Scusate il disturbo di Massimo Gramellini Corriere della Sera, 18 settembre 2022 Il destino di chi marcisce in carcere, si sa, interessa solo ai soliti pochi. Quindi solo ai soliti pochi interesserà sapere che Roberto Vitale, un detenuto di ventinove anni condannato per rapina, è morto ieri in un ospedale di Palermo senza avere mai ripreso conoscenza, dopo che nei giorni scorsi aveva tentato di togliersi la vita appendendosi con un lenzuolo alle sbarre della sua cella. Roberto Vitale aveva un padre ex poliziotto che, nelle ore in cui il figlio entrava in corna, ha scritto una lettera dilaniata e dilaniante all’associazione Antigone. Racconta di come Roberto fosse distrutto per la mancanza di sostegno medico e per il caldo torrido, a cui non avevano potuto ovviare le scarse bottigliette d’acqua che era riuscito a procurarsi con il denaro passatogli dalla famiglia, pagandole a peso d’oro. E di come fossero stati gli altri detenuti, anziché le guardie, a soccorrerlo al momento del tentato suicidio. Un padre disperato non si-giudica, si ascolta e basta, ma chissà se adesso qualcun altro, oltre ai soliti pochi, comincerà a trovare sconvolgente che dall’inizio dell’anno, nelle carceri italiane, di persone come il figlio del signor Vitale ne siano già morte più di sessanta. Che, in barba all’articolo 27 della Costituzione, le pene non tendano alla rieducazione, ma alla rimozione del reo. E che la pena di morte non sia ammessa; ci mancherebbe, ma troppi vengano posti nelle condizioni di autoinfliggersela. Gli Spielberg italiani di Tommaso Marvasi La Discussione, 18 settembre 2022 Monsignor Vincenzo Paglia, arcivescovo presidente della Pontificia Accademia per la vita e Gran cancelliere del Pontificio Istituto Giovanni Paolo II, lo scorso mercoledì 14 settembre ha pubblicato su Il Riformista un poderoso articolo, un appello anzi: “Carceri incivili, liberate 4000 detenuti condannati a meno di due anni”. L’occasione dell’articolo era dato dall’ennesimo suicidio in carcere - segno di una situazione che è diventata intollerabile per un Paese civile e per uno Stato di diritto - e dalla considerazione di Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private di libertà, sull’illegale e tragico sovraffollamento delle carceri e sulla inutilità del tempo detentivo: “Ci sono in carcere circa 1.300 persone che devono scontare pene inferiori a un anno e circa 2.500 con una pena tra uno e due anni. Per queste persone il tempo è totalmente vuoto. Spesso stanno lì perché non hanno il domicilio o l’assistenza legale, appartengono a una povertà complessiva. Se riuscissimo a portarle in altre strutture territoriali di controllo e supporto si abbasserebbero anche i numeri del sovraffollamento». Vi assicuro, miei affezionati quaranta lettori: si tratta di un articolo che è utile leggere. Non tanto per l’attualità del problema, quanto per l’inquadramento dello stesso in un contesto sociale drammatico, esaminato anche sotto un profilo culturale che pone la Chiesa cattolica in una posizione di assoluta avanguardia e capace di suscitare lo “scandalo” della rivoluzione predicata da Cristo. “Il cristianesimo dà una importanza fuori del comune non solo alla visita ma addirittura alla liberazione dei carcerati. È una richiesta certamente provocatoria. E per parte mia penso che sia da raccogliere per non attutire la forza scandalosa del cristianesimo a tale riguardo», annota dottamente Mons. Paglia, con citazioni di passi biblici e del Vangelo. Compreso quell’”ero in carcere e siete venuti a trovarmi», con cui Gesù non soltanto ricorda il precetto biblico di visitare i carcerati, ma anche che il carcere è uno strumento del potere e che, in esso, sono rinchiusi anche innocenti o persone ingiustamente perseguitate. Come il caso dello stesso Gesù, e dei tanti incarcerati nel mondo perché di diversa religione, di diversa opinione politica, di differente etnia, di condizione sociale deteriore. Ma anche - ed è il caso più frequente in Italia - migliaia di presunti innocenti, in attesa di processo: molti di questi verranno assolti dopo la devastazione della loro vita, dopo una detenzione dura ed estremamente lunga (l’Italia, per l’accusa di un reato di mafia, consente una carcerazione preventiva più lunga di quella ammessa nell’Egitto di Zaki). Non è un caso che la Rivoluzione francese - l’origine della nostra cultura - ha il suo evento cruciale il 14 luglio 1789 con la Presa della Bastiglia, l’antica prigione di Stato che aveva rinchiuso nelle sue celle addirittura Voltaire, considerata il vero simbolo del potere, il luogo dove il potere segregava i suoi nemici, mescolandoli ai criminali. Episodio che sembra quasi la materializzazione della provocazione di Mons. Paglia che il Vangelo, la buona novella, porta l’annuncio profetico della liberazione dei prigionieri. Venerdì - l’altro ieri, il giorno dopo l’articolo da cui abbia preso le mosse - è morto Roberto Vitale, un giovane carcerato condannato per rapina, impiccatosi col lenzuolo alle sbarre della cella. Il padre ha scritto una straziante lettera, durante il breve coma pre-decesso del figlio, denunciando la mancanza di sostegno medico, addirittura la carenza di acqua. Una situazione drammatica, una pena ulteriore a cui il giovane rapinatore non era stato condannato. La privazione ulteriore, oltre la libertà, anche di diritti fondamentali ed alienabili: il diritto alla salute, addirittura la perdita della dignità umana. Nel 1966 (mamma mia, quanto tempo fa!) frequentavo la terza classe alla Scuola Media Sorace Maresca di Locri. Il professore di lettere, ci parlò di Silvio Pellico, della sua storia e, soprattutto, del suo libro “Le mie prigioni”, dove aveva narrato gli orrori della sua prigionia nel carcere dello Spielberg in Moravia, nell’attuale Repubblica Ceca. Un libro, ci spiegava il professor Morabito, divenendo per l’indignazione più rosso del solito, che raccontando le atrocità inumane e la barbarie del carcere venne definito da Metternich più “dannoso per l’Austria di una battaglia persa». Non è più tempo di patriotti, non è purtroppo più tempo del diritto, che sembra definitivamente perso, sopraffatto da leggi e da un sistema finalizzato a determinare uno squilibrio in danno del cittadino accusato e che ha sostituito nella coscienza di molti la “certezza del diritto”, che è un principio di altissima civiltà, con “la certezza della pena” che è un “non principio”. Non ho competenze per indicare alternative al carcere (ma credo se ne possano trovare), ma ribadisco il mio dubbio che se si può negare allo Stato il diritto di uccidere un cittadino, si può negare anche il diritto di privarlo della libertà. La privazione della libertà, comunque, è una espiazione che deve avere una sua etica, finalizzata al recupero del reo e alla sua riconciliazione con la comunità. Insisto, quindi, con la stessa chiusa del mio precedente scritto sul tema (repetita iuvant): “verrà un tempo futuro in cui il carcere come lo intendiamo oggi verrà ritenuto una barbarie. Certamente, però, è già arrivato il tempo, nel 2022, di attuare i principi costituzionali stabiliti nel 1948: tre quarti di secolo fa». Il Governo che riuscirà a farlo avrà vinto una battaglia importante, quanto quella persa da Metternich. Ma nell’odierno dibattito pre-elettorale giustizia e carceri non sono considerati. Carcere e lavoro. La destra che si appresta a governare faccia una cosa “di sinistra” di Michele Brambilla huffingtonpost.it, 18 settembre 2022 O meglio faccia una cosa di buon senso, che è anche una questione di sicurezza. Stare dentro è già una pena, anzi è la pena. Non è scritto da nessuna parte che, “dentro”, bisogna starci in quelle condizioni. E se invece di “farli marcire” li facessimo lavorare? I dati parlano da soli. La Destra che si appresta a governare l’Italia ha una grande e rivoluzionaria opportunità: migliorare la condizione dell’infame vita quotidiana dei carcerati. Se lo facesse, la Destra non solo batterebbe la Sinistra sul suo terreno (di questo, potrebbe pure non fregargliene nulla) ma realizzerebbe anche una propria, sempiterna promessa elettorale: quella di aumentare la sicurezza dei cittadini. Quindi, farebbe una cosa di sinistra e di destra. Non sono giochi di parole. Vediamo perché. Dunque. Al 31 agosto scorso nelle carceri italiane erano detenute 55.637 persone, su una capienza regolamentare di 50.922 (fonte: Ministero della Giustizia). È già sovraffollamento, anche se inferiore a quelli degli anni scorsi. Il wc è in un ambiente separato solo in circa il 5 per cento delle celle; l’acqua calda è disponibile 24 ore al giorno solo nel 35 per cento circa delle celle; il riscaldamento nel 20; solo nel 25 per cento delle celle ogni detenuto può disporre di tre metri quadrati calpestabili (fonte: Associazione Antigone). Nel 2021 ci sono stati nelle carceri italiane 57 suicidi; il nostro tasso di suicidi è superiore a quello della media europea: 10,6 per ogni 10 mila detenuti contro 7,2 (Antigone). Ogni detenuto costa allo Stato, quindi alla comunità, 154 euro al giorno: di questi, solo 6 euro sono spesi per il suo mantenimento e solo 35 centesimi per la sua rieducazione, alla faccia di ciò che sta scritto nella nostra Costituzione (fonte: Università Bocconi). Questi sono solo alcuni numeri. Oltre i quali c’è l’esperienza di chiunque abbia visitato un carcere, visto lo squallore, sentito il fetore. I detenuti sono costretti a stare in cella ventidue ore al giorno. Anche i pasti si consumano in cella (le tavolate con i carcerati che mangiano insieme sono roba da film americani). In cella non si fa niente. La condanna al nulla è la più tremenda. Il tempo scorre inutilmente, senza significato, senza speranza. Si azzera. Cambiare tutto questo non è questione di umanità: è questione di giustizia. Ci si dimentica sempre, infatti, che la pena inflitta per un reato commesso è la privazione della libertà. Cioè: stare dentro è già una pena, anzi è la pena. Non è scritto da nessuna parte che, “dentro”, bisogna starci in quelle condizioni. Fatti non foste a viver come bruti, è scritto all’ingresso del carcere di Padova. Farli vivere come bruti non è la pena: è accanimento, è vendetta. E non è neppure lungimirante, non è opportuno, non è utile per nessuno, neanche per chi (come noi) sta fuori e si illude che il problema delle carceri non lo riguardi. Rinchiuso in quel modo, avvilito, umiliato, il detenuto finisce via via per convincersi di essere non un colpevole, ma una vittima. Si sente colpito da un’ingiustizia e accumula rancore, risentimento, voglia di farla pagare a qualcuno. Non si mette in discussione, non capisce gli errori compiuti. Si autoassolve: “Lo Stato fa schifo, la stessa società fa schifo, che diritto ha di giudicarmi chi si comporta in un modo così disumano?”. E così, quando esce torna a delinquere. Anche perché nessuno lo accoglie, nessuno si fida di lui, nessuno gli offre un lavoro. Attorno all’ex detenuto c’è pregiudizio, diffidenza, paura. E quindi succede che in Italia il 70 per cento di coloro che escono dal carcere torna a delinquere. È il dato ufficiale, ma sottostimato, perché calcolato sui reati dei quali si accerta il colpevole. Sommando anche quelli di cui non si viene a scoprire il responsabile, la recidiva salirebbe attorno al 90-95 per cento. Tutto questo su chi ricade? Di nuovo sullo Stato, come prima e durante la detenzione. Di nuovo sulla società, sui cittadini che sentono di vivere nell’insicurezza. Di nuovo su tutti noi che ci illudiamo che il problema delle carceri non sia cosa nostra. “Bisogna aumentare le pene! Bisogna costruire nuove carceri!”, vien detto da destra, e sono le espressioni più carine, perché di solito si ode un “bisogna buttar via la chiave”. E quante volte si aggiunge “e che marciscano in galera!”. E se invece di farli marcire li facessimo lavorare? Ufficialmente il 17 per cento dei carcerati lavora, ma son lavoretti per l’amministrazione penitenziaria: pulizie, manutenzione e così via. Tutta roba che non serve a niente. Così come a poco servono i pur lodevoli laboratori aperti in alcune carceri, dove si permette ai detenuti di dipingere, creare oggetti, far teatro. Sono passatempi. Sempre meglio che star chiusi in cella ventidue ore al giorno, ma passatempi: che non offrono una prospettiva. Il lavoro vero vuol dire lavorare, all’interno di un carcere, in reparti di fabbriche vere: prendere uno stipendio uguale a quello di un operaio che sta fuori, pagare le tasse, pagarsi il vitto e l’alloggio in carcere, mandare soldi ai familiari, concorrere agli utili dell’azienda, e insomma responsabilizzarsi, perché un impiego regalato è assistenzialismo, non è un lavoro. I detenuti che lavorano rinascono, si sentono realizzati e sentono che possono prepararsi un futuro. Infatti questi carcerati, quando escono, vengono assunti dalle stesse aziende per le quali hanno lavorato in carcere. Ci sono esperienze concrete che testimoniano tutto questo. Reparti di fabbriche sono stati aperti ad esempio al carcere di massima sicurezza di Padova, su iniziativa della Cooperativa Giotto; e alla Dozza di Bologna, su iniziativa di tre aziende - la Ima, la GD e la Marchesini Group - che fuori si fanno concorrenza ma dentro lavorano insieme: hanno creato una società nuova che si chiama Fid (Fare Impresa in Dozza) che ha da poco festeggiato i suoi dieci anni di vita. E la recidiva di chi esce da queste esperienze crolla all’1-2 per cento: a dimostrazione che la “rieducazione” prevista dalla Costituzione non è solo una bella intenzione, ma una reale possibilità. Ma su 55.000 e passa detenuti, solo 2.300 hanno questa possibilità di lavoro vero: circa il 4 per cento. I governi di sinistra non hanno mai incoraggiato più di tanto il lavoro in carcere, con una bizzarra motivazione e un bizzarro timore. La bizzarra motivazione è che nelle carceri in cui si lavora si sta meglio, e quindi si crea una diseguaglianza, penalizzando i detenuti che non possono lavorare: la scelta ideologica è dunque il livellamento verso il basso. La bizzarra paura è che i carcerati che lavorano portino via il posto a qualcun altro, e che i sindacati insorgano. Ma a Padova, per esempio, le fabbriche che hanno aperto reparti produttivi all’interno del carcere non hanno licenziato nessuno: hanno semplicemente smesso di delocalizzare, cioè di aprire nuove fabbriche nell’Est Europa, dove il lavoro costa meno. La Destra che si appresta a governare l’Italia ha una grande e rivoluzionaria opportunità. Chissà se la coglierà. Bonafede contro Nordio e la destra: “Vogliono cancellare la mia spazzacorrotti» di Davide Varì Il Dubbio, 18 settembre 2022 Pur non essendo ricandidato, a causa della tagliola sul limite di mandati, l’ex ministro della Giustizia non rinuncia comunque alla campagna elettorale, lanciandosi all’attacco del centrodestra. “Diciamoci la verità: nessuno può sorprendersi del fatto che Meloni, Salvini e Berlusconi vogliano ripristinare l’immunità parlamentare. Sono sempre loro, quelli delle leggi ad personam. Quelli che nei governi Berlusconi hanno concepito una giustizia al servizio della politica e non dei cittadini». Inizia così il post pubblicato sulla propria pagina fede da Alfonso Bonafede, esponente di spicco del Movimento 5 Stelle ed ex ministro della Giustizia. Pur non essendo ricandidato, a causa della tagliola sul limite di mandati, Bonafede non rinuncia comunque alla campagna elettorale, lanciandosi all’attacco del centrodestra. Ma è sopratutto l’ex procuratore di Venezia, Carlo Nordio - candidato con Fratelli d’Italia alle elezioni e quotato tra i papabili futuri ministri della Giustizia - a finire nel mirino dell’ex guardasigilli. “Nordio», scrive Bonafede, “ha rilasciato un’intervista che svela plasticamente già adesso le intenzioni del centrodestra e da cui emerge la totale assenza di consapevolezza sulle priorità della giustizia: è il ritorno alla cara vecchia “caciara” che mette in secondo piano i problemi veri. Infatti i problemi, per il centrodestra, non sono la lotta alla criminalità organizzata, alle mafie e alla corruzione; loro si concentrano su separazione delle carriere, depenalizzazioni varie e immunità parlamentare», scrive l’esponente pentastellato. Che poi aggiunge: “È totalmente fuori da ogni contatto con la realtà parlare delle priorità della giustizia senza fare riferimento ad investimenti concreti in assunzioni, digitalizzazione ecc”. Al contrario, Bonafede rivendica il suo lavoro in Via Arenula, sostenendo aver portato avanti “investimenti che non hanno precedenti per fronteggiare i problemi concreti mentre il centrodestra vuole ancora una volta intrappolare la giustizia nel pantano delle leggi che non interessano a nessuno se non ai politici». Infine, la chiusa: “È chiaro che questi signori hanno intenzione di realizzare una vera e propria restaurazione che possa cancellare la legge spazzacorrotti e tutti i passi avanti compiuti in questi anni». Csm, il voto è inquinato dalle solite correnti di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2022 Oggi e domani i magistrati sono chiamati a eleggere i 20 membri togati del nuovo Consiglio superiore della magistratura e le correnti dell’Associazione nazionale magistrati si stanno preparando, ancora una volta, a occupare il Consiglio. Nulla, infatti, è cambiato nonostante il grave scandalo emerso nel 2019 dell’indegno “Sistema” del mercato delle nomine (ivi compresa quella del vicepresidente del Csm) e che ha visti come protagonisti (ma non da soli) i capi-corrente Luca Palamara e Cosimo Ferri, il primo radiato dall’Ordine giudiziario, il secondo sottoposto a procedimento disciplinare. Eppure, vi era stato un duro intervento del capo dello Stato che aveva parlato di “quadro sconcertante e inaccettabile” e aveva ammonito a “porre attenzione critica al ruolo e alla utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati”, e invitato “alla riforma della composizione e formazione del Csm con il superamento di logiche di appartenenza”. Quanto al primo monito, va rilevato che il capo dello Stato ha fatto riferimento non solo al “ruolo” ma anche e soprattutto, alla “utilità stessa delle correnti”, così rivolgendo un esplicito invito all’Anm a chiedersi se non fosse giunto il momento di sciogliere le correnti, la cui utilità era venuta meno avendo da tempo esaurita la loro originaria funzione ed essendo diventate impropri centri di potere in grado di condizionare la corretta attività del Csm. È superfluo aggiungere che l’Anm non si è affatto curata del monito del capo dello Stato. Quanto alla “riforma”, essa vi è stata, ma il sistema elettorale adottato non limita il potere delle correnti, ma anzi lo rafforza. E, invero - nonostante vi fosse stato un forte segnale costituito dalla circostanza che ben 1.787 magistrati (su 4.000) si erano espressi favorevolmente per il sistema di nomina dei membri togati mediante sorteggio integrato, unico sistema idoneo a impedire che le correnti occupino il Csm - è stata approvata una riforma che ha previsto, ancora una volta, un sistema elettorale, questa volta costituito da un maggioritario binominale nei diversi collegi, con correttivo proporzionale su base nazionale e con possibilità di apparentamento tra candidati favorendo, così, cordate tra magistrati di territori lontani ed eterogenei. Una vera manna per le correnti! Ora, però, agli elettori si presenta un’occasione forse irripetibile per sconfiggere le correnti. Invero, oltre ai candidati (più di 40) che esse hanno rispettivamente indicato e oltre a 18 candidati dichiaratisi “indipendenti”, sono stati presentati, su iniziativa del comitato “Altra proposta”, 11 candidati, tutti rigorosamente scelti per sorteggio (validato da un notaio), e sono, altresì, presenti 14 candidati sorteggiati ex lege per assicurare la parità di genere. Orbene - premesso che sui 18 candidati “indipendenti” occorre la massima cautela già risultando che alcuni di essi hanno trascorsi correntizi e, dietro altri, sembra esservi “l’ombra del solito Ferri”, e che costituirebbero “quelli della lista Ferri” (come rivelato da Antonella Mascali su questo giornale lo scorso 13 settembre) - va detto che gli elettori, se vogliono ribellarsi allo strapotere delle correnti, debbono riversare, in maniera compatta, i loro voti sia (soprattutto) sugli 11 candidati estratti a sorte, sia sui candidati sorteggiati ex lege per la parità di genere, evitando accuratamente di votare i candidati presentati dalle correnti e, in particolare, quelli che fanno parte (o ne hanno fatto parte) degli organi esecutivi (anche periferici) dell’Anm e delle rispettive correnti (nonché degli organi esecutivi della giustizia tributaria). Se ciò avverrà si dimostrerà che è ben possibile impedire alle correnti di far eleggere al Csm i propri rappresentanti (e quali di essi), e si porterà aria nuova - non contaminata da logiche e interessi correntizi - in un ambiente da anni inquinato dalle correnti che hanno portato il Csm a violare, ripetutamente, i principi di correttezza e di buon andamento della Pubblica amministrazione, che dovrebbero, sempre, guidare l’operato di un organo composto, per la maggior