Allarghiamo gli affetti ristretti dal carcere - Le proposte del Volontariato a cura della Conferenza Nazionale Volontariato Giustizia Ristretti Orizzonti, 15 settembre 2022 Permettere alle persone detenute di salvare i loro affetti è importante sempre: lo è nella fase iniziale della carcerazione, che è uno dei momenti di particolare fragilità, in cui il rischio suicidi è decisamente alto, lo è poi in quella fase della detenzione in cui la persona detenuta vive nell’attesa di poter accedere ai permessi, e ricostruirsi davvero i legami famigliari e le relazioni sul territorio. Ed è anche un investimento sulla sicurezza, perché solo mantenendo saldi i legami dei detenuti con i loro cari, genitori, figli, coniugi, compagni e compagne, sarà possibile immaginare un reinserimento nella società al termine della pena*. L’Ordinamento penitenziario del 1975 è un Ordinamento per molti versi ancora attuale, spesso purtroppo non rispettato, ma forse la parte più invecchiata è proprio quella che riguarda gli affetti. E proprio quella parte non è stata però toccata dai recenti interventi di riforma dell’Ordinamento penitenziario. È vero che nel percorso di reinserimento delle persone detenute sono previste tappe importanti come i permessi premio e le misure di comunità, fondamentali proprio per ricostruire prima di tutto i legami famigliari e le relazioni, ma è altrettanto vero che prima di accedere a questi, che ancora sono benefici e non diritti, le persone spesso trascorrono anni in carcere e dovrebbero cercare di salvare i loro affetti con sole sei ore di colloqui al mese e dieci minuti di telefonata a settimana (questo succedeva prima del Covid, e non deve succedere che si torni a quel regime). Ecco perché riteniamo che l’Ordinamento andava cambiato proprio su questi temi, ma non lo si è ancora fatto. Se si vuole davvero tentare di prevenire almeno qualche suicidio, si deve pensare prima di qualsiasi altra cosa a rafforzare in tutti i modi i rapporti delle persone detenute con le famiglie, e l’unica strada percorribile è, come ha proposto con forza il cappellano del carcere di Busto Arsizio, concedere a TUTTE LE PERSONE DETENUTE di disporre di un cellulare in cella e di poter chiamare liberamente i propri cari. Le forme di controllo ci sono, oggi niente è più controllabile di un telefono cellulare. Quello che è importante è che il Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria provveda intanto a inviare una nuova circolare, totalmente dedicata a promuovere in tutte le carceri condizioni più favorevoli a mantenere e curare i rapporti delle persone detenute con le loro famiglie: * Allargare al massimo le possibilità di telefonare e fare le videochiamate, considerando l’emergenza suicidi alla stregua dell’emergenza Covid. * Dare la possibilità di aggiungere alle sei ore di colloqui previste ogni mese alcuni colloqui “lunghi” nel corso dell’anno per pranzare con i propri cari; consentire sempre, per chi fa pochi colloqui, di cumulare più ore; ampliare la possibilità di fare colloqui il sabato e la domenica, e la loro durata. * Migliorare i locali adibiti ai colloqui, e in particolare all’attesa dei colloqui, anche venendo incontro alle esigenze che possono avere i famigliari anziani e i bambini, oggi costretti spesso a restare ore in attesa senza un riparo (servirebbero strutture provviste di servizi igienici); attivare le aree verdi per i colloqui, dove esistono spazi esterni utilizzabili. * Autorizzare tutti i colloqui con le “terze persone”, che permettono alle persone detenute di curare le relazioni anche in vista di un futuro reinserimento. * Autorizzare colloqui via Internet per i detenuti (anche quelli dell’Alta Sicurezza), utilizzando Skype e le videochiamate, introdotte causa Covid, che oggi costituiscono uno strumento fondamentale per salvare i rapporti famigliari. * Rendere più chiare le regole che riguardano il rapporto dei famigliari con la persona detenuta, uniformando per esempio le liste di quello che è consentito spedire o consegnare a colloquio, che dovrebbero essere più ampie possibile, raddoppiare il peso consentito per i pacchi da spedire alle persone detenute. * Destinare, come già avviene in Inghilterra, un fondo al sostegno alle famiglie indigenti, pagando loro le spese per un determinato numero di colloqui all’anno (in Inghilterra sono 26), attingendo magari alla Cassa delle Ammende, una delle finalità della quale è proprio il sostegno alle famiglie. * Avere una maggiore trasparenza sui trasferimenti non richiesti dalle persone detenute, che dovrebbero essere ridotti al minimo, e rispettare i principi della vicinanza alle famiglie e della possibilità di costruire reali percorsi di risocializzazione sul territorio (tenendo conto del fatto che la recente riforma dell’Ordinamento, all’Art. 14 dice “I detenuti e gli internati hanno diritto di essere assegnati a un istituto quanto più vicino possibile alla stabile dimora della famiglia”). Un capitolo a parte merita il tema del rapporto dei genitori detenuti con i figli, che in Italia vede già impegnate molte realtà dell’associazionismo, ma richiede un ulteriore investimento di risorse sia da parte del DAP, sia da parte degli Enti locali, che delle associazioni di volontariato. Quelle che seguono sono invece alcune proposte concrete per rendere il carcere “più umano”, che RICHIEDONO UN CAMBIAMENTE DELLA LEGGE ATTUALE, ma che sono fondamentali per la cura degli affetti delle persone detenute: * “Liberalizzare” stabilmente le telefonate per tutti i detenuti, come avviene in molti Paesi già oggi, sia per quel che riguarda la durata che i numeri da chiamare. Telefonare più liberamente ai propri cari potrebbe anche costituire un argine all’aggressività determinata dalle condizioni di detenzione e una forma di prevenzione dei suicidi. * Consentire i colloqui riservati di almeno 24 ore ogni mese, da trascorrere con la famiglia senza il controllo visivo. Consentire inoltre che i colloqui ordinari siano cumulabili per chi non fa colloquio con i familiari almeno ogni due mesi. * Aumentare le ore dei colloqui ordinari, dalle sei ore attuali, ad almeno dodici ore mensili, per rinsaldare le relazioni, perché alla base del reinserimento nella società c’è prima di tutto il rientro in famiglia. * Ampliare la durata dei permessi premio, attualmente previsti in un massimo di 45 giorni annui, in modo da garantire sia l’effettivo avvio del percorso di reinserimento della persona detenuta nella società sia una sua maggiore e più consapevole assunzione di responsabilità, con indubbie ripercussioni positive sulla sicurezza sociale * Ampliare la possibilità di usufruire dei permessi ex art. 30 O.P. superando l’accezione negativa dell’inciso “evento familiare di particolare gravità”, in particolare, riformulando l’articolo in questione al fine di rendere non occasionali le pronunce della Magistratura che già ora non identifica il concetto di gravità solo con riguardo ad eventi di carattere luttuoso, o comunque negativo, ma lo associa anche ad eventi rilevanti ai fini del percorso di reinserimento della persona detenuta. Mantenere contatti più stretti con i propri cari quando, nelle condizioni di privazione della libertà, si è più a rischio e il sostegno familiare potrebbe evitare azioni dalle conseguenze drammatiche, o poter essere parte attiva e dare sostegno o conforto a un familiare che stia male, potrebbe davvero costituire la prima e più profonda forma di umanizzazione delle carceri. *La nostra esperienza è confermata anche dallo studio statistico a cura di Daniele Terlizzese e Giovanni Mastrobuoni in “Rehabilitating Rehabilitation: Prison Conditions and Recidivism”, Einaudi Institute for Economics and Finance e Università di Essex (2014), sulle cause di riduzione della recidiva nel carcere di Bollate. Una delle conclusioni dello studio dimostra che la recidiva certamente si abbatte nel caso di detenuti che hanno relazioni familiari. Relazioni che favoriscono anche condizioni di vita più dignitose e che sembrano in sé sufficienti per attivare la riabilitazione. Renoldi: “Presto una Circolare per consentire più telefonate e videochiamate per i detenuti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 settembre 2022 Durante il programma Radio Carcere condotto da Riccardo Arena, il Capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi ha annunciato che sta per diramare una circolare che porti a consentire - anche con l’attuale quadro regolamentativo - un maggior numero di telefonate e videochiamate per i detenuti. Lo ha detto, anche in risposta al lungo sciopero della fame ( interrotto dopo quasi un mese) di Rita Bernardini dell’associazione radicale Nessuno Tocchi Caino. “È un importante segnale che cogliamo in positivo - scrive pubblicamente l’esponente radicale -, una volontà che si manifesta da parte di un’istituzione in un momento drammatico per le nostre carceri, per i detenuti e le detenute e per tutta la comunità penitenziaria”. E osserva che solo quest’anno ancora non giunto alla conclusione ci sono stati “59 suicidi, 59 persone, 59 vite spezzate con tutto il carico di disperazione, rappresentano la parte più evidente di un sistema dell’esecuzione penale che da decenni non riesce a corrispondere al dettato costituzionale italiano e convenzionale europeo. C’è ancora molto da fare, sicuramente ciò che è più importante e vitale”. Anche l’associazione Antigone accoglie con favore l’annuncio del capo del Dap, sottolineando che da tempo chiede che ciò avvenga. Infatti, a inizio agosto, a fronte del numero drammatico dei suicidi, Antigone ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo proprio che si andasse oltre il limite dei 10 minuti a settimana previsti dalle attuali normative. Sempre secondo l’associazione, si tratta però una vittoria non definitiva. “Continuiamo infatti a chiedere - chiosa Antigone - che oltre la buona volontà del Dap la politica si faccia carico della questione modificando il regolamento penitenziario del 2000 e dando così, a questa decisione, un quadro regolamentativo ampio e definitivo”. Si parte dal presupposto che in un momento di sconforto, sentire una voce familiare, può aiutare la persona a desistere dall’intento suicidario. I 10 minuti a settimana previsti attualmente non hanno più nessun fondamento, né di carattere tecnologico, né economico, né securitario. Secondo Patrizio Gonnella, presidente di Antigone, “cambiare quel regolamento non comporta alcun atto legislativo e il Governo potrebbe farlo anche in questa fase transitoria”. Non è un caso che dell’importanza dell’affettività per i detenuti ne parla anche la relazione finale della Commissione ispettiva del Dap, chiamata ad indagare sulle ragioni delle rivolte che scoppiarono nelle carceri nel marzo 2020. Come ha già dato notizia Il Dubbio, secondo questa relazione, ad innescare le proteste non fu infatti una cabina di regia criminale. Il motivo va invece ricercato nell’insoddisfazione della popolazione detenuta per la poco dignitosa qualità della vita penitenziaria e, soprattutto, nella sospensione dei colloqui in presenza con i familiari. “All’indomani di quelle chiusure - ha sottolineato Patrizio Gonnella - la nostra associazione chiese che a tutti i detenuti fossero concesse chiamate e videochiamate in più rispetto a quanto previsto dai regolamenti. Quella richiesta fu accolta e nel giro di pochi giorni nelle carceri di tutto il paese arrivarono oltre 1.000 tra cellulari e tablet, senza che ci fossero problemi dal punto di vista organizzativo e della sicurezza. Questa iniziativa servì a riportare la calma negli istituti di pena e consentì ai detenuti di mantenere il rapporto con i propri affetti anche in quel periodo di chiusure parziali o totali”. Oggi il dramma che sta attraversando il carcere non è il Covid ma sono i suicidi. La risposta, oggi come allora, passa anche dalla possibile vicinanza affettiva. “Oggi come allora è urgente che il governo prenda provvedimenti e si liberalizzino le telefonate” ha osservato Patrizio Gonnella il mese scorso, auspicando che a settembre, alla ripresa dei lavori parlamentari, Deputati e Senatori osservino un minuto di silenzio per commemorare tutte le persone che si sono tolte la vita mentre erano sotto la custodia dello Stato. Ma siamo a metà settembre e ciò non è avvenuto. Ora si attende la circolare, almeno per capire in che misura il Dap voglia consentire le telefonate e videochiamate in carcere. Dalle videochiamate alle visite. Come funziona nel resto d’Europa Se da noi, com’è detto, i detenuti possono telefonare ai propri cari solo 10 minuti a settimana, negli altri Paesi europei come viene gestito il diritto all’affettività? Bisogna partire dal presupposto che vigono i principi sovranazionali ai quali teoricamente si devono adeguare le singole normative di ogni Stato. Molti paesi europei l’hanno fatto, mentre l’Italia è ancora indietro. La Raccomandazione R ( 2006) 2 del Comitato dei Ministri agli Stati membri sulle Regole penitenziarie europee, adottate dal Consiglio dei Ministri l’ 11 gennaio 2006, al punto 24 prescrive: “I detenuti devono essere autorizzati a comunicare il più frequentemente possibile - per lettera, telefono, o altri mezzi di comunicazione - con la famiglia, con terze persone e con i rappresentanti di organismi esterni, e a ricevere visite da dette persone” e al punto 4: “Le modalità delle visite devono permettere ai detenuti di mantenere e sviluppare relazioni familiari il più possibile normali”. Il 21 dicembre 2010, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato le Regole delle Nazioni Unite per il trattamento delle donne detenute e le misure non detentive per le donne autrici di reati, note come le “Regole di Bangkok” ( a riconoscimento del ruolo determinante svolto dal Regno di Thailandia nella loro elaborazione), riconoscono il ruolo centrale di entrambi i genitori nella vita del bambino. Esse contengono previsioni specifiche che riguardano i contatti con la famiglia. In Spagna si è autorizzati a fare 5 telefonate alla settimana, senza limiti di tempo ad un massimo di 10 numeri telefonici preventivamente autorizzati. Si telefona da 2 cabine telefoniche e presso ogni sezione ci sono due cabine; l’uso di una scheda telefonica e la digitazione del numero di identificazione (NIS) dà il via libera verso i numeri di telefono autorizzati. Il Regolamento penitenziario albanese prevede otto telefonate e quattro colloqui al mese: uno dei colloqui è prolungato fino a cinque ore, per i detenuti sposati e con figli, e le visite prolungate possono essere svolte in ambienti riservati. In Inghilterra, Galles e Scozia è stabilito un piano di assistenza finanziaria per consentire alle famiglie a basso reddito di visitare i loro parenti in carcere. Sono rimborsate le spese di viaggio, pasti e pernottamento per i coniugi, partner, ascendenti, discendenti, parenti collaterali e adottivi, le persone con le quali il detenuto viveva in un rapporto consolidato immediatamente prima della detenzione e comunque le persone che hanno in via esclusiva effettuato visite al detenuto per un periodo di quattro settimane. Sono finanziate due visite ogni 28 giorni con un massimo di 26 visite in un anno. In Scozia, per ovviare alle difficoltà di relazioni familiari dei detenuti reclusi lontano dal loro luogo di origine è stato istituito un servizio di video-chiamata che consente visite-virtuali della durata di un’ora in aggiunta al numero di colloqui di cui il detenuto ha già usufruito. Rita Bernardini: “Nelle carceri violazione quotidiana dei diritti umani” di Marta Duò ilsussidiario.net, 15 settembre 2022 Aumentano i suicidi nelle carceri italiane, già 59 da inizio anno: “Detenuti abbandonati in due anni di pandemia”, è la denuncia di Rita Bernardini. Rita Bernardini, politica appartenente al Partito Radicale, dal 16 agosto ha intrapreso uno sciopero della fame per lottare contro il fenomeno dei suicidi in carcere e in generale sulla situazione della Giustizia in Italia. Intervistata da Libero, parla di 59 suicidi da inizio 2022, “un numero tragico che regala al nostro Paese il primato europeo in negativo sulle condizioni di vita di coloro che stanno espiando una pena. In Italia le morti per suicidio rappresentano il 38,2% dei decessi in carcere, mentre la media europea è del 26%”. E definisce le carceri italiane “vere e proprie fabbriche di suicidi”. Dall’inizio del suo sciopero della fame, racconta di aver “perso sei chili e mi nutro con tre cappuccini al giorno, così aveva sempre fatto Marco Pannella per cercare di resistere il più a lungo possibile nello sciopero”. Tra le pagine di Libero, ribadisce che “il problema però non è, in questo momento, come io mi senta, ma quale imbarazzante silenzio sia calato completamente su qualsiasi tema che riguardi la giustizia in questa campagna elettorale”. Citando ancora Marco Pannella, Rita Bernardini afferma che “le carceri sono l’anello finale di una giustizia che non funziona”. Rita Bernardini spiega a Libero che “sono ormai oltre 55mila i detenuti nelle nostre carceri. Per avere una capacità di accoglienza dignitosa e legale non dovrebbero essere più di 40mila”. E il sovraffollamento “è un vero