Troppi detenuti, aprite le carceri di Mons. Vincenzo Paglia* Il Riformista, 14 settembre 2022 “Ci sono in carcere circa 1.300 persone che devono scontare pene inferiori a un anno e circa 2.500 con una pena tra uno e due anni. Per queste persone il tempo è totalmente vuoto. Spesso stanno lì perché non hanno il domicilio o l’assistenza legale, appartengono a una povertà complessiva. Se riuscissimo a portarle in altre strutture territoriali di controllo e supporto si abbasserebbero anche i numeri del sovraffollamento”. Qualche giorno fa su questo giornale veniva riportata una ampia intervista a Mauro Palma, Garante Nazionale delle persone private di libertà. Le sue riflessioni mi hanno molto colpito. In realtà già da tempo aveva lanciato un allarme, accennando alla “attenuazione” della cultura che vede proprio nel “graduale accesso alle misure alternative un elemento di forza nella costruzione di un percorso verso il reinserimento”. Questa volta il Garante ha ricordato anzitutto il drammatico problema dei suicidi che purtroppo non sembra smuovere nulla, e quindi il tragico e illegale sovraffollamento delle carceri. A tale proposito, dice: “[…] Sicuramente è un problema. È endemico, i numeri stanno ricrescendo. Devo dire che accanto a questo, l’altro problema estremamente grave è l’inutilità del tempo detentivo. Ci sono in carcere circa 1.300 persone che devono scontare pene inferiori a un anno e circa 2500 con una pena tra uno e due anni. Per queste persone il tempo è totalmente vuoto. Spesso stanno lì perché non hanno il domicilio o l’assistenza legale, appartengono a una povertà complessiva. Se riuscissimo a portarle in altre strutture territoriali di controllo e supporto si abbasserebbero anche i numeri del sovraffollamento”. Il Covid-19 lo aveva già fatto emergere: la pandemia ha colto gli istituti penitenziari al 130 per cento della loro capienza, 10.200 persone in più. Potremmo dire che si è scoperchiata - come qualcuno ha detto - “la” questione carcere in Italia. Si è negato di fatto ai detenuti quel diritto alla salute che è un bene pubblico e inalienabile. Di fronte a tutto questo, il direttore di questo giornale, mi chiede perché, invece, il cristianesimo dà una importanza fuori del comune non solo alla visita ma addirittura alla liberazione dei carcerati. È una richiesta certamente provocatoria. E per parte mia penso che sia da raccogliere per non attutire la forza scandalosa del cristianesimo a tale riguardo. Le radici affondano già nella tradizione biblica del Messia che lo vedeva come colui che avrebbe aperto gli occhi ai ciechi e avrebbe fatto “uscire dal carcere i prigionieri, dalla reclusione coloro che erano nelle tenebre” (Isaia 42, 7). Insomma, la liberazione dei carcerati tocca il contenuto stesso del messaggio biblico. La stessa tradizione del Giubileo significava l’azzeramento delle ingiustizie: ogni 50 anni si ricominciava tutti daccapo, anche i carcerati dovevano ripartire per una società nuova assieme a tutti. Ricordo ancora il professor Valdo Vinay, un grande pastore e professore valdese, il quale spiegava la salvezza come grazia con l’esempio di un inviato dello Stato che va in un braccio della morte e grida a tutti: “Siete tutti graziati!”. “Questo - spiegava - è il Vangelo, la Buona notizia di Dio agli uomini”. Di qui l’accentuazione cristiana per una attenzione misericordiosa verso i carcerati. Ne va della spiegazione stessa del Vangelo. L’annuncio profetico della liberazione dei prigionieri è una provocazione: e risuona come tale nelle parole di Vinay. La sua portata deve essere apprezzata in primo luogo nell’orizzonte globale della storia umana e della sua autentica destinazione. La prigionia, la costrizione della libertà, la separazione dalla comunità, non possono essere intese come un’anticipazione del giudizio universale, che spetta solo a Dio. Il delitto ferisce - anche a morte - la dignità e la pace dell’umana convivenza: questo non può essere ignorato. La limitazione della libertà e della condivisione che formano l’habitat della comunità ha un suo contenuto di sacrificio e di espiazione che ha un senso etico: e appunto per questo deve essere orientato al recupero e alla ricomposizione e alla riconciliazione con la comunità. Il problema sorge quando le sue modalità e i suoi effetti appaiono sproporzionati: o addirittura contraddittori. Le proporzioni di questo scarto, valutate in termini globali, presentano, ancora oggi, figure della costrizione e dell’avvilimento molto vicine a quelle per le quali i profeti biblici spendono parole di promessa e ammonimenti di giustizia, in nome di Dio: gli esiliati, i perseguitati, gli schiavi. Non dimentichiamo che, nel mondo, migliaia e migliaia di esseri umani sono di fatto incarcerati e resi schiavi solo perché di diversa opinione politica, di diversa appartenenza religiosa, di diversa origine etnica, di deprivata condizione sociale. Tutte ragioni che, magari occultate, possono agire anche in contesti giuridici che ci appaiono più evoluti, offrendo margini a una dimenticanza, ad una indifferenza, ad una sopraffazione, che poco o nulla hanno a che fare con la colpa effettiva. La parola cristiana della “liberazione dei prigionieri”, che ripete quella dei profeti biblici, diventa un ammonimento contro ogni pretestuosa giustificazione della costrizione e contro ogni irresponsabile accanimento dell’umiliazione. La sua traduzione nel precetto di “visitare i carcerati” è il simbolo di questa volontà di vigilare eticamente sulla civiltà della sanzione, di partecipare attivamente ai processi di riabilitazione, di motivare affettivamente una cultura di riconciliazione. Gesù, identificandosi audacemente con i carcerati, ne ha fatto un argomento di “giudizio”, che ci coinvolge direttamente: “Ero in carcere e siete venuti a trovarmi”. Questo ammonimento fa parte della sua risposta a chi chiede che cosa si deve fare per essere degni della vita “eterna”. Ecco perché già l’apostolo Paolo scriveva: “Ricordatevi dei carcerati, come se foste loro compagni di carcere” (Ebrei, 13,3). È un eccesso? Credo proprio di sì. Ma senza l’audacia di questo “eccesso”, che nella sua interpretazione cristiana concreta e fattiva si pone come stimolo “profetico” per una cittadinanza umana degna di questo nome come possiamo evitare le contraddizioni di una società che si vuole giusta, ma non giustizialista, etica, ma non moralistica? La Chiesa ha posto la visita ai carcerati nell’elenco delle opere “di misericordia corporale” (ossia effettive, concrete, visibili): dar da mangiare agli affamati, dar da bere agli assetati, vestire gli ignudi, alloggiare i pellegrini, visitare gli infermi, visitare i carcerati, seppellire i morti. Tutte di grande attualità. Queste parole ci restituiscono il sogno di una società umana, dove regnano solidarietà e compassione, ben lontani da quell’iperegoismo e disinteresse crudele che troppo spesso segnano le nostre città. Nei miei studi storici sulle carceri mi sono imbattuto nel vescovo Sacanarolo, responsabile delle carceri pontificie nel secolo XVII, il quale affermava che non gli era mai capitato di vedere un giovane carcerato uscire dal carcere migliore di come vi era entrato. Ancora oggi forse è così. Sì, l’inutilità: ecco una questione che rinvia a una tematica di fondo. Nel nostro ordinamento, il carcere dovrebbe avere una funzione rieducativa. Dovrebbe servire da periodo in cui la persona detenuta abbia tempo per riflettere e possa reinserirsi in pieno nella società. Una chimera, una (pia) illusione in questa situazione e in questa epoca storica? Forse. Ma potremmo aggiungere anche questa provocazione. La libertà di autodeterminazione della quale - giustamente - ci vantiamo, ci appare forse automaticamente capace di sottrarre la comunità civile all’ingiustizia della diseguaglianza, della solitudine, della corruzione, mai profonde come in questo tempo saldamente amministrato? Insomma senza eccessi della ostinazione del bene, la qualità della vita non fa neppure piccoli passi. Non parlo in queste righe dell’ordinamento giudiziario degli Stati, che chiede un approccio legato ai limiti e alle possibilità della mediazione politica del diritto. Mi fermo unicamente a sottolineare la tradizione cristiana che ininterrottamente predica la visita ai carcerati: una ispirazione che dà vita ad una fattiva rete di tutele e di pratiche rivolte ad una più umana condizione dei detenuti, come sanno le tante associazioni di volontari che intervengono per alleviare la solitudine, la privazione della libertà personale, l’isolamento e lo stigma di chi è carcerato. Se ci pensiamo, lo stesso nome che diamo agli edifici: “penitenziari”, suggerisce il tema della penitenza. Ed è giusto. Ma il Vangelo va oltre, oltre la pena e la penitenza. Ovviamente lo Stato ha suoi ordinamenti giudiziari, leggi e regole e la convivenza civile si basa sul rispetto di regole e sulla certezza della pena e su un ordinamento giudiziario non vendicativo ma ben regolato. È tutto giusto. Ma non possiamo non interrogarci sulla eventuale “inutilità del tempo detentivo”, come dice lo stesso Garante. In troppi casi la pena diventa doppia: alla privazione della libertà personale si somma l’essere dimenticati, gettati in un tempo vuoto che non consente di applicare quell’idea di reinserimento alla base della legislazione di uno Stato moderno e civile. Papa Giovanni XXIII il 26 dicembre 1958, poco dopo la sua elezione, andò a visitare il carcere romano di Regina Coeli. E parlò di questa sua esperienza personale: “Venendo qui da San Pietro mi sono rammentato della prima impressione che io ebbi da ragazzo quando uno dei miei buoni parenti, un giovinotto, era andato a caccia senza licenza: fu preso dai carabinieri e messo dentro. E tenuto dentro per un mese. Che impressione la vista, la prima vista - forse - dei carabinieri, allora! E poi, quel poveretto in prigione! E la fantasia, la piccola fantasia come lavorava! Ma, nel piccolo, come si elaborava anche la preparazione alla visione di questo fenomeno che accade nella vita. In una vita bene ordinata ci sono delle leggi, delle prescrizioni che, naturalmente, hanno una sanzione. E chi ci capita sotto, può essere l’intenzione sua, nel capitarci, non cattiva, ma le deve subire”. E poi proseguiva: “Dunque, eccoci qua. Son venuto. M’avete veduto. Io ho messo i miei occhi nei vostri occhi. Ho messo il cuor mio vicino al vostro cuore. Questo incontro, siate pur sicuri che resterà profondo nella mia anima. È al principio dell’anno nuovo - direi - del primo anno di quello chiamato “il mio pontificato” e ho ben piacere che sia proprio un’opera di misericordia. A seguito di queste parole vi do una benedizione perché ancora è il segno, è il simbolo, di quello che il Signore ci ha dato attraverso il Suo sacramento d’amore. E vorrei che fosse un incoraggiamento per tutti quanti”. “Ho messo i miei occhi nei vostri occhi”, è un’espressione da sottolineare. C’è una dimensione di relazione profonda tra persone, c’è una dimensione della comprensione e del perdono che va oltre il tema penale ed è iscritta nel profondo di ogni essere umano. È la direzione di Giovanni XXIII e dei Papi successivi (pensiamo a Giovanni Paolo II quando visitò in carcere il suo attentatore). La visita ai carcerati non toglie né la colpa né la pena; tocca però l’animo di chi la riceve e di chi la compie. Allo stesso tempo la visita aiuta il carcere a essere meno disumano e a diventare un luogo di cambiamento, nelle relazioni, dunque nelle persone. La visita può avvenire anche attraverso lo scambio di corrispondenza, attraverso forme di vicinanza alle famiglie, attraverso tutta una “fantasia della carità” che è la dimensione in cui la Chiesa può e sa esprimersi e di cui abbiamo oggi molto bisogno. Perché, allora, non incrementare le forme di aiuto e solidarietà con gli istituti penitenziari e con i concreti uomini e donne che si trovano in carcere? Perché non mitigare la solitudine per fare in modo che non diventi una pena accessoria, una pena nella pena? Perché non trovare, inventare, modalità di contatto e vicinanza, sia attraverso le forme tradizionali di scrittura, sia attraverso modalità di collegamenti on line? Alla base ci deve essere un’idea davvero umana che renda la segregazione un tempo per servire un pieno reinserimento. Dovremmo far nostre le parole di Giovanni XXIII: “Ho messo i miei occhi nei vostri occhi”: è la relazione tra le persone che “salva”, che rende possibile un vero cambiamento interiore. Ai responsabili della politica e dell’amministrazione il compito di renderlo possibile ai cittadini di viverlo. *Presidente della Pontificia accademia per la vita Emergenza carceri, le soluzioni dei partiti di Silvia Mancinelli adnkronos.com, 14 settembre 2022 Con il record di 59 suicidi in cella e un tasso di affollamento ufficiale del 107,7%, il carcere è sempre più un’emergenza italiana. Il sistema penitenziario è pressato da un numero di detenuti ben oltre quello previsto in pianta organica, da quello di operatori e agenti al contrario ritenuto dai sindacati ‘inadeguato’ e da un malessere generale che sfocia in frequenti aggressioni, rivolte - quelle durante la pandemia sono solo le più accese - e, appunto, atti di autolesionismo e suicidi, tentati e riusciti. Rita Bernardini, presidente di ‘Nessuno tocchi Caino’, con i Radicali da sempre in prima linea sulla questione, è oramai al suo 28esimo di giorno sciopero della fame per dire basta alla ‘morte per pena’, sollecitando, tra l’altro, l’incremento dei contatti familiari attraverso telefonate e trasferimenti e la liberazione anticipata speciale. Ma quali sono le soluzioni individuate dai partiti? Ecco cosa prevedono i programmi elettorali in tema di carceri e giustizia. FRATELLI D’ITALIA - “Certezza della pena: no a provvedimenti ‘svuota carceri’, sì alla stipula di accordi bilaterali per far scontare ai detenuti stranieri le pene negli Stati d’origine. Nuovo piano carceri e aumento dell’organico e delle dotazioni della Polizia penitenziaria. Aumento della pianta organica di tribunali e procure. Digitalizzazione della giustizia e incremento del ricorso alla mediazione. Riforma della geografia giudiziaria nel rispetto dei principi del decentramento territoriale e della giustizia di prossimità. Eliminazione dei Tribunali per i minorenni e istituzione di sezioni specializzate presso ogni tribunale, anche per evitare casi come quello del ‘sistema Bibbiano’“. LEGA - “Razionalizzare il sistema penale, recuperando l’effettività del rapporto tra sanzione penale e bene giuridico protetto e, dunque, tra la pena e la sua funzione costituzionale. Velocizzare, anche mediante lo stanziamento di nuove risorse, la celebrazione dei processi, ovviamente senza ridurre l’accertamento a una valutazione sommaria e approssimativa; l’imputato non può essere ostaggio del processo per anni, né, per evitare tale rischio, può essere costretto a ricorrere a forme deflattive che non risolvono i problemi organizzativi della giustizia ma sacrificano solo il diritto di difesa e il contraddittorio. Assicurare l’effettiva e tempestiva esecuzione delle sentenze, nel rispetto del principio di certezza del diritto”. FORZA ITALIA - “Riforma del processo civile e penale: giusto processo e ragionevole durata, efficientamento delle procedure, stop ai processi mediatici e diritto alla buona fama. Razionalizzazione delle pene e garanzia della loro effettività, riforma del diritto penale dell’economia, interventi di efficientamento su precetti e sanzioni penali”. NOI CON L’ITALIA - “Promuovere il reinserimento lavorativo dei detenuti in uscita dal carcere per abbattere la recidiva: molti di essi faticano a trovare reali possibilità di impiego, nonostante la legge preveda anche dei benefici per le aziende che assumono ex carcerati. La difficoltà di potersi mantenere autonomamente è una delle principali cause di recidiva. Noi vogliamo che chi esce dal carcere possa contribuire concretamente allo sviluppo del Paese attraverso progetti dedicati che vedano la collaborazione tra aziende e cooperative sociali”. E ancora: “Tutelare la segretezza dell’avviso di garanzia fino alla decisione sull’archiviazione o sull’istanza di rinvio a giudizio: ancora oggi le inchieste vengono utilizzate come grimaldello dai media per esacerbare il confronto politico. Noi vogliamo una giustizia che sappia tutelare chi è indagato, senza lasciarlo preda di campagne di disinformazione e attacchi mediatici” PARTITO DEMOCRATICO - “Le statistiche sul lavoro penitenziario in Italia sono tra le peggiori d’Europa, meno del 4% dei detenuti e delle detenute lavora per datori di lavoro diversi dall’amministrazione penitenziaria. Il carcere deve invece diventare un luogo dove intraprendere percorsi formativi mirati e garantire sbocchi occupazionali certi. Questo può avvenire solo attraverso un coinvolgimento di imprenditori responsabili e un alleggerimento della burocrazia penitenziaria, fermo restando il necessario rispetto delle garanzie. Riteniamo necessaria una riforma radicale delle professioni penitenziarie, adeguando i trattamenti economici e promuovendo l’ingresso di nuove professionalità, destinando quote significative di fondi per assicurare supporto psicologico”. +EUROPA - “Profonda riforma del sistema penitenziario - i cui ruoli di vertice devono essere coperti non da magistrati ma da professionalità adeguate - e ammodernamento dell’edilizia carceraria. La riforma deve comprendere reclutamento, formazione e adeguatezza dei ruoli della polizia penitenziaria. Occorre raggiungere standard europei di trattamento delle persone detenute, assicurare trattamenti psichiatrici adeguati a chi ne ha bisogno, riconoscere il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere, con l’obiettivo minimo di abbattere il numero dei suicidi e il grado di aggressività e quello più ambizioso di restituire alla pena detentiva il ruolo sociale che la Costituzione le riconosce”. IMPEGNO CIVICO - “Occorre rivedere le piante organiche del personale sia del Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) che