’esperienza fatta anche di tante emozioni: “In fondo ai barconi abbiamo trovato anche scarpette di bambini, fischietti attaccati a giubbotti di salvataggio e altri oggetti che ci hanno fatto pensare ai tanti che non ce l’hanno fatta. Per noi è stato un viaggio nel viaggio” racconta Andrea. “L’inattività ti distrugge - dice Vincenzo - non fai altro che pensare. Così invece hai un mestiere e la mattina non vedi ora di scendere in liuteria e iniziare a lavorare”. Utilizza una metafora poco retorica, ancora Andrea per cogliere uno dei significati del progetto: “La fine dei legni sarebbe stata di essere smaltiti come rifiuti speciali, un po’ come per certa parte dell’opinione pubblica vede noi detenuti. Invece come i legni potremmo essere convertiti in materia prima secondaria. Se qualcuno è riuscito a dare una nuova vita a questi relitti, anche noi nel tempo riusciremo a trovare una collocazione più idonea”. “Intendiamo estendere questo progetto - ha concluso Renoldi - perché ci ha consentito, attraverso l’attività dei tanti testimonial e l’attenzione della stampa estera, di mostrare uno dei percorsi attuati all’interno delle nostre carceri che meglio esprime il finalismo rieducativo della nostra Costituzione, la più bella del mondo, della quale come italiani dobbiamo essere particolarmente orgogliosi.” Il progetto “Metamorfosi”, è stato insignito della Medaglia del Presidente della Repubblica Italiana per l’alto valore sociale e di legalità di cui è portatore. Diventano un film i violini dei detenuti realizzati con il legno dei migranti di Luca Cereda vita.it, 1 settembre 2022 “Al lavoro speciale della Casa di detenzione di Opera a Milano, impegnato nella trasformazione del legname delle imbarcazioni dei migranti recuperato a Lampedusa in strumenti musicali, la medaglia del capo dello Stato per l’alto valore sociale e di legalità di cui è portatore”, ha scritto il Presidente. La storia del progetto è ora raccontata da un documentario, presentato alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia Sergio Mattarella ha premiato, per l’alto valore sociale e di legalità di cui è portatore, il progetto “Metamorfosi”, promosso dalla Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, dall’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli e dal Dipartimento Amministrazione Penitenziaria. Nato nel carcere di Opera, grazie al direttore Silvio Di Gregorio, e sostenuto dalla Fondazione Cariplo, è un progetto pilota a livello nazionale di economia circolare e di prospettiva di reinserimento sociale. Esso si propone di riutilizzare il legname dei barconi dei migranti, recuperato nell’isola di Lampedusa, e di trasformarlo, nei laboratori di liuteria e falegnameria del carcere milanese di Opera, in strumenti musicali - violini, viole e violoncelli -, alcuni dei quali costituiranno il primo quartetto d’archi che suonerà una sinfonia appositamente composta dal maestro Nicola Piovani. In occasione della premiazione, il Presidente della Fondazione Casa dello Spirito e delle Arti, Arnoldo Mosca Mondadori, ringraziando il presidente Mattarella, ha sottolineato come il progetto voglia “porre al centro la memoria per ogni persona migrante morta in mare e la necessità di promuovere oggi una cultura dell’accoglienza”. Il Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi, ha poi spiegato che esso “evidenzia, alla società libera, un carcere impegnato nella promozione delle persone detenute. L’attività della liuteria offre infatti un lavoro qualificante e autenticamente riabilitativo, come devono essere tutti i percorsi di reinserimento avviati all’interno degli Istituti”. Il Direttore Generale di ADM, Marcello Minenna, infine, ha concluso sottolineando come questo riconoscimento sia “motivo di orgoglio per tutte le donne e gli uomini