Lavoro per i detenuti e giustizia riparativa contro il rischio “carcere sociale” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 17 settembre 2022 “Basta l’isolamento delle coop sociali, bisogna co- progettare mettendo al centro l’inclusione lavorativa per i detenuti e la giustizia riparativa: aumentano soggetti plurisvantaggiati e il rischio di un “carcere sociale”. In vista delle prossime elezioni politiche del 25 settembre, l’associazione Legacoopsociali che raggruppa le cooperative sociali, ha elaborato alcune richieste da presentare alle forze politiche che si candidano alla guida del Paese, rivendicando il proprio ruolo che non può essere quello di cui servirsi quando è necessario. In pandemia le Coop sociali hanno garantito alcuni servizi e attività - “La cooperazione sociale di inserimento lavorativo durante la pandemia è riuscita a macchia di leopardo a mantenere aperti i servizi e le attività - dichiara Loris Cervato, coordinatore del Gruppo Carcere di Legacoopsociali - Si osserva da alcuni anni l’evoluzione della composizione della popolazione detenuta verso il ‘carcere sociale’: aumentano le persone con problemi di dipendenze varie, invalidi, con problemi psichiatrici, stranieri senza documenti e senza speranza di ottenerli, in poche parole soggetti plurisvantaggiati. Diviene problematico per le cooperative trovare, nella pur numerosa popolazione detenuta, l’idoneità minima a intraprendere percorsi di inserimento lavorativo”. Legacoopsociali chiede quindi di iniziare a lavorare ai diversi livelli, centrale e locale, con l’istituzione “carcere” per la co- programmazione e la coprogettazione. Per migliorare il rapporto con le istituzioni carcerarie è importante utilizzare tutti gli strumenti normativi di cui l’ordinamento italiano dispone. Due giorni fa siamo giunti al 60esimo suicidio - Il gruppo nazionale di lavoro sul carcere, osserva che in un momento così difficile per il mondo carcere, è opportuno che la politica riporti l’attenzione sui drammi che si stanno consumando all’interno di questi luoghi che la Costituzione definisce “di rieducazione”, considerato l’alto numero di suicidi che sta colpendo gli istituti del nostro Paese. Due giorni fa siamo giunti al 60esimo suicidio. Un ragazzo di 29 anni, si è spento all’ospedale Civico di Palermo, dopo giorni di coma. Al carcere di Pagliarelli per rapina, tramite il suo legale aveva chiesto il trasferimento in un centro di riabilitazione, ma ancor prima di conoscere l’esito dell’istanza, ha deciso di togliersi la vita. Gli agenti della penitenziaria lo hanno trovato quasi esanime nella sua cella, con attorno al collo le lenzuola che aveva usato come cappio. Ricoverato subito in gravi condizioni, qualche giorno dopo è entrato in coma e non si è più svegliato. Ritorniamo alle proposte di Legacoopsociali rivolte ai candidati. In particolare, le cooperative sociali chiedono di essere coinvolte in questa fase post Covid in modo più diretto. La cooperazione sociale di inserimento lavorativo durante la pandemia è riuscita a macchia di leopardo a mantenere aperti i servizi e le attività, laddove è riuscita a far valere e rispettare le varie norme che di volta in volta venivano emanate a livello nazionale e regionale. Ciò ha richiesto grande impegno da parte delle cooperative, visto lo scollamento tra istituzione carcere e sanità penitenziaria e la propensione dell’istituzione carcere a rispondere all’emergenza con la chiusura e l’autarchia, senza puntare sulla pianificazione e la collaborazione con il Terzo settore (si veda l’esempio della “compartimentazione”, prevista e quasi mai praticata nei casi di focolai covid19). Pertanto - chiedono le cooperative - deve essere evidenziato che la cooperazione sociale con grande fatica e impegno ha continuato a lavorare per garantire i servizi a favore delle persone detenute e il loro inserimento lavorativo. Le cooperative sociali avvertono che l’istituto penitenziario vive la relazione con le cooperative sociali come se fossero un soggetto di cui servirsi quando ne ha bisogno; la sensazione di isolamento e di “messa all’angolo” è percepita come reale e vissuta come il vero ostacolo a un rapporto collaborativo con gli istituti di pena. Aumentano i detenuti con problemi di dipendenza e psichiatrici - Altra proposta è quella di affrontare in modo congiunto, articolato e concreto l’evoluzione della popolazione detenuta verso il “carcere sociale” con interventi pluriennali e risorse economiche adeguate. Si osserva da alcuni anni l’evoluzione della composizione della popolazione detenuta verso il “carcere sociale’: aumentano le persone con problemi di dipendenze, invalidi, con problemi psichiatrici, stranieri senza documenti e senza speranza di ottenerli, in poche parole soggetti plurisvantaggiati. Diviene problematico per le cooperative trovare, nella pur numerosa popolazione detenuta, l’idoneità minima a intraprendere percorsi di inserimento lavorativo, resi molto complicati anche dall’uso eccessivo di psicofarmaci. La proposta di Legacoopsociali è quella di iniziare a coprogrammare e coprogettare con altri ministeri, con cooperative e strutture del territorio esperienze di “comunità” e di “lavoro assistito”. “È importante che questa popolazione povera e senza speranze abbia la possibilità e la dignità di accedere ad attività e a un reddito minimo”, sottolinea l’associazione delle cooperative sociali. L’associazione chiede di fare in modo che in tutti gli istituti penitenziari vi siano possibilità lavorative per i detenuti. Le cooperative sociali osservano che spesso, negli Istituti, gli spazi non sono sufficientemente fruibili sia per motivi di “sicurezza” che per motivi di mancanza di personale da dedicarvi. I detenuti si devono accontentare di turni periodici solo ed unicamente per accedere a lavorazioni (esempio le pulizie dei corridoi, occuparsi della trascrizione della spesa, portare il carrello del pranzo e cena, etc…) non esattamente qualificanti ma utili solo all’osservazione del comportamento ed a dotare di poche economie le persone che vi aderiscono. Questo non è più sufficiente per una detenzione che sia effettivamente rieducativa e che produca processi di cambiamento. La cooperazione sociale, attraverso la cooprogettazione e l’utilizzo di spazi da mettere a norma sottolinea che può collaborare a rendere gli istituti non solo luoghi più umani ma anche dove sviluppare competenze spendibili nei vari territori dove poi la popolazione detenuta dovrà rientrare. “È fondamentale che questo avvenga su tutto il territorio nazionale e ancora di più a sud del Paese dove esistono sacche di marginalità, disoccupazione e povertà estreme che trovano “risposte” sono negli agiti devianti e nell’illegalità”, chiedono con forza. Altro punto fondamentale della proposta nei confronti dei candidati è quello di iniziare a lavorare ai diversi livelli, centrale e locale, con l’istituzione ‘ carcere’ per la coprogrammazione e la coprogettazione. Per migliorare il rapporto con le istituzioni carcerarie è importante utilizzare tutti gli strumenti normativi di cui l’ordinamento italiano dispone; in particolare la recente riforma del terzo settore e l’art. 55 può risultare utile per creare forme di collaborazione più stretta e di cooprogrammazione (analisi della realtà e dei bisogni) e coprogettazione con la pubblica amministrazione; tra i maggiori problemi emersi si è evidenziata la mancanza di un coordinamento tra l’istituto carcerario e la cooperazione sociale e l’art. 55 potrebbe creare le condizioni per colmare questo vuoto. Altro punto è la valorizzazione della giustizia riparativa collocandola in un percorso che sia di reale consapevolezza attraverso un lavoro che la cooperazione sociale può proporre su due fronti fondamentali: lavorando sulla persona con competenze mirate per affrontare i temi della condizione personale individuale e di contesto oltre che familiare, prevedendo tempi congrui attraverso sportelli ad hoc territoriali; offrendo delle opportunità esperienziali lavorative e di potenziamento delle competenze relazionali legate alla gestione del bene comune, trasferendo all’utenza i valori dell’importanza del bene comune come elemento cardine del vivere legale e sociale. Il carcere nei programmi dei partiti: zero o poco più di Giulia D’Aleo Il Manifesto, 17 settembre 2022 Il confronto con le forze politiche indetto dai Garanti territoriali per le persone private della libertà, alla presenza del Garante nazionale Mauro Palma e del capo del Dap Carlo Renoldi. In questi venti giorni di campagna elettorale, il tema delle carceri è entrato timidamente nel discorso pubblico, rimanendone perlopiù ai margini. Ha tentato di colmare questa mancanza la conferenza indetta dai Garanti territoriali per le persone private della libertà, che ha visto la partecipazione di diversi esponenti dei principali partiti. Se tutti hanno parlato di dignità dei detenuti, diverse sono state le risposte al tema. A fronte della situazione degli istituti penitenziari fotografata dal Garante nazionale Mauro Palma - che registra 56 mila presenze a settembre contro le 54 mila di giugno - i rappresentanti di Azione-Italia Viva, Pd e +Europa vedono nel ricorso a misure alternative e depenalizzazione per i reati minori una soluzione al sovraffollamento. Federico Mollicone di FdI ha contrapposto, invece, l’idea di un protocollo d’intesa tra Stati, per contenere il numero di detenuti stranieri nelle carceri italiane - 20 mila a detta del deputato, ma 17mila secondo i dati. Un progetto complementare a un piano di nuova edilizia, volto a dismettere e riqualificare edifici storici - come il milanese San Vittore o il Regina Coeli a Roma - e sostituirli con strutture moderne. Su questo punto è arrivata una piccola apertura da parte di Mauro Palma, che si è detto non “totalmente restio a considerare la questione”, insistendo però sulla necessità di unire adeguatezza delle strutture e senso appartenenza, spesso negato dalle nuove carceri dislocate ai margini delle città. Mollicone ha parlato anche dell’insufficienza di personale di polizia penitenziaria e delle conseguenti ripercussioni sul benessere psico-fisico degli agenti e sulla capacità di sorveglianza della popolazione detenuta. Un tema, quello della carenza di organico e dei salari che, ha attaccato Anna Rossomando del Pd, viene ripreso ogni qual volta si “voglia solleticare il mondo degli agenti penitenziari, senza ricordare che i responsabili dei tagli sono i governi di destra e centrodestra”. Anche il segretario Pd Enrico Letta ha parlato ieri di carcere in occasione della visita alla cooperativa Giotto di Padova, che offre lavoro e occasioni di reinserimento ai detenuti: “Per noi il tema delle carceri entra prepotentemente nella campagna elettorale. Lo vogliamo fare entrare a partire da questa visita. Il mondo del carcere è in modo sbagliato associato a quello della sicurezza. Il mondo del carcere è un mondo rispetto al quale la questione fondamentale è quello del reinserimento, per evitare che nel nostro Paese ci sia questo record di recidivi e di suicidi in carcere. E’ una realtà della quale il sistema pubblico si deve occupare, non deve essere l’ultima priorità”. Durante l’incontro organizzato dai garanti territoriali, Stefania Ascari, deputata per il M5S, ha insistito sulla sicurezza e ha messo l’accento sulla lotta all’ingresso di materiale “illecito” in carcere - da cellulari, fino ad armi e droghe - e sulla permeabilità del 41bis. Già in passato il Movimento si era dichiarato contrario all’estensione di colloqui via Skype all’interno di queste sezioni; adesso, ha riferito Ascari, “abbiamo scoperto che i detenuti possono farsi una foto all’anno, che viene poi repostata sui social per inneggiare alla criminalità organizzata.” Riccardo Magi, presidente di +Europa, ha ricordato la necessità di una riforma costituzionale sugli articoli 72 e 79 in materia di concessione di amnistie e indulto, che ad oggi il parlamento può difficilmente approvare a causa del necessario raggiungimento di “un quorum irragionevole, superiore a quello che serve per modificare la Costituzione”. Magi ha poi attaccato la proposta di riforma dell’art. 27, presentata nell’ultima legislatura a prima firma Giorgia Meloni, volta ad arginare le “finalità di risocializzazione della pena”, che ha definito “dal contenuto eversivo”. È di Fiammetta Modena (FI), invece, l’unico accenno alla Giustizia riparativa, presentata come una “conquista culturale” contro il “populismo penale” e trasformata in bandiera di partito. Carceri: la situazione è sempre più drammatica. La denuncia dei Garanti rainews.it, 17 settembre 2022 Sovraffollamento, strutture fatiscenti, suicidi e atti di autolesionismo. La proposta per invertire la rotta: depenalizzazione dei reati minori. Le carceri italiane nelle parole di chi le conosce bene: i garanti dei detenuti, che si ritrovano a convegno a Roma, confrontando esperienze che sono drammi. Il sovraffollamento, i topi, le cimici da letto, gli atti di autolesionismo, la droga e le armi che come i telefonini, girano tra le celle. E a pochi giorni dalle elezioni, in un confronto pubblico, chiedono un intervento alla politica. Per Stefania Ascari, del Movimento 5 stelle, è necessario intervenire sulle sezioni del 41 bis, il regime carcerario speciale, non abbastanza impermeabili all’esterno. “In 4 e mezzo - dice - ho visitato i 12 istituti di pena italiani che ospitano questo regime e solo uno, a Sassari, è a norma. E questo è molto grave”. Per Riccardo Magi, presidente di +Europa, prioritario è un intervento nella politica sugli stupefacenti, in particolar modo sui cosiddetti reati di lieve entità, “che in 7 casi su 10 - spiega - portano in carcere, generando quel fenomeno delle porte girevoli che andrebbe limitato e non corrisponde a nessuna finalità della pena”. Detenuti, votate! La libertà è partecipazione di Francesca Sabella Il Riformista, 17 settembre 2022 Le sbarre di ferro del carcere possono imprigionare il corpo, non devono fare lo stesso con la mente, con le idee, con i diritti di chi ha sbagliato e sta scontando la sua pena. L’Italia, infatti, fa parte di quei Paesi che non negano in modo assoluto la possibilità di votare ai detenuti (come invece succede in Bulgaria e nel Regno Unito), ma nella maggior parte dei casi tale diritto si considera soltanto sospeso e questo avviene solo per alcune categorie di reclusi: per chi è condannato all’ergastolo e per chi deve scontare una pena superiore a cinque anni. Tutti gli altri, quindi, possono votare? La risposta è sì. E quindi… detenuti votate! Votate! E votate! Sappiamo già che giustizialisti e forcaioli a questo punto dell’articolo saranno già