Più telefonate, colloqui e permessi per rendere più umano il carcere di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2022 “Mantenere contatti più stretti con i propri cari quando, nelle condizioni di privazione della libertà, si è più a rischio e il sostegno familiare potrebbe evitare azioni dalle conseguenze drammatiche, o poter essere parte attiva e dare sostegno o conforto a un familiare che stia male, potrebbe davvero costituire la prima e più profonda forma di umanizzazione delle carceri”. Così scrive la Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia in un documento pubblicato sul sito di Ristretti Orizzonti, dove mette sul tappeto alcune proposte utili per abbassare la recidiva ed evitare situazioni drammatiche come i suicidi nelle carceri. I volontari sottolineano che permettere alle persone detenute di salvare i loro affetti è importante sempre: lo è nella fase iniziale della carcerazione, che è uno dei momenti di particolare fragilità, in cui il rischio suicidi è decisamente alto, lo è poi in quella fase della detenzione in cui la persona detenuta vive nell’attesa di poter accedere ai permessi, e ricostruirsi davvero i legami famigliari e le relazioni sul territorio. Ed è anche un investimento sulla sicurezza, perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori, figli, coniugi, compagni e compagne, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena. L’esperienza della Conferenza Nazionale Volontariato è confermata anche dallo studio statistico a cura di Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni in “Rehabilitating Rehabilitation: Prison Conditions and Recidivism”, Einaudi Institute for Economics and Finance e Università di Essex (2014), sulle cause di riduzione della recidiva nel carcere di Bollate. Lo studio dimostra che la recidiva certamente si abbatte nel caso di detenuti che hanno relazioni familiari. Relazioni che favoriscono anche condizioni di vita più dignitose e che sembrano in sé sufficienti per attivare la riabilitazione. I volontari confermano quanto sia importante che nel percorso di reinserimento delle persone detenute sono previste tappe importanti come i permessi premio e le misure di comunità, fondamentali proprio per ricostruire prima di tutto i legami famigliari e le relazioni, ma - sottolineano - “è altrettanto vero che prima di accedere a questi, che ancora sono benefici e non diritti, le persone spesso trascorrono anni in carcere e dovrebbero cercare di salvare i loro affetti con sole sei ore di colloqui al mese e dieci minuti di telefonata a settimana (questo succedeva prima del Covid, e non deve succedere che si torni a quel regime)”. Ma cosa chiedono i volontari? Alcune proposte concrete per rendere il carcere “più umano”, che richiedono un cambiamento della legge attuale, ma che sono fondamentali per la cura degli affetti delle persone detenute. Eccone alcune. La prima consiste nel “liberalizzare” stabilmente le telefonate per tutti i detenuti, come avviene in molti Paesi già oggi, sia per quel che riguarda la durata che i numeri da chiamare. “Telefonare più liberamente ai propri cari - sottolineano i volontari - potrebbe anche costituire un argine all’aggressività determinata dalle condizioni di detenzione e una forma di prevenzione dei suicidi”. Altri punti del documento redatto dalla Conferenza Nazionale Volontariato sono quelli volti a consentire i colloqui riservati di almeno 24 ore ogni mese, da trascorrere con la famiglia senza il controllo visivo. Consentire inoltre che i colloqui ordinari siano cumulabili per chi non fa colloquio con i familiari almeno ogni due mesi. Aumentare le ore dei colloqui ordinari, dalle sei ore attuali, ad almeno dodici ore mensili, per rinsaldare le relazioni, perché alla base del reinserimento nella società c’è prima di tutto il rientro in famiglia. Ampliare la durata dei permessi premio, attualmente previsti in un massimo di 45 giorni annui, in modo da garantire sia l’effettivo avvio del percorso di reinserimento della persona detenuta nella società sia una sua maggiore e più consapevole assunzione di responsabilità, con indubbie ripercussioni positive sulla sicurezza sociale. Non solo. I volontari chiedono di ampliare la possibilità di usufruire dei permessi di necessità (articolo 30 dell’ordinamento penitenziario) superando l’accezione negativa dell’inciso “evento familiare di particolare gravità”, in particolare, riformulando l’articolo in questione al fine di rendere non occasionali le pronunce della magistratura che già ora non identifica il concetto di gravità solo con riguardo a eventi di carattere luttuoso, o comunque negativo, ma lo associa anche a eventi rilevanti ai fini del percorso di reinserimento della persona detenuta. Sistema penitenziario, i Garanti incontrano le forze politiche di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 16 settembre 2022 Oggi, dalle 10.30 alle 13.30, a Palazzo Santa Chiara di Roma i Garanti territoriali delle persone private della libertà incontreranno i rappresentanti delle forze politiche nazionali, per un confronto pubblico sulle proposte per le carceri in Italia. All’incontro sono stati invitati i rappresentanti delle liste in corsa nella competizione elettorale. Il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Stefano Anastasìa, coordinerà i lavori che si apriranno con gli interventi del Garante della Regione Sicilia, Giovanni Fiandaca, e dalla Garante della Provincia di Pavia, Laura Cesaris. I lavori si concluderanno con le considerazioni del Garante nazionale, Mauro Palma. Ha assicurato la propria presenza il Capo dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi. “L’intero sistema penitenziario - spiega il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Stefano Anastasìa, nel presentare l’iniziativa - i detenuti come il personale civile e di polizia - ha molto sofferto durante la stagione della pandemia e arriva provato a questa scadenza elettorale, come è tragicamente testimoniato dalla impressionante serie di suicidi che ha contrassegnato i primi otto mesi di quest’anno e, specificamente, gli ultimi mesi estivi”. Anastasìa prosegue: “È quindi molto importante che venga raccolto l’appello lanciato dal Garante nazionale per un confronto che si spera foriero di un rinnovato impegno del Parlamento e del ministero della Giustizia nella prossima legislatura”. E conclude: “Proprio a questo fine, la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, che coordina e rappresenta i Garanti nominati dalle regioni, dalle aree metropolitane, dalle province e dai comuni italiani, promuove un confronto pubblico per ascoltare le idee e le proposte delle diverse forze politiche”. L’incontro è aperto al pubblico (fino a esaurimento posti) e sarà diffuso in diretta streaming su Radio radicale e attraverso i canali social della Conferenza dei Garanti territoriali e dei suoi aderenti. Ricordiamo che la rete dei Garanti delle persone private della libertà - La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, istituita presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Ne fanno parte 72 Garanti, di cui 16 di regioni e province autonome, sei di province e aree metropolitane e 50 di comuni che hanno istituito garanti delle persone private della libertà ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza elegge un Portavoce: attualmente ricopre tale carica Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. La sede operativa della Conferenza attualmente è nella sede del Consiglio regionale del Lazio. La mia prima volta in un carcere a incrociare sguardi che chiedono ascolto di Sarah Brizzolara Il Riformista, 16 settembre 2022 Ho visitato per la prima volta un carcere nei giorni di ferragosto, come Consigliera Comunale di Monza. Qualche giorno prima, a San Quirico, nel carcere della mia città, un detenuto di 24 anni si era tolto la vita. Era in prigione dal 2018 e mancavano due anni al suo fine pena. Era il terzo suicidio da inizio anno nella Casa circondariale di Monza e la notizia aveva provocato una mezza rivolta di molti altri detenuti. Ho visitato un luogo di confine, di transito, dove arrivano e stanno tutti coloro che la nostra comunità ha lasciato indietro. È uno specchio che riflette la società attuale, troppo frenetica per creare legami, aiuti e reti di supporto verso il prossimo. Indubbiamente il carcere di Monza, come tutte le altre carceri d’Italia, soffre del problema del sovraffollamento. Oltre la metà dei detenuti sono stranieri, e molti hanno enormi difficoltà culturali e linguistiche. Lo abbiamo visitato tutto. Dai blocchi nuovi a quelli più vecchi, i cui muri hanno visto passare più storie e più intrecci di vite. Sicuramente quello che colpisce sono le persone, il loro vissuto. Non puoi fare a meno di riflettere sul perché non sei tu al loro posto. E ti senti sicuramente privilegiato. Perché sai che alla fine tu uscirai, e ad aspettarti ci sarà una casa con tutti i confort, che magari spesso sottovaluti. Parli con i detenuti. Ti colpisce un ragazzo in particolare, della Repubblica Dominicana, che sta lì nella sua cella seduto e ti fissa con degli occhi pieni di rabbia. C’è tanta rabbia in carcere. Ma c’è anche tanta umanità. Parlando capisco che ha la mia stessa età e dice di essere dentro perché ha tentato due volte di compiere un omicidio. E lì ti chiedi quali strade hai percorso tu così diverse rispetto a lui. E se magari potevi esserci tu al suo posto. Ci sono varie sezioni super controllate. I lunghi corridoi vuoti che collegano le varie sezioni si chiamano tangenziali. Ho parlato con la direttrice e il capo degli agenti penitenziari. Ci hanno sottolineato tutti i problemi legati alla salute mentale che hanno i detenuti e le difficoltà e la carenza di personale per poter realizzare per loro delle terapie serie e con una prospettiva di lungo periodo. Il reparto psichiatrico è forse quello più emotivamente denso. Poche celle, singole, piccole e spoglie. Con persone dagli sguardi persi. Alcuni carcerati a un certo punto ci hanno con gentilezza fatto capire che era il momento per la loro partita a calcetto settimanale. Un momento magico. A Monza alcuni detenuti possono partecipare a laboratori per imparare diversi lavori per reinserirsi un domani. Hanno un orto, possono lavorare con diverse aziende esterne per assemblare cartellette per la scuola e bulloni, lavorare i tessuti, scannerizzare gli Archivi storici della Cassazione di Milano e lavorare il legno per creare arredi in collaborazione con il Politecnico di Milano. Riguarda ancora troppo pochi, ma è una strada, fondamentale, importante. Raccontare il carcere solo come un luogo di pazzi e di rivoltosi non aiuta a far entrare le aziende in questa realtà, ma credo che il Comune possa e debba implementare le reti con le aziende, contribuire a rilanciare progetti per rilanciare la serra e la sala della musica. E allora emergono gli sguardi. Sguardi di detenuti che hanno una prospettiva. Che vedono un orizzonte oltre i loro sbagli, quelle mura. Che vivono nelle celle più nuove nell’area dell’ex carcere femminile che è stato finito di ristrutturare a fine luglio. Sguardi. Sguardi di una speranza che chiama il nostro impegno. E la necessità di far conoscere e far capire che se un detenuto in carcere riceve un trattamento umano e positivo, esce migliore; che ci sussurra che la paura crea solo odio e che quest’ultimo alimenta la contrapposizione; quella coscienza che ci sussurra che il diverso siamo noi e che il carcere è solo il modo per lavarci quella stessa coscienza nel momento in cui non è alimentata dalla conoscenza. È molto facile l’appiattimento di tutto verso il basso, è facile dire che un delinquente deve andare in carcere e rimanerci, è facile schiacciare ancora più in basso chi striscia per terra. Di contro è facile anche scadere nel buonismo a prescindere, ci si sente redenti e fiduciosi del prossimo, unici. E quindi è anche facile e comodo mettere etichette e categorie, ci semplifica la vita, ci aiuta a mettere ordine nel nostro ragionamento. Ma non si può fare per gli esseri umani. Per gli esseri umani bisogna provare ad andare oltre, dare ad ognuno la possibilità di divenire, di essere diverso, di cambiare. Legacoopsociali ai Candidati: in cella aumentano i plurisvantaggiati, vogliamo essere coinvolti forumterzosettore.it, 16 settembre 2022 Basta isolamento delle coop sociali, co-progettare mettendo al centro l’inclusione lavorativa per i detenuti e la giustizia riparativa: aumentano soggetti plurisvantaggiati e il rischio di un “carcere sociale”. In un momento così difficile per il mondo “carcere”, è opportuno che la politica riporti l’attenzione sui drammi che si stanno consumando all’interno di questi luoghi che la Costituzione definisce “di rieducazione”, considerato l’alto numero di suicidi che sta colpendo gli istituti del nostro Paese. A dieci giorni dal voto Legacoopsociali interviene sulla situazione degli istituti penitenziari e rivendica il proprio ruolo che non può essere quello di cui servirsi quando è necessario. “La cooperazione sociale di inserimento lavorativo durante la pandemia è riuscita a macchia di leopardo a mantenere aperti i servizi e le attività - dichiara Loris Cervato, coordinatore del Gruppo Carcere di Legacoopsociali - Si osserva da alcuni anni l’evoluzione della composizione della popolazione detenuta verso il ‘carcere sociale’: aumentano le persone con problemi di dipendenze varie, invalidi, con problemi psichiatrici, stranieri senza documenti e senza speranza di ottenerli, in poche parole soggetti plurisvantaggiati. Diviene problematico per le cooperative trovare, nella pur numerosa popolazione detenuta, l’idoneità minima a intraprendere percorsi di inserimento lavorativo”. Legacoopsociali chiede di iniziare a lavorare ai diversi livelli, centrale e locale, con l’istituzione ‘carcere’ per la co-programmazione e la coprogettazione. Per migliorare il rapporto con le istituzioni carcerarie è importante utilizzare tutti gli strumenti normativi di cui l’ordinamento italiano dispone. “Lavorare con le diverse componenti dell’istituzione (area sicurezza e area educativa) - aggiunge Cervato e con la rete del territorio della cooperazione sociale sui temi della rieducazione, della giustizia riparativa, della salute, anche a partire da una formazione congiunta dei diversi soggetti coinvolti. Le cooperative sociali hanno dedicato alla ‘giustizia riparativa’ un approccio nuovo, non alternativo alla giustizia ‘ordinaria’, ma con al centro i diritti delle vittime di reati e la mediazione penale e sociale come strumento di lavoro e come presa di coscienza da parte degli autori di reato”. Per leggere il documento completo con le proposte di Legacoopsociali: https://www.legacoopsociali.it/cosa-facciamo/i-gruppi-di-lavoro/carcere/ In galera e via la chiave: la giustizia secondo la Meloni di Salvatore Curreri Il Riformista, 16 settembre 2022 “Sono garantista durante il processo, e giustizialista quando c’è la condanna”, ha detto la leader di FdI. Che mira, con un ddl ad hoc, a neutralizzare la funzione rieducativa della pena, in nome della “sicurezza”. “Vorrei una campagna elettorale nella quale le forze politiche si confrontano su idee, progetti e visioni del mondo”. Così Giorgia Meloni. Giusto: anziché demonizzarla, prospettando veri o presunti pericoli fascisti, occorre analizzarne le proposte. E allora esaminiamoli i progetti di Fratelli d’Italia sul tema della giustizia. Ce ne offre il destro quanto ha dichiarato durante il confronto con il segretario del Pd: “In Italia da indagato sei colpevole, se sei condannato cominciano gli sconti. Sono garantista in fase di celebrazione del processo e giustizialista in fase di esecuzione. Per risolvere il sovraffollamento si sono cancellati i reati e diminuite le pene, invece di costruire carceri”. Tralasciando altre osservazioni (il sovraffollamento è anche la conseguenza di nuovi reati e maggiori pene), invero nulla di nuovo sotto il sole. L’8 giugno 2021 Fratelli d’Italia (prima