dell’Agenzia delle Accise, Dogane e Monopoli che operano spesso in condizioni difficili con grande impegno e professionalità”. Il processo di trasformazione del legno delle imbarcazioni è stato illustrato e raccontato nel cortometraggio “Metamorfosi: un canto del mare”, che sarà proiettato in occasione della 79.ma Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Migranti. Blitz di Salvini a Lampedusa: “Hotspot indegno di un paese civile” Il Dubbio, 1 settembre 2022 Il leader della Lega, Matteo Salvini, è tornato a Lampedusa a sorpresa, appena tre settimane dopo l’ultima visita nell’isola. E l’ha fatto denunciando le condizioni dell’hotspot che accoglie centinaia di migranti in più rispetto alla capienza. E non manca, anche stavolta, una polemica con la presidente di Fd’I, Giorgia Meloni. “C’è una ondata di immigrazione clandestina come mai negli ultimi anni e non è sopportabile - ha detto Savini - I decreti di sicurezza possono essere rimessi in vigore adesso, non capisco perché occorre inventarsi robe che non si sono mai applicate”. l riferimento è alla proposta del blocco navale, arrivata più volte da Meloni. “Dove non ci sono regole non è accoglienza - ha scandito durante una diretta - La clandestinità è un reato che va contrastato e io l’ho dimostrato da ministro: torneremo a esser un paese accogliente con chi lo merita. Salvini, che era già in Sicilia da un paio di giorni, ha fatto una sorta di toccata e fuga, un blitz condiviso con i suoi follower. “A Lampedusa la situazione resta drammatica: difficili condizioni igienico- sanitarie, donne e bambini, sporcizia, posti letto insufficienti - continua il numero uno del Carroccio - È semplicemente vergognoso, un paese civile accoglie chi ha diritto di essere accolto: l’immigrazione è un fenomeno che può essere controllato e noi abbiamo dimostrato che contrastare il traffico di esseri umani è possibile”. Il leader di via Bellerio ha anche fatto visita alle forze dell’ordine, ringraziate poi nella diretta. “Quella che è alle mie spalle non è accoglienza, non è solidarietà, nonostante lo sforzo di associazioni, poliziotti, finanzieri e carabinieri - ha aggiunto - È un deposito, una roba indegna di un paese civile, quei bimbi non dovrebbero essere lì per terra”. Di immigrazione ha parlato ieri anche Carlo Calenda, leader del terzo polo. “Basta con il bipopulismo porti aperti - porti chiusi ha sottolineato il segretario di Azione - I confini vanno presidiati e le rotte di immigrazione illegale chiuse, ma chi è in Italia va integrato e occorrono flussi regolari e selezionati: parliamo di immigrazione seriamente”. Michail Gorbaciov, il liberatore più odiato di Giuliano Ferrara Il Foglio, 1 settembre 2022 Distrusse l’autoritarismo sovietico con le parole d’ordine della riforma e della libertà. Finì vittima dei radicali, ma il disprezzo che gli riservò il popolo a cui restituì dignità e onore è un mistero. Ci vorranno biblioteche intere di storiografia, trattati poderosi di antropologia politica, corpose analisi freudiane e junghiane ispirate alla curiosità per il sottofondo della mente umana e per gli archetipi dell’anima, ci vorranno inchieste letterarie direttamente derivate dalla pietas latina e dall’epica greca per spiegare l’inspiegabile: il disamore, perfino l’odio dei russi per Michail Gorbaciov. Garibaldi, il più disordinato e inconsapevole creatore dell’Italia unita, un confusionario d’impeto in camicia rossa, è onorato in ogni piccola comunità, eccetto che da minoranze borboniche. Napoleone Bonaparte riposa agli Invalides ed è celebrato come perenne homme fatal del destino francese malgrado i lutti e le ondate di guerra che scombussolarono Francia ed Europa. I monumenti a Churchill sono sverniciati dagli adepti settari della cancel culture, ma solo perché la sua memoria