Dai 5Stelle a Fdi, quando il carcere è feroce giustizialismo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 settembre 2022 Nei programmi elettorali è diversa l’attenzione all’universo carcerario: per la Lega servono più agenti e carceri. Terzo polo, Pd, Europa verde-Si e +Europa hanno proposte differenziate ma con una matrice progressista. L’ex magistrato Roberto Scarpinato, candidato del Movimento Cinque Stelle, recentemente ha affermato: “Il carcere in Italia non sarà mai civile fino a quando i colletti bianchi non cominceranno a esserne ospiti”. Dire che il grave problema penitenziario che attanaglia il nostro Paese è dovuto dalla poca presenza dei “colletti bianchi” ristretti, è sicuramente funzionale agli slogan elettorali, ma non è utile alla risoluzione del problema. Purtroppo non possiamo sapere quale sia la soluzione proposta dai grillini, anche perché - a differenza di tanti altri partiti - nel programma elettorale non se ne fa alcun cenno. Così come per il tema della riforma della giustizia, anche per quanto riguarda il carcere bisogna applicare un rigore scientifico. Troppo spesso - basti pensare alle rivolte carcerarie dove si è tirato fuori il teorema (sconfessato dalla commissione istituita dal Dap) della regia occulta - emergono visioni paranoiche della Storia che causano arretramenti culturali, non offrono soluzioni ai problemi e si rischia di essere funzionali allo Stato di polizia. Fake news e teorie del complotto possono avere facile presa - Senza uno scrupolo scientifico dei fatti, inevitabilmente fa presa il “fantasma della memoria” che viene evocato attraverso suggestioni, immagini, suoni, parole. All’interno di spazi televisivi e convegni, come di consueto, avviene un’alchimia insieme modernissima e arcaica dove si evoca il passato per ottenere lumi sull’attualità e vaticini sul futuro, accostando - senza rigore alcuno - situazioni, personaggi, ipotesi stralunate, affermazioni presentate come fatti ma non verificate, “fake news”, leggende metropolitane, miti ingannevoli, post verità, teorie del complotto. Tutto ciò annulla il pensiero, il livello del dibattito pubblico si abbassa sempre di più e inevitabilmente ne risente anche la classe politica che teme di portare avanti qualsiasi riforma innovatrice. Lo abbiamo visto con la Riforma Orlando sull’ordinamento penitenziario, quando non si è avuto coraggio di approvare i vari punti innovativi come la modifica del 4 bis (l’ostatività ai benefici per alcuni reati) e renderci più vicini al dettato costituzionale. E infatti appare singolare evocare la Costituzione italiana, ma quando si vuole apporre riforme che seguono il solco tracciato dai padri costituenti, si fa una acerrima opposizione. 2022: l’annus horribilis delle carceri italiane - Ma ritorniamo al problema penitenziario. Questo 2022 è un anno caratterizzato dai numerosi suicidi, sovraffollamento, problemi sanitari, detenzioni degradanti. Tante, troppe morti potevano essere evitate. C’è un numero altissimo di detenuti reclusi per una pena breve. L’ultima relazione annuale del Garante Nazionale parla di ben 1319 presenze per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni. La risposta sarebbe quella di sbattere in galera più “colletti bianchi” possibili, oppure dare strumenti maggiori a quei detenuti, magari della fascia più debole della società, per ottenere misure alternative alla detenzione? Quando si è provato a farlo, i titoli di taluni giornali come il Fatto Quotidiano o La Verità, sono stati: “Vogliono scarcerare i delinquenti!”. E puntualmente, per ricevere ancora più consenso dalla fascia più giustizialista, parlano di leggi che rendono impuniti i colletti bianchi. La retorica della giustizia classista, di fatto, rende ancora più feroce il classismo. E in nome dell’impunità dei colletti bianchi, sono state varate riforme come “lo spazzacorrotti” che per un mini peculato, trattano come se fossero dei boss, i dipendenti della pubblica amministrazione. Sì, perché per fare una legge ancora più feroce, alla fine sono sempre gli ultimi della catena a pagarne le conseguenze. Da un mese Rita Bernardini è in sciopero della fame - Da quasi un mese è in sciopero della fame Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino, per chiedere un intervento da parte del ministero della Giustizia. Ci sono state adesioni trasversali, ma oggi più che mai, ritorna a fare