del Dgmc (Dipartimento per la giustizia minorile e di comunità) che si occupano di dare attuazione al fine rieducativo della pena per il recupero alla legalità del reo. È necessario completare il riordino della magistratura onoraria il cui ruolo continua ad essere fondamentale perché la giustizia diventi efficiente e celere”. ALLEANZA VERDI-SINISTRA ITALIANA - “Cinque proposte di Antigone che facciamo nostre per ridurre il sovraffollamento e migliorare la qualità della vita delle persone detenute e degli operatori penitenziari: - Va del tutto cambiata la legge sulle droghe, con i suoi eccessi repressivi. La legge Jervolino-Vassalli del 1990 è vecchia e inadeguata, produce solo repressione, carcere, sofferenze. I dati più recenti dicono che un terzo detenuti è in carcere per avere violato la legge sulle droghe. Quasi il 40% di chi entra in carcere ha fatto uso di droghe. Numeri che evidenziano il fallimento della politica proibizionista. - La legge sull’immigrazione Bossi-Fini costringe tantissimi immigrati ad entrare forzatamente nel circolo vizioso dell’illegalità. Per questo va radicalmente cambiata. Più favoriamo percorsi di integrazione, meno devianza penale avremo. Non esiste un allarme criminalità straniera. Così come non esiste un allarme criminalità di strada. I numeri dicono che i reati sono in calo rispetto al periodo pre-pandemico. Per questo non si giustificano norme che diano poteri eccessivi a sindaci e polizia locale attraverso i Daspo urbani. Vanno vietati i taser, armi potenzialmente letali. - Va ridotto l’uso della custodia cautelare che produce circa un terzo della popolazione detenuta. È necessario investire maggiormente sulle misure alternative alla detenzione, piuttosto che sulla carcerazione. Circa 20 mila detenuti hanno da scontare meno di tre anni di pena. Le misure alternative sono meno costose e più sicure, in quanto, è statisticamente dimostrato, che chi ne usufruisce ha meno rischi di incorrere nella recidiva. - Va adottato un nuovo regolamento penitenziario che preveda più possibilità di contatti telefonici e visivi, un maggiore uso delle tecnologie, un sistema disciplinare orientato al rispetto della dignità della persona, una riduzione dell’uso dell’isolamento, forme di prevenzione degli abusi, sorveglianza dinamica e molto altro. Un nuovo regolamento, efficace e in linea con l’attualità dei tempi, significa garantire tanti diritti alle persone detenute: dal diritto alla salute, al diritto ai contatti con i propri affetti, ai diritti delle minoranze (stranieri, donne), ai diritti lavorativi, educativi, religiosi. Tra le modifiche quella di consentire ai detenuti di chiamare tutti i giorni, o quando ne hanno desiderio, i propri cari. Le celle devono essere dotate di telefono come in altri paesi. L’attuale regolamento penitenziario prescrive 10 minuti a settimana per ciascun recluso. Deve esserci attenzione specifica ai bisogni delle donne detenute e dei detenuti Lgbtqi+. - È necessario sostenere e gratificare il personale penitenziario, attraverso processi di formazione che non si fermino alla fase iniziale di impiego ma accompagnino l’operatore lungo l’intera sua attività lavorativa, e che abbiano tra i propri obiettivi quello di istruire in merito ai diritti umani e ai meccanismi di prevenzione delle loro violazioni, nonché ai percorsi di reinserimento sociale delle persone detenute. Una cultura delle forze di polizia penitenziaria improntata in questo senso, oltre ad apportare un beneficio all’intero sistema e a dargli un indirizzo più attento al trattamento in generale, eviterebbe inutili conflittualità spesso all’origine di rapporti disciplinari ostativi di benefici penitenziari e modalità alternative di espiazione della pena”. MOVIMENTO 5 STELLE - Nel programma non ci sono proposte specifiche per intervenire sul sistema penitenziario, mentre si fa riferimento al “Completamento della riforma in tema di ergastolo ostativo”. AZIONE-ITALIA VIVA - “Riforma della normativa sulla custodia cautelare, per eliminare ogni possibile abuso: ad oggi, circa un terzo dei detenuti non ha subito una condanna definitiva; incentivazione dei riti alternativi al dibattimento; ripristino della prescrizione sostanziale; rafforzamento delle norme finalizzate a garantire l’effettiva applicazione del principio della presunzione di innocenza per contrastare la spettacolarizzazione mediatica; introduzione di norme finalizzate a ridurre i casi di appello da parte del pubblico ministero della sentenza di assoluzione in primo grado, garantendo che lo strumento di gravame consenta di esercitare realmente il diritto di difesa dell’imputato attraverso una valutazione di merito della vicenda processuale; riforma del sistema penitenziario, per garantire il rispetto del principio della finalità rieducativa della pena, coerentemente con quanto previsto dalla Costituzione. Rafforzamento del sistema dell’esecuzione penale alternativa alla detenzione in carcere; riduzione del sovraffollamento carcerario attraverso interventi di riforma dell’ordinamento penitenziario e di edilizia carceraria; approvazione di una nuova legge sulle detenute madri: mai più bambini in carcere”. Permessi premio ai detenuti 41bis? Vietati anche nelle “aree verdi” delle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 settembre 2022 Quando la Corte Costituzionale, nel 2019, fece cadere la preclusione assoluta del permesso premio agli ergastolani ostativi non collaboranti con la giustizia, subito scattò la propaganda mediatica inducendo l’opinione pubblica a pensare che in automatico, soprattutto i boss dello stragismo corleonese, avrebbero usufruito dei benefici. Ovviamente è una fake news. Basti vedere i continui rigetti allo stragista Giuseppe Graviano, oppure ai tanti altri boss di grosso calibro al 41 bis. La recente sentenza della Cassazione, la numero 33130, conferma il rigetto del permesso premio addirittura alla richiesta di effettuarlo per poche ore nell’area verde dell’istituto penitenziario. Accade che il Tribunale di sorveglianza di Roma ha rigettato il reclamo proposto da Giovanni Di Giacomo, detenuto al 41 bis, avverso al provvedimento di rigetto della sua istanza di permesso premio emesso dal magistrato di Viterbo. Il Tribunale di sorveglianza ha considerato dirimente in senso ostativo alla reclamata concessione del beneficio premiale il riscontro della persistente pericolosità sociale e del pericolo di fuga del detenuto. Di Giacomo, per il tramite del suo difensore, ha proposto ricorso per cassazione chiedendone l’annullamento e affidando il mezzo a un unico motivo con cui lamenta la violazione dell’art. 30 - ter Ordinamento penitenziario e dell’articolo 184 del codice penale, nonché il vizio di motivazione. Tra le varie argomentazioni, la difesa stigmatizza il mancato espletamento di un’adeguata istruttoria al fine di accertare se il detenuto avesse mantenuti i contatti con la criminalità organizzata. Inoltre, viene segnalato da Di Giacomo che egli aveva chiesto che il permesso premio venisse fruito nell’area verde dell’istituto penitenziario proprio per contenere il paventato pericolo di fuga, in modo da poter trascorrere qualche ora con i componenti del suo nucleo familiare, mentre non aveva certo inteso ritornare nella zona in cui aveva commesso gli illeciti penali. La cassazione, in premessa, evoca la famosa sentenza della Consulta del 2019, la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale, per violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma, della costituzione, l’art. 4 - bis, comma 1, ordinamento penitenziario, nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti dove rientra l’ostatività ai benefici (principalmente quelli legati all’associazione mafiosa, ma non solo), possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell’art. 58- ter dell’ordinamento penitenziario, allorché siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. In virtù di tale pronuncia, quindi, la presunzione di pericolosità sociale del detenuto che non collabora, non più assoluta, può essere superata, sia pure soltanto in forza dell’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, che lo stesso condannato ha l’onere di allegare a sostegno della mancanza di attualità e del pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, oltre che sulla base delle dettagliate informazioni ricevute dalle autorità competenti. Ma è il caso del detenuto in questione? Secondo la cassazione tale principio non è stato disatteso per Di Giacomo, giacché i giudici di sorveglianza, dopo aver preso atto della sua sottoposizione al 41 bis, hanno escluso che fosse stata conseguita la prova dell’insussistenza del pericolo di ristabilimento dei collegamenti con la criminalità organizzata, in specie con la cosca mafiosa di riferimento, e, in ogni caso, hanno escluso in via dirimente l’assenza di pericolosità sociale del detenuto. Ancora una volta, quindi, viene smentito il “tana liberi tutti”. Nonostante la portata “rivoluzionaria” della sentenza del 2019, la Consulta dimostra comunque di aver preso attentamente in considerazione le particolari esigenze di tutela alla base della previsione dell’articolo 4 bis. Essa, infatti, si cura di precisare che la presunzione di attualità di collegamenti con la criminalità organizzata - che da assoluta diviene relativa, nei limiti in cui opera la pronuncia - può essere superata solo in base a valutazioni particolarmente rigorose, che non si limitino alla regolare condotta carceraria, alla mera partecipazione al percorso rieducativo o a semplici dichiarazioni di dissociazione del detenuto. Viene messo in rilievo, in proposito, che già la prima versione dell’art. 4- bis comma 1 dell’ordinamento penitenziario prevedeva che l’accesso alle misure alternative e premiali per i reati di prima fascia fosse subordinato all’acquisizione di “elementi tali da escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o eversiva”, requisito tuttora necessario per i casi di collaborazione inesigibile, impossibile o irrilevante. La magistratura di sorveglianza, pertanto, secondo quanto indicato dalla Corte, non deve solo svolgere una seria verifica della condotta penitenziaria del detenuto, ma dovrà altresì considerare il contesto sociale esterno, acquisendo dettagliate informazioni per il tramite del Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica competente. Tra l’altro, ai sensi del comma 3- bis dello stesso articolo del 4 bis, il permesso premio non può mai essere concesso allorché il Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo o il Procuratore distrettuale evidenzino l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata. In sintesi, la sola “dissociazione” o altri elementi non bastano. È uno dei tanti parametri che la magistratura di sorveglianza valuta per concedere o meno il permesso premio che può essere richiesto dopo l’espiazione di tantissimi anni. La collaborazione con la giustizia rimane la “via maestra”. Questo varrà anche quando la Consulta - dopo i continui rimandi - farà cadere la preclusione assoluta alla liberazione condizionale, una volta espiati i 26 anni di reclusione, decurtati di 45 giorni ogni semestre di pena scontato, in virtù dell’applicazione della liberazione anticipata. La data di scadenza è quella del prossimo 8 novembre. Ci saranno per quel giorno un Parlamento nelle sue piene funzioni e un Governo già formato pronti a deliberare, oppure saremo di nuovo nelle mani della Corte Costituzionale per decidere sull’ergastolo ostativo? La proposta di riforma che il parlamento dovrebbe approvare, paradossalmente, rende ancora più difficile la concessione del beneficio. Se dovesse essere approvata in tempo, si rischiano altri ricorsi di illegittimità costituzionale. Ma per il 9 novembre sembra difficile che vada in porto. Dopo un anno e mezzo, la Consulta concederà al Parlamento l’ennesima proroga? Carceri. Venerdì si terrà un incontro tra Garanti dei detenuti e forze politiche dire.it, 14 settembre 2022 (Venerdì 16 settembre, dalle 10.30 alle 13.30, presso il Palazzo Santa Chiara in Roma (Piazza Santa Chiara, 14 - zona Pantheon) i Garanti territoriali delle persone private della libertà incontreranno i rappresentanti delle forze politiche nazionali, per un confronto pubblico sulle proposte per le carceri in Italia. All’incontro sono stati invitati i rappresentanti delle liste in corsa nella competizione elettorale. Il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Stefano Anastasìa, coordinerà i lavori che si apriranno con gli interventi del Garante della Regione Sicilia, Giovanni Fiandaca, e dalla Garante della Provincia di Pavia, Laura Cesaris. I lavori si concluderanno con le considerazioni del Garante nazionale, Mauro Palma. Ha assicurato la propria presenza il Capo dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi. “L’intero sistema penitenziario - spiega il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Stefano Anastasìa, nel presentare l’iniziativa - i detenuti come il personale civile e di polizia - ha molto sofferto durante la stagione della pandemia e arriva provato a questa scadenza elettorale, come è tragicamente testimoniato dalla impressionante serie di suicidi che ha contrassegnato i primi otto mesi di quest’anno e, specificamente, gli ultimi mesi estivi”. “E’ quindi molto importante - prosegue Anastasìa - che venga raccolto l’appello lanciato dal Garante nazionale per un confronto che si spera foriero di un rinnovato impegno del Parlamento e del ministero della Giustizia nella prossima legislatura. Proprio a questo fine - conclude Anastasìa -, la Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, che coordina e rappresenta i Garanti nominati dalle regioni, dalle aree metropolitane, dalle province e dai comuni italiani, promuove un confronto pubblico per ascoltare le idee e le proposte delle diverse forze politiche”. L’incontro è aperto al pubblico (fino a esaurimento posti) e sarà diffuso in diretta streaming su Radio radicale e attraverso i canali social della Conferenza dei Garanti territoriali e dei suoi aderenti. La rete dei Garanti delle persone private della libertà - La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, istituita presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Ne fanno parte 72 Garanti, di cui 16 di regioni e province autonome, sei di province e aree metropolitane e 50 di comuni che hanno istituito garanti delle persone private della libertà ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza elegge un Portavoce: attualmente ricopre tale carica Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. La sede operativa della Conferenza attualmente è nella sede del Consiglio regionale del Lazio. Alla Consulta si chiude l’era Amato: “Il mondo è cambiato e non in meglio” di Liana Milella La Repubblica, 14 settembre 2022 Si apre la successione. Ultima udienza per il presidente della Corte costituzionale che si rivolge al Parlamento: “Da lì arriva il silenzio oppure voci discordi al suo interno che bloccano le decisioni”. È commosso. E si vede. Giuliano Amato, il “dottor Sottile”, chiude il suo lungo cammino costituzionale, nove anni alla Consulta, di cui uno da presidente. Giudice, professore, e notissimo uomo politico che lascia dietro di sé innovazioni importanti, come quella di consegnare al passato le udienze ingessate della Corte costituzionale a vantaggio di un vero contraddittorio tra giudici e avvocati. Ma è l’Amato “politico” - due volte presidente del Consiglio, quattro volte ministro, e poi al vertice dell’Antitrust - che prevale. Con “moniti” importanti nel suo ultimo discorso in udienza. Come quando riflette sui cambiamenti in corso nel nostro pianeta e dice: “In questi nove anni il mondo è cambiato, ma non in meglio. Sono aumentati i conflitti tra gli Stati dentro e fuori l’Unione europea, dentro le nostre società statuali dove i sistemi politici si sono radicalizzati su temi valoriali e identitari, rendendo sempre più difficili situazioni condivise attorno, in primo luogo, proprio a quei temi. E non parlo solo dell’Italia, ma anche di altri paesi”. L’ultimo discorso - Dura otto minuti l’ultimo discorso di Giuliano Amato da presidente della Corte. Si apre con un saluto a chi ha avuto lo stesso ruolo prima di lui, a cominciare da Giancarlo Coraggio, seduto in prima fila. Si chiude nel segno della continuità: “Il mio non è un testamento, ma nasce da un lavoro comune che oggi registra un cambio di timoniere, ma la rotta resta immutata”. I possibili successori - Già, la rotta della Corte che si avvia verso due appuntamenti, la nomina del successore di Amato che Mattarella farà in settimana, e martedì prossimo l’elezione del nuovo presidente, in lizza questa volta ben tre candidati, i più anziani di nomina, ma che hanno giurato lo stesso giorno, la lavorista Silvana Sciarra, l’amministrativista Daria de Pretis, il costituzionalista Nicolò Zanon. Il mondo è cambiato - Ma salutiamo Amato prima di tuffarci nelle indiscrezioni sul futuro della Corte. Partiamo dal suo breve speech. Denso di messaggi ai cittadini, al Parlamento, ai suoi stessi colleghi. Partendo dall’Europa che cambia e si scontra. Amato vede “la tentazione di far prevalere il diritto nazionale rispetto a quello comunitario” e cita i casi di Polonia, Ungheria e Romania. Vede “conflitti” che “si ripercuotono sul lavoro delle Corti”, affrontano “casi che mettono a dura prova soluzioni condivise, con barriere nazionali contro diritti comuni, con conflitti tra corti nazionali e Corte di giustizia europea”. E da qui poi ecco un suo allarme: “Vedo dare e ridare fiato a tesi che pensavo sepolte sulla prevalenza di una giustizia esercitata in nome del popolo, strada che porta verso il caos istituzionale”. Dai conflitti internazionali all’Italia dove Amato rivendica il lavoro fatto dalla sua Corte: “Noi ci siamo fatti guidare sinora da due bussole fondamentali, quella della collaborazione istituzionale come veicolo per la responsabilità di ciascun tenendo conto delle ragioni e