parte, da magistrati, i quali sono, o dovrebbero essere, i tutori della legalità e della correttezza delle regole. Il giudice Salvini: “Sto con le toghe indipendenti ma non tutte lo sono davvero» di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 18 settembre 2022 “Il candidato indipendente è un magistrato normale in grado di confrontarsi con il collega della porta accanto. Noi non abbiamo bisogno di magistrati famosi». “Non bisogna farsi ingannare: molti di questi candidati “indipendenti” in realtà fino al giorno prima facevano parte, anche con ruoli importanti, dei gruppi associativi. Non avendo però ottenuto quello che chiedevano, o essendo entrati in contrasto con la dirigenza del gruppo, sono andati via sbattendo la porta e adesso si professano estranei alle dinamiche correntizie. Mi ricordano quei bambini che quando giocano e prendono un gol, decidono di lasciare il campo portandosi via il pallone». Guido Salvini, storico magistrato milanese, oggi all’ufficio gip, nei giorni scorsi ha inviato un appello a votare i candidati indipendenti alle prossime elezioni del Csm. Giudice Salvini, a questo punto bisogna allora distinguere i veri indipendenti da quelli “mascherati”? Esatto. I candidati indipendenti, fuori dalle correnti, sono quelli scelti tramite il sorteggio da parte del comitato di magistrati “Altra Proposta” e in più i sorteggiati per legge per rispettare le quote di genere. Per quale motivo un collega dovrebbe votare un candidato indipendente e non un’espressione di un gruppo associativo? Innanzitutto perché il candidato indipendente è solo, si fa conoscere solo con i suoi mezzi: non c’è la par condicio nella campagna elettorale, ed è difficile anche riuscire ad avere gli indirizzi e- mail di tutti i colleghi dei vari distretti. E già per questo merita il nostro appoggio. Il candidato appartenente ad una corrente, invece, può contare su reti locali già strutturate che gli fanno propaganda. E poi? Il candidato indipendente è un magistrato normale in grado di confrontarsi con il collega della porta accanto. Noi non abbiamo bisogno di magistrati famosi che si presentano agitando le indagini, spesso dai risvolti mediatici, che hanno condotto o i processi che hanno celebrato. Un magistrato normale non ha un comitato elettorale preconfezionato e che non è in rapporto di debito con i suoi elettori e grandi elettori, cioè chi gli ha assicurato i voti, ha più probabilità di essere, come un giudice qualsiasi, imparziale e più impermeabile ai condizionamenti e alle “segnalazioni”. Per quanto riguarda i programmi? Mi interessano poco, anzi ne diffido. Il lavoro del magistrato è essenzialmente individuale. I programmi e le visioni culturali “messianiche” e “parapolitiche” che leggiamo spesso nascondono, come in politica, un’etica molto modesta. Non devo votare per un partito politico e il Csm è un organo di alta amministrazione, non di rappresentanza politica. Cosa si aspetta che faccia un magistrato indipendente una volta eletto al Csm? Mi immagino possa avere il ruolo dell’ombudsman, e quindi controllare se i consiglieri “schierati” si comportano davvero secondo i principi di imparzialità e di rispetto degli interessi generali enunciati in tutti i programmi elettorali. Un candidato autonomo ha un vantaggio per tutti noi: non conosce se non la minima parte dei suoi elettori che non costituiscono un gruppo che preesiste alla sua candidatura. Chi lo vota non è un gruppo riconoscibile e quindi egli non ha nessuno da favorire in partenza e non ha cambiali da onorare con nessuno. Che giudizio dà, invece, su chi è si è candidato? Ugualmente diffido di chi si propone come candidato al Csm. Spesso è solo il frutto di una volontà di potere che è il peggior punto di partenza per un magistrato sia nel suo lavoro ordinario sia come consigliere del Csm. C’è chi aspetta per tutta la vita il momento per poter “salire” al Csm. Lei è contro le correnti? Non sono certo per la loro abolizione. Ci mancherebbe altro. Possono continuare ad elaborare le loro riflessioni e le loro proposte di fondo, confrontarsi con la politica e anche occuparsi dei profili sindacali. Ma nell’Anm, non al Csm. Quello che chiedo è migliorare l’imparzialità e la correttezza delle decisioni del Csm anche singole ma che nel loro complesso fanno “giustizia” per i destinatari finali, i cittadini. Non abbiamo bisogno di carrieristi al Csm, né di tribuni. La riforma del sistema elettorale del Csm arriva dopo il Palamaragate. Le piace? Qualche miglioramento c’è stato. Sono contento che sia stato eliminato il collegio unico nazionale e che ci sia stato un aumento del numero dei candidati. In alcune elezioni passate il numero dei candidati in lizza era appena superiore a quello dei posti disponibili e quindi il voto era in pratica poco più della ratifica di decisioni già prese. Questa volta con molti candidati sorteggiati i pacchetti di voti non sono più controllabili e il risultato è aperto. Lei chi voterà, ce lo vuole dire? Per il Collegio giudici di merito sostengo certamente Andrea Mirenda, un magistrato che da anni denuncia coerentemente che quello che è avvenuto non è responsabilità di qualche pecora nera ma l’implosione in un sistema. E anche per gli altri collegi voterò candidati sicuramente indipendenti. Strage di Alcamo Marina, l’Antimafia esclude la pista di Gladio di Stefania Limiti Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2022 “Le cause? Traffico di materiale nucleare verso la Libia”. La commissione presieduta dal senatore Nicola Morra ha voluto riprendere il filo delle indagini sul duplice omicidio di due carabinieri del 27 gennaio 1976. È stato istituito un gruppo di lavoro che ha prodotto un documento, in gran parte secretato, in cui la strage viene collegata a un oscuro episodio avvenuto sempre ad Alcamo nel ‘93, cioè il ritrovamento di un arsenale di armi e munizioni gestito da due militari. Sono le prime ore del mattino del 27 gennaio 1976 e ad Alcamo Marina, una frazione estiva di Alcamo, in provincia di Trapani, la piccola caserma dei carabinieri - in codice militare la chiamano Alkamar - sembra abbandonata. Il vento fa sbattere le porte, l’atmosfera è cupa. I poliziotti che arrivano sul luogo, in seguito ad una segnalazione di colleghi di un’altra zona, passati la sera prima senza trovare anima viva, si spingono all’interno e la scena fa pensare ad un assalto. Il corpo del brigadiere Salvatore Falcetta è incastrato tra la branda e il muro, colpito da un proiettile al petto e uno all’addome; stessa scena nella stanza accanto dove Carmine Apuzzo giace in terra colpito a morte: il sangue è ovunque. La strage di Alkamar si presenta da subito come un episodio diverso dai tanti di criminalità comune o mafiosa: è la prima volta che accade una cosa del genere dalla fine del secondo conflitto mondiale. È vero, quella è una terra con un tasso altissimo di grandi delinquenti e neofascisti, proprio lì, sulla spiaggia di fronte alla caserma, sbarcano continuamente battelli piene di droga e armi. Ma quella drammatica scena fa pensare ad altro. Scatta subito il tentativo di portare le indagini verso gli ambienti rossi: una rivendicazione di un fantomatico gruppo, i Nuclei Sicilia Armata, viene da uomini legati all’assalto perché il telefonista racconta particolari della scena e fa riferimento ad un bottone riprovato in terra: “Non vi servirà ad identificarci”, dice. In poco tempo sembra che giustizia sia fatta, vengono acciuffati i responsabili - quattro giovani - e le indagini muoiono: ma è tutto falso, gli accusati sono stati costretti a confessare cose che non hanno fatto, disgraziati ‘Scarantino’ di quell’epoca. Lo sapremo solo nel 2008, in seguito alle dichiarazioni dell’ex-Brigadiere dell’Arma dei Carabinieri Renato Olino: “Le confessioni sono state estorte con le torture”, disse, come ricorda il saggio Alkamar, edito da Chiarelettere, scritto da uno dei protagonisti liberato dopo oltre vent’anni di prigione, Giuseppe Gullotta (nella foto), insieme a Nicola Biondo. Da allora non sono stati fatti passi in avanti ma oggi la Commissione antimafia presieduta dal senatore Nicola Morra ha voluto riprendere il filo delle indagini istituendo nel dicembre dello scorso anno un gruppo di lavoro (ne ha fatto parte lo stesso Biondo insieme al colonnello Massimo Giraudo e al generale Paolo Scriccia) che ha avuto a disposizione pochi mesi di attività, ma è arrivato a conclusioni rilevanti. Gran parte del materiale investigativo è stato secretato, ma dalla relazione è possibile ricostruire l’ipotesi cui si è giunti partendo dal presupposto metodologico di una “saturazione informativa”: cioè ripartendo da capo, senza il bisogno di inserirsi in altri filoni di indagine che non ci sono stati. Un’indagine portata avanti ricercando tutte le carte che riguardano l’episodio e le sue vittime negli archivi del Viminale, al Comando Generale dell’Arma dei Carabinieri, al Comando Generale della Guardia di Finanza, l’Ugs (Ufficio Generale Sicurezza dello SME) e l’Aise. Per la sola Arma dei Carabinieri sono state attivate oltre settemila articolazioni su tutto il territorio nazionale. Per la Guardia di Finanza sono stati interessati anche gli archivi degli ex-Centri Informativi Occulti operanti all’epoca in Sicilia. Un imponente lavoro di scavo che ha riguardato anche i protagonisti di un oscuro episodio avvenuto sempre ad Alcamo nel ‘93, cioè il ritrovamento di un arsenale di armi e munizioni nell’abitazione di un Brigadiere dell’Arma, Fabio Bertotto (più volte impegnato in missioni in Somalia), gestito insieme a un altro militare, Vincenzo La Colla, già caposcorta dell’ex ministra ai Beni culturali Vincenza Bono Parrino, all’epoca presidente della Commissione Difesa del Senato. Entrambi furono accusati di essere gli armieri della cosca mafiosa di Alcamo e poi scagionati: La Colla ha patteggiato una pena solo per l’accusa di detenzione illegale di armi. La natura di quel deposito non è mai stata chiarita, confinata ad una questione di loschi commerci dei due, mentre ora pare che esistano gli elementi per stabilire una possibile correlazione con il duplice omicidio di diciassette anni prima. Anche per la rivalutazione delle dichiarazioni di un poliziotto, Antonio Federico, oramai in congedo, sorprendentemente trascurate per quasi trent’anni. Il deposito di armi aveva l’aspetto di una villetta attorno alla quale erano stati disposti “ordigni nebbiolati”, dispositivi che avrebbero dato un visibile allarme se l’entrata fosse stata violata: insomma, si presentò subito come un luogo speciale degno della massima attenzione investigativa che non gli venne invece riservata. Si sarebbe poi compreso che il luogo era una sorta di specchietto per le allodole: se veniva scoperto era meglio che si pensasse a un deposito di armi più che ad altri usi. Al tempo una manina sottrasse dal materiale ritrovato esplosivo al plastico. La recente perquisizione del “villino Bertotto” - di proprietà dei genitori del Brigadiere dell’Arma - ha portato al ritrovamento della fotografia di una donna ritenuta compatibile con la descrizione di un identikit emerso nelle indagini sulle stragi del 1993: in quella foto si è riconosciuta Rosa Belotti, una 57enne bergamasca oggi indagata per la bomba di via Palestro a Milano. Anche se questo specifico ritrovamento non ha connessioni con la strage di Alkamar, tuttavia conferma la natura particolare della villetta attorno alla quale la Commissione Antimafia ricostruisce la dinamica dell’assassinio dei due sfortunati carabinieri: è probabile che i due incapparono casualmente in qualcosa che li portò a conoscerne l’esistenza. Dice l’Antimafia che “quale causa del duplice omicidio è emerso un traffico di materiale fissile verso la Libia, in atto almeno dal 1976 e proseguito perlomeno sino al 1993, in un cui carico ebbero ad incappare casualmente i due militi”. Solo il rischio che non si riuscisse a contenere la segretezza di quelle operazione avrebbe portato alla decisione di uccidere i due malcapitati con la conseguente urgenza di trovare rapidamente qualsiasi colpevole per mettere un tappo alle indagini. L’Antimafia stabilisce poi, pur senza una “pistola fumante”, una correlazione tra i morti di Alcamo Marina e la villetta Bertotto ritrovata nel ‘93, avendo individuato tra “le intercettazioni telefoniche operate a seguito delle dichiarazioni dell’Olino ed operate nei confronti dei soggetti ritenuti coinvolti nelle torture dei soggetti tratti in arresto nel 1976 hanno fatto emergere un evidente, ma inspiegabilmente trascurato, elemento di connessione tra il duplice omicidio di Alcamo Marina ed uno dei militi dell’Arma gestori dell’arsenale scoperto nel 1993”. La correlazione tra i due fatti era stata avanzata anche da un lavoro istruttorio svolto dalla Commissione Antimafia della XVI Legislatura che ipotizzò però una interessante connessione della struttura Gladio che ora viene totalmente rigettata: “In ultimo si ritiene doveroso rappresentare che lungi dal procedere per convinzioni preconcette, il Gruppo di Lavoro ha tentato gli opportuni approfondimenti anche sulla cosiddetta “pista Gladio”, sia con escussioni sia con acquisizioni mirate sui Battaglioni di Sicurezza e sulle Scorte Speciali di Copertura in funzione Stay Behind, non omettendo attività istruttorie anche nei confronti del noto Centro Scorpione, del RAC di Trapani e del Nucleo di Santa Ninfa, senza ottenere alcun elemento a detrimento del filone emergente e consolidatosi durante le attività condotte dalla presente Commissione”. Se così fosse, resta da comprendere la rete e i beneficiari dei traffici per i quali veniva usata la villetta: un capitolo che potrebbe portare dritti alle attività di destabilizzazione. In ogni caso è certo che tutte le informazioni raccolte dall’Antimafia a guida Morra sono destinate a essere passate al setaccio di ulteriori verifiche investigative. Se ne starebbe occupando anche la Dna: riparte dunque il lavoro investigativo e vedremo fin dove si arriverà. L’importanza e il significato della strage alla caserma resta di grande interesse per comprendere tante cose e all’epoca non era sfuggita alla intelligenza di Peppino Impastato: nelle ore successive al suo delitto, i carabinieri, guidati dal colonnello Antonio Subranni, sequestrarono nell’abitazione della mamma dell’attivista di Democrazia proletaria, Felicia Impastato, una serie di documenti, tra i quali c’era anche - è scritto nei verbali - una cartella su Alcamo Marina. Cartella mai restituita alla famiglia, al contrario degli altri documenti. “Hasib aveva molestato la nipotina di un poliziotto: poi la spedizione punitiva” di Luca Monaco e Giuseppe Scarpa La Repubblica, 18 settembre 2022 “Hasib aveva molestato la nipotina di un poliziotto: poi la spedizione punitiva”, la pista shock della procura L’inchiesta sul disabile caduto dalla finestra: l’ingresso da sceriffi dei quattro agenti a casa del rom sarebbe collegato a un fatto privato. Rimossi i vertici del commissariato Un ingresso muscolare a casa di Hasib Omerovic lo scorso 25 luglio. Un intervento energico. Forse per intimorire, che poi degenera nel peggiore dei modi. Il 36enne si terrorizza e si butta giù dalla finestra. Il motivo di un ingresso da “sceriffi”, a casa del rom, sarebbe collegato a un fatto privato. La nipotina di uno dei quattro poliziotti entrati nell’appartamento in via Gerolamo Aleandro sarebbe stata importunata nel quartiere di Primavalle, periferia nord di Roma, da una persona. Forse proprio da Omerovic? È la domanda che quel giorno ronza nella testa dei quattro agenti.Questa è una pista su cui lavora la procura di Roma e che spiegherebbe anche un atteggiamento particolarmente severo dei poliziotti di fronte al 36enne. Anche perché sul conto di Omerovic, a Primavalle, iniziano a girare parecchie voci, per nulla positive. Si dice che sia un “molestatore di ragazzine”. Niente di provato. Ma il chiacchiericcio circola sempre con maggiore insistenza e induce i poliziotti a voler verificarne l’autenticità prima che qualcuno possa passare alle maniere forti e aggredire il 36enne sulla base di meri pettegolezzi di quartiere. L’identificazione, in questo senso, diventa un mezzo per muovere una prima indagine embrionale. Una prima verifica. L’atteggiamento degli agenti però, di fronte all’uomo, è particolarmente intransigente perché uno di loro forse sarebbe coinvolto in prima persona. Il motivo? La sua nipotina è stata disturbata da Omerovic. Il pm Stefano Luciani, che indaga per tentato omicidio e falso, lavora a questa ipotesi. Una pista su cui sono impegnati gli agenti della squadra mobile. Dalla loro gli agenti hanno delle immagini già recapitate ai magistrati e che proverebbero come il 36enne abbia invece fatto tutto da solo. La prima foto scattata ad Hasib da un investigatore di lungo corso, forse il più esperto dei quattro, mostra il ragazzo seduto, in perfetta salute, con lo sguardo comunicativo e senza alcun segno in volto. Ciò, secondo gli agenti, che presto potrebbero essere iscritti formalmente nel registro degli indagati, starebbe a dimostrare il fatto che non è stato picchiato e che si è lanciato da solo. È la stessa spiegazione fornita al padre di Hasib, quando è andato a chiedere spiegazioni in commissariato. La prima istantanea giocherebbe un ruolo determinante se messa a sistema con la seconda immagine, scattata solo due minuti più tardi e che mostra il 36enne sdraiato in terra dopo la caduta, sul retro del palazzo. Tra il primo e il secondo scatto, stando agli orari registrati sul cellulare, intercorrerebbero solo due minuti, non di più: è il tempo che si impiega a uscire dall’appartamento e poi a fare il giro dello stabile, percorrendo una seconda rampa di scale, fino al ballatoio sul quale Hasib ha rischiato di morire. In attesa che l’indagine faccia chiarezza, ieri il questore Mario della Cioppa ha rimosso il dirigente del commissariato Andrea Sarnari, che il 25 agosto era in ferie, e la vicedirigente Laura Buia “al fine di ristabilire un clima adeguato in commissariato”. Il sostituto Roberto Ricciardi arriva da Viterbo. Si insedia lunedì. Al momento preferisce non parlare. Finestre e morti accidentali di Franco Corleone L’Espresso, 18 settembre 2022 Il 25 luglio, classica giornata di cadute, un giovane (ormai si dice così) di 36 anni, sordomuto e di famiglia Rom, precipita dalla finestra di casa sua ed è tuttora in coma all’Ospedale Gemelli. Come si usa dire di fronte alle tragedie del Bel Paese, occorre fare luce. La storia è semplice. Nei giorni precedenti sulla pagina di Facebook di Primavalle il malcapitato viene additato come molestatore delle ragazze del quartiere e come bersaglio di una lezione. Il commissariato di zona, allertato e sensibile alle sollecitazioni securitarie, si reca nella abitazione della famiglia rom che da tre anni abita in una casa popolare regolarmente assegnata per un controllo, in assenza di mandato di perquisizione e di denuncia per reati o atti verificati. Nell’abitazione oltre Hasib vi è solo la sorella portatrice di un grave deficit e i quattro poliziotti (tre uomini e una donna) chiedono i documenti che vengono prontamente esibiti. Non si sa che succede dopo. Certamente timore e paura spingono l’uomo a rifugiarsi nella sua stanza e a chiudersi a chiave. I poliziotti allora buttano giù la porta e di fronte alla resistenza di Hasib che si aggrappa al calorifero, usano maniere forti fino a divellere il calorifero stesso. Alla conclusione di questa inutile ed eccessiva prova di forza il ragazzo precipita dall’altezza di nove metri, con diverse fratture e ferite. Un incredibile silenzio ha coperto questa allucinante storia che ricorda le vicende di Aldrovandi a Ferrara e di Cucchi a Roma. L’omertà è stata rotta dal deputato Riccardo Magi e finalmente bisognerà rispondere alla richiesta disperata di verità della madre. Una congiura di tanti elementi: l’emarginazione, l’integrazione difficile dei diversi, lo stigma, la debolezza dell’handicap, la richiesta di giustizia sommaria e l’uso della violenza da parte delle forze dell’ordine. Lo stato di diritto e la democrazia sono state colpite. La ministra Lamorgese e il Capo della Polizia devono rispondere immediatamente al parlamento e alla società civile turbata e preoccupata. Forlì. Detenuto di 28 anni suicida in carcere: settimo caso in Emilia Romagna da inizio anno di Roberto Russo Corriere di Bologna, 18 settembre 2022 Ancora un suicidio di un detenuto in un carcere dell’Emilia Romagna, il settimo dall’inizio dell’anno Un uomo, di 28 anni, di origine albanese e senza fissa dimora si è tolto la vita, per impiccagione, nella notte nel penitenziario di Forlì. Lo ha reso noto il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri: il giovane era stato portato venerdì pomeriggio, 16 settembre, in cella a seguito di un ordine di carcerazione per scontare una condanna definitiva di due anni. Si tratta - viene evidenziato dal garante - del settimo suicido in carcere in Emilia-Romagna nel 2022. Il garante: “Fenomeno grave» - “Davanti a tragedie come queste - osserva Cavalieri - bisogna reagire con tutti gli strumenti possibili, per