popolare torreggia con i suoi sigari e i suoi bicchieri di whisky di unico e inflessibile avversario di Adolf Hitler. Lincoln se ne sta seduto nel suo marmo candido e guarda Washington con la crudele benevolenza del discorso di Gettysburg che chiuse la sanguinosa guerra civile. Gandhi è il nome chiave dell’India moderna e della sua retorica, nonostante i grandi cambiamenti nei decenni. Ci sono cose in cui i grandi creatori di storia hanno fallito, altre in cui sono riusciti, prezzi immensi che hanno fatto pagare a popoli e nazioni, ci sono i loro difetti, lo spirito tirannico, gli errori belluini, le conseguenze inattese, e contano alla fine i risultati finali che si chiamano libertà, indipendenza, unità e visione di una vita migliore per l’ispirazione delle generazioni. I russi disamorati di Gorbaciov vivevano prima di lui nel sottomondo ossessivo descritto da Grossman in “Vita e destino”. Perfino nell’epopea vittoriosa della guerra patriottica contro l’invasore nazista, seguita a tutti gli equivoci di una iniziale collaborazione fra i totalitarismi, il loro stigma era la sottomissione, la delazione, la purga del dissenso, la confessione falsa, l’inimicizia obliqua in una boscaglia sociale disadattata alla vita libera, il dubbio esistenziale sistematico, la corruzione fino al cuore dell’amore e della famiglia e dell’amicizia, la tortura, il Gulag, una sequela di miti tirannici e imperiali che veniva dal tempo lontano degli zar, per non dire delle invasioni mongole, e si era riprodotta dopo secoli, eguale e piatta, con la rivoluzione dei bolscevichi e con i suoi esiti sovietici. Prima di Gorbaciov c’era la corsa agli armamenti, c’era un orgoglio nazionale di cartapesta, c’erano la guerra e la Guerra fredda, la chiusura delle frontiere, l’oppressione costosa e vile di mezza Europa, un’eguaglianza livellatrice e forzata che sapeva di miseria e di azzeramento della libertà di consumo e di movimento per tutti, salvo per le oligarchie degli apparati e del partito unico, c’era la cultura ufficiale derelitta, l’uso partitico delle idee, l’arte di regime, la funzione esornativa degli intellettuali sfuggiti all’eccidio staliniano, c’era la censura, mancavano la libertà di espressione, di associazione, di proprietà di se stessi e della propria vita individuale. L’Unione sovietica, come aveva capito Yuri Andropov, capo del Kgb, potente occhio assoluto sulla storia sovietica e bolscevica, sulla società russa e delle repubbliche federate, sugli usi e costumi del popolo e sui suoi bisogni, era diventata un caos decadente travestito da stabilità, un sistema senza responsabilità e libertà che non reggeva più il confronto con l’occidente europeo e americano, che non produceva energia né slancio alcuno, una eterna notte di morti viventi. Fu Andropov a indicare Gorbaciov, russo caucasico di cinquantaquattro anni, la mascotte del Politburo, uno dell’apparato e non un campione dell’inesistente società civile, come unico successore all’altezza della tragedia. E in sei anni di destino Gorbaciov attuò l’unico programma possibile: distruggere tutto con le parole d’ordine della riforma e della libertà. Diede ai popoli dell’Urss la fine della galera in cui erano rinchiusi, li fece evadere, li mise di fronte alle loro responsabilità verso se stessi e il mondo, accettò unificazione tedesca e caduta del Muro di Berlino, non mosse un dito contro la ritrovata indipendenza dell’Europa centrale e orientale e dei Baltici e dell’Ucraina e della Bielorussia e degli stan asiatici, tutte nazioni forzate a un’unione produttiva solo di un falso onore politico, di un falso primato mondiale, un mondo disseminato di piccole spie e di polizie politiche arcigne, il mondo dei commissari Gletkin, del buio a mezzogiorno, di un esercito impantanato come tutti prima e dopo di