firmataria la stessa Meloni) ha infatti depositato alla Camera un progetto di legge (n. 3154) per modificare l’art. 27 della Costituzione sulla funzione della pena, affinché la sua “esecuzione (…) tenga conto della pericolosità sociale del condannato e avvenga senza pregiudizio per la sicurezza dei cittadini”. Si tratta di una proposta di legge costituzionale…incostituzionale perché se approvata, pur lasciando (furbescamente) intatto il principio per cui le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”, gli toglierebbe l’attuale preminenza, affiancandogli, e quindi ponendo sullo stesso piano, l’esigenza di difendere la sicurezza dei cittadini dalla pericolosità sociale del condannato con cui andrebbe dunque contemperato ed equilibrato. Quando i costituenti - alcuni dei quali avevano conosciuto il carcere - discussero della finalità della pena, convennero sulla cosiddetta teoria rieducativa. La pena, cioè, non deve avere una funzione prevalentemente vendicativa, perché “per il male dell’azione va inflitto il male della sofferenza” (Grozio), né intimidatoria, così da dissuadere il colpevole, e in generale l’intera comunità, dal commettere il reato, ma emendativa, nel senso che deve mirare non tanto alla conversione interiore o al riscatto morale del condannato quanto alla sua trasformazione da delinquente a soggetto pienamente reinserito nella società civile. Tali tre finalità della pena, dunque, non sono equivalenti (cosiddetta concezione polifunzionale) perché quella rieducativa non può mai essere sacrificata “sull’altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena” (Corte Cost. 149/2018) e la deve sempre caratterizzare “da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”, senza essere “ridotta entro gli angusti limiti del trattamento penitenziario”. Tale conclusione non è contraddetta dall’uso del verbo “tendere” che vuole solo significare “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”, che quindi non può essere imposto (Corte cost. 313/1990). Per avere un “volto costituzionale” la pena deve dunque essere: proporzionale anziché eccessiva, individuale anziché fissa; flessibile nel corso dell’esecuzione, anziché immodificabile. Non sconti per tutti, dunque, ma premi per chi dimostra la volontà di cambiare vita e reinserirsi nella società. Una pena, invece, che non riesce a promuovere e a valorizzare gli sforzi di riconciliazione e risocializzazione del condannato - quale quella che la proposta di Fratelli d’Italia prefigurerebbe in nome della difesa della sicurezza dei cittadini - non adempie alla sua funzione costituzionale. Ciò nella convinzione, sottesa all’art. 27 della Costituzione, che “la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento. Prospettiva, quest’ultima, che chiama in causa la responsabilità individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della propria personalità, in linea con le esigenze minime di rispetto dei valori fondamentali su cui si fonda la convivenza civile; ma che non può non chiamare in causa - assieme - la correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore - e la concreta concessione da parte del giudice - di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato, il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella società” (Corte Cost. 149/2018). Sono principi di civiltà giuridica affermati anche a livello internazionale, ad esempio dalla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (Cedu) così come interpretata dalla Corte di Strasburgo, secondo cui “anche gli individui responsabili dei crimini più odiosi conservano la loro umanità e quindi la possibilità di cambiare e di reinserirsi nella società aderendo al sistema di valori condiviso [per cui] se si impedisse a costoro di coltivare la speranza di un riscatto dall’esperienza criminale che li ha consegnati alla pena perpetua, si finirebbe col negare un aspetto fondamentale della loro umanità, si violerebbe il principio della dignità umana e quindi li si sottoporrebbe ad un trattamento degradante” (9.7.2013 Vinter e altri c. Regno Unito). Affermare dunque nel testo della proposta che essa non sarebbe in contrasto con la Cedu è quantomeno temerario e azzardato. In definitiva, nessuno è perduto per sempre perché “nessun uomo è tutto nel gesto che compie, nessun uomo è uguale nell’attraversare il tempo” (H. Hesse). Per Costituzione, ogni condannato, nello scontare la pena, deve avere una speranza, un orizzonte, il diritto ad una seconda possibilità grazie a percorsi rieducativi individuali in grado di recuperarlo alla società. La pena, allora, “non è il male per il male, ma la limitazione della personalità è finalizzata ad una ragione superiore, che è la cancellazione del male stesso” (Aldo Moro). Conosco l’obiezione e la prevengo: il solito buonismo, infarcito di perdonismo da parte di chi vive nelle ZTL e sconosce le condizioni d’insicurezza delle periferie della città. Ora, a parte che i dati dimostrano che da dieci anni i reati più comuni (rapine, furti, borseggi, omicidi…) sono in calo (il che dimostra come qualcuno strumentalmente soffi sulla paura delle persone…), rieducare il condannato e favorirne il reinserimento sociale non è solo un obbligo morale (oserei ricordare “cristiano” a chi ama circondarsi di madonne…) ed un vincolo costituzionale ma costituisce il miglior investimento per assicurare la sicurezza sociale. Difatti, è statisticamente dimostrato che i condannati anche per gravi delitti che abbiano potuto acquisire in carcere una professionalità lavorativa o fruito di permessi, premi e misure alternative alla detenzione non tendono a fuggire (con conseguenti minori costi di gestione) e, una volta scarcerati, in massima parte si reinseriscono più facilmente nella società e tornano meno a delinquere. Il che significa un minore tasso di recidività, che vuol dire più (vera) sicurezza sociale e, quindi, meno costi per lo Stato. Al contrario, il 70% di quanti hanno espiato fino all’ultimo giorno la pena in galera commettono nuovi reati. In tempi di “populismo penale” (Fiandaca) è facile raccogliere i consensi per chi considera il carcere come una “discarica sociale”, anziché comunità di rieducazione, un “cimitero dei vivi” (Turati), popolato da condannati per i quali si deve “buttare la chiave” perché devono “marcire sino all’ultimo giorno in galera” giustappunto in nome della sicurezza dei cittadini. Peccato che si tratti di soluzioni semplici e alla lunga contraddittorie (la stessa contraddittorietà di chi in nome della sicurezza dei cittadini vietava l’iscrizione anagrafica degli stranieri, impedendone così il controllo da parte dell’autorità pubblica). Una settimana fa, nel silenzio quasi generale, un uomo di 44 anni, segnalato più volte per disturbi psichici, si è suicidato nel carcere di Caltagirone dove era stato rinchiuso per aver rubato un portafogli subito restituito. Nel mese di agosto i suicidi sono stati 15. Nel 2022 (finora) 59, cui vanno aggiunti 1078 tentativi, già superiori ai 57 nel 2021, di cui 5 agenti di polizia penitenziaria (v. il dossier curato dall’associazione Antigone). E da tempo ci si uccide molto di più in carcere che fuori. Allora, parafrasando Voltaire, se vogliamo capire che idea di giustizia (e forse della dignità umana) ha Fratelli d’Italia e, temo, l’intero centrodestra, chiediamoci che idea abbiano delle carceri, di come secondo loro ci debba vivere (e morire) la gente in nome di una pretesa asserita tutela dell’ordine pubblico e della sicurezza dei cittadini. Solo così potremmo non lasciarci convincere da chi punta per calcoli elettorali sul rumore dell’albero quando cade, approfittando del silenzio quando invece cresce. Spid ai detenuti, Agenzia per Italia digitale propone tavolo di lavoro ansa.it, 16 settembre 2022 Raccolta una sollecitazione del Garante regionale dell’Emilia-Romagna. L’Agenzia per l’Italia digitale (Agid), coinvolgendo tutti i soggetti istituzionali a cui l’ordinamento attribuisce competenze in ambito penitenziario, ha dato impulso alla formazione di un tavolo di lavoro per prevedere un’analisi, a livello nazionale, e stabilire procedure che consentano anche ai detenuti, come per tutti gli altri cittadini, l’accesso alle modalità di pagamento elettronico per gli importi dovuti alla pubblica amministrazione (quindi la possibilità di ottenere un’identità digitale, come ad esempio lo Spid). La sollecitazione, accolta da AgId, era arrivata dal Garante regionale dei detenuti dell’Emilia-Romagna, Roberto Cavalieri. Ne dà notizia l’Assemblea legislativa regionale. Riforme Cartabia, via libera definitiva ai decreti attuativi civili e penali di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2022 Dopo il via libera del Senato arriva anche l’ok della Commissione giustizia della Camera. La “soddisfazione” della Ministra in trasferta a Yale. I Dlgs dunque potranno essere emanati subito dal Governo e poi pubblicati in Gazzetta. Dopo il via libera, il 13 settembre scorso, del Senato arriva anche l’ok della Commissione giustizia della Camera alla riforma della giustizia civile e penale targata Cartabia. I Dlgs dunque potranno essere emanati subito dal Governo e poi pubblicati in Gazzetta. Da Yale, dove sta partecipando al Global Constitutionalism seminar - un appuntamento annuale per giudici delle Corti supreme di tutto il mondo e studiosi - la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, esprime “soddisfazione” e fa arrivare i suoi ringraziamenti a tecnici e forze politiche, che hanno seguito l’intero iter delle riforme. La Camera ha dunque espresso parere positivo al decreto legislativo che attua la delega con la riforma del processo Penale, una delle riforme legata al Pnrr da varare entro dicembre di quest’anno. Il parere positivo “secco”, cioè senza osservazioni o condizioni”, proposto dal relatore Franco Vazio (Pd) è stato votato dall’ex maggioranza, tranne M5s che ha votato “no”, dopo aver proposto una parere alternativo in cui venivano chieste delle modifiche al testo del governo. Fdi si è astenuta. Anche al Senato la Commissione Giustizia aveva espresso un parere positivo “secco”. Il decreto legislativo potrà dunque essere emanato subito dal governo e pubblicato in Gazzetta. Parere positivo dunque anche al decreto legislativo della ministra Cartabia che attua la legge delega di riforma del processo civile, l’altra importante riforme collegata al Pnrr. M5s e Fdi si sono astenuti, contraria Alternativa. Il parere contiene delle condizioni che ricalcano quelle approvate martedì dalla Commissione Giustizia del Senato. Soddisfatto, al termine del voto, il relatore Vazio: “è un passo importante in direzione di un giusto processo e anche in direzione di accelerare i tempi del processo pur tenendo alte le garanzie. Ogni riforma, anche la migliore, va verificata sul campo e anche questa non si sottrae a questo principio. Certo è che il lavoro svolto sui decreti legislativi dal Ministro Cartabia e dai uffici del ministero è stato eccellente”. Tornando al penale, il ritardo di qualche ora nella approvazione del Dlgs sarebbe legato ad un piccolo giallo che ha determinato il rinvio dell’iniziio della seduta: una dei due relatori, Giulia Sarti (M5s), non si è presentata, secondo taluni perché in linea con la posizione del proprio gruppo che chiedeva modifiche al decreto legislativo. L’episodio ripete quanto avvenuto durante l’esame della legge delega su cui Sarti era relatrice assieme a Vazio, ma al momento del voto non si presentò condividendo la linea critica di M5s. Il parere alternativo presentato dal capogruupo di M5s in Commissione Eugenio Saitta, chiedeva 10 modifiche non secondarie al testo, rimettendo in discussione le norme approvate dalla legge di delega. Secondo quanto affermava il parere presentato da M5s tali norme “presentano alcune criticità che rischiano di rendere meno efficiente la nostra giustizia penale rispetto alle giustificate esigenze degli utenti del servizio Giustizia, i cittadini, nonché di indebolire, di fatto, il contrasto di reati particolarmente gravi nel nostro ordinamento”. Enrico Costa (Azione) ha parlato di un “parere semi-giustizialista” respingendolo, così come il capogruppo del Pd Alfredo Bazoli: “questa riforma - ha detto - è la cosa migliore approvata in questa legislatura: migliora in efficienza, efficacia, in tema di garanzie per gli imputati e per le parti tutto il processo penale”. Finisce il processo, resta il sequestro: la beffa della riforma penale di Valentina Stella Il Dubbio, 16 settembre 2022 Dopo l’allarme di “Libera” e Movimento 5 Stelle, il Ministero della Giustizia rassicura sugli effetti del decreto: “L’improcedibilità non fermerà le confische”. Strada ormai in discesa per la ministra Cartabia che potrà così chiudere il suo lavoro approvando in via definitiva anche i decreti attuativi delle riforme del processo civile e penale. Oggi infatti la Commissione Giustizia della Camera ha votato il parere positivo sul testo del civile. M5S e FdI si sono astenuti, contraria Alternativa. Il parere contiene delle condizioni che ricalcano quelle approvate martedì dalla Commissione Giustizia del Senato. Per quanto concerne il penale la Commissione ha espresso un parere positivo “secco”, cioè senza osservazioni o condizioni, proposto dal relatore Franco Vazio (Pd). Il testo è stato votato dall’ex maggioranza, tranne M5S che ha votato “no”, dopo aver proposto un parere alternativo in cui venivano chieste delle modifiche al testo del governo. FdI si è astenuta. Enrico Costa (Azione) ha parlato di un “parere semi-giustizialista” respingendolo, così come il capogruppo del Pd Alfredo Bazoli: “Questa riforma - ha detto all’Ansa - è la cosa migliore approvata in questa legislatura: migliora in efficienza, efficacia, in tema di garanzie per gli imputati e per le parti tutto il processo penale”. Anche al Senato la Commissione Giustizia aveva espresso un parere positivo “secco”. Soddisfatto, al termine del voto, il relatore Vazio: “È un passo importante in direzione di un giusto processo e anche in direzione di accelerare i tempi del processo pur tenendo alte le garanzie. Ogni riforma, anche la migliore, va verificata sul campo e anche questa non si sottrae a questo principio. Certo è che il lavoro svolto sui decreti legislativi dal ministro Cartabia e dagli uffici del ministero è stato eccellente”. Il Movimento 5 Stelle nel parere alternativo aveva inserito dieci specifiche osservazioni e richieste tra cui: non esercitare la delega “in riferimento all’estensione dell’applicabilità degli istituti relativi alla “messa alla prova” e all’ impunibilità per particolare tenuità del fatto”“ e “in riferimento all’ulteriore sconto di pena di 1/6 in caso di non esercizio dell’appello da parte dell’imputato”. I pentastellati avevano chiesto pure di implementare “la disciplina relativa alla confisca in caso di intervenuta improcedibilità, in modo da poter portare avanti il procedimento in appello (anche) ai soli fini della confisca”. Su questo punto, mercoledì sera il ministero della Giustizia aveva fatto trapelare una sorta di rassicurazione, anche per replicare alle preoccupazioni di Libera: “Non esiste alcun rischio per le confische dei patrimoni illeciti alla criminalità organizzata: anche in caso di improcedibilità del processo, il procedimento continua per l’applicazione delle misure di prevenzione, a cominciare dalla confisca”. Il solito incomprensibile doppio binario: di certo non una bella prospettiva per gli imputati che così rimarranno, in modo anche paradossale, intrappolati e stritolati a vita dalle maglie della giustizia, vedendosi spesso rovinate professioni e esistenze. Che succede, ad esempio, se si viene assolti in primo grado e poi scatta l’improcedibilità in appello? Quell’assoluzione non vale niente nel procedimento delle misure di prevenzione, dove non esistono il contraddittorio e le garanzie per la difesa previsti invece nel processo penale vero e proprio? Molto critico è l’imprenditore siciliano Pietro Cavallotti, vittima di questo assurdo