cercare di contrastare un fenomeno che si presenta sempre più grave e minaccioso. Anche le amministrazioni locali sedi di carceri - prosegue - devono contribuire al contrasto del fenomeno suicidario per i detenuti, nominando i garanti dove ancora mancano, provvedendo prima di tutto all’adozione degli atti per il riconoscimento di questa figura di garanzia». Dossier di Antigone: 59 suicidi in tutt’Italia - Antigone, l’associazione che da anni si occupa dei problemi carcerari, fa notare che nei primi mesi del 2022 sono già 59 i suicidi avvenuti nelle carceri italiane. Più di una ogni quattro giorni. “Sin dall’inizio dell’anno il fenomeno ha mostrato segni di preoccupante accelerazione, fino a raggiungere l’impressionante cifra di 15 suicidi nel solo mese di agosto, uno ogni due giorni. A fronte di questo dramma - scrivono i responsabili di Antigone, abbiamo deciso di realizzare un dossier dove ripercorriamo i numeri, i luoghi e alcune delle storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere. Per evitare che cadano nel dimenticatoio e per rompere il silenzio attorno a questo tema». I Radicali visitano le celle - Dall’11 al 17 agosto scorso inoltre delegazioni del Partito Radicale hanno visitato 40 istituti penitenziari italiani per ricordare il problema degli innocenti in carcere, per verificare le condizioni delle strutture, dei detenuti e dei malati psichiatrici al loro interno. Attualmente - denunciano i radicali - su circa 55 mila detenuti, circa 16 mila sono in custodia cautelare, mentre il 78% dei ristretti è affetto almeno da una condizione patologica, di cui per il 41% da una patologia psichiatrica. Forlì. Cgil: “Cordoglio per la morte del giovane detenuto. Una tragedia annunciata” forlinotizie.net, 18 settembre 2022 “Abbiamo appreso della morte di un giovane detenuto nel carcere di Forlì. Per chiunque, ma ancor più per chi sente su di sé la grande responsabilità della rappresentanza sociale, di fronte al suicidio di un giovane ventottenne, si accompagna al cordoglio, il rammarico, la sensazione che questo paese non stia facendo abbastanza per evitare drammi come quello avvenuto durante la notte a Forlì. Non sono bastate le nostre molteplici denunce, territoriali, regionali e nazionali riguardo alla situazione carceraria nel nostro paese, piena di difficoltà, dal sovraffollamento ed alla ormai endemica carenza di personale e alla situazione di disagio profondo dei detenuti.” Si legge in una nota della Cgil di Forlì. Dopo la morte del ragazzo detenuto, che questa notte si è impiccato in cella nel carcere forlivese, le Segretarie Generali della Cgil di Forlì e della FP Cgil di Forlì tornano a denunciare la mancanza di risposte. “Il tema riguarda tutto il paese, ma è innegabile che a Forlì, come denunciamo da anni, la situazione sia particolarmente aggravata da una struttura obsoleta e da una carenza endemica del personale - denuncia Daniela Avantaggiato Segretaria Generale della Fp Cgil di Forlì - Si tratta drammaticamente di una tragedia annunciata, da anni il personale denuncia la necessità di aumentare gli organici, inoltre è evidente che la struttura del Carcere di Forlì non sia mai stata adeguata e lo sarà sempre meno.” Aggiunge Maria Giorgini Segretaria Generale della CGIL di Forlì “Il progetto per la costruzione del nuovo carcere, che sarebbe dovuto terminare dieci anni fa, è nei fatti un’opera incompiuta, le denunce pubbliche sono molteplici, dalla stessa direzione del Carcere, l’ultima del 25 luglio di quest’anno dove la Direttrice denunciava la mancanza di 30 agenti, come anche gli interventi delle Istituzioni locali e di diverse forze politiche sul tema organici come sullo sblocco del nuovo carcere, ma le risposte sono sempre tardive e insufficienti , per questa ragione tutti si devono sentire responsabili e tutti a partire dal Ministero devono sapere di non aver fatto abbastanza”. Sembra che il tema non riesca ad occupare posto nell’agenda politica di nessun governo, forse perché non crea consenso elettorale, mentre secondo noi, CGIL Forlì e CGIL FP Forlì, il rispetto della dignità umana, di chi vive in regime di restrizione della propria libertà per espiare la pena e il rispetto della dignità degli operatori penitenziari che con sacrificio e responsabilità, spesso in solitudine, ne accompagnano il percorso, dovrebbe trovare spazio e non certo ostacoli, blocchi e rinvii. Questa ennesima tragedia pone come non più rinviabile la necessità di una immediata risposta alla emergenza carceraria che a Forlì ha raggiunto livelli non più tollerabili e pertanto chiediamo l’istituzione urgente di un tavolo di confronto per fare ogni sforzo, perché non solo non è accettabile quanto accaduto ma è evidente, che se non si mettono in campo soluzioni immediate ai problemi denunciati, in particolare organici e struttura, il rischio che questi drammi continuino a verificarsi e aumentino resta. Palermo. Cuffaro scrive una lettera al giovane morto suicida in carcere livesicilia.it, 18 settembre 2022 “Il carcere non è storia di corpi ma storia di anime che vivono la paura e lunghi sensi di colpa in pochi istanti ripetuti”. L’ex Presidente della Regione, Totò Cuffaro, scrive una lettera a Roberto, il giovane detenuto che nei giorni scorsi si è tolto la vita nel carcere Pagliarelli di Palermo. Il testo della lettera - A Roberto. Vite di madri e padri, giovani e meno giovani relegate ai confini dell’umanità ma nessuno lo vuole sapere. Esistenze considerate non come persone umane, ma soltanto come “i corpi dei detenuti”. “Dove dimora il dolore il suolo è sacro”. E sacra è la porta di sbarre della cella che custodisce il dolore e la speranza di chi è stato privato delle libertà. I morti per pena sono invisibili e la politica continua a sconfiggere la vita dentro al carcere solleticando la morte. La presenza della giustizia nelle galere non soccorre quella vita che manca. Non sempre si sopravvive e, a volte, ci si rassegna a combattere una battaglia che non può essere vinta come l’ergastolo ostativo. Quando dico detenuti sento ancora il rumore metallico di quel cancello che si chiude alla vita e si spalanca spingendoti sull’orlo dell’abisso. Il carcere non è storia di corpi ma storia di anime che vivono la paura e lunghi sensi di colpa in pochi istanti ripetuti. Pochi si rieducano, molti pagano solo un pedaggio alla propria coscienza, troppi scelgono di togliersi la vita. Si medica la sofferenza dell’anima pensando ad una carezza anche solo virtuale donata dalla persona che ami, solo così il dolore si affronta e l’angoscia può diventare speranza. Siamo tutti fragili nel corpo, nei pensieri dietro le sbarre, siamo come i bambini, impariamo a volerci bene e ad essere solidali. La notte spesso inquina i pensieri e lascia spazio ad elucubrazioni appiccicose, si pensa spesso a ciò che vorresti fare e a come farlo. Ripensando a quella storia, la mia, e alla prima volta in un carcere a incrociare sguardi che chiedono ascolto mi commuovo ancora… È forse un’idea troppo rivoluzionaria credere che l’Italia possa rivolgere alle galere uno sguardo diverso? È forse troppo audace pensare che sono morte persone - come noi - perché le abbiamo lasciate sole? Ed io potendo ancora parlare, vorrei dire con tutta la forza che posso: per Roberto e per tutti gli altri morti nelle carceri italiane, non facciamolo mai più. Caro Roberto la misericordia ci assista e Dio ci perdoni per aver saccheggiato dalla tua anima la speranza. Alba (Cn). Vendemmia in carcere con la Scuola Enologica, opportunità di lavoro per i detenuti cuneocronaca.it, 18 settembre 2022 Si rinnova il progetto “Si svigna”, che ormai da anni unisce il carcere G. Montalto e la Scuola enologica Umberto I di Alba, in provincia di Cuneo, con l’obiettivo di coltivare il vigneto di un ettaro presente all’interno della struttura. Con le uve, principalmente Nebbiolo e Barbera, si producono circa 2 mila bottiglie l’anno con il marchio Valelapena che viene vinificato nella cantina sperimentale della scuola albese e poi distribuito al pubblico. Nei giorni scorsi le uve raccolte sono state conferite e pigiate alla presenza del consigliere con delega all’Agricoltura del Comune di Alba, della dirigente scolastica Antonella Germini, del garante per i detenuti della Regione Piemonte Bruno Mellano, dell’agrotecnico convenzionato con il carcere di Alba, Giovanni Bertello, del responsabile del progetto, Bruno Morcaldi. La vendemmia 2022 all’interno delle mura della Casa circondariale di Alba è stata ottima e abbondante. Le uve sono state affidate alle mani del professor Enrico Orlando, direttore della cantina sperimentale, e degli allievi delle classi 5ª, che seguiranno la vinificazione e il processo produttivo fino all’imbottigliamento. Valelapena sarà in commercio a partire dalla prossima estate. Da luglio 2021 il carcere G. Montalto accoglie gli internati del progetto Casa Lavoro. Sono stati loro quest’anno a vendemmiare i filari all’interno della struttura. Una quindicina di loro lo scorso anno ha anche partecipato al corso di operatore che si è concluso con l’esame e la qualifica. Il vigneto, il noccioleto con 130 piante, il giardino di 8 mila metri quadri, la serra e l’orto di circa 4 mila metri, rappresentano insieme il fulcro del progetto di formazione dentro il carcere legato all’agricoltura e finalizzato agli inserimenti lavorativi. Al progetto collaborano attivamente la Direzione del carcere, con il direttore Giuseppina Piscioneri, l’ente formativo Fondazione Casa di Carità arti e mestieri onlus, l’Istituto Umberto I, scuola enologica di Alba, e Syngenta che fornisce gli agrofarmaci e le sementi, oltre ad aver realizzato attività promozionali legate al’iniziativa, tra cui un libro e alcune mostre. Il consigliere con delega all’Agricoltura del Comune di Alba sottolinea come il progetto sia un bell’esempio di sinergia in grado di coinvolgere attivamente più realtà del territorio. In una terra come Langhe e Roero sviluppare iniziative con finalità sociale che utilizzano l’agricoltura come strumento di reinserimento lavorativo di persone in difficoltà è un’opportunità e un orgoglio. Cosenza. “La prigione e la piazza”, mostra-mercato itinerante sul carcere di Roberta Mazzuca ildispaccio.it, 18 settembre 2022 Un tema impegnativo, forte, scomodo. Un tema di cui si parla troppo poco spesso, di cui ci si dimentica, relegandolo a materia a noi estranea e lontana. Un tema che suscita paura, sgomento, a volte rifiuto. Un tema entrato prepotentemente nella nostra vita quotidiana allo scoppio del covid, e poi ripiombato nell’ombra. Un tema che le associazioni “Napoli Monitor” e “Yairaiha Onlus” hanno coraggiosamente portato nelle piazze italiane, partendo da Napoli, fino a Bari, passando per Roma e Pitigliano, ed arrivando, nella settimana appena trascorsa, nelle città di Cosenza e Rende, per sollevare l’attenzione sull’inefficacia del sistema carcerario italiano e la violenza che lo contraddistingue. “La prigione e la piazza” il nome della lodevole iniziativa: una mostra-mercato itinerante di libri da e sul carcere. Parole, narrazioni, interventi, dossier, denunce, aventi come oggetto il tema della prigionia, portati tra la gente, nelle piazze, per suscitare una riflessione e una sensibilizzazione rispetto a un argomento “che potrebbe e dovrebbe toccare tutti noi”. Il carcere inteso come il più estremo dei luoghi estremi, “un’istituzione totale all’interno della quale le persone vengono ricollocate in quanto socialmente indesiderate”. Al centro del dibattito, poi, anche i centri per il rimpatrio, altro “buco nero” di cui poco si parla e poco si sa. Un insieme di tematiche, insomma, tutte legate ai diritti, alla libertà, soprattutto alla civiltà: “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una nazione” - diceva Voltaire. Presente alla piazza tematica del 13 settembre anche il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, per la presentazione del suo libro “Carcere” in cui racconta la difficile realtà della detenzione. “Cos’è il carcere”: la “discarica sociale” dove buttare dentro un po’ di tutto - Un mondo fatto di mortificazioni, violenze, torture, violazioni di diritti, si racconta in Piazza Valdesi a Cosenza, nell’incontro denominato “Cos’è il carcere”. Ciò che viene fuori è, non troppo incredibilmente, l’immagine di una “discarica sociale dove buttare dentro un po’ di tutto”. Un luogo inaccessibile ed ignoto che si pensa non appartenga alla comunità dei “normali”, ma che rappresenta, invece, lo specchio più devastante e devastato della società in cui viviamo. “L’obiettivo di questa scommessa è di portare all’attenzione la questione carceraria, intesa anche come CPT (Centri di Permanenza Temporanea). Anche quelli sono luoghi di privazione della libertà, se vogliamo, più aberranti del carcere perché non c’è a monte un reato vero e proprio” - esordisce Sandra Berardi, presidente dell’associazione “Yairaiha”, da tempo impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti. “Il carcere è un argomento di nicchia, non interessa tutti, ma noi abbiamo voluto scommettere portandolo fuori dall’ambito degli addetti ai lavori, per cercare di rompere quel muro di giustizialismo che vedo sempre più difficile rompere”. “Speriamo che di carcere se ne parli” - continua - “non perché dobbiamo diventare come i Testimoni di Geova andando a bussare porta per porta, ma perché ogni tanto, nella nostra solitudine, come associazione o come persone interessate al destino di chi sta chiuso all’interno delle patrie galere, ci sentiamo un po’ come i Testimoni di Geova. Il carcere non è un luogo dove rinchiudere le persone e dimenticarsene, perché quelle persone sono parte del tessuto sociale, e dal carcere usciranno sicuramente peggiori”. “Se noi ce ne dimentichiamo”, - conclude la presidente - “oltre alla privazione della libertà, credo che ci restituiranno in qualche modo anche una forma di astio e di odio per l’indifferenza che abbiamo dimostrato loro. Non sono casi, sono persone in carne e ossa, che oggi stanno lì e domani ritorneranno insieme a noi, e dovremmo cercare di costruire una rete di società pronta ad accoglierli. Per un mondo senza galere”. Difficile dire se concordare o meno con la frase di chiusura. Un mondo senza galere è, forse, auspicabile, ma impensabile, un’utopia che spaventa non poco se non accompagnata da un valido sistema alternativo. In una società ancora fortemente devastata dal fenomeno sempre presente delle mafie che, per prime, della dignità, della libertà e, spesso, della vita privano l’essere umano, terrorizza pensare di dover lasciar loro la libertà di restare impuniti. Certo è, però, che il sistema carcerario, così com’è oggi, e così come evidenziato con grande sensibilità dalle diverse personalità intervenute nel corso del dibattito, presenta sicuramente delle problematiche di non poco conto. Certo è che gli individui che occupano quei luoghi e che dovrebbero godere del diritto ad essere rieducati e reimmessi nella società migliori e con migliori consapevolezze, ne escono nella maggior parte dei casi devastati e peggiori, pronti a tornare alla stessa vita che avevano lasciato. Certo è che l’isolamento, la reclusione totale, la mancanza di ogni diritto e ogni identità, non privano soltanto loro della propria umanità, ma privano anche tutti noi della nostra. Certo è che affrontare il tema e ripensare al sistema del carcere come qualcosa che ci rappresenta piuttosto che qualcosa estraneo da noi, sarebbe non solo auspicabile, ma estremamente necessario. “Occhio per occhio e il mondo diventa cieco”, diceva il padre della non violenza Mahatma Gandhi. E allora, forse, se qualcuno ci fa sentire impauriti, non al sicuro, minacciati, privati della libertà di poter vivere serenamente le nostre giornate, restituirgli quella stessa paura, quello stesso smarrimento, anzi amplificarlo fino a renderlo tortura e privazione di ogni umanità, è davvero la strada giusta da percorrere? In queste riflessioni ci si è ritrovati a navigare durante il lungo ed illuminante dibattito, che ha preso il via con l’intervento di suor Nicoletta Vessoni e il suo libro “Fasciati dalla luce. Storie dal carcere”: “Il carcere non contiene solo detenuti. C’è il corpo di polizia penitenziaria, gli impiegati, i volontari, gli insegnanti, c’è tutto un mondo. ‘Fasciati dalla luce’ è stato il motivo che mi è venuto a cuore pensando ai detenuti della pandemia, e il mio libro nasce proprio in quel periodo, chiedendo ai detenuti di esprimere cosa pensassero della loro esperienza in carcere. La loro risposta mi ha molto stupito, ed è qui che nasce la storia del ‘nostro’ libro”. La voce dei volontari, della direttrice, dei detenuti, del cappellano, e di suor Nicoletta stessa, che raccontano di un “mondo dentro” e “un mondo fuori” nella casa circondariale di Catanzaro. Un mondo dentro come piccola città, la popolazione carceraria stessa; un mondo fuori dal contesto urbano, come se la società non volesse guardare in quella direzione. Il carcere, dunque, come luogo irraggiungibile, pesante, “una discarica dove buttare dentro un po’ di tutto”. “Un universo di acciaio e di cemento. Vita quotidiana nell’istituzione totale carceraria” di William Frediani, che ha vissuto sulla propria pelle la carcerazione (arrestato nel 2004 per propaganda sovversiva e condannato nel 2009 per associazione eversiva) racconta, invece, i processi di disculturazione e di perdita di identità a cui i prigionieri vengono sottoposti. Un insieme di dispositivi mortificanti e infantilizzanti che mirano a raggiungere la docilità della massa incarcerata. “La visione che ha il detenuto della realtà è che vive in una torsione dello spazio e del tempo, che è già quella una forma di violenza e di tortura” - afferma Frediani. “Una forma di tortura accettata e giusta all’interno del penitenziario. Questa torsione dello spazio-tempo è, però, un annullamento dell’individuo, perché la persona non è più in grado di decidere sul proprio quotidiano, e da qui l’infantilizzazione”. Il Garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello: “Una società che mette in carcere un quattordicenne o un quindicenne è una società malata che sta giudicando se stessa” - A dialogare con Samuele Ciambriello l’avvocato Alessandra Adamo che, dopo aver portato i saluti del presidente della Camera Penale bruzia Roberto Le Pere, afferma: “Parlare continuamente di carcere è necessario, perché è una realtà che tocca tutti quanti. Se la funzione della pena è quella di rieducare, come l’educazione dei giovani è una necessità per tutta la popolazione, così lo è la rieducazione carceraria. Quando pensiamo ad educare un figlio, pensiamo che debba stare in un ambiente salubre, all’aria aperta, e allora dico: se nel carcere il confronto è annientato, la salubrità è annientata, la dignità umana è sgretolata, questo non è un problema di tutti?”. “Ringrazio Sandra Berardi, che fa questi dibattiti nelle piazze di Napoli e non mi invita, però mi fa fare l’extracomunitario qui” - esordisce simpaticamente Ciambriello, per poi farsi subito serio. “Senza voler fare nessuna battaglia ideologica sul carcere, io vorrei continuare a battermi con i giustizialisti, con l’ex ‘ministro dell’inferno’, su questo luogo del carcere. Se non ci fossero state quelle immagini di Santa Maria Capua Vetere, il 70% degli italiani era per la pena di morte, di che parliamo? Qualcosa si è incrinato”. “Carcere è l’anagramma di cercare. Cercare per ricostruire, per ritrovarsi, per seguire una strada che è tracciata anche dalla Costituzione: assumersi le responsabilità, per trovare se stessi, rispettando i diritti delle persone”. È questo lo slogan di Samuele Ciambriello, giornalista, scrittore, professore, attivamente impegnato da quarant’anni nella lotta per i diritti delle persone sottoposte a restrizioni della libertà personale. Il suo libro “Carcere, idee, proposte e riflessioni” nasce dall’esigenza di trattare del complesso sistema penitenziario, ma soprattutto delle esperienze di vita vissuta in esso annidate, di diritti negati, di affettività, attraverso attività di monitoraggio, osservazioni, colloqui, sopralluoghi, progetti. Il tutto rifacendosi all’art. 27 della Costituzione, che recita: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. “Ma dopo vent’anni da Genova, che cosa è successo in Italia?” - tuona Ciambriello nella piazza bruzia. “Negli ultimi vent’anni 25.000 cittadini italiani, anche calabresi, hanno avuto 810 milioni di euro come risarcimento danni per un’ingiusta detenzione. Io sono amareggiato e incazzato. Cinque anni fa per Poggioreale sono stati messi a disposizione 12 milioni, per abbattere, ricostruire, e ammodernare quattro padiglioni: stanze da due, con le docce, aree della socialità, cucine. Sono cinque anni e ‘sti lavori non partono. Ma in che Italia viviamo? La battaglia non è sul carcere a livello ideologico, è di umanità”. Tuona con i giustizialisti: “Sento parlare di legalità, sostituiamo questa parola con responsabilità”. “E allora, l’anagramma di carcere è ‘cercare’, o per noi cittadini italiani carcere viene dall’ebraico ‘carcar’, tumulare sotto terra, dove io ho trovato i primi detenuti politici negli anni 80?”