esso nel tragico Afghanistan. Altro che Pizza Hut, dialogo internazionale antiatomico, indizi di economia di mercato, fu la resurrezione miracolosa di un fantasma inaudito per i russi, la libertà civile, la fine dell’autoritarismo centralizzato, la liberazione dei Sacharov, la riabilitazione dei Solgenitsin, l’uscita dal carcere di centinaia di migliaia di prigionieri politici, un tentativo di restituire alla propria autonomia le istituzioni della società, della cultura, i giornali, le tv, i libri usciti dall’Indice dei proibiti. E tutto questo in nome di una possibile creazione di una classe media e di una mobilità sociale fondata su investimenti e lavoro, su proprietà individuale ed economia di sviluppo, consumi e avanzamento tecnico e scientifico. Il meccanismo era divoratore, non si poteva riformare l’irriformabile, Gorbaciov fu inghiottito dall’ala conservatrice e dall’ala radicale, che la ebbe vinta infine, come prevedibile, sulle sue incertezze, e vorrei vedere, e alla fine se lo mangiò in un sol boccone con la dissoluzione dell’Unione sovietica da lui promossa consapevolmente anche se non voluta o prefigurata, a parte le conseguenze inattese di un’opera di destabilizzazione travolgente del male organizzato. Le cose poi sono andate nel peggiore dei modi, come sempre quando sono i radicali a mettersi la storia sulle spalle, e ne è venuta la peggiore restaurazione possibile. Che ha fomentato ed è stata fomentata da questo incomprensibile o fin troppo comprensibile disamore, da questo odio per l’uomo che aveva liberato i popoli sovietici dalla cortina di ferro che li divideva dal mondo libero, e aveva restituito loro dignità e onore. La morte di Gorbaciov. Ciao amico mio, portatore di pace di Dmitrij Muratov La Stampa, 1 settembre 2022 Lui disprezzava la guerra. Lui disprezzava la real politik. Era convinto che il tempo in cui l’ordine mondiale poteva venire dettato dalla forza fosse finito. Credeva nelle scelte dei popoli. Aveva liberato i detenuti politici. Aveva fermato la guerra in Afghanistan e la corsa al riarmo nucleare. Mi aveva raccontato di essersi rifiutato di schiacciare il bottone dell’attacco atomico perfino durante le esercitazioni! Aveva visto i filmati dei test nucleari nei quali il fuoco divorava tutto, case, mucche, pecore, uguali alle pecore della sua Stavropol, delle quali andava tanto fiero. Aveva amato una donna più del suo lavoro. Penso che non avrebbe mai potuto abbracciarla con mani sporche di sangue. Lui non considerava l’omicidio un atto nobile. Aveva dato al comunismo un addio senza sangue. I nostalgici dell’impero continuavano a rimproverargli di aver “dato via” la Germania, la Cechia, la Polonia. Lui replicava con inimitabile sarcasmo: “A chi li avrei dati? La Germania ai tedeschi. La Polonia ai polacchi, la Cechia a cechi. A chi altri avrei dovuto darle?”. Qualche anno più tardi, durante una discussione per la Novaya Gazeta sulle nuove dittature, mi disse all’improvviso: “Scrivitelo, così ce lo ricordiamo: un dittatore deve avere una regola, quella di tenere sempre in un aeroporto segreto un aereo con il serbatoio pieno…”. Il suo humour nero era sempre molto indovinato. Un giorno, un paio d’ anni fa, scrisse una relazione molto importante per le Nazioni Unite, che decise di leggerci a una tavolata tra amici. Quando avevamo già sollevato i bicchieri per un brindisi, aveva tirato fuori dalla cartella uno spesso pacco di fogli. Noi ci eravamo preparati educatamente ad ascoltare… ma la prima pagina recava una sola frase: “Proibire la guerra”! “Tutto qui?”, chiedemmo. “E cos’altro bisognerebbe dire?” ci rispose, e ci permise di iniziare a bere. Tra la pace e l’esplosione nucleare non si interpone più un uomo di nome Gorby. Chi potrà sostituirlo? Chi? Ricordiamocelo sempre: ha amato una donna più