caduti dalla sedia, ma lo dice la legge, non noi, che i detenuti possono e devono votare. È un diritto e un dovere civico. Il carcere serve (o almeno dovrebbe servire, ma questa è un’altra storia) a rieducare, a reinserire chi ha sbagliato nella società, ecco perché è importante che anche loro contribuiscano a cambiare la società nella quale ritorneranno a vivere. “Andate a votare, esprimete la vostra preferenza di voto, divenendo così cittadini attivi - afferma il garante regionale dei detenuti Samuele Ciambriello - Sarebbe un errore madornale non recarsi alle urne, il voto è un diritto e un dovere sacrosanto per tutti i cittadini; è l’espressione massima della democrazia. Anche i detenuti, chiaramente coloro su cui non pende un’interdizione dal diritto di voto, possono e devono esercitare questo diritto/dovere”. Ma per un recluso qual è l’iter da seguire per poter votare? Il detenuto che desidera esprimere il suo voto deve fare una istanza, considerata valida fino a tre giorni dalle elezioni, al sindaco del suo Comune che, una volta appurato che il richiedente ha diritto al voto, spedisce al carcere il certificato elettorale. A quel punto viene instituito un “seggio speciale” all’interno del carcere. “Mi dispiace solo che le procedure per accedere al voto negli Istituti di pena sono farraginose, lunghe, complesse e che i detenuti siano poco informati sui loro diritti e non sanno nulla rispetto alle modalità di come esercitarli - afferma Ciambriello - I politici, pur avendo la possibilità di entrare in carcere per ispezione e controlli, non lo fanno. Il vento che spira è assai preoccupante: il “populismo penale” si coniuga con il “populismo politico” e così si evita di parlare di carcere”. Ma le carceri esistono, esiste l’inferno in terra ed è per questo che è importante che i detenuti chiedano di poter votare. “L’invito ai detenuti è di esprimere la propria idea politica - ribadisce Ciambriello - ai direttori degli istituti di pena di avviare una giusta informazione sulle modalità di voto, così da preparare per tempo tutta la documentazione necessaria per poter barrare un simbolo. Anche se privati della libertà, i detenuti possono contribuire alla formazione del Parlamento. Devono essere consapevoli del fatto che anche loro possono essere attori dei processi di cambiamento e non semplici spettatori. Solo esercitando il diritto al voto, però, possono essere protagonisti - conclude il garante -chi non lo fa, non potrà proferire parole di lamentela sulle condizioni delle carceri e più in generale del nostro Stato, perché decidere di non votare equivale ad ammettere di non voler partecipare”. E se guardiamo alle precedenti elezioni, i numeri non sono per niente confortanti. Ecco perché è importante che si parli di politica in carcere e ancor di più che la politica parli di carcere. Alle elezioni Europee del 2019 l’affluenza è stata quasi pari allo zero. Hanno chiesto di poter votare due detenuti del carcere di Aversa, uno del carcere di Salerno, sette in quello di Secondigliano. Nel 2016, invece, in Campania parteciparono alle elezioni Amministrative solo nove detenuti. Votate, perché libertà è partecipazione. Anche se si vive ancora in pochi metri quadri circondati da sbarre di ferro. Psicologi nelle carceri, nuovi stanziamenti per quasi quattro milioni di euro sanitainformazione.it, 17 settembre 2022 Incontro al Ministero della Giustizia tra la Sottosegretaria di Stato Anna Macina e il Presidente del CNOP David Lazzari. Si è svolta al Ministero della Giustizia una riunione tra la Sottosegretaria di Stato Anna Macina e il Presidente del CNOP David Lazzari. Si è fatto il punto sui bisogni psicologici negli istituti penitenziari, anche alla luce delle proposte avanzate dal CNOP sulla necessità di potenziare le risorse psicologiche per i detenuti e il personale. Si è preso atto della creazione e dello stato di attuazione del fondo per il supporto psicologico al personale della polizia penitenziaria di un milione di euro e dello stanziamento di 2,7 milioni di euro per il potenziamento degli esperti ex art.80 con un aumento del fondo per gli esperti di quasi il 50%. Alla riunione hanno partecipato anche il Direttore Generale del Personale e Risorse Amministrazione Penitenziaria Massimo Parisi, il Direttore Generale Detenuti e Trattamento DAP Gianfranco De Gesù, il Direttore CNOP Simona Clivia Zucchett. “Ci siamo occupati del tema carceri in modo costante - ha sottolineato il presidente Lazzari - e da ultimo per l’emergenza suicidi. Un impegno che da i primi frutti con questi stanziamenti per quasi 4 milioni di euro. Ora l’impegno comune è andare ad un protocollo d’intesa per lavorare sui principali temi, tra i quali la revisione delle modalità di reclutamento e presenza degli psicologi in questo ambito. Ringrazio la Sottosegretaria Macina e il DAP per la disponibilità dimostrata”. Valerio Spigarelli: “Misure di prevenzione, quasi una rappresaglia contro chi è assolto” di Valentina Stella Il Dubbio, 17 settembre 2022 Da sempre critico sulle misure di prevenzione è l’avvocato Valerio Spigarelli, già presidente dell’Unione Camere Penali. Via Arenula ha detto: tranquilli che se scatta l’improcedibilità per le confische alla mafia, ci stanno sempre le misure di prevenzione... Non ha torto il Ministero ma semmai, con lapsus freudiano, evidenzia un problema: nel nostro Paese l’accertamento di responsabilità penali, ai fini delle misure di prevenzione, non è per nulla necessario. È possibile che un cittadino venga assolto in uno o più processi ma comunque gli vengono applicate le misure di prevenzione. Esse sono fondate su presupposti, quali la pericolosità sociale del soggetto, diversi dalla responsabilità penale dello stesso. Non è infrequente che nella prassi giudiziaria una persona venga sottoposta ad un processo penale sulla scorta di determinati elementi che vengono ritenuti non solo non idonei per una condanna ma addirittura smentiti. Quegli stessi elementi vengono però utilizzati nel giudizio di prevenzione per applicarne le misure. Ora per fortuna la Cassazione comincia a dire che non si può fare, ma per anni siamo andati avanti così. Ma quindi al di là dell’improcedibilità bisognava agire sulle misure di prevenzione? Certo. Esse sono diventate un succedaneo del processo penale, fondato su regole probatorie molto meno stringenti. Questo provoca quello che è sotto gli occhi di tutti: io pm provo a farti condannare nel processo penale; se non ci riesco, come un riflesso pavloviano, ti applico le misure di prevenzione. Pertanto il Ministero sottolinea l’ovvio... Sì. La politica quasi rivendica questo strumento delle misure di prevenzione. Ma non si interroga su quanto ingiusto sia questo strumento. La prevenzione infatti manca di tassatività, è fondata sull’inversione dell’onere della prova, sulla negazione dichiarata dell’imparzialità del giudice e sulla commistione tra un’attività di tipo giurisdizionale ed un’attività di tipo esecutivo. Nel procedimento di prevenzione è soprattutto la presunzione di innocenza a non contare, anzi conta esattamente il contrario: ribadisco, puoi essere sottoposto a misure di prevenzione anche sulla scorta delle prove sulla base delle quali sei stato assolto nel processo penale. Cosa intende per imparzialità del giudice? Le misure vengono chieste ad un giudice che magari sequestra tutto quanto. Lo stesso giudice sarà anche chiamato a decidere se confermarle o meno nel corso del processo di prevenzione. Questo elemento di discussione si inserisce nella più ampia riforma del processo penale. Non le sembra che una riforma definita ‘epocale’ sia stata approvata in un eccessivo silenzio? Non c’è stato alcun dibattito una volta avuto il prodotto finale della legge delega. Benché le commissioni parlamentari avessero due mesi di tempo per studiarla ed esprimere il parere, di fatto non c’è stata alcuna discussione. E poi non è affatto una riforma epocale. Perché? Ci sono elementi contestabilissimi passati sostanzialmente sotto silenzio. Alcune soluzioni sono addirittura illogiche: se lei vuole fare appello nei confronti di una sentenza, deve fare elezione di domicilio anche se è già agli atti. È un criterio ispirato alla complicazione e alla deterrenza alle impugnazioni. L’esempio più eclatante è che questo viene richiesto pure per il ricorso in Cassazione quando all’imputato in quella fase non spetta alcuna notifica personale. Se davvero fosse una riforma epocale avrebbe guardato al codice in maniera più complessiva. Dal mio punto di vista era molto meglio il lavoro della Commissione Lattanzi e non quello poi editato dalla politica nel suo complesso. Lei parlava di deterrenza: se rinunci al processo ti premio? Tutti quelli che vogliono da tempo una certa riforma del processo penale sostengono che il processo accusatorio regge pochi dibattimenti. Ma questo obiettivo va perseguito non con strumenti di deterrenza nei confronti del dibattimento. Si dovrebbe fare in modo da condurre le indagini talmente bene da spingere l’imputato a patteggiare perché schiacciato dall’esito non favorevole. Nella riforma Cartabia invece si fa un ragionamento contrario: ponti d’oro da chi scappa dal processo e deterrenza rispetto alle impugnazioni. Ma c’è qualcosa di ancora più clamoroso: le limitazioni poste in essere durante l’emergenza pandemica, come ad esempio puntare molto al processo scritto o sentire l’imputato per videoconferenza, adesso, come avviene spesso nel nostro Paese, sono diventate l’ordinario. La giustizia riparativa ha diviso gli esperti... È una idea che va salvata perché è importante. Il problema è come la si mette in pratica. In alcuni casi si scontra con alcuni principi fondamentali del sistema accusatorio: non è condivisibile che sia un pm, prima ancora di stabilire se la notizia di reato è sussistente o meno, ad avviare ad un percorso di mediazione, o che sia un giudice a farlo motu proprio, senza la richiesta delle parti e prima ancora di una sentenza. Ma questa riforma riduce gli spazi difensivi? Diciamo che la fuga dal processo accusatorio compie un ulteriore passo inesorabile. Nel dibattito tenuto sull’Asterisco recentemente, mi pare di aver capito che lei addebita anche all’avvocatura questo risultato... Il presidente dell’Ucpi ha messo sul tavolo un dato vero: solo una minoranza di avvocati durante la pandemia ha chiesto la discussione orale in appello o Cassazione. Quel dato avrebbe dovuto spingere l’avvocatura a cambiare modo di fare: è un cedimento, ci si arrende alla consuetudine. Questa non è una responsabilità delle associazioni dell’avvocatura - a cui casomai si potrebbe rimproverare di non aver combattuto questo trend - ma è un comportamento dell’avvocatura, in cui mi metto anche io. Dovremmo riflettere su come questo porterà ad una sorta di mutazione genetica dell’avvocato. Che avvocato immaginiamo per il futuro? Quello che punta al minor danno o quello che in ogni caso difende quando c’è da difendere? Ha fiducia che nella prossima legislatura con la vittoria del centrodestra si approvi la separazione delle carriere? Se la politica fosse questione di pura aritmetica le direi di sì. Ma sono purtroppo allenato a disillusioni su questo campo. Come disse Enrico Cuccia “le azioni non si contano ma si pesano” : siamo su un terreno in cui non possiamo dare per scontata la volontà politica. Aspettiamo a vedere. Quello che può farci aprire il cuore alla speranza è che queste battaglie non sono più appannaggio del solo centrodestra ma anche di altri, come Azione e Italia Viva. Però la separazione delle carriere, per la quale mi spendo da decenni, non è la soluzione di tutti i mali se accanto ad essa abbiamo un sistema penale che ha una idea regressiva della pena così come professata da gran parte del centrodestra. “Unicost si è rinnovata. Al Csm riscriveremo le regole sugli incarichi” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 17 settembre 2022 “Ho accettato la candidatura con grande senso di responsabilità. Chi mi conosce sa bene quale è stata la mia storia all’interno di Unicost. Spero di poter dare il mio contributo”, afferma Paola Ortolan, giudice del tribunale dei minorenni di Milano e candidata alle elezioni del 18 e 19 settembre per il rinnovo del Consiglio superiore della magistratura nel collegio di merito uno. Giudice Ortolan, che tipo di campagna elettorale è stata? Molto intensa, con poco tempo a disposizione. Personalmente però ho girato tutti gli uffici giudiziari per parlare con i colleghi e presentare il mio programma. Che riscontri ha avuto? Ho percepito un clima di grande fiducia. Se eletta, spero di non deludere i colleghi: dalle parole si dovrà passare ai fatti. Faccia un esempio... Al Csm non ci saranno più le nomine a “pacchetto” (nomine frutto di accordi “spartitori” fra le correnti, ndr). Unicost è stata la corrente dell’ex presidente dell’Anm Luca Palamara, ormai da tutti identificato con il simbolo della degenerazione correntizia e della conseguente lottizzazione degli incarichi. Che giudizio si sente di dare? Guardi, chiunque di noi ha fatto vita associativa aveva capito che c’era qualcosa che non andava. Mi riferisco proprio a queste situazioni. Però, se mi chiede se fossi stata a conoscenza di tutto quello che ha raccontato Palamara nei suoi libri, le rispondo di no. Io ero a Milano, ho sempre lavorato tanto, ho un marito, dei figli, non ho fatto altro. Cosa ha rappresentato per lei quello che ormai comunemente viene definito “Palamaragate”? Nell’estate del 2019, quando esplose lo scandalo, il mio gruppo si è trovato davanti ad un bivio: sciogliersi o fare qualcosa di nuovo. Abbiamo scelto la seconda strada, rinnovando radicalmente la corrente, con un progetto nuovo e con persone diverse. Abbiamo puntato molto sulla terzietà del magistrato e sulla sua indipendenza dalla politica, avendo come riferimento proprio il modello costituzionale del giudice. Come si legge sul sito di Unicost, un ‘ nuovo inizio’. Lei, ironia della sorte, era stata anche sorteggiata da Altra proposta, il comitato di magistrati nato per contrapporsi alle correnti ed avanzare delle candidature al Csm “indipendenti” con questo metodo... Sì, pare che la mia candidatura fosse predestinata. Però non ho mai pensato di accettare quella candidatura e presentarmi come indipendente alle elezioni. Non ce l’avrei mai fatta. Ho voluto essere coerente con la mia storia. E credo che ciò sia stato molto apprezzato. Come deve essere un magistrato che si candida al Csm? A parte prerequisiti come moralità e dedizione, dovrà impegnarsi a svolgere il proprio mandato nell’interesse dell’istituzione e non considerare questo prestigioso incarico come un trampolino per passaggi ulteriori di