. “Sono convinto che una società che mette in carcere un quattordicenne o un quindicenne dopo averlo giudicato, è una società malata che sta giudicando se stessa, la propria malattia. I ragazzi dell’epoca, che rubavano lo stereo, alla domanda perché lo fai, rispondevano ‘devo comprare il motorino’, ‘voglio andare al mare’. Paradossalmente, in quella devianza diventata poi criminalità c’era una risposta che recuperava un concetto di uguaglianza. Adesso sono con la morte dentro. Se tu gli chiedi perché hai ucciso, rispondono ‘mi ha guardato storto’, ‘ha dato un giudizio negativo della mia fidanzata’. Questo ci deve far riflettere. Dalle periferie, dalle diseguaglianze, da questi adolescenti a metà dobbiamo ripartire, per evitare che vadano a riempire le prigioni e poi ritornino a delinquere”. In Italia, secondo i dati messi in evidenza dallo stesso Ciambriello, esiste infatti un tasso di recidiva del 70%. 59 persone si sono suicidate dall’inizio dell’anno, di cui 3 in Calabria. Centinaia hanno provato a impiccarsi. 12 istituti penitenziari in Calabria, con 2.200 detenuti, l’equivalente di Poggioreale. Mancano educatori, psicologi, medici, e psichiatri. “Il malato di mente o il tossicodipendente, è un fallimento di noi liberi. Quei poveracci a chi si sono rivolti? A tutti e nessuno ha risposto. Tutti noi, allora, dobbiamo diventare artisti. Parlare è un bisogno, ascoltare è un’arte. Io vi ringrazio perché siete stati oggi artisti”. La storia di Wissem Ben Abdel Latif e la tortura dei più deboli - L’ultima parte del dibattito è stata, invece, dedicata ai centri per il rimpatrio, con il racconto della storia di Wissem Ben Abdel Latif, ragazzo appena ventenne deceduto in strane circostanze. “Tutte le persone che arrivano sono uomini, donne e bambini ‘combattenti di frontiera’, che decidono che il mondo deve essere uguale per tutti abbattendo i muri, abbattendo le frontiere appunto” - afferma Yasmine Accardo di “LasciateCIEntrare”, una delle organizzazioni che hanno contribuito a creare il “Comitato verità e giustizia per Wissem Ben Abdel Latif”. “Combattenti di frontiera che torturiamo, violentiamo nei loro percorsi, ammazziamo in mare utilizzando il braccio armato dell’Unione Europea, ‘Frontex’, che li riconsegna ai libici”. Abdel Latif aveva 26 anni, era sano, cittadino tunisino arrivato via mare a Lampedusa il 2 ottobre. Muore, legato ai polsi, il 28 novembre, contenuto nel reparto psichiatrico dell’ospedale “San Camillo” di Roma. “Il sistema l’ha ucciso, non permettendogli di accedere a nessun diritto. Dalle carte mediche è sempre stato sedato, non ha mai incontrato un mediatore, non è mai stato ascoltato. Non sappiamo quello che è accaduto, ma sappiamo che troppe persone che arrivano qui sane, non ricevendo adeguata assistenza, adeguati diritti, impazziscono, e noi non abbiamo un sistema che sia in grado di tutelarle mai”. Wissem è allora una morte esemplare, che racconta come si muove il sistema, racconta di morti che potevano essere evitate, racconta di indifferenza, violenza e privazione. Racconta, semplicemente, di detenzione. Un argomento vasto ma accomunato, insomma, dall’essere un tabù, da un carattere di violenza e tortura, che richiama alla memoria pratiche medioevali. Basti pensare alle immagini di Abu Ghraib che tutti conosciamo. Ma, più recentemente, i casi di Stefano Cucchi o Giuseppe Uva. “Ricordo la testimonianza da parte di un ragazzo di fede musulmana che raccontava di essere stato bloccato contro il muro da quattro carabinieri - afferma Emilia Corea dell’associazione “LasciateCIEntrare” - ed essere stato costretto a ingoiare pezzi di carne cruda di maiale ficcati in gola con forza con un manganello”. La derisione, l’umiliazione, uno degli scopi principali della tortura, al fine di distruggere la personalità del detenuto e creare un muro di silenzio tra il torturato e la società circostante. La tortura è praticata in ben 104 paesi nel mondo, nonostante sia espressamente vietata da numerose convenzioni internazionali, prima fra tutte la dichiarazione universale per i diritti umani del 1984. Il Protocollo di Instanbul, come ricorda Emilia Corea, distingue i maltrattamenti in tre categorie: tortura fisica, tortura sessuale e tortura psicologica. Tra le varie forme di tortura nel mondo, la più praticata è la battitura sotto le piante dei piedi con frustini di legno o bastoni, che provoca degli ematomi e quindi l’impossibilità di camminare e, di conseguenza, di evadere dai centri di detenzione. Molto praticata, soprattutto in Libia, è anche la tortura da sospensione: si viene sospesi a una trave o a un gancio a testa in giù. Così come assai diffusa, tra le torture da ustione, una forma particolare consistente nel costringere il detenuto a spogliarsi e a far cadere sul suo corpo plastica fusa. Infine, la più classica delle torture sessuali, ossia la violenza sessuale praticata su tutte le donne detenute nei centri libici e, non di rado, anche nei confronti dei minori. Pratiche che non sembrano quasi appartenere a un’epoca così “evoluta” come crediamo sia quella di oggi, ma che ancora esistono, riducendo l’essere umano a un oggetto da possedere da alcuni ed essere ignorato da altri, privandolo finanche della propria anima. A conclusione della piazza tematica Ernesto Orrico, Silvio Stellato, e Manolo Muoio hanno regalato ai presenti un momento toccante, recitando alcune poesie scritte dai detenuti Sante Notarnicola e Giovanni Farina avente ad oggetto la realtà carceraria. Roma. In Vaticano cooperative e associazioni insieme per il “bene” di chi sta ai margini montiprenestini.info, 18 settembre 2022 In cammino verso il Giubileo ma soprattutto in dialogo a livello sinodale per trovare soluzioni comuni e formulare proposte a favore di chi oggi è relegato ai “margini”. È stato questo l’obiettivo dell’incontro che si è tenuto ieri a Roma in Vaticano dedicato alle problematiche del carcere e dei migranti. L’evento, organizzato dal cardinale Mauro Gambetti, presidente della fondazione Fratelli Tutti, ha visto la partecipazione di oltre 300 persone del mondo del volontariato che ogni giorno assistono e sostengono le persone in difficoltà. Presenti la direttrice della casa di reclusione dì Rebibbia e il coadiutore del garante dei detenuti della Regione Lazio Sandro Compagnoni. Temi in risalto il reinserimento sociale dei detenuti e le attività trattamentali in carcere. Il Vaticano ha aperto le porte, oggi pomeriggio, a cooperative, case circondariali e di carità, congregazioni e istituti religiosi, fondazioni, ospedali, per il simposio “Ai margini della società”. Si tratta di uno dei nove “cammini giubilari sinodali” che, organizzati dalla Fondazione Fratelli tutti, istituita l’anno scorso, si svolgeranno nella Basilica di San Pietro fino al 2025, anno in cui si celebrerà, appunto, il Giubileo che Papa Francesco ha voluto dedicare al tema della speranza. Sono previsti tre appuntamenti per ciascun anno e per ciascun tema considerato fondamentale per costruire la fraternità e l’amicizia sociale. Quello di oggi, svoltosi in Aula nuova del Sinodo, che ha visto riunita una vasta rappresentanza di laici, era dedicato al tema della marginalità (la prima tappa, a giugno, riguardava la cura medica; la prossima, il mondo dei giovani). Roma. I cappellani di Rebibbia testimoni dell’impegno die preti italiani a favore dei più poveri farodiroma.it, 18 settembre 2022 Tra i 33mila preti diocesani operano nel Lazio don Antonio Pesciarelli e mons. Marco Fibbi, cappellani della Casa di reclusione di Rebibbia e della Casa circondariale Raffaele Cinotti - Nuovo Complesso Rebibbia a Roma, il cui impegno nell’offrire una porta sul mondo ai detenuti è stato individuato dalla Cei come emblematico in occasione della Giornata nazionale delle offerte per il sostentamento del clero diocesano, che sarà celebrata nelle parrocchie italiane. “Ogni giorno ci offrono il loro tempo, ascoltano le nostre difficoltà e incoraggiano percorsi di ripresa: sono i nostri sacerdoti che si affidano alla generosità dei fedeli per essere liberi di servire tutti”, ricorda un comunicato del Servizio per il Sovvenire. Per richiamare l’attenzione sulla loro missione, torna domani la Giornata - giunta alla XXXIV edizione - che permette di dire “grazie” ai sacerdoti, annunciatori del Vangelo in parole ed opere nell’Italia di oggi, promotori di progetti anti-crisi per famiglie, anziani e giovani in cerca di occupazione, punto di riferimento per le comunità parrocchiali. Ma rappresenta anche il tradizionale appuntamento annuale di sensibilizzazione sulle offerte deducibili. “È un’occasione preziosa - sottolinea il responsabile del Servizio Promozione per il sostegno economico alla Chiesa cattolica, Massimo Monzio Compagnoni - per far comprendere ai fedeli quanto conta il loro contributo. Non è solo una domenica di gratitudine nei confronti dei sacerdoti ma un’opportunità per spiegare il valore dell’impegno dei membri della comunità nel provvedere alle loro necessità. Basta anche una piccola somma ma donata in tanti”. Nonostante siano state istituite nel 1984, a seguito della revisione concordataria, le offerte deducibili sono ancora poco comprese e utilizzate dai fedeli che ritengono sufficiente l’obolo domenicale; in molte parrocchie, però, questo non basta a garantire al parroco il necessario per il proprio fabbisogno. Da qui l’importanza di uno strumento che permetta ad ogni persona di contribuire, secondo un principio di corresponsabilità, al sostentamento di tutti i sacerdoti diocesani. “Le offerte - aggiunge Monzio Compagnoni - rappresentano il segno concreto dell’appartenenza ad una stessa comunità di fedeli e costituiscono un mezzo per sostenere tutti i sacerdoti, dal più lontano al nostro. La Chiesa, grazie anche all’impegno dei nostri preti, è sempre al fianco dei più fragili e in prima linea per offrire risposte a chi ha bisogno”. Un impegno costante come quello di don Antonio Pesciarelli e di mons. Marco Fibbi, cappellani rispettivamente della Casa di reclusione di Rebibbia e della Casa circondariale Raffaele Cinotti - Nuovo Complesso Rebibbia a Roma, che esercitano la loro missione sacerdotale tra i detenuti sofferenti per il distacco dagli affetti più intimi e dalla società. In un vissuto segnato dolorosamente dalla colpa commessa ma anche dalla volontà di meritarsi una seconda opportunità, il servizio dei sacerdoti si espleta tra l’ascolto e l’esercizio della speranza, fornendo agli ospiti un solco di riferimento per ricostruire il proprio futuro. “Devi entrare qui con una mentalità libera - spiega don Antonio Pesciarelli a Giovanni Panozzo nel filmato “Ti ascolto” che si può vedere al link - perché sono fratelli da amare e noi siamo qui per ascoltarli, sono persone che hanno tanto bisogno”. Una cura e un rispetto necessari per quanti provano a vivere l’esperienza carceraria come momento di riflessione e di meditazione nell’ottica di ottenere, attraverso la consapevolezza delle proprie responsabilità, un nuovo respiro per la propria vita che possa superare definitivamente gli errori commessi in passato. Lo sa bene Dario, uno dei detenuti: “Prima ero una persona completamente diversa, anche nel comportamento carcerario: ero aggressivo con i miei compagni e con gli assistenti. Per questo trovo che sia molto importante l’aiuto che ci dà don Antonio”. Un aiuto spirituale e, allo stesso tempo, materiale perché spesso il sacerdote si adopera per soddisfare piccole esigenze quotidiane e, a volte, resta l’unico legame con la famiglia. La pandemia ha ulteriormente indebolito la possibilità di comunicare, rischiando di isolare i detenuti dal contatto diretto con i familiari. “Anche le misure cautelative legate al Covid hanno influito moltissimo sugli ingressi in carcere - sottolinea monsignor Fibbi - perché ad esempio alcuni detenuti venivano spostati per fare la quarantena e le famiglie erano completamente tagliate fuori. In quella fase eravamo noi cappellani a fornire informazioni ai parenti”. Il cappellano diventa così un approdo sicuro per iniziare un percorso di avvicinamento a Dio e anche un supporto per le persone che vivono dietro e fuori le sbarre, emergendo come figura di riferimento per entrambe le parti. “Credo proprio che a vivere la parte più dura dell’esperienza carceraria - spiega Danilo, detenuto da più di cinque anni a Rebibbia - sia chi sta fuori e ti aspetta”. Un servizio prezioso vissuto anche con la collaborazione di tanti volontari - Caritas e Comunità di Sant’Egidio distribuiscono doni e dolci nei periodi di festa - e con la certezza di diventare, col passare del tempo, una indispensabile presenza di famiglia. “Don Antonio è uno di noi, è un amico che ci ascolta - prosegue Danilo - resta anche a pranzo o a cena quando lo invitiamo. In carcere è importante impiegare bene il tempo, nello studio e anche nella riflessione: io mi sono reso conto che avrei potuto dedicare molto più tempo ai miei figli che avevano bisogno di me e non c’ero”. E da queste fragilità che si nutrono di rimorsi bisogna ripartire ogni giorno, perché l’esperienza carceraria non diventi uno sterile periodo di reclusione, ma possa rappresentare un momento per prendere coscienza dei propri sbagli. Nelle carceri italiane si respirano storie di un’umanità ai margini che chiede di non essere abbandonata. “Venire qui è visitare le periferie - conclude Don Antonio - e sappiamo che sarebbe stato uno dei luoghi privilegiati anche da nostro Signore. Qui il tempo si passa ad ascoltare”. Questa è solo una delle tantissime storie di salvezza e aiuto portate avanti sul territorio da sacerdoti, impegnati in prima linea, e dalle loro comunità. I sacerdoti sono sostenuti dalle offerte liberali dedicate al loro sostentamento. Nel sito www.unitineldono.it è possibile effettuare una donazione ed iscriversi alla newsletter mensile per essere sempre informati su storie come queste che, da nord a sud, fanno la differenza per tanti. Destinate all’Istituto Centrale Sostentamento Clero, le offerte permettono, dunque, di garantire, in modo omogeneo in tutto il territorio italiano, il sostegno all’attività pastorale dei sacerdoti diocesani. Da oltre 30 anni, infatti, questi non ricevono più uno stipendio dallo Stato, ed è responsabilità di ogni fedele partecipare al loro sostentamento. Le offerte raggiungono circa 33.000 sacerdoti al servizio delle 227 diocesi italiane e, tra questi, anche 300 preti diocesani impegnati in missioni nei Paesi del Terzo Mondo e circa 3.000, ormai anziani o malati dopo una vita spesa al servizio degli altri e del Vangelo. “Il mio film sulla malagiustizia senza compromessi. Basta col cinema buonista” di Massimo Balsamo Il Giornale, 18 settembre 2022 È arrivato nelle sale italiane “Per niente al mondo”, opera seconda di Ciro D’Emilio: la nostra intervista al regista. Bernardo è un uomo affascinante, di successo, pieno di amici, sempre alla frenetica ricerca della sua libertà. Per un brutto scherzo del destino un giorno tutto cambia, mettendolo di fronte a una scelta: accettare quello che è successo o diventare un altro, per riprendersi quello che la vita gli ha tolto. Una decisione dalla quale non potrà tornare indietro. Reduce dal successo di “Un giorno all’improvviso”, Ciro D’Emilio si è messo in gioco con un’opera seconda ambiziosa, fuori dagli schemi per il cinema italiano, che prende posizione e lo fa senza sconti. “Per niente al mondo” è tra le sorprese della stagione cinematografica, un film tutt’altro che buonista e destinato a mettere in discussione lo spettatore. “Racconto temi ed elementi che sono molto miei”, confida Ciro D’Emilio ai nostri microfoni, rivendicando la libertà dell’artista nel suo percorso di ricerca. “I miei film sono molto più importanti di me e della mia carriera”, il suo credo:”Spesso si fa l’errore di pensare che un autore abbia un ego e una visione ombelicale tale da dover necessariamente violentare ogni creatura filmica affinchè sia più simile a lui. Io non mi pongo il problema”. “Per niente al mondo” prende spunto da un fatto di cronaca… “Quando abbiamo iniziato lo sviluppo di quello che doveva essere il nostro secondo film, io e Cosimo Calamini ci siamo interrogati su che tipo di storia volevamo raccontare. Io avevo saturato un po’ l’interesse verso una storia di relazioni tout court, ero alla ricerca di qualcosa di diverso, anche se ovviamente non rinnego quanto fatto in precedenza. Come accade nel percorso di un autore, ero alla ricerca di nuovi stimoli. Facendo una ricerca, abbiamo incontrato diversi casi di malagiustizia. Tra questi, il caso di un imprenditore al confine tra Veneto e Friuli: aveva subito un’accusa e una detenzione ingiusta, con un ritorno in libertà da innocente macchiato da un pregiudizio infangante, al punto da radere al suolo la sua dignità. Da lì è nata la domanda: ma se un uomo arrestato ingiustamente, una volta tornato in libertà, decidesse di riprendersi tutto quello che gli è stato portato via, anche andando contro la legge? Abbiamo sfruttato gli strumenti del genere, senza fare un film di genere. Un racconto emotivo, interiore, utilizzando la malagiustizia per sviscerare un tema a me molto più caro, ovvero quello della fiducia”. Passa dal tema della cura di “Un giorno all’improvviso”, al tema della fiducia… “Ho provato ad analizzare quanto tutto quello che abbiamo costruito negli ultimi trent’anni possa distruggerci, soprattutto se capita un incidente di percorso. La caduta totale di ogni fiducia, che sia nella giustizia o nella cronaca, non permette più un garantismo vero, ma pregiudica l’esistenza di ognuno di noi. Non volevo fare un film buonista, paraculo o furbo nel trattare un tema come questo. Ho cercato di raccontare un contenuto più universale per permettere allo spettatore di identificarsi in Bernardo, senza compatirlo. Perché ciò che accade a lui, può capitare a tutti noi. Il tentativo è stato quello di togliere alla borghesia dell’Occidente qualsivoglia certezza sul possedere qualcosa o sull’essere qualcosa, tutto ciò che ti dà un’identità. È un microcosmo in cui le relazioni si rivelano come un grande Truman Show”. Difficile non pensare al giustizialismo tornato in auge negli ultimi anni. La sua visione è molto cupa, ma siamo peggiorati noi come esseri umani… “La storia di ‘Per niente al mondo’ è stata scritta prima della pandemia, ma il film è stato girato dopo. È ovvio che una nuova lettura emotiva ci ha colpiti anche inconsciamente. E non ha fatto che fortificare quel senso di isolamento di Bernardo. Mi interessava mantenere alcuni elementi propri della mia ricerca - il punto di vista unico dalla prima all’ultima scena, temi come l’ascesa e la caduta del mito oppure della famiglia perfetta o ancora il prezzo da pagare per diventare grandi - ma tutto il resto è visione e lettura di questa storia. Qui ho inserito spazi e luoghi: se li avessi esclusi, come nel mio primo film, avrei mantenuto una visione ombelicale. Per me lo stile si piega alla forma: questi spazi e questi luoghi andavano sviscerati perché sono loro che giudicano e pregiudicano la vita di Bernardo”. Rispetto a “Un giorno all’improvviso”, qui troviamo scelte innovative dal punto di vista tecnico. Il montaggio è straordinario… “Gianluca Scarpa al montaggio si conferma essere un enfant prodige del cinema italiano. Sono contento di lavorare con lui da molti anni. Ma penso anche a Bruno Falanga per le musiche, a Salvatore Landi alla fotografia, ad Antonella Di Martino alla scenografia e alla new entry Antonella Di Martino ai costumi. La sceneggiatura era già scritta, il film ha potenziato quella non linearità e quel viaggio che fa Bernardo. Ricostruendo i tre momenti della vita di Bernardo, abbiamo ragionato su tre stadi della vita del personaggio: un Truman Show patinato dove c’era una prevalenza di luce diurna; un secondo stato in cui l’immagine si sporca, diventa più polverosa e più marcia, e dove abbiamo cambiato lenti utilizzando lenti anamorfiche, per cambiare la proporzione dei personaggi nello spazio; terzo, una contaminazione delle prime due fasi. Poi, il piano sequenza finale di sette minuti”. C’è una visione tetra della vita in carcere... “Assolutamente sì. È stato il contraltare del Truman Show della prima parte. Cambiare prospettiva con le lenti anamorfiche e avere un’illuminazione che trasuda solo da piccole finestrelle andava a potenziare la discesa negli inferi di questo uomo. Ma è anche in ciò che accade: la prima scena in cui Bernardo parla con Elia (Boris Isakovic, ndr), avviene mentre lui sta defecando. Una cosa mortificante per un uomo che viene da un altro mondo, quella immagine fa capire in che buco nero stia finendo”. Qualche tempo fa lei si era detto fiducioso sulla nuova generazione di registi. Oggi a che punto siamo? “Fino al 2020 - prima della pandemia - ero certo di una crescita, di una rinascita, con spazi dove poter comunicare e mostrare il nostro punto di vista. Io credo che oggi esista ancora questa possibilità di scardinare clichè e di mostrare uno sguardo nuovo sul mondo. Ma il post-Covid ci pone davanti a un interrogativo che