problema, perché, oltretutto, costringiamo i servitori dello Stato, la polizia penitenziaria e chiunque lavori nelle case di reclusione, a violare ogni giorno i diritti umani fondamentali”. Rita Bernardini sull’esplosione di suicidi nelle carceri aggiunge che “veniamo da due anni di pandemia in cui i detenuti sono stati abbandonati a loro stessi in ogni forma di socialità: nessun colloquio con i familiari, nessuna attività rieducativa come scuola e lavoro all’interno degli istituti penitenziari”. In aggiunta, “in carcere troviamo la marginalità sociale, quella vera e profonda tra cui i poveri e i tossicodipendenti che, non potendo avere misure alternative, spesso perché senza una dimora, cadono in una disperazione senza fine rendendo più facile farla finita”. A cui si aggiunse anche la ricaduta “sulle spalle di una figura professionale come l’agente di polizia penitenziaria presente in carcere h24, mentre tutte le altre professionalità come direttori, educatori, assistenti sociali, psicologi e mediatori culturali sono incredibilmente carenti con gli organici ridotti al lumicino”. Don Gino Rigoldi: “Carceri minorili senza più posti. Ma la soluzione non è farne altri” di Alessandro Nidi Corriere della Sera, 15 settembre 2022 “Per la prima volta in cinquant’anni non c’è neanche un posto libero nelle carceri minorili di tutta Italia. Sento ventilare da qualcuno l’idea di costruire nuovi penitenziari o di edificare comunità ministeriali per i ragazzi in aggravamento. Entrambe le ipotesi sono quanto di peggio potremmo pensare”. Ad esprimersi è uno che se ne intende: don Gino Rigoldi, 82 anni, cappellano storico del Beccaria, anima di Comunità Nuova, partigiano dei giovani, croce e delizia delle istituzioni con cui si interfaccia e non molla fino a che non ha ottenuto “quello di cui c’è bisogno”. Don Gino, che cosa bisognerebbe fare? “Essere un po’ geniali, farsi venire delle idee. Innanzitutto si potrebbero inventare dei luoghi di interregno che somigliano a comunità contenitive e che oggi non ci sono. Quando un giovane viene arrestato, ora viene rimandato a casa in attesa della decisione del giudice, se non spedito nei centri di prima accoglienza di carceri lontane. Né una soluzione né l’altra è adatta. Si potrebbero inventare dei luoghi di interregno dove impostare percorsi condivisi e su misura. Il domicilio non è abbastanza contenitivo, tiene i minori connessi con il loro mondo. Il carcere per contro li inserisce subito in una realtà punitiva e non di relazione”. Che cosa servirebbe in attesa della scelta del gip? “Quel tempo è cruciale perché segna l’inizio di un affido, bisogna giocarselo bene. I ragazzi devono essere blindati per un breve periodo, fatti riflettere su ciò che hanno fatto. Devono capire che le persone che hanno rapinato hanno diritto alla proprietà, alla dignità, alla sicurezza. Il delirio di onnipotenza adolescenziale va arginato con forza. Con loro devono esserci adulti capaci di entrare in relazione: che ascoltino le loro storie, chiedano la loro opinione, orientino il loro tempo verso attività varie e costruttive, in modo da impostare un percorso condiviso e su misura. Mandarli subito in carcere è un errore, come pure rimandarli a casa”. Bisogna accendere in loro qualche entusiasmo… “Prendiamo i tantissimi ragazzi di origine araba che abbiamo al Beccaria. Molto spesso il loro interesse è solo la religione, l’unico impegno il Ramadan. In qualche caso piace la musica, ma quella è sbocco lavorativo per pochissimi. Bisogna allora rompere il ghiaccio. Fare proposte concrete come l’esame della patente o il corso di inglese per andare a lavorare da Amazon. Fornire elementi di rottura, prospettive di carriera. Occuparli, interessarli. Dentro le carceri e le comunità dovrebbero fare formazione le associazioni di categoria, con la garanzia di assumere i meritevoli. Dobbiamo conquistarci la loro fiducia, se vogliamo che le loro conquistino la nostra”. Non facile… “Ai ragazzi interessano tre cose: percorsi brevi e pratici, persone che loro stimano e danee da guadagnare. Puntano a diventare ricchi e dal loro punto di vista, si capisce. Da bambini hanno avuto compleanni senza regali, case occupate, frigo vuoti. Per educarli a valori diversi bisogna partire dalla lotta alla miseria”. In che senso? “La strada è farsi amiche le famiglie (le mamme, i fratellini piccoli) per arrivare agli adolescenti. Con persone capaci si potrebbero creare nei palazzi presidii educativi che in meno di un anno produrrebbero miracoli. Sogno realtà come il Barrios alla Barona, ma Comune di Milano e Regione Lombardia dovrebbero offrire spazi a questo scopo. E poi tante comunità, per poter scegliere di volta in volta quella adatta: oggi sono tutte uguali, piene e senza educatori perché pochi vogliono occuparsi dei casi difficili”. Forse gli adulti devono imparare a stare con i ragazzi… “Stiamo organizzando corsi aperti a tutti, li presenteremo a Palazzo Reale. Alla mia età non ho tempo da perdere. Quando mi dicono “Che bell’incontro, che belle parole” ma poi non cambia niente, li manderei a stendere. Bisogna esercitarsi, fare palestra. I ragazzi sono un bellissimo allenamento, se si investe su di loro. Altrimenti come si crea il rapporto speciale che meritano di avere?” In “viaggio col prigioniero”, un progetto per i detenuti delle carceri italiane di Gian Piero Corso paeseitaliapress.it, 15 settembre 2022 Il progetto è proposto da Prison Fellowship Italia e patrocinato dal Ministero della Giustizia. Prende il via anche in Italia “TPJ - The Prisoner’s Journey - Il viaggio del prigioniero”, un progetto di evangelizzazione rivolto ai detenuti delle carceri italiane. Organizzato e promosso da Prison Fellowship Italia, il progetto che partirà ad ottobre, ha visto formati ottanta volontari da tutta Italia che si sono dati appuntamento nei giorni scorsi a Milano e a Salerno. “Scopo del progetto - ci racconta la dottoressa Marcella Reni, Presidente di Prison Italia - è di presentare la figura di Gesù Cristo, scoprire il suo amore per noi, vedere che tutta la sua vita è stato un mezzo per starci vicini, capire che con Lui sono morte le nostre colpe e con Lui siamo risorti liberati e pronti ad una vita nuova”. “Abbiamo formato in due incontri 80 volontari. Questa formazione è stata fatta da un team internazionale arrivato dalla Germania e dall’Inghilterra e questo progetto è stato ideato da un ex detenuto per cambiare la vita dei detenuti”. Un momento della formazione dei volontari di Prison Fellowship Italia - I volontari incontreranno i detenuti in un’aula all’interno del carcere e faranno loro conoscere la vita e le opere di Gesù attraverso il vangelo di Marco. “Questo progetto è già partito in molte altre nazioni e sta funzionando in maniera meravigliosa - continua la dottoressa Reni -, un progetto che desidera dare un sostegno spirituale ed evangelico ai detenuti e che è stato fortemente voluto anche in virtù della situazione drammatica che si sta vivendo nelle carceri attualmente”. Già 58 suicidi, dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane, un segnale non di certo positivo. “E proprio per questi alti numeri che anche il Ministero ci ha chiesto aiuto per portare sostegno nelle carceri. Il progetto ha il patrocinio del Ministero che ci apprezza per questa e per le altre attività che svolgiamo - conclude Marcella Reni -. Negli anni ci siamo distinti in queste attività di formazione del volontariato e di sostegno ai detenuti”. Marcella Reni, Presidente di Prison Fellowship Italia - Marcella Reni è un notaio di Palmi, per otto anni direttore nazionale del Rinnovamento nello Spirito, ed oggi è presidente dell’associazione “Prison Fellowship Italia Onlus”, con sede in Roma, che si occupa di detenuti, ex detenuti e delle loro famiglie, associata all’organizzazione Internazionale “Prison Fellowship International”, presente in 135 paesi nei 5 continenti. Il Csm che verrà, nella stagione delle riforme di Marcello Basilico Il Domani, 15 settembre 2022 Il Csm dovrà garantire autonomia e indipendenza dei magistrati, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la qualità delle decisioni giudiziarie in un quadro di riforme tese a ridimensionare il ruolo della funzione giurisdizionale nella società, esaltando le statistica e la produttività. C’è un autunno caldo alle porte forse non solo sui fronti energetico, economico e sociale. Nei programmi sulla giustizia dei partiti in vista del 25 settembre si leggono poche o nessuna idea sulle risorse per offrire un servizio più efficiente. Vi si trovano al contrario proposte sulla carriera dei magistrati, sul loro governo, sui limiti all’azione penale, come se fossero questi i nodi centrali. Non è una novità, purtroppo: le avvisaglie v’erano già nelle modifiche imposte da alcune forze parlamentari al progetto del ministro Cartabia per riformare l’ordinamento giudiziario. Il Consiglio Superiore della Magistratura, che per la candidata ministro Bongiorno andrebbe “demolito”, è dunque atteso da un compito difficile: garantire autonomia e indipendenza dei magistrati, l’eguaglianza dei cittadini davanti alla legge e la qualità delle decisioni giudiziarie in un quadro di riforme tese a ridimensionare il ruolo della funzione giurisdizionale nella società, esaltando le statistica e la produttività. Sulla base di quanto ha dichiarato il ministro Cartabia, entro ottobre avremo il testo definitivo delle riforme dei processi civile e penale. Spetterà al Csm calarle nella realtà degli uffici giudiziari, a cominciare dalla ricerca di assetti organizzativi adeguati, dei quali il legislatore non si è curato. L’esempio più vistoso viene dall’istituzione del tribunale in materia di persone, minorenni e famiglia e dalla soppressione del tribunale per i minori. Si va nella direzione di procedimenti affidati in materie delicatissime a giudici monocratici privi dell’ausilio, rivelatosi finora fondamentale, di componenti esperti di settore. C’è poi la questione della difficile fusione tra due culture: quella dei tribunali minorili tesa alla protezione incondizionata del minore vittima dell’abuso, e quella del giudice della famiglia, per il quale il minore è figura centrale ma terza rispetto al giudizio che ha come parti i coniugi. Muovendo dalla consapevolezza di simili criticità, il Csm dovrà definire le cornici ordinamentali e organizzative in cui opereranno i giudici di questi nuovi uffici, oltre a darsi carico del loro approccio professionale a questioni complesse e vitali per le persone. Sono aspetti fondamentali finora inesplorati dalla riforma. Il codice dell’insolvenza - Ce n’è un’altra entrata in vigore, “a costo zero”, nel cuore dell’estate. Il codice dell’insolvenza è legge dal 15 luglio e ha portato con sé novità attese, ma che potrebbero portare a un raddoppio del carico giudiziario nel settore (pensiamo all’impatto delle procedure cautelari a protezione del patrimonio dell’azienda). La legge però non si occupa delle dotazioni, degli organici e della specializzazione dei nuovi tribunali concorsuali. Toccherà al Csm provare a individuare soluzioni organizzative accettabili e al contempo segnalare con chiarezza le criticità strutturali sollevate da un intervento di portata davvero storica. A organici inalterati, le riforme processuali investono particolarmente le corti d’appello, vero collo di bottiglia nei flussi del lavoro giudiziario. L’improcedibilità dell’azione penale per la durata irragionevole del giudizio dibattimentale è l’istituto simbolo dello sforzo richiesto ai giudici di secondo grado, destinato a porre problemi irrisolvibili in uffici già oggi soffocati, soprattutto in alcune grandi sedi, da un arretrato ingestibile e costretti a operare in strutture incompatibili con condizioni di lavoro decenti. Si tratta di un ennesimo fronte su cui il Csm, quale organo deputato al governo del risorse esistenti, sarà chiamato a compiere scelte acrobatiche, in difetto d’interventi sistematici da parte dell’Amministrazione che pure quelle risorse dovrebbe adeguare nel tempo. La riforma dell’ordinamento ci consegna infine un complesso di norme che verosimilmente, stanti gli annunci della gran parte delle forze politiche, non saranno attuate. Restano però le disposizioni self executing, tra cui i nuovi illeciti disciplinari, cui il legislatore ha fatto abbondante ricorso, convinto, evidentemente, che nel timore della sanzione un magistrato produrrà più di quanto già non faccia (e deciderà in conformità all’aspettativa generale). Su questo versante credo che il Csm debba lavorare nella direzione culturale esattamente opposta. I cittadini hanno bisogno d’una magistratura coraggiosa, attenta alla qualità, prima che alla quantità, del proprio servizio e professionalmente capace di tutelare i diritti anche in quelle connotazioni che l’evoluzione della società civile e i bisogni delle persone rendono attuali, guardando pure all’assetto delle regole costituzionali e europee. Correggere i precetti disciplinari vaghi, stimolare una visione alta della funzione giudiziaria, emancipare i magistrati dalle spinte verso la subordinazione gerarchica interna all’ufficio e la soggezione passiva all’indirizzo giurisprudenziale corrente sono impegni che il Consiglio deve assumere, se davvero si vuole evitare di consegnare ai cittadini una magistratura che agisca in modo burocratico, timida coi forti e autoritaria coi deboli. La separazione delle carriere - Se dovessero concretizzarsi le proposte ora enunciate nella campagna per le elezioni politiche assisteremmo ad una riscrittura non solo di un’altra parte dell’ordinamento giudiziario, ma delle regole fondamentali su cui si regge l’assetto dei rapporti tra il giudiziario e gli altri poteri dello Stato: l’intervento sulla Costituzione per separare definitivamente le carriere di giudici e pubblici ministeri consegnerebbe le indagini ad operatori di polizia, non più ad un organo obbligato a ricercare la verità anche a favore dell’imputato; l’introduzione di criteri di priorità dettati per l’azione penale dal Parlamento eliminerebbe la garanzia dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge; la diretta responsabilità civile per l’esercizio delle funzioni giudiziarie sancirebbe la fine di una giurisdizione affidata a magistrati che agiscono senza timori né speranza, così come volevano i padri costituenti. Nell’ambito delle proprie prerogative, il prossimo Csm sarà chiamato a diffondere un messaggio culturale e istituzionale di ferma resistenza a simili progetti, per rimarcare le vere necessità del sistema giudiziario. Il che non significa tutela corporativa, poiché il modello costituzionale di magistrato è delineato a tutela non certo di suoi vuoti privilegi, ma a tutela dei diritti dei cittadini tutti. Non mancherà la consapevolezza che occorre ridare autorevolezza e tensione etica all’azione della magistratura iniziando proprio dall’azione del Csm: trasparenza totale del suo operato, vicinanza ai colleghi e dialogo con le Istituzioni, rispetto di regole chiare nella trattazione delle pratiche, esercizio di una discrezionalità mirata e motivata. E’ una ricetta che richiede disponibilità al cambiamento e credibilità da parte di chi la proponga. Il Csm recuperi autonomia rispetto al ministero della Giustizia di Gaetano Campo Il Domani, 15 settembre 2022 Dall’emergenza sanitaria all’attuazione del Pnrr, il ministero ha avuto una presenza molto forte e il nuovo Consiglio dovrà avere maggiore forza incisiva nelle necessarie occasioni di coordinamento, riprendendo con maggiore energia i propri compiti in materia di autogoverno e di organizzazione degli uffici giudiziari. Il governo della magistratura affidato dalla Costituzione al Consiglio Superiore della Magistratura vede oggi una sempre più marcata incidenza del Ministero della Giustizia, e quindi del Governo. Mi riferisco ad una serie di iniziative che hanno trovato un primo rilevante momento in occasione della legislazione per l’emergenza sanitaria dovuta alla pandemia, quando c’è voluta una sentenza della Corte Costituzionale, la n. 140 del 2021, per segnare un limite alla catena perversa che partiva dagli indirizzi governativi e, attraverso i poteri organizzativi dei capi degli uffici giudiziari, arrivava ad incidere direttamente sul processo e dunque sui diritti coinvolti. Il secondo passaggio è costituito dall’attuazione del Pnrr, quando il rapporto tra organizzazione degli uffici e ministero è divenuto sostanzialmente diretto, sovrapponendosi alle procedure tabellari e quindi partecipative, tanto in materia di organizzazione degli uffici che in funzione degli altri obiettivi del Piano. Va poi considerato che il Ministero, in questa occasione, ha operato una destinazione selettiva delle risorse, escludendo settori come la magistratura di sorveglianza e la volontaria giurisdizione legata alla tutela delle persone fragili, precedente anch’esso pericoloso perché individua settori della giurisdizione meritevoli di risorse e altri che devono arrangiarsi con quello che hanno. Va poi considerato che l’assenza della figura del dirigente amministrativo in molti uffici giudiziari accentua il rapporto diretto tra i magistrati che hanno funzioni direttive e il Ministero. In