da padrone la lotta all’ “impunitismo”, ovvero quel populismo giudiziario che ha creato e sta tuttora creando una profonda ingiustizia. In nome di quella lotta, ci rimettono gli ultimi che affollano le nostre patrie galere. Com’è detto, il Movimento Cinque Stelle non fa alcun cenno al carcere nel suo programma elettorale, così come Fratelli d’Italia. Parliamo, secondo i sondaggi, del primo partito e quindi sarebbe utile capire la loro posizione. Un indizio però l’abbiamo avuto recentemente quando Giorgia Meloni ha addirittura proposto di modificare l’articolo 27 della nostra Costituzione. Nel centrodestra solo la Lega ha menzionato il problema nel programma, ma promettendo “una riforma dell’ordinamento penitenziario che garantisca piena dignità al detenuto e sicurezza nelle carceri”. Come? Attraverso assunzioni tra le fila della Polizia penitenziaria e la costruzione di nuovi istituti penitenziari, moderni e vivibili. La classica risposta di destra, che è molto simile al vecchio programma grillino. Non è un caso che durante il governo Conte 1, il tema penitenziario è stato quello dove trovarono più sintonia. Per il Terzo polo serve una riforma nel rispetto della Costituzione - Il programma del Terzo polo, quello redatto da Azione di Carlo Calenda e Italia Viva di Matteo Renzi, ha invece affrontato il problema con un indirizzo progressista: ovvero la promozione di una riforma del sistema penitenziario che garantisca “il rispetto del principio della finalità educativa della pena, coerentemente con quanto previsto dalla Costituzione”. Tra le misure proposte c’è un intervento sulla normativa della custodia cautelare, per evitare un abuso del sistema dal momento che oggi un terzo dei detenuti si trova in carcere pur senza condanna definitiva. Inoltre viene prospettata un’incentivazione nel ricorso alle pene alternative, così da ridurre la pressione sulle carceri, interventi di edilizia carceraria e una nuova legge sulle detenute madri che fermi la pratica dei bambini in carcere. Giustizia riparativa e misure deflattive da valorizzare per il Pd - Nel centrosinistra primeggia il Partito Democratico che ha dedicato un capitolo sostanzioso sul tema carcere, proponendo di valorizzare (e va dato atto che la guardasigilli Marta Cartabia ne ha fatto un cavallo di battaglia) gli strumenti di giustizia riparativa anche per “superare l’impostazione di un sistema penale incentrato prevalentemente sul carcere”. Parla anche di rendere strutturali le misure emergenziali applicate durante l’emergenza Covid-19, quelle che hanno contribuito a una - seppur minima - deflazione della popolazione carceraria. Importante anche il tema della valorizzazione del lavoro, coinvolgendo imprenditori responsabili nei percorsi formativi e alleggerire la burocrazia penitenziaria. +Europa dedica ampio spazio alla questione penitenziaria - Anche Europa verde-Sinistra italiana affronta il tema penitenziario nel suo programma elettorale, recependo le indicazioni elaborate dall’associazione Antigone. Si punta molto sulla modifica della legge sulla droga e la cancellazione della Bossi-Fini, la norma che criminalizza e produce la cosiddetta “clandestinità” con la conseguenza di creare “devianze” e quindi più incarcerazioni. Inoltre chiedono la riduzione della custodia cautelare e la possibilità di avere un telefono per ogni cella. Questione importate, ben evidenziata da Antigone per ridurre l’isolamento del detenuto dai propri affetti: fondamentale per evitare malesseri esistenziali che portano anche al suicidio. Ovviamente anche il partito di +Europa dedica ampio spazio alla questione penitenziaria, attraverso proposte simili a quelle appena elencate. In più dedica attenzione sul trattamento psichico (ricordiamo la proposta di legge a firma di Riccardo Magi sull’abolizione del cosiddetto doppio binario) e il diritto all’affettività e alla sessualità in carcere. Temi tutti volti all’affermazione della Costituzione Italiana. Sì perché non basta evocarla strumentalmente, ma bisogna poi passare a proposte concrete. Oltre le statistiche. Riflessioni su autolesionismo e suicidi in carcere di Elisa Mauri napolimonitor.it, 13 settembre 2022 Si è parlato molto, di recente, dei suicidi in carcere, soffermandosi però quasi esclusivamente sui numeri delle persone che si sono tolte la vita in prigione. Davanti all’ineluttabilità della morte, evento spesso