dei vincoli dell’altro”. E cita il caso della sentenza Taricco sulla prescrizione definendolo “emblematico delle interpretazioni convergenti”. La seconda “bussola” è “quella dell’equilibrio nella ricerca delle soluzioni”. E a chi verrà dopo di lui raccomanda: “Mi auguro e vi auguro di continuare lungo questi binari, nonostante le tentazioni che i tempi sollecitano e che già qualcuno sta raccogliendo”. Il presidente batte sul tasto delle difficoltà decisionali del Parlamento che “cominciano a dar fiato a tesi secondo cui la giurisprudenza è fonte del diritto al pari della legislazione, legittimata dalla previsione costituzionale che la giustizia è amministrata in nome del popolo”. E lancia un warning: “Se c’è una strada che porta dalle situazioni innegabilmente difficili al caos istituzionale, è questa. No, la soluzione non è che ciascuno dei poteri profitti delle difficoltà per fare ciò che gli pare giusto e che tuttavia tocca all’altro. L’esercizio responsabile, e certo non timido, del proprio potere è un dovere istituzionale, ma con il rispetto del suo limite, che è parte non rinunciabile della rule of law, chiunque sia a non rispettarlo, l’esecutivo come il giudiziario. Tutti rispondiamo ai nostri cittadini”. E proprio al tormentato rapporto con le Camere il presidente Amato dedica un’ulteriore riflessione. Perché, ricorda, le decisioni prese richiedono proprio il successivo intervento del Parlamento, “ma da lì poi arriva silenzio oppure voci discordi al suo interno che bloccano le decisioni”. Mentre dalla Corte, come nel caso della maternità surrogata, non sono mai giunte “soluzioni che evocassero un apprezzamento etico sociale del Parlamento”, bensì “l’invito a trovare soluzioni migliori nell’interesse del bambino”. Infine la nuova Consulta, quella di Amato con le sue innovazioni, a partire dal contraddittorio tra giudici e avvocati che ha messo da parete definitivamente una Corte ingessata. Amato la racconta così: “La Corte ha mutato le regole delle sue udienze con una riduzione degli interventi scritti a vantaggio della dialettica tra giudici e avvocati, in modo che la decisione sia figlia di una dialettica e non di una decisione unilaterale”. Sciarra e il libro di favole di Amato - Sapremo solo martedì prossimo chi diventerà presidente. Se la più “anziana” in termini anagrafici, e cioè Silvana Sciarra che ha 74 anni, oppure Daria de Pretis che ne ha 66 o Nicolò Zanon che ne ha 62. Anche se abitualmente non è questa età che conta ma quella di nomina. E per una singolare coincidenza tutti e tre gli aspiranti hanno la stessa “età”, visto che sono entrati in carica l’11 novembre 2014. Sciarra fu votata dal Parlamento il 6 novembre 2014. Napolitano aveva indicato de Pretis e Zanon il 18 ottobre, proprio in polemica con le Camere per via delle continue fumate nere. Ma tutti e tre i giudici poi giurarono assieme. Oggi è toccato a Silvana Sciarra, in quanto giudice più “anziana”, salutare Amato. E lei gli si rivolge così. “Sentiremo risuonare nella camera di consiglio il suo ‘insommà... e ci ricorderemo che ha pronunciato spesso questa parola dopo un lungo silenzio. Amato ha operato nel cuore di alcune delle principali istituzioni fra cui la nostra Corte, alla ricerca di soluzioni meditate. Lo ha fatto senza mai smettere di essere professore. Al centro sempre i più giovani, la passione nella formazione di una nuova classe dirigente, la fiducia in una crescita collettiva”. E chiude citando il libro che Amato ha scritto per i suoi figli, “Il drago e la principessa”, dove dice che “un re insicuro e infelice che non riesce a credere in sé stesso e dunque a crescere, deve imparare a essere più forte dei cattivi pensieri”. E chiude: “Anche a noi Amato hai insegnato a essere più forti”. L’avvocato Falcon e l’ironia di Amato - Da Giandomenico Falcone, avvocato amministrativista, arriva un altro elogio, perché “Amato è l’esempio di quello che deve fare chi ha un ruolo come il suo”. Basti citare “la conduzione ironica delle udienze, anche a spese di qualche avvocato e lo forzo per introdurre il dialogo tra giudici e avvocati”. Falcon ricorda che “quando Amato fu nominato giudice costituzionale ci fu chi disse che veniva sottratto ad altri incarichi che avrebbe potuto avere”. Ma come “giudice delle leggi”, secondo Falcon, Amato ha avuto il merito di “rivolgere sollecitazioni, a volte anche molto intense, al Parlamento che potrebbe risolvere problemi complessi e divisivi, ma che proprio per questo non riesce a farlo”. Da Gabriella Palmieri il plauso dell’Avvocatura - Da Gabriella Palmieri Sandulli - al vertice dell’Avvocatura dello Stato - arrivano altri elogi per Amato. Lei ricorda che il 15 settembre il presidente uscente riceverà dalla Sapienza il dottorato honoris causa. Cita i ben 171 provvedimenti scritti in questi nove anni, “che riflettono il suo ruolo di giurista e di uomo delle istituzioni”. Cita il concerto del 22 luglio in piazza del Quirinale del maestro Piovani organizzato dalla Corte che “ha dato evidenza alla missione affidato dalla stessa Costituzione alla Corte”. Insiste sui rapporti tra Corte e Parlamento, e cita la sentenza 131 del 2022 che affida proprio alle Camere “il ruolo di mediare e decidere”. E ricorda la mission di Amato sulle prigioni, quelle due visite a Nisida, “carcere modello che consente un’integrazione successiva per chi ha scontato la pena nello spirito di guardare avanti”. La Corte costituzionale nella tempesta politica di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 14 settembre 2022 L’addio preoccupato di Giuliano Amato: “Sistemi radicalizzati, tendenza ad alzare barriere nazionali contro il diritto comune”. La Corte costituzionale ha resistito in questi anni in cui “i sistemi politici si sono radicalizzati in particolare sui temi valoriali e identitari” e in Europa sono state “minacciate o innalzate barriere nazionali contro il diritto comune”. Ha resistito rafforzando la “collaborazione istituzionale come veicolo per consentire a ciascuno di esercitare le proprie responsabilità tenendo conto delle ragioni e dei vincoli dell’altro” e ricercando “l’equilibrio nella soluzioni di nostra competenza, con bilanciamenti mai unilaterali fra i valori costituzionali di volta in volta in campo”. Questo è il bilancio di Giuliano Amato, nel momento in cui lascia la presidenza e la Corte costituzionale. Facendo l’augurio ai giudici che restano di “continuare lungo questi binari”. Con una postilla nella quale è racchiuso il senso del suo messaggio di commiato: “Nonostante le sollecitazioni che i tempi sollecitano e che già qualcuno sta raccogliendo”. Non è dunque un saluto che si possa definire sereno quello dell’ex tutto Giuliano Amato, al suo ultimo incarico istituzionale di una lista non riassumibile: “Il mondo è cambiato nel corso dei nove anni che ho passato alla Corte e non è cambiato in meglio”. Soprattutto, le sue parole consegnano la preoccupazione che nell’attrito delle “radicalizzazioni” finiscano per pagare un prezzo le istituzioni come la Corte costituzionale. Il cui ruolo di controllo e garanzia è certamente sempre più necessario, ma evidentemente sempre più difficile al cospetto della politica polarizzata. Segue elenco puntuale dei segnali preoccupanti. “In campo europeo, la tentazione di affermare il primato del diritto nazionale su quello comune non è solo di Polonia, Romania e Ungheria”, dice Amato. In Francia, in effetti, si è parlato molto di una pronuncia del Consiglio di stato dell’anno scorso che va in questa direzione. E sono ben note le tendenze, oltre che le sentenze, della Corte costituzionale federale tedesca soprattutto in tema di debito pubblico e bilancio. Quanto a noi, la leader del partito accreditato del miglior risultato elettorale, Giorgia Meloni, ha messo nero su bianco in proposte di riforma costituzionale la prevalenza del diritto nazionale su quello comunitario anche nelle materie di competenza dell’Unione. Un’idea di sovranismo giuridico che non è l’ultima minaccia all’Europa unita. D’altra parte, Amato deve indicare anche il fronte interno, rimarcando “le difficoltà decisionali del parlamento proprio su temi nei quali premono con forza esigenze non adeguatamente riconosciute di tutela”. Non può dirsi positivo, evidentemente, neanche il bilancio della più significativa innovazione introdotta negli ultimi anni dalla Corte, quelle sentenze che dialogano (o provano a dialogare) con il parlamento. “I casi davanti a noi ci portano spesso sul crinale che separa la nostra giurisdizione dalle scelte che competono al parlamento - ricorda Amato - ovvero a situazioni nelle quali le nostre stesse, legittime decisioni hanno bisogno, per realizzarsi, di un conforme intervento parlamentare”. Intervento che molto spesso non arriva: “Ci capita in entrambi i casi di incontrare più volte il silenzio del parlamento o voci in esso discordi che ne prevengono le scelte”. E infatti lo scontro paralizzante ha impedito anche a queste camere di decidere su argomenti che la Corte aveva loro rimesso, come il fine vita o l’ergastolo ostativo. La riflessione in chiaro di Amato si ferma qui. Ma negli accenni che egli fa in conclusione di discorso al pericolo di “caos istituzionale” e alla necessità che i giudici della Corte non perdano di vista il tema della loro legittimazione, non è difficile cogliere un’altra preoccupazione. Una maggioranza traboccante in parlamento potrebbe avere la tentazione di fare da sola anche nelle nomine dei giudici costituzionali: i tre quinti dei deputati e senatori che servono per quelle votazioni non sono più un miraggio per il centrodestra. In altre occasioni, anche con il nostro giornale, Amato ha riflettuto sul problema delle Corti supreme, come quella degli Stati unite, che diventano parte nel confronto politico. Si tratta di un rischio che i vincitori delle elezioni dovranno valutare bene. Intanto la prossima giudice o il prossimo giudice costituzionale, in sostituzione di Amato, sarà di nomina presidenziale ed è questione di ore. Il più che probabile viaggio a Londra di Sergio Mattarella per i funerali della regina Elisabetta potrebbe far slittare il giuramento al Quirinale e quindi l’insediamento, in ogni caso previsto per l’inizio della prossima settimane. Poi la Corte costituzionale sceglierà il suo nuovo presidente o, con tutta probabilità, la sua nuova presidente. Giustizia, dal Senato ok ai decreti sulla riforma Cartabia di Liana Milella La Repubblica, 14 settembre 2022 La Commissione Giustizia del Senato ha dato il parere positivo ai decreti legislativi di attuazione delle riforme del processo civile e penale. Ma il M5S si mette di traverso. E vota contro il decreto attuativo della riforma penale di Marta Cartabia. Decreto che scade il 19 ottobre. E a rischio ci sono i miliardi - 2,7 per la giustizia - del Pnrr. Ok unanime invece sulla delega civile. È appena accaduto a palazzo Madama, in commissione Giustizia, ma era un no annunciato. E che si riproporrà negli stessi termini, anche giovedì, alla Camera sullo stesso decreto. Perché, come ha ripetuto più volte in questi giorni il capogruppo Eugenio Saitta, il testo non è conforme ai desiderata del M5S. I 5stelle non hanno mai digerito la riforma del processo penale firmata dalla Guardasigilli Cartabia. Alla storia resta il niet sull’improcedibilità che il presidente Giuseppe Conte, proprio in questi giorni, sta vantando come un risultato importante incassato, per via delle modifiche che sono state introdotte per i reati più gravi, a partire dalla mafia, onde evitare che possano cadere sotto la scure dell’improcedibilità (il processo si blocca in appello se non rispetta i tempi). E l’ex Guardasigilli Alfonso Bonafede, autore dei disegni di legge su cui ha poi lavorato Cartabia, non ha mai mancato di criticare la soluzione dell’improcedibilità che ha modificato la sua formula secca sulla prescrizione con lo stop definitivo dopo il primo grado. Al Senato, come detto, voto unanime invece sul decreto attuativo della riforma civile su cui è rientrata la protesta del leghista Simone Pillon. Va detto che il voto delle commissioni non è vincolante per il consiglio dei ministri che deve dare l’ultimo via libera ai decreti. L’esecutivo può prendere atto delle richieste di modifica, ma può anche andare avanti. Il pd esprime “grande soddisfazione per l’ok ai pareri”, definito “un passo decisivo verso la piena attuazione delle riforme Cartabia necessarie per ottenere i fondi del Pnrr, per le innovazioni previste e per un avanzamento sul piano delle garanzie per imputati e persone offese”. “Abbiamo mantenuto l’impegno di attuare riforme molto attese” dicono Pd della commissione Giustizia Franco Mirabelli, Monica Cirinnà e Anna Rossomando. Riforma penale, il M5S vota contro il decreto attuativo di Antonella Mascali Il Dubbio, 14 settembre 2022 Il Movimento 5 Stelle ha votato no in commissione Giustizia del Senato al parere sul decreto legislativo di attuazione della riforma del processo penale, approvato da tutte le altre forze della maggioranza ormai agli sgoccioli, senza alcuna osservazione. I pentastellati, però, hanno votato a favore del parere sui decreti attuativi alla riforma del processo civile, come gli altri partiti del governo dimissionario. Per quanto riguarda il penale, i 5 stelle hanno scelto il no perché non è stata accolta nessuna delle richieste di modifica. Tra le principali, quella sul destino delle confische quando sarà dichiarata la improcedibilità in Appello; quella sulle sanzioni accessorie, perché il M5S è contrario che decada la responsabilità contabile in caso di patteggiamento, così come non è stata accolta alcuna osservazione da inviare al governo su messa alla prova e pene sostitutive brevi. Giovedì si voterà in commissione Giustizia della Camera, il M5s sta tentando ancora di ottenere qualche modifica, interloquendo con il ministero della Giustizia, ma se non ci saranno aperture voterà ancora no, come aveva già anticipato il capogruppo in commissione a Montecitorio, Eugenio Saitta. D’altronde, come ha ricordato in questa campagna elettorale Giuseppe Conte, sul tema dell’improcedibilità introdotta dalla riforma Cartabia furono proprio i pentastellati a mettere una pezza per evitare che persino i processi di mafia potessero andare in fumo. Cartabia: “La giustizia riparativa non è un condono, ma terreno nuovo per la cultura penalistica” di Davide Varì Il Dubbio, 14 settembre 2022 Il Guardasigilli da Milano: “Io mi auguro che questo corso possa essere di buon auspicio per la conclusione di un percorso già avanzato ma non compiuto”. “La giustizia riparativa non è una forma di clemenza, un condono, un risarcimento del danno, un indulto, un’amnistia: è una realtà che sta dando forma al diritto. È terreno nuovo per la nostra cultura penalistica, contemporanea, tutta da comprendere e da esplorare”. Con queste parole, la ministra della Giustizia, Marta Cartabia ha spiegato cosa sia la giustizia riparativa durante la presentazione del quinto corso organizzato dalla Scuola superiore della magistratura, dal titolo “Dalla giustizia sanzionatoria alla giustizia riparativa” presso l’Università Statale di Milano. La Guardasigilli ha ricordato come la riflessione sulla giustizia riparativa non sia nuova alla Scuola che da tempo ne ha affrontato il tema, sin dal primo corso nel 2016 a Scandicci sotto la guida del di Valerio Onida. “La giustizia riparativa vive già nel nostro ordinamento, nasce spontaneamente dalla società civile ed è sostenuta dalla sensibilità di alcuni che hanno saputo cogliere il bisogno con strumenti all’avanguardia - ha specificato la Guardasigilli - l’avvio di questo quinto corso nasce in un momento particolare: siamo alle battute finali dell’approvazione della riforma del processo penale dove un ampio capitolo è dedicato proprio alla giustizia riparativa”. “Io mi auguro che questo corso possa essere di buon auspicio per la conclusione di un percorso già avanzato ma non compiuto” ha aggiunto la ministra. Ricordando come percorsi di giustizia riparativa si stiano diffondendo in tutto il mondo e che proprio a Venezia lo scorso dicembre si sia organizzato una Conferenza dei ministri del Consiglio d’Europa su questo tema, producendo l’utile frutto della Dichiarazione di Venezia, Cartabia ha poi auspicato: “Ci auguriamo che la giustizia riparativa possa vivere come corpo normativo accanto al diritto penale e processuale penale con significativi punti di incontro e che possa interessare molti magistrati”. Csm, il voto agita le toghe. “Delenda Cartabia” è il programma elettorale che corre di bocca in bocca di Tiziana Maiolo Il Riformista, 14 settembre 2022 “Delenda Cartabia”, non pare essere una parola d’ordine che ha stuzzicato solo il candidato Scarpinato. Ben altri candidati, in una tornata elettorale che tiene in ansia il mondo delle toghe, hanno il batticuore perché è in gioco non solo la loro elezione ma anche il loro potere. O almeno, questo è quel che temono. Domenica 18 e lunedì 19, una settimana esatta prima delle urne politiche, si apriranno quelle per l’elezione del Consiglio Superiore della Magistratura. Solo dei rappresentanti di giudici e pubblici ministeri, però, dipendendo la quota politica (quella ufficiale, in realtà sono tutte scelte politiche) da un Parlamento che si insedierà solo a metà ottobre. L’agitazione è tanta, perché il prossimo Csm sarà quello vero del dopo Palamara, perché dovrebbe essere quello del superamento delle correnti, pur se la riforma del ministro non ha dato un vero e radicale segnale di svolta, rinunciando a introdurre il sorteggio. Ma a prescindere dal sistema elettorale, è proprio il complesso delle riforme Cartabia, e soprattutto la parte che riguarda l’ordinamento giudiziario, a preoccupare la parte più corporativa e più politicizzata della magistratura. Perché la prima patata bollente che il nuovo Consiglio si troverà tra le mani, se le commissioni giustizia di Camera e Senato nei prossimi giorni riusciranno a portare a termine il lavoro sui decreti attuativi, sarà proprio la riforma Cartabia. Quella