del lavoro, ha posto i diritti umani sopra lo Stato, ha preferito un cielo di pace al potere personale. Ho sentito dire che è riuscito a cambiare il mondo, ma non il proprio Paese. Può darsi. Ma lui ha fatto, al suo Paese e al mondo, un regalo incredibile. Ci ha regalato trent’anni di pace. Trent’anni senza la minaccia di una guerra globale e nucleare. Chi altri ne sarebbe stato capace? C’è un ma. Il regalo è finito. Il regalo non c’è più. E nessuno ci regalerà più nulla. Arabia Saudita. Nuovo record di MbS: condannata a 45 anni per post su Twitter di Chiara Cruciati Il Manifesto, 1 settembre 2022 Nourah bint Saeed al-Qahtani accusata di aver attentato alla fabbrica sociale con l’uso di internet. Solo l’ultimo caso di repressione, mentre spunta il video di un pestaggio ai danni di un gruppo di donne da parte della polizia. Nel regno criminalizzata ogni realtà che si discosta dal “cittadino perfetto”, l’uomo saudita sunnita. È già stato battuto il record di 34 anni di prigione per post critici del regime saudita, comminati alla dottoranda della Leeds University e attivista Salma al-Shebab a inizio agosto. Una corte anti-terrorismo del regno dei Saud ha condannato Nourah bint Saeed al-Qahtani a 45 anni di carcere con l’accusa di “utilizzare internet per distruggere la fabbrica sociale” e di “violare l’ordine pubblico usando i social media”. Una mannaia si è abbattuta sulle donne saudite, e sulle attiviste in particolare, nel corso degli ultimi anni: arresti, lunghe detenzioni condite di torture e abusi sessuali, processi-farsa che il regime di Riyadh prova a mitigare con esili aperture (il diritto di guidare o quello di viaggiare senza il permesso del guardiano) e ricevendo da visite internazionali ai massimi livelli il beneplacito a proseguire (il viaggio di Joe Biden dello scorso luglio docet). Di al-Qahtani si sa poco: l’associazione saudita Dawn (Democracy for the Arab World Now, fondata dal giornalista Jamal Khashoggi, fatto a pezzi da una hit squad saudita nel consolato di Istanbul nell’ottobre 2018) fa sapere di essere venuta a conoscenza del caso solo dopo aver ottenuto il suo fascicolo da fonti interne al tribunale: “Le accuse contro di lei sono molto ampie. Usano la legge anti-terrorismo e la legge anti-cybercrime che criminalizzano ogni post che è anche solo lontanamente critico del governo”. “Nel caso di al-Qahtani - ha poi aggiunto il direttore di Dawn, Abdullah Alaoudh - le autorità saudite l’hanno imprigionata solo per aver twittato le proprie opinioni”. Preoccupazione la esprime anche l’ong saudita Alqst: “Come temevamo, stiamo assistendo a un allarmante deterioramento della situazione dei diritti umani in Arabia saudita”. Nel mirino degli attivisti sauditi c’è anche l’amministrazione Biden e quel Partito democratico che negli anni di presidenza Trump aveva esercitato pressioni con pochi precedenti perché venissero rivisti aiuti militari e accordi commerciali con un regime libertidica. Una volta alla Casa bianca, però, ha restituito a un decadente principe Mohammed bin Salman la legittimità necessaria ad agire indisturbato. Lunedì il Dipartimento di Stato Usa era intervenuto sul caso di al-Shebab ribadendo di aver reso chiaro all’alleato “che la libertà di espressione è un diritto umano universale”. Non devono aver capito. La condanna abnorme di al-Qahtani giunge pressoché in contemporanea con un altro fulgido esempio di repressione del dissenso. Un caso che sta invadendo i social media sauditi grazie a un video rubato e reso pubblico martedì: agenti della polizia morale sauditi, spalleggiati da uomini in abiti civili, prendono a bastonate e a cinghiate un gruppo di donne nell’orfanotrofio femminile di Khamis Mushait, nella provincia di Asir. Tra loro - nota su Twitter Ali Al Ahmed, noto analista saudita, fondatore