questo quadro, occorre che il Consiglio abbia una presenza più incisiva nelle necessarie occasioni di coordinamento, riprendendo con maggiore energia i propri compiti in materia di autogoverno e di organizzazione degli uffici giudiziari, in funzione di assicurare il raggiungimento di obiettivi della giurisdizione che non possono avere una connotazione esclusivamente statistico-numerica, ma che devono tenere conto, secondo la declinazione contemporanea della legittimazione democratica della giurisdizione, di standard qualitativi elevati, di promozione della tutela effettiva dei diritti che si affermano nella società e che richiedono riconoscimento nelle aule di giustizia. Il processo, nel quale i diritti trovano riconoscimento e tutela, non può essere visto come una pratica da sbrigare nel più breve tempo possibile per far quadrare i numeri, ma come laico luogo di confronto tra i diversi punti di vista che, come ci ricorda Gustavo Zagrebelsky, muove dalla consapevolezza della complessità delle cose e che, pertanto, ha bisogno di tempi adeguati all’approfondimento dei fatti e delle questioni giuridiche sottostanti. I tavoli aperti con il Ministero devono quindi tenere conto delle specifiche competenze che la Costituzione affida a questo organo e che non possono travalicare nella sfera riservata all’autogoverno. Faccio riferimento anzitutto alla revisione del Protocollo d’intesa tra Ministero, Csm e Scuola della magistratura del 22 dicembre 2021 sulla formazione dei magistrati che rivestono posizioni di responsabilità organizzativa, che dovrà essere rivisto alla luce della recente modifica dell’art. 26-bis, comma 2, d.lgs n. 26/2006. In questo senso, il Consiglio dovrà svolgere un ruolo attivo per indirizzare l’attività formativa, anche in questo ambito, secondo un modello di direttivo e semidirettivo consapevole della complessità della giurisdizione nella contemporaneità, dei diversi “mestieri” del giudice, non solo giudicante, ma anche gestore, come nel campo delle procedure concorsuali o della volontaria giurisdizione a sostegno delle persone fragili o della magistratura di sorveglianza, del crescente ruolo della giurisprudenza come fonte, con la conseguente necessità di trasparenza, condivisione e comprensibilità esterna dell’esercizio della giurisdizione. L’altro tavolo è quello legato ai trasferimenti di sede, la cosiddetta mobilità orizzontale. A causa della pandemia non si è tenuto il concorso del 2020 e quello in corso del 2021 consentirà la copertura solo parziale dei posti messi a concorso. L’ingresso di nuovi magistrati con funzioni non avverrà prima del 2024 avanzato. Occorrerà sviluppare una sinergia col Ministero, competente per le sedi disagiate, cui sono collegati incentivi di carattere economico, ferme al 2019. Occorrerà inoltre svolgere un ruolo di pressione per rendere efficienti gli interventi organizzativi e materiali che spettano al Ministero in base all’art. 110 della Costituzione. Soprattutto nella giustizia civile, che vede lo sviluppo del processo telematico, in molti uffici giudiziari ancora oggi il guasto di un computer è un evento in grado di bloccare l’attività giurisdizionale, per via dei tempi imprevedibili di riparazione o sostituzione di uno strumento di lavoro indispensabile. Si tratta di situazioni difficili, diffuse, che incidono sull’effettività della giurisdizione e sul raggiungimento degli obiettivi di efficienza, che richiedono un’attività di sollecitazione delle competenze che la Costituzione affida al Ministero. Infine, il Consiglio che verrà non potrà sottrarsi dall’affrontare il tema della giustizia predittiva, delle modalità della sua attuazione, cui è funzionale la banca dati che costituisce uno degli obiettivi del Pnrr. L’intelligenza artificiale (IA) non è neutra e il Consiglio dovrà essere particolarmente attento e presente in questa fase, vigilando sulla direzione e i contenuti di questo obiettivo, sulla base di principi di trasparenza, verificabilità e tracciabilità dei sistemi di IA, anche sulla base dei contenuti della proposta di regolamento comunitario pubblicata dalla commissione europea il 21 aprile 2021, che colloca tra i prodotti ad alto rischio gli strumenti di IA concernenti l’amministrazione della giustizia, per gli alti pericoli di distorsione, errore e opacità (cfr. considerando n. 40 e punto 8 dell’allegato III al progetto di regolamento). Si tratta di un rapporto articolato e complesso, che richiederà ancor più la tutela degli ambiti che la Costituzione assegna a questi organi e una grande consapevolezza in merito alle implicazioni e alle cadute che sui principi costituzionali di autonomia e indipendenza, coniugati a quello di efficienza, le future scelte delineeranno. “Basta slogan, i politici diano a noi magistrati i mezzi per lavorare” di Valentina Stella Il Dubbio, 15 settembre 2022 Il giudice Marcello Basilico e il pm Mario Palazzi: “Ecco la proposta di “Area” per il nuovo Csm”. Giulia Bongiorno, prima linea leghista sulla giustizia, ha detto: il Csm è da demolire. “Riformare la giustizia non significa riformare i magistrati e abbattere l’autogoverno”, replica il pm Mario Palazzi, candidato di “Area” ( Collegio 1- requirenti) alle voto per il Csm del 18 e 19 settembre. “Sono sconcertato dai toni di chi si propone per essere parte attiva di una prossima maggioranza. Il costituente ha disegnato il Csm con componenti togate e con quelle espresse dalla politica che devono trovare una sintesi nell’interesse della collettività. Governo e Parlamento ascolteranno questa voce? Noi saremo disponibili a dare il nostro contributo, con la leale collaborazione che abbiamo sempre offerto, ma restiamo fermi sui principi costituzionali che garantiscono gli interessi di tutti, non di una categoria”. Il centrodestra rilancia il sorteggio: “Un nuovo sistema elettorale non è la panacea di tutti i mali”, aggiunge il giudice Marcello Basilico, candidato di “Area” al Collegio 2- giudicanti. “Auspicavamo un modello senza impronte maggioritarie né collegi ampi che favoriscono gli esponenti dei gruppi organizzati. Poi sarà responsabilità degli eletti superare le logiche di appartenenza e quelle resistenze, incontrate ancora nell’attuale Csm, ad operare secondo regole predeterminate e in totale trasparenza. D’altro canto, quale organo di rilievo costituzionale cui sono affidate scelte di politica giudiziaria e non la mera esecuzione di norme organizzative, il Csm dovrà rivendicare con autorevolezza gli spazi di discrezionalità che gli competono”. Ma la magistratura ha paura che vinca il centrodestra? “Non abbiamo mai paura” dice Palazzi, “siamo abituati a ragionare su cose concrete. Ci preoccupano i programmi elettorali sul tema giustizia: si torna a calcare la mano quasi solo su quelli di un referendum clamorosamente fallito. I cittadini sono turbati dalla complessiva mediocre risposta, in termini di efficienza, alla comune domanda di giustizia: cosa intende concretamente fare il futuro legislatore? Purtroppo vedo anche l’Avvocatura assente su questo, ossessionata da separazione delle carriere, responsabilità diretta del magistrato, che nessun Paese civile conosce, da questioni di nessun impatto sistemico e dubbia costituzionalità, come l’inappellabilità delle assoluzioni. Nulla dice sul pericolo che una magistratura attaccata e resa timorosa possa significare un arretramento nella tutela dei diritti dei più deboli”. Se eletti, cosa chiederete al legislatore? “Noi dialogheremo con la politica e con il ministro con franca lealtà”, aggiunge Basilico, “il problema sarà verificare se questo dialogo troverà una corrispondenza effettiva. Purtroppo l’esperienza recente è quella di un confronto inascoltato. Per prima cosa chiederemo una svolta nel modo di affrontare la questione dell’efficacia dell’attività giudiziaria, che non passi per le modifiche dei codici di procedura. Si deve intervenire su organizzazione e dotazioni della giustizia, reclutando personale in modo mirato. Un esempio: va dato atto alla ministra di aver finalmente adottato l’Ufficio per il processo accogliendo le istanze di larga parte della magistratura; rischia però di rivelarsi inadeguato se ridimensionato nei numeri e destinato spesso a riempire le cancellerie anziché assegnato ai magistrati”. A proposito di codici: sono vicini alla definitiva emanazione i decreti attuativi del penale. Per Palazzi “riflettere su una revisione anche culturale del sistema delle sanzioni nel diritto penale è cosa buona e giusta perché la visione carcerocentrica di tutte le pene è antica. Sono rimasto scandalizzato quando ho letto che si recupera solo il 2% delle sanzioni pecuniarie comminate con sentenze definitive. Ma questa, come tante altre, è una inefficienza non imputabile alla magistratura. La giustizia è come una strada troppo trafficata: se le autovetture sono vecchie e malconce, la strada stretta e dissestata e spesso manca la benzina, possibile che sia sempre colpa del pilota se i tempi di percorrenza non sono quelli auspicati e risultano più lunghi rispetto ai Paesi dove vi sono autostrade a più corsie e auto di ultima generazione? Un rito accusatorio è sostenibile se i dibattimenti rappresentano una percentuale ridotta. Quale avvocato assennato sosterrebbe l’utilità di un rito alternativo se in appello molti procedimenti cadranno sotto la mannaia dell’improcedibilità? Va fatto un ragionamento anche tra Magistratura e Avvocatura, spero meno ideologizzata, essendo chiari su un punto: le inefficienze del sistema non sono sempre ascrivibili ai magistrati”. Sul piano del civile, prosegue Basilico, “non basta ritoccare il codice di procedura. La storia insegna che la più grande riforma che ha funzionato è stata quella del processo del lavoro del 1973, accompagnata da un grande investimento sul piano organizzativo e delle risorse. Ora ci sono riforme che pretendono di stravolgere il sistema senza preoccuparsi delle ricadute ordinamentali: i giudici monocratici dovranno occuparsi dell’affidamento di minorenni in piccoli uffici giudiziari in totale solitudine senza avere il supporto del giudice onorario specializzato. Inoltre il codice di insolvenza rischia di triplicare il carico del settore senza che vi siano misure di rafforzamento degli organici e di garanzia della specializzazione dei giudici addetti”. Si chiede un Csm più trasparente: “Senza dubbio”, per Palazzi, “il tema è centrale e si può affrontare a legislazione vigente senza troppi sforzi. Nella società contemporanea, dove tutto è tracciabile, non sono più tollerabili pratiche sulla vita professionale del magistrato che non sia possibile seguire nel loro andamento consultando il sito, che non si completino con una comunicazione istituzionale e non affidata a chi, dentro e fuori il Csm, si affanna a darla per mantenere una primazia utile in future occasioni elettorali. Il dibattito pubblico, poi, è ossessionato dai procedimenti disciplinari: il Csm ha dimostrato di saper dare, come farà pure in futuro, una risposta rigorosa che non mi pare altre categorie abbiano saputo sempre assicurare. Vorrei ricordare che lo scandalo più grave che abbiamo affrontato è ruotato proprio attorno alla “espropriazione” delle scelte istituzionali del Csm da parte di gruppi di potere i quali, insieme a politici senza alcun titolo, credevano che, scegliendo i capi di un ufficio, avrebbero potuto conformare la giurisdizione ai propri desiderata”. Basilico spiega per cosa si distingue il programma di Area: “La chiarezza della sua riferibilità a un gruppo coeso di persone, ognuna con una storia personale molto leggibile. La coesione è frutto di un percorso di elaborazione d’idee condivise. La nostra storia dimostra cosa si sia fatto nell’Anm o nei Consigli giudiziari, come ci si sia atteggiati nel dialogo con le istituzioni o nell’opera di superamento dai vincoli correntizi. Credo che ciò, insieme all’impegno prestato al servizio della giurisdizione, sia garanzia di esperienza e anche di autonomia, che rivendichiamo con orgoglio”. Masi: “La giustizia cambi, lo chiediamo non per noi avvocati ma per i cittadini” di Errico Novi Il Dubbio, 15 settembre 2022 Appello anche da Biino (Notariato): “Le professioni per voi contano?”. E i partiti promettono una svolta. Se intendono relegare la giustizia, i tribunali, l’accesso ai diritti, nel corner defilato in cui sembrano averla lasciata in campagna elettorale. O se invece hanno idee più costruttive. Si parla di equo compenso, dunque, ma sia Masi che Paparo lo fanno con garbo, senza acrimonie. Con loro due, discutono la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando, i “capi dipartimento” di FdI, Andrea Delmastro, e Azione, Enrico Costa, la primissima linea di FI e sottosegretario a via Arenula Francesco Paolo Sisto, e Francesco Urraro, tra i pochissimi parlamentari che possano vantare un passato nelle istituzioni forensi: il senatore leghista è stato presidente dell’Ordine di Nola, il Foro di Masi. Allo scambio tra avvocati e politica si aggiunge Giulio Biino, che presiede il Consiglio nazionale del Notariato. E nel complesso tutti si dicono pronti a “cambiare”, seppur con sfumature diverse. Rossomando in realtà mette al centro dell’agenda innanzitutto “il monitoraggio delle riforme approvate nella legislatura appena conclusa: un’occasione che dovrebbe vedere unite politica, avvocatura e magistratura”. La senatrice dem è tra i più netti nello sbilanciarsi sull’avvocato in Costituzione, riforma per Masi ancora più necessaria dopo le forzature sul patrocinio inserite nel ddl sulla giustizia tributaria: “L’avvocato in Costituzione è previsto nel nostro programma”, ricorda Rossomando. Costa invece si concentra sui fuori ruolo nella magistratura: “Palazzo dei Marescialli lancia gridi di dolore sulle carenze d’organico, ma allora perché autorizza continuamente i distacchi dei fuori ruolo)”. E poi segnala il nesso sottovalutato fra la riforma penale e quella del Csm: “Nella prima si sancisce che il rinvio a giudizio sia chiesto e ordinato solo se c’è ragionevole previsione di condanna. Nella seconda sono riuscito a inserire il fascicolo di valutazione sulle toghe: sarà il caso di mettere un asterisco per chi manda a processo imputati puntualmente assolti?”. Urraro è invece il solo a lanciare un allarme sulle condizioni del Pnrr: “Chi conosce il sistema giustizia sa che l’idea di ridurre entro il 2025 la durata dei processi del 40 per cento nel civile e del 25 nel penale è irrealizzabile. Le riforme hanno privilegiato i riti ma la giurisdizione ruota attorno ad altro: all’edilizia giudiziaria e ad adeguate risorse di personale che invece mancano”. Il rappresentante del partito favorito per la conquista di Palazzo Chigi, Delmastro, può permettersi il lusso di parlare da politico di opposizione, e impallinare i risultati raggiunti nell’era Cartabia: “Si doveva ripristinare un istituto di civiltà giuridica qual è la prescrizione sostanziale, invece non si è avuto il coraggio di congedarsi dall’era bonafediana e si è trovata la mediazione dell’improcedibilità, un frankestein processuale che non esiste in alcun altro Paese progredito”. Ma il deputato della destra è deciso quanto Rossomando a spingere per l’avvocato in Costituzione: “Un tentativo di dare rilevanza al difensore in modo da ricalibrare, anche agli occhi e nell’interesse dei cittadini, quello squilibrio che oggi vede il pm padrone dei processi. In attesa che il sistema venga ristrutturato con la separazione delle carriere, sarà già un passo avanti affermare nella Carta che l’avvocato non può essere considerato un fastidioso ammennicolo”. Sisto è stato primattore nella stagione breve ma intensa delle riforme Cartabia, e vede una possibile continuità nella nuova legislatura a partire da un principio: “Non si deve pensare ai druidi o ai sacerdoti ma ai frequentatori della parrocchia, cioè i cittadini: e nel penale questo significa che la priorità è tutelare i non colpevoli, con una nuova riforma che disegni un giudice davvero terzo e imparziale”. Ci si arriva con una separazione delle carriere “vera, decisa, dopo il passo avanti comunque compiuto con la separazione definitiva fra funzioni giudicanti e requirenti dopo i primi 9 anni di carriera. Ora dobbiamo convincerci che è necessario riconoscere formalmente la separazione culturale fra chi accusa e chi giudica”. È un incontro in due tempi. Con il primo più concentrato sulla politica giudiziaria tout court, mentre nel secondo trova spazio l’invito di Masi a “occuparsi di un altro tema che ci sta molto a cuore: la necessità di fare chiarezza sulla natura giuridica degli Ordini. Si tratta di enti pubblici non economici, ma non è pensabile che si continui a pretendere da loro adempimenti e oneri tipici delle Pa”. Seguono altri due assist. Il primo viene da Biino, tra i relatori in videocollegamento, che integra l’appello della presidente Cnf con una richiesta quasi filosofica: “Diteci se considerate ancora noi professionisti come un corpo intermedio. Se siamo per voi un collante rispetto al Paese. Quale considerazione avete di noi?”