sistema: “Le misure di prevenzione a questo servono, no? - ci dice - A distruggere le persone che il pubblico ministero non riesce a far condannare in un normale processo penale. Stiamo andando verso un nuovo orizzonte: meno diritto penale, più misure di prevenzione. E cioè: stessi effetti della sanzione penale, senza però le garanzie del processo penale. Questa però non è una conquista, è una regressione”. Cavallotti è sfiduciato e irritato: “Abbiamo migliaia di cittadini che sono stati espropriati di tutti i loro beni, potenzialmente senza mai essere stati condannati o rinviati a giudizio o magari sono stati processati e poi assolti. Tutto questo non è normale. Sono furti di Stato e queste cose vanno dette. Altro che confisca da profitto. Qua si tratta di confisca senza reato. E quando non c’è reato si presume che i beni siano il frutto del lavoro, non del reato che non esiste”. Tornando ai decreti, il penultimo step è un passaggio formale in Cdm, che potrebbe avvenire già prima di ottobre, ci dicono fonti di Via Arenula. Quindi anche prima di quanto auspicato dalla Guardasigilli al Forum Ambrosetti. Passaggio finale sarà la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale. “Cartabia riforma canaglia? Non ritiro ciò che ho detto”. Dialogo col giudice Morello di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 settembre 2022 Il giudice, candidato alle elezioni del Csm, non fa passi indietro sulle incredibili parole espresse contro la riforma promossa dal ministro della Giustizia, né sul “pezzo di m...” nei confronti di Palamara. Ritratta? “No”. Neppure un passo indietro? “No”. Scusi, ma da magistrato, peraltro candidato al Consiglio superiore della magistratura, non le pare un filino esagerato definire “canaglia” una riforma approvata dal Parlamento, come quella dell’ordinamento giudiziario e del Csm, voluta dalla ministra Marta Cartabia? “Le ricordo che contro quella riforma la magistratura ha scioperato”. E insomma, interpellato dal Foglio, non mostra alcun ripensamento Tullio Morello, il giudice del tribunale di Napoli, candidato per la corrente di sinistra Area al rinnovo del Csm (previsto domenica e lunedì prossimi), finito nell’occhio del ciclone per le parole espresse in un incontro elettorale (“Si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia”, “Palamara è stato un grandissimo pezzo di m..., puntini sospensivi”). Quindi - proseguiamo - secondo lei il fatto che la magistratura abbia scioperato significa che la riforma è canaglia? “È una riforma che la magistratura non ha apprezzato - risponde Morello - Io non ho apprezzato neanche la discussione parlamentare in cui tutti i portavoce dei partiti hanno usato parole rancorose e punitive nei confronti della magistratura, che secondo me la magistratura non meritava nel suo complesso”. Quindi questo giustificherebbe la sua uscita. “Io ho usato un termine molto duro nell’ambito di una discussione privata”. Ma non era una discussione privata: era una discussione via streaming tra voi candidati e gli elettori del vostro collegio. Abbiamo ottenuto la registrazione facendo semplicemente richiesta all’Anm di Napoli... “Però lei l’ha pubblicata estrapolando delle parole dal mio intervento”. Del suo intervento completo abbiamo riportato le affermazioni più forti. “Sì ma sono state espresse in un contesto. Io stavo rispondendo a chi diceva che nelle correnti sono tutti imbroglioni”. Ma questo cosa c’entra col definire una legge approvata dal Parlamento una legge canaglia? “Perché è una legge che mina l’indipendenza della magistratura. È una legge che gerarchizza anche gli uffici giudicanti dopo gli uffici di procura. È una legge che mina l’organizzazione dei giudici e va contro l’interesse dei cittadini”. E non poteva dirla così? “Vabbè, se lei vuole parlare delle singole frasi. Per me canaglia è un termine per dire che è una cosa è sbagliata, pessima”. Ah. Diversi suoi colleghi ed ex membri del Csm hanno ricordato che i magistrati hanno il dovere di rispettare il principio della continenza verbale. Non è d’accordo? “Io stavo parlando nell’ambito di una discussione tra candidati, alcuni dei quali avevano usato termini anche più duri dei miei. Mi meraviglio che per una parola così banale si faccia tutta questa polemica. Basta accendere la televisione che se ne sentono di tutti i colori”. L’Anm quando proclamò lo sciopero contro la riforma Cartabia non si spinse a definirla “canaglia”. “Per me canaglia significa una cosa sbagliata, punitiva”. Si sente sotto attacco? “L’indipendenza della magistratura la ritengo sotto attacco”. Va bene. “Si gerarchizzano gli uffici mentre i magistrati, secondo la Costituzione, devono essere organizzati in maniera orizzontale”. La Costituzione prevede anche il principio di separazione dei poteri, quello secondo cui i magistrati non dovrebbero invadere l’ambito della politica. “Il mio era un giudizio negativo sulla riforma che mette in discussione l’organizzazione orizzontale della magistratura”. Passiamo alla seconda parte: il “pezzo di m…” nei confronti di Palamara. “Io stavo rispondendo a quelli che dicono che noi delle correnti siamo tutti imbroglioni. Per questo ho detto ‘per voi siamo sicuramente imbroglioni e sicuramente Palamara è un pezzo di m…’. Nelle correnti invece ci sono tante persone che si sono impegnate tutta la vita, senza sporcarsi le mani, ma seguendo degli ideali”. Però, scusi, è stato solo lei a dare del “pezzo di m…” a Palamara. “Io non penso che Palamara sia un pezzo di m… Penso che sia una persona che ha sbagliato. Ma figuriamoci se io penso che Palamara sia un pezzo di m… Lo conoscevo, abbiamo tantissimi amici in comune”. Suona un po’ come “ho tanti amici gay”. “No, nel senso che io non sono nemico di Palamara”. Dopo la pubblicazione del nostro articolo, su Facebook lei ha scritto che sente la sua indipendenza sotto attacco. Per un articolo di giornale? “Sì, perché avete estrapolato due frasi da un dibattito di dieci minuti molto serrato”. Molto serrato. “Sì, arrivederci”. “Parole inaccettabili per un magistrato”. Le reazioni al caso Morello di Ermes Antonucci Il Foglio, 16 settembre 2022 Leone, Zanettin, Piraino e Palamara commentano le dichiarazioni del giudice, candidato al rinnovo del Csm, che in un incontro elettorale ha definito “canaglia” la riforma Cartabia e Palamara “un pezzo di m...”. Diverse le reazioni all’articolo pubblicato ieri dal Foglio sulle incredibili dichiarazioni espresse nel corso di un incontro elettorale dal giudice Tullio Morello, candidato per la corrente di sinistra Area al rinnovo del Consiglio superiore della magistratura previsto il 18 e 19 settembre (“Si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia”, “Palamara è stato un grandissimo pezzo di m..., puntini sospensivi”). “Non mi sembra che il giudice Morello con queste dichiarazioni abbia contribuito a migliorare il prestigio della intera magistratura”, dice al Foglio Antonio Leone, ex membro laico del Csm con l’incarico di presidente supplente della sezione disciplinare (oggi presidente del Consiglio di presidenza della giustizia tributaria). “In nessun paese al mondo - aggiunge Leone - è possibile che un giudice definisca una riforma del suo comparto votata dal Parlamento su proposta del ministro della Giustizia, per giunta ex presidente della Corte costituzionale, ‘riforma canaglia’. Questo purtroppo accade solo nel nostro paese da quando la magistratura ha invaso il campo della politica in barba alla separazione dei poteri”. “Anche le espressioni usate nei confronti dell’ex collega Palamara mi sembrano fuori luogo e irrispettose non solo di un ex magistrato, ma anche impronunziabili nei confronti di chiunque”, conclude Leone. Pierantonio Zanettin, deputato di Forza Italia, anch’egli ex membro laico del Csm, intravede nelle parole di Morello possibili estremi per l’apertura di un procedimento disciplinare: “La continenza verbale è uno dei principi ai quali un magistrato equilibrato deve aspirare. Non è pensabile che una toga si lasci andare a dichiarazioni di questo tipo. Un magistrato può legittimamente criticare una riforma, ma non può dire che una riforma è ‘canaglia’, né usare quei termini nei confronti di un ex collega”. “Anche se è in campagna elettorale per le elezioni del Csm - conclude Zanettin - il magistrato non è esente dal mantenere un canone di comportamento improntato sulla sobrietà e sul rispetto della regola della continenza”. Decisamente sorpreso dalle parole di Morello si dichiara anche Angelo Piraino, segretario generale della corrente di Magistratura indipendente: “Fermo restando la libertà di opinione, noi abbiamo un dovere, che è quello della continenza, e forse in questo caso non è stato ben tenuto da conto”, dichiara al Foglio. “Chi aspira a diventare componente del Consiglio superiore della magistratura aspira a rappresentare tutta la magistratura e ad assumere un ruolo di grande responsabilità, ed è importante che sappia dosare le parole”. “Voi giornalisti lo sapete bene - aggiunge - la continenza è uno dei criteri che orienta anche la vostra responsabilità, e questo vale anche per noi. E’ un dovere che tutti quelli che hanno funzioni pubbliche o di rilevanza pubblica sono tenuti a rispettare”. Detto ciò, Piraino evidenzia “una tendenza all’esasperazione dei toni” nel dibattito interno alla magistratura, “cosa che mi preoccupa molto”: “Ad esempio, i colleghi che sostengono con forza l’esigenza di spazzare via le correnti molto spesso hanno toni sprezzanti e al limite dell’offensivo nei confronti dei candidati espressione delle correnti”. “Le dichiarazioni di Morello, che non mi piacciono, perché ritengo abbia mancato il dovere di continenza, si innestano in un clima di campagna elettorale in cui c’è quasi una gara ad alzare i toni. Ed è una cosa a cui io e i candidati di Magistratura indipendente non vogliamo andare dietro: noi esprimiamo moderazione anche nei nostri modi, oltre che nei nostri contenuti”, conclude Piraino. Da Yale, dove si trova per un evento di costituzionalisti, la Guardasigilli Marta Cartabia non rilascia commenti. Il primo a reagire è invece stato l’ex pm di Roma Luca Palamara, che in una nota ha fatto sapere: “Dopo aver visionato il video pubblicato sul sito del quotidiano il Foglio ho dato mandato ai miei legali di sporgere querela nei confronti del dott. Tullio Morello. Grave per la democrazia che se nel passato il dott. Morello aveva appassionato il Tribunale di Napoli per le sue vicende sentimentali oggi come magistrato candidato al Csm per la corrente di Area, nel corso di una pubblica discussione con altri magistrati, utilizzi l’espressione ‘pezzo di merda’ per denigrare le mie posizioni sul tema della correntocrazia”. “La battaglia per riformare la giustizia continua ancor di più per liberare la magistratura dal gattopardismo strisciante dalla corrente di appartenenza del dott. Morello”, ha aggiunto Palamara. Intanto domenica votano i magistrati... di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 16 settembre 2022 Nuovo Csm. Si aprono le urne per la componente togata del Consiglio, alla prova la legge elettorale. Per la prima volta si rischia una delegazione più divisa di quella dei laici eletti dal parlamento, sui quali detterà legge la destra. Per la componente “laica” bisognerà attendere tre quattro mesi, molti dubbi sulla composizione però non ci sono: il centrodestra farà cappotto e ne eleggerà la gran parte, tra i quali il (ma più probabilmente la) vicepresidente. La gara per la componente “togata” del Csm si svolge invece domenica e lunedì prossimi e c’è curiosità di vedere alla prova la nuova legge elettorale voluta dalla ministra Cartabia e approvata di gran fretta prima dell’estate (fretta superflua, visto che il nuovo Csm si insedierà solo quando sarà completo nelle due componenti, quindi l’anno prossimo). Al netto delle divisioni tra le correnti delle toghe, nell’Associazione nazionale magistrati - il cui vertice potrebbe subire contraccolpi dalle elezioni del Csm, il congresso è già convocato a metà ottobre - c’è preoccupazione: si teme una magistratura “balcanizzata” nel Csm al cospetto di una componente laica compatta e consonante con il governo. Un governo di destra. La legge elettorale per le toghe è mista, con una componente più forte di maggioritario: saranno eletti i primi due giudici nel collegio della Cassazione, il primo e il secondo classificato dei pm divisi in un collegio al nord e uno al sud e il miglior terzo, i primi due giudici di merito di quattro collegi territoriali più cinque giudici di merito recuperati con un sistema proporzionale di lista. È principalmente questo lo spazio che è rimasto alle correnti che hanno presentato un “collegamento” (la legge ha evitato persino la parola “lista”) tra loro. Il paradosso è che il gruppo Altra proposta che ha organizzato un sorteggio per scegliere come candidati magistrati indipendenti, poi abbia “collegato” tra loro i sorteggiati: ci sarà così una lista-non lista (tra l’altro la più numerosa) di giudici. Tra l’altro veramente baciata dalla sorte, perché dal sorteggio “ufficiale” - quello previsto dalla legge per integrare le liste e garantire la parità di genere - è venuto fuori il nome di un magistrato che da anni sostiene pubblicamente l’utilità del sorteggio. Si chiama Andrea Mirenda e le previsioni dicono che sarà lui il rappresentante di quel gruppo (già presente nell’Anm con il nome di Articolo 101) che propone una visione del Consiglio superiore burocratico-amministrativa piuttosto che politica. Sul carro dei vincitori annunciati, la corrente di destra Magistratura indipendente, sono saliti in molti (i centristi di Unicost e gli ex davighiani di Autonomia e Indipendenza sono quasi prosciugati), tanto che la lista rischia di essere zavorrata da un eccesso di popolarità (con questa elegge come nel vecchio Mattarellum vincere troppo all’uninominale penalizza il proporzionale). Oltretutto accanto a Mi sono sorte altre candidature, una lista concorrente parallela e un paio di candidati sciolti, uno in Cassazione, lanciati direttamente dall’ex leader della corrente Cosimo Ferri. La divisione c’è anche a sinistra, Area e Magistratura democratica non hanno presentato candidature comuni neanche in Cassazione, Antonello Cosentino alla fine ha scelto di essere il candidato solo di Area e Md ha messo in campo Lello Magi. Tra i giudici Area punta, tra gli altri, su Marcello Basilico e Genantonio Chiarelli. Tra i pm al nord Md è orientata a sostenere Roberto Fontana, fino a ieri coordinatore di Area nel distretto, al sud è probabile che i voti della corrente finiscano al sostituto procuratore di Napoli Henry John Woodcock, candidato indipendente, malgrado tra le priorità di Md ci sia quella di contrastare il protagonismo del pm. Tra i giudici Valerio Savio e Mimma Mele, ma è collegata con la lista di Md anche Luisa Savoia. Io magistrato dico: il nostro voto per il Csm non sia più un “favore” da ricambiare di Roberto Oliveri del Castillo* Il Dubbio, 16 settembre 2022 Lettera ai colleghi magistrati dal consigliere della Corte d’appello di Bari Roberto Oliveri del Castillo, candidato per la componente togata di Palazzo dei Marescialli. Oltre a indicare priorità e problemi della giustizia, il magistrato chiede di assegnare la preferenza non all’”amico che promette favori” ma a chi invece “promette solo di fare il proprio dovere secondo legge e coscienza”. Gentile Direttore, in occasione della ormai prossima tornata elettorale che riguarderà il Consiglio Superiore della Magistratura, per la particolare complessità della situazione della giustizia ritengo opportuno sottolineare alcuni temi con cui si dovrà confrontare il prossimo Consiglio, al fine di un recupero di efficienza della macchina-giustizia. In primo luogo ritengo che vi sia un grave problema strutturale connesso alla recente riforma della ministra Cartabia, la quale ha introdotto il principio della improcedibilità in sede di appello, nonostante i numerosi richiami di attenzione da parte dell’accademia, della