riguarda tutti: come dare ancora senso alla sala? La risposta sta nel raccontare storie necessarie, nel continuare ad essere onesti con gli spettatori. Bisogna smetterla di pensare che si possano fare ancora film buonisti o furbi. Io ho provato attraverso la malagiustizia a spostare l’obiettivo sul tema della fiducia: è un tentativo sano di riavvicinare il pubblico alle sale in maniera onesta”. Impossibile non citare la straordinaria interpretazione di Guido Caprino nei panni di Bernardo. Che lavoro avete fatto? “Lui ha amato il personaggio di Bernardo fin da subito. Io ho scritto il film pensando a lui. Al di là della stima che già c’era, lavorando con lui ho scoperto tantissime altre cose che non hanno fatto altro che confermare questa scelta. Guido è un attore molto esigente, preparatissimo, che non si accontenta. Lui scardina il testo per cercarne una visione nucleare, ma vuole che tutto diventi organico. È straordinario perché è uno dei pochi attori italiani che riesce a lavorare con il dolore. Riesce ad entrare all’interno dei substrati della sofferenza umana e ci gioca a tennis: è una cosa rara e preziosa. Ma è anche generoso: si dona completamente agli altri interpreti”. Quali sono i suoi prossimi progetti? “Lunedì inizierò le riprese di una serie italiana per una piattaforma, uscirà in 200 Paesi, ma non posso ancora anticipare nulla. Sono molto contento. Inizierò a pensare ad un nuovo film a gennaio, quando finiranno le riprese. E spero di poter seguire ‘Per niente al mondo’ nei vari appuntamenti in giro per l’Italia: amo partecipare agli eventi per accompagnare i film, è stato un punto di forza per noi registi della nuova generazione”. Cosa nasconde il camion dei pomodori di Ermanno Paccagnini Corriere della Sera - La Lettura, 18 settembre 2022 Nel libro “Mille giorni che non vieni”, di Andrej Longo (Ed. Sellerio), un uomo esce dal carcere e cerca di rifarsi una vita onesta, provando a conquistare l’affetto della figlia e a riconquistare quello della moglie. Ma l’autore, innescandone il senso di giustizia, lo mette in mezzo a una storia drammatica. C’è un aspetto che incuriosisce nei ringraziamenti posti a fine volume. Perché, proprio mentre ti appresti a scrivere che da una prospettiva strutturale, Mille giorni che non vieni di Andrej Longo presenta una nuova svolta rispetto a “Solo la pioggia” del 2021, pur in presenza d’un “problema di coscienza» a legare i due romanzi, là leggi che questa storia è nata “molti anni fa, quando di altre storie si parlava». Un problema di coscienza a sua volta differente, come chiarisce lo stesso protagonista quando, proponendosi al magistrato per una determinata azione, si corregge: “Non lo so se è una questione di coscienza. Per me il fatto è che ci va di mezzo sempre chi non ha niente, sempre i più disgraziati… Perciò alla fine, per rispondere alla sua domanda, penso che non si tratta di una questione di coscienza, ma più che altro di giustizia». Un protagonista, Antonio Caruso, 27 anni, che il lettore incontra in carcere dove ha scontato 6 dei 13 anni per omicidio, ma proprio mentre viene scarcerato perché Polpetta, suo complice, ma che Antò non ha mai nominato, oltre a dichiararsi a sua volta innocente, in punto di morte e come ringraziamento assume su di sé la colpa del delitto. Antò resta comunque per tutti una persona che è stata in carcere. Lo è innanzitutto per Maria Luce, la moglie muta, che “non tiene proprio più fiducia in me. È questa la cosa che mi fa più male», e che al suo ricomparire cerca di difendere soprattutto Rachelina, la figlia di cinque anni nata mentre si trova in carcere, alla quale però non pare vero di ritrovare quel padre al quale ripete che è “mille giorni che non vieni». Una persona diversa, Caruso; che a Maria Lù “io ci voglio dimostrare che si sbaglia. Ci voglio dimostrare che qualcosa di buono pure io la so fare»; e che a padre Vincenzo, un prete di borgata che “veniva in carcere un giorno a settimana. In sei anni non ha mai saltato una visita» e dal quale ha appreso a leggere la Bibbia, si rivolge per un posto dove dormire, ed è in e perché anche se “io voglio trovare la mia strada», fatica a trovare lavoro. E proprio per questo finisce nei pasticci: con un usuraio pur di far dei regali alla figlia; trovandosi di conseguenza costretto ad accettare qualunque lavoro per restituire il prestito. Così, pur essendo senza patente ma avendo appreso a guidare da piccolo col padre camionista, accetta “ottocento euro per portare un camion di pomodori mezzi marciti» da Napoli in Calabria, viaggiando solo di notte e scortato da due macchine, con una falsa patente, e col sospetto “che sotto ci sta qualcosa di storto. Però non posso andare troppo per il sottile. Mò l’importante è che mi sfrutto l’occasione… ‘sti soldi mi servono ed è meglio che non faccio più domande». Insomma: una storia nella quale “non sto tranquillo; ci stanno troppe cose strane, troppi misteri»; i quali si manifestano quando, nel viaggio di ritorno, avvertendo alle spalle un colpo di tosse e poi un canto in una lingua sconosciuta, si sente combattuto tra l’andare a verificare e il “chiunque ci sta è meglio che ti fai i fatti tuoi. Tu niente sai e niente devi sapere devi solo portare il camion». Sennonché, “vulesse proprio sapè chi ci sta dentro a questo camion!», scopre che quel camion che all’andata nascondeva con ogni probabilità ben altri loschi traffici. Di qui il tradursi delle sue interrogazioni in un sentimento di umanità che lo spinge, una volta arrivato, a “tornare nel capannone e controllare meglio dentro a quel camion. È un desiderio da scemi, lo capisco, però è venuto e non riesco a scacciarlo». Con quanto ne consegue (e non è il caso di svelarlo), soprattutto quando decide di portare in ospedale uno di quei bambini che fatica a respirare, lasciando false generalità. Sono tutti elementi che dicono di come, rispetto alla struttura da teatro da camera che caratterizzava il precedente romanzo, Mille giorni che non vieni, pur conservando un’ambientazione prevalentemente chiusa - il carcere, la notte in camion - viri verso risvolti noir (non senza qualche eccesso horror), perdendo di conseguenza in dimensione psicologica, qui prevalentemente concentrata sul protagonista, su moglie e figlia e gli amici del carcere (delicato è pure il ricordo della nonna), mentre figure sostanzialmente topiche restano malavitosi e avvocato difensore, lasciando volutamente nell’ambiguità quella del magistrato Sacripante, “un tipo in gamba e non prevenuto» che “scrive tutto in un quaderno nero»; quaderno che fa però capolino nelle mani dei malavitosi al momento della resa dei conti dai risvolti filmici. Ha dunque una costruzione più tradizionale questo romanzo, occasione per “riflettere sul senso profondo di quello che cercavo di raccontare», in particolare su “quel labirinto inaccessibile che si chiama giustizia». E si tratta di temi scottanti: dalla situazione carceraria, “dove il tempo sembra non passare mai» e “devi aspettare per qualunque cosa», col tragico problema dei suicidi; il difficile reinserimento sociale anche per il malfunzionamento delle strutture amministrative (Comune, Asl); usura e pedofilia; e soprattutto il mondo del crimine rivisitato nella sua dimensione più disumana, quale il traffico di migranti finalizzato al commercio di organi. Il tutto affidato a un io narrante minuzioso che deposita racconto e problemi in una scrittura paratattica, franta, spezzettata, che ben gestisce gli impasti tra sintassi del parlato dialettale e italiano; e, pur con qualche divagazione da limare, capace d’un crescendo narrativo con conclusione tesissima, cinematografica, e lasciata “in levare». Corrado Augias: “Oggi non c’è nessuna cultura che nutra la politica” di Annalisa Cuzzocrea La Stampa, 18 settembre 2022 Il giornalista e scrittore: “I partiti si occupano dello stato di fatto, ma nessuno sa spiegare le cause. Meloni può dire assurdità sull’aborto, Salvini sulle frontiere. E la sinistra divisa sconta il suo destino». Viviamo un tempo nuovo senza neanche rendercene conto. Un secolo in cui tutto è cambiato, rispetto al precedente, ma in cui siamo talmente dentro da non percepirlo. “È questo - dice Corrado Augias - scrivilo, è così». Bisogna avere lo sguardo lungo, puntato sul futuro, ma la capacità di ricordare il passato vissuto e quello studiato, per leggere la realtà. E così, cominciamo a parlare de “La fine di Roma. Trionfo del cristianesimo, morte dell’Impero”, appena uscito per Einaudi, ma finiamo per riflettere su destra, sinistra, Meloni, Salvini, Orbán. Come mai un libro su eventi così lontani ci parla tanto di oggi? “Sono affascinato da quel periodo che è durato secoli e in cui il mondo ha cambiato cavalli e prospettiva. In cui una cultura poderosa dal punto di vista economico, militare, strategico, giuridico, di civiltà è stata sostituita quasi integralmente da un’altra. Proprio oggi, nel 2022, stiamo attraversando una fase analoga. È finita l’epoca che faticosamente stanno studiando i ragazzini delle scuole medie. Ne è cominciata un’altra, con nuovi strumenti di conoscenza e di comunicazione». Un nuovo mondo? Così come lo è stato il mondo cristiano dopo quello classico? “Sappiamo che la storia non si ripete mai uguale, ma alcuni meccanismi della storia si possono ripetere. La mia idea è questa e spiega perché la politica e i personaggi che la incarnano siano così modesti: non c’è nessuna cultura che nutra la politica. I partiti si occupano ormai dello stato di fatto: abbassiamo le tasse, diamo un bonus, facciamo l’autostrada. Cose anche onorevoli, ma puri effetti. Nessun politico ti dice più le cause, nessuno ti spiega: guardate che questo sta succedendo perché». Come in questa desolante campagna elettorale... “Guarda la scuola, un cardine della vita democratica. In Italia più che altrove abbiamo un tremendo bisogno di scuola. Bisogna sollevare il livello di acculturazione del Paese. E invece perdiamo tempo a parlare del numero dei bidelli, della mascherina. Non ci chiediamo mai: ma quello che insegniamo a scuola va ancora bene? O dovremmo cambiarlo?». Da cosa deriva questo respiro corto delle idee e delle proposte politiche? Dalla fine delle ideologie, dei vecchi quadri di riferimento? “È una delle ragioni, ma non sono finite solo le ideologie, è finita anche la religione. Nel libro parlo di quali siano stati per secoli i grandi interrogativi che le religioni si ponevano, i problemi lancinanti, puramente astratti e che oggi nessuno si pone. Tutto questo è finito. C’è una rivoluzione in corso». Quella digitale? “Avere in tasca dieci centimetri quadrati di plastica e terre nobili che ti permettono di comunicare all’istante con tutto il mondo non è una cosa che viene gratis. Che non cambia tutto. Vuoi che in questa situazione di trapasso ci sia uno che scrive La ricchezza delle nazioni o Il Capitale? Quei grandi testi che hanno dato alimento per decenni alla pratica politica? Non c’è nessuno che lo fa, nessuno sa cosa dovrebbe scrivere». Forse perché non ci rendiamo conto di essere dentro questo cambio d’epoca. Non abbiamo la capacità di guardare abbastanza avanti, o abbastanza indietro... “Chi invece è cresciuto in un altro mondo, come me, la vede come una cosa magnifica, prodigiosa e pericolosissima. Quando andavo al liceo parlavamo della guerra di Troia dividendoci tra chi stava con Achille e chi con Ettore. I ragazzini di oggi non lo fanno più. È un segno che quella cultura sta svanendo, che siamo dentro a una frattura profonda». È un mondo peggiore? “Non possiamo dirlo, sarà molto diverso». È un mondo che, col suo respiro corto, fa crescere i populismi, le loro risposte semplici e inattuabili, il consenso per il consenso? “La campagna elettorale fatta dicendo che Giorgia Meloni può rappresentare un ritorno al fascismo e in questo senso un pericolo è sbagliata. Non c’è un ritorno al fascismo. C’è forse qualcosa di peggiore. Ci può essere una limitazione della libertà senza ideologia. Il fascismo aveva una rozza ideologia. Ho riletto in un bel libro di David Bidussa tutti i discorsi di Mussolini ed è impressionante come avesse cercato di prendere di qua e di là, da Sorel a Marx alla Psicologia delle folle di Le Bon. Ha sentito il bisogno di costruire una ideologia». Adesso non c’è bisogno neanche di quella? Di una cornice logica in cui inserire le proposte politiche? “Adesso Meloni può dire assurdità come: difendiamo il diritto delle donne di non abortire. Mi ricorda la terrorizzante campagna sul divorzio di Amintore Fanfani, quando diceva: “Vi costringeranno a divorziare. I vostri mariti fuggiranno con le cameriere», sono cose sentite con le mie orecchie. Senza pensare a quell’impresentabile Salvini che da dieci anni ripete le stesse cose, sbarriamo le frontiere». Come fosse possibile, o umano... “Come avesse senso. C’è questa assoluta aridità della loro visione politica che li fa strisciare - dal punto di vista dialettico - a livello del suolo, ma non possono fare un discorso diverso perché non conviene loro e perché non lo sanno fare». Lei dice che è sparita anche la religione, ma mai è stata tanto ostentata - a destra - come in queste elezioni: il rosario, l’”io credo”, la famiglia tradizionale cristiana... “È appena uscito un bellissimo libro per Carocci, Il potere delle devozioni, dove Daniele Menozzi parla proprio dell’uso politico della pietà popolare. L’odierno populismo fa ricorso a livello planetario all’uso politico di devozioni tradizionali, da Bolsonaro a Orban, da Le Pen a Salvini, l’ostentazione di simboli religiosi depositati da secoli nella memoria cristiana è la risposta nazionalistico-identitaria alla crisi della globalizzazione. In un mondo sempre più secolarizzato, con le chiese vuote, le persone che escono dalla messa senza sapere cosa sia la comunione, i fondamentalisti usano la religione come un’arma. Lo fanno gli islamisti, che ammazzano, e Salvini, che non ammazza ma usa la croce per chiudere i comizi. La religiosità, la spiritualità, sono andate a farsi benedire». Davanti a tutto questo la sinistra si divide, perde in luoghi considerati culla della socialdemocrazia come la Svezia, si disintegra da noi impegnandosi in guerre intestine... “La sinistra sta scontando un destino che la colpisce di più perché è figlia di questa cultura morente. Il suo pensiero viene dagli enciclopedisti di metà del ‘700, dagli utilitaristi inglesi come John Stuart Mill. È depositaria di questo importante nucleo di pensiero, pensa a Gramsci, a Gobetti, a tutta l’onda che ha accompagnato la storia dei partiti e degli intellettuali. Sai perché erano più di qua che di là? Perché erano snob? Per niente, ma solo all’interno di quel pensiero riuscivano a ragionare nei termini in cui un artista, un intellettuale, uno scrittore deve farlo». Non credi come Meloni che c’entri la tessera della Cgil? “Sono chiacchiere da comizio. Le risposte sono più profonde. Perfino quando Bottai organizzava i “ludi littoriali” era costretto a invitare anche gli oppositori del fascismo altrimenti non c’era pensiero, non c’era dibattito. Ma magari Meloni che è donna molto intelligente sta già pensando a come attirare intellettuali e nuova classe dirigente». C’è un tentativo di allargare la base di Fratelli d’Italia, di farne un partito conservatore che si ispira ad altre famiglie politiche. Poi però votano a favore di Orbán contro un rapporto del Parlamento europeo. Non è una contraddizione? “Hanno tirato fuori la faccia vera. Come fai a proclamarti atlantista, europeista, se appoggi chi ha strozzato l’Ungheria, dove non c’è più una voce di dissenso che sia tollerata? L’idea che mi sono fatto, non so quanto sia giusta, è che abbiano vincoli per cui non potevano non farlo». Distruggendo il tentativo di accreditamento internazionale? “Sono ancora dentro il loro passato. Per Fratelli d’Italia voteranno frange nazifasciste che ancora esistono. E non puoi dire solo “quelli che fanno il saluto romano sono dei cretini”, questo è folclore. La sconfessione politica è un’altra cosa. Meloni ha bisogno di quei voti, di quel passato, della sua consistenza elettorale, e per questo vive in una costante ambiguità». L’equilibrio (perduto) dei poteri di Sabino Cassese Corriere della Sera, 18 settembre 2022 Il governo che legifera, invece di indirizzare. Il Parlamento-legislatore interstiziale. L’amministrazione sempre più vincolata da troppe norme. I guardiani dello Stato distolti dalla loro autentica funzione. E la collettività che paga un costo complessivo altissimo. Ultimi giorni di lavoro per il Parlamento eletto nel 2018. Si chiude la diciottesima legislatura dell’Italia repubblicana. Con quale bilancio? I parlamentari uscenti furono eletti con la legge Rosato del 2017, la stessa con la quale si voterà il 25 settembre prossimo. Una legge che ha introdotto una formula elettorale sbagliata, che costringe le forze politiche sia a competere, sia a cooperare, con i risultati schizofrenici che sono sotto gli occhi di tutti. Una legge che ha prodotto una legislatura con tre governi diversi, maggioranze diverse, orientamenti politici diversi. Ma c’è di peggio. Il Parlamento-legislatore, in questo quinquennio, è stato pressoché assente: solo un quinto della legislazione è stato di iniziativa parlamentare e la metà degli atti con forza di legge è stata costituita da decreti-legge, cioè da provvedimenti governativi, che il Parlamento deve esaminare in tempi ristretti, perché dettati da necessità e urgenza. I numeri dell’attività legislativa del Parlamento diminuiscono ulteriormente se si considera che una buona parte delle altre leggi è costituita da atti “dovuti», quali le leggi di bilancio e quelle di ratifica di trattati internazionali. Inoltre, i governi hanno posto la questione di fiducia su decreti-legge 107 volte. A un governo la fiducia basterebbe, secondo la Costituzione, una volta sola, subito dopo la nomina. Quindi, sei volte nei cinque anni passati, nei due rami del Parlamento, per i tre governi che si sono succeduti. Ma se il governo pone la questione di fiducia su una norma e ottiene un voto favorevole, il testo è approvato e tutti gli emendamenti parlamentari respinti. La questione di fiducia viene usata per compattare la maggioranza di governo, evitare l’ostruzionismo e i “franchi tiratori», e quindi accelerare l’approvazione delle proposte del governo. Un numero così alto di questioni di fiducia è il sintomo di una disfunzione del sistema parlamentare: il governo funziona sempre meno come comitato direttivo della maggioranza parlamentare o non sa “negoziare» con la sua maggioranza, e deve quindi ricorrere alla questione di fiducia per far cessare le voci dissenzienti. Dunque, il governo è diventato legislatore e strozza sempre più la discussione parlamentare, nel corso della conversione in legge dei decreti-legge, con il ricorso alla questione di fiducia. Questo non vuol dire, però, che il Parlamento resti afono. Bisogna pagare un costo di questo vistoso spostamento dei poteri dalle assemblee all’esecutivo: i decreti-legge crescono di due terzi durante il tragitto parlamentare. Se le leggi le fa il governo, bisogna pur dare un contentino al Parlamento, lasciando che i parlamentari, ridotti a fare un mestiere diverso, gonfino i decreti-legge con disposizioni settoriali o microsettoriali, che rispondono alle richieste delle loro “constituencies» e preservano il loro potere negoziale. Il quadro delle disfunzioni non termina qui. Si aggiungono altri protagonisti, i gabinetti ministeriali e le amministrazioni pubbliche. Questi si muovono in due diverse direzioni. Da un lato, cercano di spostare alla sede parlamentare decisioni che dovrebbero essere prese dalle burocrazie. Queste sono intimorite dalle originali e spesso eccessive iniziative di procure, penali e contabili, e mirano a trovare uno scudo nella legge (di conversione di decreti-legge). Dall’altro, anche le amministrazioni pubbliche sono composte da donne e uomini con le loro debolezze, aspirazioni, esigenze, e non è difficile per esse trovare una voce in uno o più parlamentari ben disposti. L’ultimo tratto di questo circolo vizioso è stato segnalato dal senatore Andrea Cangini in un documentato ed appassionato discorso parlamentare, in occasione della conversione del decreto-legge 36 del 2022 per l’attuazione del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Ha osservato: l’interlocutore del Parlamento sono le strutture tecnico-amministrative che appoggiano o dovrebbero appoggiare le azioni del governo, gli “apparati burocratici e le alte burocrazie che rappresentano un potere in sé». “L’impressione è che l’interlocutore del Parlamento sia, per esempio, la Ragioneria generale dello Stato». Cangini ha aggiunto: è vero che la politica è in crisi, ma l’autocefalia amministrativa è “un limite enorme all’esercizio democratico del potere da parte del Parlamento della Repubblica», uno squilibrio costituzionale, una “intollerabile umiliazione al potere legislativo». Dunque, governo legislatore, Parlamento-legislatore interstiziale (in sede di conversione dei decreti-legge), ricorso alla fiducia per strozzare i tempi e i poteri