. E poi c’è l’imbeccata di Sergio Paparo, che coordina l’Organismo congressuale forense e considera le assise dell’avvocatura in programma a Lecce dal 6 al’ 8 ottobre prossimi come “l’occasione per parlare di questioni emerse finalmente solo qui, in questo incontro”. Tre spunti: “Se c’è una riforma ordinamentale urgente, ignorata dagli ultimi interventi, è l’attribuzione all’avvocatura di un ruolo di cogestione dei palazzi di giustizia, degli edifici, Non è possibile che chi come noi tiene ogni giorno in vita la giurisdizione sia trattato da ospite. Dobbiamo essere coinvolti nell’organizzazione degli uffici, a livello territoriale e ministeriale”. Quindi, aggiunge il coordinatore Ocf, “funzionale a questo è l’accesso dell’avvocatura agli strumenti di intelligenza artificiale utili alla gestione organizzativa. Infine la giustizia complementare: che non vuol dire solo Adr, ma sportelli del cittadino e uffici di prossimità, articolazioni territoriali in cui gli avvocati possano alleggerire i tribunali per gli atti che riguardano processi monitori e volontaria giurisdizione”. Ecco, Costa non esita a chiedere che, intanto, sulla “natura giuridica degli Ordini il legislatore faccia chiarezza”. È d’accordo Delmastro: “Si tratta di una norma a costo zero, gli Ordini professionali non possono essere sommersi di adempimenti”. Il responsabile Giustizia di FdI immagina però anche “un minimo di ammortizzatori sociali anche per gli autonomi. Non esistono lavoratori di serie A e di serie B”. E il presidente dei notai Biino apprezza: “Spero che sarà questo l’approccio”. Tocca a Urraro riprendere un altro tema che Masi suggerisce a inizio incontro: il carcere, la tragedia dei suicidi ignorata, “una ferita”, ricorda la presidente del Cnf, “a cui dedicheremo una sessione del Congresso forense di Lecce”. E il senatore della Lega si dimostra, anche un po’ a sorpresa, il più attento nel chiedere che “insieme alla certezza della pena si abbia a cuore il valore uomo: il sovraffollamento, la quota di 55mila detenuti di nuovo raggiunta nei nostri penitenziari è contro ogni principio di civiltà, e si deve intervenire innanzitutto sulla qualità della vita negli istituti”. Lo ricorda anche Rossomando quando evoca “il lavoro della Commissione Ruotolo, da cui andrebbero tratti molti spunti”. La vicepresidente del Senato mostra straordinario fair play quando, a proposito di equo compenso, riconosce “l’errore compiuto nei decreti di Bersani sulle liberalizzazioni, con cui vennero eliminate le tariffe”. Ma poi con orgoglio rivendica che “la prima legge sull’equo compenso, preparata con l’ex presidente Cnf Andrea Mascherin, è stata firmata da Andrea Orlando”. Sisto avverte come in modo più generale la nuova fase della giustizia orientata al Pnrr “dovrà evitare l’illusione che il processo possa essere reso più efficiente con il taglio delle ali delle garanzie”. Non si può trascurare che in realtà qualche sacrificio del genere sia avvenuto anche nella riforma del processo civile: “Nella riforma”, puntualizza Rossomando, “abbiamo cercato di accogliere le osservazioni dell’avvocatura sull’eccesso di preclusioni. Non tutto è passato, ma noi come Pd condividiamo quell’analisi”. Basta si capisca una volta per tutte che gli alert del Foro sugli eccessi dell’efficientismo non sono una rivendicazione di categoria, ma un appello per la civiltà del diritto. Gli abusi delle forze dell’ordine su trans e afrodiscendenti di Luigi Mastrodonato* Il Domani, 15 settembre 2022 I rapporti europei rivelano che in Italia polizia e carabinieri sono troppo spesso protagonisti di episodi di profilazione razziale e sessuale. Un fenomeno che politica e istituzioni preferiscono non vedere. “Se non collabori ti frego e ti mando in Brasile. Puoi anche scappare perché qui non ti faccio più mettere piede”. Sono le parole rivolte da un carabiniere a una persona trans brasiliana ricattata sessualmente ed emerse dalle intercettazioni dell’inchiesta Odysseus, quando nella primavera del 2020 un’intera caserma, la Levante di Piacenza, finiva sotto sequestro per un sistema di associazione a delinquere messo in piedi da diversi agenti. Se per quella vicenda ci si è soffermati sulla corruzione e il marcio dilagante nei corpi delle forze dell’ordine italiane, poco si è detto a proposito di un’altra grande problematica: gli abusi di potere nei confronti delle persone straniere, tanto più se transessuali. Al di là di Piacenza, in Italia vige un sistema collaudato di controlli e fermi frequenti ma anche di atteggiamenti aggressivi nei loro confronti che troppo spesso sfociano nella violenza. Un problema di profilazione razziale e sessuale su cui si continua a chiudere gli occhi. Cos’è la profilazione razziale - La Commissione europea contro il razzismo e l’intolleranza definisce la profilazione razziale “l’uso da parte delle forze dell’ordine, quando procedono a operazioni di controllo, sorveglianza o indagine, di motivi quali la razza, il colore della pelle, la lingua, la religione, la nazionalità o l’origine nazionale o etnica, senza alcuna giustificazione oggettiva e ragionevole”. Negli Stati Uniti è un fenomeno largamente diffuso e di cui si è tornati a parlare dopo l’omicidio del cittadino afroamericano George Floyd per mano dell’agente Derek Chauvin. Una ricerca del Pew Research Center sottolinea che gli adulti neri statunitensi dichiarano di subire fermi di polizia ingiustificati e dovuti all’etnia in misura cinque volte maggiore rispetto ai bianchi. In Europa non va molto meglio. Il 24 per cento delle persone di origine africana intervistate nell’indagine Essere neri nell’Ue dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali ha dichiarato di essere stata fermata dalla polizia nei cinque anni precedenti e il 41 per cento di queste ha considerato lo stop come un caso di profilazione razziale. A livello di singoli paesi, in Francia l’inchiesta Accesso ai diritti sottolinea che i giovani stranieri o apparentemente tali hanno 20 volte più probabilità di essere fermati dalla polizia rispetto al resto della cittadinanza. In Gran Bretagna questo moltiplicatore si attesta a nove, in Danimarca gli immigrati di seconda generazione subiscono controlli fino al 45 per cento in più dei nativi danesi, in Germania invece un immigrato sub-sahariano su tre ha detto di essere stato fermato almeno una volta dalla polizia nei cinque anni precedenti. In Italia - I rapporti europei rivelano che in Italia il 70 per cento delle persone afrodiscendenti fermate dalla polizia dichiara di aver subito profilazione razziale. Per il resto non esistono studi nazionali e tutto quello che si trova sull’argomento viene dalla cronaca e dalle denunce. Uno dei casi recenti più eclatanti è quello occorso al calciatore Tiémoué Bakayoko in centro a Milano, fermato con pistola in faccia perché nero e con una felpa verde come la persona che gli agenti stavano cercando, in un episodio giustificato come “scambio di persona” ma che difficilmente si vede con persone bianche. Altri episodi recenti sono stati l’intervento di identificazione molto violento e condito da frasi razziste messo in atto dalle forze dell’ordine contro alcuni minorenni afrodiscendenti nei pressi di un McDonald’s a Milano a giugno 2021, l’aggressione della polizia alla stazione centrale di Milano a due cugini italiani di origine straniera, o ancora le operazioni di polizia in piazza Duomo sempre a Milano con cui venivano fermati quasi esclusivamente giovani non bianchi. “Ho perso il conto di quante volte sono stato fermato dalla polizia, ci sono periodi più intensi in cui vengo fermato anche 2-3 volte al mese e altri meno. In questi 11 anni in Italia sono stato fermato almeno una trentina di volte in totale”, spiega Shahzeb, 22enne di origine pakistana residente a Ferrara. Una volta è stato fermato mentre andava a buttare la spazzatura sotto casa, i documenti li aveva lasciati all’ingresso ma gli agenti volevano portarlo in questura senza dargli la possibilità di prenderli e mostrarglieli. Da quel momento Shahzeb quando va al cassonetto si porta sempre il portafogli. Diverse altre volte è stato fermato in stazione o mentre andava al lavoro, senza un motivo preciso. “Questo atteggiamento continuo e ripetuto demoralizza, io ormai se da lontano vedo una pattuglia cambio strada perché non ho voglia di perdere tempo”, chiosa il ragazzo. “Quello della mancanza di ricerche sul tema della profilazione razziale è un problema prettamente italiano”, sottolinea Robert Elliot, attivista di Occhio ai media. “Nel discorso politico-mediatico in Italia prevale l’idea che siano cose che succedono solo all’estero, ma non è così. C’è una tendenza diffusa a voler sempre giustificare, a negare che in Italia ci sia un problema di razzismo”. Elliot cita il caso di Bakayoko, con la questura e buona parte della politica e dei giornali che hanno fatto a gara a ridimensionare l’accaduto. Questo non aiuta all’emersione del fenomeno. “Le vittime della profilazione razziale si vergognano di parlarne, un mio amico senegalese 60enne è stato fermato diverse volte ma non vuole dirlo a sua moglie, un altro ragazzo che conosco non lo racconta alla madre perché non vuole farla preoccupare”, continua Elliot, che sottolinea come quello della profilazione razziale sia un problema soprattutto per i più giovani stranieri o apparentemente tali. Le cose peggiorano ulteriormente quando poi subentrano nuove condizioni, come la transessualità. Contro le persone trans - Le persone transessuali straniere sono vittime di un doppio stigma da parte della società e delle forze dell’ordine in Italia, su cui però non si è mai realmente indagato. “Il fatto che non vi siano segnalazioni dirette e rapporti sulla profilazione sessuale della polizia in Italia non vuol dire che questo non succeda. Semplicemente, è un fenomeno che non è stato ancora studiato”, ammette Elliot. In California un’analisi del procuratore generale ha rilevato che le persone transgender vengono fermate dalla polizia per “ragionevoli sospetti” quattro volte le persone cisgender, e vengono perquisite a un tasso doppio. Uno studio del Williams Institute evidenzia che negli Usa le persone appartenenti alle minoranze sessuali vengono fermate in luogo pubblico quasi sei volte più del resto della popolazione e questo valore cresce ulteriormente quando minoranza sessuale e minoranza etnica vanno a braccetto. In Italia tutto quello che c’è sull’argomento appartiene alla cronaca. Il concorso di polizia pubblicato sul sito del ministero dell’Interno all’inizio del 2022 che equiparava l’essere transessuale a un disturbo mentale la dice lunga sull’approccio culturale delle forze dell’ordine all’argomento. Fatti come quelli della caserma di Piacenza, la violenta retata della polizia nel 2021 nel quartiere di San Berillo a Catania con racconti di agenti che infierivano con botte e manganelli su una donna trans straniera o, ancora, le numerose denunce carcerarie di abusi sessuali da parte di agenti penitenziari sulle persone detenute transessuali straniere dipingono bene il quadro. Ma al di là di questi fatti più eclatanti, è tutta la quotidianità italiana delle persone trans, soprattutto se sex workers e straniere, a essere un inferno senza fine. “C’è una profonda persecuzione contro le persone transessuali in Italia fatta attraverso tutti gli strumenti legislativi possibili. Le sex workers transessuali per esempio vengono continuamente identificate, fermate, allontanate anche più volte al giorno”, sottolinea Pia Covre, fondatrice del Comitato per i diritti civili delle prostitute. “La situazione peggiora con le persone transessuali straniere. Nel caso delle sex workers risultano più visibili e sono maggiormente perseguitate rispetto a chi è italiano. L’atteggiamento intimidatorio di certi agenti e la paura di peggiorare la loro situazione già precaria fa però sì che raramente si denuncino gli abusi subiti”. Il Comitato raccoglie molte di queste testimonianze attraverso uno sportello operativo nel Friuli-Venezia Giulia da cui arrivano chiamate da tutta Italia. Altre realtà come La Magnifica Occupata, casa transfemminista fiorentina, da tempo denunciano gli abusi delle forze dell’ordine nei confronti delle persone transessuali straniere, come quelle subite da due australiane loro compagne durante la permanenza in Italia. L’obiettivo è che si inizi a parlare di un tema che si fa finta non esista, discriminazione nella discriminazione da parte delle istituzioni. “Gli episodi si sprecano, è un po’ la norma per noi. Succedono e basta”, spiega un attivista, d’accordo con l’esclusione dal pride di Bologna a giugno di Polis Aperta, associazione Lgbt di appartenenti alle forze dell’ordine e armate: “Era solo un tentativo di rainbowashing delle forze di polizia”. Che rischiava di nascondere ulteriormente il problema italiano della profilazione razziale e sessuale. *Questo articolo è stato prodotto nell’ambito del progetto INGRiD - Intersecting Grounds of discrimination in Italy, finanziato dalla Commissione europea nell’ambito del programma REC (Rights, Equality, Citizenship) 2014-2020. Cucchi, Aldrovandi, Soldi: quando lo Stato invece di proteggerti ti manda all’altro mondo di Daniele Zaccaria Il Dubbio, 15 settembre 2022 Sono storie di violenze gratuite e di abusi feroci, di omertà e depistaggi, ancora più raggelanti perché commesse da chi dovrebbe proteggerti, garantire i tuoi diritti, da chi dovrebbe custodire la sicurezza dei cittadini. Stiamo parlando delle vittime dello Stato, persone morte nelle mani della polizia, durante un banale controllo, o nel tempo della carcerazione preventiva; vicende spesso insabbiate dalle stesse autorità e poi venute alla luce del sole grazie alla determinazione e al coraggio dei familiari delle vittime, costretti a battersi per anni contro i muri di gomma del potere, le intimidazioni della politica, le campagne di diffamazione, la solitudine. Sono decine i casi di violenza di Stato emersi nel recente passato, alcuni dei quali hanno avuto una grande risonanza mediatica, a cominciare da Stefano Cucchi. È il 15 dicembre del 2009, il geometra romano di 31 anni viene fermato da una pattuglia dei carabinieri che lo trovano in possesso di una modesta quantità di hascisc e cocaina più una confezione di farmaci contro l’epilessia. Il giorno successivo c’è il processo per direttissima che convalida l’arresto per Cucchi, sarà l’ultima volta che la sua famiglia lo vedrà vivo. All’ingresso nel carcere di Regina Coeli le sue condizioni fisiche paiono preoccupanti, viene visitato dai medici che dispongono l’immediato ricovero nell’ospedale Sandro Pertini dove comunque resta confinato nel reparto per i detenuti sotto la custodia dei carabinieri. Per sei giorni nessuno sa nulla di cucchi: il 22 ottobre 2009 viene comunicata la sua morte. Le foto scattate dal medico legale piombano sulle prime pagine dei giornali con un effetto scioccante: il corpo di Cucchi sembra reduce da torture prolungate, contusioni, ferite, fratture. Ci vorranno 10 anni e la tenacia incrollabile della sorella Ilaria Cucchi per arrivare a stabilire finalmente la verità sulla morte del geometra. Il 14 novembre 2019 la Corte d’Assise di Roma condanna in primo grado a 12 anni per omicidio preterintenzionale due carabinieri, Alessio Di Bernardo e Raffaele D’Alessandro. Il 7 maggio 2021 la Corte d’Assise d’Appello di Roma conferma la condanna per omicidio preterintenzionale dei due carabinieri innalzando da dodici a tredici anni la pena stabilita in primo grado. Federico Aldrovandi invece aveva trovato la morte 4 anni prima, il 25 settembre del 2005. Aveva appena compiuto 18 anni. Viene fermato da una volante della polizia mentre stava camminando in pieno centro di Ferrara; il ragazzo non ci sta, risponde polemicamente agli agenti, nasce un diverbio, sul posto arriva un altra volante e la situazione degenera. Una testimone racconta di aver visto dalla finestra della sua abitazione i poliziotti prendere a bastonate Adrovandi e poi schiacciarlo con i propri corpi. Muore all’istante. L’autopsia stabilisce la causa del decesso: apossia- asfissia posturale che ha portato all’arresto cardiaco; inoltre sul corpo vengono individuate oltre cinquanta lesioni. Sarà la madre Patrizia Moretti sul suo blog a denunciare l’ignobile pestaggio subito dal figlio, dando il via a una campagna di mobilitazione che raggiunge i media nazionali. La sentenza sette anni più tardi nel 2012: i quattro agenti vengono condannati in via definitiva per “eccesso colposo in omicidio colposo” a 3 anni e 6 mesi di reclusione e la Corte dei Conti li ha condannati a risarcire lo Stato per 560 mila euro. È sempre il 2015 quando Andrea Soldi, 45 anni e affetto da schizofrenia, è seduto su una panchina di piazza Umbria a Torino. È raggiunto da una pattuglia di polizia municipale portata lì dal suo psichiatra per sottoporlo a trattamento sanitario obbligatorio in quanto da un po’ di tempo Soldi rifiuta di assumere farmaci. Come per Aldrovandi comincia una colluttazione, Soldi viene immobilizzato e ammanettato, ma con estrema violenza, un vigile gli stringe il collo. Perde i sensi e tutti non possono non accorgersi che la situazione è molto grave. Ma nel viaggio tra l’ambulanza e l’ospedale è ancora ammanettato e messo a testa in giù: muore pochi minuti dopo aver raggiunto la struttura