più avveduta avvocatura, e della magistratura associata e non. Si è detto, infatti, da più parti, che la strozzatura del processo in appello ove non si giunga alla sentenza nei due anni dal pervenire del fascicolo in secondo grado, potrà servire ad ottenere i fondi del Pnrr, ma non servirà ad alcun miglioramento in termini di efficienza del servizio giustizia, tale non essendo una anticipata sentenza processuale di definizione basata sul decorso del tempo, in assenza di strumenti deflattivi e disincentivanti l’appello (ad esempio una revisione del divieto di reformatio in pejus, anche su istanza del Pg in udienza) e di strumenti di rafforzamento degli organici dei presidi di secondo grado.Il legislatore purtroppo ci ha abituati a riforme normative a costo zero e senza alcuna valutazione di impatto sul sistema, come accaduto ad esempio con la riforma del pubblico impiego del 1998, salvo poi rendersi conto a distanza di tempo della perniciosità delle stesse sul servizio-giustizia reso ai cittadini. Anche stavolta, la conseguenza immediata è stato un accrescimento delle già gravi carenze di organico in appello, con scoperture che toccano oltre il 20% in alcuni uffici già difficili come Napoli, e Bari non è lontana da scoperture analoghe se non si invertirà la tendenza. Pertanto un primo macro-problema sono riforme che non aiutano, anzi danneggiano l’efficienza del servizio, dando una parvenza di funzionalità ma in realtà provocando l’esatto contrario, come una macroscopica eterogenesi dei fini, ma tutt’altro che inconsapevole. Un secondo macro-problema, strettamente connesso al primo sono gli organici, da sempre in sofferenza per inadeguatezza e scoperture di organico connesse ai pensionamenti o alle mancate coperture all’esito dei concorsi. Recenti indagini hanno ad esempio evidenziato che in Italia vi sono 11,4 giudici per 100.000 abitanti, a fronte di una media europea di 21. Per i pubblici ministeri la forbice è analoga, o di poco inferiore. Infatti a fronte dei 3.4 Pm ogni 100.000 abitanti, la media europea è 11 (dati rapporto Cepej 2016). Negli ultimi anni i numeri sono addirittura peggiorati, perché nel frattempo in Germania il numero di giudici per 100.000 abitanti è cresciuto sino a 24, in Austria sino a 27, mentre in Italia è rimasto ai 12 del periodo precedente (fonti citate nell’articolo di Europa Today del 9 luglio 2021). Significative, sul punto, appaiono le dichiarazioni del commissario europeo alla Giustizia Didier Reynders circa il problema delle risorse umane. “Devono aumentare i numeri del personale, a prescindere dalle proposte di separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti” (Europa Today, cit.), che invece resta lo slogan preferito da alcune forze politiche poco interessate alla reale soluzione dei problemi del servizio-giustizia. In questo quadro, come si possa pensare di ridare efficienza al sistema giustizia con dati così sconfortanti è domanda alla quale qualche leader politico, nella attuale campagna elettorale, dovrebbe rispondere con soluzioni reali invece di vuoti e consunti slogan di sapore punitivo. Analoghi problemi sussistono per il personale amministrativo di supporto, spesso sottodimensionato proprio negli uffici più delicati, come gli uffici Gip-Gup e le Corti d’Appello. La costituzione dell’Ufficio per il processo ha apportato qualche beneficio di superfice, ma si tratta di rimedi a tempo determinato insuscettibili di strutturarsi e sedimentarsi nel tempo, con la conseguenza che giovani risorse andranno perse dopo essere state addestrate a delicati compiti di supporto a giudici e cancellerie. Un altro retaggio della logica delle riforme occasionali e non destinate a restare in permanenza, sempre nell’ottica della percezione dei contributi Ue. Da questo punto di vista occorrerebbe tra l’altro una vera riforma della magistratura onoraria in grado di rendere stabili e garantiti professionisti che da circa vent’anni sono di quotidiano supporto alla magistratura togata, e senza la quale oggi saremmo alla paralisi, senza consentire a qualche forza politica di farne vessillo di lotta elettorale, poiché la giustizia, sia gestita da magistrati togati o onorari, appartiene a tutti e non può essere strumentalizzata da una parte politica. Una migliore e generalizzata presenza dei magistrati onorari (ad esempio non si comprende perché impedire agli stessi di partecipare a comporre gli uffici Gip-Gup e i collegi di Corte d’Appello) sarebbe un altro tassello importante nell’ottica di una maggiore efficienza della risposta alla domanda di giustizia. Un terzo macro-problema che affligge gli uffici giudiziari, e qui entrano direttamente in gioco le competenze del Consiglio Superiore, sono le nomine dei dirigenti. I dirigenti sono il cuore pulsante di un ufficio giudiziario, e da loro dipendono organizzazione, efficienza, legittimità dell’azione e del servizio reso. Un buon dirigente può dare un’impronta molto importante al suo ufficio, e viceversa un pessimo dirigente può affossarlo. Nella consiliatura 2015-2018 si sono registrati i peggiori fenomeni clientelari e di malaffare proprio con riferimento a nomine di direttivi di procure della repubblica e (molto meno) di tribunali, con nomine di soggetti poi finiti al centro di indagini per gravi reati, e con le tristi vicende dell’Hotel Champagne, di cui da alcuni anni vi è cenno nelle cronache giudiziarie di questo Paese. Chi si è macchiato di quelle vicende, con conclamati rapporti con soggetti politici estranei al Consiglio Superiore, dovrebbe almeno avere il buon gusto di tacere, invece di ergersi a paladino di una ben strana (e tardiva) lotta contro un “sistema” del quale era parte apicale, autorevole e integrante. Il Consiglio in tutte le sue parti, togate e non, è chiamato pertanto ad una opera di ristrutturazione della credibilità dell’intera magistratura attraverso l’attenzione necessaria a nomine di direttivi che avvengano effettivamente per merito e non per rapporti clientelari e di potere. Chi ha indegnamente rivestito il ruolo di consigliere ha lasciato una eredità pesante ai colleghi del prossimo Consiglio, il quale dovrà recuperare senso e prestigio della funzione costituzionale di governo autonomo, rimettendo in carreggiata un organo senza il quale la democrazia di questo Paese è in serio pericolo. Sono convinto che la magistratura saprà trovare al suo interno le energie migliori, senza distinzioni di componenti culturali, per ridare prestigio e dignità al Consiglio Superiore, a condizione che si smetta di votare per l’amico che promette favori e “coperture”, e si dia preferenza a chi invece promette solo di fare il proprio dovere secondo legge e coscienza, esattamente come ci prescrive la Costituzione e la legge quando sediamo nelle aule di giustizia con indosso la toga. Quando smetteremo di pensare al voto come favore da ricambiare e lo praticheremo come servizio nell’interesse della magistratura, scartando quelli che si propongono di essere presenti al momento del bisogno del singolo, avremo fatto un passo avanti. *Consigliere della Corte d’Appello di Bari, candidato alle elezioni per la componente togata del Csm Antimafia, Morra presenta la relazione: “Non mi sorprende il silenzio dei partiti sulla criminalità in campagna elettorale” di Alberto Sofia Il Fatto Quotidiano, 16 settembre 2022 Ventiquattromila pagine e contenuti multimediali desecretati, prima coperti da segreto. Quasi tremila documenti analizzati, per più di un milione di pagine. E ancora, 1.529 liste elettorali esaminate (44.161 candidati a consiglieri, 537 candidati a governatore o sindaco, ndr) in occasione di elezioni amministrative. Fin dal 2018, sono questi i numeri relativi al lavoro della Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno delle mafie sulle altre associazioni criminali, resi noti nel corso della presentazione della relazione finale da parte del presidente Nicola Morra. “Volontà della Commissione è stata rendere trasparente ciò che in precedenza non lo era: ancora oggi su tante verità relative a fatti anche lontanissimi nel tempo grava il segreto di Stato. Per quanto possibile questa Commissione lo ha tolto”, ha rivendicato lo stesso presidente. “La relazione finale è stata approvata all’unanimità dalla commissione. Sono stati attivati 24 comitati, che hanno lavorato in piena autonomia. Sono state effettuate 193 sedute plenarie, 88 sedute dell’ufficio di presidenza, 143 gli auditi, sette esami testimoniali, 23 sopralluoghi effettuati in 9 regioni e 24 province, due missioni all’estero”. Un lavoro che, spiega Morra, è stato però frenato prima dalla pandemia, poi dalla fine prematura della legislatura. “Abbiamo constatato come le mafie stiano traendo vantaggio da questa anoressia creditizia e come questo porti a un ulteriore radicamento delle mafie nel tessuto economico, producendo fenomeni di distorsione che attentano alla vita democratica del Paese”, ha continuato Morra. Mentre riguardo ai “fenomeni estorsivi, recenti operazioni hanno disvelato come interi territori siano soggiogati dal controllo asfissiante di strutture criminali di potere. La potenza delle mafie è garantita dalla debolezza dello Stato”. In merito all’analisi delle liste elettorali, Morra ha invece attaccato: “Il codice di autoregolamentazione era stato da noi modificato, rendendolo più stringente. Tutti i partiti hanno votato a favore, ma non è mai stato trovato un momento in Aula per la sua ratifica. Siamo stati costretti a esaminare i candidati con il codice Bindi, più morbido, evidentemente questa era la volontà delle forze politiche”. E ancora: “Il nostro lavoro è stato mortificato dallo scioglimento anticipato delle Camere, che non ha reso possibile completare tutte le attività programmate in via istruttoria”, ha poi aggiunto Morra, commentando la mancata approvazione della parte di relazione finale dedicata al cosiddetto ‘sistema Montante’. “In ogni caso abbiamo raccolto una enorme mole di documentazione che svela un intreccio di relazioni non chiare, poco trasparenti, forse tossiche ed orientate al crimine. Si disvela un mondo di relazioni che alla legge dello Stato e, quindi, al dettato costituzionale, antepongono l’amicizia, la relazione, il favore”. Tra i lavori rimasti ‘incompiuti’, prima della fine della legislatura, ha spiegato Morra, c’era anche l’indagine “sugli appunti, sui quaderni e sulle attività ulteriormente indagate da Giovanni Falcone”: “Sono 39 i punti dei diari dello stesso Falcone, non semplicemente 14 come al contrario qualcuno ha creduto. Per cui noi abbiamo l’obbligo morale, ma anche storico e politico, di individuare gli altri 25 al fine di capire quali fossero i temi sui quali Falcone, ma probabilmente anche Paolo Borsellino, stavano lavorando”. Moby Prince, le conclusioni choc della commissione d’inchiesta: “L’incidente fu provocato da una terza nave” di Marco Gasperetti Corriere della Sera, 16 settembre 2022 Il clamoroso esito dei lavori parlamentari dopo anni di approfondimenti sul disastro del 1991 a Livorno: “II traghetto della Navarma si trovò davanti ad un peschereccio d’altura somalo e fu costretto a una drammatica manovra, finendo contro la petroliera Agip Abruzzo”. Il presidente Romano: “Poca trasparenza dall’Eni”. Alle 22.03 del 10 aprile del 1991 sulla rotta del Moby Prince c’era un’altra nave, probabilmente un peschereccio d’altura somalo trasformato in nave da trasporto. Il traghetto della Navarma che era appena partito da Livorno per raggiungere Olbia con 141 persone a bordo se lo trovò davanti, fu costretto a una drammatica manovra per cercare di evitare l’ostacolo improvviso e finì contro la petroliera Agip Abruzzo ancorata in posizione irregolare, con le luci spente e avvolta da una nuvola di vapore acqueo provocata da un’avaria. La seconda commissione d’inchiesta - È questa la clamorosa conclusione della seconda commissione parlamentare d’inchiesta su uno dei disastri (140 vittime e un solo superstite) più misteriosi e incredibili d’Italia. Dunque non furono la nebbia (che quella notte non c’era), un’avaria al timone, l’imperizia dell’equipaggio e del comandante (definiti dai commissari eroici), né tantomeno una bomba (non c’era esplosivo sul Moby) a provocare la collisione tra il traghetto e l’Agip Abruzzo, ma una scellerata manovra di una terza nave. “A dimostrarlo scientificamente sono stati gli ingegneri del Cetena di Genova, la principale società di ingegneria navale italiana specializzata nelle simulazioni - spiega Andrea Romano, deputato del Pd e presidente della commissione d’inchiesta parlamentare che stamani in una conferenza stampa ha diffuso la notizia. Abbiamo loro fornito tutti i dati tecnici in nostro possesso, dalla situazione meteo di quella notte alle perizie tecniche del motore, dalle analisi chimiche e sulla posizione delle navi in quel tratto di mare davanti a Livorno. La petroliera a luci spente avvolta dalla nebbia - Il lavoro finale non dà adito a dubbi: solo un terzo natante avrebbe potuto provocare il disastro sfilando a sinistra del Moby Prince mentre il traghetto si trovava vicino alla petroliera Agip Abruzzo che in quel momento aveva le luci spente, era avvolta da una nube di vapore e si trovava in una zona di divieto di ancoraggio”. L’unica incertezza che rimane adesso, secondo la commissione d’inchiesta, è l’identificazione di quella terza nave. Purtroppo la fine anticipata della legislatura ha interrotto gli accertamenti che stavano portando a indizi sulla 21 Oktoobar II un ex peschereccio di altura di costruzione italiana ma con bandiera somala di proprietà della società armatrice Shifco di Mogadiscio, trasformato in una nave da trasporto umanitario ma poi finita al centro di un’inchiesta sul trasporto illegale di armi da guerra. Questa nave, spiega la commissione d’inchiesta, era realmente a Livorno il giorno della strage “per lavori di riparazione a seguito di una presunta collisione avvenuta il 23 gennaio 1991 nella rada del Porto di Stone Town (Zanzibar)” con una nave, la Cusmaan Geedi, guarda caso proprietaria dello stesso armatore sulla quale non è stata trovata documentazione. Insomma, il sospetto è che la presunta collisione tra le due navi somale non si sia verificata. L’enigma delle bettoline clandestine piene di petrolio - Sull’ipotesi ex peschereccio mancano ancora elementi definitivi (che la commissione stava raccogliendo prima della fine della legislatura) e dunque non si esclude neppure la presenza di altri natanti, come per esempio quella bettolina (o bettoline) che nell’immediatezza della collisione l’allora comandante dell’Agip Abruzzo aveva menzionato nella richiesta di aiuti. Imbarcazioni che, si ipotizzò senza però avere prove definitive, facessero “bunkeraggio clandestino”, ovvero si rifornivano di petrolio senza passare dalla dogana. Su questo sono stati fatti accertamenti ma, come si legge nella relazione, c’è stato un “comportamento di Eni (proprietaria dell’Agip Abruzzo) connotato di forte opacità. Le “opacità” dell’Eni - Opacità riscontrata, in particolare, in merito alla determinazione della effettiva provenienza della petroliera, del carico realmente trasportato e delle attività svolte durante la sosta nella rada di Livorno; comportamento, dunque, certamente opaco che questa Commissione ritiene di biasimare”. E oltretutto, come spiega l’on. Romano, “non siamo riusciti ad avere da Eni il fascicolo dell’indagine interna dell’incidente che certamente darebbe altre elementi decisivi”. Anche sui soccorsi, la Commissione (come del resto già accertato in passato) ritiene che vi siano stati gravi inadempienze. “Abbiamo risposto in modo chiaro e netto alla domanda principale: che cosa è accaduto quella notte e perché la Moby è andata a scontrarsi contro l’Agip Abruzzo - spiega ancora il presidente Andrea Romano. E la risposta è una sola: a provocare il disastro è stata una terza nave. Peccato che la conclusione anticipata della legislatura ci ha impedito di identificare con certezza questa imbarcazione. Ci sono ancora indizi e piste