e direttore dell’Institute for Gulf Affairs - si riconosce Mohamed Yahia Al Binawi, capo della polizia della città. La “colpa” di quelle donne: aver iniziato uno sciopero della fame per protestare contro le condizioni di vita nell’orfanotrofio. Al video e alla rabbia di saudite e sauditi esplosa sui social, le autorità hanno risposto annunciano l’apertura di un’inchiesta. Ma il problema resta: il regime ha intensificato la repressione di qualsiasi forma di dissenso, vero e presunto, e di realtà che si discostano dal modello di “perfetto cittadino” del regno, l’uomo saudita sunnita. La spirale risucchia donne, migranti, sciiti, giornalisti. Gaza. Israele non gli rilascia il permesso per uscire e curarsi: Farouq, 6 anni, muore di Michele Giorgio Il Manifesto, 1 settembre 2022 Dal 2008 è successo 839 volte. L’Oms riferisce che tra il 2008 e il 2022, circa il 30% dei permessi dei pazienti è stato negato o ritardato e i richiedenti non hanno ricevuto la risposta definitiva entro la data della loro convocazione in ospedale. Di questi, il 24% erano malati di cancro e il 31% erano bambini. La Salah Edin Road che attraversa la Striscia di Gaza da nord a sud già da qualche anno si è trasformata in una superstrada ampia nel tratto che va dal capoluogo Gaza city a Khan Yunis. Gli automobilisti la percorrono a velocità sostenuta e i taxisti si esibiscono in frenate improvvise per raccogliere i potenziali clienti in attesa lungo la strada. La Salad Edin è un fiore all’occhiello del Qatar che con le sue generose donazioni funge da bombola d’ossigeno per questo pezzetto di territorio palestinese. Invece nella stradina del rione Maan a Khan Yunis, dove abitano Ashraf e Khulud Abu Naja, non c’è neppure l’asfalto. Solo terra e sabbia. È una delle aree più povere della città. “Qui, fuori casa, giocava anche il mio Farouq - ci dice Khulud Abu Naja raccontandoci l’inizio della malattia del figlio - fino all’età di tre anni era un bimbo sano, poi un giorno ha cominciato a lamentarsi, aveva dolori alla gamba destra. Da allora è stato l’inferno, la sua crescita si è bloccata ed è peggiorato mese dopo mese. L’ho visto spegnersi lentamente”. Farouq Abu Naja, 6 anni, è morto il 25 agosto. Da mesi attendeva il permesso delle autorità israeliane per attraversare il valico di Erez e recarsi all’ospedale Hadassah Ein Kerem di Gerusalemme dove avrebbe dovuto ricevere le terapie adatte per la sua malattia, sconosciute a Gaza dove il sistema sanitario, tra offensive militari israeliane - l’ultima è di un mese fa e ha fatto 49 morti tra cui diversi bambini - e la mancanza di risorse, è vicino al collasso. Khulud, 29 anni, porta il niqab. Il lungo velo nero le lascia scoperti solo gli occhi. Il capo chino trasmette ugualmente le sue emozioni e il dolore di una mamma che ha perso da poco il suo bambino. Il marito Ashraf è silenzioso, con lo sguardo talvolta perso nel vuoto. A consolare entrambi è la figlia, la sorellina di Farouq, che gioca sugli scalini di casa. “Lei per fortuna è sana, non ha alcun problema” precisa Khulud, che poi tace per qualche secondo, per ascoltare la voce della figlia. La coppia non è in grado di dirci la diagnosi precisa fatta dai medici e il nome della malattia che ha ucciso il loro bambino. Ashraf ci mostra la cartella clinica rilasciata dall’Ospedale Europeo di Khan Yunis in cui si parla genericamente di “regressione dello sviluppo” di una “grave patologia neuromuscolare”. Nella stanza scende il silenzio. “Vogliamo altri figli ma temiamo che ci sia qualcosa di genetico dietro la morte di Farouq. Mia moglie ed io siamo cugini di primo grado”, interviene Ashraf. “Se un giorno avrò i mezzi andrò in Egitto, per fare dei test approfonditi” promette l’uomo. Gli Abu Naja hanno fatto di tutto per curare il bambino malgrado siano privi