sanitaria. L’autopsia disposta dalla procura di Torino stabilisce che Soldi è morto per gli abusi subiti durante il Tso con una inequivocabile relazione di causa effetto. I quattro imputati sono stati condannati in primo grado a un anno e sei mesi di reclusione e le condanne sono state confermate in appello. La sorella Maria Cristina e il padre Renato in questi anni hanno lottato per ottenere giustizia ma soprattutto hanno denunciato gli abusi selvaggi del trattamento sanitario obbligatorio e l’assoluta impreparazione di chi è chiamato a eseguirlo. Una pratica controversa e foriera di tragedie come appare sul libro di Matteo Spicuglia Noi due siamo uno. Storia di Andrea Soldi, morto per un TSO, un lavoro importante che ricostruisce la vita del povero Soldi attraverso i suoi toccanti diari. La morte di Simone Mattarelli, trovato impiccato dopo l’inseguimento dei carabinieri di Luca De Vito La Repubblica, 15 settembre 2022 Il corpo del 28enne è stato trovato in una ditta in provincia di Varese. L’avvocata dei parenti, Roberta Minotti: “Non si è suicidato e prima di morire ha subito un’aggressione”. Il gip aveva archiviato il caso su richiesta della procura di Busto Arsizio. Una storia che ha ancora troppe domande a cui dare risposta. È quella della morte di Simone Mattarelli, il 28enne trovato impiccato a un macchinario della ditta Eurovetro di Origgio in provincia di Varese nel pomeriggio del 3 gennaio 2021. Un suicidio secondo la procura e il gip di Busto Arsizio, ben altro per i familiari che da tempo chiedono un approfondimento di indagini su quella notte, cominciata con un inseguimento dei carabinieri sulle statali della Brianza per fermare la Bmw guidata da Mattarelli che si era dato alla fuga dopo aver saltato l’alt dei militari. Oggi, tramite l’avvocato Roberta Minotti e con la consulenza della criminologa Roberta Bruzzone, la madre, il padre e il fratello chiedono che venga riesumata la salma del giovane e che vengano fatte nuove indagini. “Simone Mattarelli non si è suicidato e prima di morire ha subito una aggressione ad opera di terzi, aggressione parzialmente osteggiata dalla stessa vittima”. Con queste parole, messe anche nero su bianco nella richiesta di opposizione all’archiviazione e nell’istanza di riapertura delle indagini, l’avvocato Minotti intende ribaltare le conclusioni della pm Susanna Molteni e della gip Tiziana Landoni. La morte di Simone Mattarelli, la fuga dai carabinieri, la cocaina e il coprifuoco - La ricostruzione della notte tra il 2 e il 3 gennaio parte dalle 23.05 della sera, alla rotatoria sulla Statale dei Giovi all’altezza di Cermenate. È qui che Simone comincia la sua fuga. Ha assunto cocaina, in macchina ci sono delle dosi e una banconota da dieci euro arrotolata. Inoltre si trova in strada fuori dagli orari concessi dal coprifuoco. “Simone non era paranoico ma ben consapevole di avere violato più di una regola - prosegue l’avvocata - temeva il ritiro della patente avendolo già subito nel 2017 per essere stato sorpreso alla guida dell’auto con un tasso alcolemico elevato”. La telefonata di Simone Mattarelli al padre: “L’ho fatta grossa, se mi prendono mi ammazzano” - Cimnago, Cogliate, Barlassina, Gerenzano, Uboldo. Una corsa a rotta di collo per i comuni della Brianza, cercando di sfuggire all’inseguimento. Va avanti per ore e almeno sei pattuglie dei carabinieri si mettono dietro a Mattarelli. “L’ho fatta grossa papà, se mi prendono mi ammazzano” dice al padre, Luca Mattarelli, al telefono durante l’inseguimento. Gli dice che arriverà lì da lui, ma a casa non tornerà mai. L’inseguimento in auto finisce alle 2.36 del mattino, al Parco dei Mughetti di Origgio, vicino alla Eurovetro. Prosegue a piedi come documentato dalla bodycam di uno dei carabinieri, attivata nelle ultime fasi dell’inseguimento e spenta poco dopo l’inizio delle ricerche nei campi. In tutto sono 14 i militari presenti sul posto secondo la ricostruzione della difesa. Uno di loro spara 8 colpi di pistola a terra, esplosioni che anche il padre sente al telefono. Le carte ufficiali dicono che dopo poco i militari interrompono le ricerche perché non riescono a trovare il fuggitivo: è da questo punto in poi che si accumulano i dubbi della difesa. Il padre di Simone nel frattempo si mette è messo a cercarlo. Segue la posizione che il figlio gli aveva mandato su WhatsApp. Sulla strada incontra una pattuglia dei carabinieri che lo indirizza alla caserma di Desio dove Luca Mattarelli pensa di trovare il figlio: c’è invece solo la sua macchina. Alle prime ore del mattino il padre insieme al fratello di Simone e allo zio vanno quindi a perlustrare i pressi della Eurovetro, laddove si era fermata la macchina e dove indicava la posizione condivisa sul telefono. Trovano le sue scarpe ai bordi della recinzione. Là in zona ci sono già diversi carabinieri che, viene spiegato, sono alla ricerca dei bossoli. Il padre si rivolge a loro chiedendo di entrare a cercare in quel preciso stabilimento, il C2, ma non viene ascoltato. Allora scavalca la ringhiera ed entra nello stabilimento: a quel punto i carabinieri entrano a loro volta ed è così che viene ritrovato il corpo del giovane impiccato. La morte di Simone Mattarelli, che cosa dice la perizia - Per il gip la perizia porta a identificare senza dubbi la causa del decesso, ovvero “una asfissia acuta meccanica da ricondurre a un atto di autolesionismo da lui posto in essere”. Ma i legali della famiglia lamentano una serie di mancanze nelle indagini e nella perizia che insieme a “errori grossolani” hanno impedito “la registrazione di cruciali elementi”. Secondo i periti di parte, ad esempio, non è stato delimitato correttamente il luogo del ritrovamento del corpo e non sono state prese in considerazione due ferite al volto e un’emorragia addominale compatibili con una “dinamica di aggressione premortale”. Ma per il giudice le ferite sul corpo sono da ricondurre a momenti della fuga, “non a eventuali azioni offensive perpetrate da terzi in danno del giovane, né ad atti difensivi da costui posti in essere”, si legge nel decreto di archiviazione. Tutti i dubbi della famiglia sulla morte di Simone Mattarelli - Dubbi poi anche sulla posizione del corpo e sul nodo della cintura dei propri pantaloni con cui Simone si sarebbe impiccato: un nodo semplice, ritrovato in posizione anteriore e quindi difficilmente in grado di reggere il peso del corpo. Sulla cintura, da un’analisi della difesa, non ci sono tracce di sangue che invece è sulle mani di Simone e sul volto. A tutto questo si aggiunge il mancato recupero delle immagini registrate dalle telecamere che danno sull’ingresso della vetreria e il mancato ascolto dei testimoni, come i dipendenti della Eurovetro o i vigilanti. Cellulare e giubbotto del giovane, poi, sono scomparsi. “Simone era un ragazzo pieno di vita, positivo e propositivo. - spiega Minotti. Aveva un buon lavoro e a breve avrebbe coronato il suo sogno di andare a vivere con la sua ragazza. Non si sarebbe mai suicidato”. Il mistero di Daouda Diane, sparito in Sicilia l’operaio che si batteva per i diritti di Alessia Candito La Repubblica, 15 settembre 2022 Originario della Costa d’Avorio, lavorava ad Acate, in provincia di Ragusa. Da oltre due mesi non si sa più nulla di lui. “Neanche un cane o un gatto spariscono così. Con la tecnologia che rende tutto e tutti tracciabili, com’è possibile?”. Eppure di Daouda Diane, il trentasettenne ivoriano sparito dopo aver denunciato la mancanza di condizioni di sicurezza nel cantiere in cui lavorava, da più di due mesi non si sa nulla. “A volte spero ancora di vederlo entrare da quella porta”, dice Marcire Doucoure, che di Daouda era amico e coinquilino. “No - corregge - lui era famiglia”. Arrivati entrambi dopo aver sfidato il Mediterraneo su una barca, sono riusciti da subito a lavorare come mediatori culturali e da cinque anni lo facevano gomito a gomito. “Ma lui era più bravo di me, parlava bene l’italiano, il francese, l’inglese”. E pur essendo il piccolo dei due, era una sorta di “fratello maggiore”. “Cucinava sempre lui, io non sono proprio capace”. E ora? “Mi arrangio. Non posso fare altro”. Rassegnarsi invece no, non ci riesce, anche se di Daouda ormai parla solo al passato. “La sua famiglia mi chiama o mi scrive tutti i giorni, a volte - mormora - mi vergogno a ripetere che non ci sono novità”. Un’inchiesta c’è. Si indaga per omicidio e occultamento di cadavere, dopo settimane passate a battere la pista dell’allontanamento volontario. “Ma Daouda non l’avrebbe mai fatto, lui era prudente, quando tardava avvertiva, mi informava sempre dei suoi spostamenti. Ai carabinieri l’ho detto da subito”. Anche perché subito Marcire ha avuto il timore che fosse successo qualcosa. Sapeva che Daouda sarebbe andato a lavorare alla Sgv, un’azienda di calcestruzzi di Acate. Non era la prima volta. Nonostante l’impresa abbia provato a negarlo anche a mezzo stampa, c’era già stato almeno altre due volte. Alle 14.38 da lui riceve due video. Nel primo lo si vede nel ventre di una betoniera, con un martello pneumatico in mano e zero protezioni, se non delle vecchie cuffie antirumore e una cenciosa mascherina chirurgica. Nel secondo, Daouda non si vede, ma in un lungo messaggio lo si sente dire chiaramente “Qui il lavoro è duro, qui si muore”. E c’è un dettaglio: parla per lo più in francese. “Per noi, la prima lingua è il bambara”, osserva Marcire. Che si sappia, quella è l’ultima traccia lasciata dal 37enne ivoriano. “Il 2 luglio, quando sono tornato a casa lui non c’era - racconta l’amico - Ho provato a chiamarlo, ma il suo cellulare risultava spento”. Sulle prime, spiega, non si è preoccupato. Capitava che non si incrociassero. Al Cas spesso si davano il cambio e di tanto in tanto Daouda andava a Ragusa, nell’appartamento che aveva affittato quando lavorava in città e a cui non aveva voluto o potuto ancora rinunciare. Lì risultava residente, non tutti i locatori registrano i contratti d’affitto, per modificare i documenti ci sarebbe voluto tempo e lui aveva una moglie e una bimba piccola che progettava di portare in Italia presto. Risultato, di case ne aveva due. “Ma per lui non era un problema - spiega Marcire -. Risparmiava ogni centesimo e faceva ogni sacrifico necessario per far trasferire i suoi”. Insieme aveva messo una bella somma. Alcune piste investigative starebbero esplorando l’ipotesi che qualcuno abbia tentato di metterci le mani sopra. Ma quando gli investigatori hanno perquisito la sua stanza, i soldi c’erano tutti. Anche i suoi conti sarebbero rimasti fermi. “Daouda era rispettato da tutti - mastica scettico Marcire - era un punto di riferimento”. Del resto, aveva lavorato in molti Cas di zona, se la cavava bene con la burocrazia, in tanti si rivolgevano a lui. “Non era un nostro iscritto, ma era di fatto un attivista noto”, spiega Michele Mililli del sindacato Fds-Usb, che da tempo lavora fra i braccianti del ragusano. Alle manifestazioni convocate per chiedere giustizia dopo la sua scomparsa, si sono presentati in centinaia. “Guarda, qui è tutto come lo ha lasciato”, dice Marcire, che apre l’armadio, dove ancora c’è l’ordinatissima cartella in cui Daouda teneva i documenti - passaporto, permesso di soggiorno originale, buste paga, estratti conto - che per un lavoratore straniero sono il bene più prezioso. “Senza di questa, nessuno di noi va da nessuna parte”. E poi una borsa, vestiti, un profumo, l’orologio “buono”. Prima che venissero sequestrati c’erano anche soldi e un biglietto aereo per la Costa d’Avorio, con partenza fissata il 22 luglio. Al banco per il check in Daouda non si è presentato mai. L’indagine per omicidio è partita poco dopo. E forse si è perso tempo prezioso. Di certo si sa che alla Sgv Daouda c’è stato, da lì ha mandato quei video. Un paio di ore dopo il suo telefono si spegne. Messa alle strette, dopo aver tentato di negare persino di avere avuto rapporti con lui, l’azienda ammette di averlo assunto a giornata per lavori di pulizia. Ma da lì - avrebbero raccontato i testimoni- “è andato via attorno a mezzogiorno sulle sue gambe”. Eppure di lui non c’è traccia. Non lo si vede uscire dal cantiere, l’impianto di videosorveglianza non funziona. “Da tempo”, è la versione dell’azienda, che in ambito investigativo si prende per buona. Non lo inquadrano le telecamere di zona. Prima di spegnersi, il telefono rimane agganciato alla medesima cella. “Non è indicativo - sussurrano alcune fonti - copre sia l’azienda, sia il centro del paese”. Secondo quanto filtra le indagini, anche tecniche, stanno andando avanti. Ma fra amici e conoscenti di Daouda c’è paura. E rabbia. “Da quell’azienda escono decine di camion al giorno, li hanno mai controllati? E nelle cave o nelle vasche vicino hanno mai guardato?”, dice un lavoratore che chiede l’anonimato. “Ma noi siamo neri - lo incalza il ragazzo appena ventenne accanto a lui - anche quando moriamo, nessuno ci vede”. Sondrio. Attività del Garante dei detenuti tra ostruzionismo e scarsa collaborazione di Giuseppe Maiorana sondriotoday.it, 15 settembre 2022 Nella sua relazione annuale Orit Liss denuncia le difficoltà legate alla scarsa disponibilità nei suoi confronti da parte della direzione del carcere di Sondrio e dell’amministrazione comunale. Un’attività già di per sé delicata, quella del garante dei detenuti, resa ancora più difficile a Sondrio dall’ostruzionismo della direzione della Casa circondariale del capoluogo e dalla scarsa collaborazione dell’amministrazione comunale di Palazzo Pretorio. Così, almeno, denuncia nella sua relazione annuale, Orit Liss, Garante delle persone private delle libertà personali di Sondrio: “Nel corso dell’anno 2021, l’attività di Garante ha incontrato un sostanziale ostruzionismo da parte della direzione che non ha permesso l’osservazione oggettiva delle condizioni di detenzione all’interno della Casa Circondariale di Sondrio, precludendo la libera circolazione all’interno dell’Istituto, circolazione peraltro garantita ad altri soggetti esterni. - questa la denuncia di Orit Liss - A nulla è servito rivolgersi al Provveditore Regionale affinché si operasse per la corretta applicazione dell’Art. 67 della legge sull’ordinamento penitenziario che attribuisce ai “garanti dei diritti dei detenuti comunque denominati” il diritto di visita senza autorizzazione. Tale situazione è stata chiaramente riportata dal Garante nella riunione della competente commissione in data 14 marzo 2022, alla quale il Garante stesso ha chiesto di partecipare per sollecitare l’intervento del Comune di Sondrio a sostegno della propria azione”. Scarsa collaborazione - “Nonostante le rassicurazioni ottenute in commissione, scarsi sono stati gli sforzi dall’amministrazione comunale, che pare non comprendere appieno la gravità della questione, al punto che, ad oggi, le informazioni più volte sollecitate relative ai servizi e alle risorse messe a disposizione per il reinserimento dei detenuti non sono state fornite, se non in maniera estremamente frammentaria. - continua Orit Liss - Si sottolinea con fermezza il fatto che se il Garante non può liberamente accedere ed osservare le condizioni di detenzione, come garantito dalla legge, ma deve sottostare a regole e soprattutto tempi imposti dalla direzione, non ha la possibilità di sviluppare un’opinione oggettiva, vanificando così gli sforzi effettuati e il senso stesso dell’esistenza di tale figura di garanzia. A titolo esemplificativo, tale limitazione non permette l’oggettiva valutazione del rispetto dei diritti garantiti dall’art. 7 della legge sull’ordinamento penitenziario. A poco servono inoltre le rassicurazioni offerte dalla Direzione nella lettera del 2 maggio scorso in particolare perché, in contrasto con quanto esposto, al Garante è sempre richiesto di anticipare le proprie visite con una comunicazione e perché, mentre al Garante è sempre imposto l’accompagnamento da parte del personale della Polizia Penitenziaria, ad altri soggetti non viene riservato tale trattamento”. Le iniziative - “Detta risposta, peraltro, non fa alcun cenno alle problematiche di oggettività sollevate e ai dubbi esposti nella nota del 18 marzo, ma si limita ad elencare una serie di interventi effettuati dei quali l’amministrazione comunale è già a conoscenza. Infine, per completezza di trattazione, il Garante non contesta l’accompagnamento da parte del personale per motivi di sicurezza, ma la imposta limitazione nella tempistica, che fa pensare alla necessità di sottrarre elementi alla sua osservazione, fatto che si scontra con il principio del rispetto dei reciproci ruoli, giustamente citato nella risposta della direzione”. Proprio viste le situazioni evidenziate, Orit Liss vuole intraprendere alcune ben precise iniziative: “In considerazione di quanto esposto, il garante intraprende le seguenti iniziative: - conclude il Garante dei diritti dei detenuti di Sondrio - chiede formalmente di poter prendere visione del regolamento di Istituto al quale non ha mai avuto accesso; redige un semplice elenco delle figure coinvolte nel sistema carcerario, con le loro funzioni e recapiti, con l’intento di rendere facilmente reperibili informazioni che potrebbero essere utili ai detenuti, alle loro