sul processo civile, sul processo penale, e anche sull’ordinamento giudiziario. L’attuale Csm ha già mandato un brutto segnale al Parlamento, quando ha sollevato davanti alla Corte Costituzionale un conflitto di attribuzione contro il rifiuto del Senato di considerare come legittime le intercettazioni telefoniche nei confronti del parlamentare Cosimo Ferri. È la famosa vicenda del trojan inserito nell’utenza di Luca Palamara e della riunione tra magistrati a politici all’hotel Champagne di Roma. Il conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, che proprio due giorni fa la Consulta ha deciso di accogliere, non è mai un gesto distensivo da parte di chi lo propone. Soprattutto quando forse ci si sarebbe aspettato che il Csm avviasse invece azioni disciplinari nei confronti di chi, violando l’articolo 68 della Costituzione, aveva intercettato un senatore. Anche se in forma indiretta, ma si sarebbe dovuto immediatamente spegnere il meccanismo quando ci si fosse resi conto della violazione. Cosa che non è stata fatta, mentre lo stesso trojan si era opportunamente inceppato in altre circostanze. Se i nuovi concorrenti a quei seggi del Csm pensano di continuare a mantenere questi livelli di conflittualità con il mondo politico, il dopo-Palamara si prospetta peggiore del passato. Per almeno due buoni motivi. Uno è di tipo culturale. Davanti a sondaggi che esplicitamente danno un sostanziale vantaggio elettorale al centrodestra, si stanno già facendo circolare assurdi “babau” non solo sulla prospettiva di una futura riforma per introdurre il presidenzialismo, ma anche su presunte intenzioni di due piccoli colpi di Stato dei vincitori. La conquista, a colpi di maggioranza, del Csm e della Corte Costituzionale. All’ex ministro Flick e al costituzionalista del Pd Stefano Ceccanti ha già risposto benissimo ieri sul Riformista il professor Di Federico. Ma per essere più terra-terra, vorremmo distribuire pallottolieri anche al solito Travaglio, che evidentemente oltre a non capire niente di giustizia non mastica neanche la matematica. Ma se i magistrati eleggono i due terzi dei membri del Csm e il Parlamento l’altro terzo, come può il vincitore delle elezioni politiche, anche ammesso che voglia abbandonare il consueto fair play nei confronti di chi ha perso, conquistare il Csm? Lo stesso discorso vale per la Consulta, di cui comunque dovranno essere eletti quattro membri solo alla fine del 2024. Se questa è la parte più direttamente politica di quel che si agita nel mondo dei partiti e anche delle toghe (quelle di sinistra si preoccupano anche di diritti che a parer loro verrebbero meno se vincesse il centrodestra), è proprio il “delenda Cartabia” a correre di bocca in bocca nella campagna elettorale per il voto di domenica e lunedì prossimi. Votate per noi, dicono i candidati, e vi garantiamo che, quando la riforma (quella che Travaglio chiama schiforma, interpretando il giudizio dell’Anm) arriverà al Csm per il nostro parere, la faremo a pezzettini. Sarà solo un segnale, ma che segnale. Un lungo documento di Area, la sigla sindacale che racchiude le correnti di sinistra della magistratura, elenca puntigliosamente i propri “babau”: La gerarchizzazione degli uffici, la separazione delle carriere, “l’introduzione di nuove forme di responsabilità civile idonee a condizionare seriamente la serenità del giudicare”. A proposito di serenità: sarebbe questo il nuovo modo di superare la vergogna di cui si è coperta una parte della magistratura dopo le denunce di Palamara? E la mano tesa a Parlamento e Governo? “La Cartabia riforma canaglia”. Le parole incredibili del candidato al Csm di Ermes Antonucci Il Foglio, 14 settembre 2022 In un incontro elettorale il giudice Tullio Morello, candidato per la corrente di sinistra Area al rinnovo del Consiglio superiore della magistratura, ha definito “canaglia” la riforma della ministra della Giustizia. “Palamara? Un pezzo di m...”. “Si preannunciano riforme più canaglia della riforma Cartabia”. “Palamara è stato un grandissimo pezzo di m..., puntini sospensivi”. A pronunciare queste incredibili parole è stato un magistrato, precisamente Tullio Morello, giudice del tribunale di Napoli, candidato nelle file della corrente di sinistra Area alle prossime elezioni del Consiglio superiore della magistratura, previste il 18 e 19 settembre. Morello si è lasciato andare a queste affermazioni durante un incontro via streaming tenutosi mercoledì scorso (di cui il Foglio è riuscito a ottenere la registrazione video), dedicato alla presentazione ai propri elettori delle proposte dei giudici candidati nel collegio 3 del Csm. Il collegio 3 comprende i magistrati che esercitano le funzioni in Abruzzo, Campania, Emilia-Romagna, Marche, Molise e Sardegna. Il nuovo sistema elettorale del Csm, introdotto con la riforma voluta dalla ministra della Giustizia Marta Cartabia, prevede che in ciascuno dei quattro collegi dei giudici vengano eletti i due candidati più votati (altri cinque giudici vengono eletti in un collegio unico nazionale virtuale, con una ripartizione proporzionale dei seggi). Morello è certamente tra i candidati favoriti all’elezione, non solo per la presenza alle sue spalle di una corrente ben organizzata come Area, ma anche per la sua lunga esperienza associativa: presidente della sottosezione dell’Associazione nazionale magistrati di Torre Annunziata per quattro anni, poi presidente e segretario dell’Anm napoletana per sei anni. Senza dimenticare i quattro anni trascorsi nel consiglio giudiziario di Napoli. A sorprendere, nelle parole espresse da Morello di fronte ai propri elettori e anche agli altri colleghi candidati, non è soltanto il pesante insulto rivolto a Palamara, da tempo ormai elevato dalle stesse toghe a capro espiatorio dello scandalo delle correnti del 2019 (e peraltro già espulso dall’ordine giudiziario), ma soprattutto il giudizio durissimo avanzato nei confronti della riforma dell’ordinamento giudiziario e del sistema elettorale del Csm voluto dalla ministra Cartabia, definita addirittura “riforma canaglia”. Che un giudice, in assoluta tranquillità, possa definire una riforma promossa dalla ministra della Giustizia e approvata dal Parlamento come “riforma canaglia” dà l’idea dello stato degenerativo raggiunto dalla democrazia italiana, in particolare nei rapporti tra politica e magistratura. Nel corso del suo intervento, Morello prima se l’è presa con il “qualunquismo imperante contro le correnti”, aggiungendo l’insulto nei confronti di Palamara, poi ha cercato di delineare una sorta di scenario da incubo per la magistratura italiana: “Il prossimo Csm sarà il primo Consiglio della storia della repubblica dove il gruppo più forte sarà costituito dai membri laici. Questi saranno dieci: sei eletti dalla maggioranza e quattro eletti dall’opposizione. Io non so se ci saranno correnti capaci di eleggere sei membri o addirittura dieci. Quando si tratterà di dare pareri sulle riforme, che già si preannunciano più canaglia della riforma Cartabia, voglio vedere chi si unirà a queste persone. Cercheranno 5-6 togati che votino le loro riforme”. Qui emerge un altro elemento interessante, vale a dire l’idea, ormai interiorizzata dai magistrati, che il Csm sia chiamato a “votare” le riforme della giustizia in discussione in Parlamento, anziché fornire semplici pareri. A conferma del ribaltamento ormai completo della divisione dei poteri tra politica e magistratura (peraltro bisognerebbe ricordare che, come avviene fin dall’istituzione del Csm, i togati continueranno a vantare una maggioranza schiacciante rispetto ai componenti laici, 20 contro 10). Tecnicismi a parte, è lecito chiedersi quanto le affermazioni espresse da Morello siano compatibili con i principi di indipendenza, imparzialità ed equilibrio che un magistrato che aspira a far parte del Csm dovrebbe rispettare. Chissà se la ministra Cartabia e i partiti in generale avranno qualcosa da dire a riguardo. Equo compenso addio: niente accordo tra i partiti di Simona Musco Il Dubbio, 14 settembre 2022 Sfuma l’ultima occasione per approvare la legge al Senato. La presidente Casellati chiude i lavori, ma un voto dopo le elezioni è tecnicamente possibile. “Il ddl sull’equo compenso è definitivamente sepolto”. Non c’è margine di speranza tra i parlamentari dopo la conferenza dei capigruppo di ieri, durante la quale tutti i provvedimenti rimasti in sospeso a causa della caduta del governo Draghi sembrano finiti in un cassetto. E a chiudere definitivamente le porte ci ha pensato la presidente del Senato Elisabetta Casellati, che ha terminato l’ultima seduta a Palazzo Madama annunciando la convocazione solo per questioni urgenti. “Il Senato è convocato a domicilio”, ha sottolineato prima di dare il via all’ultima votazione, di fatto mettendo una pietra tombale sul provvedimento. Il Senato rimane comunque convocabile in caso di eventi imprevedibili. Ma non pare questo il caso, con la conseguenza che anche l’ultima opportunità di portare a casa il ddl ritenuto vitale dai professionisti risulta svanita, dopo il mancato raggiungimento dell’accordo sul testo, il cui destino era legato alla delega fiscale, sostenuta soprattutto dal centrosinistra e avversata dal centrodestra. “Abbiamo proposto di portare in Aula prima il disegno di legge sull’equo compenso, poi la delega fiscale”, ha riferito all’Ansa il capogruppo di FdI Luca Ciriani, “ma il governo non ha voluto”. Stando a quanto riferito da alcuni parlamentari dem, però, il Pd ha dato la propria disponibilità a tornare in aula per votare dopo le elezioni, in attesa della convocazione delle nuove Camere, allo scopo di approvare tutti i provvedimenti rimasti in sospeso. Ma sul punto non ci sarebbe stato accordo, stante la volontà della Lega di lasciare al nuovo governo la delega fiscale, con lo scopo di affidarla ad un esecutivo di centrodestra. In ballo, oltre al ddl sull’equo compenso e sulla delega fiscale, c’era anche quello sull’ergastolo ostativo, anch’esso approvato in prima lettura, alla Camera, sollecitato dalla Corte costituzionale con la sentenza del maggio 2021, sostenuto in particolare da Pd e M5s. Ma anche questa pratica è rinviata alla prossima legislatura. “Noi abbiamo chiesto di calendarizzare la delega fiscale, ma non si riesce a trovare la quadra. Il Governo era disponibile anche a farlo oggi”, ha evidenziato la presidente dei senatori Pd Simona Malpezzi al termine della conferenza dei capigruppo. “Io ho proposto di esaminare questi provvedimenti la prossima settimana, qualcuno diceva dopo le elezioni ma non ci sono precedenti che si continui a Camere sciolte dopo le elezioni”, ha invece commentato a Lapresse Primo De Nicola, capogruppo di Impegno civico. “Prima si dovrebbero riunire le commissioni”, fa notare Loredana De Petris, presidente del gruppo Misto. Un voto dopo il 25 settembre, secondo il costituzionalista Giovanni Guzzetta, sarebbe tecnicamente possibile. “L’articolo 61 della Costituzione stabilisce che fino alla riunione delle nuove Camere sono prorogati i poteri delle precedenti - spiega al Dubbio -. Fino al giorno della prima riunione delle nuove, astrattamente, Camera e Senato possono svolgere la loro attività con lo stesso regime applicato fino ad ora. È chiaro che, politicamente, più ci si avvicina al momento della successione più ci devono essere gravi ragioni di urgenza affinché le Camere esercitino quei poteri. Ma dal punto di vista costituzionale è fattibile”. Ciò che si può fare ora, dunque, potrebbe essere fatto anche dopo le elezioni, purché si tratti di atti indifferibili, particolarmente urgenti e per i quali non si può attendere la riunione delle nuove Camere. Nel caso dell’equo compenso, il margine d’azione sarebbe dato dalle dichiarazioni rilasciate dalla presidente Casellati subito dopo lo scioglimento delle Camere, quando ha annunciato il proprio orientamento sugli atti che possono essere compiuti durante la fase di prorogatio. E andando a ritroso nel tempo, la presidente del Senato, il 26 luglio scorso, ovvero cinque giorni dopo la caduta del governo, aveva scandito il calendario dell’attività legislativa, “limitata all’esame di atti dovuti, come ddl di conversione e decreto legge e atti urgenti connessi a adempimenti internazionali e comunitari, come il Pnrr, e eventuali ddl sui quali si registra ampio consenso”. L’equo compenso rientrerebbe tra questi ultimi, dal momento che il ddl è stato approvato all’unanimità alla Camera e poi in commissione al Senato, tanto da essere pronto per l’esame dell’Aula il 20 luglio. Insomma, possibiiltà di agire, almeno da un punto di vista tecnico, ci sarebbe. Ma dopo il voto sull’aggiustamento di bilancio, le parole di Casellati hanno mandato in soffitta anche l’ultima speranza. Sicurezza: città più pericolose oggi o 10 anni fa? di Milena Gabanelli, Cesare Giuzzi e Simona Ravizza Corriere della Sera, 14 settembre 2022 La sicurezza è uno dei temi politici dominanti delle campagne elettorali, e non solo, da almeno 15 anni. Un’emergenza che ritorna, in un circolo infinito, dopo ogni fatto di cronaca. In vista del voto del 25 settembre Lega e Fratelli d’Italia ne fanno una delle bandiere del loro programma: “Riportare la sicurezza nelle città italiane”. Eppure, le forze dell’ordine parlano di reati in calo e di indici sulla criminalità mai così bassi. Ma com’è davvero la situazione? Per capirlo vediamo l’andamento dei reati legati alla microcriminalità nelle 6 più importanti città in 10 anni (2009-2019) e lo mettiamo a confronto con il 2021. Lo facciamo con i dati forniti a Dataroom dal ministero dell’Interno su Milano, Roma, Torino, Firenze, Bologna e Napoli. Dai dati abbiamo escluso il 2020, perché tra lockdown e pandemia non può avere un reale valore statistico. Rapine in case e negozi - La tendenza generale delle rapine in abitazione è al ribasso. A Milano crollano dopo il picco del 2013: i casi diminuiscono del 60%. Anche a Roma, Napoli e Torino l’apice si registra tra il 2013 e il 2015, mentre restano sempre sotto i 70 casi a Bologna e Firenze. Fortunatamente siamo lontani dagli allarmi di fine anni Novanta e dei primi Duemila quando le bande degli assalti in villa seminano il terrore in Veneto e Lombardia. Giù a Milano anche le rapine nei negozi: dal 2012 in poi si scende del 50%. Solo a Firenze e Bologna il dato sul decennio rimane in costante equilibrio, mentre il calo è sensibile anche a Roma, Torino e Napoli. L’immagine delle gang di rapinatori armati di pistole e mitra è un retaggio del passato, oggi molti casi riguardano le cosiddette rapine improprie: persone sorprese a rubare in negozi e supermercati che spintonano i vigilantes o entrano in colluttazione con i commessi. Si tratta in realtà di taccheggi classificati come rapine. Furti in case e negozi - I furti semplici nei negozi a Milano per anni oscillano intorno ai 10-12 mila, ma dal 2015 la curva inizia a scendere e nel 2021 i furti sono 7.218. Crollo anche nelle altre città, mentre restano stabili, con una tendenza al ribasso più lieve a Firenze e Napoli. Flourish logoA Flourish chart Per quanto riguarda il furto in casa, sappiamo che è uno dei reati che più incide sulla sensazione di insicurezza dei cittadini. Vedere violata la propria dimora, invasa la parte più intima della propria vita, rappresenta uno degli choc più difficili da superare. I dati anche qui, però, sono in discesa. A Milano i furti in abitazione toccano il picco nel 2013 e nel 2014 con oltre 20 mila casi: oggi meno 57%. E scendono anche a Roma, Torino, Bologna. Costanti a Napoli, mentre a Firenze il picco dei furti in abitazione si registra nel 2018, nel 2021 sono la metà. Borseggi - I borseggi, o furti con destrezza, diminuiscono a Roma, Torino e Bologna. Restano invece costanti a Napoli, Milano e Firenze. Nel capoluogo toscano il picco si registra nel 2019 (9.389), ma si riducono di due terzi (3.020) lo scorso anno. Il 2021 coincide, però, con il forte calo del turismo dovuto alle restrizioni per il Covid. A Milano nel decennio non si scende mai sotto i 20 mila casi: sono 21.560 nel 2021. Più di Roma dove sono 17.234, ma in costante discesa dal 2015. Auto, moto e motorini - I furti di moto e motorini crollano a Milano e a Roma: quelli di motorini nel capoluogo lombardo dal 2009 al 2021 segnano un meno 83%. Superiori nei valori assoluti quelli di moto, ma comunque in discesa (meno 55%). In tendenza al ribasso anche a Bologna, Firenze, Torino. Il dato aumenta solo a Napoli dove nel 2021 s’è registrato un lieve rialzo. Furto d’auto: in diminuzione in tutte le città, a Milano la percentuale è di un meno 65%. Le denunce - I dati del Viminale ci dicono quindi che non è vero che le nostre città sono meno sicure. E non si può dire neanche che furti e rapine sono diminuite perché si denuncia meno. Si denuncia sempre: perché un veicolo ha la targa, per rintracciare un computer o un cellulare (che hanno matricole sempre individuabili), o il furto di un portafogli anche perché la denuncia tutela da un uso improprio dei documenti, e serve per rifarli. I negozi invece sono assicurati, quindi la merce rubata viene quasi sempre denunciata, anche quando si tratta di furti di piccola entità. Lo stesso vale per tutto ciò che è coperto da un risarcimento. Solo il furto di bici raramente viene segnalato, ma lo stesso accadeva anche in passato. Reati informatici - I reati che sono schizzati verso l’alto nel decennio sono invece quelli legati al mondo informatico. A Milano sono quadruplicati, conseguenza del maggior utilizzo di mezzi elettronici di pagamento e acquisti online. Sono reati di grandissima diffusione, spesso le bande colpiscono a strascico, come con il phishing, ossia con le email a pioggia nella speranza che qualche sprovveduto clicchi sul link truffa. Del resto, il reato di truffa nel nostro Paese non prevede la possibilità di svolgere indagini sofisticate, come l’utilizzo delle intercettazioni telefoniche. E solo raramente, quando ci sono aggravanti, si arriva all’emissione di misure cautelari. Omicidi - È il reato che più ha risentito