carriera. Anche se, ovviamente, un po’ di ambizione personale c’è. Un provvedimento da fare? Riscrivere le regole sugli incarichi. Ci sono punti contraddittori. Devono essere regole chiare, ora esiste una pluralità di criteri che genera difficoltà. La riforma Cartabia ha modificato radicalmente il suo ufficio, istituendo il tribunale per le persone, per i minorenni e per le famiglie. È soddisfatta? Ci sono aspetti positivi e negativi. La materia è molto complessa. Ci sarà un giudice unico che si occuperà di questi temi ed è stata eliminata la collegialità delle decisioni. Il ridimensionamento del ruolo dei giudici onorari mi sembra un limite. Il disagio psichico fra i minori è in aumento. Come l’abuso di sostanze stupefacenti... Sì, in maniera esponenziale. Per questo motivo, oltre alla magistratura, servono servizi sociali che funzionino: il giudice può scrivere il miglior provvedimento, ma se sul territorio non c’è nulla, rimane lettera morta. Qualche criticità specifica? Questo settore della giurisdizione non è informatizzato, è tutto ancora su carta. Ci hanno promesso l’avvio del processo telematico. Cosa pensa, invece, della riforma dell’ordinamento giudiziario? È una risposta complessa. Cercando di sintetizzare i punti salienti, ritengo ci sia stato un tentativo di semplificare le valutazioni di professionalità dei magistrati. Mi preoccupa però il fascicolo della valutazione del magistrato circa gli aspetti “quantitativi’ e “qualitativi’. E anche il concetto di ‘ grave anomalia” delle decisioni non mi convince. I colleghi della Cassazione, che non hanno gradi successivi, come verranno valutati? Non sono favorevole, poi, all’intervento nelle valutazioni di soggetti esterni alla magistratura e ai pareri che dovrà dare il ministero della Giustizia sui progetti organizzativi del procuratore della Repubblica. Apprezzo molto, infine, il ritorno al concorso di primo livello per entrare in magistratura. C’era una volta il dissenso. Nell’era della legalità c’è spazio soltanto per vittime e colpevoli di Federica Graziani Il Dubbio, 17 settembre 2022 Se vi capita il venerdì mattina di ascoltare Radio Radicale, incastonati poco dopo le sette e mezzo ci sono otto minuti radiofonici a cura di Matteo Marchesini, critico letterario e scrittore. I temi affrontati sono diversi dalle recensioni di libri all’analisi di raccolte poetiche a ritratti dei protagonisti della repubblica delle lettere, i malandati attuali e le autorità d’un tempo - ma trovano un’aria di famiglia nel prendere sul serio la parola “emancipazione”. Come scrive lui stesso: “non è forse, “emancipazione”, una delle poche parole moderne e illuministe che possiamo ancora pronunciare a voce alta, ora che si sono dissolti i miti del progresso?”. E non è forse da salutare come un miracolo editoriale chi riesca a scrivere un pamphlet che interroghi il presente politico, ordini larga parte della riflessione attuale sulla società e proponga infine una spiegazione del pastrocchio in cui s’è infilata la cultura dissidente dei nostri giorni? E quindi si metta al servizio di quell’opera emancipatrice che tiene a cuore la ricerca della verità e insieme quella della giustizia? Una tale impresa è riuscita all’ultimo saggio di Tamar Pitch, docente di sociologia del diritto e prolifica autrice di indagini sui rapporti fra questione criminale, giustizia penale e controllo sociale. Il titolo è già l’architettura del pensiero dell’autrice: “Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva”, appena uscito per le edizioni del Gruppo Abele. Lo scenario iniziale è tratteggiato in pagine che si possono permettere d’essere svelte perché sono puntuali e documentatissime. Negli ultimi trent’anni ogni problema sociale e politico è precipitato in una richiesta corale di maggior giustizia penale, la depoliticizzazione di tutti i fenomeni e i conflitti del presente è accompagnata a una loro criminalizzazione sempre più estesa e la fantasia punitiva droga la realtà di una giustizia che è sempre più selettiva e sempre meno giustificata, dati sui reati alla mano. Insomma, “la legalità formale fa a pugni con la giustizia. Come siamo arrivati a questo punto?”. La risposta fino a un certo punto è repertorio classico della scuola italiana della sociologia del diritto figlia degli studi di Massimo Pavarini. Pitch inanella le torsioni prima statunitensi e poi europee del lemma “sicurezza”, che del côté novecentesco di sicurezza sociale (ossia di titolarità ed effettivo godimento di garanzie rispetto alla salute, alla vecchiaia, al lavoro, alla casa, e così via, assicurate in via di principio attraverso l’erogazione di risorse e servizi verso tutti e pagate da tutti con le tasse e le imposte) ha perso il pelo e il vizio nelle società disorientate e ansiogene di oggigiorno e si ritrova stretto sul lato alienante dell’immunità personale rispetto al rischio di essere vittime della criminalità di strada, o dell’inciviltà. Con la sostituzione, nel discorso pubblico, della sicurezza così intesa con l’ordine pubblico di un tempo si dislocano diversamente responsabilità e poteri: “Tematizzare la sicurezza come diritto dei cittadini piega la questione dell’ordine in senso “democratico”, ma al tempo stesso la privatizza, in due modi: per un verso, la demanda e consegna all’ambito della privacy di ciascuno, per un altro verso, fa di ciascuno il responsabile della propria sicurezza. Con due conseguenze politiche: l’individualizzazione dei rischi e la virtuale impossibilità di un dissenso. Perché, se l’ordine è pubblico, in quanto precisamente pubblico, la sua tematizzazione e concreta gestione sono e sono state suscettibili di discussione, dissenso, contestazione; chi viceversa può dissentire rispetto a qualcosa che è costruito come un diritto individuale, anzi un vero e proprio nuovo diritto di cittadinanza?”. Nonostante la chiarezza espositiva, la vasta bibliografia consultata e le esperienze culturali e politiche dell’autrice stessa nelle questioni che ruotano intorno alla sicurezza, non è ancora questa la miniera da cui estrarre il valore emancipatorio del suo lavoro. Che invece sta tutto nell’analisi dello slittamento dal paradigma dell’oppressione a quello della vittimizzazione. Se la sicurezza occupa l’intero orizzonte della sfera pubblica, a fare le spese di tanta semplificazione e individualizzazione siamo tutti noi, soggetti ora caratterizzati unicamente dall’essere colpevoli o vittime e quindi soggiogati da un’egemonia del linguaggio e della logica del penale anche quando tentiamo di opporci all’ingiustizia. Con le parole di Pitch: “Nel discorso pubblico, “vittima” comincia a sostituire altri termini, come per esempio “oppressi”, con il declino delle Grandi Narrazioni. Sul piano culturale, questa svolta produce la reintroduzione di attori in uno scenario fino allora caratterizzato piuttosto dall’imputazione di problemi, ingiustizie, e così via alla “struttura” della società, al “sistema”. L’assunzione dello statuto di vittima diventa in breve tempo praticamente l’unico modo per far sentire la propria voice, e vittime o gruppi di vittime che, sulla base di questo statuto, chiedono riconoscimento politico e sociale, emergono anche in Italia. È evidente la differenza con il termine “oppressi”: quest’ultimo infatti richiama una situazione complessa che coinvolge l’intera biografia dell’individuo e lo accomuna ad altri individui nella stessa situazione, diciamo così, strutturale. “Vittima”, viceversa, evoca un’azione singola da parte di singoli, sulla base della quale ci si può associare ad altri individui che hanno subito, o potrebbero subire, la stessa azione (vittime della mafia, del terrorismo etc.). In linea di principio questa associazione dura fin tanto che non si ottenga il riconoscimento del danno subito: in realtà, tuttavia, se e quando questo riconoscimento avviene, può accadere che l’associazione delle vittime di quel particolare torto alzi la posta o trovi una posta nuova. Se lo statuto di vittima diventa uno statuto ambito, ne deriva che vi sarà conflitto su chi sia la vittima più vittima, la vittima davvero meritevole”. Come un tale uso politico del potenziale simbolico del penale non risparmi né la politica delle identità o delle differenze, né alcuni tentativi di giustizia riparativa, né quei movimenti politici il cui obiettivo è la libertà dallo sfruttamento, dall’oppressione, dalla violenza dei gruppi di cui si fanno portavoce (parte del femminismo compreso) è la conclusione poco confortante che il libro di Pitch consegna ai suoi lettori. Augurandosi neanche troppo fra le righe che si possa emergere e venire riconosciuti come attori di conflitto anche se non siamo innocenti assoluti come lo statuto di vittima reclama e se teniamo testa, come fa l’autrice, alle questioni di disuguaglianza e di potere politico, economico e sociale. Toghe al voto, ma il caso Palamara non ha insegnato nulla di Simona Musco Il Dubbio, 17 settembre 2022 Domenica e lunedì l’elezione dei togati del Csm. “Ma la rigenerazione etica non c’è stata”. Veleni e polemiche. E tanta “spazzatura sotto il tappeto”, dice un’autorevole fonte della magistratura, che guarda dall’esterno la campagna per le elezioni dei componenti togati del prossimo Csm con un’unica certezza: “L’autorigenerazione morale tanto attesa non c’è stata. Anzi, forse abbiamo fatto anche dei passi indietro”. A tre anni dal cosiddetto scandalo Palamara, domenica e lunedì i magistrati italiani saranno chiamati alle urne per mettere la parola fine al quadriennio più difficile della storia di Palazzo dei Marescialli. Con una nuova legge elettorale - che secondo i più finisce per favorire le correnti più forti e i loro giochi di potere - e il compito di rispondere all’appello del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella: ritrovare il prestigio e dire basta ai protagonismi. Un appello caduto nel vuoto, secondo un ex consigliere Csm, a cui bastano un paio di esempi per chiarire il concetto: “Guardi le ultime nomine - sottolinea -, i gruppi principali hanno unito le forze e sul piano disciplinare ci sono state archiviazioni vergognose. Atteggiamenti tipici di un modo silente di lasciare le cose come stanno”. Insomma, tutto cambia affinché nulla cambi. E una vera e propria discussione sui temi che avrebbero dovuto tenere banco in campagna elettorale non c’è stata: “I gruppi non hanno nessun interesse a confrontarsi: tutto quello che avrebbero potuto dire li avrebbe danneggiati”, continua la toga. Ma ci sono due potenziali novità: i candidati sorteggiati del “Comitato Altra proposta”, tra i quali il “molto carismatico” Andrea Mirenda, e la variabile Henry John Woodcock, candidato indipendente ma molto visibile. “Mirenda è una forza della natura ed è temutissimo dai gruppi, il più temuto di tutti e quindi può portare avanti la critica al correntismo dall’interno - aggiunge -. E anche Woodcock ha delle possibilità e non è gradito all’establishment dei gruppi più importanti”. La campagna elettorale è stata dunque sottotono, “perché più si parla e più i sorteggiati rischiano di andare avanti”. Una situazione sulla cui base si può trarre una conclusione: la forza politica delle correnti tradizionali appare in crisi, come già dimostrato dal flop dello sciopero contro la riforma Cartabia, sulla quale in queste settimane di campagna elettorale le proteste sono state invisibili. “Avrei gradito una campagna elettorale più forte, ad esempio rispetto a quello che si sente dire sui temi della giustizia dai candidati alle prossime elezioni politiche - commenta un ex procuratore -. Secondo me è necessario che il Csm abbia un ruolo forte e chi si candida dovrebbe essere esplicito. È come se fosse predominante solo la polemica interna tra correnti e non, come dovrebbe essere a mio avviso, la denuncia dei rischi che non vengono dalla riforma Cartabia ma alle prospettive future. Ho sentito molte affermazioni populiste: non mi pare una bella e nobile campagna”. Secondo gli osservatori più attenti, le correnti tradizionali non dormono sonni tranquilli rispetto ai candidati sorteggiati. “C’è attesa e ansia rispetto a questi candidati, perché sono stati coraggiosi e compatti. Si tratta del gruppo più numeroso, con due nomi per ogni collegio di merito e l’apparentamento con Mirenda - spiega un’altra fonte -. Questo scompagina e mette in difficoltà le corazzate correntizie”. Ma il silenzio dipende da altro: la campagna elettorale non è visibile ma sotterranea, e i gruppi tradizionali, anziché confrontarsi pubblicamente con i nuovi candidati, vanno a caccia di voti a suon di telefonate, whatsapp, brindisi e aperitivi. “I gruppi bramano una loro conferma alla guida del Csm - spiega Andrea Reale, giudice per le indagini preliminari a Ragusa, membro del Comitato direttivo centrale dell’Anm ed esponente dei “ribelli” di Articolo 101 -. Questo perché la legge elettorale, anziché sconfiggere il correntismo, lo rafforza. Lo stesso governo, purtroppo, non ha voluto e non vuole questa rigenerazione etica, perché non conviene alla politica. Ma la critica va rivolta anche all’interno della magistratura: alle correnti questa rigenerazione non interessa e l’insistenza con la quale si sono presentate con le loro candidature è sintomo della volontà di non mollare le proprie posizioni di potere all’interno del Csm. L’unica possibilità per dare un segnale di rottura e cambiamento, nel quale noi speriamo, è votare i candidati sorteggiati”. La fortuna di questi candidati potrebbe venire dalle divisioni che si sono create, nel tempo, all’interno delle varie aree: quella progressista, dove si è consumato il divorzio tra Area e Md, e quella moderata, con il distacco dell’ala riconducibile a Cosimo Ferri da Magistratura Indipendente. Mentre Unicost, la corrente di cui era leader Luca Palamara, sarebbe tuttora indebolita dagli scandali che portano il nome del loro ex numero uno. In questo clima, “con la vecchia legge elettorale i sorteggiati avrebbero avuto qualche chance in più - aggiunge Reale -. Con quella attuale, la possibilità della rigenerazione etica è ancora più ridotta: per una sorta di eterogenesi dei fini, tuttavia, l’effetto sorpresa, legato ad un numero cospicuo di candidature indipendenti (compresi i sorteggiati ex lege e gli autoproclamati indipendenti), e le competizioni interne alle singole correnti potrebbero portare spifferi di aria nuova da opporre al tendenziale bipolarismo correntizio, con moderati e progressisti intenti ad occupare la maggior parte dei seggi”. Magistrati, si vota al Csm: i dati sono allarmanti, ecco come ridare efficienza al sistema giustizia di Roberto Oliveri del Castillo* Il Fatto Quotidiano, 17 settembre 2022 Per uno strano incrocio