famiglie e al pubblico; chiede l’intervento del signor Ministro per fare chiarezza sui punti esposti”. Trieste. Morì suicida in carcere: quattro anni dopo continua la battaglia legale triesteprima.it, 15 settembre 2022 Dopo il suicidio in cella di Tarzan Selimovic, avvenuto nel 2018 nel carcere di Trieste, continua la battaglia legale della famiglia per non far archiviare il caso. Il fratello ha infatti presentato, tramite il suo legale Alberto Filippini, una richiesta di opposizione (la seconda) all’archiviazione della sua denuncia contro ignoti. Una denuncia sporta con l’intento di individuare eventuali responsabilità per la morte del congiunto. Tarzan Selimovic, 46enne di nazionalità bosniaca affetto da problemi psichici, si trovava in cella d’isolamento quando si è tolto la vita impiccandosi con un lenzuolo legato a una sbarra della finestra. Era stato collocato in regime di isolamento per un procedimento disciplinare perché aveva appiccato il fuoco a un materasso e aggredito un agente di polizia penitenziaria. “Selimovic soffriva di conclamate turbe psichiche - sostiene l’avvocato Filippini del foro di Cagliari - e nonostante ciò era stato destinato al carcere e sottoposto a rigide misure di sicurezza. Tutto questo senza che venissero seguite le procedure previste per questi detenuti. Si trovava in regime di ‘grande sorveglianza’, per la quale erano previsti controlli in cella ogni 20 minuti visti i comportamenti autolesivi che aveva già manifestato. Tuttavia, dall’ultimo controllo al ritrovamento del corpo era passata circa un’ora e mezza, come si può vedere dai registri e dagli ordini di servizio in nostro possesso”. I fatti - Dopo il suicidio, avvenuto nell’ottobre del 2018, nel 2021 il fratello di Selimovic ha presentato la denuncia, da cui si è originato un procedimento penale presso la Procura di Cagliari (la famiglia è residente in Sardegna), poi trasferito alla procura di Trieste. In questa occasione il Pm ha chiesto al Gip di archiviare il caso, poiché “Selimovic era seguito con attenzione dal personale del carcere”, tanto che “il 24/04/2018 - ha sostenuto il Pm - la condizione psicopatologica appariva nettamente migliorata”. Il fratello dell’ex detenuto si è poi opposto all’archiviazione e il Gip aveva accettato la sua richiesta. Tre settimane dopo il Pm ha chiesto di nuovo l’archiviazione e la famiglia di Selimovic si è nuovamente opposta, facendo leva su una presunta “lacunosità delle indagini preliminari svolte”. Ora l’udienza è fissata per il prossimo 20 settembre. Chieti. Lavori di pubblica utilità, convenzione tra Voci di dentro e Tribunale di Stefania Ortolano chietitoday.it, 15 settembre 2022 Una messa in prova, in alternativa al carcere, per i reati che prevedono pene detentive sotto i tre anni. L’intesa è stata sottoscritta dal presidente del tribunale di Chieti, Guido Campli e dal presidente di Voci di dentro, Francesco Lo Piccolo. È stata firmata nei giorni scorsi la convenzione tra la onlus Voci di dentro e il tribunale di Chieti che prevede lo svolgimento, presso la stessa associazione, di lavori di pubblica utilità da parte di persone che hanno avuto problemi con la giustizia. Una messa in prova, in alternativa al carcere, per i reati che prevedono pene detentive sotto i tre anni. La convenzione, in forza della legge del 28 aprile 2014 numero 67, è stata sottoscritta dal presidente del tribunale di Chieti, Guido Campli e dal presidente di Voci di dentro, Francesco Lo Piccolo. La stessa, della durata di 5 anni, prevede attività di pubblica utilità non retribuita: l’ente si dichiara disponibile a ricevere presso le proprie strutture due persone che siano state condannate con sospensione della pena condizionata allo svolgimento di attività in favore della collettività. In linea con quella che è la mission dell’associazione che da anni si occupa del reinserimento sociale delle persone in stato di disagio e degli ex detenuti, l’intesa si aggiunge alle altre convenzioni di Voci di dentro, come quella con l’Udepe (Ufficio esecuzione penale esterna) di Pescara, per dare chance e nuove opportunità di inserimento alle persone finite nel circuito della giustizia. “Da 15 anni - spiega Lo Piccolo - Voci di dentro opera nelle carceri di Chieti e Pescara con laboratori di scrittura e teatro. Ma oltre che all’interno degli istituti di pena, l’associazione accoglie nella sede di via De Horatiis 6 a Chieti diverse persone affidate ai servizi sociali: con loro sono in piedi attività varie, soprattutto il lavoro di redazione per la realizzazione della rivista. Come associazione provvediamo all’assicurazione e regolarmente relazioniamo agli uffici competenti sull’andamento del progetto. Complessivamente l’associazione ha accolto almeno un centinaio di persone, giovani, adulti, donne. L’obiettivo è sempre uno: fare cultura e dare aiuto alle persone in stato di disagio sociale e economico spesso causa di azioni devianti”. Reggio Calabria. Al carcere di Arghillà, la prima aiuola della legalità avveniredicalabria.it, 15 settembre 2022 I detenuti si prenderanno cura di un albero dedicato alla memoria del giudice Falcone. Giorno 19 settembre presso la Casa Circondariale di Reggio Calabria “Arghillà” verrà inaugurata la Prima aiuola della legalità interamente costruita e realizzata per la messa a dimora dell’albero di Falcone. Un progetto nato mesi fa promosso dall’Ufficio della Garante dei detenuti Avv. Giovanna Francesca Russo e realizzato grazie alla sinergia istituzionale con il Tenente Colonnello Giuseppe Micalizzi del Reparto Carabinieri Biodiversità di Reggio Calabria e con la Comandante Maria Luisa Alessi e l’allora Direttrice reggente Dott.ssa Patrizia Delfino per l’Amministrazione Penitenziaria di Reggio Calabria. Effettuata la richiesta da parte dell’Ufficio del Garante mediante apposita piattaforma ministeriale, per la donazione dell’albero della legalità nell’ambito del Progetto Nazionale di educazione alla legalità ambientale “Un albero per il futuro”, promosso dal Ministero della Transizione Ecologica, il Reparto Carabinieri Biodiversità di Reggio Calabria ha effettuato dei preventivi sopralluoghi al fine di verificare l’adeguata localizzazione dell’albero che sarà donato all’Istituto di Arghillà. Una Talea, simbolo dell’impegno dello Stato nella lotta contro le mafie. La presenza dell’Albero di Falcone, messo a dimora per la prima volta dentro l’aiuola di un Istituto Penitenziario, è un segnale fortissimo di concreto impegno ad attenzionare sempre più verso le fasce deboli della società. Concorrerà a sensibilizzare e responsabilizzare le persone private della libertà personale sul tema dell’impegno personale e sociale, ma soprattutto del riscatto umano percorribile mediante percorsi di legalità. Rieducare, risocializzare, reinserire vuol dire anche diffondere la cultura che una seconda possibilità esiste per tutti. Questa aiuola della legalità, realizzata presso la Casa circondariale di Arghillà, le cure alla stessa dedicate, presenti e future, rappresenteranno un simbolo di riscatto e rinascita di cui gli stessi detenuti saranno quotidianamente responsabili. Sarà la primissima occasione in Italia, “a dimostrazione concreta - ancora la garante Russo - che anche da Reggio, dalla Calabria, il sistema penitenziario può e vuole essere all’avanguardia nei percorsi di sensibilizzazione alla legalità e restituzione alla società civile di donne e uomini riscattati dal reato commesso. Dopo 30 anni dalle peggiori stragi di mafia, lo Stato torna a dare una risposta e lo fa partendo dalla nostra città, nella città reclusa. Presenti all’evento le massime autorità civili, religiose e militari del territorio”. L’educazione alla legalità deve rimanere un caposaldo della formazione sociale, culturale e umana dei nostri territori. “La promozione e la difesa dei valori del Nostro Stato è un impegno diffuso dalla costante sinergia istituzionale reggina che sceglie ancora una volta di piantare semi di legalità e lo fa partendo da un istituto penitenziario”, conclude Giovanna Russo. Firenze. “Spiragli”, il festival itinerante ‘dentro e fuori’ il carcere minorile comune.fi.it, 15 settembre 2022 Spettacoli in prima, co-produzioni, teatro digitale con l’utilizzo dell’Intelligenza Artificiale, mostre di fotografia, eventi, laboratori e concerti, dentro e fuori dal carcere, per riflettere su identità e trasformazione al giorno di oggi. È tutto pronto per “Spiragli - Teatri dietro le quinte”, la quarta edizione del festival, organizzato dalla compagnia teatrale Interazioni Elementari, diretta da Claudio Suzzi, che si svolgerà dal 21 al 30 settembre 2022 a Firenze. Vari i luoghi, a partire dall’Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze - unico istituto minorile in Toscana e Umbria - per irradiarsi in luoghi significativi della città, dalla Fondazione Zeffirelli al Parco delle Cascine, dalla Biblioteca delle Oblate ai cinque quartieri (Q1, Q2, Q3 Q4 e Q5) per la mostra “Spiragli di donna”. In programma due nuovi spettacoli (“MetaMoreFaces 2” il 24/09 e “Pinocchio nel ventre del pescecane” 30/09), la mostra itinerante “Spiragli di donna” con opere dei detenuti di due carceri (fino al 29/09 con un evento di chiusura con l’artista Clet Abraham) i concerti con Fiati Sprecati, MondoCane eVeeblefetzer (22/09) e un laboratorio di scrittura creativa con Alessandro Raveggi. Il festival ha il supporto del Comune di Firenze per Estate Fiorentina 2022, è finanziato dal bando “Siete Presente” realizzato da Cesvot e finanziato da Regione Toscana-Giovanisì, con il supporto del Ministero della Giustizia - Dipartimento di Giustizia Minorile e di Comunità, della Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze, con la collaborazione e il supporto di Istituto Penale per i Minorenni G. Meucci di Firenze, in partnership con Polaris Engineering, AVP - Associazione Volontariato Penitenziario, Associazione Progress, La Poltrona Rossa, ARCI Firenze, Arcigay, Unifi-Dipartimento Fotlilpsi, Biblioteca delle Oblate, BiblioteCaNova, Chiesa di S.Maria a Ricorboli, Quartiere 1, Quartiere 2, Quartiere 3, Quartiere 4, Quartiere 5. Al cuore del programma, due nuove produzioni. La prima, il 24 settembre presso la Fondazione Zeffirelli, in collaborazione con il Festival PerformIA, organizzato da Polaris Engeenering, con lo spettacolo di ‘teatro digitale’ “MetaMoreFaces - studio sulle idiosincrasie dei volti - secondo studio”, una performance di teatro e danza ispirata a “Le Metamorfosi” di Ovidio, messa in scena dagli attori della compagnia teatrale al fianco degli algoritmi di Intelligenza Artificiale. Un lavoro innovativo che si avvale dell’uso del morphing digitale, a cura di Polaris Engeenering, e di un impianto audio video interattivo, in collaborazione con Accademia LABA di Firenze. Il progetto lavora con alcune categorie sociali a cui da sempre Interazioni Elementari rivolge lo sguardo: transgender e detenuti. Al cuore, il tema dell’identità, sviluppata in cinque quadri; l’obiettivo è quello di sensibilizzare lo spettatore alla vita reale di queste persone: si uniscono sulla scena, infatti, l’a-temporalità delle opere eterne di Ovidio e la contemporaneità delle vite frangibili degli esseri umani. Un’esperienza resa ancora più immersiva grazie al software MetaMoreFaces che grazie all’utilizzo di reti neurali generative riesce a proiettare dei video in cui si mostra la crescita anagrafica degli attori in scena, facendone vedere i volti che da bambini crescono fino a raggiungere l’anzianità. Per riuscirci sono stati impiegati algoritmi addestrati a tecniche di morphing facciale che agiscono su due foto di due età diverse della stessa persona, tracciandone i cambiamenti in un video come se quella persona stesse invecchiando davanti agli occhi dello spettatore, in tempo reale. L’Intelligenza Artificiale, quindi, diventa un vero e proprio attore in scena. Il 30 settembre - giorno di chiusura del festival - per la consueta “Festa in carcere” nel carcere minorile Meucci, dopo il concerto de I fiati sprecati, sarà presentato il primo studio di “Pinocchio nel ventre del pescecane”, per la regia di Claudio Suzzi, un lavoro sul celebre burattino di Collodi a cui partecipano in qualità di attori sette detenuti che svolgono il laboratorio permanente di teatro in carcere. Lo spettacolo, che sarà ulteriormente sviluppato e proposto nella stagione 2022/2023 della compagnia teatrale Interazioni Elementari, coinvolge i ragazzi detenuti che si confrontano con la storia e il personaggio di Pinocchio, un archetipo del percorso di trasformazione, sia fisica che di coscienza, da ragazzo ‘monello’ a ‘bambino vero’. La scenografia (giocate soprattutto con tecniche di teatro d’ombre) e le maschere sono a cura di Olimpia Bogazzi e Nanan Khalilurrahman, le musiche a cura di Vincenzo Zingaro e le luci a cura di Niccolò Downie. L’evento è solo su prenotazione e per un numero ristretto di persone. Dice Claudio Suzzi, direttore della Compagnia Interazioni Elementari: “Sia MetaMoreFaces che Pinocchio si inseriscono nelle tematiche che stiamo portando avanti con la compagnia, ovvero la mutazione, la trasformazione, il cambiamento, l’identità. Questa volta portiamo alcune persone in carcere, per una riflessione più profonda. È la prima apertura a un pubblico esterno dopo la pandemia, sebbene non sia il nostro primo spettacolo in carcere: dal 2017, anno di fondazione della compagnia, abbiamo realizzato sei spettacoli con il coinvolgimento dei detenuti tra cui One Man Jail, giocata tra il dentro e il fuori grazie alla diretta streaming. Mettere in scena un testo iconico come Pinocchio con dei detenuti minorenni è senza dubbio una esperienza da non perdere”. Per tutto il mese, fino al 29 settembre è in corso la mostra di arte figurativa “Spiragli di donna”, a cura de La Poltrona Rossa e Progress Aps, due associazioni che lavorano con arteterapia e devianze sociali. In cinque luoghi significativi dei cinque quartieri di Firenze (Sala delle Ex Leopoldine del Quartiere 1, Biblioteca CaNova del Quartiere 4, Biblioteca di Villa Bandini del Quartiere 3, Biblioteca Buonarroti - Sala Lud del Quartiere 5, Parterre - Sala dei Marmi del Quartiere 2) saranno esposte le opere realizzate dalle ragazze detenute nell’Istituto Penale per Minorenni di Pontremoli della provincia di Massa Carrara e i ragazzi ristretti nell’Istituto Penale per Minorenni Meucci di Firenze. Un gemellaggio tra le giovani e i giovani delle due strutture, un dialogo tra opere che hanno come tema la donna, che mette a confronto due realtà molto affini, quanto distanti. In entrambe, l’arte come valvola di salvezza e strumento di libertà attraverso la propria creatività. Madri, compagne, sorelle compongono una galleria di ritratti ora innocenti, ora forti, passionali, coraggiosi. Nella giornata conclusiva, il 29 settembre, saranno donate cinque opere ai Presidenti di Quartiere del Comune di Firenze, mentre l’artista Clet Abraham regalerà una sua creazione al Carcere Minorile di Firenze. In apertura del progetto, il 22 settembre alle ore 21.00 all’ULTRAVOX al Parco delle Cascine ci sarà una serata di world music con gruppi del calibro di Veeblefetzer e MondoCane. I Veeblefetzer, quartetto romano dal sound riconoscibile, forte di un ‘tropical gypsy’ presente anche in alcuni film quali “La profezia dell’Armadillo”, hanno un’attitudine musicale definita ‘globalista e fuori dagli schemi, quasi che una linea immaginaria ma in fondo tangibile unisca echi di dub tra le baracche di Kingston e sprazzi di puro rock’n’roll’; MondoCane aka Andrea Cota, dj, musicista e producer, si definisce un “agitatore musicale e cultore dei suoni globali”, che viaggia fra atmosfere mediorientali e tropicali amalgamate alla musica elettronica.Ottimo per far muovere la giungla urbana. Completa la serata il dj set di Coqò Djette. Da sottolineare il laboratorio di scrittura creativa condotto da Alessandro Raveggi dal titolo “La metamorfosi di Franz Kafka: esperimenti di riscrittura tra dentro e fuori il carcere”, che si terrà fra la Biblioteca dell’i.p.m. “Meucci” il 21 ed il 23 settembre (evento solo per i ragazzi detenuti) mentre il 22 e il 24 dalle ore 9.30 alle ore 12.30 per tutti sula terrazza della Biblioteca delle Oblate (necessaria l’iscrizione). Aggiunge il direttore artistico Claudio Suzzi: “La nostra missione è offrire tante occasioni ed eventi sia ‘dentro’ che ‘fuori’ dal carcere, a testimoniare la volontà sempre più marcata della Compagnia Interazioni Elementari di voler costruire un pubblico trasversale e flessibile, che segua l’arte ovunque, senza barriere, confini o cancelli immaginari e reali da dover oltrepassare. Così come per gli artisti e performer, che recitano e si esibiscono ognuno con il proprio bagaglio, siano essi giovani detenuti, artisti professionisti o persone appartenenti a categorie marginalizzate della società. Perché nel grande universo di Interazioni Elementari, dove l’arte crea spazi d’incontro e di dialogo, non vi è differenza che non possa essere valorizzata”. Il manifesto del festival è dell’illustratrice Vincenza Peschechera “artista romana che ha ben interpretato il nostro progetto di teatro e concept dell’evento che, tra varie difficoltà, riesce