parlamentari, registi fuori del Parlamento. È un gioco in cui tutti perdono. Il governo che legifera, invece di indirizzare. Il Parlamento-legislatore interstiziale. L’amministrazione sempre più vincolata da troppe norme. I guardiani dello Stato distolti dalla loro autentica funzione. La collettività che paga un costo complessivo altissimo in termini di conoscibilità delle norme, di vincoli da esse disposti, di costi. I guasti che ho cercato di descrivere non sono cominciati dal 2018, ma si sono accentuati nell’ultima legislatura. Dipendono da incuria per le istituzioni. Anche queste richiedono manutenzione. I governi dovrebbero rafforzare i loro legami con le maggioranze parlamentari che li sostengono. I parlamentari dovrebbero pianificare la loro attività legislativa, ridurre invece di aumentare il numero delle norme (se ogni nuova legge ne abrogasse almeno cinquanta, si potrebbe forse uscire dal labirinto legislativo), scoprire la codificazione a diritto costante, che tanto successo ha avuto in Francia, su iniziativa del Consiglio di Stato, che in Italia rema invece nella direzione opposta. Le procure dovrebbero applicare le leggi, non riscriverle con interpretazioni creative. I guardiani dell’amministrazione ritornare nei ranghi, aiutando una classe politica complessivamente debole a migliorarsi, piuttosto che tenerla sotto il giogo. La campagna elettorale dell’odio: in tre mesi 671 casi di discriminazioni e violenze di Simone Alliva L’Espresso, 18 settembre 2022 Crescono le aggressioni fisiche e verbali, a sfondo razziale o omofobico, nel nostro Paese. “Pronto, sono stato aggredito», dall’altro capo del telefono la voce è rotta dalle lacrime e dalla paura. Il vaso di pandora si apre così. Prima di guardarci dentro però bisogna leggere i dati. Incrociarli. Verificarli. I numeri non sono la misura esatta di quello che c’è fuori ma aiutano a mettere a fuoco cosa sta succedendo tutto attorno a noi. E dentro di noi. L’Espresso ha analizzato in esclusiva i dati raccolti dall’Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali (Unar) del dipartimento per le Pari opportunità della presidenza del Consiglio dei ministri. Soltanto negli ultimi tre mesi (da maggio a luglio) si registrano 671 episodi di discriminazioni, 457 avvenuti in luogo fisico. Mentre 214 sono minacce e insulti che viaggiano attraverso la Rete. L’odio di una campagna elettorale - iniziata con le prime crepe al governo Draghi e ufficializzata a fine luglio - lievita nel Paese reale. Bisogna distogliere lo sguardo dai video di una politica ferma ai challenge su TikTok e rivolgerlo alle cronache locali: dall’invito alla “riapertura dei forni» per gay, ebrei e rom alle persone trans suicide, dalle coppie lesbiche massacrate perché si tenevano per mano al “vietato l’ingresso ai neri» in piscina. Dagli insulti ai calci, dalle offese alle aggressioni. Razzismo, omotransfobia, antisemitismo. Sono 209 le persone aggredite in quanto “stranieri”, 45 per il colore della pelle, 126 gli episodi di omotransfobia, 54 di antisemitismo. I numeri dell’odio raccolti dall’Unar - segnalazioni pervenute attraverso i diversi canali come numero verde 800 901010, e-mail, sito web - non riescono tuttavia a portare in superficie la campagna di caccia al “diverso” che si è intensificata in soli novanta giorni. Il sommerso non emerge neanche con l’Osservatorio per la sicurezza contro gli atti discriminatori (Oscad), istituto presso il ministero dell’Interno, al quale vengono inviati le segnalazioni di reati subiti in relazione alla razza/etnia, credo religioso, orientamento sessuale e identità di genere. Le rilevazioni dell’Oscad vengono abitualmente citate allo scopo di rappresentare il fenomeno dell’odio come marginale, di cui si contano pochissimi casi e quindi certamente non di dimensioni preoccupanti. Una lettura strumentale e pregiudiziale. L’Oscad non raccoglie notizie di reato, ma segnalazioni ulteriori che la vittima può decidere di inviare, oltre e separatamente alla presentazione della denuncia presso l’autorità di prossimità (polizia o carabinieri), prima o dopo avere sporto regolare denuncia o querela per il reato subìto. Un fenomeno di under-reporting ben specificato da tutti i documenti del dipartimento. Sulla pagina web del ministero dell’Interno dedicata al monitoraggio dei crimini d’odio si legge: “I dati relativi alle segnalazioni Oscad non consentono di valutare il fenomeno dei crimini d’odio da un punto di vista statistico». O ancora: “I dati comunicati non forniscono un quadro avente valore statistico sul fenomeno in Italia: incrementi e diminuzioni dei dati comunicati non sono correlabili con certezza a una proporzionale variazione dei crimini d’odio nel Paese». Difficile anche fare una classifica delle città che registrano più casi di discriminazioni. A voler prendere una cartina dello Stivale e appuntare in ogni singola città una denuncia, una violenza, un episodio discriminatorio si ottiene un Paese frammentato che non rispecchia il dualismo Nord-Sud, ossia la contrapposizione tra un Nord progredito e un Sud arretrato, è un approccio che non sta in questa Italia attraversata dall’odio verso il “diverso”. A Pordenone a due ragazzi di origine marocchina che frequentano un istituto superiore della zona di Sacile, viene rifiutato l’accesso all’alternanza scuola-lavoro in più di una azienda, diversamente da tutti i loro compagni, a causa delle loro origini. Mentre Porpora Marcasciano, attivista storica lgbt, viene aggredita con un coltello il 24 agosto, su una spiaggia della costa Adriatica, due di pomeriggio. È lei stessa a raccontarlo: “Frequento quella spiaggia da dieci anni. Il branco si è violentemente palesato senza darmi il tempo e il modo di pensare alla fuga. Venti minuti di terrore, in balia di cinque balordi. Il capo branco ha cominciato in modo soft, quasi gentile ad avviare un discorso che diventava man mano sempre più brutto, minaccioso, violento. Il gergo era quello omofobo con tutti gli epiteti che risparmio. Poi il brutto ceffo si è avvicinato, quasi a toccarmi e con un coltello continuava a ripetere che appena lo avessi sfiorato mi avrebbe tagliato la gola. Cercava l’appiglio ed io ero certa, certissima che lo avrebbe trovato da lì a poco. Non so dire ancora oggi a distanza di sei giorni cosa mi abbia permesso di essere qui a raccontarlo». Il candidato del Pd a Sesto San Giovanni, Emanuele Fiano, viene preso di mira dall’odio antisemita. Scritte sono apparse sui muri della Sapienza di Roma contro il deputato dem, figlio del sopravvissuto di Auschwitz, Nedo Fiano. È un filo nero che corre dentro questi giorni di campagna elettorale. Eppure, il tema non è, ancora oggi, l’odio. Non è la spaventosa assuefazione a un linguaggio e a un comportamento violento che si fonda sulla paura dell’invasore straniero o del gender nelle scuole. Sul nero che ti toglie il lavoro e che violenta le tue donne. Sul gay che vuole corrompere i tuoi figli o farti chiamare “genitore 1”, “genitore 2”. “Ho subito due episodi di razzismo molto violento in ambito lavorativo, entrambi durante una campagna elettorale. Prima nel 2018, quella più recente ad agosto». Racconta Nandi Ngaso nato in Camerun, è arrivato in Italia a 19 anni. Ha studiato, si è laureato in Medicina e chirurgia, ha lavorato con la Croce Rossa per anni e infine ha deciso di dedicarsi alla medicina d’urgenza. Noto alle cronache per aver denunciato un’aggressione razzista al punto di primo soccorso di Lignano, in Friuli-Venezia Giulia. “Preferivo due costole rotte che farmi visitare da un negro», gli ha urlato contro un paziente arrivato nel cuore della notte con fratture multiple a causa di una rissa. “Ogni parola violenta di un politico arma un cittadino in un modo o nell’altro. Pensiamo al video di Giorgia Meloni che durante un comizio spiega che si dovrebbe fare una vera e propria selezione di migranti prediligendo quelli in Venezuela perché bianchi. Oppure a quello in cui Salvini e Meloni parlano di “sostituzione etnica”. Questo è il linguaggio che attraversa la mia vita. Se mi trovo davanti una persona che mi aggredisce in quanto nero e musulmano, questa è la grammatica che usa. Per usare un’espressione cara alla leader di Fratelli d’Italia: la matrice è chiara». Per Cyrus Rinaldi, professore associato di Sociologia del diritto della devianza e mutamento sociale al dipartimento Culture e Società dell’Università di Palermo “le recenti campagne politiche (tra cui Ungheria, Polonia, Turchia, Usa, Russia, Filippine, Brasile e adesso l’Italia) hanno sfruttato le emozioni di chi “si sente lasciato indietro”, promuovendo una nostalgia per un passato nazionale immaginato e contrapponendosi a nemici interni (le élite) e nemici esterni (nazioni, organizzazioni sovranazionali,) ed individuando “altri” non degni di riconoscimento (femministe, Lgbtqi+, membri di minoranze etniche e comunità migranti). Gran parte delle rivendicazioni dei partiti di destra (“sono una donna, sono una madre, sono cristiana” è uno dei leimotiv che rimbomba maggiormente) trasformano in istanza politica il risentimento e il senso di rivalsa “naturalizzando” i confini di genere e sessualità, una retorica ideologica che fa di questa “compattezza” in sé una arma, una motivazione politica in sé e per sé, una naturalizzazione delle rivendicazioni politiche». Il mantra di una politica pura, identitaria, relazionale e nazionale (la famiglia eterosessuale, i ruoli “naturali” di uomini e donne, l’integrità territoriale e la sovranità nazionale) è pericolosissimo perché immette nel linguaggio e nell’agire comune parole e gesti indecenti, spiega Rinaldi: “Si tratta di un fenomeno noto nelle scienze sociali e che sostiene che gli individui siano motivati a mantenere un’identità sociale positiva e lo fanno confrontando lo status dei gruppi con cui si identificano con quello di altri gruppi. Quando, per via della presenza di altri gruppi “concorrenti”, alcuni percepiscono che il proprio status privilegiato è sottoposto a “minaccia” sperimentano forme frustrative che sfociano verosimilmente in forme di pregiudizio, aggressività e violenza. La minaccia dello status di gruppo predice un aumento della discriminazione nei confronti dei gruppi “outsider” e prevede che l’aumento delle differenze rappresenti una minaccia per i bianchi etero-cis, una minaccia reale alle loro “risorse” e, al contempo, una minaccia simbolica per i loro “valori”. In questo modo compiere violenza - dai crimini di odio alle parole di odio - significa partecipare a messinscene in cui l’individuazione di vittime ha sia l’obiettivo che l’effetto drammaturgico di rafforzare l’identità e i valori egemonici degli aggressori, riportando tutto alla “normalità». Scuola-lavoro: nessuno, o quasi, vuole abolirla. Prevale la promessa di un lavoro precario di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 18 settembre 2022 Stage di Stato. Uno sguardo ai programmi elettorali sui “percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento» (Pcto). Resta il nodo politico che non è affrontato da nessuno: la scuola dev’essere vincolata al mercato o dev’essere l’espressione di una democrazia? Ci sono pochi dubbi sul fatto che, dopo l’insediamento del nuovo Parlamento, nessuno abolirà l’alternanza scuola-lavoro rinominata con un acronimo che suona come uno sputo P-C-T-O, ovvero “Percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento». Non vogliono farlo tutte le forze politiche, tranne i raggruppamenti delle sinistre, candidate alle elezioni del 25 settembre. Basta leggere i lacunosi programmi elettorali per rendersi conto dell’ipocrisia generalizzata che regna nella politica dove quasi tutti hanno governato nell’ultima legislatura. Il Pd, ad esempio, prosegue l’opera di rimozione delle sue responsabilità politiche come partito. Non basta infatti dire che la stagione renziana è finita. Bisogna abolire e riscrivere le sue leggi, a cominciare proprio dall’alternanza, il cui attuale profilo è stato stabilito proprio da Renzi nel 2015. Da allora mai nessuno più l’ha rivisto. Davanti al terzo studente morto in meno di un anno il partito ora di Letta compila dichiarazioni addolorate (“morte inaccettabile», “terribile tragedia») e dice “sì» ai “Pcto». Il programma parla di “rafforzare le opportunità di orientamento e prospettive verso la formazione superiore», garantire “la certezza del rispetto della normativa sulla sicurezza e della capacità di assicurare l’apprendimento situato», fare “un costante monitoraggio e per consentire le segnalazioni di eventuali anomalie». I Cinque Stelle, già nella campagna elettorale del 2018, sembravano voler abolire l’”alternanza». Poi andarono al governo e le cambiarono solo il nome. Al nuovo giro non parlano nemmeno di “Pcto». E recuperano l’incredibile nozione di “scuola dei mestieri». In una mescolanza di fuffa “made in Italy», gerghi manageriali e di pedagogese neoliberale alla moda evocano l’”expertise artigianale», “il savoir-faire tradizionale» per “formare le nuove figure tecniche specializzate nella realizzazione dei prodotti dell’artigianato italiano». Scambiano cioè i “Pcto» con la formazione professionale e, così facendo, aumentano le ambiguità strutturali che tale sistema ha generato negli ultimi sette anni. Il cosiddetto “Terzo Polo» tra le cui fila c’è Renzi, si propone di riformare il sistema e di adattarla alla politica neo-aziendalista scelta da Draghi e dal ministro uscente dell’Istruzione Bianchi (in quota Pd) per finanziare gli Istituti tecnici superiori (Its) con 1,5 miliardi di euro del Pnrr. Si tratta di un sovradimensionamento colossale di un segmento specifico della formazione aziendale, foriera di nuove possibili disuguaglianze territoriali che squilibreranno ancora di più la formazione tecnico-professionale di nuovo riformata. I renzian-calendiani declinano l’”alternanza scuola lavoro” secondo il modello tedesco che ha una grande ascendenza in un paese subfornitore della Germania. Parlano di “percorsi duali in apprendistato» il cui scopo è “anticipare il contatto dei giovani con il mondo del lavoro». Nessuna considerazione sul fatto che ciò significa inserire gli studenti nelle dinamiche necropolitiche del lavoro e esporli al rischio di entrare nel tragico conteggio dei morti e dei feriti. Le destre, annunciate vincitrici delle elezioni, si tengono le mani libere. Parlano di “riforma dei Pcto». Sconosciuta è la direzione che potrebbe prendere una nozione così vaga e inconsistente. Però questo è un segnale indicativo della confusione che regna sull’argomento, oltre che la dimostrazione che le destre ritengano superfluo dire qualsiasi cosa su un problema che non è ritenuto tale. Alla base dei detti, e dei non detti, elettorali c’è una contraddizione di fondo della scuola capitalistica: collegata strutturalmente al mercato del lavoro, e ignara del fatto che dovrebbe invece essere l’espressione di una democrazia, essa esclude l’idea dell’autonomia nei saperi e nelle pratiche. E dunque anche la resistenza contro i ricatti di un lavoro sempre più alienato e brutale. Di questo non si discute nemmeno tra i sindacati che chiedono tutt’al più “una modifica normativa», l’”abolizione dell’obbligatorietà», “standard rigorosi e vincolanti per le imprese». Richieste anche giuste, ma prima andrebbe ripensato il senso della scuola, e del mercato del lavoro. Un programma politico minimo, ma necessario per superare l’impotenza organizzata in cui agonizziamo. Ciò che è sconvolgente è che le morti di Lorenzo e Giuseppe prima, lo studente ustionato gravissimo a Merano a maggio, il decesso di Giuliano dell’altro ieri sono stati intesi come eventi eccezionali in un sistema perfettibile. La protesta contro la mostruosa normalità di questa idea è ripresa tra gennaio e aprile di quest’anno e ha resistito anche alle manganellate del “governo dei migliori». è un fiore nel deserto di un paese cinico, intorpidito e assuefatto alla tossicità quotidiana. Il suo futuro è nelle mani degli studenti. E di tutti coloro che non accettano di consegnarli a questo orrore. “Non è una fatalità ma un omicidio. Basta scuola-lavoro» di Riccardo Bottazzo Il Manifesto, 18 settembre 2022 Il lutto, e la rabbia, degli studenti per la morte di Giuliano de Seta, 18 anni: “Non bastano più le parole. Basta con questo orrore». “Non potevamo entrare in classe come se fosse un giorno normale e fare lezione come se niente fosse accaduto. Qualcuno cerca di far passare questo ennesimo omicidio come una tragica fatalità da risolvere invocando più controlli per la sicurezza. Controlli che sappiamo che non ci sono per i lavoratori. Figurarsi per noi studenti in stage! - spiega Nina Mingardi, portavoce del coordinamento studenti medi di Venezia. Sono solo parole quelle che ci dicono, ma noi sappiamo che non bastano più le parole». E così il liceo artistico di Venezia, cuore pulsante dei movimenti studenteschi del Veneto, si è fermato ieri mattina per una assemblea straordinaria organizzata dalle ragazze e dai ragazzi delle classi superiori per parlare di quanto era accaduto il giorno prima a Noventa di Piave, quando una lastra di metallo ha ucciso il 18enne Giuliano de Seta piombandogli sugli arti inferiori. Giuliano viveva a Ceggia, sempre in provincia di Venezia, frequentava l’ultimo anno dell’Istituto di Istruzione Superiore “Leonardo Da Vinci» di Portogruaro. Sognava di diventare ingegnere e la sua passione era correre con gli amici del Runners Club della sua città. Aveva cominciato da pochi giorno lo stage all’azienda metallurgica Bc Service per maturare i crediti necessari all’ottenimento del diploma secondo i criteri stabiliti dalla riforma della scuola italiana: la cosiddetta “legge della Buona Scuola» fortemente voluta da Matteo Renzi. A seguire l’esempio degli studenti del liceo artistico Venezia, sono state anche altre scuole del Veneto, in particolare del trevigiano. Flash mob per Giuliano si sono svolti anche a Roma davanti al Ministero ed a Napoli dove in occasione di un incontro con Luigi de Magistris di Unione popolare hanno alzato dal palco un lungo striscione con scritto “Ricomincia la scuola, ricominciano i morti. No Alternanza». Giuliano è il terzo ragazzo quest’anno ucciso dall’alternanza scuola lavoro. Eppure sono poche le forze politiche disposte a discutere sull’opportunità di mantenere gli stage nelle aziende. I commenti dei vari leader di partito si fermano al cordoglio; a quelle “parole» che la studentessa Nina Mingardi ha spiegato che non bastano più. “Una tragedia che lascia attoniti, agghiacciati. Non può succedere. Non deve succedere» ha twittato Enrico Letta segretario del Pd. Sulla stessa lunghezza d’onda il leghista Luca Zaia, governatore del Veneto, che esprime “cordoglio e piena vicinanza alla famiglia del diciottenne» e chiede “chiarezza fino in fondo sulle dinamiche dell’infortunio». Sulla questione, la Procura ha aperto un fascicolo e ha affidato le indagini al pubblico ministero Antonia Sartori che dovrà chiarire la dinamica dell’incidente in collaborazione con i tecnici dello Spisal, il servizio regionale per la sicurezza negli ambienti di lavoro. Lutto per la morte del ragazzo anche nelle nota di Carmela Palumbo, direttrice dell’Ufficio Scolastico Regionale. “Il dolore pesa come un macigno sui cuori di tutti noi» commenta, e difende la scelta dell’istituto Leonardo Da Vinci di Portogruaro che “ha una lunga e consolidata esperienza nel campo dell’alternanza scuola lavoro e dei percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento. Essa pone attenzione alla scelta delle aziende partner del veneziano e presidia con cura tutti gli aspetti formativi dello stage». Anche Elena Bonetti, ministra per le Pari opportunità e Famiglia ribadisce la validità dei progetti di alternanza scuola lavoro: “dobbiamo garantire più sicurezza nei contesti lavorativi ed educativi, e altrettanto dobbiamo continuare a investire in una scuola che sappia aiutare i giovani a entrare nel mondo del lavoro». Sicurezza che oggi proprio non c’è, considerando che solo quest’anno abbiamo superato la soglia dei 600 morti sul lavoro. A chiedere l’immediata abolizione dell’alternanza, oltre alla rete studentesca e l’Unione Popolare, sono rimasti i portavoce dell’Alleanza Verdi Sinistra. “Questi stage rispondono solo ad una strategia di sfruttamento del lavoro di questi ragazzi che non solo non guadagnano un euro ma rischiano anche la vita - ha spiegato Luana Zanella, coportavoce di Europa Verde del Veneto -. Se non vogliamo piangere altri morti, l’unica cosa da fare è uscire da questa logica malata che pone l’istruzione al servizio del mondo del lavoro e progettare ad una scuola che formi cittadini consapevol»“. “Anche per Giuliano saremo in piazza per il Global Strike di venerdì prossimo - conclude Sebastiano dei Friday For Future di Venezia - Le dinamiche capitaliste che hanno ucciso Giuliano sono le stesse che stanno uccidendo il pianeta». La democrazia dei sensi di colpa di Luigi Manconi La Stampa, 18 settembre 2022 La definizione adottata dalla risoluzione del Parlamento europeo a proposito del regime ungherese di Viktor Orbán è nitida e tagliente: “Autocrazia