da approfondire e ci auguriamo che la procura di Livorno, che ha riaperto le indagini, arrivi a una conclusione certa”. L’accusa di Andrea Romano - Infine un’accusa pesantissima: “C’è chi ha rimestato nel torbido alzando una cortina di falsità che ha impedito di arrivare alla verità. Che era molto chiara e poteva essere accertata molti anni fa se non addirittura nell’immediatezza. Un ultimo pensiero ad Angelo Chessa, uno dei figli del comandante del Moby Prince scomparso recentemente e un saluto a Loris Rispoli, che nella strage ha perso una sorella e che oggi lotta contro un ictus. Hanno combattuto per decenni, insieme agli altri familiari delle vittime, per avere giustizia e verità. Oggi il Parlamento ha fatto il suo dovere sanando quella che era una ferita per la coscienza civile e morale del nostro Paese”. La vicenda del rom volato dalla finestra non è entrata nel dibattito politico di Luigi Manconi La Repubblica, 16 settembre 2022 L’atroce vicenda di Hasib Omerovic, precipitato da una finestra di un appartamento al secondo piano nel quartiere Primavalle, a Roma, richiama quella che, in psicologia, si definisce “interdizione reciproca”. Ovvero la condizione che vede due soggetti alternativi mettersi vicendevolmente a tacere, ciascuno spaventato da quanto l’altro potrà arrivare a dire e dunque, a sua volta, incapace di dire. Di conseguenza, quella storia non ha trovato il minimo spazio nella campagna elettorale in corso: la destra preoccupata della più modesta incrinatura nel consolidato rapporto di subalternità verso le forze di polizia e verso un elettorato tutto “legge e ordine”; la sinistra allarmata del fatto che proprio la figura della vittima - etnia rom, comportamenti inappropriati, disabilità - potesse risultare controproducente sul piano del consenso politico. L’esito è stato - con eccezioni che si contano sulle dita di una mano - il silenzio totale dei partiti, in una sorta di effetto domino che ha finito per azzittire tutti con un paradossale gioco di specchi à la Magritte. Ma se ciò, ancora una volta, ci parla della pusillanimità di una sinistra senza tempra (e senz’anima), il discorso per quanto riguarda l’aspirante premier Giorgia Meloni si fa più complicato. È diventato ormai un abusato stereotipo quello relativo agli “esami” che la presidente di Fratelli d’Italia deve affrontare per poter accedere a Palazzo Chigi (e si avverte un tocco di piaggeria nell’entusiasmo di giornalisti e commentatori che parlano della “serietà” con cui si prepara a quelle prove). L’esame, cioè, dei mercati e quello dell’Europa, l’esame del Fondo Monetario Internazionale e quello della Banca Centrale Europea, l’esame delle agenzie di rating e di quelli che una volta venivano chiamati gli “gnomi di Zurigo”. Ma, lo sappiamo, per chi aspira a guidare il governo i test di credibilità e di affidabilità democratica sono anche altri. Atteso che nessuna persona assennata ha mai parlato di “pericolo fascista” a proposito del possibile successo di Fratelli d’Italia, questo non scongiura, certo, fondati timori e ragionevoli preoccupazioni. Se si dovesse dar credito, infatti, ai modelli di società evocati dai referenti di una certa destra italiana (il partito spagnolo di Vox e il regime ungherese di Viktor Orbán), il rischio di una democratura - un sistema democratico con forti tratti autoritari - non è da escludersi. E questo rimanda all’episodio di Primavalle. Chiariamo alcuni punti. Sappiamo che gli agenti entrati in quell’appartamento erano privi di un mandato e la loro è stata, dunque, un’azione illegale. Fatta salva la presunzione di innocenza - è difficile, ma si deve essere rigorosamente garantisti anche in questa circostanza - i lati oscuri risultano numerosi. Dunque, sarebbe stato apprezzabile che chi aspira a governare l’Italia si fosse espresso come segue: a) Nessuno è colpevole fino a sentenza definitiva. b) Le forze di polizia sono soggette alla legge e costituiscono un presidio del nostro sistema democratico. c) Questo sistema prevede pari garanzie per tutti, persone con disabilità e rom compresi e d) Mi auguro una inchiesta severa che appuri eventuali responsabilità. Nella consapevolezza, cioè, che si tratti di una essenziale questione di libertà personale e di uguaglianza tra i cittadini. Ecco, se Giorgia Meloni si fosse pronunciata in questi termini (e con lei anche Matteo Salvini) avrei riconosciuto, con vero piacere, che anche un esame di diritto pubblico, oltre che di qualità democratica, sarebbe stato brillantemente superato. E avrei dimenticato, altrettanto volentieri, quel tweet del 2018 (poi cancellato) dove Giorgia Meloni si proponeva di “abolire il reato di tortura che impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro”. Ingiusta detenzione, perdita del ristoro anche per la condotta ante causam di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 16 settembre 2022 Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 34001, respingendo la domanda di un noto imprenditore. Per accedere alla liquidazione dell’equa riparazione per la ingiusta detenzione l’imputato non deve aver contribuito in alcun modo all’erroneo convincimento dello Stato, sia durante il processo che precedentemente ad esso. Lo ha stabilito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 34001 depositata oggi, respingendo la domanda di un noto imprenditore sottoposto alla custodia cautelare, in carcere e presso il proprio domicilio, da marzo a dicembre 2012 a seguito di un procedimento per “truffa aggravata ai danni di un ente pubblico”. Accusa dalla quale era stato poi assolto, “perché il fatto non sussiste”, prima dal Tribunale e poi dalla Corte di appello in quanto la società era di “diritto privato”, con una partecipazione minoritaria del Comune, e dunque “non aveva nessun obbligo di comportarsi come una società pubblica”. Ma l’assoluzione non è stata sufficiente. Per la Corte di appello, e la IV Sezione penale, ha confermato la condotta dell’imprenditore sarebbe stata “gravemente colposa”, in quanto avrebbe favorito “mediante una serie di azioni ed omissioni l’idea che si stesse perpetrando una truffa ai danni dell’ente pubblico”. In particolare, afferma la Suprema corte, quale dominus di una S.r.l. ed azionista della società mista “si trovava all’evidenza in una posizione di conflitto di interessi”, in quanto alla sua società erano stati assegnati i lavori “senza l’adozione di alcuna procedura concorrenziale tanto più necessaria con riferimento ad un bene demaniale”. Altro elemento indicativo sarebbe rappresentato dalla “discrepanza tra i costi indicati nel computo metrico e quelli individuati successivamente”, nonché dalla condotta tenuta con la Commissione di vigilanza “cui non veniva consegnata la documentazione richiesta”. Per queste ragioni, il giudice della riparazione, “ponendosi nell’ottica degli elementi a disposizione dell’autorità giudiziaria al momento dell’adozione della misura cautelare, come sopra compendiati”, ha correttamente ritenuto il comportamento ostativo all’accoglimento della domanda proposta, con un percorso argomentativo “del tutto logico, congruo, non contraddittorio e, soprattutto, coerente con il dato fattuale”. In linea generale, in tema di riparazione per l’ingiusta detenzione, ai fini del riconoscimento dell’indennizzo, spiega la Cassazione, può prescindersi dalla sussistenza di un “errore giudiziario”, venendo in considerazione soltanto l’antinomia “strutturale” tra custodia e assoluzione, o quella “funzionale” tra la durata della custodia ed eventuale misura della pena, con la conseguenza che, in tanto la privazione della libertà personale potrà considerarsi “ingiusta”, in quanto l’incolpato non vi abbia dato o concorso a darvi causa attraverso una condotta dolosa o gravemente colposa, giacché, altrimenti, l’indennizzo verrebbe a perdere ineluttabilmente la propria funzione riparatoria, dissolvendo la “ratio” solidaristica che è alla base dell’istituto. Il Supremo Collegio ha peraltro chiarito che “la condotta colposa a cui consegue l’emissione del provvedimento restrittivo della libertà può essere posta in essere, al pari della condotta dolosa, anche prima dell’inizio del procedimento penale”, dovendosi respingere la tesi “secondo cui la colpa grave potrebbe ravvisarsi solo in relazione alla condotta processuale dell’interessato, e cioè al contegno da lui assunto dopo la conoscenza del procedimento penale a proprio carico”. Mentre, con riferimento alla gravità della colpa e alla sua incidenza causale “il giudice di merito deve, in modo autonomo e completo, apprezzare tutti gli elementi probatori a sua disposizione con particolare riferimento alla sussistenza di comportamenti, anteriori e successivi alla perdita della libertà personale, connotati da eclatante o macroscopica negligenza, imprudenza o violazione di leggi o regolamenti, fondando la deliberazione conclusiva non su mere supposizioni ma su fatti concreti e precisi, che consentano di stabilire, con valutazione ex ante, se la condotta tenuta dal richiedente abbia ingenerato o contribuito a ingenerare, nell’autorità procedente, la falsa apparenza della configurabilità della stessa come illecito penale, dando luogo alla detenzione con rapporto di causa ad effetto”. Dalla Consulta schiaffo ai pm. Risarcimenti pure senza cella di Luca Fazzo Il Giornale, 16 settembre 2022 La sentenza della Corte: vanno riparati anche i danni a reputazione e salute effetto della gogna giudiziaria. Ci sono voluti anni di ricorsi e un intervento della Corte Costituzionale perché venisse sancito, una volta per tutti, un principio che sembrava ovvio. Per rovinare per via giudiziaria la vita di una persona non serve mandarla in galera: basta indagarla, perquisirla, esporla al pubblico disprezzo. Quando questo avviene senza motivo, il malcapitato ha diritto a essere risarcito - attraverso lo Stato - dal magistrato che lo ha devastato. È l’ultima sentenza della Corte Costituzionale sotto la presidenza di Giuliano Amato. L’ex presidente del Consiglio lascia ieri anche la guida della Consulta. Ed è significativo che la sua ultima firma Amato la metta su una sentenza destinata a risultare indigesta alla magistratura organizzata. Basti pensare che quando nel 2015 il governo Renzi approvò una norma che andava nella stessa direzione, le correnti delle toghe insorsero, protestando per la ferita inferta alla libertà della categoria. La legge non era retroattiva, per cui decine e decine di vittime della malagiustizia continuavano a essere escluse dal risarcimento. Politici, imprenditori, gente comune finita in pasto alle prime pagine per accuse infondate continuavano a vedersi rifiutare il risarcimento. Solo chi è finito agli arresti può chiedere i danni allo Stato, dicevano le sentenze. Tutti gli altri, quelli distrutti anche senza vedere la cella, si arrangiassero. Ora la sentenza della Consulta, stesa dal giudice Emanuela Navarretta, rimette un po’ le cose a posto. Ed è merito, va sottolineato, di un magistrato. È un giudice in servizio nel palazzo di giustizia di Reggio Calabria finito anni fa nel mirino dei suoi colleghi di Catanzaro che lo accusano di un reato infamante: concorso esterno in associazione mafiosa. Non lo mandano in carcere ma lo perquisiscono, e ovviamente la notizia arriva ai giornali. Il giorno dopo, il dottor P.A.B. si ritrova indicato al mondo come un complice della ndrangheta. Quando il fascicolo viene trasmesso per competenza alla Procura di Roma, ai pm della Capitale basta poco per capire che contro quel giudice non c’è nulla di concreto, e archiviano il fascicolo. Da quel momento P.A.B. inizia la sua battaglia per chiedere il risarcimento dei danni ai colleghi che lo hanno messo nel tritacarne. Per due volte a Salerno si vede dare torto: non ti hanno neanche messo in carcere, cosa vuoi? Il magistrato deve arrivare alla Cassazione perché l’assurdità della norma che salva i pm dalla perquisizione facile salti finalmente agli occhi. La terza sezione civile della Cassazione solleva la questione di incostituzionalità che viene accolta ieri, aprendo la strada al risarcimento a P.A.B. e a tanti altri come lui. A colpire sono anche le motivazioni della sentenza: i giudici ricordano che tra i “diritti inviolabili” della persona non c’è solo la libertà. E “se è vero che la libertà personale può ritenersi esposta a pregiudizi particolarmente gravi per effetto dell’illecito del magistrato”, non c’è nessun motivo che giustifichi “l’esclusione dalla tutela degli altri diritti della persona, parimenti suscettibili di subire danni in conseguenza di una acclarata illiceità del magistrato”. Sono i danni non economici ma altrettanto devastanti alla reputazione, alla carriera, a volte anche alla salute fisica e mentale che la gogna mediatico-giudiziaria porta sovente con sé. Per convincere la Corte costituzionale a respingere la questione era scesa in campo anche l’Avvocatura dello Stato - su indicazione del governo - che aveva sostenuto che un allargamento dei risarcimenti avrebbe messo a rischio la “indipendenza e la autonomia dei magistrati”. Ma anche questa eccezione viene respinta dalla Consulta all’insegna del “bilanciamento dei diritti”. Diritti dei pm, diritti dei cittadini. Milano. Suicidio a San Vittore di Riccardo Arena Ristretti Orizzonti, 16 settembre 2022 Martedì 13 settembre Riccardo Locatelli di 46 anni muore in ospedale dopo essersi impiccato nella sua cella del carcere San Vittore di Milano. Da quanto si è appreso infatti l’uomo, che era tossicodipendente e che per questo era ristretto nel reparto La Nave, il 5 settembre stava assistendo alla proiezione di un film, poi verso le 15:00 improvvisamente è tornato nella sua cella dove si è impiccato con un cappio rudimentale. Riccardo, che è stato ritrovato da un compagno di cella, è stato portato subito in ospedale dove è deceduto il 13 settembre. Va anche precisato che il reparto la Lave del carcere San Vittore di Milano è uno dei migliori reparti del penitenziario lombardo, dove le persone detenute vengono costantemente seguite. Eppure resta il fatto che questo è il 60° suicidio che si registra nelle carceri italiane dall’inizio dell’anno, per un totale, tra decessi e suicidi, di 114 detenuti che hanno perso la vita nel 2022. Palermo. Nuovo suicidio in carcere, detenuto muore dopo giorni di agonia di Ignazio Marchese blogsicilia.it, 16 settembre 2022 Si verifica un nuovo caso di suicidio di un detenuto in un carcere siciliano. E’ morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo Roberto Pasquale Vitale, il 29enne che aveva tentato di impiccarsi nel penitenziario del “Pagliarelli” di Palermo. Da giorni in coma - Il giovane era stato trovato con il lenzuolo attorno al collo e soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria. Le sue condizioni appena giunto in ospedale furono ritenute da subito molto gravi dai medici. Negli ultimi giorni era entrato in coma. Oggi è arrivata la morte. L’indagine statistica preoccupante - Nei giorni scorsi è stata pubblicata un’indagine inquietante che riguardava proprio le carceri siciliane. La Sicilia è la seconda regione in Italia, dopo la Campania, per numero di violenze sessuali in carcere secondo quanto aveva denunciato il segretario generale della Spp, un sindacato di polizia penitenziaria, Aldo Di Giacomo, per il quale gli stupri sono il propellente per i suicidi dei detenuti, fenomeno piuttosto esteso nelle carceri siciliani: gli ultimi due casi si sono registrati nei giorni scorsi nei penitenziari di Siracusa e Caltagirone. Il sindacalista aveva reso noto che la Campania presentava 20 casi, dopo di lei la Sicilia con 14. Il caso nel Catanese - Appena pochi giorni fa un detenuto catanese recluso nella casa circondariale di Caltagirone si era impiccato. L’uomo era imputato di furto aggravato per avere sottratto un telefonino ed un portafogli poi restituiti ai legittimi proprietari. Il legale della vittima aveva preannunciato che i familiari avrebbero presentato un esposto alle Autorità Giudiziarie per “accertare se vi