anche quest’anno ad aprire spiragli di conoscenza e consapevolezza, in un rapporto costante tra arte e società. Tutto questo è possibile grazie alle Istituzioni della Città di Firenze che stanno seguendo e valorizzando il nostro lavoro, ma soprattutto grazie all’impegno e alla sensibilità della Direzione dell’I.P.M. “Meucci” di Firenze, agli educatori dell’Area Pedagogica e a tutto il Corpo di Polizia Penitenziaria”, conclude Suzzi. Procida 2022, il carcere diventa cinema: la realtà virtuale racconta la vita dei detenuti di Anna Chiara Delle Donne filmpost.it, 15 settembre 2022 Entrare nella cella di un vecchio carcere, a picco sul mare, e immergersi - con l’ausilio della realtà virtuale - nella vita dei detenuti, vivendo le loro stesse sensazioni, restituite da straordinarie riprese effettuate in un carcere di Torino. Sarà una delle esperienze di OndeVisioni, la rassegna che - dal 16 al 18 settembre - porta a Procida, nell’ambito del programma da Capitale Italiana della Cultura, riflessioni su cinema e audiovisivi, multimedialità e transmedialità. In particolare il complesso di Palazzo d’Avalos, casa circondariale fino alla fine degli anni 80, ospiterà tutti i giorni - dalle 10 alle 13 - il cortometraggio in realtà virtuale “VR Free” del regista iraniano Milad Tangshir. “Il nostro - spiega il regista - è un tentativo di mostrare al pubblico il mondo nascosto del carcere, una richiesta di partecipazione all’urgente discussione sugli spazi detentivi. Mi ha ispirato, più che l’idea di un atto di denuncia, il desiderio di mostrare allo spettatore, nel modo più immersivo possibile, i luoghi attraverso i quali si sottrae tempo e spazio all’essere umano. Girare nel carcere di Torino è stata un’esperienza indimenticabile, proporre il corto in un luogo che a sua volta è stato carcere sarà senz’altro interessante.” Come tutti gli eventi, la fruizione del cortometraggio - un progetto dell’associazione Museo Nazionale del Cinema, prodotto da Valentina Noya - è gratuita (info www.procida2022.com). La fruizione, con un visore, di “VR Free” di Milad Tangshir è uno degli appuntamenti di “OndeVisioni”, la nuova rassegna dedicata al cinema e agli audiovisivi. Con un omaggio a Libero De Rienzo e la presenza di Gabriele Mainetti. Alla rassegna OndeVisioni, a cura di Daniele De Cicco e Gennaro Carillo, partecipano cineasti, scrittori, artisti digitali, filosofi, antropologi, esperti di multimedialità e transmedialità per offrire riflessioni, spunti e intuizioni su un mondo in completa evoluzione. “Vogliamo generare nel pubblico un approccio sempre più critico e consapevole ai fenomeni della contemporaneità”, spiega Agostino Riitano, direttore di Procida 2022. In contemporanea con la visione di “VR Free”, nell’ex chiesa di Santa Margherita Nuova viene proposto (alla presenza della regista) il cortometraggio in realtà virtuale Mono di Chiara Troisi, sviluppato al Biennale College Cinema e presentato in anteprima alla Mostra del Cinema di Venezia. Inoltre, vengono allestite tre postazioni del videogioco Redout (sviluppato dallo studio italiano 34BigThings) per fruire di un’esperienza insieme ludica e narrativa, con l’ideatore Ivano Zanchetta. Nel pomeriggio le attività si spostano al Cinema Procida Hall, dove - a partire dalle 15.00 - è previsto un forum a cui partecipano ospiti e pubblico, in un dialogo aperto su varie declinazioni del tema Immaginare Futuri: venerdì 16 L’immagine a venire (con Riccardo Milanesi, Daniela Minuti, Carlo Rodomonti); sabato 17 Black Mirror / White Mirror: la paura e la speranza (con Stefano Balassone, Aldo Schiavone, Giorgia Serughetti); domenica 18 Il desiderio è futuro (con Cristina Battocletti, Giuseppe Sansonna, Raffaele Alberto Ventura). A ogni forum seguono due proiezioni di film a tema: venerdì 16, alle 17.30 Gravity di Alfonso Cuarón (introdotto da Riccardo Milanesi), alle 20.30 Freaks Out di Gabriele Mainetti (introdotto dal regista); sabato 17, alle 17.30 Blade Runner di Ridley Scott (introdotto da Stefano Balassone), alle 20.30 Crimes of the Future di David Cronenberg (introdotto da Aldo Schiavone); domenica 18, alle 17.30 Metropolis di Fritz Lang (introdotto da Raffaele Alberto Ventura), alle 20.30 Titane di Julia Ducournau (introdotto da Cristina Battocletti). Procida 2022 è un progetto del Comune di Procida, sostenuto dal MiC e dalla Regione Campania con i fondi a valere sul POC Campania 2014-2020. Main sponsor è Voiello; gold partner Anm, Asl Napoli 2 Nord, Caremar, Eav, Snav e Trenitalia; bronze partner Coldiretti Campania e Marina di Procida. Media partner è Rai. “Per niente al mondo”, mala giustizia nel Nord-Est di Francesco Gallo ansa.it, 15 settembre 2022 Caprino protagonista del film di D’Emilio in sala domani. La vita, come si sa, è piena di sorprese e basta un evento per cambiare le cose, ma anche quando questo accade alla fine si può sempre scegliere. È il caso di Bernardo (Guido Caprino) chef cinquantenne affascinante e di successo, pieno di amici e soldi e con la passione per il rally. Vive solo con una figlia (Irene Casagrande) e tutto sembra sorridergli quando, per un brutto scherzo del destino, un giorno tutto cambia e Bernardo si ritrova in galera. Uscito, dopo un anno, si trova di fronte a una difficile scelta: accettare quello che è successo o, per continuare a galleggiare, diventare un altro, cambiare totalmente status ed etica. Questo, in estrema sintesi, quello che accade in questa piccola tragedia veneta di PER NIENTE AL MONDO opera seconda di Ciro D’Emilio distribuito da domani nelle sale cinematografiche da Vision Distribution. Nel cast, accanto a Guido Caprino, anche: Boris Isakovic, Antonio Zavatteri, Diego Ribon, Antonella Attili, Josafat Vagni e Valentina Carnelutti. “Lo spunto viene dalla cronaca - dice oggi all’incontro stampa Ciro D’Emilio che ha esordito nel 2018 con UN GIORNO ALL’IMPROVVISO, selezionato in concorso a Venezia 75 Orizzonti - ed è ispirato a un caso di malagiustizia. Questo ci ha fatto porre una semplice domanda: se ti ritrovi a fare un anno di carcere quando esci come fai a recuperare trenta anni di carriera e successi ricominciando da zero?”. E ancora il regista: “Nel mio primo film c’era il tema della cura, in questo invece quello della fiducia. Ma in PER NIENTE AL MONDO vengono trattati altri temi come quello della riconoscenza, quello del talento e, infine, quello degli amici prima e dopo la disgrazia “. “Giudicare quello che fa Bernardo? Non lo farei mai, anzi l’ho giustificato in tutto e per tutto. Prepararmi? Sì l’ho fatto anche se in realtà non ce n’era troppo bisogno, la sceneggiatura era fondamentalmente perfetta” dice Guido Caprino. Dice invece Boris Isakovic, che interpreta il compagno di cella serbo di Bernardo: “All’inizio non ho molto apprezzato di interpretare un cliché, quello del serbo cattivo e delinquente. Poi ho scoperto che non era così anche se, va detto, conosco molte persone in Serbia uscite dalla guerra che si sentono in diritto di prendersi tutto e in tutti i modi quasi a compensare quello che hanno perso. E se vengono in Italia si mettono a fare rapine perché pensano che in fondo gli sia come dovuto”. L’ambientazione nel nord-est? “Non è affatto casuale - dice Ciro D’Emilio -. Essendo meridionale sono sempre stato incuriosito e anche riconoscente verso il nord-est d’Italia. Non si poteva che ambientarlo lì questo film in cui il posizionamento sociale rispecchia in qualche modo la felicità ottenuta. E lo posso ben dire io che vengo da una realtà in cui si sostiene, al contrario, che si può essere felici al di là se si ha lavoro o meno”. Gli animali fanno bene al carcere, un modello di relazione da copiare di Marinella Correggia Il Manifesto, 15 settembre 2022 Questo libro di racconti e brevi saggi - Animali che salvano l’anima. L’esperienza nel carcere di Gorgona, Carmignani editore - suggella un progetto di recupero umano e animale, uno scorcio di futuro possibile nato sull’isola-carcere di Gorgona, nell’arcipelago toscano. Là venivano allevati e macellati ogni anno centinaia di animali fra i quali vitelli, maiali, conigli, galline, pecore, cavalli, capre - ai quali è dedicato il disegno di copertina. Ora il luogo e la sua realtà carceraria si sono trasformati: dal binomio “carcere più macello” a un laboratorio di difesa delle altre specie e di riscatto per gli umani. È il progetto portato avanti per due anni dall’associazione Lav, con la direzione del carcere: la chiusura definitiva del macello e la salvezza di quasi 600 animali, trasferiti sulla terraferma in rifugi o dati in adozione. Si può parlare di “Modello Gorgona, fondato sul rapporto umani-animali come mezzo di rieducazione e riabilitazione, non più basato sullo sfruttamento ma sulla cura e sul rispetto reciproci”, spiega la Lav. Come è avvenuto? Giovanni de Peppo, ex garante delle persone private della libertà personale del comune di Livorno, scrive di “un esperimento straordinario che l’isola-carcere di Gorgona sta percorrendo da qualche anno. Tre i protagonisti: un direttore visionario, un veterinario che decise di ottemperare al giuramento di Ippocrate anche nei confronti dei suoi pazienti animali e soprattutto i detenuti, che pensarono di non poter esercitare violenza e prevaricazione neanche sugli animali”. Dopo una grande mobilitazione, con raccolte di firme, conferenze, articoli, libri, mozioni parlamentari, ecco, scrive Silvia Buzzelli docente di diritto-penitenziario, “la svolta di Gorgona, la chiusura cioè di un’istituzione totale estrema (un macello) nella quale lavoravano i detenuti. (…) La necessità di assicurare una vita responsabile ed esente dal crimine mal si concilia con i lavori cruenti del mattatoio, e con la partecipazione alla catena di smontaggio degli esseri”. Una svolta da difendere e monitorare. Il direttore del carcere Mazzerbo conclude la sua presentazione con parole impegnative auspicando che Gorgona “sia sempre di più l’isola dei diritti”. E l’empatia verso gli animali prende forma tra le righe dei vividi racconti elaborati dai detenuti, grazie a un laboratorio di scrittura. Ecco il pappagallo Ciccio che, nel carcere di Volterra, “sapeva ormai parlare in molte lingue in quanto noi eravamo provenienti da tanti paesi. Parlava e cantava sempre, rallegrando le lunghe giornate”. E il piccolo passero in difficoltà, appena nato, adottato da un altro detenuto in un soggiorno carcerario precedente a Gorgona: “Era capace di seguire i gesti della mia mano e si spostava quasi seguendomi, come se volesse imparare a vivere grazie alla mia mano. A quel tempo ero in una cella del carcere di Fossombrone e accadde che un detenuto mio amico mi portò quell’uccellino in difficoltà, sapendo che io avrei trovato il modo per aiutarlo. Lo avevo chiamato Mia - era una femmina - e quando le facevo vedere il mio dito e la chiamavo ci saltellava sopra. Quell’abilità era nata dalla mia determinazione a insegnare a Mia che se saliva sul mio dito avrebbe poi avuto del cibo. Era uno scambio di favori che ci facevamo, con il mio desiderio di accudirla e il suo desiderio di ricevere del cibo da me”. Arthur, un altro detenuto-scrittore, alla domanda “Che animale vorresti essere” risponde che non vorrebbe essere un’aquila perché “caccia animaletti che non fanno male a nessuno”; idem per lo squalo o il leone. Dunque… “scelgo la formica, perché tra di loro sono unite, capaci di proteggersi e cosa più importante puliscono il proprio ambiente dal marcio, dagli invasori, dalla sporcizia”. E poi il racconto di un detenuto indiano: un toro portato in uno dei cinquemila ricoveri per bovini dove alla fine domò la sua rabbia per un’offesa ricevuta. E tartarughe, falchetti, il cavallo Diego. E Andrea che scrive della sua “voglia di essere un albatros, nomade, solitario e avventuriero come me”. Negazionismi. Prima la Shoah, poi il Covid, ora la guerra di Luca Mastrantonio Corriere della Sera, 15 settembre 2022 Come pensa e agisce chi denigra o rifiuta la realtà. Nel film “L’ombra sulla verità”, un professore di storia nega le camere a gas e minaccia la famiglia di origine ebraica di cui è inquilino. Oltre la fiction, viaggio tra chi non afferma verità alternative, ma nega fatti storici che gli altri riconoscono come veri. Premessa: in questo articolo l’aggettivo “negazionista” non è usato come insulto indiscriminato, descrive chi mantiene una posizione riguardo qualcosa in una forma di pensiero negativo, perché non afferma una verità alternativa, ma nega un fatto storico che altri riconoscono come vero. È facile riconoscere il negazionista perché il suo linguaggio è ricco di aggettivi scettici riguardo le verità storiche presentate come “cosiddette”, messe tra virgolette, derise come “sedicenti”. Se suona come un insulto è perché il termine “negazionismo” originariamente si riferisce a quanti dicono che la Shoah sarebbe una grande bugia. Alcuni lo fanno senza crederci, per una forma di rivincita di cieco sadismo: hanno subìto un torto nella vita e godono nel negare quelli subìti da altri. Altri contrabbandano antisemitismo. La componente antisemita e la verità di Le Guay - Non tutti i negazionisti sono antisemiti, ma è raro trovare un antisemita che non sia un po’ negazionista. Negare l’Olocausto maschera bene il desiderio di negare agli ebrei il diritto di esistere. Ne è un esempio il protagonista del film L’ombra sulla verità di Philippe Le Guay, un professore di Storia che nega l’esistenza delle “sedicenti” camere a gas e preferisce parlare dello sterminio degli indiani d’America: “Nessuno vuole che se ne parli, come mai? Molte sono le verità che non vi dicono”. Il che porta al para-sillogismo per cui tutto quello che non viene detto è vero. Cacciato da scuola, ridotto a un paria, si rifugia in una cantina comprata da un uomo dal cognome ebreo con cui instaura una guerra psicologica che lo porta a occupare il posto della vittima. Quelli che tendono a fare le vittime - Ecco perché usare il termine negazionista come insulto generico è rischioso. Il negazionista, quando non è in una posizione di forza, armata o violenta, tende a fare la vittima, così sposta il piano del discorso: dalla verità che lui attacca alla libertà d’opinione messa sotto attacco. Libertà d’opinione sua, ma potenzialmente di chiunque altro. Di fatto la sequestra, con il suo atteggiamento passivo-aggressivo. E vale anche per i negazionismi derivati, più recenti, che lamentano la mancanza di libertà. C’è chi nega che l’uomo è andato sulla Luna, che gli attentati alle Torri gemelle sono opera di terroristi islamici, che la Terra è rotonda, che l’uomo sta accelerando il cambiamento climatico, che il Covid è una pandemia mortale, che i russi uccidono civili in Ucraina... Per alcuni, mettere questi negazionisti sullo stesso piano di chi nega la Shoah è sminuirne la memoria sacra. Di certo è un insulto al quadrato quello che hanno fatto alcuni No Vax che si sono messi delle simil-divise dei prigionieri nei lager. C’è d’altronde chi riesce a negare la Shoah e poi a paragonarsi alle sue vittime. “Siamo tutti negazionisti” - Ovviamente, su un piano strettamente logico, tutti siamo potenzialmente negazionisti di qualcosa di cui altri sono certi. Per esempio: io agli occhi di un terrapiattista sono un negazionista, perché nego che la Terra sia piatta. Infatti, credo sia tonda. Di più, ne sono certo, me l’hanno insegnato a scuola. E posso dimostrare che è vero? Ci sono foto satellitari, documenti di chi ha circumnavigato il globo... Però - questo è il punto - non ci avevo mai pensato prima di scoprire che ci sono i terrapiattisti. Ecco. È il vantaggio dialettico che il negazionista si prende senza negoziare. Al di là di certi giochi di prestigio numerici, non sostiene una tesi portando delle prove sue, ma attacca la controparte pretendendo che lei ne produca di assolute, che comunque si riserva il diritto di rigettare. Un meccanismo simile a quello delle pseudoscienze analizzate da Karl Popper che rovesciano l’onere della prova delle loro teorie agli scienziati. Quelli che “l’Uomo non è mai andato sulla Luna” - Prendiamo un caso più leggero, l’allunaggio. Di fronte alle immagini, alle interviste degli astronauti, il negazionista direbbe: “È tutto finto, una messinscena. Voglio prove oggettive”. E se anche gli portassero il tratto di Luna calpestata da Neil Armstrong, ribatterebbe: “Chi mi garantisce che è vero suolo lunare?”. Una soluzione, costosa, sarebbe mandarlo sulla Luna. Ma lui direbbe che l’hanno drogato e messo in un simulatore... Da almeno vent’anni il negazionismo è in crescita. Quello antisemita è radicato in alcune culture e aree del mondo, e aspetta la morte dell’ultimo sopravvissuto ai lager. Spettacolarizzazione attraverso i social - Negazionismi derivati o più recenti hanno l’età dei media digitali dove proliferano, anche perché i social hanno introiettato il meccanismo binario da talk show televisivo che spettacolarizza la contrapposizione pro/contro. Si è creata una rete globale da baratto low cost, che piace anche a certi Stati: “Tu neghi lo sterminio degli Armeni, io negherò quello degli Uiguri, tu nega il diritto a esistere dell’Ucraina, io lo farò con Taiwan...”