di mezzi. Farouq, affermano, poteva essere curato ma aveva bisogno di cure specialistiche costose e avanzate. E all’ospedale israeliano Hadassah si erano detti disposti a praticarle. A coprire le spese sarebbe stato il ministero della sanità dell’Autorità nazionale palestinese. Il bimbo però all’Hadassah non è mai arrivato, non ha mai ottenuto il permesso delle autorità israeliane per uscire dalla Striscia di Gaza. La sua morte ha riportato i riflettori sui casi di palestinesi, gravemente ammalati, inclusi i bambini, che restano bloccati, talvolta per mesi, prima di poter lasciare la Striscia o che non ottengono mai il via libera. A Gaza, dove vivono oltre 2,2 milioni di palestinesi, la chemioterapia, la radioterapia e le scansioni Pet/Tc non sono disponibili. Ciò lascia i pazienti che hanno bisogno di farmaci salvavita senza altra scelta che cercare cure all’estero, il più delle volte in Giordania. L’Oms riferisce che tra il 2008 e il 2022, circa il 30% dei permessi dei pazienti è stato negato o ritardato e i richiedenti non hanno ricevuto la risposta definitiva entro la data della loro convocazione in ospedale. Di questi, il 24% erano malati di cancro e il 31% erano bambini. L’Oms registra anche gli 839 decessi di pazienti mentre aspettavano una risposta per il permesso da Israele tra il 2008 e il 2021. Ed è altrettanto significativo che nello stesso periodo il 43% dei bambini ammalati ha lasciato Gaza senza i genitori bloccati dalle autorità israeliane. Israele smentisce categoricamente di negare il diritto alla salute dei palestinesi di Gaza. E sottolinea che spesso sono proprio i suoi ospedali ad accogliere bambini e adulti palestinesi bisognosi di assistenza medica ad alta specializzazione. “La realtà dei permessi però è davanti agli occhi di tutti”, replica una rappresentante di Al Mezan, la ong di Gaza per i diritti umani, rappresentante legale di Farouq, che nei giorni scorsi ha denunciato quanto è accaduto al bambino di Khan Yunis. “Le richieste di permesso di uscita dei pazienti - prosegue - presentate alle autorità israeliane il 12 gennaio 2022 e il 10 agosto 2022 sono rimaste in fase di revisione. Questo ritardo ha portato a un grave deterioramento delle condizioni di Farouq che è spirato giovedì 25 agosto”. Al Mezan denuncia anche che dall’inizio del 2022 quattro pazienti palestinesi, inclusi tre bambini, sono morti a causa del rifiuto o del ritardo del rilascio del permesso di uscita: “La vicenda di Farouq è un altro esempio della violazione da parte di Israele del diritto internazionale umanitario e dei diritti umani e dei suoi obblighi in quanto potenza occupante, in particolare quello di rispettare e garantire la libertà di movimento nei Territori occupati e di garantire il diritto alla salute della popolazione occupata…Ritardare l’accesso alle cure mediche necessarie per un bambino per più di cinque mesi è ingiustificato e grave”, si legge nella denuncia. Al Mezan sottolinea che l’ottenimento del permesso non esclude il maltrattamento dei pazienti al valico di Erez. Non pochi vengono rimandati a casa per “motivi di sicurezza”. Khulud Abu Naja non riesce a farsene una ragione. “Perché non hanno lasciato passare mio figlio, che male poteva fare un bimbo di sei anni” dice con un filo di voce allargando le braccia. L’Onu accusa la Cina per gli uiguri prigionieri nello Xinjiang: possibili crimini contro l’umanità di Gianluca Modolo La Repubblica, 1 settembre 2022 Il rapporto dall’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani: “Gravi violazioni sono state commesse”. L’ira di Pechino. In extremis, undici minuti prima della scadenza del suo mandato, dopo settimane di “enormi pressioni” Michelle Bachelet ha pubblicato il tanto atteso rapporto dell’Onu sul Xinjiang. Accusando Pechino. “Gravi violazioni dei