degli eventi, nelle prossime settimane si susseguono due appuntamenti elettorali tra i più importanti di questi ultimi 20 anni, presentandosi prima le elezioni per il rinnovo del Consiglio Superiore della Magistratura, e poi a distanza di una settimana quelle per il Parlamento. La particolare complessità della situazione della giustizia impongono di sottolineare alcuni temi, che nel dibattito politico non hanno sempre il necessario spazio, pur essendo di fondamentale importanza per la migliore efficienza e funzionalità del servizio-giustizia. Non si può non partire dalla recente riforma del ministro Cartabia, la quale, tra i tanti temi forieri di criticità, ne ha introdotto uno potenzialmente devastante ove non riconsiderato dal nuovo Parlamento. La riforma infatti ha introdotto il principio della improcedibilità in sede di appello, che comporterà la definizione anticipata del processo in appello ove non si giunga alla sentenza nei due anni dal pervenire del fascicolo in secondo grado, anche laddove i termini di prescrizione non si siano maturati. Una ghigliottina che potrebbe riguardare qualunque processo per qualunque reato, a prescindere dalla complessità dello stesso e dalla adeguatezza degli organici dell’ufficio che deve portarlo a compimento. Una riforma, come si è detto da più parti, idonea solo ad ottenere i fondi del Pnrr, ma dannosissima in termini di efficienza del servizio giustizia, tale non essendo una anticipata sentenza processuale di definizione basata sul decorso del tempo, in assenza di strumenti deflattivi e disincentivanti l’appello (ad esempio una revisione del divieto di reformatio in pejus, anche su istanza del pg in udienza) e di strumenti di rafforzamento degli organici dei presidi di secondo grado. La Commissione europea, nella sua Relazione sullo stato di diritto 2022, non ha mancato di evidenziare ciò che magistratura associata, accademia e la migliore avvocatura avevano già detto, ovvero che la riforma mette seriamente a rischio “l’effettività del sistema giudiziario” soprattutto in tema di contrasto alla corruzione ed alla criminalità economica. Né, come evidenzia la Relazione, “la ricerca di una maggiore efficienza non dovrebbe compromettere l’indipendenza del sistema giudiziario”, con evidente riferimento alle riforme in tema di efficienza del processo penale e giustizia riparativa e, soprattutto, in tema di ordinamento giudiziario e Csm. Quello che vuole dire la Commissione Europea, è che il sistema di valutazione professionale che tenga conto del raggiungimento dei risultati attesi dai dai dirigenti dei Tribunali, con conseguenti possibili azioni disciplinari, costituisce una pericolosa deriva gerarchizzata degli uffici giudiziari e un conseguente strumento di pressione e intimidazione dei giudici attraverso l’uso dello strumento disciplinare. Se a ciò si aggiungono le gravi carenze di organico in generale e in particolare nelle corti d’appello, con scoperture che toccano oltre il 20% in alcuni uffici già difficili come Napoli, e Bari, il quadro assume toni ancora più foschi, se non si invertirà la tendenza a disinteressarsi del tema delle carenze di personale di magistratura e cancellerie. Mentre per qualcuno il problema principale è la separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, recenti indagini sul punto hanno ad esempio evidenziato che il vero problema della disfunzione del servizio giustizia è altrove. In Italia vi sono 11.4 giudici per 100.000 abitanti, a fronte di una media europea di ben 21. Per i pubblici ministeri la forbice è analoga, o di poco inferiore. Infatti a fronte dei 3.4 PM ogni 100.000 abitanti, la media europea è 11 (dati rapporto CEPEJ 2016). Negli ultimi anni i numeri sono addirittura peggiorati, perché nel frattempo in Germania il numero di giudici per 100.000 abitanti è cresciuto sino a 24, in Austria sino a 27, mentre in Italia è rimasto ai 12 del periodo precedente (fonti citate nell’articolo di Europa Today del 9 luglio 2021). Significative, sul punto, appaiono le dichiarazioni del commissario europeo alla Giustizia Didier Reynders circa il problema delle risorse umane. “Devono aumentare i numeri del personale, a prescindere dalle proposte di separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti” (Europa Today, cit.), che invece resta lo slogan preferito da alcune forze politiche poco interessate alla reale soluzione dei problemi del servizio-giustizia. In questo quadro, come si possa pensare di ridare efficienza al sistema giustizia con dati così sconfortanti è domanda alla quale qualche leader politico, nella attuale campagna elettorale, dovrebbe rispondere con soluzioni reali invece di vuoti e consunti slogan di sapore punitivo. Analoghi problemi sussistono per il personale amministrativo di supporto, spesso sottodimensionato proprio negli uffici più delicati, come gli uffici GIP-GUP e le Corti d’Appello. La costituzione dell’Ufficio per il processo ha apportato qualche beneficio di superfice, ma si tratta di rimedi a tempo determinato insuscettibili di strutturarsi e sedimentarsi nel tempo, con la conseguenza che giovani risorse andranno perse dopo essere state addestrate a delicati compiti di supporto a giudici e cancellerie. Un altro retaggio della logica delle riforme occasionali e non destinate a restare in permanenza, sempre nell’ottica della percezione dei contributi Ue. Da questo punto di vista occorrerebbe tra l’altro una vera riforma della magistratura onoraria in grado di rendere stabili e garantiti professionisti che da circa vent’anni sono di quotidiano supporto alla magistratura togata, e senza la quale oggi saremmo alla paralisi, senza consentire a qualche forza politica di farne vessillo di lotta elettorale, poiché la giustizia, sia gestita da magistrati togati od onorari, appartiene a tutti e non può essere strumentalizzata da una parte politica. Una migliore e generalizzata presenza dei magistrati onorari (ad esempio non si comprende perché impedire agli stessi di partecipare a comporre gli uffici GIP/GUP e i collegi di Corte d’Appello) sarebbe un altro tassello importante nell’ottica di una maggiore efficienza della risposta alla domanda di giustizia. A fronte di questi dati allarmanti, alcune componenti associative della magistratura (per altro quelle più compromesse nelle vicende dell’Hotel Champagne, anche per la presenza di ex dirigenti nella veste di politici militanti) ritengono che il problema delle nomine dei dirigenti si risolva tornando a valorizzare la sola anzianità di servizio, senza considerare altri titoli. Un ritorno alla magistratura degli anni 70/80 del secolo scorso, quando si verificarono al Csm le vicende che condussero, ad esempio, Giovanni Falcone fuori dall’Ufficio Istruzione di Palermo, preferendogli il più anziano Meli. I dirigenti sono il cuore pulsante di un ufficio giudiziario, e da loro dipende organizzazione, efficienza, legittimità dell’azione e del servizio reso. Un buon dirigente può dare un impronta molto importante al suo ufficio, e viceversa un pessimo dirigente può affossarlo. Nella consiliatura 2015-2018 si sono registrati i peggiori fenomeni clientelari e di malaffare proprio con riferimento a nomine di direttivi di procure della repubblica e (molto meno) di tribunali, con nomine di soggetti poi finiti al centro di indagini per gravi reati, e con le tristi vicende dell’Hotel Champagne, di cui da alcuni anni vi è cenno nelle cronache giudiziarie di questo Paese. Chi si è macchiato di quelle vicende, con conclamati rapporti con soggetti politici estranei al Consiglio Superiore, dovrebbe almeno avere il buon gusto di tacere, invece di ergersi a paladino di una ben strana (e tardiva) lotta contro un “sistema” del quale era parte apicale, autorevole e integrante. Allora le elezioni del prossimo Csm costituiscono un punto di svolta. Il Consiglio in tutte le sue parti, togate e non, sarà chiamato pertanto ad una opera di ristrutturazione della credibilità dell’intera magistratura attraverso l’attenzione necessaria a nomine di direttivi che avvengano effettivamente per merito e non per rapporti clientelari e di potere, oltretutto con gli enormi poteri disciplinari assegnati dalla riforma del ministro Cartabia. Si vuole un Consiglio ripropositivo delle logiche clientelari e di subordinazione degli ultimi tempi? Si vuole realmente tornare a dirigenti scelti per anzianità e non per merito? O si vuole finalmente cambiare pagina? Chi ha indegnamente rivestito il ruolo di consigliere (e chi lo ha votato) ha lasciato una eredità pesante ai colleghi del prossimo Consiglio, il quale dovrà recuperare senso e prestigio della funzione costituzionale di governo autonomo, rimettendo in carreggiata un organo senza il quale la democrazia di questo Paese è in serio pericolo. Sono convinto che la magistratura saprà trovare al suo interno le energie migliori, senza distinzioni di componenti culturali, per ridare prestigio e dignità al Consiglio Superiore. Ma ciò potrà avvenire guardando al futuro e non alla magistratura più retriva degli anni 50, quella che fu descritta da Dante Troisi nel suo Diario di un giudice, la cui redazione gli costò, tanto per cambiare, un procedimento disciplinare. *Consigliere della Corte d’Appello di Bari, candidato alle elezioni per il Csm con Autonomia e Indipendenza Forlì. Detenuto si toglie la vita. Cavalieri: “Subito garanti dove ancora mancano” skanews.it, 17 settembre 2022 Un uomo di 28 anni, di origine albanese, e senza fissa dimora, si è tolto la vita questa notte nel penitenziario di Forlì. Il detenuto era arrivato nel carcere emiliano ieri pomeriggio e doveva scontare una condanna definitiva di due anni. Si tratta del settimo suicido in Emilia-Romagna nel 2022 e del sessantaduesimo nel paese. “Davanti a tragedie come queste bisogna reagire con tutti gli strumenti possibili, per cercare di contrastare un fenomeno che si presenta sempre più grave e minaccioso”, commenta il Garante regionale dei detenuti, Roberto Cavalieri. “Anche le amministrazioni locali sedi di carceri - prosegue - devono contribuire al contrasto del fenomeno suicidiario per i detenuti, nominando i garanti dove ancora mancano, provvedendo prima di tutto all’adozione degli atti per il riconoscimento di questa figura di garanzia”. Una recente circolare del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria include il garante dei detenuti tra i soggetti coinvolti nelle strategie di contrasto al fenomeno suicidario in carcere, “cosa non realizzabile - continua - là dove questa figura non è presente”. Padova. Avvocati in piazza per far crescere la cultura dei diritti di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 17 settembre 2022 Oggi la giornata della consulenza gratuita con oltre cento professionisti a disposizione dei cittadini. Mai come in questo momento storico il confronto tra professioni e cittadini diventa sempre più prezioso. A Padova per una settimana intera, dal 17 al 22 settembre, l’avvocatura farà conoscere i temi che suscitano maggiore interesse e che hanno un impatto sulla vita di tutti i giorni. “L’Avvocatura incontra la città” - questo il nome dell’iniziativa organizzata dal Coa locale e dalla Fondazione Forense di Padova - presenta un nutrito calendario di incontri ed approfondimenti con il coinvolgimento di avvocati, magistrati e professori universitari. Si inizia oggi con la giornata della consulenza gratuita. Oltre cento avvocati saranno a disposizione dei cittadini per fornire consigli e pareri “nelle più svariate materie dello scibile giuridico”. Un’occasione per far conoscere i servizi che l’avvocatura mette a disposizione, come lo Sportello del cittadino, la Commissione per l’ammissione al patrocinio a spese dello Stato, l’Organismo di mediazione forense e l’Organismo per la composizione della crisi da sovraindebitamento. Sono tre le parole chiave della settimana promossa dall’avvocatura padovana (incontro, cambiamento e giustizia), che avrà come location i luoghi più importanti della città veneta. “Come abbiamo ripetuto tante volte - dicono gli avvocati Leonardo Arnau e Francesco Rossi, rispettivamente presidente del Coa padovano e presidente della Fondazione Forense di Padova - tra i nostri obiettivi spiccano la riaffermazione dell’autorevolezza di una professione che ha il suo ruolo essenziale nella tutela degli interessi e dei diritti dei cittadini, a partire dai soggetti più deboli. Da qui è nata l’idea, alcuni anni fa, di promuovere iniziative di carattere pubblico con la finalità di rappresentare alla cittadinanza e non solo l’impegno sociale di cui è capace l’avvocatura, dentro e fuori le aule di giustizia. Siamo abituati a cercare il supporto di un avvocato quando abbiamo l’atto di citazione o il ricorso in mano, quando cioè siamo già stati convenuti in giudizio. Quando, invece, si tratta di porre in essere quelle azioni che eviterebbero la necessità di rivolgersi all’autorità giudiziaria, ci rivolgiamo altrove, all’amico, al parente. Ma, poiché si tratta di chiedere un parere su questioni giuridiche, meglio sarebbe rivolgersi a chi solo di queste si occupa. Se lo si facesse prima, anziché dopo, molte controversie sarebbero evitate”. Fra qualche giorno, martedì 20 settembre 2022, le attenzioni saranno rivolte all’intelligenza artificiale e a come essa si coniuga con la giustizia e i diritti umani. In un convegno che si terrà a Palazzo Bo’ interverranno, tra gli altri, Daniela Mapelli (Magnifica Rettrice dell’Università di Padova), Maria Giuliana Civinini (presidente del Tribunale di Pisa), Fulvio Gianaria e Alberto Mittone (autori del libro “L’avvocato nel futuro”), e Paolo Moro (professore Università di Padova). Il 21 settembre, nel Tribunale, le associazioni forensi si confronteranno con i giovani. L’obiettivo è far conoscere la dimensione comunitaria della professione, l’impegno costante per la formazione e l’informazione giuridica. “Per far crescere - aggiunge il presidente del Coa - una cultura dei diritti attraverso il diritto. Gli avvocati sono presenti nella vita comunitaria, sono molto attivi e danno un contributo volto a migliorare la risposta di giustizia della società. Questo momento, nelle stanze del nostro Tribunale, è l’occasione per un incontro e un dialogo a più voci”. Sono due i messaggi che gli avvocati di Padova lanciano con l’iniziativa organizzata. “Il primo messaggio - evidenziano Arnau e Rossi - che vogliamo trasmettere ai cittadini è questo: se dall’avvocato si va prima, probabilmente non serve andarci dopo; se dall’avvocato si va prima, costerà molto di meno che andarci dopo. Il secondo messaggio riguarda invece la nostra funzione. Il consulente legale non può essere uno qualsiasi. È necessario ricercare