siano state negligenze da parte del personale dell’Istituto penitenziario”. E non è la prima volta che purtroppo accadono suicidi di detenuti nelle carceri italiane. Nell’aprile scorso un altro detenuto catanese si è suicidato. La notizia che il Tribunale del Riesame aveva bocciato la sua richiesta di domiciliari a casa della madre in Sicilia, gli era arrivata in mattinata. L’uomo - un 58enne autotrasportatore di origine catanese ma residente a Ravenna - poco dopo si è tolto la vita all’interno del carcere romagnolo dove si trovava dal 13 marzo scorso per reati commessi nei confronti della ex moglie dalla quale si stava separando. Palermo. Muore suicida in carcere, il papà: “Malato ma ignorato, non deve più accadere” di Antonio Palma fanpage.it, 16 settembre 2022 “Roberto è crollato dopo 15 giorni senza dormire. Sono un padre disperato che vuole che queste cose non accadano più”, ha dichiarato il padre del 29enne in una lettera di accuse contro il sistema carcerario italiano. Non ce l’ha fatta Roberto, il ragazzo di 29 anni che nei giorni scorsi aveva tentato di uccidersi nel carcere di Palermo dove era detenuto. Il giovane è deceduto nelle scorse ore dopo diversi giorni di agonia all’ospedale Civico di Palermo dove era ricoverato da quella terribile giornata quando era stato ritrovato impiccato con le lenzuola in cella. Roberto era stato trovato nel carcere “Pagliarelli” di Palermo con il lenzuolo attorno al collo ma ancora vivo, era stato soccorso e trasportato in ospedale dove era stato ricoverato nel reparto di rianimazione ma le sue condizioni era apparse subito molto gravi ed era finito in coma. Un lungo sonno da cui purtroppo non si è mai più risvegliato ed è morto nelle scorse ore. Ad annunciare la sua prematura scomparsa l’associazione Antigone a cui nei giorni scorsi si era rivolto il papà del 29enne con una drammatica e straziante lettera di accuse contro il sistema carcerario italiano. “Roberto ha fatto quello che ha fatto perché, nonostante chiedesse aiuto ai medici per il suo stato di salute, veniva quotidianamente ignorato” aveva denunciato pubblicamente il padre, ex poliziotto. “Il caldo infernale lo ha distrutto, nonostante spendesse tutti i soldi che gli lasciavamo per comprare bottiglie di acqua per cercare sollievo e rianimarsi un po’. Alla fine è crollato dopo 15 giorni senza dormire. Sono un padre disperato (poliziotto in pensione), che vuole che queste cose non accadano più e che ci sia più attenzione verso questi ragazzi” aveva scritto il genitore, aggiungendo: “A soccorrere e a rianimare mio figlio sono stati gli altri detenuti, mentre le guardie si sono solo disturbate a chiamare un’ambulanza. Aiutatemi a far passare questo messaggio per poter aiutare chi si trova nella stessa situazione in cui si è venuto a trovare il mio figliolo. Grazie mille e prego affinché questo non accada più”. Secondo l’associazione Antigone nel 2022 ci sono stati oltre sessanta suicidi, più di tutto il 2021 e ad agosto un suicidio in carcere ogni 2 giorni. “Chiunque sia impegnato nella campagna elettorale non può voltare lo sguardo. Il carcere di oggi rinchiude grandi quantità di persone con storie di solitudine, di disagio psichico, di povertà, di esclusione sociale, di dipendenze. Storie che trasudano sofferenza, abbandono e disperazione e che evidenziano quanto selettivo sia il sistema penale, teso a colpire prevalentemente chi è escluso dal welfare” ha dichiarato Susanna Marietti, Coordinatrice di Antigone. L’associazione che da anni si batte per maggiori diritti nelle carceri italiane, ha ottenuto un grande risultato proprio in questi giorni. Il capo del Dap infatti ha annunciato una circolare per stabilizzare le videochiamate e sollecitare gli istituti a garantire il più alto numero di telefonate possibili. “Una prima vittoria per le nostre richieste. Ma ci aspettiamo ancora un impegno dalla politica per normare questo aspetto” spiegano da Antigone. Messina. Sempre grave il 45enne aggredito dal compagno di cella di Leonardo Orlando Gazzetta del Sud, 16 settembre 2022 Restano gravi, anche se stazionarie, le condizioni del detenuto aggredito nella mattinata di mercoledì dal suo compagno di cella e ancora ricoverato in coma nell’Unità operativa di Rianimazione del Policlinico di Messina. La prognosi per il detenuto gravemente ferito è ancora riservata, anche se i medici che lo hanno in cura e lo stanno monitorando, hanno comunicato al legale della famiglia del ferito, l’avvocato Antonello Scordo, che pur non essendosi ancora risvegliato, i parametri vitali sembrerebbero quasi rientrare nella normalità. Tuttavia ancora gli stessi medici non hanno contezza di eventuali danni cerebrali e non sanno se l’uomo una volta risvegliato dal coma possa parlare e articolare gli arti inferiori e superiori. L’uomo ha avuto la sventura di dover condividere la cella con l’ex paracadutista della Brigata Folgore Vincenzo Baglione, 52 anni di Furnari che a distanza di una settimana dall’aggressione a coltellate alla zia Silvana Lopes, non ha esitato, per via delle sue condizioni di salute mentale - non adeguatamente prese in considerazione, sembra, da chi doveva prevenire una nuova violenta reazione - ad aggredire selvaggiamente uno dei compagni di cella. Il messinese G. B. 45 anni, è stato colpito alla testa e al volto con pugni e subito dopo abbattuto con calci fino allo stato comatoso. Oltre alle ferite alla testa, la vittima dell’aggressione, presenta lesioni al volto che i medici hanno saturato e dovrà, quando le sue condizioni lo permetteranno, essere sottoposto ad intervento chirurgico “maxillo facciale” per via del pestaggio subito che gli ha deformato il volto. Il suo stato comatoso, infatti, allo stato impedisce ogni tipo di intervento chirurgico. Di certo l’uomo non ha ancora aperto gli occhi. Inoltre si è appreso che nella prima mattinata di mercoledì la vittima, prima di subire l’aggressione, aveva avuto un colloquio con la madre alla quale aveva manifestato visibile preoccupazione a causa del nuovo compagno di cella il quale sarebbe riuscito ad incutere paura. Viterbo. Lavoro per i detenuti, appello alle imprese di Andrea Tognotti Corriere di Viterbo, 16 settembre 2022 È stato lanciato dall’associazione Seconda Chance. “Il personale può essere selezionato tra le persone a fine pena”. A Mammagialla sono attive una falegnameria, un’officina per fabbri e una sartoria. Imprenditori viterbesi, fatevi avanti. Si potrebbe sintetizzare così il senso di un appello che l’associazione Seconda Chance rivolge ai produttori del capoluogo. Spronandoli ad assumere, anche part time e a tempo determinato, lavoratori selezionati tra i detenuti giunti a fine pena che abbiano osservato un comportamento irreprensibile nel corso della permanenza in carcere, usufruendo dei benefici fiscali previsti dalla legge Smuraglia. A questo sta lavorando da un anno e mezzo la giornalista del Tg di La7 Flavia Filippi. La quale, dapprima in solitaria e poi con l’ausilio di Alessandra Ventimiglia, documentarista, e Beatrice Busi Deriu, titolare di Ethicatering, si occupa di fare intermediaria tra i direttori delle carceri e i detenuti ritenuti idonei - a decidere è il magistrato di sorveglianza - a svolgere un lavoro fuori dalle mura penitenziarie. “Vogliamo offrire agli imprenditori la possibilità di valutare se tra i ragazzi che sono in carcere, che hanno diritto ad avere una seconda chance, c’è qualcuno che li interessa”, dice al Corriere Filippi. “Potete risparmiare, sentirvi persone migliori, e anche avere riscontro mediatico aggiunge. Edilizia, gastronomia, officine meccaniche sono solo alcuni dei settori nei quali può realizzarsi l’incontro tra domanda e offerta. Nel carcere Mammagialla di Viterbo sono attive una falegnameria, un’officina per fabbri e una sartoria che, proprio grazie all’interessamento di Seconda Chanche, ha ricevuto una commessa dall’azienda Millenium Tech per realizzare prodotti utilizzando le vele dismesse dagli armatori delle navi. Ci stanno lavorando sei detenuti. E questa è una novità per l’istituto di pena, perché -come spiega la direttrice del carcere, Anna Maria Dello Preite - “in precedenza la sartoria produceva solo tute e pantaloni a uso interno”. “Il lavoro - spiega al Corriere la direttrice - è un elemento fondamentale per il trattamento dei detenuti, che però di solito vengono impiegati in attività poco professionalizzanti come la pulizia dei locali e la preparazione del vitto. Da noi si fanno anche corsi professionali, con attestati che i detenuti possono spendere una volta tornati in libertà. Manca però il collegamento con l’esterno, il mondo del lavoro”. Esattamente ciò di cui si occupa l’associazione diretta da Filippi. “A Viterbo - prosegue Dello Preite - si fa molta fatica a trovare imprenditori venire in carcere a valutare manodopera. Inoltre abbiamo riscontrato una certa difficoltà a raggiungere i posti di lavoro, ma questo non deve scoraggiare né noi né chi vuole investire, dato che ci sono gli incentivi della legge Smuraglia”. Di sicuro non si scoraggia Filippi, la quale riferisce che il parco nazionale del Circeo, il Sacramento Golf Club e il Circolo Canottieri Tevere Remo le hanno chiesto dei preventivi che verranno forniti nei prossimi giorni. “È stata una fortuna incontrare Flavia - dice Dello Preite - perché la sua è un’iniziativa meritevole e sono lieta di collaborare con lei”. Altri che siano interessati possono scrivere a info@secondachance.net. Napoli. Ciambriello ai detenuti: “Chi non vota non potrà lamentarsi delle condizioni delle carceri” di Valentino Di Giacomo Il Mattino, 16 settembre 2022 “Andate a votare, esprimete la vostra preferenza di voto, divenendo così cittadini attivi. Sarebbe un errore madornale non recarsi alle urne, il voto è un diritto e un dovere sacrosanto per tutti i cittadini, è l’espressione massima della democrazia”. Samuele Ciambriello, garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, si rivolge alla popolazione carceraria in vista dell’appuntamento elettorale, fissato per domenica 25 settembre dalle 7 alle 23, per il rinnovo del Parlamento italiano. “Anche i detenuti, chiaramente coloro su cui non pende un’interdizione dal diritto di voto, possono e devono esercitare questo diritto/dovere. Mi dispiace solo che le procedure per accedere al voto negli istituti di pena sono farraginose, lunghe, complesse e che i detenuti sono poco informati sui loro diritti e non sanno nulla rispetto alle modalità di come esercitarli. I politici, pur avendo la possibilità di entrare in carcere per ispezione e controlli, non lo fanno. Il vento che spira è assai preoccupante: il “populismo penale” si coniuga con il “populismo politico” e così si evita di parlare di carcere”. I detenuti aventi diritto al voto - si legge nella nota del garante - sono ammessi a votare, previa esibizione della tessera elettorale o di un’attestazione equipollente rilasciata dal sindaco, nel luogo di detenzione, sempre che siano elettori dello stesso comune in cui ha sede la struttura oppure, nel caso di elezioni circoscrizionali, siano iscritti in una sezione compresa nella stessa circoscrizione nel cui ambito si trova il luogo di detenzione. “L’invito ai detenuti è di esprimere la propria idea politica, così da esercitare uno dei diritti fondamentali; ai direttori degli istituti di pena di avviare una giusta informazione sulle modalità di voto, così da preparare per tempo tutta la documentazione necessaria per poter barrare un simbolo. Io, così come ho fatto due mesi addietro in vista del referendum, mi recherò nelle carceri per ribadire ai detenuti, che ne hanno ancora diritto, di votare, perché, anche se privati della libertà, possono contribuire alla formazione del Parlamento. Devono essere consapevoli del fatto che anche loro possono essere attori dei processi di cambiamento e non semplici spettatori. Solo esercitando il diritto al voto, però, possono essere protagonisti; chi non lo fa, non solo tradisce il suo status di cittadino, ma soprattutto non potrà proferire parole di lamentela sulle condizioni delle carceri e più in generale del nostro Stato, perché decidere di non votare equivale ad ammettere di non voler partecipare. Questo invito, chiaramente, non è solo per i detenuti, ma anche per i loro familiari e per tutti gli operatori penitenziari: non esprimere la propria preferenza preclude a tutti la possibilità di accusare la politica di non occuparsi dei problemi del sistema penitenziario”. Cagliari. Detenute di Uta a lezione per diventare parrucchiere ansa.it, 16 settembre 2022 Iniziativa per creare le basi per lavoro e reinserimento. Sette detenute della sezione femminile della Casa circondariale “Ettore Scalas” di Uta potranno seguire un corso professionale di parruccheria. Obiettivo: apprendere le basi di una professione che potrà offrire, una volta terminato di scontare la pena, di svolgere un’attività lavorativa. È la principale finalità del progetto “Un carcere di genere. Un genere di carcere”, ideato e promosso dall’associazione Socialismo Diritti Riforme con il sostegno della Fondazione di Sardegna e con collaborazione dell’istituto. Il programma, curato da Francesca Piccioni, titolare di Hair School di Quartu Sant’Elena, prevede un primo modulo formativo, articolato in 8 lezioni ciascuna di 4 ore, per un totale di 32 ore, per conoscere le tecniche di base. Ciascuna detenuta riceverà il materiale necessario per imparare a fare lo shampoo, montare i bigodini, usare il phon o la piastra, utilizzare le tinture per capelli o l’ossigeno per schiarirli. “Il titolo che abbiamo scelto per questa iniziativa - ha spiegato Maria Grazia Caligaris, socia fondatrice dell’associazione - allude al carcere che vorremmo, cioè un penitenziario da cui si esce avendo acquisito una ‘professionalità’ spendibile nel mercato, e al fatto che le donne detenute purtroppo incontrano oggettive difficoltà ad accedere alla formazione. Uno stimolo per altre analoghe iniziative da parte di enti e associazioni. “Si tratta di un progetto che non poteva lasciarci indifferenti proprio perché risponde - ha sottolineato il direttore del carcere di Uta Marco Porcu - a quelle che sono le principali finalità della reclusione. Apprendere un mestiere significa usare utilmente il tempo della detenzione e poter rientrare nella società arricchiti di un’esperienza, trovando anche una migliore collocazione sociale. Per le donne questo è ancora più importante perché il saper fare le rende sicuramente più autonome e meno esposte al rischio di ricatti”. Palermo. “Non emarginate i detenuti, dai politici solo promesse” ilroma.net, 16 settembre 2022 “È doveroso capire e comprendere i carcerati e chiedersi perché abbiano commesso degli errori, perché sono precipitati nel male?”. A parlare è il missionario laico Biagio Conte, fondatore della missione Speranza e carità che accoglie a Palermo circa 600 persone in difficoltà. Fratel Biagio, a cui nei mesi scorsi è stato diagnosticato un tumore e che nell’astanteria della missione è monitorato dai medici, rivolge un appello per tutti i carcerati e gli ex detenuti. “Qualcuno li ha trascinati e indirizzati nella strada sbagliata, a delinquere, a rubare, a spacciare - dice -. Hanno approfittato della loro povertà, sono cresciuti in quartieri emarginati, degradati e indigenti della città. Non è corretto giudicarli, emarginarli e disinteressarsi di tutti loro o pensare di non essere come loro, perché ognuno ha i propri errori e peccati, non riteniamoci migliori, perfetti”. “I politici nel momento delle elezioni si precipitano nei quartieri per ottenere i voti, promettendo aiuti e possibilmente posti di lavoro, fatti solo di parole e promesse vane - dice ancora il missionario -. Vi prego carissimi cittadini e autorità, dobbiamo essere più ospitali, più accoglienti e basta puntare il dito e giudicarli sempre come detenuti ed ex carcerati”. Ma da Fratel Biagio arriva anche una “fortissima preoccupazione” per “la decisione presa ultimamente dai politici di togliere o modificare il cosiddetto reddito di cittadinanza. Fate attenzione a non danneggiare la già compromessa famiglia, in particolare i bambini e i loro figli, non togliamo il loro sostentamento. Trasformando il reddito di cittadinanza o il sussidio in un prezioso lavoro, li integriamo, dando loro una vera dignità, non lasciandoli passivi e questo vale anche per ogni cittadino comune”. Napoli. Domani assemblea di Nessuno Tocchi Caino con Rita Bernardini Il Riformista, 16 settembre 2022 Domani, sabato 17 settembre 2022, a partire dalle 9:30, presso la Proodos Cooperativa Sociale in Via Benedetto Brin 2 (Stazione Napoli Gianturco) si terrà un’Assemblea di Nessuno tocchi Caino dal titolo “Basta morte per pena!”