elettorale”, ovvero un sistema costituzionale in cui si svolgono le elezioni ma dove manca il rispetto di norme e standard di democrazia. L’elenco delle aree di quel regime politico, dove è in atto una torsione autoritaria, è puntuale e non breve: il funzionamento del sistema costituzionale e di quello elettorale, l’indipendenza della magistratura, la corruzione e i conflitti di interesse, la protezione dei dati personali, la libertà di espressione e di stampa, quella accademica e di religione e di associazione, i diritti delle persone appartenenti a minoranze, quelli dei migranti, dei richiedenti asilo e dei rifugiati e quelli economici e sociali. La risoluzione è stata approvata a maggioranza con il voto favorevole dei parlamentari di Forza Italia e con quello contrario dei gruppi di Fratelli d’Italia e di Lega. Come mai, a distanza di appena dieci giorni dal voto del 25 settembre, e mentre Giorgia Meloni e Matteo Salvini si sbracciano per giurare sulla propria affidabilità come possibili leader di governo, si è verificata questa ostentata dissociazione rispetto ai principi e ai valori dell’Unione europea e dello Stato di diritto? Come mai, senza nemmeno la foglia di fico di una pudica astensione, si è scelta questa forma di pubblica adesione a un regime “autocratico-elettorale”? Penso che le ragioni siano molte: la simpatia verso Orbán non è motivata solo dalla dichiarata volontà di “rispettare” le libere scelte degli ungheresi e dall’esigenza tattica di creare uno schieramento alternativo a quello socialista-popolare: e nemmeno dal tentativo di sottrarsi al “pensiero unico” liberal-democratico che dominerebbe l’Europa. No, il favore costantemente espresso nei confronti della “democratura” ungherese nasce, innanzitutto, dalla condivisione profonda delle opzioni culturali e valoriali che ispirano l’ideologia di Fidesz, il partito del primo ministro magiaro. E c’è un episodio recente che mette a nudo - come un rimosso che sovviene o un soprassalto dell’inconscio delle istituzioni - quella comune concezione del rapporto tra cittadino e Stato. Qualche giorno fa è entrato in vigore in Ungheria un decreto che impone alla donna che voglia accedere all’interruzione di gravidanza l’obbligo di ascoltare il battito cardiaco del feto. Non è solo l’espressione di una idea macabra di un atto della volontà femminile e nemmeno la manifestazione penitenziale di un esercizio di libertà, ridotto ad auto-mortificazione e ad auto-riprovazione. C’è qualcosa di più: l’idea di una “democrazia del senso di colpa”, dove il sistema delle libertà e dei diritti non corrisponde alla piena realizzazione di sé, all’affermazione dell’autonomia individuale, a spazi più ampi di emancipazione sociale e all’accesso a maggiori risorse di identità e intelligenza. La democrazia del senso di colpa è il sistema dove tutte le conquiste non solo richiedono fatica - come è normale che sia - ma vengono fatte pagare a caro prezzo ed espiare; e dove ogni diritto è sempre precario e revocabile. In altre parole, un regime dove la libertà non è la massima espansione delle capacità umane e dove i diritti non sono il riconoscimento di tutte le articolazioni della dignità della persona e della sua inesauribile ricchezza, bensì un luogo dove l’ordine e l’autorità devono sempre prevalere sull’autonomia individuale. E, per altro verso, la libertà non è mai felicità e il diritto non è mai affermazione della soggettività contro ogni tirannia. È questa l’idea di democrazia coltivata da Giorgia Meloni e da Matteo Salvini? Se interpellati, i due negherebbero: ed è assai improbabile che una loro possibile vittoria elettorale porti all’introduzione in Italia di un regime ispirato a quella concezione punitiva della democrazia. Ma, allo stesso tempo, è probabile che si moltiplicheranno, e avranno qualche effetto, i tentativi di piegare la cultura politica e la mentalità collettiva del nostro paese in quella direzione. Quando Giorgia Meloni dice di non voler modificare la legge 194, ma che sarà assicurato “il diritto di non abortire» e che si darà “un’alternativa alle donne che abortiscono per motivi economici», sta trasmettendo un messaggio preciso: la legge 194 non consentirebbe “un’alternativa» all’aborto. Dunque, oggi, l’interruzione volontaria di gravidanza sarebbe, per la donna, una scelta come un’altra e una soluzione deresponsabilizzante, tanto più se affidata al metodo della Ru486 (“la pillolina”, come la definiscono beffardamente alcuni cretini). La finalità è la stessa che ha suggerito il decreto ungherese: acuire il carattere di trauma sempre rappresentato dall’interruzione volontaria di gravidanza e renderlo più drammatico (quasi non lo fosse già di per sé). Ma la democrazia del senso di colpa, ovvero il sistema politico del rimorso e dei diritti ridotti a facoltà fragili, è strutturalmente illiberale, in quanto viene indotta ad affidarsi a figure forti e a meccanismi autocratici per sottrarre i cittadini a uno stato di ansia collettiva e di depressione sociale. Nell’Ungheria di Orbán la deriva dei diritti umani è inarrestabile di Sabato Angieri L’Espresso, 18 settembre 2022 Nel Paese ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana. Con due terzi dei deputati il partito del premier decide da solo. “L’Ungheria, a mio avviso, si è spinta molto oltre, sull’orlo di una specie di abisso; e ora deve decidere se allontanarsi da questo baratro o correre un rischio e fare un salto, sulle cui conseguenze non voglio fare ipotesi». Si è espresso così il ministro per gli Affari Europei della Repubblica Ceca, Mikulas Bek, il 9 settembre scorso a proposito del veto di Budapest alle sanzioni europee alla Russia. Qualche giorno prima il governo ungherese aveva annunciato che si sarebbe opposto al nuovo pacchetto di misure punitive contro Mosca se gli altri Paesi Ue non avessero accettato di escludere tre oligarchi russi (Alisher Usmanov, Viktor Rashnikov e Petr Aven) dal provvedimento. L’Ue stavolta non si è piegata e poco dopo l’Ungheria ha ceduto rimandando l’opposizione alla prossima scadenza, prevista per marzo. Non sempre, tuttavia, gli Stati europei si sono dimostrati altrettanto compatti rispetto agli aut aut del governo di Viktor Orbán; anche perché il leader ungherese negli anni si è costruito una solida reputazione tra tutti i partiti di destra e di estrema destra europei che aspirano a governare con il pugno di ferro e anche nel pieno della campagna elettorale italiana è frequente imbattersi in comparazioni con il modello ungherese. Più che un Primo ministro oggi Orbán è il re dell’Ungheria e ha creato un sistema neo-feudale che gli garantisce il controllo capillare di quasi ogni aspetto della vita quotidiana del Paese. Sul piano interno due sono gli strumenti principali che gli hanno permesso di mantenere il potere così a lungo: il controllo dei media e le riforme costituzionali. Il primo l’ha ottenuto grazie alla riforma del 2010 che consegnava al governo direttamente o indirettamente l’80 per cento dei canali di informazione, il secondo per mezzo della nuova legge elettorale del 2012 che sembra cucita addosso al suo partito, Fidesz, e che da 10 anni gli assicura più dei due terzi dei seggi nell’Assemblea Nazionale consentendogli di approvare riforme costituzionali senza bisogno di alleanze. Sul fronte internazionale la solida alleanza con i costruttori di auto tedeschi, il gruppo Volkswagen in primis, assicura al Primo ministro magiaro un appoggio strategico fondamentale in seno allo stato leader dell’Ue nonché, secondo l’Istituto centrale di statistica ungherese, tra il 9,5 e il 13,5 per cento del Pil (dati 2019). È significativo notare che fin dall’insediamento di Orbán, i giornali tedeschi sono stati i suoi più attivi detrattori, con picchi durante la crisi migratoria del 2015 e nella primavera del 2021 contro la legge anti lgbtq. D’altronde, sui media ungheresi gli attacchi della stampa estera sono (quasi) un motivo di vanto: le democrazie liberali sono in crisi d’identità e Orbán è fiero di essere a capo di una “democrazia illiberale» (così come egli stesso l’ha definita). La propaganda è massiccia e incessante e c’è sempre un nemico in agguato. All’inizio erano i socialisti, poi i migranti, la lobby lgbtq, i rom, l’Unione Europea. Senza contare l’anti semitismo strisciante della classe dirigente che imputa a George Soros tutte le teorie complottiste possibili. Un’infaticabile macchina del fango che ha permesso al governo ungherese di approvare una serie di misure e di smantellare ciò che restava del welfare pubblico. Quando nel 2018 il governo approvò la cosiddetta “legge schiavitù”, che innalzava a 400 ore annuali il tetto di ore di straordinario legale, Orbàn dichiarò che finalmente chi voleva guadagnare di più aveva il diritto di farlo. In altri termini, chi restava povero sceglieva di esserlo. Nello stesso anno un emendamento costituzionale stabiliva che dormire all’aperto in luoghi pubblici era illegale e quindi che i senzatetto diventavano criminali. Nel 2021 il parlamento di Budapest ha posto tutte le università e le istituzioni culturali sotto il controllo di fondazioni private istituite ad hoc e presiedute da sodali di Fidesz. In parallelo, si è smantellata la Ceu (l’Università del Centro Europa) voluta e finanziata da George Soros e al suo posto il governo ha firmato un accordo miliardario per la costruzione di una succursale dell’Università cinese di Fudan. Molti analisti vedono in quest’intesa solo la punta dell’iceberg delle nuove relazioni economiche e strategiche tra Ungheria e Cina. Ultima in ordine temporale, la legge sulla cosiddetta “prevenzione della pedofilia” che accomuna la pedofilia all’omosessualità e vieta la propaganda di contenuti che diffondano un’idea diversa di famiglia rispetto a quella tradizionale. Dopo anni di minacce l’Ue ha aperto una “procedura di infrazione” che puntava a fare pressione con lo spauracchio del taglio dei finanziamenti. Orbán, per dimostrare all’Europa che gli ungheresi erano dalla sua parte, ha indetto un referendum in concomitanza con le elezioni dello scorso aprile. Ma alle urne la dissidenza si è manifestata con l’astensionismo e la consultazione è risultata nulla per il mancato raggiungimento del quorum. Tuttavia, contestualmente, su 199 seggi disponibili, Fidesz, ne ha conquistati ben 135, riuscendo a mantenersi oltre la fatidica soglia dei due terzi. Senza contare le riforme volte a controllare i sindacati, a imbavagliare i media indipendenti in nome della “sicurezza nazionale”, a decurtare fondi dalla scuola pubblica per assegnarli agli istituti religiosi, a impiegare in massa poveri e rom nei lavori pubblici per pochi fiorini al mese e licenziare i dipendenti statali che ora sono disoccupati e credono che “gli zingari gli abbiano rubato il lavoro». E, ovviamente, i ripetuti tentativi di porre anche la magistratura sotto il controllo dell’esecutivo, culminati, all’inizio del 2020, con l’istituzione di tribunali speciali, controllati dal ministero della Giustizia, chiamati ad esprimersi su varie questioni: dal diritto di assemblea alla stampa, dagli appalti pubblici alle elezioni. Ma la decisione più nota, quella che probabilmente identificherà per molti anni a venire il governo di Viktor Orbn, è la costruzione del famoso “muro” al confine con la Serbia. Eppure, in un Paese di dieci milioni di abitanti dove i figli della borghesia liberale espatriano sempre prima e la popolazione invecchia, il discorso fa presa. E le critiche dell’Ue non fanno che rafforzare la retorica del giusto tra gli improbi, del difensore della cristianità dal pervertissement liberale delle lobby ricche. Intanto la situazione è tutt’altro che rosea e negli ultimi anni si è registrato un aumento considerevole del costo della vita. A titolo di esempio si consideri che un insegnante a Budapest spende in media il 70% del suo salario per un affitto e un agente di polizia è spesso costretto ad avere un secondo lavoro come trasportatore o rider per sbarcare il lunario. E la colpa è sempre di qualcuno altro, in una guerra tra poveri che viene alimentata costantemente dalla ricerca di nemici esterni, come nel caso dei migranti alla frontiera serba, e interni, come i rom. Nell’ottavo distretto di Budapest, a Dioszegi utca, le case delle famiglie rom sono catapecchie fatiscenti mangiate dall’umidità e dalla puzza malsana delle fogne mai riparate. Nel nord del Paese, a Ozd e a Salgotarjan (dove raggiungono 1/3 della popolazione cittadina) sono ai margini dell’abitato, separate da larghi viali da quelle degli “ungheresi” e spesso non servite dalla rete idrica ed elettrica. Nell’est, a Miskolc il governo locale ha attuato tra il 2014 e il 2015 una campagna di sfratti e demolizioni che ha devastato la zona delle “vie numerate” lasciando macerie e degrado e costringendo oltre 120 famiglie ad emigrare con compensazioni che andavano dai 6000 euro (per abbandonare la propria casa di proprietà) a zero. A pochi passi si è costruito uno stadio di calcio. Non è un caso se in più occasioni i rom d’Ungheria sono stati etichettati come “migranti interni”. Difatti, il trattamento loro riservato è spesso simile a quello utilizzato contro i migranti che, intanto, continuano a tentare di attraversare la frontiera romena e da lì (data l’assenza del muro) di entrare in Ungheria per proseguire verso ovest. Salvo poi essere ricacciati indietro nella maggioranza dei casi e ritentare i giorni seguenti. Lo chiamano “il gioco”, con una macabra ironia che ben descrive la situazione. Sul dramma di queste migliaia di persone l’Ue generalmente non si esprime, consapevole di ciò che avviene alle proprie frontiere e quindi, in una certa misura, connivente. Personaggi come Orbàn (che non è l’unico della sua specie, va sottolineato) in alcuni casi risultano utili ed è in queste faglie che prosperano. Poi passano gli anni e l’opposizione interna si ritrova a non avere più spazio nel dibattito pubblico e a ottenere il 34 per cento dei voti pur avendo tentato di candidare insieme quasi tutti, dai socialisti agli ultra-conservatori, mentre la televisione e i siti internet legati al governo continuano a parlare del rischio della sostituzione etnica, della propaganda della lobby lgbtq, del complotto giudaico-massonico e del fatto che la crisi energetica è colpa delle sanzioni occidentali e non della decisione di Putin di invadere l’Ucraina. Gran Bretagna. Perché vogliono distruggere Julian Assange di Dario De Lucia collettiva.it, 18 settembre 2022 Il giornalista australiano è detenuto in Gran Bretagna dal 2019 in attesa della decisione sull’estradizione richiesta dagli Usa dove rischia 175 anni di carcere e una detenzione durissima. Tutto questo, spiega la giornalista Stefania Maurizi, “mentre i crimini denunciati in Wikileaks restano impuniti” C’è un uomo, un giornalista, che per alcuni è un baluardo della libertà di stampa, per altri è un soldato di Putin che crea solo disinformazione. Diversi Stati vogliono la sua testa, mentre altri vogliono offrirgli asilo e salvarlo. Julian Assange è tutto questo e anche di più. La giustizia a stelle e strisce gli contesta la pubblicazione sul sito Wikileaks, dal 2010 in avanti, di decine di migliaia di documenti riservati che hanno rivelato crimini di guerra e fatto emergere i retroscena della guerra in Iraq, aprendo uno squarcio profondo sui crimini di guerra e la manipolazione Stefania Maurizi (Repubblica, l’Espresso e ora Il Fatto Quotidiano) è l’unica giornalista italiana che ha ricevuto direttamente i documenti di Wikileaks. Ha pubblicato con Glenn Greenwald i file di Edward Snowden sull’Italia e ha rivelato l’accordo confidenziale tra il governo degli Stati Uniti e la famiglia di Giovanni Lo Porto, il cooperante italiano ucciso in Pakistan da un drone americano. Ha vinto vari premi giornalistici, tra cui la Colomba d’Oro dell’Archivio Disarmo. Il suo ultimo libro - Il potere segreto, Chiarelettere, si presenta con la prefazione incendiaria del registra inglese vincitore della Palma d’Oro Ken Loach ma è il suo contenuto a essere esplosivo. Si tratta, infatti, della ricostruzione fedele, meticolosa e puntuale di ciò che l’autrice definisce come un “processo al giornalismo”. Ricordiamo che Assange, è detenuto dal 2019 nel Regno Unito in attesa della conclusione del processo di estradizione avviato dagli Stati Uniti dove rischia una condanna a 175 anni di carcere. Perché Julian Assange è diventato per gli Stati Uniti e tante altre nazioni il nemico pubblico numero uno? Di cosa è accusato? È accusato di aver detto la verità. Di aver rivelato crimini di guerra e tortura come il video Collateral Murder dove le forze d’invasione statunitensi hanno ucciso civili innocenti in Iraq; nel video si vedono militari Usa sparare colpi di mitragliatrice, uccidere persone e… ridere. Così come sulle guerre in Afghanistan e in Iraq… Sono 76.910 i documenti pubblicati sull’Afghanistan. Ci permettono per la prima di volta di vedere come la guerra si sviluppa giorno per giorno e di leggere quello che accedeva in tempo reale. Si tratta di report scritti dai militari che, senza filtri, raccontavano quello che vedevano in piena libertà, senza sapere che un giorno sarebbero stati divulgati. Per la guerra in Iraq invece arriviamo a ben 351mila documenti resi pubblici che ricostruiscono minuziosamente giorno per giorno, azione per azione, una guerra terribile. Anche questi sono stati scritti direttamente dai soldati stessi che relazionano senza filtri, con poche scarne parole, la guerra così come avviene. Ci sono anche 251 mila cable che raccolgono tutte le corrispondenze dei diplomatici nel mondo, raccontano quali sono le questioni importanti per la diplomazia internazionale, ovvero una versione senza il filtro delle pubbliche relazioni. Infine, sono presenti anche schede di detenuti del carcere americano di Guantanamo che hanno permesso per la prima volta di avere tutti i nomi delle persone detenute, sapere perché erano state portate in carcere e vedere per la prima volta le foto dei loro volti. Mi domando: tutti questi importantissimi documenti sarebbero mai arrivati alla conoscenza di tutti? Ci sono anche documenti sull’Italia? I documenti più importanti sono i cable della diplomazia americana italiana e vaticana, 4.189 in tutto. Ricostruiscono tutti i fatti accaduti dalla fine del 2001 fino al 2010 secondo quello che scrivevano i tre ambasciatori Usa che si succeduti a Roma. Questo materiale rivela molte cose: ad esempio come l’Italia è stata trasformata in una sorta di piattaforma di lancio della guerra americana nel mondo. Il nostro Paese ha concesso agli Stati Uniti tutto quello che Washington ha chiesto: basi, aeroporti, ferrovie per spostare truppe e armamenti e si è anche reso complice di crimini come l’extraordinary rendition di Abu Omar: un uomo rapito a mezzogiorno a Milano, come fossimo in una qualsiasi dittatura sud americana. I nostri bravissimi magistrati, Armando Spataro e Ferdinando Pomarici, riuscirono a individuare i responsabili - 26 cittadini americani, quasi tutti agenti della Cia - e a ottenere per loro condanne definitive. Eppure nessuno ha fatto un solo giorno di galera: impunità assoluta. Insomma, dobbiamo prendere atto che se sei un agente Cia o Sismi che rapisce a Milano e poi tortura un essere umano, sarai perdonato, impunito, intoccabile. Se sei un giornalista/whistleblower come Julian Assange che rivela criminalità di Stato come questi, la tua vita è finita. Insomma: niente avrebbe dovuto danneggiare i rapporti tra i due paesi, e infatti non furano mai inviati i mandati di arresto negli Stati Uniti. Si sono succediti sei ministri della giustizia, di destra e sinistra, tutti si sono rifiutati di farlo. Voglio ricordare che la Corte europea dei diritti umani ha condannato l’Italia per il rapimento e la detenzione illegale dell’ex imam Abu Omar. Cosa rischia a livello penale Julian Assange? Per la prima volta nella storia degli Stati Uniti viene incriminato un giornalista che ha rivelato informazioni vere nel pubblico interesse grazie a una legge del 1917, l’Espionage Act. Una legge che non fa differenza tra chi rivela documenti segreti che fanno emergere crimini di guerra e torture e invece chi vende informazioni al nemico in tempi di guerra. Julian Assange rischia 175 anni di carcere; in pratica se entra in una prigione americana non uscirà mai più. Ma non è solo questo: verrebbe detenuto in strutture di massima sicurezza con un registro durissimo di isolamento chiamato Sam, un regime terribile per cui sei tenuto veramente fuori dal mondo, trattato peggio di un animale: luci sempre accese, senza riscaldamento, in una prigione grande come un posto auto, senza cure. E, ancora, non potrà mai usare coltello e forchetta, starà sempre con le catene a mani e piedi e non potrà neanche godere dell’ora d’aria. Finirebbe nella prigione americana dove è detenuto il super narcotrafficante El Chapo per capirci. Questo caso è definito dal registra Ken Loach, che ha scritto la prefazione al tuo libro, come una mostruosa ingiustizia… È così. I criminali di guerra che sono stati denunciati da Wikileaks non hanno fatto