del calo, nei valori assoluti, rispetto al passato. Nel capoluogo lombardo c’è stato un picco nel 2009 di 42 casi, ma dal 2016 in avanti si scende sotto quota 20. Stesso andamento nella Capitale: dai 47 casi del 2014, i delitti si sono poi stabilizzati intorno ai 20. La tendenza su Bologna e Firenze è altalenante: un anno 12, un altro anno 5. È il caso di sottolineare che la voce “omicidi” include i “femminicidi”, un delitto che spesso si consuma in ambito domestico, e non ha quindi legami con la criminalità, pertanto anche la sua repressione deve seguire un altro tipo di percorso. Violenze sessuali - Un capitolo a parte riguarda le violenze sessuali. Bologna con 195 episodi segna il suo record assoluto degli ultimi dieci anni. A Milano nel 2021 si sono registrate 477 violenze, più di un caso al giorno, contro le 413 del 2019. Il picco nel 2009 con 520. Napoli con 206 casi si avvicina ai massimi del decennio. Le violenze non calano neanche a Torino, Roma e Firenze. Oggi il reato comprende, però, molte sfumature un tempo regolate da diversi articoli di legge: dagli atti di libidine allo stupro. Dal 2019 è stata introdotta una modifica del codice penale denominata “codice rosso” per quel che riguarda gli episodi che avvengono in famiglia, e che innalza l’attenzione delle forze dell’ordine con interventi e misure più rapide. Certamente rispetto al passato si denuncia di più, anche se probabilmente resta una quota elevata di sommerso. Come intendono Meloni e Salvini frenare questa violenza, con più carabinieri? Con la castrazione chimica? Tutti gli esperti concordano sulla necessità di un intervento di tipo culturale. Il programma dei due leader però non prevede l’insegnamento della educazione sessuale nelle scuole dell’obbligo. È una materia ampia, che prevede anche l’insegnamento al rispetto del corpo femminile. Rispetto alle tipologie di reati presi in considerazione, sono gli immigrati a delinquere di più? Questi sono gli ultimi dati del Viminale. Dal 2018 al 2021 l’incidenza degli stranieri su arrestati e denunciati è pressoché identica: 32,1% contro il 31,9 dello scorso anno. La percentuale sale però se si parla di furti (43,2%), borseggi (58,7%), furti in casa (47,7%) e violenze sessuali (39,5%). Una incidenza che crolla invece al 17,1% per quanto riguarda le frodi e truffe informatiche, per i reati tipicamente mafiosi, dove il delinquente di nazionalità italiana batte la concorrenza mondiale: usura ed estorsioni sono rispettivamente al 6,8% e 20,9% ad opera straniera. Sugli omicidi gli italiani mantengono costantemente il primato, solo il 21% è commesso da stranieri. I primi passi del processo per il crollo del ponte Morandi mostrano che la giustizia non funziona di Giorgio Meletti Il Dubbio, 14 settembre 2022 La notizia secca è che Autostrade per l’Italia (Aspi) e la sua società controllata per l’ingegneria Spea hanno chiesto al tribunale di Genova di essere escluse come responsabili civili del processo per il crollo del ponte Morandi che sta muovendo i primi passi. Cioè di non essere chiamate a pagare i danni in solido con gli imputati eventualmente condannati. Gli avvocati di Aspi (che faceva capo alla famiglia Benetton il 14 agosto del 2018, quando nel crollo morirono 43 persone, e adesso è invece una società a controllo statale) si appellano a un cavillo riguardante il cosiddetto incidente probatorio effettuato durante l’istruttoria. Ma questa è materia super tecnica per avvocati. Conta invece che il pubblico ministero Massimo Terrile si è detto favorevole alla richiesta di Aspi e Spea perché l’unica cosa che conta per la procura è semplificare un processo di proporzioni talmente mostruose da andare dritto verso la prescrizione per tutti gli imputati. La gravità della vicenda risiede dunque in due questioni fondamentali. La prima è che la giustizia di fronte a eventi di queste dimensioni semplicemente non funziona. La seconda è che a rendere assurdo il tutto è intervenuta la geniale idea del governo Conte, portata a compimento dal governo Draghi, di nazionalizzare la società responsabile del crollo, cosicché adesso è lo stato a doversi assumere le responsabilità che erano della holding Atlantia e in ultima istanza di casa Benetton. E se qualcuno volesse sostenere che in punta di diritto non è proprio così (in punta di diritto niente è mai niente) vada a spiegarlo alle famiglie delle 43 vittime suonando ai rispettivi 43 campanelli. Sul primo punto val la pena ricordare il precedente del Vajont. Il 9 ottobre 1963 l’esondazione del lago artificiale formato dalla diga costruita dalla Montedison e subito prima del disastro passata all’Enel con la nazionalizzazione elettrica, travolse il paese di Longarone, in provincia di Belluno, provocando oltre 2mila morti. Alla fine i danni li hanno pagati in parti uguali la Montedison, l’Enel e lo stato. Però, trattandosi di materia giuridicamente complessa, hanno pagato dopo quasi 40 anni. Né durante quei decenni né nei vent’anni successivi i promotori perenni di riforme della giustizia, molto attenti a preservare il garantismo per i colletti bianchi, hanno affrontato il tema dei maxi processi che non portano giustizia e danno benefici sostanziali solo alle carriere dei magistrati e ai conti correnti degli avvocati. Infatti a Genova ci risiamo. Il pm Terrile ha detto in udienza parole agghiaccianti: “Un processo con 1.228 testimoni che porterebbe a un potenziale di 155mila tra esami e controesami è un processo che non si può fare e non avrà mai fine. La lista testi della procura conta 177 persone, quelle dei 59 imputati oltre 300 e quelle delle parti civili oltre 600. Con questi numeri il processo non avrà fine diversa da quella dell’estinzione dei reati”. Per ascoltare oltre 1.200 persone, con deposizioni a ritmo di rap, e udienze ravvicinate, ci vorrebbero almeno due anni, salvo poi capire i giudici come farebbero a districarsi tra 1.200 indicazioni di dettaglio spesso contrastanti. Terrile chiede alla corte di escludere buona parte delle 600 persone che si sono costituite parte civile, fermo restando che potranno sempre chiedere i danni in sede civile. Tra l’altro 41 delle 43 famiglie delle vittime sono state già risarcite proprio da Aspi e sono uscite dal processo. A chiedere giustizia e danni ci sono quelli dei danni collaterali, chi ha perso la casa in Valpolcevera, chi ha visto fallire la sua attività commerciale eccetera. Un disastro del genere non si può risolvere nelle aule di giustizia. Il ponte è crollato per responsabilità evidente e diretta della società Aspi, a meno che non si riesca a dimostrare che qualcuno dei 59 imputati abbia messo una carica di tritolo sotto il pilone che ha ceduto. Aspi è talmente piena di soldi che ha appena pagato ai nuovi azionisti (la statale Cassa depositi e prestiti e i fondi Blackstone e Macquarie) un dividendo di 682 milioni. Poteva prenderne la metà e distribuirli ai danneggiati senza sottilizzare troppo, senza dire a quel signore della Valpolcevera che la crepa nel suo appartamento non è poi così grossa. Solo che adesso Aspi è dello stato, e chi la controlla ha paura di pagare generosamente con i soldi di tutti i danni fatti dai Benetton. Già, potevano pensarci prima. E invece adesso devono battagliare all’ultimo euro, e per anni, con quelli che gli è caduto il ponte addosso per non fare la figura di quelli che generosamente pagano con i soldi di tutti il conto lasciato dai Benetton. Caso Hasib Omerovic, la procura: “Agenti in casa senza mandato” di Valentina Stella Il Dubbio, 14 settembre 2022 Nuovi dettagli sul tragico episodio a Primavalle denunciato alla Camera. Gli agenti coinvolti saranno sentiti nell’ambito dell’indagine per tentato omicidio. Nessun mandato di perquisizione da parte della Procura di Roma. È quanto emerge, secondo l’Ansa, dai primi accertamenti svolti nell’ambito dell’indagine sul caso di Hasib Omerovic, il sordomuto di etnia rom precipitato dalla finestra del suo appartamento a Roma lo scorso 25 luglio mentre in casa sua si trovavano quattro agenti in borghese della Polizia di Stato. Sarebbe stato il post apparso sulla pagina Facebook di quartiere in cui si accusava direttamente l’uomo di molestare le donne a spingere la Polizia ad effettuare un controllo nell’abitazione di Hasib. Un controllo “preventivo”, come avviene spesso in casi analoghi. Proprio il giorno prima della vicenda sul social network era comparso un post - poi cancellato - con la foto di Omerovic e l’avvertimento di fare attenzione “a questa specie di essere che importuna le ragazze”. Seguito da una minaccia: “bisogna prendere provvedimenti”. Un post, secondo quanto si apprende, che non è sfuggito ai poliziotti del commissariato Primavalle che infatti il giorno dopo si sono presentati in quattro, tre uomini e una donna, a casa di Omerovic e hanno bussato alla porta. Un controllo per identificare il soggetto ma soprattutto un’iniziativa, viene sottolineato all’Ansa, per prevenire eventuali violenze visto che spesso, in passato, proprio il mancato intervento in anticipo è sfociato in violenze e femminicidi. La necessità di agire tempestivamente, anche in assenza di denuncia, sarebbe dunque la motivazione che ha portato i poliziotti a casa dell’uomo. Ora chi indaga sull’accaduto dovrà chiarire se sia trattata di una perquisizione di iniziativa coordinata da un funzionario o di una decisione presa dagli agenti che verranno sentiti nei prossimi giorni dagli inquirenti. Questo significa che sono stati quindi identificati: un primo passo avanti rispetto all’opacità che avvolge tale caso, balzato alla cronaca nazionale grazie all’iniziativa del parlamentare radicale Riccardo Magi, Presidente di +Europa, e al presidente dell’Associazione 21 luglio Carlo Stasolla. Gli uomini della Squadra mobile della capitale, a cui la Procura di Roma ha delegato le indagini, hanno ascoltato intanto i vicini di casa della famiglia Omerovic. L’intenzione è quella di muoversi velocemente sia per rispondere alla domanda di verità della famiglia del 37enne, che resta in ospedale in coma vigile senza possibilità di fornire la sua versione, ma anche a tutela dei poliziotti, per i quali vale come per tutti la presunzione di innocenza, ça va sans dire. Per ora i magistrati Stefano Luciani, che ricordiamo essere stato il pm del processo sul cosiddetto depistaggio sulle indagini sulla strage di via D’Amelio, e Michele Prestipino procedono per tentato omicidio in concorso contro ignoti. Bisogna capire se Hasib è stato lanciato dagli agenti o se si è buttato per sfuggire ad un pestaggio. La famiglia Omerovic esclude categoricamente un tentativo di suicidio. Tutto dipenderà da quanto saranno ritenute credibili le dichiarazioni della sorella di Hasib che era in casa con lui al momento dei fatti: anch’ella disabile (psicofisica), è l’unica testimone oculare dei tragici fatti di quel giorno. Poi saranno importanti anche le voci dei vicini. Nel quartiere popolare di Primavalle le persone, i testimoni, chi sa qualcosa hanno paura di parlare ma come ci ha detto l’avvocato Arturo Salerni, che assiste la famiglia Omerovic insieme alla collega Susanna Zorzi, “alcune collaborazioni ci sono state. Domani chiederemo anche noi di essere ascoltati dalla Procura. Ma ci preme soprattutto che il Ministro dell’Interno Lamorgese dia subito una risposta all’interrogazione fatta dall’onorevole Riccardo Magi”. Sulla vicenda è arrivato anche il breve commento di Ilaria Cucchi dal suo profilo twitter: “Chiediamo che sia fatta piena luce sui gravissimi fatti avvenuti il 25 luglio nella casa di Hasib Omerici-Sejdovic alla presenza delle forze dell’ordine. Io terrò gli occhi bene aperti su tutte le violazioni dei diritti umani”. Non poteva mancare quello di Luigi Manconi, Presidente dell’associazione A buon diritto: “La prima condanna per l’omicidio di Stefano Cucchi è arrivata dopo 10 anni, quella per la morte di Giuseppe Uva e di molti altri non c’è mai stata. Quanto tempo ci vorrà per la verità su Hasib Omerovic? E com’è possibile che oggi, in Italia, nella città di Roma, ci vogliano 50 giorni per apprendere un simile fatto?”. Noi aggiungiamo: come mai si muore o si rischia di morire nelle mani dello Stato? Ricordiamo alcuni nomi, grazie proprio alle storie raccolte da A buon diritto: “Andrea Soldi, 45 anni, nell’agosto 2015 viene sottoposto contro la sua volontà a un violento Tso a seguito del quale perde la vita. Stefano Cucchi muore il 22 ottobre 2009 dopo aver attraversato undici luoghi delle istituzioni e non essere stato tutelato in nessuno di questi. Federico Aldrovandi, 18 anni, muore all’alba del 25 settembre 2005 a Ferrara sotto i colpi infertigli da quattro agenti di polizia. Nella notte tra il 14 e il 15 giugno 2008 Giuseppe Uva muore a Varese dopo una notte passata nella caserma dei carabinieri”. Federico Aldrovandi 17 anni dopo la sua morte, il padre: “Niente è cambiato. Ora non si ripetano i soliti depistaggi” di Niccolò Carratelli La Stampa, 14 settembre 2022 Il papà di Federico, ucciso nel 2005: “Quando ho letto la notizia mi sono sentito male”. Sono passati 17 anni dalla morte di Federico Aldrovandi “e non mi sembra ci siano stati miglioramenti”, dice con amarezza papà Lino. Ancora poliziotti coinvolti in un’azione violenta, come quel 25 settembre 2005 a Ferrara, quando il figlio 18enne rimase ucciso durante un controllo stradale, mentre tornava da un concerto. Ora il caso di Hasib Omerovic, sul quale “bisogna fare subito chiarezza, con l’accertamento delle responsabilità - dice Aldrovandi - la polizia non ricada nei soliti depistaggi corporativi”. Che effetto le ha fatto la storia di Omerovic? “Quando ho letto la notizia mi sono sentito male, davvero. Non ho nemmeno voluto guardare le immagini, è come un tumore che ho nella testa e ricomincia a provocarmi dolore. Per fortuna questo ragazzo è vivo, non è poco”. Sarebbe stato aggredito in casa, durante quello che doveva essere un semplice controllo... “Non esiste, in questi casi bisogna essere irreprensibili, posso dirlo perché facevo questo lavoro, ero ispettore della polizia locale. Una volta entrai in una casa per un Tso e lì è previsto l’uso della forza, se necessario, ma c’è sempre modo e modo: ci vollero 4 o 5 ore di mediazione, ma alla fine nessuno si fece male. Chi usa metodi violenti senza una ragione ha sbagliato mestiere e disonora la divisa”. Lei ora non è più un agente di polizia? “No, ho lasciato con qualche anno di anticipo, non ce la facevo più. La vicenda di Federico mi ha segnato profondamente, sento ancora il dolore per le omissioni, i depistaggi, le indagini che non si muovevano. Spero che per i genitori di Omerovic le cose vadano diversamente, perché hanno il diritto di sapere esattamente cosa è successo al figlio”. Non ha più fiducia nella Polizia, nelle forze dell’ordine? “Guardi, non è facile, non ne ho incontrati tanti in cui avere fiducia. Ma alcuni sì, come l’attuale capo della Polizia Giannini, che ho conosciuto lo scorso anno di questi tempi, insieme a Patrizia (Moretti, la mamma di Federico, ndr). Mi è sembrato una brava persona, corretta, mi auguro che su questa vicenda confermi la mia impressione e pretenda assoluta trasparenza”. Il rischio di trovarsi a sbattere contro un muro corporativo di omertà c’è, voi ne sapete qualcosa... “Nel caso di Federico ci fu, senza dubbio. Un reiterato tentativo di ostacolare la giustizia: pensi che alla fine i responsabili della sua morte hanno fatto solo 6 mesi di carcere, con l’accusa ridicola di eccesso colposo nell’uso legittimo delle armi. Comunque, c’è sempre un cortocircuito, la polizia che indaga su se stessa: così arrivare alla verità non è semplice”. Dopo il caso di Federico, in questi 17 anni ce ne sono stati molti altri: Uva, Cucchi, Magherini, solo per citare i più noti. Significa che nulla è cambiato? “Mettere in fila le storie, i volti, fa venire i brividi. E non vedo grandi squarci di luce: tante parole, tanti impegni, ma pochi atti concreti. Il punto è che queste cose non dovrebbero succedere, mai più, e invece eccoci qui di nuovo a parlarne. Penso soprattutto alle famiglie, costrette a lunghe e costose battaglie legali per ottenere giustizia. Non dovrebbe essere così, perché chi serve lo Stato è tenuto ad assumersi le sue responsabilità e a stabilire la verità”. Oggi Federico avrebbe 35 anni, in pratica un coetaneo di Hasib. “Sì, manca tantissimo e nessuno potrà mai restituircelo. Per ogni suo compleanno gli scrivo una lettera e la metto sul blog, per condividere le mie emozioni. E perché allenare la memoria è utile, affinché certe cose non si ripetano”. Firenze. Si impicca in cella, venticinquenne in gravi condizioni di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 14 settembre 2022 È in fin di vita a Careggi il detenuto marocchino di 25 anni che sabato mattina si è impiccato a Sollicciano. Secondo i medici ci sono poche possibilità che il ragazzo, attualmente in coma, possa salvarsi. L’uomo si trovava in carcere dallo scorso 5 agosto, dopo una condanna per spaccio. Tra qualche settimana avrebbe dovuto beneficiare dei domiciliari. Il tentato suicidio è avvenuto intorno alle 7 quando il recluso è andato nel piccolo bagno della cella e ha provato a strozzarsi con un paio di jeans legati alla grata del bagno. Ad accorgersi per primo del tentato suicidio è stato il suo compagno di cella, quindi sono intervenuti gli agenti. Firenze. Ilaria Cucchi fuori da Sollicciano: “Non ci faremmo una stalla per gli animali” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 14 settembre 2022 “Essere qui forse non mi porterà voti, ma se uno crede in una battaglia non deve mollare”. Ilaria Cucchi, candidata del centrosinistra nell’uninominale per il Senato in Toscana, ieri mattina ha incontrato i giornalisti fuori da Sollicciano per parlare dei problemi del carcere. “Sollicciano è una realtà terribile come tante altre realtà nel nostro Paese”, sottolinea, “un Paese dove alcuni temi diventano scomodi ma io ho deciso di parlare di questo tema, prima di tutto perché mio fratello Stefano è morto di carcere. Questo è un