. All’evento prenderanno parte Sergio D’Elia, Elisabetta Zamparutti e Rita Bernardini che ha fatto 28 giorni di sciopero della fame per l’umanità e la civiltà nelle carceri italiane che sono tra le più affollate d’Europa e nelle quali quest’anno, al ritmo di uno ogni 5 giorni, sono avvenuti 60 suicidi, tanti quanti in tutto l’anno passato. La Presidente di Nessuno tocchi Caino ha interrotto lo sciopero tre giorni fa a seguito della decisione del capo del DAP Carlo Renoldi di emanare una circolare che consente un maggior numero di telefonate e di videochiamate tra i detenuti e le loro famiglie. Hanno aderito alla manifestazione l’Osservatorio Carcere dell’UCPI, le Camere penali di Napoli, di Aversa e di Torre Annunziata, il Movimento Forense, l’Associazione forense “Piero Calamandrei”, Riformismo oggi, Juris News e Il Carcere Possibile. Cosenza. Covid e rivolte nelle carceri, la voce dei detenuti in piazza a Rende cosenzachannel.it, 16 settembre 2022 In programma dibattiti, una mostra mercato di libri e il reading delle poesie di Sante Notarnicola e Giovanni Farina. La piazza antistante il Museo del Presente di Rende ospiterà domani, a partire dalle 16.30, la manifestazione “La prigione e la piazza”, reading, dibattiti e mostra mercato di libri sulla situazione nelle carceri italiane. L’evento si colloca nell’ambito delle iniziative promosse a livello nazionale nelle piazze dalle associazioni Yairaiha Onlus e Napoli Monitor in collaborazione con numerose realtà associative e case editrici. Dopo Napoli, Bari, Roma e Pitigliano, anche a Rende il quinto appuntamento dell’iniziativa nata per portare la discussione sul carcere nelle strade, fra la gente, con racconti, libri, dossier e testimonianze dirette. Si parlerà, nello specifico, di Covid e rivolte con l’intervento, fra gli altri, di Sandra Berardi, Nicoletta Dosio, Comitato verità a giustizia per i morti di Modena, per discutere dei giorni delle rivolte, di violenza, di ciò che l’emergenza Covid ha svelato della condizione carceraria, di possibili sviluppi. La serata si concluderà con un reading di poesie di Sante Notarnicola e Giovanni Farina e le testimonianze dei detenuti di Rossano. “Porto Azzurro, un carcere sotto sequestro” dà il via a un nuovo ciclo di Rai Documentari di Niccolò Fabbri tvblog.it, 16 settembre 2022 Parte questa sera su Rai2 un nuovo ciclo firmato Rai Documentari, “L’Italia Criminale: quando la cronaca fa la storia”. Primo appuntamento dei sette che andranno in onda ogni venerdì sera in prima serata fino al 28 ottobre sarà “Porto Azzurro, un carcere sotto sequestro”, che ripercorrerà tramite la formula del docu-film una vicenda di cronaca risalente a 35 anni fa. Ci troviamo all’Isola d’Elba, presso il carcere di Porto Azzurro, considerato fino al 25 agosto 1987 un modello non solo per i servizi e le attività ricreative che i detenuti potevano svolgere all’interno istituto penitenziario, ma anche per il rapporto disteso fra carcerati e guardie carcerarie. Quest’equilibrio però venne a rompersi in quella giornata di agosto con il tentativo di evasione di sei detenuti, capeggiati dal terrorista nero Mario Tuti. Fallito il tentativo di evasione, scaturirà poi il sequestro di trentatré persone, un sequestro che si protrarrà per sette giorni. Tutta questa vicenda verrà ripercorsa nel documentario dalle voci dei protagonisti della vicenda, da quella di Mario Tuti a quella dei sequestrati, come l’assistente sociale Rossella Giazzi, passando per chi dall’esterno dovette gestire la trattiva per la liberazione degli ostaggi, come il magistrato di sorveglianza Antonietta Fiorillo. Nel racconto, alle testimonianze dei diretti interessati, si aggiungeranno i ricordi di giornalisti che all’epoca seguirono l’accaduto, come l’attuale direttore del Tirreno Stefano Tamburini e lo storico giornalista del Tg1 Paolo Di Giannantonio. Porto azzurro, un carcere sotto sequestro: credits Porto Azzurro, un carcere sotto sequestro è una produzione Stand by me, diretta da Jovica Nonkovic e curata da Lorenzo De Alexandris. Il documentario è scritto da Alessandro Giordano ed Emanuele Mercurio e vede come produttori esecutivi Federico Chitarin e Alessandro Grillo, con Manuela Vitale come delegata di produzione Rai Documentari. Chi pretese il carcere per Braibanti oggi va a caccia di nuove streghe da bruciare di Ilario Ammendolia Il Dubbio, 16 settembre 2022 Il film di Gianni Amelio presentato a Venezia sul “caso” Braibanti, ha indignato e commosso molte persone convinte però che oggi un caso analogo non potrebbe accadere. E si sbagliano. Sarebbe perciò necessario sommare all’indignazione e alla commozione, l’analisi rigorosa della realtà attuale e poi sulla base dei fatti, arrivare alla conclusione che “Braibanti” viene bruciato ogni giorno sulle nostre piazze e la percentuale degli indifferenti è oggi maggiore che mezzo secolo fa. Mentre quel ‘ Potere’ che segregò Braibanti nelle patrie galere è più forte che mai. Il professore piacentino, omosessuale dichiarato, fu colpevole per la convivenza con uno studente maggiorenne e consenziente. Per questo fu arrestato e condannato. Credo che prendere posizione a favore di Braibanti sia stato difficile ovunque ma comprenderete quanto lo sia stato nel Sud Italia. Eppure un confronto aspro c’è stato anche nelle regioni meridionali e finanche nei più piccoli paesi e ciò ha consentito di aprire un varco nell’egemonia delle classi dominanti e di avviare una semina che ha portato alla vittoria sul divorzio e alla grande stagione dei diritti civili. Ma andiamo con ordine. Braibanti era un ex partigiano, un poeta, uno scienziato ma era soprattutto una persona innocente che dinanzi a una accusa degna della peggiore caccia alle streghe fu difeso solo da pochi, o meglio da una coraggiosa minoranza costituita da intellettuali, da giovani- spesso irregolari- di Sinistra e da qualche liberale raro come i lupi bianchi. Braibanti fu marchiato a fuoco come pervertito, pederasta, degenerato, corruttore di giovani e il marchio divenne garanzia per l’infame condanna prima nelle piazze, quindi sui giornali e infine in Tribunale. La televisione fu il megafono della pubblica accusa. Come abbiamo detto all’inizio, a 50 anni di distanza, qualche riflessione bisognerebbe pur farla. Innanzitutto quando esplose il “caso Braibanti” non abbiamo difeso solo il diritto naturale di dichiararsi omosessuale e vivere liberamente la propria vita ma anche e soprattutto il diritto alla Libertà e il rispetto dell’integrità della persona umana per come prescritto dalla Costituzione. Oggi quelle stesse forze che pretesero il carcere per Aldo Braibanti vanno a caccia di nuove streghe da bruciare sul rogo. Così quasi ogni giorno, una certa stampa crea il “mostro”, la piazza (ormai solo virtuale) si scalda e pretende la purificazione attraverso il sacro fuoco, le procure non vanno per il sottile e le carceri si riempiono di innocenti. E per questa via lo Stato “degenera” e da Istituzione necessaria per la tutela dei cittadini, diventa un pericolo in quanto sceglie di legittimarsi con la giustizia sommaria, la galera e la guerra. Oggi c’è l’aggravante che le minoranze che difesero Braibanti sono quasi sparite, spesso distratte, e a volte si sono trasformate in sentinelle di “regime”. Così chi dovesse capitare (e capita quotidianamente) nell’ingranaggio perverso che 50 anni fa distrusse l’ex partigiano è terribilmente solo. Provate voi a difendere una persona innocente finito nelle maglie della “giustizia”, o a esprimere qualche dubbio sulle frequenti retate che sanno più di teatro che di applicazione della legge. Provate a dire che una persona non può essere messa alla gogna per il reato di “parentela”, che un consiglio comunale non può essere sciolto senza una sentenza che stabilisca le responsabilità penali del sindaco e dei consiglieri comunali. Oppure che un imprenditore non può essere messo al lastrico con un semplice rapporto di polizia. Chiunque lo faccia verrà marchiato come potenziale complice. Conosco almeno un migliaio di persone messe alla gogna e poi scagionati da ogni accusa. Cambia il capo di imputazione ma il metodo resta uguale e chi non ha la forza e il coraggio dell’ex partigiano muore di crepacuore. Credo che quel varco aperto in occasione del caso Braibanti grazie ad una minoranza coraggiosa, stia per essere definitivamente chiuso e ciò avrà come sbocco naturale un regime che già ha preso forma negli anni passati. Il dottor Scarpinato candidato al Senato in Calabria, parlando alla festa del Fatto quotidiano ha affermato che la difesa della Costituzione deve essere la nuova linea del Piave. Si può e si deve essere d’accordo, premettendo però che c’è chi su quella linea c’è sempre stato. Sia quando s’è trattato di difendere la Costituzione contro la secessione di Bossi o per contrastare la legge sull’autonomia differenziata e ancora di più quando retate degne delle peggiori purghe staliniane hanno distrutto migliaia di vite. In Calabria molto più che altrove. La Costituzione è veramente una trincea… sempre! Anche quando un solo uomo (chiunque esso sia) dal profondo di una galera grida la sua innocenza, pretende la sua dignità, reclama la tutela della legge. Anche quando il carnefice è un magistrato o comunque un rappresentante di quel potere che è - in linea storica - erede di coloro che sacrificarono Aldo Braibanti. Il caro-bollette? Agli enti non profit costa 10 euro al giorno per ogni assistito di Giulio Sensi Corriere della Sera, 16 settembre 2022 Le organizzazioni in difficoltà per i costi energetici aumentati. A rischio chiusura centri che garantiscono servizi ad anziani, bambini, disabili. Scatta l’allarme tra grandi e piccole realtà. Fra le vittime della tempesta che si abbatte su costi energetici c’è un pezzo di Paese che non può permettersi di morire: sono le organizzazioni non profit che tengono in piedi le strutture residenziali e i centri diurni per anziani e disabili, trasportano o assistono a casa malati e persone non autosufficienti, gestiscono gli impianti dove i giovani imparano i valori dello sport e del rispetto. “I dati - racconta Luca Degani, presidente di Uneba Lombardia, l’organizzazione di categoria del settore sociosanitario, assistenziale ed educativo - parlano chiaro. Abbiamo 450 enti associati in tutta la regione e gestiamo 1000 servizi residenziali, diurni e domiciliari per anziani e disabili. Con l’aumento dei costi energetici abbiamo già avuto una crescita di 10 euro al giorno per persona assistita. Per una struttura di medie dimensioni, 120 posti letto, sono più di 400.000 euro in più all’anno. Parliamo di persone in condizioni di fragilità con il bisogno di temperature equilibrate che non possono scendere sotto i 20 gradi. Per ora stiamo sostenendo noi questi costi, ma fino a quando ci riusciremo?”. Gli allarmi si stanno moltiplicando: a Palermo il presidente del Centro di accoglienza Padre Nostro fondato da don Pino Puglisi, Maurizio Artale, ha denunciato il rischio chiusura di 20 centri che impiegano 13 dipendenti e danno servizi ai bambini, alle famiglie, agli anziani e coinvolgono i detenuti che scontano la pena con i servizi sociali. Il presidente nazionale della Uisp Tiziano Pesce denuncia come per riscaldare l’acqua delle piscine si paghi anche il 400% in più. “Le associazioni e le società sportive - afferma Pesce - sono allo stremo. Anche un bocciodromo, che ha bisogno di essere illuminato e riscaldato perché frequentato da persone spesso anziane o fragili, rappresenta per molti centri piccoli e grandi un presidio di relazioni e di vita da non abbandonare”. L’aumento non tocca solo i costi di energia e gas, ma anche trasporti, personale e materiali. I mezzi della Croce Verde di Torino percorrono un milione di chilometri all’anno per soccorrere chi sta male, assistere malati, aiutare persone con disabilità. Le convenzioni - “Su un bilancio di sei milioni di euro - racconta Mario Moiso, commercialista, volontario e presidente dell’organo di controllo di Anpas Nazionale - abbiamo nel 2022 un aumento dei costi di 300.000 euro. Quelli di carburante sono molti 65.000 euro, ma non sono gli unici. Tutto grava sulle nostre casse: materiali sanitari, abbigliamento, energia elettrica, pulizia e disinfezione delle sedi e dei mezzi, manutenzione. Resistiamo perché siamo una struttura grande, ma le associazioni più piccole rischiano di chiudere. Le convenzioni con gli enti pubblici e le aziende sanitarie funzionano ad acconto basato sui costi dell’ultimo o penultimo consuntivo, ma tutti stanno pagando energia, benzina e stipendi a prezzi attuali. Il Terzo settore sta facendo da banca per l’ente pubblico e corre il rischio di trovarlo non pronto a gestire questa situazione”. Gli allarmi si stanno moltiplicando e stanno arrivando da tutte le realtà che gestiscono servizi sanitari, sociosanitari e di protezione civile come Anpas, Misericordie e Croce Rossa e dai Centri di servizio per il volontariato. “Dobbiamo renderci conto - aggiunge Moiso - che in Italia un pezzo importante di sistema sanitario soprattutto al Nord e al Centro si basa sul Terzo settore. Alcune aziende sanitarie sono più attente e considerano già qualche incremento, ma serve più attenzione”. La crisi tocca un settore che conta più di 300.000 organizzazioni, impiega 850.000 dipendenti e mobilita sei milioni di volontari. Provvedimenti - “L’impatto - spiega il direttore del Forum nazionale del Terzo settore Maurizio Mumolo - si rovescia su tutti: sia gli enti di natura associativa sia imprenditoriali. In alcuni settori produce effetti più gravi, in altri meno, ma è un problema serio perché i servizi svolti dal Terzo settore non hanno le caratteristiche del mondo delle imprese, dal momento che non ci sono clienti su cui scaricare le spese che aumentano”. Fra le misure che il governo ha iniziato ad adottare per fronteggiare la crisi dei costi energetici il Terzo settore non è compreso. “Sono rivolte alle famiglie in difficoltà e alle imprese energivore - afferma la portavoce del Forum Vanessa Pallucchi -, ma è necessario agire subito per estenderle al non profit. Serve un provvedimento ad hoc, perché la misura dello sgravio fiscale per il mondo associativo che non svolge attività commerciale ha poco senso. Va individuato un fondo dedicato a cui poter attingere”. “Le norme- conclude Degani - non possono essere fatte solo per le imprese. Una proposta potrebbe essere anche un ragionamento analogo allo sgravio fiscale, con la creazione di un credito di imposta che non si giochi sul fisco, ma sui contributi previdenziali dei lavoratori. Questo per garantire i livelli essenziali di assistenza ed evitare che ci siano altri costi a carico delle famiglie che già vivono la crisi sulla loro pelle”. Software di sorveglianza contro la pedofilia online: privacy a rischio in Europa di Stefano Bocconetti Il Manifesto, 16 settembre 2022 Il progetto prevede che qualsiasi cosa messa in rete sia “scansionata”, controllata. Sorvegliata. Tutto ma proprio tutto-tutto: messaggi, email, foto, filmati, file audio. Sono tanti i capitoli della più brutta storia di sorveglianza. Che ci riguarda da vicino. C’è un paragrafo con due piccole storie, che arrivano dall’altra parte dell’Oceano ma che sembrano solo la punta d’un iceberg. Ci sono le norme che solerti funzionari di Bruxelles mettono