una consulenza di qualità. Non è più possibile pensare ad un consulente che risponda su tutto lo scibile giuridico”. Il riferimento è alle specializzazioni. “È necessario - concludono - che l’avvocato sia specializzato e come tale sia percepibile e individuabile dal cittadino. Non a caso nella giornata del 17 settembre la consulenza verrà fornita per materia da avvocati che si occupano solo o prevalentemente di specifici settori. A rappresentare anche fisicamente l’esistenza e la necessità delle specializzazioni nei vari ambiti del sapere giuridico. Quest’anno, oltre alla giornata della consulenza gratuita, la nostra manifestazione si articolerà in una serie di eventi, dibattiti, rappresentazioni teatrali e cinematografiche”. Quale occasione migliore, dunque, per condividere i valori fondamentali dell’avvocatura? L’intero programma de “L’Avvocatura incontra la città” può essere consultato sul sito del Coa di Padova (www.ordineavvocati.padova.it). Torino. La Garante dei detenuti: “Al Ferrante Aporti gravi inefficienze e problemi cronici” torinoggi.it, 17 settembre 2022 Dopo i recenti episodi di violenza, Monica Gallo interviene sulle condizioni del carcere minorile di Torino: “Non nascondiamo la polvere sotto il tappeto, le istituzioni devono intervenire”. Dopo il far west dei giorni scorsi, in cui un funzionario della Polizia penitenziaria ci ha rimesso un dito nel tentativo di sedare una rissa, sul carcere minorile Ferrante Aporti interviene la garante dei detenuti del Comune di Torino, invitando a “non nascondere la polvere sotto il tappeto”, ma denunciando “le croniche criticità della situazione”. Monica Gallo ricorda come “solo negli ultimi dieci mesi sono state effettuate quattro visite ad hoc presso il penitenziario, circostanze durante le quali è stata registrata la consueta disponibilità della Direzione. Ma un profilo di garbate relazioni istituzionali non può consentire di mettere “sotto il tappeto” inefficienze strutturali e inefficaci procedure trattamentali”. La garante dei detenuti auspica “radicali miglioramenti a favore non solo dei ragazzi presenti presso la struttura, ma anche di tutte le figure che si trovano ad operarvi, non ultimi gli agenti che spesso risultano essere quasi coetanei dei ragazzi a loro affidati”. Monica Gallo sottolinea le degradate condizioni igienico-sanitarie di alcuni bagni comuni, la situazione delle camere di pernottamento e la loro esposizione che con le elevate temperature sono invivibili, le camere dedicate all’ isolamento sanitario e disciplinare a parere del Garante non idonee alla prolungata permanenza dei giovani detenuti. Poi vengono sottolineate “le deficitarie condizioni di acustica dei locali adibiti agli incontri parentali la cui rumorosità è riconducibile alla presenza di rumorose ventole in sottofondo, oltre all’esigua e insufficiente offerta di attività laboratoriali, ricreative e sportive che assume carattere di particolare gravità nel periodo estivo durante il quale i ragazzi sono necessitati al prolungato utilizzo diurno delle camere di pernottamento”. Ed ancora, si fa notare l’assenza di servizi di accoglienza territoriale in particolare di comunità adeguate che potrebbero sostituire in molti casi il periodo di reclusione. Questo aspetto, già di per sé negativo, sta determinando il trasferimento di alcuni ragazzi in altre Regioni, dotate di tali opportunità, con la conseguenza della mancata applicazione del principio di territorialità nell’esecuzione della pena e del mantenimento delle relazioni affettive, oltre all’utilizzo sistematico dell’isolamento sanitario e disciplinare dei giovani. “E’ necessario evidenziare inoltre un ulteriore elemento che troppo spesso viene improvvidamente “normalizzato” nel discorso sulla reclusione: l’uso ingente di psicofarmaci”, viene fatto notare dalla garante dei detenuti. “I ragazzi lo segnalano e ci riportano costantemente questi aspetti descrivendone la somministrazione come estremamente diffusa e non soggetta a particolari approfondimenti forniti di natura medica. Le forti perplessità in ordine a questo stato di cose sono state formalmente evidenziate ai responsabili del Ferrante Aporti senza poter registrare alcun riscontro in merito. Tali circostanze, la massiccia somministrazione dei farmaci e la mancata interlocuzione istituzionale, sono state segnalate al Garante Nazionale per le opportune valutazioni”. “Più voci si sovrappongono nel segnalare che la situazione all’interno del Ferrante Aporti è al limite e la tensione generalizzata, da latente, si sta facendo concreta e violenta”, aggiunge Monica Gallo. “Da oggi le attività formative sono state interrotte, fatto mai successo in vent’anni anni di attività, a causa di un clima che ormai ne impedisce il normale svolgimento. Ma non basta scattare la fotografia di questi giorni per pensare di aver fatto il proprio dovere individuando responsabili e vittime di questi atti. Prima del fotogramma ci sono giorni e mesi di privazione di senso, di asfissia, di solitudini condivise, di vita che abbandona tutte le promesse di futuro e presenta il conto di un presente abitato dalla sofferenza”. Amara la conclusione della garante dei detenuti del Comune di Torino: “Le istituzioni incaricate di gestire e programmare la privazione della libertà dei ragazzi di questo destino seppur temporaneo dovrebbero lavorare non sull’istante cristallizzato dalla fotografia dell’oggi, ma su questa dimensione esistenziale che può dirci tanto del loro recente passato e soprattutto del loro futuro, facendo sentire loro che esiste, che possono e devono avere il coraggio di pensarlo, un futuro che può fare a meno della polvere accumulata sotto il tappeto”. Santa Maria Capua Vetere. Diritto alla salute calpestato in carcere: il caso sul tavolo dei ministri di Attilio Nettuno casertanews.it, 17 settembre 2022 Interrogazione della deputata Bilotti sulle carenze igienico-sanitarie e sull’assistenza a singhiozzo per i detenuti. Le condizioni igieniche precarie ed il servizio sanitario non adeguato offerto ai detenuti del carcere di Santa Maria Capua Vetere diventano un caso nazionale. La deputata Anna Bilotti ha protocollato un’interrogazione a risposta scritta all’attenzione dei ministri della Giustizia e della Salute. “Il carcere di Santa Maria Capua Vetere in provincia di Caserta accoglie circa 900 detenuti che vivono in condizioni igienico-sanitarie precarie come documentato dalle ripetute denunce formulate dal Garante provinciale per i diritti delle persone private della libertà - si legge nel documento - La mancanza di acqua potabile, la carenza di percorsi terapeutici talvolta indispensabili, le visite esterne spesso rimandate per carenze organizzative sono solo alcune delle gravissime criticità denunciate che precludono il diritto alla salute per centinaia di detenuti”. Bilotti fa riferimento anche ad un caso specifico, quello del detenuto che lo scorso 28 luglio avrebbe subito una violenza sessuale in cella e che “sarebbe stato sottoposto ad una visita medica di routine incompatibile con il rigoroso protocollo che dovrebbe essere praticato in questi casi; nessuna traduzione al pronto soccorso, nessuna visita medico legale, nessun esame per epatite e hiv”. Di qui la richiesta ai Ministri interrogati sulle iniziative che intendono adottare “al fine di garantire un livello di assistenza alla popolazione reclusa conforme alle leggi dello Stato”. Padova. Pallalpiede, nono anno di attività per la squadra del Due Palazzi padovaoggi.it, 17 settembre 2022 Bonavina: “Esperienza unica”. Presentata a Palazzo Moroni la nuova stagione della ASD Pallalpiede. “Finalmente si torna a giocare”, ha dichiarato la presidente, Lara Mottarlini che da nove anni organizza e coordina le attività di questa squadra speciale. “Dopo un lungo periodo di stop, a causa della pandemia, siamo felici di ritornare a giocare e a dare ai nostri calciatori la possibilità di partecipare alla nostra nona stagione sportiva. Sin dall’inizio abbiamo sognato in grande, e ce l’abbiamo fatta! Siamo l’unica squadra di calcio di detenuti iscritta ad un campionato della F.I.G.C. - L.N.D. Ringrazio tutte le Istituzioni che fin da subito hanno creduto nel progetto, tutti i partner per il loro prezioso e indispensabile contributo uno speciale al nostro allenatore Fernando Badon, che con la sua costanza e professionalità porta i ragazzi a giocare partite importanti”. A pronunciare queste parole la presidente della ASD Pallalpiede, Lara Mottarlini. E’ lei che da nove anni porta avanti questa preziosa esperienza. Sua anche l’idea, che ai tempi sembrava un po’ pazza, la proposta non lei, ora compie nove anni di attività. La presidente ha riunito tutti coloro che danno linfa a Pallalpiede a Palazzo Moroni per presentare la nuova stagione che parte domani, sabato 17 settembre. Se il Calcio Padova che finalmente fa divertire i tifosi è guidato da alcuni mesi da una presidente, Alessandra Bianchi, si può tranquillamente dire vista la straordinaria tenacia e senza rischiare di offendere nessuno che il pallone, declinato al femminile, non va affatto male. Anzi. Chissà che non possa nascere una collaborazione tra le due società. Non sarebbe affatto male visto e considerato che questa dell’ASD Pallalpiede è una esperienza unica nel suo genere e che non sarebbe mica male esportare anche negli altri centri detentivi della penisola. La stagione sportiva di Pallalpiede è iniziata già nel mese di agosto con le selezioni e gli allenamenti agli ordini del Mister Fernando Badon e ora si appresta a entrare nel vivo con la prima giornata di campionato, prevista per sabato 17 settembre alle 14:30 sul campo del “Due Palazzi” contro la squadra del Bronzola. A vestire quest’anno i giocatori di Pallalpiede sarà lo sponsor tecnico Macron, azienda bolognese di fama internazionale che collabora con diverse squadre professionistiche come le italiane Bologna, Sampdoria, Udinese, Verona e alcuni club internazionali di grande tradizione come Nottingham Forest (Inghilterra), Dundee United (Scozia), Auxerre (Francia) e Real Sociedad (Spagna) Il progetto che da 9 anni è attivo sul territorio lo è anche grazie al supporto delle principali istituzioni - il Comune di Padova, la Direzione del Carcere “Due Palazzi” di Padova, la FIGC LND Comitato Regionale Veneto - degli sponsor come CMP e dei partner tecnici Macron e Fisioelan. L’ASD Polisportiva Pallalpiede è nata con l’obiettivo di promuovere lo sport come strumento rieducativo e di aggregazione sociale, tramite l’utilizzo del linguaggio internazionale e condiviso del calcio. L’idea del progetto è nata dalla volontà di creare un percorso di formazione all’interno del contesto carcerario per veicolare la promozione di stili di vita e di buone pratiche attraverso lo sport e l’attività motoria, che diventano in tal modo la base di un processo rieducativo volto a trasmettere ai detenuti i valori della solidarietà, della lealtà e del rispetto dell’altro. Il progetto si è concretizzato anche grazie al supporto della Direzione del “Due Palazzi” di Padova, nella persona del Direttore Claudio Mazzeo “Sono molto contento della ripresa del campionato a cui partecipa Pallalpiede. Questa squadra è iscritta e partecipa ad un regolare campionato, incontrando squadre esterne, credo sia l’unica in Italia. È una bella responsabilità che hanno quella di collegare il carcere con la comunità esterna e ad oggi lo hanno fatto nel migliore dei modi, vincendo per anni la Coppa Disciplina. Adesso che abbiamo ripreso la competizione bisogna prepararsi al meglio con l’entusiasmo e impegno di sempre, con il sostegno dello staff sotto la guida di Lara Mottarlini presidente e prima tifosa e magari anche con il supporto dei detenuti che tiferanno i loro compagni. È mia intenzione, inoltre, collegare questa importante iniziativa ad ulteriori percorsi di reinserimento sociale che svilupperò unitamente a Lara Mottarlini”. Fondamentale anche l’appoggio della FIGC LND Comitato Regionale Veneto. “È un onore sapere di essere attori di questa importante occasione - commenta Giuseppe Ruzza, Presidente FIGC LND Comitato Regionale Veneto - Una dimostrazione di come il calcio non inizia e non termina in novanta minuti all’interno di un campo di calcio, ma mette in pratica la vera inclusione sociale. Lo sport è sì divertimento ma non solo, è anche e soprattutto disciplina e rispetto per gli altri oltre che per se stessi. E questi elementi hanno un notevole rilievo ai fini dell’educazione e della formazione del singolo”. Un ruolo importante per la sopravvivenza e lo sviluppo di questo progetto negli anni lo hanno avuto anche gli sponsor e anche quest’anno Pallalpiede può contare sul supporto di alcuni partner privati che hanno dimostrato di credere in questa avventura. In primis l’azienda di abbigliamento tecnico CMP. “Crediamo fortemente che lo sport sia un’attività in grado di unire le persone, svolgendo in molti casi un ruolo sociale che aiuta alla condivisione e all’integrazione - afferma Fabio Campagnolo, CEO CMP - Il progetto Pallalpiede fa dello sport tutto questo, oltre ad essere un percorso rieducativo e un’occasione di riscatto per i ragazzi del carcere Due Palazzi di Padova. La nostra azienda investe costantemente in attività di carattere sociale e a sostegno del territorio. È stato quindi naturale decidere di supportare questa iniziativa e di partecipare all’iscrizione della squadra al campionato di Terza Categoria, così da consegnare a tutti i partecipanti un’opportunità di crescita e di confronto all’insegna di valori quali l’osservanza delle regole, la lealtà, la solidarietà, il sostegno reciproco ai compagni e il rispetto dell’avversario”. Questa fondamentale e ben riuscita sinergia ha permesso di creare una squadra capace di integrare i detenuti tra di loro. Attraverso lo sport quale linguaggio comune e unificante, il progetto è stato in grado di far nascere all’interno della Casa di reclusione “Due Palazzi” di Padova una squadra di calcio di terza categoria, fuori classifica sì, ma formata da giocatori pronti a vincere, ognuno e insieme, il campionato della lealtà, dei valori e della condivisione sportiva. Bologna. “ParliamoneOra” alla Casa Circondariale della Dozza magazine.unibo.it, 17 settembre 2022 È partito il primo ciclo di conversazioni organizzato da ParliamoneOra, l’associazione di oltre 300 docenti dell’Università di Bologna impegnati in attività di comunicazione pubblica di temi di natura scientifica e culturale, e la Casa Circondariale “Rocco D’Amato” di Bologna. Una rassegna di otto appuntamenti fino a dicembre con l’obiettivo di coinvolgere i detenuti nella riflessione critica e consapevole sulle grandi questioni che impattano nella