tema che non interessa a nessuno, i cittadini si sentono distanti da queste realtà perché il detenuto è una persona che va punita, ma il carcere è un’emergenza”. Secondo Cucchi c’è bisogno di una riforma “volta a salvaguardare l’interesse non solo della popolazione dei detenuti, ma di un’altra fetta di popolazione carceraria che di fatto lo diventa ogni giorno, ossia degli operatori all’interno delle carceri, il personale sanitario, così come anche e soprattutto gli agenti di polizia penitenziaria che sono costretti a vivere nella stessa realtà, negli stessi luoghi, privi totalmente di norme igienico-sanitarie, dove non ci faremmo nemmeno una stalla per gli animali”. Per quanto riguarda la realtà del carcere fiorentino, “mi sono confrontata a lungo - ha proseguito la candidata espressa dalla alleanza Sinistra-Verdi che corre con il Pd - con le realtà territoriali, e ovviamente mi terrò in contatto per capire di volta in volta quali azioni dovremmo intraprendere”. E poi: “Il fatto che il sindaco Nardella si sia premurato di venire a visitare il carcere di Sollicciano il 16 agosto, mentre tutti noi eravamo in ferie, è un gesto enorme, assolutamente da apprezzare”. Era stato proprio il sindaco a lanciare l’idea di demolire Sollicciano, affetto da gravi problemi strutturali, per costruire un nuovo penitenziario più funzionale e dignitoso. Un’ipotesi allo studio del ministero, come confermato dal provveditore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Toscana-Umbria Pierpaolo D’Andria: “Sul tema demolizione e rifacimento c’è in itinere uno studio tecnico-economico del ministero della giustizia per capire se, in una prospettiva di mediolungo periodo, sia meglio la strategia della ricostruzione oppure della manutenzione straordinaria”. Difficile arrivare ad una conclusione imminente: “Ci sono lavori in corso del valore di 11 milioni di euro: rifacimento facciate, cappotto, impermeabilizzazione tetti, sostituzione infissi, tubazioni per l’acqua calda, docce nelle celle. Si potrà capire quale sarà l’opzione migliore per Sollicciano soltanto una volta che i lavori saranno ultimati, tra circa 2-3 anni”. Dal punto di vista edile e impiantistico, ha poi aggiunto il provveditore Pierpaolo D’Andria, “il carcere di Livorno è un altro istituto che soffre particolarmente. Ma anche lì - ha sottolineato - sono in corso di realizzazione due nuovi padiglioni: uno verrà collaudato a fine anno e l’altro nel 2023”. Torino. Le detenute che si battono per cambiare il carcere di Maria Edgarda Marcucci e Giulia Siviero L’Essenziale, 14 settembre 2022 Il 24 agosto hanno cominciato uno sciopero della fame a staffetta. Chiedono una riforma promessa da tempo, denunciano il sovraffollamento delle strutture e il silenzio dei partiti in campagna elettorale. “Qui dentro non abbiamo piante da coltivare, ma coltiviamo la rabbia”. È con questa rabbia, ci spiegano le donne recluse nel braccio femminile del carcere Le Vallette - “le ragazze di Torino”, come si fanno chiamare - che il 24 agosto hanno cominciato uno sciopero della fame “a staffetta”, cioè alternandosi nel digiuno: per “esprimere solidarietà”, per prima cosa, a “tutti coloro che sono morti suicidi, soli dentro una cella bollente”. Cinquantanove persone, nei primi otto mesi del 2022. Più di una ogni quattro giorni, quindici nel solo mese di agosto: a due terzi dell’anno è già stato superato il totale dei casi del 2021. Lo sciopero proseguirà almeno fino al 25 settembre, giorno delle elezioni. Nel dossier dell’associazione Antigone e di Ristretti Orizzonti si dice che l’Italia ha un tasso di suicidi basso rispetto a quello di altri paesi dell’Unione europea, ma secondo gli ultimi dati del Consiglio d’Europa è al decimo posto tra i paesi con il più alto tasso di suicidi in carcere. Dentro ci si uccide almeno 16 volte di più che fuori. Se questo avvenisse nel mondo esterno, “avremmo pensato a un’emergenza nazionale da affrontare con tutti i mezzi a disposizione, anche di fronte a un governo dimissionario, anche con le elezioni alle porte e con l’obbligo di non uscire dal confine degli affari correnti”, ha detto Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone. Le persone che si sono suicidate avevano un’età media di 37 anni. Sedici di loro avevano tra i 20 e i 29 anni. Quattro erano donne (un numero alto se si considera che la percentuale della popolazione detenuta femminile è solo il 4,2 per cento del totale) e 28 erano di origine straniera: su una popolazione penitenziaria composta per poco meno di un terzo da stranieri, il tasso di suicidi di detenuti di origine straniera è quasi il doppio rispetto a quello degli italiani. Dai pochi dati a disposizione, risulta poi che almeno 18 delle 59 persone che si sono uccise soffrivano di patologie psichiatriche, alcune diagnosticate, altre presunte e in fase di accertamento. E che molte di loro erano ancora in attesa di giudizio. Quasi tutte le carceri dove sono avvenuti i suicidi hanno una situazione cronica di sovraffollamento, parola che è il rafforzativo di un rafforzativo, e che in alcuni casi arriva al 150 per cento della capienza delle strutture. In quasi tutti questi istituti il numero di specialisti psichiatri e psicologi presenti è inferiore alla media nazionale nelle carceri. A metà degli anni settanta, con l’abbandono del regolamento carcerario fascista e i princìpi che lo ispiravano, il carcere cambiò: da sistema basato su punizioni e privazioni diventò un sistema che, almeno sulla carta, doveva mettere in pratica l’articolo 27 comma 3 della costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. La perdita della libertà da lì in poi non avrebbe più dovuto compromettere alcun diritto fondamentale dell’essere umano. Oggi le condizioni di carcerazione e l’esecuzione della pena si confermano invece come esperienze che colpiscono quotidianamente i corpi e le menti delle persone detenute. Il tabù per eccellenza - Lo sciopero della fame non è la prima iniziativa di protesta non violenta delle donne recluse alle Vallette. La scorsa estate avevano ad esempio lanciato uno “sciopero del carrello”, rifiutando cioè il vitto fornito dall’amministrazione carceraria. Siamo riuscite a parlare con le donne che ora aderiscono allo sciopero chiedendo loro di raccontarci la protesta. “Negli ultimi anni”, dicono, “le condizioni della detenzione si sono aggravate e con le restrizioni per il covid c’è stata un’escalation di suicidi e di atti di autolesionismo. Onestamente siamo stanche dei blablabla e siamo determinate a non farci schiacciare. Il vero crimine è non fare niente”. La riforma sulle carceri viene spesso evocata ma mai affrontata nel concreto, nemmeno oggi, da tutti i partiti impegnati nella campagna elettorale. L’esempio più recente è quello della Commissione per l’innovazione del sistema penitenziario istituita nel settembre del 2021 dalla ministra della giustizia Marta Cartabia e presieduta da Marco Ruotolo, ordinario di diritto costituzionale all’Università Roma Tre: i lavori sono andati a rilento, la relazione finale è stata consegnata a dicembre 2021 e a parte qualche circolare non c’è stato alcun intervento strutturale. Cosa succederà dopo le elezioni rimane un’incognita, così le ragazze di Torino hanno deciso di giocare d’anticipo: “Siamo consapevoli che c’è la campagna elettorale e siamo consapevoli che il carcere è il tabù per eccellenza: è proprio per questo che ci siamo infilate in questo modo e in questo momento: per disturbare i tour della loro propaganda”. Dicono anche di essere “molto spaventate” dalle prossime elezioni e che solo pochissime di loro potranno andare a votare. L’Italia, infatti, fa parte di quei paesi che legano il diritto di voto alla durata della pena e, di conseguenza, alla gravità del crimine commesso. Di fatto spesso il diritto di voto non è garantito nemmeno alle persone detenute che quel diritto non l’hanno perso: sia perché può votare per posta solo chi risiede nello stesso comune in cui si trova il carcere, sia perché la procedura che consente alle persone recluse di votare in carcere è complessa pochi la conoscono, l’organizzazione è incerta e di conseguenza l’affluenza è bassissima. Le ragazze di Torino ci raccontano come avviene concretamente lo sciopero all’interno del carcere: “L’abbiamo dichiarato con un comunicato indirizzato al Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, al provveditorato regionale (che si occupa del personale e dell’organizzazione dei servizi e degli istituti penitenziari, ndr), al tribunale di sorveglianza e al direttore. Abbiamo allegato le firme di chi ha aderito con le date. Abbiamo optato per una staffetta così da trovare maggiori adesioni tra le nostre compagne e dare l’opportunità anche a chi assume terapie farmacologiche o alle anziane di dare il loro contributo. Ora siamo in 53 a portare avanti lo sciopero, alcune di noi hanno più di settant’anni”. Queste donne recluse ci danno una lezione di inclusività. Con la loro lotta, irrompono nella monotonia di giorni sempre uguali in un luogo “in cui la luce naturale non arriva”. All’apertura delle celle, alle 7.30, la donna che comincia lo sciopero lo comunica al personale con un’autodichiarazione scritta - Quando hanno cominciato il loro sciopero hanno anche proposto che il cibo non consumato o avanzato (e non solo per lo sciopero) fosse “donato alle persone che ne avevano bisogno” fuori da lì, tramite alcune associazioni. “Ma ci è stato impedito. Già la nostra lettera sull’inizio della protesta era stata citata dai giornali nazionali, figuriamoci se si fosse anche saputo che stavamo facendo qualcosa di buono per qualcuno…”. Raccontano che la mattina, all’apertura delle celle, alle 7.30, la donna che comincia lo sciopero lo comunica al personale con un’autodichiarazione scritta. Questo documento arriva attraverso vari passaggi interni fino alla direzione: “Nel foglio è descritto l’evento, cioè che la detenuta è in sciopero, e sono riportate le motivazioni. Poi il medico visita la donna a cui fino al termine del digiuno, che a seconda dei casi può durare uno, due o tre giorni consecutivi, vengono presi i parametri: peso, pressione, glicemia. Nelle autodichiarazioni noi ribadiamo le nostre motivazioni, evidenziamo il disagio. E loro fanno il loro lavoro burocratico”. L’amministrazione si limita cioè a seguire il regolamento, mentre “tutta la comunità penitenziaria aspetta che qualcosa cambi, che diminuiscano i disagi, in primis il sovraffollamento”. L’obiettivo primario della loro lotta, ci spiegano, è che venga riconosciuta la liberazione anticipata speciale a tutta la popolazione detenuta: “È da anni che ci muoviamo per far sì che venga concessa”, spiegano. Nel 2020, durante l’emergenza sanitaria, il deputato Roberto Giachetti aveva presentato una proposta sulla liberazione anticipata speciale: prevedeva, con alcune limitazioni, la possibilità di aumentare da 45 a 75 giorni la riduzione prevista ogni sei mesi di pena scontata, in base alla buona condotta. Se fosse approvata, allargherebbe la platea di beneficiari a diecimila persone, un cambiamento notevole rispetto alle condizioni attuali. “Ci teniamo a sottolineare”, spiegano le ragazze di Torino, che “non chiediamo impunità o clemenza, ma visto che le carceri italiane come strutture non rispettano le normative dell’ordinamento penitenziario e quelle europee, e visto che l’organizzazione è carente per quello che riguarda il trattamento e il reinserimento, chiediamo che attraverso un ampliamento della liberazione anticipata a 75 giorni ci vengano resi quei diritti che non vengono rispettati”. Un provvedimento simile a quello proposto da Giachetti e rivendicato dalle donne di Torino era già stato applicato nel 2013 dopo la cosiddetta sentenza Torreggiani con cui la Corte di Strasburgo condannò l’Italia per la gravità delle condizioni delle persone detenute. Lo stato aveva varato una misura emergenziale all’epoca, ma l’emergenza si è presto ripresentata. Cattivo esempio - “È brutto da dire, però ci sembra che vogliano risolvere il problema del sovraffollamento con i suicidi o facendo ammalare le persone. Non hanno il coraggio di fare nulla per non perdere voti, e quindi forse pensano che la cosa si risolverà da sola”. È brutta anche da ascoltare, questa frase, soprattutto perché, detta senza alcuna nota di vittimismo nella voce, sembra descrivere fin troppo bene la realtà delle carceri. “La realtà è questa: il carcere è una discarica sociale in cui si butta quella parte di umanità di cui non ci si vuole occupare. Chi esce dal carcere ne esce peggiorato nell’anima e nel corpo”. Citano, le recluse delle Vallette, il numero dei suicidi che qualcuno ha definito degli “omicidi di stato”. Spiegano che le recidive sono altissime, che i percorsi per i reinserimenti “sono una chimera” e confermano che “i detenuti e le detenute con problemi psichiatrici non vengono curati per mancanza di presidi medici e destabilizzano sezioni intere”. Questo, concludono, “è un sistema fallimentare. Si scontano le pene in situazioni e strutture al limite della legalità stessa. Insomma il carcere è l’emblema dell’ipocrisia, del predicare bene e razzolare male. Si dice che il carcere dovrebbe rieducare: ma come può rieducare qualcosa che ti dà il cattivo esempio? A noi viene chiesto di rispettare la legge, ma ci dovrebbero dare l’esempio. Sennò perdono di credibilità, anzi l’hanno già persa”. Il consumo del pasto è una parte importante della vita in carcere: “È difficile non mangiare qui, perché è anche un modo per occupare il tempo e la testa. A volte è uno sfogo, a volte quella dagli zuccheri diventa una dipendenza”. Eppure, nonostante la difficoltà, e nonostante alcune abbiano paura di ritorsioni per la loro adesione alla protesta, proseguono, insieme, unite. Nel frattempo, la protesta si è diffusa anche a una parte della sezione maschile del carcere di Torino e del Regina Coeli di Roma. A Verona le detenute si sono unite con uno sciopero del carrello. E sempre a Verona un gruppo chiamato Sbarre di zucchero e composto dalle ex detenute compagne di carcerazione di Hodo Donatella, suicida nella Casa circondariale di Verona il 2 agosto scorso, ha scritto una lettera al presidente della repubblica Sergio Mattarella per rafforzare la lotta delle detenute di Torino. La voce delle donne alle Vallette, da dentro è arrivata anche fuori, tra le montagne della Val di Susa. “Per noi è stato importante incontrare Nicoletta, Fabiola e Dana”, dicono. Si riferiscono a Nicoletta Dosio, Fabiola De Costanzo e Dana Lauriola, militanti no tav incarcerate tra il 2019 e il 2022 alle Vallette per la loro attività politica e che dopo aver scontato parte della pena in carcere sono state per diversi mesi ai domiciliari. “È stato fondamentale”, spiegano le recluse di Torino, “rimanere in contatto” con loro e con la dimensione sociale che le circonda: la solidità del legame tra detenute ha generato uno spazio nuovo, imprevisto, condiviso da chi è dentro e da chi è fuori. “Questo ci ha fatto cambiare, ci ha messo in un’altra posizione. Siamo convinte che solo se facciamo qualcosa, qualcosa cambia: magari non subito, ma cambia”. Rovigo. Il carcere ancora senza agenti, il prefetto scrive al ministero di Antonio Andreotti Corriere del Veneto, 14 settembre 2022 Troppi pochi agenti nella casa circondariale di Rovigo, circa 120 a fronte di 250 detenuti, e il prefetto Clemente Di Nuzzo richiede un potenziamento dell’organico. A “certificarlo” è stato, ieri mattina, il Comitato provinciale per l’ordine e la sicurezza pubblica presieduto da Di Nuzzo e alla presenza del direttore della casa circondariale Salvatore Erminio (a scavalco con Padova). La disamina ha fatto emergere “una situazione - spiega il prefetto - di carenza di personale della polizia penitenziaria rispetto all’attuale classificazione della struttura che ospita un significativo numero di detenuti in regime di alta sorveglianza”. Il prefetto si è impegnato a segnalare la situazione l ministero della Giustizia e al provveditore regionale del Veneto, Trentino e Friuli Venezia Giulia, Maria Milano Franco D’aragona. La casa circondariale di Rovigo è classificata a bassa sicurezza, eppure ospita detenuti appartenenti a organizzazioni di stampo mafioso. Una situazione che è deflagrata lo scorso 25 agosto quando durante un controllo di routine è stato scoperto l’ingresso abusivo nella struttura di sei cellulari, 10 schede Sim e 90 grammi di hashish. Materiale trovato in due celle dove sono detenuti sei italiani in alta sicurezza. La Procura ha aperto un fascicolo contro ignoti per “accesso indebito a dispositivi di comunicazione”. Le sigle sindacali di polizia penitenziaria rimarcano le problematiche della casa circondariale. Marco Gallo, (Uspp) spiega che a Rovigo “mancano tra i 50 e i 60 agenti. Ora il personale è costretto a straordinari di circa 40 ore al mese, e ferie e riposi sono a rischio. L’uspp ha chiesto che la casa circondariale di Rovigo sia riclassificata come struttura ad alta sicurezza, ma finora senza riscontri”. Per la Cgil, Gianpietro Pegoraro aggiunge: “Va risolta la questione del direttore in pianta stabile, perché da troppi anni non c’è e a Rovigo viene due giorni alla settimana”. Ascoli Piceno. Ucciso da un detenuto nel carcere, la famiglia chiede un milione di euro lanuovariviera.it, 14 settembre 2022 Assistiti dall’avvocato Felice Franchi hanno citato tre agenti che quel giorno erano in servizio e l’allora direttore della casa circondariale. Sarano tutte riascoltate le persone che, in qualche modo, hanno avuto a che fare con la morte di Achille Mestichelli, morto nel carcere di Marino del Tronto nel febbraio di sette anni fa, in seguito ad una pesante lite avuta con un detenuto nordafricano alcuni giorni prima. Per la morte dell’uomo il tunisino, un trentenne, è stato condannato a 10 anni ma i familiari, assistiti dall’avvocato Felice Franchi, hanno citato il Ministero della Giustizia tre agenti della polizia penitenziaria che quel giorno erano in servizio per mancato controllo e l’allora direttore