sorprendentemente al primo punto degli impegni post feriali del parlamento. Poi uno scontro - duro - fra i socialisti del vecchio continente, dal quale i loro “colleghi” italiani si tengono alla larga. Ed ancora, una campagna di lobbyng che arriva anche questa dagli Stati Uniti, quantomeno sospetta. Tanti capitoli, allora, che hanno però un unico finale. Meglio, un unico obiettivo: il più serio, il più pericoloso tentativo di introdurre la sorveglianza di massa in Europa. Introdurla qui, per poi esportarla magari in altre parti del mondo. Conviene andare per ordine, allora. Da tempo, da anni, la Commissione, su spinta soprattutto della commissaria per gli affari interni, la socialdemocratica svedese Yilva Johansson, sta provando a scrivere una serie di misure per combattere la pedofilia in rete. Un complesso di norme che tutti chiamano Csam, Child Sexual Abuse Material. Ne sono state pensate e scritte diverse versioni, tutte sempre alla fine ritirate, perché palesemente in contrasto con tutte le leggi europee sul diritto alla privacy. Poco prima che iniziasse quest’estate però la Johansson ha presentato l’ultima versione, quella definitiva per il “governo” dell’Europa. Uguale, sostanzialmente uguale a tutte le altre. Al punto che l’Electronic Frontier Foundation, la più rilevante organizzazioni mondiale per i diritti digitali, che pesa sempre col bilancino le parole dei suoi comunicati, ha scritto che “siamo di fonte ad una proposta terribile”. Perché il progetto (da pochi giorni si può leggere anche in italiano) prevede che qualsiasi cosa messa in rete sia “scansionata”, controllata. Sorvegliata. Tutto ma proprio tutto-tutto: messaggi, email, foto, filmati, file audio. Tutto. Comprese le comunicazioni criptate, quelle che usano il sistema end-to-end, il contenuto delle quali non è leggibile al di fuori delle persone che si scambiano i messaggi. Sarebbe la “scansione dal lato client”, la sorveglianza cioè a partire dai telefonini di chi scrive. E come suggeriscono alcuni fra i più autorevoli esperti del settore questo farà saltare ogni protezione. Oltretutto, esponendo i minori a qualsiasi “incursione” sui loro dispositivi. Tutto, dunque. Vogliono controllare tutto, “a strascico”. Le modifiche rispetto alle prime versioni, sono solo di facciata, “estetiche”, per usare sempre la definizione delle associazioni per i diritti digitali. Perché è vero che nel testo approvato dalla Commissione si dice che il controllo su tutto il traffico in rete dovrebbe - condizionale - avvenire su richiesta di un giudice, che era la prima, minima richiesta della società civile negli anni scorsi. Ma subito dopo si aggiunge che, se chi gestisce le connessioni non sarà in grado di assicurare il blocco totale dei file “sospetti”, allora si ricorrerà alle misure estreme. Alcune delle quali nemmeno immaginate dagli scrittori cyberpunk. Sì, perché le norme ipotizzano anche strumenti di “rilevamento del grooming”. Si dice insomma di voler provare a prevenire l’adescamento in rete, intervenendo quando si scoprono “i primi approcci dei pedofili alle vittime”. E questo lo si realizzerà scansionando qualsiasi file di testo, qualsiasi cosa scritta. Cosa che non potrebbe fare neanche un esercito sterminato di moderatori e quindi tutto sarà affidato all’intelligenza artificiale. Che poi segnalerà quel che ritiene sconveniente alle autorità. Utilizzando cosa? Quali software, quali strumenti, col controllo di chi? E qui si arriva alle pressioni - alle strane pressioni - che arrivano dagli Stati Uniti. Protagonista di questo capitolo è Ashton Kutcher, un ex attore - di film di serie b americani, il più famoso da quelle parti si chiama “Dude, where’s my car” -, ex marito di Deni Moore, che dopo la non brillantissima carriera cinematografica si è buttato nel settore della tecnologia di sorveglianza. Associando il suo lavoro a quello di un’organizzazione no profit di tutela dei minori, ha dato vita ad una società, la Safer, proprietaria di un software in grado - scrive lui stesso - di “diventare il più importante strumento di lotta al Csam al mondo”. Ed in questa duplice veste, di rappresentante di un’organizzazione di beneficienza e di titolare di una società che vende software, Ashton Kutcher ha incontrato diverse volte Yilva Johansson. Dove le ha presentato e magnificato il suo software di spionaggio. Tutto documentato, grazie al lavoro di controinformazione di netzpolitik.org, che dopo una lunga battaglia legale è riuscita a farsi consegnare i verbali degli incontri. Senza contare che l’ex attore, proprio due anni fa, all’inizio della discussione su queste norme, è riuscito ad incontrare nientemeno che la Von der Leyen. Che del resto ha un orecchio addestrato a questi temi, visto che tredici anni fa, quando era semplicemente ministro tedesco per la famiglia, tentò di far approvare una legge simile nel suo paese. Proposta ben presto abbandonata, travolta da un rifiuto che coinvolse addirittura pezzi del suo partito. Sarà il software targato Safer quello che l’Europa acquisterà per rendere operativo il progetto? Non si sa. Per ora, oltre all’entusiasmo di Ashton Kutcher per le nuove norme, c’è solo la creazione dell’ennesimo “centro unico europeo” che aiuterà i soggetti coinvolti a realizzare quanto previsto. E deciderà cosa fare. Quali strumenti, quale software far utilizzare. Restano da raccontare gli altri capitoli di questa brutta storia. Uno è in qualche modo simbolico. Perché l’uscita sul sito dell’Unione europea del testo della Commissione è arrivato - strana coincidenza - assieme alla pubblicazione, sul New York Times, della disavventura capitata a due padri, uno di san Francisco, uno di Houston. Entrambi, durante la pandemia, avevano i figli che soffrivano di piccoli disturbi ai genitali. In quel periodo di lockdown, senza possibilità di visitarli di persona, i medici chiesero ai genitori di spedire via email le foto dei figli. In modo da poter eseguire una diagnosi a distanza. Bene, gli algoritmi di Google segnalarono quelle immagini come un probabile scambio fra pedofili e inviarono l’incartamento ai dipartimenti di polizia locali. Ci furono indagini, indagini invasive, ma alla fine tutto si risolse. S’è risolto per i due padri dal punto di vista giudiziario ma non per Google che, immediatamente, cancellò tutto l’archivio di quelle due persone e sospese il loro indirizzo email. Con pesanti conseguenze anche sul loro lavoro. E per il giornale americano, quei due padri sarebbero solo una minima parte dei casi “sbagliati” segnalati da Google. Una coincidenza temporale fra il Csam e lo scandalo americano, allora, niente di più. Che risalta però, perché sempre in quei giorni la Johansson, subissata da critiche, ha provato a difendere il suo lavoro in un lungo blog. Dove scrive che gli strumenti di “scanner” ipotizzati dall’Europa hanno “un tasso di accuratezza attorno al 90 per cento”. Cifra improbabile, visto che uno studio - l’unico esistente - ha rivelato che su tutte le segnalazioni fatte autonomamente da FaceBook sui suoi utenti americani, quasi un 80% era assolutamente infondato. In ogni caso, quel dieci per cento di errore significherebbe - calcolando il volume di traffico on line in Europa - che cinquanta, sessanta milioni di persone finirebbero sotto inchiesto per pedofilia. Per errore. È tutto fatto, allora, si va verso quest’Europa panopticon? Si va verso questa schedatura di massa che potrebbe essere utilizzata per qualsiasi scopo? Il primo passo l’hanno compiuto. Perché - con una strana fretta, un po’ immotivata - i funzionari di Bruxelles hanno già inserito l’iter delle norme al primo posto fra i prossimi appuntamenti europei. Non è detto però che la strada non sia tutta in discesa per loro. Da tempo, il deputato verde-pirata Patrick Breyer, s’è fatto promotore della campagna #chatcontrol per provare a stoppare il provvedimento. Ma soprattutto è accaduto che, sempre all’inizio dei primi caldi, si siano riuniti a congresso i socialdemocratici di Berlino. Un congresso cittadino, di quelli ai quali la stampa non dedica molta attenzione. Lì, però qualcuno dei Jusos - l’organizzazione giovanile - si è accorto di cosa si stava preparando. Ha denunciato il progetto, ha chiesto che i ministri socialdemocratici provassero a bloccare tutto. L’intera Spd ha deciso così di passare all’opposizione europea del Csam. E da lì, è cominciata una cascata che è arrivata a coinvolgere addirittura il partito liberale di Berlino e - cosa assai più significativa - il responsabile tedesco della protezione dei dati: “Farò del mio meglio perché questi sistemi non siano implementati”. Qualcosa fa capire che, forse, si arriverà ad uno scontro nell’aula di Bruxelles. Che comunque dovrà dire l’ultima parola sul progetto, anche se è accaduto rarissimamente che il Parlamento respinga un testo varato dalla Commissione. In ogni caso, dall’Italia tutto tace: né un commento, né un tweet, né una parola sull’argomento. E di parole invece ne andrebbero spese tante. Perché oltre a norme liberticide, le più liberticide - “che rinnegherebbero un passato fatto invece di leggi avanzate”, scrive ancora l’Eff che sembra avere nostalgia di un periodo però definitivamente finito - conta anche la filosofia che ispira il Csam. Ugualmente preoccupante. Perché rivela che davanti ad un dramma come quello della pedofilia che più di altri richiederebbe un mix di interventi, fatto di sostegni, studi, consulenze, conoscenze, misure nelle scuole e nei quartieri, perché davanti a tutto quello che sarebbe necessario ci si rifugia in scelte tecnologiche. Che sembrano le più facili. Ci si affida all’intelligenza artificiale. Ai software. Come nelle peggiori distopie. Stati Uniti. Era condannato all’ergastolo, un podcast fa riaprire il processo di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 16 settembre 2022 Adnan Syed aveva 17 anni quando fu condannato all’ergastolo per la morte della sua ex fidanzata, Hae Min Lee, il cui corpo fu trovato sepolto nei boschi nei dintorni di Baltimora nel 1999. Ora l’uomo dopo ben 20 anni di carcere potrà ottenere un nuovo processo. Mercoledì scorso e stato annunciato che i pubblici ministeri federali stanno riesaminando la condanna per omicidio premeditato, rapimento, rapina e falsa dichiarazione. La decisione scaturisce non da una nuova indagine della polizia, la risoluzione dei cosiddetti cold case, ma dai nuovi elementi raccolti da un podcast di successo, prodotto dalla Serial, 12 episodi scaricati 175 milioni di volte dagli utenti. Il podcast ha suggerito prove che corroborano il racconto dell’accusato il quale ha sempre sostenuto l’esistenza di una testimone a suo discarico, Asia McClain, che ha parlato della presenza di Syed in una biblioteca al momento dell’omicidio. Il procuratore di Baltimora Marilyn Mosby ha quindi affermato che una nuova indagine ora punta su altri due possibili sospetti. E ha chiesto al tribunale di respingere la condanna istruendo un nuovo procedimento giudiziario. Secondo il procuratore “dopo un’inchiesta durata quasi un anno che ha esaminato i fatti di questo caso, Syed merita un nuovo processo in cui sia adeguatamente rappresentato e possano essere presentate le ultime prove. Come amministratori del tribunale, siamo obbligati a mantenere la fiducia nell’integrità delle condanne e fare la nostra parte per correggere quando questo standard è stato compreso”. È dunque la causa stessa ha nutrire ora i dubbi più forti. Entrambi i nuovi potenziali sospetti, infatti, sarebbero noti alla polizia già dal 1999, così come è emerso che uno dei due, dei quali non è stato rivelato il nome, avrebbe minacciato prima dell’assassinio di far sparire Lee. All’epoca però i pm non informarono il team di difesa di Adnan circa le prove potenzialmente a discarico (come il fatto che l’auto del condannato fu trovata dietro la casa di uno dei nuovi sospetti), e ciò rappresentava una possibile violazione del processo. A tutto questo si aggiunge il fatto che già nel 2016 la giustizia aveva concesso all’accusato un nuovo processo sulla base di incongruenze che apparivano evidenti, una decisione controversa (con quattro giudici contro tre) che però fu ribaltata tre anni dopo dalla corte di appello di Baltimora che allo stesso tempo riconobbe una carenza del team legale della difesa. Gli avvocati annunciarono dunque un ricorso ai tribunali federali come poi e avvenuto. Il nuovo legale di Syed, Erica Suter, ha dichiarato in un comunicato stampa che: “data la sbalorditiva mancanza di prove affidabili che coinvolgano il signor Syed, insieme a crescenti prove che indicano altri sospetti, questa ingiusta condanna non può reggere. Il signor Syed è grato che queste informazioni abbiano finalmente visto la luce del giorno e non vede l’ora che arrivi il suo giorno in tribunale”. Addirittura per l’ex procuratore federale Neama Rahmani, capo del West Coast Trial Lawyers, “non c’è quasi nessuna possibilità che Syed affronti un altro processo considerando da quanto tempo è in prigione e la crescente eventualità che sia innocente”. Rimane il fatto che la vicenda processuale è stata modificata da un lavoro giornalistico e soprattutto da un podcast, e non è la prima volta. In Australia nei primi anni 80, la casalinga di Sydney e madre di due figli Lynette Dawson improvvisamente scomparve. Ora 37 anni dopo gli investigatori potrebbero finalmente essere più vicini a scoprire la verità. Tutto grazie al lavoro audio del 2018 The Teacher’s Pet che ha esaminato il caso in modo dettagliato e ha scoperto nuove prove. Nello stesso anno, è stata la volta di un altro podcast statunitense, In the Dark, a sollevare domande su una condanna per omicidio. Curtis Flowers, afroamericano del Mississippi fu processato sei volte per lo stesso crimine dallo stesso procuratore bianco. Ne emerse un contesto di pregiudizi razziali e false testimonianze. Marocco. Due anni di carcere a una donna per un post sui versetti coranici di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 16 settembre 2022 “La Corte d’Appello di Khouribga, in Marocco, ha confermato la condanna a due anni di carcere per Fatima Karim, accusata di offese alla religione islamica per aver pubblicato sui social un post in cui dava una versione non letterale dei versetti coranici. “È un verdetto durissimo”, ha lamentato l’avvocato difensore, Me Aadi, aggiungendo che il ricorso in Cassazione è “ancora allo studio”. In detenzione da metà luglio, Fatima Karim, 39 anni, era stata condannata in primo grado, il 15 agosto scorso, dal tribunale di Oued Zem, a 150 km da Casablanca. Nei suoi post la blogger ha interpretato in senso moderno il testo coranico in rifermento alla situazione sociale odierna che vive il suo paese. Il suo approccio è anti fondamentalista, soprattutto per le questioni riguardanti il ruolo della donna nella società. Davanti ai giudici, la donna ha affermato il suo diritto alla libertà di espressione, garantito dalla Costituzione marocchina e si è scusata pubblicamente con “chiunque si fosse sentito offeso” dalle sue pubblicazioni, assicurando di non aver mai avuto intenzione di minare l’Islam, la religione di Stato in Marocco. L’articolo 267-5 del codice penale marocchino prevede dai sei mesi ai due anni di carcere per “chiunque attenti alla religione musulmana”. La pena può essere aumentata a cinque anni di reclusione se il reato è commesso in pubblico - “anche per via telematica”. I difensori dei diritti umani denunciano questo testo di legge che ostacola la libertà di espressione e la cui formulazione “non specifica concretamente i fatti che potrebbero costituire un attacco”. Nel giugno 2021 una donna italo-marocchina è stata condannata a tre anni e mezzo di carcere, anche per “aggressione alla religione musulmana” dopo aver postato su Facebook frasi satiriche imitando versetti del Corano. La giovane donna è stata rilasciata poco dopo, la sua condanna è stata ridotta in appello a due mesi di reclusione con sospensione della pena, a seguito di una campagna di protesta dei difensori dei diritti umani.