società contemporanea. Il ciclo, che sarà riproposto tra gennaio e maggio 2023 per le detenute, è stato inaugurato dal prof. Alessandro Iannucci e dalla prof.ssa Lea Querzola per il tema della giustizia e la sua relazione con la legge, rivolgendo lo sguardo rispettivamente al mondo classico e alla contemporaneità. La prof.ssa Alessandra Scagliarini e il prof. Davide Gori, martedì 27 settembre, si occuperanno della salute unica e quindi del rapporto tra uomo, animale e ambiente. Martedì 4 ottobre, la prof.ssa Francesca Rescigno e il prof. Giacomo Giorgini Pignatello discuteranno dei modi in cui si formano i governi, tra teoria e realtà mentre la prof.ssa Susanna Vezzadini, martedì 25 ottobre, presenterà il tema della vittima in relazione alla spettacolarizzazione del dolore nei media. Le prof.sse Barbara Zambelli ed Elena Baraldi, lunedì 7 novembre, introdurranno il rapporto tra naturale e chimico dal cibo ai farmaci; martedì 29 novembre, le prof.sse Miranda Occhionero e Giovanna Zoccoli spiegheranno “perché dormire è importante” attraverso la psicofisiologia del ciclo veglia-sonno (Sonno, sogni e salute: perché dormire è importante). Per gli ultimi appuntamenti, martedì 6 e 13 dicembre, interverranno la prof.ssa Barbara Mantovani e il prof. Fabrizio Ghiselli sulle fake news in riferimento alla teoria dell’evoluzione, mentre la prof.ssa Giuseppina La Face e il prof. Nicola Badolato rifletteranno sulla relazione tra musica e sentimenti. L’iniziativa riflette la grande attenzione al pieno coinvolgimento dei detenuti nel tessuto sociale da parte della direttrice della Casa Circondariale Rosa Alba Casella e del capo area trattamentale Massimo Ziccone. L’associazione ParliamoneOra, presieduta dal prof. Dario Braga, ha risposto con convinzione e passione a questa esigenza, mettendo in campo la grande disponibilità dei suoi aderenti a mettersi in gioco e portare il proprio contributo anche al di fuori del mondo accademico, nella convinzione che agire e comunicare nella società, l’impegno pubblico, non sia meno importante delle altre missioni cui tradizionalmente sono impegnati i docenti universitari: accrescere le conoscenze (ricerca) e trasmetterle alle nuove generazioni (didattica). Arienzo (Ce). Spettacolo teatrale con detenuti, il Garante Ciambriello: uno sguardo di speranza ansa.it, 17 settembre 2022 Uno spettacolo con i detenuti protagonisti si è tenuto all’Istituto di pena di Arienzo (Caserta). A metterlo in scena la compagnia “La flotta” in collaborazione con l’associazione culturale “Naturate” e l’associazione “Polluce Aps”. Il Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Samuele Ciambriello, ha assistito alla rappresentazione teatrale, insieme alla direttrice del carcere Annalaura De Fusco e un folto gruppo di ospiti. “Quando il teatro entra nello spazio educativo - ha detto Ciambriello - può esprimersi come strumento formativo o didattico, ma anche come modalità espressiva specifica e come linguaggio trasversale. Lo spettacolo dei diversamente liberi è stato uno sguardo di speranza che chiama il nostro impegno. Occorre andare oltre le mura dell’indifferenza”. Dopo lo spettacolo, il Garante si è recato nei reparti detentivi, dove ha incontrato una delegazione di detenuti, che avevano richiesto di parlargli per denunciare in particolare le disfunzioni dell’area sanitaria, in quanto gli operatori sanitari, causa carenze di personale, non riescono a far fronte a tutte le problematiche sanitarie e, soprattutto, non possono garantire la tempestività degli interventi. “Lo scorso 12 settembre, al carcere di Arienzo, è morto per un malore un ventinovenne; non si può morire di carcere e in carcere. È necessario garantire un medico di reparto per tutte le ventiquattrore. La tutela della salute è un diritto fondamentale sancito dai nostri padri costituenti”. Altro problema denunciato dai detenuti è la lentezza della magistratura di sorveglianza, con cui i ristretti difficilmente riescono ad interfacciarsi. “È necessario che i magistrati - ha sottolineato Ciambriello - anche attraverso videochiamate, possano interessarsi alla comunità detentiva. Bisogna incrementare i permessi premio e concedere, là dove ve ne siano i requisiti di legge, le misure alternative al carcere” ha concluso il Garante. Milano. “Racconto le nostre vite da film. Il lieto fine del riscatto è possibile” di Massimiliano Saggese Il Giorno, 17 settembre 2022 “Rozzano 20089”: Zio Genny e Area 51 diventano un film che sarà presentato oggi alle 14.30 al Litta di Milano nell’ambito del festival “Visioni dal mondo”. Una pellicola di 89 minuti, proprio come il numero finale del Cap di Rozzano dove si viaggia nelle storie nascoste della città. È infatti diventata una pellicola la storia di Gennaro Speria, l’ex detenuto che per espiare le proprie pene andò a piedi a Roma, dal Papa, portandosi un crocifisso in legno di 40 chili sulle spalle e che ha trasformato, con la pandemia, la sua officina meccanica, Area 51, dove lavoravano ex detenuti in un centro di assistenza per le famiglie povere. “Voglio dare luce ai chi viene dimenticato, raccontare quelle storie difficili che a Rozzano si vivono quotidianamente e che non vede nessuno - spiega Genny -. Io non sono un attore ma tutti noi rozzanesi siamo protagonisti di vite spesso difficili, qui si trovano quei personaggi reali che nelle fiction fanno sognare, piangere, ridere, amare. Vogliamo raccontare anche le storie di chi ha vinto. Di chi si è preso una rivincita sulla vita. Area 51 è un piccolo rifugio vissuto da migliaia di persone. Da ex detenuto ho aperto le porte a ex detenuti e giovani che vengono mandati in affido e mi aiutano a fare pace col passato. Vorrei trasmettere a chi vuole ascoltare che è bello vivere pensando al prossimo”. Oggi Area 51 per circa duemila famiglie è un’isola di assistenza: Genny e i suoi ragazzi distribuiscono pacchi alimentari ogni giorno. In Rozzano 20089 la vita dello Zio Genny si intreccia con quella di altri personaggi e in particolare con quella di due rapper. Sono tre le storie che s’intrecciano. C’è Genny, ex carcerato che trascorre le sue giornate in un’associazione no-profit nominata da lui stesso Area 51; c’è un giovane rapper, Marchino, un ragazzo dal passato difficile che, a seguito di un periodo trascorso in comunità, ha cominciato a dedicarsi alla musica e sta cercando di sfondare come rapper. E infine Sarso, anche lui giovane rapper, che si sente in trappola a Rozzano e sogna di lasciare tutto per andare a vivere a Barcellona. L’arte è la libertà. Un dialogo con Raffaele Bruno di Maria Caterina Bombarda liberidentro.home.blog, 17 settembre 2022 Con la puntata di oggi la nostra settimana di Liberi dentro Eduradio & Tv prosegue con un nuovo ospite per approfondire il tema del teatro in carcere. Oggi dialoghiamo con l’on. Raffaele Bruno, artista e deputato, promotore della legge Disposizioni per la promozione e il sostegno delle attività teatrali negli istituti penitenziari. “Da quando ho conosciuto l’arte questa cella è diventata una prigione”: è l’incipit della canzone che abbiamo appena ascoltato E mmo prodotta dal collettivo “Gli Ultimi Saranno”, una frase che racchiude in sintesi la figura di Cosimo Rega, ex camorrista (scomparso lo scorso 30 agosto) rinato grazie alla recitazione e alla cultura. Dunque l’arte è libertà? Sì è la frase che Cosimo dice alla fine del film dei fratelli Taviani Cesare deve morire in cui lui è uno dei protagonisti, e racconta proprio il senso dell’incontro con l’arte nei luoghi dell’emarginazione, il senso e la potenza evolutiva e rivoluzionaria dell’arte. Io la interpreto così: quando apri una porta verso la consapevolezza ti rendi veramente conto di dove sei. Quindi da quando Cosimo aveva realizzato l’incontro con l’arte si era reso conto della sua condizione di prigioniero. Chiaramente sono concetti universali, valgono per un contesto carcere, per le mura fisiche, ma valgono anche per altre mura che a volte ci costruiamo noi nella testa, nel vivere una vita che non ci appartiene, una quotidianità che non amiamo. L’arte diventa allora uno di quegli strumenti che ci fa fare il salto rivoluzionario per eccellenza: Il viaggio rivoluzionario dentro noi stessi per capire chi siamo, cosa vogliamo e chi vogliamo essere. Si tratta di un testo scritto in napoletano “verace”, l’hai scritto tu? Sì, lo scrissi pensando al carcere, poi l’ho modificato perché eravamo in piena pandemia e lo feci ascoltare a Cosimo che si è rivisto molto nel testo della canzone. Il concetto è quello dell’innocenza del bambino che è dentro di noi. Cioè dice: quando ero bambino non avevo paura, vivevo la vita così com’era, poi dopo si cresce magari si hanno riferimenti ed esempi sbagliati, si fanno scelte non consapevoli e si prendono strade che ci portano in vicoli bui da cui poi è difficile tornare indietro. In questo caso appunto, quando le persone si pentono, l’arte ha un valore salvifico. Con il collettivo abbiamo anche fatto un secondo pezzo che si chiama Canzone d’evasione, dove alla fine del brano ci sono anche delle testimonianze di altre persone che attraverso l’arte hanno cambiato la loro vita. Con Il collettivo “Gli Ultimi Saranno” avete fatto molti progetti, in particolare dei testi musicali per sensibilizzare sul tema carcere: hanno funzionato nell’intento? Dove li promuovete? Nei cinque anni della legislatura precedente abbiamo realizzato una trentina di eventi in più di 20 carceri, e oltre alle carceri giriamo laddove c’è voglia di ascoltare queste storie. E poi c’è stato un evento potente, abbiamo portato questa esperienza dentro Montecitorio, si tratta forse dell’unico caso nella storia della Repubblica, con le rappresentanze di 10 comuni sedi di carcere, quindi direttori, detenuti, ma anche agenti che hanno recitato e cantato alternandosi al presidente della Camera… Insomma un evento che sta proprio a indicare che quando si sta insieme attorno all’arte si sospende ogni giudizio e si crea una forma di bellezza che prima non c’era. Purtroppo sappiamo che la proposta di legge si è interrotta a causa della fine della legislatura, ma a che punto era arrivata? Prevede finanziamenti? Si tratta di una legge ispirata da tutti questi incontri nelle carceri di cui ho parlato, perchè prima di tutto abbiamo toccato con la mano e col cuore queste realtà carcerarie. In questo contesto l’incontro con Cosimo è stato particolarmente motivante perché la sua vita e l’esempio della sua trasformazione mi hanno fatto capire fino in fondo quanto questo mezzo del teatro sia effettivamente efficace. La legge era arrivata a un passo dall’approvazione alla Camera e prevede oltre l’organizzazione di un osservatorio, l’individuazione di un luogo deputato al teatro in ogni carcere, ma anche un fondo che in partenza è 2 milioni di euro per pagare i professionisti (altro punto fondamentale della legge), che sono persone formate e preparate, e come tali devono essere adeguatamente retribuiti. Se la campagna “il teatro in ogni carcere” avesse seguito, come ti immagineresti il carcere tra 10 anni? Mi immagino un modo in cui il carcere non sia necessario. Tuttavia, nell’immediato futuro dico questo: in Italia abbiamo circa 185 carceri, mi piacerebbe immaginare che diventassero 185 teatri. Quindi luoghi dove si fa formazione, scambio, una programmazione teatrale. Potrebbe essere un’occasione per far guadagnare Il carcere e tutte le persone che dentro ci lavorano e ci vivono, anche le persone momentaneamente recluse. L’aspetto rivoluzionario di quello che potrebbe accadere con la legge se venisse approvata, sono delle insidie benefiche enormi e una di queste è che in Italia, quando si va in carcere, si può avere la possibilità di incontrare il dolore e la violenza… ma con questa legge in vigore, sì, ho la certezza che si possa incontrare anche l’arte e, attraverso l’arte, sé stessi. Evasioni filosofiche: il dialogo socratico come cura per i detenuti di Raffaella Tallarico gnewsonline.it La filosofia entra in carcere e dà ai detenuti uno strumento tanto utile quanto spesso dimenticato: la riflessione. Il laboratorio Evasioni filosofiche, che si terrà sabato 17 settembre nell’ambito del Festivalfilosofia di Modena, è il racconto del lavoro di consulenza filosofica nelle carceri condotto da Anna Maria Corradini, curatrice dell’iniziativa. L’autrice di “Mille ore in carcere”, ha alle spalle sette anni di esperienza negli istituti di pena di Venezia, Padova, Treviso e di altre città italiane del Nord-Est. E spiega l’importanza del dialogo con i detenuti: “Durante le mie visite incontro tutti, dai condannati per maltrattamenti ai collaboratori di giustizia. Cerco di lavorare con loro sul pensiero e, insieme, tentiamo di rimettere ordine, dialogando tramite un linguaggio piuttosto semplice, non specialistico”. Ispirato alla maieutica socratica - che punta alla riflessione dell’interlocutore sui problemi della vita per trarre da se stesso la “verità”, senza imposizioni esterne - il dialogo con i detenuti ha al centro problematiche comuni a tutti: “Gli interrogativi dell’esistenza - spiega Corradini - che, nel caso specifico di chi è in carcere, spingono alla ricerca del significato degli errori commessi, delle motivazioni. Successivamente, è possibile far riflettere su un diverso tipo di realtà, che non si basi sulla vendetta - che non ha leggi - ma sulla giustizia”. Il passaggio da un sistema senza norme a uno che ha norme scritte è cruciale, nel lavoro di consulenza filosofica. “Ciascuno di noi ha una filosofia di vita - prosegue Corradini - influenzata da problemi familiari, personali e, nel caso dei detenuti, si aggiunge la reclusione in un luogo di pena. È evidente che tutte queste componenti siano motivo di disordine del senso della propria vita, e della vita in generale. Con la consulenza filosofica e il dialogo si cerca di ricostruire quel senso”. Il rapporto alla pari è, però, fondamentale. Per questo non si parla di una “rieducazione” del pensiero: “Nel mio lavoro aiuto semplicemente a riflettere, cercando di suscitare una presa di coscienza” - spiega ancora l’esperta. “Il dialogo è un percorso che può portare a nuove consapevolezze, nessuno insegna niente a nessuno”. Il laboratorio si terrà a Sassuolo, nell’auditorium “Pierangelo Bertoli” nel pomeriggio di sabato, alle 16.30. A Corradini si affiancheranno altri esperti di Eu-Topia APS, un gruppo interdisciplinare di professionisti che, con competenze oltre che filosofiche, anche sociali, ambientali e architettoniche, da anni operano per l’analisi e la ricerca di soluzioni a diverse forme di marginalità. Evasioni carcerarie è, in sintesi, il tentativo di dimostrare che con la filosofia e la riflessione, dal carcere - inteso come una delle tante “caverne” del mito di Platone e che accomuna tutti, liberi e detenuti - si può uscire. A lezione di carcere, andare “dentro” per capire di Lorenzo Erroi laregione.ch, 17 settembre 2022 “Ma tanto è come stare in albergo”; “ormai dopo tre giorni sono fuori”; “buttate via la chiave!”