del carcere chiedendo un risarcimento di un milione di euro. Come evadere dalla galera diventando scrittori di Roberto Loddo Il Manifesto, 14 settembre 2022 “Letteratura d’evasione” (Il Saggiatore) è un libro curato da Ivan Talarico e Federica Graziani che raccoglie gli scritti di 15 autori detenuti nel carcere di Frosinone che hanno partecipato al progetto Fiorire nel pensiero. Un laboratorio condotto dal poeta, cantautore e teatrante Ivan Talarico e curato e ideato da Federica Graziani, giornalista e attivista dell’Associazione A Buon Diritto che già aveva descritto il meccanismo perverso della necessità del carcere e delle manette di certa politica e certo giornalismo con “Per il tuo bene ti mozzerò la testa. Contro il giustizialismo morale” (Einaudi Stile libero) scritto insieme al sociologo Luigi Manconi. Una premessa è d’obbligo quando si parla di carcere. Non possiamo far finta di non vedere che oggi il carcere è diventato un luogo di morte e sofferenza. A causa del forte sovraffollamento della popolazione detenuta e a causa delle condizioni di invivibilità in cui le persone imprigionate si trasformano in corpi privi di diritti e dignità. Un luogo di esclusione in cui i principi della Costituzione italiana, della Convenzione europea sono calpestati quotidianamente. L’aumento del 300% rispetto al 2021 dei suicidi in carcere è una vera e propria pena di morte, il carcere uccide oggi un detenuto ogni cinque giorni. Una pena di morte che non ha mai spazio nei media e nella politica. Il carcere è totalmente assente dal dibattito politico in questa campagna elettorale. El Mehdi Belaabdouni, Raffaele Borrelli, Abdel Hadi Bousmara, Andrea Ciufo, Alfredo Colao, Pjetri Gjergj, Ermal Gripshi, Andrea Lombardi, Emanuel Mingarelli, Stefano Palma, Christian Pau, Omar Saidani, Mohamed Shoair e Antonio Vampo sono gli autori di un libro che mette insieme racconti, brevi autobiografie, pagine diaristiche, lettere, surrealistici “cadaveri squisiti” e altri esercizi letterari che non descrivono solo la drammatica realtà del presente dietro le sbarre ma danno voce al loro passato, ai loro sogni e al loro futuro possibile fuori dalla galera. Ho iniziato ad immaginare questo libro prima della pubblicazione, dopo che Federica Graziani mi ha annunciato con un messaggio la decisione dell’editore di pubblicarlo. Mi sono immaginato la gioia nei volti dei detenuti che con le presentazioni del libro e la sua diffusione non sarebbero stati solo detenuti, ristretti e imprigionati. Non sarebbero stati solo scopini, spesini o concellini. Sarebbero diventati scrittori. Questo libro ha alcuni meriti. Il primo è l’essere riusciti a generare una forte empatia con chi legge gli scritti che esprimono una forte carica letteraria e umana. Il secondo merito è quello di non chiudere il libro una volta terminata la lettura. Il libro non si chiude perché le storie raccontate da questi scrittori continuano a vivere nella testa di chi le legge. Perché sono vere. Sono vere anche quando non sono vere. Quando le loro parole volano più alto della realtà delle loro storie personali immaginando mondi differenti, gli autori descrivono una vita diversa, in cui sono semplicemente liberi e felici. Prigione e scrittura sono da sempre, dall’invenzione del carcere, due cose che non possono essere separate. Se non è la carta, per Luigi Manconi sono i corpi a parlare per le persone imprigionate. Dai tatuaggi alle forme di autolesionismo il carcere è composto da corpi che non smettono di parlare e comunicare. Per questo gli autori sono riusciti a svelare galassie e che non possono dividere l’uomo dall’uomo, il noi dal sé, come ha scritto Alessandro Bergonzoni nella prefazione. Questo è un libro che si lascia aperto, perché porta chi lo legge a sentirsi al posto dell’autore, nella sua cella. Questo libro si lascia aperto perché chi legge vuole sapere come vanno a finire le storie degli autori come Mohamed Shoair, che è stanco di stare in cella, perché è giovane e vorrebbe capire tante cose che non sa. Perché è in galera da quando ha 16 anni e quando si sente solo e arrabbiato pija la penna e si sfoga. “Rocca. Storie tra dentro e fuori”: il carcere letto attraverso un sentimento di Antonio Salvati globalist.it, 14 settembre 2022 Patrizia Chelini e Aldo Ciani, con il loro volume “Rocca. Storie tra dentro e fuori” (Sensibile alle foglie, Roma, pagine 160, euro 16,00) che ben si attaglia agli auspici espressi nel 2020, in piena pandemia, da Papa Bergoglio. Non sono pochi i libri che trattano diffusamente la “centralità” della questione carceraria, relativamente alla consapevolezza dello strettissimo rapporto che lega la condizione delle carceri alla qualità civile di una società. “Non fatemi vedere i vostri palazzi ma le vostre carceri, poiché è da esse che si misura il grado di civiltà di una Nazione”, pare avesse saggiamente ammonito Voltaire. L’indifferenza (o l’ingiustizia) nelle carceri significa anche indifferenza (ingiustizia) della società verso la persona umana, ha sostenuto Vincenzo Paglia nel fortunato volume scritto insieme a Raffaele Cantone, La coscienza e la legge (Laterza 2019). Al contrario, non innumerevoli sono i romanzi o frammenti autobiografici sui detenuti. Alcuni testi sono celebri come le crude pagine delle Memorie da una casa di morti (1861-1862) di Fëdor Dostoevskij che il carcere lo conosce bene, dal momento che in gattabuia c’è finito per davvero, rischiando addirittura di essere giustiziato. Hanno aggiunto il loro originale tassello alla narrativa penitenziaria, Patrizia Chelini e Aldo Ciani, con il loro volume Rocca, Storie tra dentro e fuori (Sensibile alle foglie, Roma, pagine 160, euro 16,00) che ben si attaglia agli auspici espressi nel 2020, in piena pandemia, da Papa Bergoglio che significativamente e laicamente sostenne che ciascuno di noi ha “bisogno di respirare la verità delle storie buone: storie che edifichino, non che distruggano; storie che aiutino a ritrovare le radici e la forza per andare avanti insieme. Nella confusione delle voci e dei messaggi che ci circondano, abbiamo bisogno di una narrazione umana, che ci parli di noi e del bello che ci abita”. Infatti, “l’uomo non è solo l’unico essere che ha bisogno di abiti per coprire la propria vulnerabilità (cfr. Gen 3,21), ma è anche l’unico che ha bisogno di raccontarsi, di “rivestirsi” di storie per custodire la propria vita. Non tessiamo solo abiti, ma anche racconti”. Si tratta di un romanzo sociale e corale, dove le vite di molteplici personaggi, all’inizio scollegati tra loro, poi si incrociano, si toccano, si intrecciano, invitando il lettore a compiere non solo uno sforzo di immedesimazione, ma anche una riflessione sul carcere, ossia quel luogo istituzionale in cui si somministra una “sofferenza legale”, una pena detentiva giuridicamente stabilita dosata in maniera tale da consentire la “possibile rieducazione” del reo. Sono decenni che si riflette sulla funzione della pena detentiva e sulle sue modalità di esecuzione. La pena carceraria “in una società democratica - ha spiegato Patrizio Gonnella - ha dei limiti insuperabili, imposti dall’ordinamento giuridico e dal senso etico. Limiti che sono riconducibili alla protezione della dignità umana intesa nel suo significato kantiano di umanità e di non riducibilità dell’uomo a mezzo”. L’articolo 27 della Costituzione nel prevedere al suo terzo comma che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato” suggerisce di non mettere in competizione funzione rieducativa e rispetto della dignità. Come ha stabilito la sentenza 313/1990 della Corte Costituzionale, la rieducazione è infatti una delle qualità essenziali della sanzione penale, che “l’accompagnano da quando nasce, nell’astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue”. Il verbo “tendere”, presente nel dettato costituzionale, rappresenta solo “la presa d’atto della divaricazione che nella prassi può verificarsi tra quella finalità e l’adesione di fatto del destinatario al processo di rieducazione”. La sfida è non relegare il carcere a un’isola separata dal mondo esterno, ma mettere sempre più in relazione con la città una comunità fatta di storie, relazioni, problemi. E il libro di Chelini e dell’esordiente Ciani si rivela prezioso per meglio comprendere alcune tematiche carcerarie come quella relativa allo scorrere del tempo all’interno delle mura carcerarie. Una delle voci narranti del romanzo recita che “non siamo mica eterni. In carcere questa consapevolezza è schiacciante. Le giornate passano in modo innaturale, come se fosse una pausa dalla vita vera. Ma mentre tu stai dentro la vita vera continua, fuori, e anche il tuo tempo biologico scorre, così stai in pausa ma ti vengono sottratti giorni, mesi, anni, e non siamo mica eterni. Il tempo della pena è il sottraendo in un’operazione in cui non si sa il primo termine, quello detto minuendo. Magari sei tutto contento, esci, e dopo poco ti ammali e muori. C’è stata gente che è morta così, davvero. C’è chi si abitua invece, come se fosse vita anche quella in carcere. Se ne fa una ragione, prende sane abitudini, si fa degli amici”. I detenuti descrivono questa sorta di ripetitività esasperata delle giornate come una sorta di “malattia del tempo morto” che, talvolta, portata all’esasperazione conduce al suicidio. Come accadde ad “Ahmed (che) era appena entrato. Aveva ventidue anni, tutta la vita e tutta la pena davanti. Pensava di poter usufruire delle misure alternative e non ci è riuscito. Chissà se è stato per rabbia o per disperazione che si è suicidato inalando il gas di una bomboletta da campeggio. O per vergogna”. “Purtroppo - come ha affermato pochi giorni fa Papa Bergoglio - nelle carceri sono tante le persone che si tolgono la vita, a volte anche giovani”. Le parole del Pontefice trovano un tragico riscontro nei numeri. Dall’inizio dell’anno sono già 59 le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre, contro i 57 di tutto il 2021. Un morto ogni cinque giorni. Questo è un libro che celebra gli outsider, i personaggi respinti dalla società tradizionale, mandati in esilio perché non soddisfano i criteri di un certo tipo di stile di vita. Inoltre, aiuta a riconoscere il simile nel dissimile, a riconoscere che la propria frustrazione non è così diversa da quella di chi ci sta accanto e ci può far fare, a loro e a noi, cose orribili. A riconoscere che la difficoltà di affermare un certo orizzonte non significa ancora la fine della possibilità di resistere, nonostante tutto, non significa ancora arrendersi ad affrontare il mondo da soli, anzi, parafrasando Leopardi e la sua dimensione agonica: “tutti gli uomini stretti in un patto di alleanza, offrendo ed aspettandosi un aiuto efficace e immediato nei pericoli e nelle angosce della lotta comune”. La voce narrante che ci conduce in questo non-luogo per eccellenza spesso rifiuta la sua stessa identità, perché è una voce liquida: a volte rimane anonima, a volte è esterna, a volte è nella testa di qualcuno, a volte è l’amico di un personaggio, a volte appartiene completamente o in parte a un personaggio e, come posseduta, lo lascia emergere e prende il suo carattere. Ha un tono allo stesso tempo umile e pungente. Spesso è un lungo flusso eloquente, altre volte è lapidaria. A volte ha una confidenza amicale. A volte trasuda sincerità e nessun timore di dire quello che pensa, non ha problemi a prendere posizioni, ragiona. È una voce franca, sicura, diretta, senza età, parla come qualcuno che ha una lunga esperienza di vita e allo stesso tempo ha la pura ingenuità dello sguardo di un bambino. Lungo questo percorso incontriamo diverse storie come quella di Aurelia, direttrice del carcere, e il suo progetto di dare la possibilità ai detenuti di lavorare all’esterno; quella di Padre Angelo, che vuole portare la città dentro, a cominciare da Fabrizia e la sua amica, per accompagnare con la chitarra i canti della Messa alla Cappella del Penitenziario. Si intrecciano i pensieri di Vincenzo, detenuto per rapina, di Maurizio, agente di custodia, dello scrittore Andrea e della psicologa Alice. L’ultimo capitolo chiude il cerchio, mostrando come, talvolta, l’incontro tra esperienze diverse possa suggerire un cambiamento di percorso. Lo spiega bene Fabrizia: “Io per me mi sono fatta un’idea: se le cose non si possono cambiare direttamente, come sognavano mamma e papà, e ancora prima i nonni, tramite la militanza, bisogna farlo con la prossimità, la cura e la costruzione di relazioni umane autentiche, remando in direzione ostinata e contraria (mi chiamo Fabrizia mica par caso) rispetto a una società piena di spinte centrifughe e individualiste. Che, a proposito, tanto dai diamanti non nasce niente, per i fiori ci vogliono vite di merda come le nostre”. Don Mazzolari, grande credente del secolo scorso, scrisse che Gesù entrava in paradiso assieme al buon ladrone, al cattivo ladrone e anche a Giuda. E, con qualche compiacimento, commentava: “Che corteo!”. Lavoro forzato, via i prodotti dai mercati Ue di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 14 settembre 2022 La Commissione ha presentato ieri una proposta di Regolamento per bandire dai mercati europei i prodotti fabbricati con ricorso al lavoro forzato. Adesso su questo testo ci vorrà un’intesa tra Europarlamento e Consiglio (entro fine anno) per l’entrata in vigore nel 2025. Era una promessa che la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, aveva fatto un anno fa. A febbraio c’era già stata una proposta di Direttiva, per imporre un dovere di vigilanza alle imprese sulle importazioni. Il Regolamento europeo sarà diverso dalla legge Usa, entrata in vigore a giugno, che bandisce dai mercati statunitensi l’importazione di alcuni prodotti (cotone, componenti dei pannelli solari ecc.), prodotti nello Xinjiang, dove gli uiguri sono costretti al lavoro forzato. La Ue ha scelto un’altra strada: sono interessati tutti i generi di prodotti e non c’è una limitazione geografica. In più, la Ue impedirà di re-esportare i prodotti incriminati, cosa che non fa la legge Usa (molti finiscono quindi anche sul mercato europeo). Il Regolamento dice che, in caso di sospetti sulla provenienza, i controlli avverranno a livello nazionale, dalle Dogane o le istanze di controllo. La Ue fornirà un data base, con indicazioni su prodotti e provenienze sospette, realizzato anche sulla base di segnalazioni di ong. Verranno così aperte inchieste che porteranno alla distruzione di questi prodotti fabbricati in situazione di lavoro forzato. Il lavoro forzato e la schiavitù stanno aumentando nel mondo: l’Oit (Organizzazione internazionale del lavoro) rileva che nel 2021 c’erano 27,6 milioni di persone nel mondo ridotte in schiavitù “moderna” (ci sono casi anche in Europa), con un aumento di 2,7 milioni negli ultimi 5 anni. Il senso di una fine di Michela Marzano La Repubblica, 14 settembre 2022 Jean-Luc Godard ha scelto il suicidio assistito e in Francia Macron annuncia una consultazione sull’eutanasia. Il fine vita è un tema scomodo, difficile, controverso. È una di quelle questioni che costringono a fare lo sforzo di nominare le sfumature dell’esistenza, e che non permettono di rifugiarsi dietro la facilità degli slogan. Lo dico sempre ai miei studenti quando arriva il momento di parlarne a lezione: non esiste né una sola risposta, né un unico punto di vista morale. Quando si discute di suicidio assistito o di eutanasia, è il contesto che detta le regole. Chi lo chiede? Perché lo chiede? Cosa desidera davvero una persona che dice: voglio morire? C’è l’età; c’è lo stato di salute; ci sono le cose che si sono vissute e quelle che, forse, non si vivranno mai più. A volte, c’è un presente fatto solamente di dolore o di disperazione. Altre volte, c’è la solitudine e l’assenza di affetto. Spesso non c’è più né speranza né futuro. Mille e mille fattori che vietano, a chi quelle situazioni concrete non le conosce e non le attraversa, di giudicare o banalizzare. Come nel film di Clint Eastwood, Million Dollar Baby, quando Maggie, dopo l’incidente, chiede al suo allenatore di boxe di aiutarla a morire e lui, che la considera come una figlia e all’inizio non riesce nemmeno a immaginare la possibilità che lei se ne vada via, poi cede: Maggie, che ha avuto tutto, ha perso tutto; e vuole andarsene quando ha ancora nelle orecchie il suono del suo nome scandito dalla folla. Ma allora Jean-Luc Godard ha fatto bene o male a ricorrere al suicidio assistito? Ha fatto bene o male a decidere di rendere pubblica la sua scelta? Ha fatto bene o male a far sapere che non era malato e che era solo esausto? Godard viveva in Svizzera e, nel suo Paese, il suicidio assistito è considerato come un’opzione legittima alla fine della vita. Ma non è questo il punto, anche se proprio ieri, in Francia, il presidente Macron è tornato sul tema, e ha annunciato l’avvio di una vasta consultazione con i cittadini al fine di modificare la normativa sul fine vita entro il 2023. Ciò che vorrei provare a fare è ragionare e contestualizzare. A partire dai tre valori chiave della filosofia morale: la dignità, la libertà e l’utilità. Valori che, non sempre, vanno di pari passo e che, soprattutto, hanno senso solo se incarnati. Se è vero, infatti, che la dignità di ognuno di noi non dipende né dall’età, né dallo stato di salute, né da nessun’altra caratteristica particolare, è anche vero che il rispetto, che della dignità è la conseguenza, ci obbliga a prendere sul serio il desiderio che manifesta chi, vuoi perché stremato dagli anni, vuoi perché malato, chiede di potersene andare da una vita dalla quale si è già allontanato. Quanto alla libertà, è anch’essa sempre legata al contesto all’interno del quale si prova a esercitarla: nessuno è mai del tutto libero; ognuno si dibatte con i limiti e gli ostacoli della propria condizione fisica, sociale, economica e psichica. Solo l’utilità sembra poter essere facilmente calcolabile, come tengono a ricordare tutti coloro che valutano la moralità di un’azione sulla base delle conseguenze. Ma, anche