diritti umani sono state commesse. La detenzione arbitraria e discriminatoria degli uiguri e di altri musulmani nella regione del Xinjiang potrebbe costituire un crimine internazionale, in particolare un crimine contro l’umanità”, scrive la commissaria per i diritti umani delle Nazioni Unite nelle 48 pagine del report. Per quanto il documento non contenga alcuna nuova rivelazione rispetto a quanto era già emerso in questi anni da altre inchieste internazionali, la sua pubblicazione è rilevante perché le accuse a Pechino stavolta portano il sigillo dell’Onu. “Le accuse di pratiche ricorrenti di tortura o maltrattamenti, comprese le cure mediche forzate e le cattive condizioni carcerarie sono credibili, così come le accuse individuali di violenza sessuale e di genere”, si legge. Nessun riferimento, invece, al termine “genocidio”, come invece gli Usa hanno bollato le azioni del governo cinese nella regione occidentale del Paese. “Meglio tardi che mai: questo rapporto espone le massicce violazioni dei diritti umani da parte della Cina”, commenta Sophie Richardson, responsabile per la Cina dell’ong Human Rights Watch. Bachelet era stata accusata da gruppi di difesa dei diritti umani ed esperti accademici di essere troppo morbida con Pechino dopo la controversa visita in Cina che fece nel Xinjiang a maggio. “Le conclusioni schiaccianti dell’Alto commissario spiegano perché il governo cinese ha lottato con le unghie e con i denti per impedirne la pubblicazione, che mette a nudo gli abusi dei diritti da parte della Cina”, continua Richardson. “Ora il Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite dovrebbe utilizzare questo rapporto per avviare un’indagine completa sui crimini contro l’umanità del governo cinese”. Il lungo ritardo (un anno) nella pubblicazione del rapporto potrebbe rendere però più difficile l’impresa. C’è poco tempo per i governi e le ong di costruire una risposta solida in seno al Consiglio per i diritti umani, che inizia la sua ultima sessione dell’anno tra 12 giorni. Pechino aveva ricevuto una copia del rapporto - come da prassi - ed è subito andata all’attacco. “Il rapporto si basa sulla presunzione di colpevolezza, utilizza informazioni false ed è una farsa pianificata dagli Stati Uniti, dalle nazioni occidentali e dalle forze anti-Cina”, ha dichiarato Liu Yuyin, portavoce della missione permanente Onu a Ginevra. Che ha pubblicato - in risposta - un documento di 121 pagine dove si sottolinea la minaccia del terrorismo e la stabilità che il programma statale di “de-radicalizzazione” e di “centri di istruzione e formazione professionale” ha portato nel Xinjiang. Le organizzazioni per i diritti umani e varie inchieste internazionali sostengono che almeno un milione di persone siano state imprigionate in campi di internamento per combattere l’estremismo religioso, subendo torture e costrette ai lavori forzati. In concomitanza con l’inizio del viaggio nella regione di Bachelet a maggio, un consorzio di 14 media internazionali (tra cui L’Espresso), pubblicava nuovi scioccanti dettagli sulla persecuzione nei confronti della minoranza musulmana degli uiguri: gli Xinjiang Files. Migliaia di foto e documenti hackerati dai server della polizia cinese, discorsi classificati di alti funzionari, manuali interni di polizia, dettagli sull’internamento di oltre 20mila uiguri e fotografie di luoghi altamente sensibili. “I file rivelano, con dettagli senza precedenti, l’uso da parte della Cina dei campi di rieducazione e delle prigioni. Le prove più solide finora emerse di una politica che prende di mira quasi tutte le espressioni dell’identità, della cultura o della fede islamica, e di una catena di comando che arriva fino al leader cinese Xi Jinping. Per chi cerca di fuggire, l’ordine è quello di sparare per uccidere”