. Molte persone ignorano la vera natura (e la funzione) del carcere. Così come ignorano quanto poco, certe volte, possa bastare per finirci dentro. Un’esperienza didattica aiuta a riflettere sul tema, letteralmente da dentro. “Giro e mi rigiro e vedo tutto bianco”. “Non si sa se il tempo sta scorrendo o meno”. “Maledetto quel cazzo di rumore che fanno quelle chiavi”. “Bestemmie scritte sui muri. Noia assurda. Voglio uscire”. Sono bastati sessanta minuti di cella per far capire a una classe di ragazzi della Scuola professionale artigianale industriale (Spai) del Centro professionale tecnico di Bellinzona che il carcere non è “un albergo”, come si sente dire ogni tanto da certi tromboni, che la privazione della libertà è uno strazio e tutto sommato non è poi un’ipotesi così remota, neanche per dei ragazzini imberbi: “Meno male che per fortuna non sto più in certi giri, sennò mi trovavo ancora dentro a un buco di merda”, scrive uno di loro. Le frasi vengono dalle note prese durante l’ora ‘al gabbio’, passata in solitudine, con davanti a sé solo un foglio e una penna. L’idea è venuta a Mauro Broggini, un omone con la faccia buona e i modi spicci ma paterni da vecchio bluesman, storico insegnante delle scuole professionali: a metà anni Ottanta è stato tra i primi docenti mediatori in Ticino - quelli che forniscono aiuto e supporto agli studenti che stanno affrontando storie difficili - ed è proprio per questo che si è trovato spesso qui dove stiamo oggi, alle Pretoriali di Locarno, un seminterrato buio, sepolcrale, dove fino a vent’anni fa si poteva rimanere chiusi anche per dei mesi. La fatica di crescere - Oggi per la detenzione reale ci sono la Farera e la Stampa, a Lugano, ma Mauro ha ottenuto l’utilizzo dei vecchi bugigattoli locarnesi per impartire una bella lezione agli allievi del cantone, una lezione che usa l’esperienza per far capire il carcere. Ci si arriva dopo un paio di mezze mattinate in classe - intitolate significativamente ‘La fatica di crescere’ - coordinate in questo caso insieme alla professoressa Laura Mudry. In quel paio d’ore Mauro sfiora Eric Clapton e Ry Cooder, fa ascoltare ‘L’isola che non c’è’ di Edoardo Bennato, ‘Ora’ di Jovanotti, ‘Ti insegnerò a volare’ di Francesco Guccini e Roberto Vecchioni: “Qui si tratta di vivere / non d’arrivare primo / e al diavolo il destino”. Una vignetta di Mordillo fa vedere un omino portato via dalla polizia per avere dipinto casa sua, unica in un quartiere grigio e anonimo. Partendo proprio dalla diversità, dalla discriminazione, da quei traumi grandi o piccoli che possono condurre a errori madornali, Mauro racconta la sua esperienza ‘dentro’: è lui che col progetto InOltre - “‘in’ perché sono dentro, ‘oltre’ perché si preparano al dopo” - ha portato la scuola nelle carceri ticinesi a partire da metà degli anni Duemila, permettendo ai detenuti e alle detenute di imparare l’informatica, l’italiano, la matematica, ma anche materie pratiche quali l’igiene alimentare e la cura della casa. E ai ragazzi ‘fuori’ ricorda: “Il carcere è un’esperienza durissima, sei da solo, ti chiedi cos’hai combinato e cosa ne sarà di te. Vedi gente che fuori ‘ganassava’ e picchiava, pim pum pam, che piange come un vitello davanti alla guardia. Poi è uno stigma che rischi di portarti dietro per tutta la vita, certa gente è capace di metterti un timbro in fronte anche per un furtarello fatto da bocia”. Lo scopo dell’esercizio, insomma, è quello di mettersi nei panni dei detenuti, di provare a intuire almeno remotamente cosa possano patire e che razza di destini attraversino. Non per giustificare tutto - “anche se oggi basta preoccuparsi di certe cose per passare da buonista” - ma per capire. In classe i ragazzi in effetti comprendono, reagiscono, perfino quelli più flemmatici e impacciati partecipano alla discussione. Una studentessa si chiede se “è sbagliato essere diversi” e un suo compagno si preoccupa delle risse in cui ha visto finire anche certi amici, quelli che “fanno a gara a chi ce l’ha più grosso”. Maledette chiavi - Nella penombra delle Pretoriali i compagni di classe vengono separati e rinchiusi uno per uno, ed è tutto un rumore di passi, serrature, sportelli che sbattono. Soprattutto, mentre anch’io mi trovo rinchiuso, c’è il tintinnio delle pesanti chiavi che Mauro porta con sé: un rumore cristallino, acuto, che logora i nervi sempre di più, a ogni minuto che passa. Peraltro quel tempo scorre senza che possiamo misurarlo, dilatandosi proprio mentre tentiamo di riafferrarlo, perché qui non si hanno orologi o smartphone, solo il foglio e la penna per annotare quel che vediamo lì dentro, in quei tre metri per due: lavandino e bugliolo, una panchetta inchiodata a terra e senza schienale, un piccolo banco anch’esso ben assicurato al pavimento, per evitare che qualcuno si faccia del male (anche se “un paio di ragazzi sono riusciti ad ammazzarsi anche qui dentro, impiccandosi con le lenzuola”, ci aveva spiegato Mauro). Una finestra di vetro opaco, dalla quale non si può vedere proprio nulla, è preclusa dalle sbarre fittissime, bianche come le pareti, che disegnano sul pavimento le sagome del loro intreccio, trecentoventiquattro quadretti per il famoso ‘sole a scacchi’ (uno finisce per contarli quando non sa più cosa fare, e non ci vuole tanto). Il letto è una brandina azzurra con un materasso sottilissimo. Si leggono ancora alcune scritte sui muri: “Sono stato sputtanato”, “Sonia è la mia vita”. Sul lavandino, proprio di fronte al tavolo, uno specchio di sicurezza d’acciaio ossidato riflette solo i contorni sbiaditi del volto. La luce giallastra di due faretti illumina tutto. Afferrarsi la testa tra le mani viene d’istinto, finché a farci sussultare non arriva il fortissimo ‘clac!’ dello sportello da cui un tempo le guardie portavano il rancio (è Mauro che passa a dare un’occhiata per assicurarsi che stiamo bene, e quegli occhi azzurri che sorridono dal corridoio sono già un sollievo perfino per noi, che siamo qua “in gita”). Fuori ci sono i rumori della strada, la vita che va avanti. Chissà cosa dev’essere doverla origliare senza potersi muovere per ventitré ore al giorno - con una sola ora d’aria, aria si fa per dire visto che si passeggiava nel corridoio - per settimane o mesi. D’altronde Mauro ce l’aveva detto: “Dentro il silenzio fa talmente rumore che non si riesce neppure a dormire”. Maree di pensieri - L’esperienza insegna, stavolta è il caso di dirlo: questo gruppetto di 14-15enni - un po’ ciondolanti, segnati dall’acne e dalle paturnie dalle quali siamo passati tutti, con i calzini e le scarpe della Nike tutti uguali e ancora una dose di naturale timidezza verso gli adulti - lo dimostrano dalle pagine che consegnano dopo la ‘reclusione’. Qualcuno ha buttato giù due frasi alla bell’e meglio, interessanti soprattutto per quello che non dicono, nel loro tentativo di distrarsi dalla solitudine: “La cella è lunga 13 scarpe (taglia 40) e lunga 8 scarpe e mezzo”, “ho fatto una pallina di carta, non è tanto ma è qualcosa, dai”. E se “stare qua dentro porta veramente alla pazzia”, c’è chi per resisterle ha scritto un racconto che parla di emigranti, de ‘la rossa e il contadino’, di giubbe blu, Irochesi e “un totem enorme, con dentro scalpellate le loro pagane divinità” cui stanno legati “peccatori, anime ferite e inermi”. Un altro ha disegnato la piantina del carcere, un altro ancora ha scritto una canzone: “La cella è bianca / maree di pensieri / tipo come sta mia mamma”; “L’unico momento in cui sorrido / quando lo sbirro apre la porticina e mi porta il cibo”; “Rimani in un buco aspettando che ti apra il divino”. Una delle poche ragazze osserva che se non altro “la solitudine ti toglie dai giudizi della gente e dagli sguardi” e che “qui si ha il tempo di disinnescare la bomba che si ha dentro”. Che la lezione sia servita ce lo conferma infine una frase semplice, poche parole che ci aspetteremmo di trovare scritte su Tripadvisor, se per le carceri ci fossero le recensioni sul web come per gli hotel e i ristoranti: “Sono stato qui, non ci ritornerei”. “Una cosa in particolare ha colpito molto i ragazzi: l’importanza delle proprie scelte. Il confronto con le storie che Mauro ci ha portato in classe e con l’esperienza del carcere li ha aiutati a capire che sì, ciascuno si trova dentro a una storia di vita che non può dipendere del tutto da lui, però è anche libero di decidere, e certe decisioni hanno delle conseguenze. Ecco: libertà, scelte, responsabilità sono i concetti ‘rimasti’ di più nella classe. E questo è tanto più importante perché, come emerge dai loro scritti, a quell’età è come se si avessero dentro delle bombe pronte a esplodere”. Ad annotare certi cambiamenti è Laura Mudry, che a questi aspiranti polimeccanici e operatori in automazione insegna cultura generale alla Spai di Bellinzona. “È una materia che permette loro, per qualche ora, di restare fuori dagli impegni lavorativi e sociali e di riflettere insieme ai loro coetanei su quella stessa società e su loro stessi come individui. Ripeto da diversi anni il progetto con Mauro, e in questo senso trovo che sia ideale: spinge i ragazzi a soffermarsi sull’importanza di quello che decidono di fare o non fare, ma allo stesso tempo anche di capire la relazione tra il singolo che infrange la legge e la società”. Al di là dell’evidente lezione circa le conseguenze di infilarsi in certi casini, viene da pensare che dopo l’ora dentro riuscirà un po’ più difficile, per questi adolescenti, uscirsene con invocazioni forcaiole del tipo “buttate via la chiave”. Laura stessa ce lo conferma: “L’attività rende gli studenti meno giudicanti, più attenti al carcerato come individuo e alla necessità di reintegrarlo nella comunità”. Se la cultura generale è “un modo per fargli aprire un po’ gli occhi sul mondo”, la reclusione “li fa riflettere in modo più analitico su una parte di esso che spesso ne viene escluso. Tant’è vero che quando gli faccio leggere un atto d’accusa riguardante giovani poco più grandi di loro, all’inizio propongono pene draconiane; poi, dopo il confronto e la riflessione, la loro proposta di pena si fa molto meno severa e più attenta alla riabilitazione”. Piccoli ‘buonisti’ crescono? “No, perché non si tratta di giustificare tutto, il discorso torna sempre al concetto di responsabilità e alla necessità di rispettare le regole. Però ci si arriva con maggiore consapevolezza, capendo prima un po’ meglio le conseguenze della condotta personale e gli obiettivi della giustizia. D’altronde, sono la prima a poter dire che l’esperimento funziona: Mauro la prima volta ha ‘messo dentro’ anche me, e anch’io ricordo l’impressione che mi ha lasciato quel tempo sospeso”. “Dicono che è vero che ogni sognatore diventerà cinico invecchiando”, recita un verso di Jovanotti che Mauro Broggini ci ha fatto ascoltare in classe. Non si direbbe il suo caso, anche perché i sogni per cui ha combattuto una vita - in primis portare la scuola a chi è in difficoltà e a chi è in carcere - li ha anche realizzati con un certo pragmatismo. Oggi in pensione, ma ancora attivo come docente volontario, ha iniziato a frequentare le patrie galere a metà degli anni ‘80, quando iniziò la sua esperienza di docente mediatore “e ogni tanto qualche ragazzo, per un motivo o per l’altro, finiva qui dentro”. Storie ovviamente difficili, spesso legate a problemi di droga: “Tutti ci vogliono inscalfibili, ma occorre del coraggio per dire sono triste, non sto bene”. Erano gli anni di quella che i giornali, con pigro fatalismo, chiamavano ‘epidemia’ di eroina. “Era un mondo diverso anche quello della droga, si creava una specie di comunità. Chi è sopravvissuto lo vedo ancora, e forse per me sono quelli i ricordi più belli: quelli di chi qui dentro non c’è più dovuto tornare. Mi fa un po’ lo stesso effetto quando vado a trovare mio figlio a Zurigo e mi siedo su una panchina al Platzspitz di Zurigo, che una volta era un ghetto di tossicodipendenti anche ticinesi, e ora è un parco bellissimo”. I brutti ricordi, invece, sono quelli di chi non ha resistito, come S., “che era arrivato qui dopo aver fatto 40mila franchi di danni al Castello insieme a un amico, una notte che erano ‘pieni’. Era riuscito a reinserirsi come operaio comunale, lavorava per ripagare il danno, ma lo bullizzavano. Quando chiese di poter trattenere almeno la tredicesima per fare un regalo di Natale a casa, gli dissero di no. Tornò a drogarsi e alla fine si sparò. Ma ho in mente una sua bella foto, col fisico ancora scolpito e un sacco di cemento in spalla, fatta quando ristrutturammo una cascina a Loco. Quella foto è ancora nel salotto di sua madre, che ne va orgogliosa”. Con lo svuotamento delle Pretoriali - dettato dalla necessità di rispettare i diritti umani - i detenuti furono spostati nelle più moderne strutture di Lugano: la Stampa, lo Stampino e come prima tappa la Farera, “un porto di mare, dove finisce chiunque venga arrestato tra Airolo e Chiasso, minorenne e maggiorenne”. Lì Mauro ha avviato nel 2006 il progetto InOltre, che col supporto di una squadra di docenti - inviati per alcune ore prima dalla Scuola professionale artigianale industriale (Spai) di Locarno, poi da quella di Trevano - si occupa di portare la scuola in carcere. Scuola che però - e questo vale anche fuori ma soprattutto ‘dentro’ - non è solo libri e lezioni: è un modo per “fare sì che quelle ragazze e ragazzi non si sentano ignorati, che trovino qualcuno vicino, che si preparino a un ‘dopo’”. Appassionato di musica rock e blues, in carcere Mauro ha portato anche, oltre a numerose conferenze, molti concerti “sempre a costo zero e senza alcun disordine. Così come disordini e mancanza di rispetto, generalmente, non si vedono neppure in classe”. Questo nonostante su quei banchi rinchiusi, accanto a chi ha fatto la classica cazzata, ci sia chi dalle carceri entra ed esce. Come il ragazzo che una volta - dopo essere stato arrestato mentre cercava di forzare una cassaforte - rispose alla domanda su cosa avrebbe desiderato per Natale: “Una fiamma ossidrica più potente”. Insomma, non sempre è facile, non sempre funziona. “C’è chi si è tirato assieme e chi no, e per me quello è sempre il dispiacere più grande”. Mauro poi lo sa, che il carcere “è un modo per isolare chi non sa rispettare le regole e mina la libertà del prossimo”. Ma sa anche cosa significa “sentirsi chiudere dietro alle spalle tutti quei cancelli