in questo caso, la realtà è ben più complessa. Visto che accanto alle conseguenze a corto termine, esistono poi anche quelle a lungo termine che, il più delle volte, nessuno controlla. E quindi? Quindi, bisognerebbe stare attenti a immaginare di sapere meglio degli altri quale sia il bene altrui. Quindi, bisognerebbe imparare a rispettare le scelte delle altre persone. Quindi, bisognerebbe evitare di giudicare, e fare lo sforzo di capire che, nelle situazioni di fine vita, i cosiddetti criteri oggettivi si sbriciolano: ciò che conta è il vissuto (la soggettività) di chi si trova in quelle circostanze. Come Godard fa dire al protagonista di Éloge de l’amour, un suo film del 2001: “È solo quando le cose finiscono che iniziano ad avere senso”. Jean-Luc Godard aveva 91 anni ed era stremato. Non era malato, va bene. Ma aveva forse fatto e realizzato e vissuto tutto ciò che un uomo come lui può voler fare e realizzare e vivere. E non è certo vietandogli di andarsene via che si salvaguardia il valore immenso della vita. Un valore che esiste, e che nessuno nega. Ma il cui senso si esaurisce quando chi ne è detentore sente che è arrivato il momento di congedarsi. “Il clima dimenticato dai leader”. Ne parlano solo in un discorso su dieci di Luca Fraioli La Repubblica, 14 settembre 2022 Lo studio di Greenpeace Italia sulle parole dei capi delle maggiori coalizioni in campagna elettorale: “E il 90% si concentra su gas e bollette”. Poco o niente: l’emergenza climatica, la necessità di tagliare le emissioni di CO2 per abbassare la febbre della Terra sono, finora, temi appena sfiorati dalla campagna elettorale. Solo una quasi trascurabile percentuale delle dichiarazioni dei leader politici si finora è concentrata sul riscaldamento globale, a detta degli scienziati la maggiore crisi globale a cui l’umanità si sia mai trovata di fronte, e sulle misure per arginarlo. I numeri, impietosi, emergono da uno studio che Greenpeace Italia ha commissionato all’Osservatorio di Pavia. Dal 21 agosto al 4 settembre sono stati monitorati 105 tg (trasmessi in fascia prime time da Rai, Mediaset, La7), 25 puntate di talk show, 14 profili Facebook di altrettanti leader politici: i capi delle coalizioni maggiori, Letta e Meloni, ma anche, tra gli altri, Tajani, Fratoianni, Bonino e Berlusconi. Ebbene il risultato è (quasi) sempre lo stesso, indipendentemente dal partito e dal format comunicativo utilizzato. “La crisi climatica è quasi del tutto assente nei tg e nei post su Facebook, non fa parte dei messaggi prioritari che la politica vuole trasmettere”, nota il direttore di Greenpeace Italia Pippo Onufrio. “Va un po’ meglio nei talk, ma per merito degli intervistatori più che degli intervistati. Eppure a livello globale il clima fa ormai parte seriamente dell’agenda politica almeno dal 2015, anno degli Accordi di Parigi. Che i nostri partiti non se ne siano accorti è sconfortante”. Prendiamo i telegiornali. L’analisi dell’Osservatorio mostra che solo l’11,9% delle dichiarazioni rilasciate dai leader ai principali tg hanno a che fare con l’ambiente. E se si scende nel dettaglio, si nota che di questo 11,9% appena il 6% riguarda il clima e il taglio delle emissioni, mentre oltre il 92% si concentra sulle politiche energetiche, le bollette, la corsa del prezzo del gas… Nei telegiornali di prima serata, Enrico Letta ha affrontato temi ambientali in 7 dichiarazioni sulle 67 rilasciate nel complesso, mentre Giorgia Meloni lo ha fatto due volte su 54. Scenario diverso quello dei talk show, perché in quel caso, come fanno notare gli autori dello studio, il conduttore ha un ruolo fondamentale nell’indirizzare il dibattito verso certi temi piuttosto che altri. E così, le puntate in cui gli ospiti politici hanno parlato di ambiente risultano l’80% del totale. Tuttavia anche in questo caso è la preoccupazione per le bollette a farla da padrona: le politiche energetiche riguardano infatti il 74,5% degli interventi ambientali nei talk, mentre la transizione energetica dai fossili alle rinnovabili e la crisi climatica si fermano entrambe al 7,8% del dibattito sull’ambiente. Colpisce che alcuni leader, tra quelli monitorati, non abbiano mai parlato di ambiente una volta invitati nei talk: è il caso, per esempio, di Roberto Speranza e Luigi Di Maio. Ci sono poi i profili Facebook, quella che l’Osservatorio di Pavia classifica come “informazione autodiretta”, dove cioè è il politico a scegliere il tema su cui cimentarsi. Qui l’ambiente torna a rappresentare uno sparuto 10% dei post realizzati dai leader (o dai loro social media manager). Carlo Calenda ha il record di post “ambientali”: 29, ma su un totale di oltre 200. Matteo Salvini nel colleziona appena 3 su ben 187. Peggio ancora la Meloni, con zero spaccato. Fa eccezione, ma non stupisce, il verde Bonelli con tre post green su cinque totali. E anche su Facebook il tema ambientale dominante è l’energia (80,9% dei post a sfondo green), mentre la crisi climatica supera appena il 2%. Una ulteriore conferma che, se non incalzati da domande specifiche, come avviene nei tg o nei talk, i leader tendono spontaneamente a evitare l’argomento. E questo nonostante i sondaggi (per esempio la ricerca di Swg per Italian Tech pubblicata su questo giornale il primo settembre scorso) abbiano ampiamente mostrato come i giovani elettori siano attentissimi al riscaldamento globale. E nonostante una mobilitazione popolare senza precedenti che ha portato 221mila persone a sottoscrivere l’appello dei climatologi alla politica, perché mettesse l’innalzamento delle temperature al centro della campagna elettorale, pubblicato da Green/Blue. “L’analisi delle dichiarazioni si ferma al 4 settembre, ma non mi pare che dal 5 in poi sia cambiato qualcosa”, conclude Onufrio. E una volta insediato il nuovo governo? “A quel punto la questione climatica andrà affrontata obbligatoriamente. Altrimenti le conseguenze le pagheranno gli italiani e, quindi, anche chi avrà conquistato Palazzo Chigi il 25 settembre”. Ottanta bambini senza acqua da tre giorni, ignorato l’allarme del barcone di migranti di Alessandra Ziniti La Repubblica, 14 settembre 2022 Ancora senza soccorsi l’imbarcazione con 250 persone alla deriva in zona Sar maltese. Una neonata di tre mesi sarebbe già morta di sete come i quattro bambini che hanno perso la vita su altre barche nei giorni scorsi. Ci sono 80 bambini su quel barcone con 250 migranti a bordo che da tre giorni invoca aiuto in zona Sar maltese. Ottanta bambini che da tre giorni non hanno più un goccio d’acqua nè cibo e rischiano di morire di sete come già accaduto negli ultimi giorni ad altri quattro bimbi su altre imbarcazioni. Tutte lasciate andare alla deriva nel Mediterraneo senza che nessuno risponda alle richieste di soccorso. Neanche l’onda di indignazione e l’orrore per la straziante morte di quattro bambini e di tre donne ha fatto sì che qualcuno si sia mosso in soccorso di questi altri 250 profughi, partiti anche loro dal Libano su quella che si preannuncia come la nuova tratta della morte, e in mare da otto giorni. Sulla barca una bambina di tre mesi sarebbe gà morta stando a quanto affermato da un uomo che si è messo in contatto due giorni fa con la Ong Alarm phone che continua a rilanciare alle autorità di tutte le zone Sar le richieste di Sos. Questa mattina l’ultimo contatto tra Alarm phone e i migranti che hanno raccontato di aver visto passare nelle vicinanze il cargo MorningCarol che sarebbe andato oltre senza fermarsi e senza prestare alcun tipo di soccorso. Alcune persone si sarebbero anche gettate in acqua nell’inutile tentativo di raggiungere la nave. “Non hanno niente da bere, la situazione è disperata”, ribadisce Alarm phone. I profughi, quasi tutte famiglie siriane ed afghane, sono rimasti senza carburante con la barca alla deriva tre giorni fa e da due giorni hanno esaurito anche le scorte di acqua e di cibo. I maltesi continuano a non rispondere alle richieste di aiuto e nessun mezzo si è avvicinato anche solo per lanciare delle bottiglie di acqua. “Ho parlato questa notte con alcuni di loro - dice l’attivista Nawal Soufi che la scorsa settimana ha dato la notizia della morte della piccola Loujin - ci sono 80 bambini che stanno morendo di sete, i genitori non hanno altro da fare che bagnare loro le labbra con l’acqua del mare e alcuni di loro non resistono ad ingerirla accelerando purtroppo il processo di denutrizione. Stanno lasciando morire ottanta bambini sotto gli occhi dell’Europa. Nessuno può dire di non sapere”. In direzione dell’imbarcazione si sta muovendo la nave di una Ong tedesca Humanity 1 ma è ancora molto lontana. 25 settembre, la cannabis potrebbe fare la differenza di Leonardo Fiorentini Il Manifesto, 14 settembre 2022 Un anno fa, in queste ore, venivano raggiunte le 500.000 firme necessarie per la richiesta del referendum che avrebbe depenalizzato la coltivazione ad uso personale della cannabis, rimosso la pena del carcere per le cosiddette droghe leggere, ed eliminata la sanzione amministrativa del ritiro della patente per i consumatori. Ieri è stata l’ultima seduta di Giuliano Amato come Presidente della Corte costituzionale, responsabile della decisione dal sapore tutto politico sulla non ammissibilità del referendum. Una scelta che ha deluso tanti giovani che si erano illusi di poter contare su un tema per loro coinvolgente, e inciso sull’agenda politica. Forse i diritti sarebbero stati centrali e non saremmo piombati nello scioglimento del Parlamento e in questa campagna elettorale condizionata dal rischio di alto tasso di astensionismo. Cosa sarebbe potuto effettivamente succedere al voto referendario non lo sappiamo, anche se dai sondaggi, anche recenti, possiamo immaginarlo. Sappiamo invece come la clava sapientemente infilata nella ruota della democrazia partecipativa, ha impedito che anche la proposta di Riccardo Magi avesse la forza per respingere l’ostruzionismo parlamentare. Scampato il rischio del referendum, si è vanificata anche una proposta minima di adeguamento della legge alle indicazioni della giurisprudenza della Cassazione. Della crisi democratica, dei referendum, del parlamento e dei partiti si parlerà il prossimo fine settimana nel seminario della Società della Ragione. Per fortuna nel mondo i cambiamenti prendono corpo e in Europa, paesi vicini all’Italia come Malta hanno legalizzato la coltivazione personale e i cannabis social club, il Lussemburgo è prossimo a farlo, la Germania ha avviato l’iter per legalizzare l’intero mercato e la Repubblica Ceca progetta di fare altrettanto. Riforme che interrogano la stessa politica dell’Unione sulla cannabis, come dimostra l’ultimo vertice dei responsabili delle politiche sulle droghe a Praga. Il dibattito in Italia sembra tornare indietro di decenni, con la riesumazione di un rancido repertorio di fake news, smentite dai fatti e dalle evidenze scientifiche. La campagna elettorale costruita su semplificazioni e strumentalizzazioni non ha offerto grandi spazi per guardare con fiducia al futuro e abbandonare i miti del passato che hanno costruito fallimenti sociali sull’altare della repressione. Poche le voci per una riforma della politica delle droghe che contrastano lo stanco e stucchevole ritornello della lotta alla droga delle destre. Comunque qualche timido segno di novità è apparso. Il Partito Democratico ha messo nero su bianco la depenalizzazione della coltivazione ad uso personale: è la sua posizione più avanzata sul tema, almeno dal congresso torinese dei Democratici di Sinistra, 22 anni fa. Più coraggiosi gli alleati di +Europa e dell’Alleanza Verdi-Sinistra che hanno inserito nel programma la completa regolamentazione legale. Come ha fatto Unione Popolare. L’unico ad arretrare fra i partiti tradizionalmente antiproibizionisti sembra essere il Movimento 5 Stelle di Conte. Dalla legalizzazione tout court del 2018 alla sola regolamentazione della coltivazione di cannabis ad uso personale di oggi. Nel programma comune della coalizione della destra si ritrova l’imperativo di “combattere lo spaccio e la diffusione delle droghe con ogni mezzo, anche attraverso campagne di prevenzione e informazione”. L’anche pare una pura clausola di stile, per mantenersi fedeli al motto del bastone e della carota. I 6 milioni di consumatori di cannabis, che costituiscono un decimo del corpo elettorale, se prendessero coscienza che la scelta è fra repressione e libertà potrebbero fare la differenza. È un sogno forse, ma bello. Messico. La militarizzazione della pubblica sicurezza è una scelta sbagliata di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 settembre 2022 Il voto con cui, alla fine della scorsa settimana, il Senato del Messico ha approvato la proposta di porre la Guardia nazionale sotto la direzione del ministero della Difesa rischia di peggiorare la già grave situazione dei diritti umani. La Guardia nazionale era stata istituita il 27 maggio 2019 per operare sotto la direzione civile del ministero della Pubblica sicurezza e della protezione dei cittadini. I problemi erano emersi subito: il 70 per cento dei suoi agenti proveniva dall’esercito o dalla marina militare. Nessuno stupore, dunque, se dal 2020 al 2022 la Commissione nazionale dei diritti umani abbia ricevuto oltre 1100 denunce per crimini di diritto internazionale a carico di quella istituzione. Per questo, la proposta fatta il 31 agosto dal presidente Andrés Manuel López Obrador, dopo 16 anni in cui l’esercito ha di fatto gestito l’ordine pubblico, dal punto di vista dei diritti umani è pericolosa. Oltre a porre la Guardia nazionale sotto il controllo del ministero della Difesa, la proposta approvata dal Senato prevede che i principali ruoli di comando siano riservati a personale proveniente dall’esercito, che la formazione sia affidata alle forze armate, che personale militare in servizio attivo possa essere impiegato anche nella Guardia nazionale e che eventuali violazioni dei diritti umani commessi dalla Guardia nazionale siano giudicati dai tribunali militari, dunque con garanzia d’impunità assoluta. Per esemplificare il costo umano della militarizzazione dell’ordine pubblico in Messico negli ultimi 16 anni, ossia a partire dalla cosiddetta “guerra alla droga” del 2006, è bene ricordare qualche dato: aumento degli omicidi del 218 per cento, oltre 100.000 desaparecidos, 6661 denunce di violazione dei diritti umani, 100 giornalisti assassinati (15 dei quali solo nei primi otto mesi di quest’anno). Insomma, la strategia della militarizzazione della pubblica sicurezza ha mostrato tutto il suo fallimento ed è sconcertante che le autorità messicane vi puntino ancora. Afghanistan. Aperte e poi richiuse, le scuole femminili ostaggio della lotte interne ai Talebani di Giuliano Battiston Il Manifesto, 14 settembre 2022 Scuole chiuse per le ragazze che vengono riaperte dalle autorità locali, per essere di nuovo chiuse dalle autorità centrali di Kabul. È successo nei giorni scorsi nella provincia di Paktia. Un territorio poco centrale, nell’area orientale al confine con il Pakistan, ma la valenza della partita in corso è cruciale: racconta dei dissidi interni al movimento dei Talebani, ora che dalla guerriglia sono passati a gestire i ministeri, e racconta anche del conflitto sociale nel Paese. Un conflitto più sotterraneo, rispetto a quello militare con i cosiddetti fronti della resistenza e con la branca locale dello Stato islamico, la Provincia del Khorasan, ma ben più importante. Partiamo dalla cronaca: circa una settimana fa, le autorità governative della provincia di Paktia hanno annunciato la riapertura di 5 scuole superiori femminili nei distretti di Gardez e di Chamkani, dopo che i consigli tribali e le autorità locali, su pressioni della cittadinanza, avevano dato il via libera alla riapertura. Nella gran parte dell’Afghanistan, infatti, le scuole superiori femminili sono chiuse da più di un anno. Da quando i Talebani sono tornati al potere. “Nei giorni passati, alcune scuole hanno riaperto e i presidi hanno invitato le studentesse a tornare a scuola”. Così ha presentato la notizia Khaliq Yar Ahmadzai, a capo del dipartimento per l’Informazione e la cultura di Paktia. La notizia non è stata presa bene a Kabul, dove non è mai arrivata la richiesta di autorizzazione. Così, i portavoce dell’Emirato si sono affrettati a dire che ogni decisione di questo tipo deve passare da Kabul, nonostante alcune scuole superiori femminili abbiano continuato a rimanere aperte, in questo periodo, come nella provincia settentrionale di Balkh. Dalle parole, poi, l’Emirato è passato ai fatti: le scuole sono state subito chiuse. Il 10 settembre, decine e decine di studentesse, con la divisa scolastica, hanno manifestato per le vie del capoluogo provinciale, Gardez, per chiedere la riapertura. Secondo diverse fonti, i Talebani avrebbero arrestato i genitori di alcune studentesse e fermato per ore i giornalisti che hanno dato copertura della manifestazione. A cui è seguita, due giorni fa, la dichiarazione del ministro di fatto dell’Istruzione dell’Emirato: “Nella nostra cultura, nessuno vuole mandare le proprie figlie grandi a scuola”. Un’uscita che ha provocato una fortissima reazione in tutto il Paese, dove la richiesta di educazione - ed educazione di qualità - è invece molto diffusa, non solo nelle città principali. La vicenda riflette uno dei principali limiti dei Talebani: la loro incapacità di riconoscere quanto la società afghana sia diversa da quella che, in tanti anni di guerriglia e clandestinità, addestramento di martiri e attentatori suicidi, hanno immaginato esistesse. Ma ad emergere è anche un dissidio interno: la riapertura delle scuole è avvenuta infatti a Paktia, tradizionale “feudo” degli Haqqani. Alle spalle stragi e mattanze, all’interno della galassia dei Talebani sono tra quelli che però più spingono per la riapertura. Dietro le 5 scuole riaperte, c’è il loro tentativo di forzare la mano e mettere nei guai, di fronte alla società afghana e alla diplomazia internazionale, il gruppo dei politici del sud, di Kandahar.