. E in Italia? Negli ultimi due anni abbiamo visto fior di intellettuali negare in toto o in parte la mortalità dell’epidemia di Covid o i piani criminali dei russi in Ucraina. C’è il pensatore che nelle prime settimane ha scritto con la prolissa avventatezza di Facebook un libro contro la dittatura sanitaria, e l’opinionista che grida alla censura perché i giornali non pubblicano il testo in cui sostiene che i morti civili ucraini uccisi dai russi non sono morti, non sono civili, non sono ucraini perché l’Ucraina non esiste. Che lo facciano per retaggio ideologico, provocazione o tornaconto personale non importa. Negazionismo = ignoranza. Sinonimo da smentire - Se li chiamate negazionisti si indignano, vi querelano o vi sbattono in faccia la loro cultura. Il che, almeno, smentisce il luogo comune per cui il negazionismo è sinonimo di ignoranza: no, ma la sfrutta, come sfrutta la rabbia sociale, il risentimento diffuso, il senso di ingiustizia ed emarginazione di chi cede alla tentazione di dire un grande no al mondo. Per dispetto, sfiducia, nichilismo, ribellione. Viene da pensare alla scena di Matrix (1999) in cui Morpheus offre al protagonista Neo la scelta tra la pillola che annebbia il cervello e quella che apre gli occhi della mente. Pillola blu: “Fine della storia, domani ti sveglierai in camera tua e crederai a quello che vorrai”. Pillola rossa: “Resti nel paese delle meraviglie e vedrai quanto è profonda la tana del Bianconiglio”. Poi aggiunge, con falsa modestia: “Ti sto solo offrendo la verità, niente di più”. I 4 milioni di risarcimento imposti ad Alex Jones - Niente di più? Alex Jones, un conduttore radiofonico americano di estrema destra, è stato da poco condannato a pagare 4 milioni di dollari per la campagna diffamatoria contro le vittime della strage del 2012 alla scuola Sandy Hook, nel Connecticut, dove un ventenne uccise venti bambini e sei insegnanti. Ripeteva che quelle persone erano attori al soldo del governo, una messinscena per criminalizzare il diritto alle armi. Poi però alcuni fanatici hanno sparato contro le case di alcuni parenti delle vittime, minacciandoli di morte. Un personaggio influente che nega un evento in cui sono morte delle persone non sta solo negando quel fatto, ma pure il dolore che le morti hanno causato. Nega l’umanità di chi prova quel dolore, la paura che succeda ancora, nega la sua umanità e dunque il suo diritto a esistere. Non tutti i negazionismi sono uguali. Alcuni sono più disumani di altri. L’immaturità della politica di Gustavo Zagrebelsky La Repubblica, 15 settembre 2022 Con i cambiamenti continui i cittadini vengono allontanati dai partiti. In nessuna “democrazia matura” c’è stato, o c’è, un turbinio di leggi elettorali come in Italia. Ma, l’Italia è una democrazia matura? Se la maturità è il tempo della stabilità, della consapevolezza di sé, della fiducia che abbiamo in noi stessi e ispiriamo negli altri, dell’affidabilità e della serietà, c’è da dubitare. Le riforme elettorali, talora in prossimità delle elezioni, perfino imposte con il voto di fiducia di chi è momentaneamente al governo per restarci, sono segno di smarrimento della bussola o tentativi di truccare i risultati a proprio favore. Furbizie, non istituzioni. Le elezioni - In meno di venticinque anni, a partire dai referendum del 1991 e del 1993 contro “la proporzionale”, abbiamo avuto vari sistemi elettorali strampalati di cui ci facciamo beffe perfino nel gergo: mattarellum, porcellum, italicum (dichiarato incostituzionale prima ancora d’avere la possibilità d’essere applicato), rosatellum, salvo poi, in fine, da parte di molti che si erano dati da fare, auspicare il ritorno al punto di partenza: la proporzionale! Il paradosso è che coloro che si sono prodigati, l’hanno sempre fatto, per l’appunto, con l’intento di farci ‘maturare’: cittadino-arbitro, scettro al principe, democrazia dell’alternanza e decidente, bipolarismo, governabilità e altre parole d’ordine piene di nobili intenzioni, guarnite dai suggerimenti tecnici degli esperti, volta a volta infatuati da questa o quella “esperienza” raccolta in giro per il mondo, dal Regno Unito a San Marino, passando per la Germania, la Francia e la Spagna, oppure compiaciuti per avere escogitato qualcosa di propriamente italiano che tutta Europa ci avrebbe invidiato. E ora, attendendo il 25 settembre, tratteniamo il respiro: non perché tutti gli esperti di umori elettorali prevedono la vittoria di una parte che può piacere più, meno o nulla. Questi sono giudizi politici. Ma perché si prospetta l’eventualità che una coalizione elettorale, stimata intorno al 45 per cento dei votanti, in presenza di un altro 45 per cento di astenuti - dunque una esigua minoranza del totale - ottenga in parlamento un numero di seggi abnorme che le permetterebbe di fare qualsiasi cosa, anche di cambiare da sola, volendo, la Costituzione. La legge elettorale vigente (a differenza di quelle precedenti) non parla di “premi di maggioranza”; tuttavia consente una tale distorsione della rappresentanza da fare impallidire le leggi precedenti che li prevedevano. Questa legge non è piovuta dal cielo ma è stata imposta addirittura con voti di fiducia, ed è comprensibile che venga ora la l’allarme da parte di chi l’ha ereditata per evitare o limitare un disastro democratico (ma è meno comprensibile se proviene da coloro che ne hanno determinato le premesse). Dicono: votate per noi se, quel guaio che si prospetta a causa della legge che noi stessi abbiamo fatto, volete evitarlo. Abbiamo stabilito che tanti seggi siano attribuiti ai candidati che prevalgono anche solo per un voto in ciascun collegio e non immaginavamo ciò che ora le previsioni mettono davanti agli occhi: che quasi tutti, così, saranno appannaggio di candidati del raggruppamento avverso. Siamo pifferi di montagna venuti per suonare e rischiamo d’essere suonati. Non basta. La legge con la quale voteremo è conforme alla Costituzione? La Corte costituzionale si è pronunciata più volte sulla genuinità e libertà dell’esercizio del diritto di voto, caposaldo di democrazia. Ora, la legge che abbiamo è un ibrido o meglio, un mostro, un ircocervo in parte capro e in parte cervo. Mette insieme due logiche antitetiche. È maggioritaria per 1/3 e proporzionale per 2/3. Sebbene dal 1993 con diversi dosaggi sia stato così, ciò non impedisce di vedere che il mostro ha due teste che pensano l’una all’opposto dell’altra. La testa maggioritaria dice agli elettori: a chi farete prevalere sugli altri, anche per pochi voti, darò la vittoria e agli altri toccherà la sconfitta. La testa proporzionale, invece, non promette vittorie, né minaccia sconfitte, ma dice benevolmente: otterrete in seggi quanto avrete ottenuto in voti, sia pure in miniatura. Sono due concezioni politiche che hanno, ciascuna, una loro logica, ma sono logiche che si escludono, non si sommano. Non si può volere vittoria e sconfitta e, al tempo stesso, né vittorie né sconfitte ma “a ciascuno il suo”. Sono in gioco due alternativi atteggiamenti psicologici degli eletti e, prima ancora, degli elettori. L’elettore consapevole del meccanismo duplice che è chiamato a far funzionare si trova facilmente nel dubbio: voto per “vincere” o voto per “rappresentare”? Questo elettore resta poi sbalordito quando viene a sapere che, sebbene gli si chieda di partecipare a due consultazioni, l’una per la quota maggioritaria e l’altra per quella proporzionale, gli si dà in mano un solo voto che vale per l’una e per l’altra parte. Un voto che vale due: se scegli una lista per la parte proporzionale ciò vale automaticamente per il candidato per la parte maggioritaria, e viceversa. In breve: i partiti manipolano il 50 per cento della libertà del tuo voto e lo fanno per assicurarsi i posti per i candidati che interessa a loro che siano eletti. La sacrosanta libertà elettorale è così platealmente violata. L’elettore consapevole avverte d’essere strumentalizzato. Tanto più, poi, in quanto nella quota proporzionale si presentano “liste bloccate” e l’elettore non può fare scelte di preferenza tra i candidati. In sostanza, crede di essere libero ma, in buona parte, è un prigioniero di scelte altrui: se gli piace un certo candidato nella quota maggioritaria, il suo voto trascina la lista nella quota proporzionale, anche se non gli piace affatto; se gli piace la lista proporzionale, il suo voto trascina il candidato nella quota maggioritaria, anche se ne farebbe volentieri a meno. In più, non può far valere alcuna scelta sulla quota proporzionale perché i candidati sono predisposti in un ordine ch’egli non può modificare. I partiti già non godono di molto credito, ma possiamo pensare che un sistema elettorale come questo li avvicini ai cittadini, come dovrebbe accadere in ogni occasione in cui li si convoca al voto, e non invece li allontani? Le leggi elettorali non dovrebbero essere fatte per i partiti e per i candidati, ma per i cittadini. In Italia, da troppi anni non è così. Dovrebbero, più di tutte le altre, essere stabili e semplici. Invece, quando ci si riesce, le si cambia in prossimità delle elezioni e si guarda ai vantaggi che si spera di trarne nell’immediato. Dovrebbero essere ispirate a un solo e chiaro principio fondamentale di giustizia elettorale nel quale l’elettore possa capirci qualcosa. Le leggi elettorali dovrebbero essere le più istituzionali tra tutte le leggi ordinarie, ed invece sono tra le più occasionali. Riprendiamo dall’inizio, dal bisogno di maturità della nostra democrazia. Gli “statisti” dimostrerebbero d’essere tali se non si facessero travolgere dagli argomenti di convenienza, e i “costituzionalisti” dimostrerebbero d’essere tali se non si facessero coinvolgere, con le loro competenze, nelle croci e nelle delizie di politici che statisti non sono. La sindrome del declino spinge all’astensionismo, ma l’Italia è meglio di così di Innocenzo Cipolletta Il Domani, 15 settembre 2022 Gli stranieri hanno dell’Italia un’opinione ben migliore di quella che abbiamo noi. Logico, qualcuno dirà, noi ci conosciamo meglio. Forse, ma non esiste popolo che parli male del suo paese come quello italiano. Persino i nostri politici, quando vanno all’estero, tendono a parlare male dell’Italia o a ridacchiare di fronte ai molti luoghi comuni che ci riguardano. E non parliamo degli economisti italiani, tutti dediti a fornire analisi del perché il paese vada male, sia in declino perenne e irreversibile: crescita zero, produttività negativa, istruzione pessima, ricerca e digitale carenti, pubblica amministrazione inefficiente, servizi scadenti, imprese troppo piccole, sindacati retrogradi, imprenditori assistiti, giovani sfaticati, concorrenza inesistente, assistenza diffusa, oltre a debito pubblico alto e molte altre cose che non vanno “a differenza” di altri paesi. Se poi passiamo alla politica e a come ci dipingono i nostri media, c’è poco da sperare: instabilità permanente, classe politica corrotta e inaffidabile, dominio della “casta”. Con queste analisi, non c’è da meravigliarsi se gli italiani, quando vanno a votare, ormai votino sempre contro chi sta al governo, perché complice e attore dello sfascio generale e premino, invece, quanti fanno opposizione, in particolare di stampo populista. È così che abbiamo visto trionfare prima Forza Italia che prometteva volti nuovi, poi la Lega che voleva sfasciare l’unità del paese; quindi, il Movimento Cinque stelle che voleva aprire il Parlamento come una scatola di tonno e oggi Fratelli d’Italia che promettono cambiamenti costituzionali e vantano di essere la sola opposizione al governo Draghi. Domani toccherà ad un’altra forza politica che finirà per vincere contro il governo che risulterà dalle prossime elezioni e che avrà necessariamente fallito, perché eletto con la promessa di una rivoluzione che non ci sarà, mentre il paese continuerà con il suo andamento tendenziale. Lungi da me dire che queste analisi siano tutte errate e che tutto vada bene. Ma non possiamo neppure accontentarci dell’affermazione che l’Italia sia come il calabrone, insetto che vola, pur sfidando tutte le leggi della dinamica. La realtà è che l’Italia segue o anticipa movimenti che stanno caratterizzando tutti i paesi industriali, quelli europei in particolare. Ci sono molte cose da migliorare, ma ci sono anche molte cose che ci caratterizzano positivamente: siamo un forte paese manifatturiero, con grande spirito imprenditoriale e con lavoratori che sanno produrre. Abbiamo superato la pandemia grazie a un sistema sanitario che ha saputo reagire, pur con alcune carenze, come è avvenuto in tutti i paesi. Abbiamo istituzioni salde che ci consentono di superare l’instabilità politica e governi bizzarri senza traumi eccessivi. I nostri giovani, quando vanno all’estero, non sono secondi a nessuno. L’Italia non è in declino e non è alle prese con nessun male oscuro. Se vogliamo migliorare il nostro paese dobbiamo iniziare a basarci anche sui nostri punti di forza e non solo sulle analisi dei difetti. Se riuscissimo a guardare con un po’ più di obiettività il nostro paese e ci rimboccassimo tutti le maniche, forse finiremo anche per essere meno schizofrenici quando andremo a votare e potremo così avere qualche governo che duri quel tempo necessario per migliorare un paese dove comunque è dolce vivere. Perché la stampa va difesa di Raffaele Lorusso La Repubblica, 15 settembre 2022 L’intervento del segretario generale della Federazione Nazionale della Stampa Italiana: “Nei programmi dei partiti nessun elemento sulla salvaguardia dei media”. Caro Direttore, da tempo lo stato di salute dell’informazione italiana è precario. Il poco onorevole 58esimo posto occupato dal nostro Paese nella classifica internazionale sulla libertà di stampa certifica un declino che pare inarrestabile. L’indipendenza, il pluralismo e l’autorevolezza dei media - come ha ricordato a più riprese il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella - sono indispensabili per avere un’opinione pubblica matura e garantire la tenuta delle istituzioni democratiche. In Italia poco è stato fatto nel corso degli ultimi anni per rilanciare il settore, la cui sopravvivenza è messa a dura prova dalla crisi di un modello industriale, che ha sì una dimensione globale, ma allo stesso tempo richiede interventi strutturali da parte dei singoli governi. Nella campagna elettorale in corso, il tema informazione è fra i grandi assenti. Nelle proposte programmatiche delle varie forze politiche non c’è nulla che riguardi la salvaguardia del ruolo dei media. Un paradosso, soprattutto se si considera che in tanti, anche in questi giorni, denunciano il tentativo di apparati di disinformazione stranieri, a cominciare da quelli russi, di influenzare e condizionare l’opinione pubblica italiana. Questo pericolo, già segnalato durante il periodo della pandemia e sventato proprio grazie al lavoro degli organi di informazione professionali, dovrebbe spingere i partiti a riconoscere e valorizzare il ruolo della stampa attraverso misure mirate per affrontare la delicata fase di transizione digitale. Invece, si assiste ad una lenta ma inesorabile perdita di quote di mercato. In Italia la media giornaliera di quotidiani venduti è di poco superiore al milione di copie. Vent’anni fa era cinque volte di più. Il digitale è in crescita, ma non in misura tale da compensare le perdite della carta. Se questa situazione avesse riguardato un altro settore economico, si sarebbero moltiplicati i tavoli di confronto per cercare soluzioni. Neanche le minacce e le aggressioni fisiche ai cronisti e l’aumento esponenziale del precariato e del lavoro povero sembrano meritare l’attenzione delle forze politiche. È un atteggiamento preoccupante: fatte salve poche eccezioni, limitate a singoli esponenti del mondo politico, i giornali e i giornalisti, soprattutto quelli che ancora fanno domande scomode e promuovono inchieste, vengono percepiti come un fastidio. Anche nella legislatura che si è appena conclusa le proposte di legge per contrastare i bavagli e rafforzare le tutele del lavoro dei cronisti sono finite su un binario morto. La crisi epocale del settore richiede un approccio di sistema. È necessario che le forze politiche spieghino in che modo intendono difendere l’informazione professionale. Il contrasto al precariato e alle cosiddette querele temerarie, la tutela delle fonti e del giornalismo di inchiesta, l’eliminazione di vecchi e nuovi bavagli, a cominciare da quello introdotto recentemente con il recepimento della direttiva europea sulla presunzione di innocenza, sono temi cruciali. Pensare, inoltre, di affrontare la crisi strutturale del mercato con misure, necessarie ma non strutturali, inserite nelle varie leggi di stabilità, senza porsi il problema di una nuova legge per il settore è un’operazione di cortissimo respiro. La legge sull’editoria in vigore è del 1981. Ha consentito di governare il passaggio dal piombo alla composizione a freddo. L’attuale fase di transizione digitale richiede un confronto serrato fra politica, giornalisti ed editori per giungere ad una nuova legge di settore. Sono in gioco migliaia di posti di lavoro, la sopravvivenza di imprese e testate giornalistiche e, soprattutto, la qualità della nostra democrazia.