e quelle porte. Noi insegnanti poi alle cinque del pomeriggio, al più tardi, ce ne andiamo. Loro invece restano lì, 23 ore in cella e una ‘d’aria’, che poi vuol dire ingabbiati sul tetto a fa avant e indré”, spiega con foga davanti agli occhi attenti di tutti. È proprio quello che ci tiene a far capire ai ragazzi, anche a chi resta fuori, come nel caso dell’esperienza che ha già portato alle Pretoriali centinaia di studenti. Sempre con un obiettivo in testa: “Dare un senso allo stare dentro”. Striscia di Gaza. In un solo giorno 3 impiccati e 2 fucilati, riecco il boia di Hamas di Sergio D’Elia Il Riformista, 17 settembre 2022 Tre sono stati impiccati, altri due sono stati fucilati. In un solo giorno, lo Stato-Caino che detta legge nella Striscia di Gaza ha recuperato il tempo perduto. Da quando ha preso il potere nel 2007, Hamas aveva placato la sete di vendetta del suo popolo mandando ogni anno al patibolo almeno un paio di presunte spie del suo nemico giurato e assassini comuni. Dopo cinque anni di tregua, la “giustizia riparativa” della forca ha ripreso il suo corso mortale. Per i musulmani, la domenica non è il giorno del Signore, riservato al riposo, all’amore, alla grazia. All’alba della prima domenica di settembre, il boia di Hamas è stato richiamato al lavoro per “giustiziare” cinque palestinesi condannati in casi diversi di omicidio e presunta collaborazione con Israele. A due di loro, entrambi membri delle forze di sicurezza palestinesi, è stato concesso il “privilegio” di essere uccisi da un plotone di esecuzione. Gli altri tre sono stati ammazzati come cani, con il cappio al collo. Tutte le condanne a morte sono state eseguite intorno alle cinque di mattina nell’Ansar Security Compound, nella parte occidentale della Città di Gaza. Il Ministero dell’Interno non ha fornito i nomi completi dei disgraziati, ha solo indicato le loro iniziali, l’età e descritto sommariamente il fatto. Il primo a essere fucilato è stato K. S., un uomo di 54 anni, residente a Khan Yunis. Era in carcere dal 2015 e secondo Hamas nel 1991 aveva fornito a Israele “informazioni sui combattenti della resistenza, sul loro luogo di residenza e la posizione dei lanciarazzi”. Anche N. A. era sospettato di essere una spia, ma non era un militare e quindi è stato impiccato. Aveva 44 anni ed era stato condannato per aver fornito nel 2001 informazioni di intelligence che avevano portato alla presa di mira e all’uccisione di civili da parte delle forze israeliane. E. A. aveva 43 anni e abitava nella città di Gaza. Nel 2004 era stato incarcerato con l’accusa di rapimento e omicidio. Era evaso dal carcere e aveva commesso un altro rapimento e omicidio oltre a una rapina nel 2009. È stato impiccato. Il quarto giustiziato per impiccagione, M. Z., aveva 30 anni ed era residente nel nord della Striscia di Gaza. Era stato arrestato nell’ottobre del 2013 per un omicidio a scopo di rapina. J. Q. era un militare delle forze di sicurezza di Hamas e quindi non ha subito l’onta della forca. Ha avuto l’onore di finire davanti a un plotone di esecuzione. Aveva 26 anni ed era stato arrestato il 14 luglio scorso per aver ucciso un uomo e una ragazza e aver ferito altre 11 persone durante una lite familiare. Hamas ha detto che a tutti gli imputati è stato “concesso il pieno diritto di difendersi, secondo le regole di procedura, davanti a un tribunale competente”. Nel caso di J. Q. il corso della giustizia è stato tumultuoso, e la sua esecuzione avvenuta a furor di popolo. Cittadini e funzionari palestinesi l’hanno invocata con violente manifestazioni di piazza e anche sui social network con un hashtag inequivocabile: #Retribution_Life, occhio per occhio. Il prigioniero non ha avuto il tempo di chiedere la grazia o la commutazione della pena. Questa furia di esecuzioni in un solo giorno in una stretta striscia di terra non era mai successa. Non era neanche volta a pareggiare il piatto del bene con quello del male nella bilancia della giustizia. Per Hamas le esecuzioni intendevano soprattutto “raggiungere la pace e la stabilità nella società”, anche a costo della violazione della legge palestinese e dei valori universali della giustizia. Dall’istituzione dell’Autorità Palestinese nel 1994, sono state eseguite 46 condanne a morte: 44 nella Striscia di Gaza e 2 in Cisgiordania. Di quelle effettuate a Gaza, 33 sono avvenute senza la ratifica del presidente palestinese, come prevede la legge nazionale. Ma, a Gaza, il regolamento dei conti tra vittime e carnefici non passa sempre dalle aule di giustizia del regime islamista. Accade anche che persone sospettate, arrestate o condannate siano “giustiziate” sul campo: nel cortile di un carcere o di una moschea, nelle strade e nelle proprie case. Se la pena capitale “legale” dei tribunali militari e civili di Gaza è stata intermittente dal 2007 a oggi, la giustizia “fai da te” di Hamas, fuori dalla legge e dai codici, ha fatto il suo corso senza interruzioni. Senza timbri e carte bollate, la colpa, la sentenza e la pena sono state scritte dagli uomini mascherati su pezzi di carta affissi sui muri accanto ai cadaveri senza nome dei nemici dello “stato islamico”, dell’ordine costituito in nome di dio. Stati Uniti. Fare politica sulla pelle dei migranti di Luca Celada Il Manifesto, 17 settembre 2022 50 persone che avevano attraversato il confine dal Messico sono state “spedite” dal governatore nazional populista della Florida a Martha’s Vineyard, isola-resort al largo del Massachusetts. Di solito quando atterrano voli nella ridente isola-resort di Martha’s Vineyard a largo del Massachusetts, non lontano da Cape Cod, si tratta di velivoli privati di facoltosi vacanzieri che qui hanno signorili seconde case. Ma quando mercoledì sono arrivati due voli charter provenienti dalla Florida sono sbarcate 50 persone dall’aria sperduta alcune delle quali si sono domandate: “Questa sarebbe Boston?”. Nel piccolo aeroporto non c’era nessuno ad attenderli ed i passeggeri - migranti si sarebbe poi saputo, provenienti principalmente dal Venezuela - hanno dovuto camminare coi loro bagagli per cinque chilometri prima di arrivare in paese e raggiungere le autorità. Preso atto che non avevano mangiato o bevuto da 12 ore i nuovi arrivati sono stati sistemati in dormitori d’emergenza e rifocillati. Le famiglie ispaniche, con donne e bambini, si sarebbe in seguito saputo, avevano attraversato il confine messicano col Texas - a 4000 km di distanza. Fin qui un percorso condiviso ogni anno da centinaia di migliaia di profughi. Nel caso specifico però le persone erano state reclutate nei centri accoglienza texani ed invitate ad imbarcarsi su voli speciali con l’assicurazione di essere diretti a Boston dove sarebbero stati assistiti per formalizzare la procedura di richiesta d’asilo. I voli, che da un aeroporto in Texas avevano fatto scalo in Florida prima di giungere nella piccola isola benestante e progressista (qui viene in vacanza Obama), erano stati predisposti da Ron DeSantis, il governatore ultra conservatore della Florida come azione “dimostrativa”. Qualcosa di simile a prelevare i migranti da un Cas e spedirli a Capalbio o accamparli vicino alle abitazioni di avversari politici. Fa tutto parte infatti di una nuova strategia politica. Da qualche mese DeSantis (il più papabile fra gli aspiranti eredi di Trump) ed i suoi colleghi in Arizona (Doug Ducey) e Texas (Gregg Abbott) hanno adottato la tattica di spedire convogli - e ora apparentemente voli charter - carichi di immigrati “clandestini” verso gli stati liberal che sostengono la “politica delle frontiere aperte” voluta da Biden.” Da settimane torpedoni carichi di povera gente fanno rotta su New York, Washinton, Chicago e altre “città santuario” le cui amministrazioni locali si sono dichiarate solidali con gli immigrati. Sempre la scorsa settimana un centinaio di profughi sono stati fatti scendere davanti al portone della residenza della vicepresidente Kamala Harris, tutto a favore di telecamere. È l’ultima escalation di una ribellione sempre più esplicita degli stati oltranzisti fedeli a Trump nei confronti delle politiche nazionali emanate a Washington. Tutto accompagnato da furiose polemiche (la sindaca della capitale si è dichiarata fiera di ricevere i migranti espulsi dal Texas sottolineando i diversi valori di accoglienza ed empatia della sua città). Dal canto loro i governatori nazional populisti del sud considerano una retribuzione esemplare mettere i “liberal del nord” di fonte alle conseguenze di un problema che si abbatte prevalentemente sugli stati di confine. Si delinea sempre più marcata insomma la divisione fra ribelli del sud e governativi del nord. E se questo non può che evocare i fantasmi dell’ultima guerra civile, le attuali iniziative ricordano anche le “reverse freedom rides” che dal sud spedivano “neri a nord” per rappresaglia contro l’attivismo dei diritti civili. Vero è che l’uso delle persone come figuranti strumentali ad una campagna politica (DeSantis sull’aereo ha voluto anche un video operatore per le riprese di spot elettorali) stavolta è parso particolarmente meschino e cinico. Secondo alcuni nelle azioni dei governatori si ravviserebbero gli estremi del traffico illecito di esseri umani. Negli ultimi mesi il solo Abbott (che ha anche ribadito l’intenzione di ultimare un muro sul confine del suo stato col Messico) avrebbe “trasferito” oltre 9.800 persone verso stati e città progressisti per “impartire loro una lezione” sulle politiche permissive di Biden. L’attuale presidente ha abrogato la tolleranza zero istituita da Trump, il respingimento ad oltranza dei richiedenti asilo e fermato la costruzione del muro fortificato di frontiera. Lungi da una frontiera aperta tuttavia il confine col Messico continua ad essere une barriera pressoché insormontabile fra il sottosviluppo del sud e il miraggio americano, lungo il quale vengono fermati ogni mese fino a 200.000 tentativi di ingresso. L’immigrazione illegale è da sempre cavallo di battaglia della destra populista e affidabile argomento per alimentare i livori razzisti e xenofobi. Alle critiche i conservatori reagiscono con un celodurismo pari a quello di Orbán di fronte alle censure della Ue, nella certezza che ogni rimprovero non farà che rinsaldare il sostegno della base. Gli ultimi trasferimenti “dimostrativi” segnano tuttavia un livello di insubordinazione sempre più spavalda degli stati conservatori e presagisce uno scontro frontale sui temi emozionali (razzismo, immigrazione, aborto, diritti) con margini sempre più ristretti per ogni mediazione nella cruciale stagione politica che l’America affronterà fra le elezioni di medio termine di novembre e le presidenziali del 2024. Intanto, le 50 persone spedite come pacchi a Martha’s Vineyard ieri sono state spostate in una base militare a Cape Cod, sempre in Massachusetts. che verrà utilizzata come rifugio temporaneo e dove riceveranno cibo e i servizi necessari. “Invece di lavorare insieme a noi a delle soluzioni - ha commentato il presidente Biden giovedì notte - i repubblicani fanno politica sulla pelle di esseri umani”. Iran. Ragazza di 22 anni picchiata a morte perché non indossava bene il velo di Marta Serafini Corriere della Sera, 17 settembre 2022 La polizia della moralità accusata di aver ucciso una 22enne. La risposta: “ha avuto un infarto”. Proteste nella capitale e sui social network. Pestata a morte dalla polizia della moralità perché non rispettava le regole sul velo. Accade in Iran, dove una donna di 22 è stata uccisa dopo essere stata arrestata. Testimoni oculari raccontano come Mahsa Amini - questo il nome della donna - sia stata picchiata mentre si trovava all’interno di un furgone della polizia dopo essere stata arrestata a Teheran martedì. Altre versioni riportano come Masha sia stata portata in una stazione di polizia per assistere a “un’ora di rieducazione”. La polizia ha confermato l’arresto per questioni legate al velo, obbligatorio per le donne ma ha smentito le accuse, parlando di un “improvviso problema cardiaco”. La famiglia della giovane ha però spiegato come Masha non soffrisse di alcun disturbo cardiaco e fosse sana. E ha anche riportato di non essere stata informata del trasporto di Masha in ospedale in coma prima della sua morte, avvenuta venerdì. Come riportano diversi media iraniani indipendenti, la ragazza è deceduta all’ospedale Kasra nella capitale, dove si trovava in visita a dei parenti. Subito dopo che notizia del decesso ha iniziato a circolare una folla si è radunata in segno di solidarietà e protesta. Il tutto mentre agenti di polizia circondavano la clinica. Quello di Masha Aminin è solo l’ultimo caso di brutalità contro le donne da parte delle autorità iraniane nelle ultime settimane. La sua morte arriva sulla scia di numerose denunce di abusi sulle donne, accusate di aver violato il codice di abbigliamento islamico e per questo obbligate a restare fuori dagli edifici pubblici o addirittura aggredite. Il presidente iraniano, Ebrahim Raisi, ha ordinato al ministero dell’Interno di aprire un’inchiesta per chiarire la vicenda. Da parte sua, Amnesty International è tornata a denunciare come “degradante e discriminatoria” la legge sull’obbligo del velo per le donne in Iran che dalla rivoluzione islamica del 1979, richiede alle donne, iraniane e straniere e qualunque sia la loro religione, di coprire il capo e indossare vestiti ampi che coprano le forme. Lo zelo delle autorità sul tema era notevolmente diminuito sotto il precedente governo del presidente pragmatico, Hassan Rohani, e un numero crescente di donne iraniane, a Teheran e in altre grandi città, lascia spesso i capelli quasi scoperti. Negli ultimi mesi, però, sotto la presidenza dell’ultraconservatore Raisi, gli interventi della polizia per far rispettare l’obbligo del velo si sono moltiplicati. Molti iraniani, anche filo-governativi e personalità note come il regista premio Oscar Asghar Farhadi e l’attrice Golshifteh Farahani hanno espresso la loro indignazione sulle piattaforme social contro la polizia morale e hanno twittato contro le ronde. Sono emersi video sui social media che mostrano agenti che trattengono le donne, le trascinano a terra e le portano via con forza. Molti iraniani incolpano direttamente Ali Khamenei. E in queste ore sui social circola un video sui social media in cui il Leader Supremo, giustifica il ruolo della polizia morale e insiste sul fatto che sotto il dominio islamico le donne devono essere costrette a osservare il codice di abbigliamento islamico. Una frattura sociale tra la giovane e dinamica società iraniana e l’oscurantismo di chi detiene il potere che il brutale omicidio di Masha non farà altro che approfondire.