un giorno di carcere. Per questo Kean Loach lo ha definito il più grande crimine di Stato. Dal 2010 Assange non ha più conosciuto la libertà: un mondo alla rovescia e sottosopra. Tu e altri giornalisti avete ripreso i file di Wikileaks parlandone apertamente sulla stampa. Hai avuto problemi in questi anni? Sono l’unica giornalista italiana che ha lavorato a 360 gradi su tutti i documenti di Wikileaks, era il 2009 e dall’ora non ho mai smesso, ho iniziato per L’Espresso, poi La Repubblica e adesso Il Fatto Quotidiano. Non sono mai stata arrestata o anche solo interrogata; ho avuto intimidazioni ma queste sono la regola se fai questo mestiere. Nessuno dei giornalisti che hanno parlato dei file segretati hanno mai avuto problemi ma Assange sì. Perché questo? O tutti o nessuno. Come si sta muovendo nello scacchiere internazionale l’Italia per Julian Assange? Si sta muovendo bene. O meglio le persone si stanno attivando, le istituzioni no. Siamo a un punto di svolta, l’appello si dovrebbe tenere nell’autunno del 2022 e andare avanti con tutta probabilità fino ai primi mesi del 2023. Non è vero che non possiamo fare niente, l’opinione pubblica ha le chiavi della sua cella in mano. Stati Uniti. Wall Street Journal: “Biden vuole chiudere il carcere di Guantánamo” huffingtonpost.it, 18 settembre 2022 Restano 36 detenuti, e costano uno sproposito. Il supercarcere è stato aperto nel 2002 e da allora ha ospitato circa 800 detenuti per costo di 7 miliardi di dollari. L’amministrazione Biden sta segretamente intensificando gli sforzi per la possibile chiusura del supercarcere di Guantánamo. Secondo indiscrezioni riportate dal Wall Street Journal, l’amministrazione ha nominato un diplomatico per la supervisione del trasferimento dei detenuti e ha segnalato di non voler intervenire nei negoziati di patteggiamento che potrebbero risolvere le dispute riguardante la mente degli attacchi dell’11 settembre Khalid Sheikh Mohammed e altri quattro detenuti. Guantánamo è stata aperta nel 2002 e da allora ha ospitato circa 800 detenuti. Al momento nel supercarcere ce ne sono solo 36. I 36 detenuti di Guantánamo costano 13 milioni di dollari l’anno l’uno. Lo riporta il New York Times sottolineando che finora il supercarcere è costato 7 miliardi di dollari. Una cifra elevata legata soprattutto alla rotazione del personale, ma anche all’atteggiamento dei vari presidenti che si sono succeduti alla Casa Bianca da quando è stato aperto, da Barack Obama che voleva chiuderlo a Donald Trump che voleva ampliare la struttura. Stati Uniti. Migranti, la sfida dei governatori repubblicani di Leonardo Pini La Stampa, 18 settembre 2022 Due bus carichi di profughi illegali davanti a casa di Kamala Harris. Il governatore della Florida, invece, prenota due aerei e li spedisce a Martha’s Vineyard. Martha’s Vineyard è un’isola da sempre considerata come un paradiso in terra. Nell’immaginario americano quella lingua di terra a largo delle coste del Massachusetts è trafficata da presidenti americani e celebrità, mentre nella cultura popolare è famosa perché lì è sepolto John Belushi e Steven Spielberg ci ha ambientato il primo film della serie Lo Squalo. Più di recente, invece, a togliere del glitter dall’isola ci hanno pensato la crisi dei migranti e la crisi abitativa e socio-economico riportata dal Washington Post. A innescare la crisi dei migranti ci hanno pensato i governatori repubblicani di Texas e Florida, Greg Abbott e Ron De Santis. Apparentemente con l’inganno, i due stanno cercando di portare avanti una battaglia politica a tema immigrazione. I governatori dei due stati del sud degli Stati Uniti hanno deciso di spedire i migranti, provenienti da centro e sud America, negli stati progressisti e liberali del nord, con l’intento di far ascoltare la loro voce dall’amministrazione Biden, visto che proprio Texas e Florida sono stati di frontiera per l’immigrazione che arriva dal continente centroamericano. I migranti sono entrati senza autorizzazione dal confine a sud degli Stati Uniti. Provenienti dal Venezuela e da altri stati centroamericani, dopo aver varcato la frontiera si sono consegnati alle autorità di confine. De Santis nelle ultime ha mandato due aerei con 50 persone a bordo a Martha’s Vineyard. Il governatore ha promesso loro di mandarli a Boston, in Massachussets, dove avrebbero trovato una casa e un lavoro. Com’è stato denunciato da un avvocato per i diritti civili di Boston “a metà del volo i migranti hanno appreso che non sarebbero andati a Boston, ma Martha’s Vineyard. Lasciati sull’isola senza che nessuno di quella comunità ne fosse a conoscenza». De Santis in merito ha specificato che “avevano firmato un foglio e gli era stata data una mappa dell’isola. È chiaro che sarebbero andati lì». Martha’s Vineyard non se la passa bene in questo periodo, per via della crisi economica e abitativa che ha costretto famiglie e residenti a lasciarla. Dopo essere stati ospitati per giorni in una chiesa episcopale, adesso i migranti dovrebbero essere trasferiti nella base militare di Cape Code, stando a quanto dichiarato dal governatore del Massachussets, Charlie Baker. Oltre alla falsa promessa di mandarli in un posto dove avrebbero trovato la sicurezza di una casa e di un lavoro, negli Stati Uniti, come riporta il Washington Post, ci si chiede anche da quali fondi abbia attinto il governatore repubblicano per finanziare questa operazione. Nel nuovo stanziamento di budget pubblicato dallo stato, un piccolo trafiletto riguarda la “relocation campaign», campagna di trasferimento, tanto cara a De Santis. Per l’operazione la Florida ha messo a disposizione 12 milioni di dollari, trasferiti dalla sanità alle politiche migratorie grazie alle poche restrizioni per la spesa dei fondi presenti nell’American Rescue Plan, il piano post covid varato dall’amministrazione Biden. In una conferenza tenuta venerdì sera, De Santis ha specificato: “Abbiamo 12 milioni di dollari da spendere e non ci fermeremo fino a che non li avremo finiti». Abbott, invece, è riuscito a riempire due bus, carichi di persone che avevano attraversato illegalmente il confine, e spedirli a Washington D.C davanti alla residenza della vicepresidente americana, Kamala Harris. Uomini, donne e bambini provenienti da Panama, Guyana, Cuba, Nicaragua e Colombia. Abbott aveva già lanciato ad agosto l’operazione “Lone Star» con lo scopo di denunciare “la crisi storica delle frontiere del sud del paese, che mettono in pericolo e sopraffanno le comunità del Texas da due anni». Da agosto 11 mila migranti sono stati portati a Washington DC, a New York e a Chicago, e due giorni fa, addirittura, sono stati lasciati davanti alla residenza di Harris. “Fino a quando l’amministrazione Biden-Harris non smetterà di negare la crisi che hanno creato continueremo a portare il confine davanti alla loro porta» ha scritto il governatore del Texas in una nota su Twitter. Dal punto di vista giuridico non è illegale per un governatore pagare con fondi statali il viaggio ai migranti purché cambino stato, ma se le promesse su dove andranno a finire non vengono mantenute i governatori in questione “potrebbero essere denunciati per truffa e stress emotivo», ha dichiarato al New York Times Heidi Li Feldmann professoressa di diritto della Georgetown University. Il legale di alcuni dei migranti mandati sull’isola del Massachussets, Ivan Espinoza Madrigal, ha invece dichiarato che “se una persona viene indotta e costretta a salire su un aereo sotto false promesse, dopo che ti viene detto che andrai in un posto e invece vieni mandato altrove mentre sei in volo, allora quella è una privazione della libertà vietata dalla Costituzione». Afghanistan e Myanmar, i dossier che scottano di Emanuele Giordana Il Manifesto, 18 settembre 2022 Assemblea generale dell’Onu. Diaspora birmana mobilitata per il no del Palazzo di vetro all’ambasciatore scelto dai militari. “Quello che facciamo è cercare soluzioni concrete dove è possibile, anche in Ucraina» dice il Segretario generale dell’Onu nel presentare alla stampa la 77ma sessione dell’Assemblea generale dell’Onu. Evento che entrerà nel vivo martedì col primo discorso affidato, come vuole il cerimoniale, al Brasile. Nel suo discorso Guterres ha parlato del clima, degli interventi umanitari, dell’egoismo dei Paesi ricchi e anche, seppur velatamente, del Consiglio di sicurezza cercando di rilanciare il ruolo sempre più in salita di un’Organizzazione paralizzata dal veto e dal potere che nessun Paese vuol cedere al Palazzo di Vetro. I problemi sono tanti e grandi, a partire dall’Ucraina (al posto di Putin ci sarà Lavrov). Ma ce ne sono di (apparentemente) secondari che si riferiscono ad altre guerre. Meno mediatizzate ma non meno atroci di quella che si combatte in Europa. È il caso ad esempio del Myanmar o dell’Afghanistan. In quest’ultimo la guerra è finita ma il regime dei Talebani, non avendo avuto alcun riconoscimento internazionale, non è rappresentato e il seggio all’Onu gli è stato rifiutato. Nel primo la guerra invece è materia quotidiana ma ancora non si è deciso se a rappresentare i birmani debba esserci il vecchio ambasciatore o quello che vorrebbe la giunta militare, cui però il seggio all’Onu è stato negato e resta vacante. I casi sono molto diversi sotto il profilo diplomatico: a Kabul i diplomatici se ne sono andati se non per un pugno di ambasciate - tra cui Cina e Russia - rimaste aperte. In Myanmar invece i diplomatici sono rimasti: in una sorta di limbo di cui è lo specchio la decisione sul rappresentante-Paese all’Onu. Se i Talebani hanno le loro note difficoltà a dialogare con gli altri, anche perché non hanno interlocutori nel Paese, per il Myanmar ci pensa la società civile e le tante sigle della diaspora che, in tutto il mondo, non smettono di ricordare le stragi quotidiane, l’illegalità e del golpe e, dunque, il diritto dell’ambasciatore U Kyaw Moe Tun a essere il Rappresentante permanente all’Onu per il Myanmar. In Italia si troveranno oggi a Milano per manifestare in centro dopo aver scritto al ministro Luigi Di Maio, cui la Comunità birmana in Italia ha chiesto in una lettera il sostegno politico di Roma perché si riconfermi U Kyaw Moe Tun. La questione è delicata. La decisione sulle candidature è in mano al Comitato per le credenziali cui spetta la scelta su chi o meno debba rappresentare un Paese. Se per l’Afghanistan la cosa è complicata dal fatto che non esiste nemmeno un governo in esilio, nel caso birmano, l’ambasciatore nominato dal vecchio esecutivo capeggiato da Aung San Suu Kyi è stato riconfermato dal Governo di unità nazionale, il governo ombra che rappresenta i parlamentari eletti nel novembre 2020 ed esautorati dal golpe del febbraio 2021. Governo che però nessuno riconosce. I nuovi membri del Comitato delle credenziali sono Angola, Austria, Guyana, Maldive, Uruguay e Zambia ma ci sono anche i membri permanenti di Usa, Cina e Russia. Questi ultimi due vicini alla giunta militare. L’ultima parola spetta teoricamente all’Assemblea ma non sarebbe la prima volta che si lascia in stallo la candidatura e il seggio vacante. Il caso scotta e Guterres, nel suo discorso, ha preferito evitare il dossier come potrebbero fare anche i Paesi membri rimandando la decisione. Prove di bavaglio in Guatemala. Così il governo applica la censura ai giornalisti di Daniele Nalbone e Ylenia Sina L’Espresso, 18 settembre 2022 False accuse, arresti pretestuosi, fonti bruciate, perquisizioni e hater scatenati ad arte. La vendetta della politica contro i cronisti più impegnati nella lotta alla corruzione. E nel mirino finiscono anche i magistrati. Era il 28 giugno quando in Guatemala ottantuno giornalisti e ventidue realtà tra testate indipendenti e associazioni diffusero un comunicato per chiedere al governo e alle autorità giudiziarie di fermare “la censura, la violenza e la criminalizzazione che limitano la libertà di espressione». Il testo terminava con queste tre parole: “No nos callarán», “Non ci faranno tacere». La denuncia era scattata perché nelle due settimane precedenti cinque giornalisti avevano subito aggressioni di vario genere: un arresto arbitrario, un tentato omicidio, la distruzione di macchine fotografiche e telecamere da parte della polizia, l’apertura di un’indagine legata ai contenuti di un’intervista. I firmatari non potevano prevedere, anche se in pochi l’avrebbero escluso, che un mese più tardi “No nos callarán» sarebbe diventato uno slogan virale per esprimere dissenso contro l’arresto di uno dei giornalisti più conosciuti nel Paese per i suoi articoli sulla corruzione: José Rubén Zamora Marroquín, direttore de elPeriódico, quotidiano nato nel 1996, anno in cui il Guatemala si è lasciato alle spalle 36 anni di una guerra civile che oltre a duecentomila morti e quarantamila desaparecidos aveva reso difficile anche il lavoro dei giornalisti, con 340 reporter assassinati e 126 scomparsi. Zamora è stato arrestato il 29 luglio, dopo perquisizioni in casa e in redazione durate per ore, con l’accusa di vari reati, tra cui riciclaggio di denaro, e oggi è in carcere in custodia cautelare. Con lui è stata arrestata anche Samari Carolina Gómez Díaz, procuratore aggiunto della Procura speciale contro l’impunità, accusata di divulgazione di informazioni riservate. La denuncia è partita da Ronald García Navarijo, ex dirigente della Banca dei lavoratori, arrestato nel 2018 per associazione illecita finalizzata a drenare fondi dall’istituto, fuori dal carcere dal 2020. Navarijo sostiene che Zamora, che rigetta le accuse e ha dichiarato al giudice di sentirsi un “prigioniero politico», gli abbia consegnato circa 38mila dollari in contanti con la richiesta di versarli su uno dei suoi conti. Anche se la procura ha sottolineato che l’arresto non è legato alla sua attività giornalistica, l’immagine del direttore di un quotidiano in manette circondato da poliziotti ha attirato l’attenzione internazionale. Il motivo non è legato solo all’importanza della figura di Zamora, ma anche al fatto che il direttore de elPeriódico non è il primo giornalista nel Guatemala del presidente Alejandro Giammattei a essere oggetto di un procedimento giudiziario. “Si è diffusa la sensazione che questo arresto sia un punto di svolta e che se non cambia qualcosa diventeremo come il Nicaragua, dove la stampa indipendente è stata praticamente espulsa. Molti colleghi mi hanno confidato di avere paura», racconta Evelyn Blanck, giornalista e direttrice di Centro Civitas, organizzazione che difende la libertà di espressione. Per capire quanto sta accadendo bisogna tornare al gennaio del 2019 quando l’allora presidente Jimmy Morales non rinnovò il mandato della Commissione internazionale contro l’impunità (Comisión internacional contra la impunidad en Guatemala - Cicig, ndr), un organismo anticorruzione sostenuto dalle Nazioni Unite, nato nel 2006 in accordo con il Guatemala. Le indagini della Cicig arrivarono a coinvolgere anche tre degli ultimi quattro presidenti, Molina, Morales e Giammattei (che ancora non era stato eletto), ed ebbero l’effetto di un terremoto nella classe dirigente del Paese, dove la ricchezza e il potere sono storicamente concentrati nelle mani di una ristretta élite di imprenditori e metà della popolazione vive in povertà. Il lavoro della Cicig fornì anche materiale d’inchiesta per la stampa. Per questo, l’ondata di criminalizzazione che ha colpito pubblici ministeri e giudici anticorruzione, 24 dei quali oggi sono in esilio, ha riguardato anche i giornalisti. In sei sono usciti dal Paese. “Da allora giudici e pubblici ministeri che hanno occupato le posizioni dei colleghi che seguivano casi importanti di corruzione hanno iniziato a criminalizzare anche i giornalisti generando censura e un restringimento degli spazi di libertà di espressione», spiega Claudia Ordóñez Viquez dell’Ong Artículo 19. Tra i giornalisti in esilio c’è Juan Luis Font, conduttore e direttore di programmi televisivi e radiofonici, per anni al fianco di Zamora nella redazione de elPeriódico, del quale è stato anche direttore. Font ha lasciato il Guatemala a marzo dopo che Alejandro Sinibaldi, imprenditore ed ex ministro delle Comunicazioni coinvolto in più di un caso di corruzione, lo ha accusato di riciclaggio. Dopo Font, anche Erika Aifán, tra i giudici più in vista dello Stato e premiata a livello internazionale per la sua attività, è uscita dal Paese dopo essere stata accusata di abuso di potere per aver deciso, come prevede la legge, di unire i casi relativi al giornalista e all’ex ministro sotto la sua giurisdizione. “Non c’erano le garanzie per un giusto processo», ha spiegato Font, intervistato pochi giorni dopo l’arresto di Zamora. “Sinibaldi mi accusava di aver ricevuto il denaro per pubblicare servizi a lui favorevoli, ma io ho aperto i miei conti bancari e mostrato le pubblicazioni critiche verso l’ex ministro. Questo non è bastato a far archiviare le accuse». Font ha avuto paura di finire in carcere, proprio come è accaduto a Zamora: “Non avrei più potuto parlare mentre dall’estero continuo a informare su ciò che sta accadendo». Per Font “le inchieste della Cicig avevano colpito gli interessi di potenti attori economici e politici che ora si stanno vendicando di tutti coloro i quali hanno appoggiato la lotta alla corruzione». Anche se la criminalizzazione dei giornalisti non è un fenomeno recente in Guatemala, dove fin dai primi anni duemila molti comunicatori delle radio indigene sono stati portati in tribunale per cavilli legali, nel 2020 è diventato “uno dei fenomeni più preoccupanti». Lo si legge nel rapporto Guatemala: lo Stato contro la stampa e la libertà di espressione redatto dall’Ong Artículo 19 e dalle associazioni guatemalteche Centro Civitas e Artículo 35, nome che deriva dal numero del passaggio costituzionale che difende la libertà di espressione: tra il 2011 e il 2020 sono state registrate 820 aggressioni, soprattutto minacce, ma anche 49 omicidi e nonostante undici anni fa sia stata istituita una procura speciale per i crimini contro i giornalisti, solo il 6 per cento delle denunce è arrivato a sentenza. I giornalisti guatemaltechi, a differenza di quanto accade in altri Paesi dell’America Latina, non possono nemmeno contare su un programma di protezione, nonostante l’impegno che il loro Stato ha assunto nel 2012 davanti alle Nazioni Unite. Per questo nel 2020 un gruppo di organizzazioni locali e internazionali, tra le quali quelle che hanno redatto il rapporto, hanno creato la Red rompe el miedo, che letteralmente significa “Rete spezza la paura”, mutuando l’esperienza dal Messico, con l’obiettivo di monitorare i rischi ed elaborare protocolli operativi in caso di allerta per l’incolumità di un collega. “Le aggressioni più preoccupanti sono quelle dei funzionari pubblici, soprattutto poliziotti ma anche sindaci e membri dei consigli municipali», spiega Evelyn Blanck, tra le creatrici della Red. I più vulnerabili sono i giornalisti che lavorano in provincia, dove gli interessi delle multinazionali o della criminalità nello sfruttamento e nel controllo del territorio sono molto forti. “Con gli ultimi due governi sono state però proprio le alte cariche del Paese a dequalificare costantemente il lavoro della stampa», conclude Blanck. Lo sanno bene i giornalisti Marvin del Cid e Sonny Figueroa, rispettivamente fondatori di Artículo 35 e del sito Vox Populi, che con le loro inchieste su corruzione e abusi di potere sono diventati una spina nel fianco del governo di Alejandro Giammattei. Proprio il presidente della Repubblica nel corso di una conferenza stampa li ha soprannominati el combo, alludendo al fatto che da un paio di anni i loro articoli sono sempre a doppia firma. “Così facendo, ci ha reso identificabili e quindi più vulnerabili perché la gente che lo sostiene da allora ha iniziato a diffamarci in rete», sottolinea del Cid. Negli anni, del Cid e Figueroa sono stati calunniati, ripetutamente fermati dalle forze dell’ordine, minacciati di morte da anonimi. A settembre 2020, Figueroa, dopo aver chiesto aiuto a una volante della polizia per denunciare uno scippo avvenuto davanti al Palazzo nazionale a Città del Guatemala, è stato picchiato dagli agenti e incarcerato per venti ore sulla base di accuse infondate. Otto mesi dopo, nel maggio 2021, del Cid e Figueroa sono stati denunciati per violenza psicologica contro le donne dalla moglie e dalla sorella dell’ex direttore del gabinetto di governo, Luis Miguel Martínez Morales, al tempo il funzionario più vicino al presidente Giammattei, per aver pubblicato un’inchiesta sulle proprietà di lusso in cui si erano trasferite. “Come è possibile che un giudice accetti di procedere in merito a una denuncia per violazione della legislazione sui femminicidi per contrastare un giornalista nell’ambito del suo lavoro?», si chiede Figueroa. “Il vero intento era censurarci: il giudice ci ha condannato a non pubblicare nulla su quelle persone per sei mesi». Per la loro sicurezza del Cid e Figueroa nel 2021 si sono trasferiti in Costa Rica: “Ma siamo tornati dopo tre mesi. Sentiamo che il nostro Paese ha bisogno del nostro lavoro».