imprevisto e di certo irrimediabile, quello che facciamo socialmente è contare - basti pensare alla pandemia con i suoi bollettini medici. È come se attraverso questa analisi del dato provassimo a controllare l’incontrollabile, una cosa a cui noi società della scienza e della tecnica non siamo più assolutamente abituati: ci sforziamo con il nostro emisfero sinistro, ormai ipertrofico, di dare un senso matematico, razionale, ordinato e controllabile alla morte, piuttosto che soffermarci sui nostri vissuti emotivi. Dei suicidi in carcere si fa la conta - vale anche per le associazioni che il carcere lo studiano e lo frequentano da tempo - e poi, sempre sulla base dei numeri, si analizzano le condizioni degli istituti: qual è il tasso di sovraffollamento? Quanti operatori, educatori, psicologi, psichiatri ci sono? Quanti detenuti in rapporto al numero degli operatori? Così si creano dati e si fanno grafici. Ma come stanno insieme questi dati? Ciò che manca nel dibattito è una narrazione che restituisca senso e complessità ai fenomeni dell’autolesionismo e del suicidio in carcere: oltre ai dati è necessario infatti integrare la parte emotiva, “qualitativa” della faccenda, che poi è quella più importante. Del resto, chi abita la disperazione vive di emozioni troppo grandi per essere tollerate, e la questione diventa tutta di sopravvivenza psichica, che, sì, ha la preminenza anche su quella fisica: “Le lesioni del corpo sono una forma di sacrificio”, scrive Le Breton in La pelle e la traccia. Le ferite del sé. “L’individuo accetta di separarsi da una parte di sé per salvare la totalità della propria esistenza. La posta in gioco, insomma, è il non voler morire: sono ferite che creano l’identità, tentativi di accedere al sé più profondo disfandosi del peggio. […] In questo caso, la lesione del corpo (incisione, bruciatura, lacerazione) è una forma di controllo su di sé cui fa ricorso colui o colei che ha perduto la scelta sui mezzi, e non dispone di altre risorse per continuare a essere al mondo. In un certo senso, dunque, la lesione è una forma di autoguarigione”. In quest’ottica l’autolesionismo è uno dei poli del continuum al cui opposto si colloca il suicidio, sebbene queste pratiche abbiano due elementi chiave in comune: l’impotenza rispetto alle cose del mondo (l’istituzione totale ha in sé molte caratteristiche che possono far sperimentare questo vissuto) e la necessità di trasformazione. A proposito del suicidio, Hillman scrive che “la morte compare allo scopo di aprire la strada alla trasformazione. […] L’anima promuove l’esperienza della morte per far entrare il cambiamento. Visto in questo modo, l’impulso suicida è una pulsione trasformativa che dice: la vita così come si presenta deve cambiare. Qualcosa deve togliersi di mezzo. […] Il meccanismo deve arrestarsi del tutto. Ma dal momento che non posso intervenire sulla vita del mondo, dopo aver tentato di tutto, porrò fine alla vita qui, nel mio corpo, l’unica parte del mondo oggettivo sulla quale ho ancora potere. Porrò fine a me stesso”. Lavori di questo genere sono fondamentali per guardare la questione da una prospettiva complessa, che restituisca senso a questi gesti estremi e che fornisca consapevolezza del fatto che non è affatto vero che se una persona detenuta si autolesiona è impossibile conoscere i motivi per cui lo fa (“Non è chiaro, non può esserlo, il motivo del gesto autolesionistico” si leggeva qualche giorno fa in una “breve di cronaca” a proposito del tentativo di evirazione di un detenuto nel carcere di Agrigento). Fondamentale, infatti, per conoscere queste ragioni, è una modalità di ascolto delle persone detenute che passi per l’abbattimento del pregiudizio (considerando che i “gesti estremi” ne suscitano di norma molti) e per una pratica di “esposizione” nella messa in relazione con l’Altro. Un’altra battaglia che si cerca di portare avanti partendo dai dati statistici è quella relativa alla sproporzione tra il numero di operatori sanitari e il numero di persone detenute. Ma se è vero che la matematica non è un’opinione, anche in questo caso si tratta di una lettura da mettere in discussione. Personalmente ho avuto la fortuna di lavorare al fianco di due bravi psicologi sanitari, con un ventennio di lavoro in carcere alle spalle; due soli professionisti all’interno di un grande carcere, come altri, estremamente sovraffollato. La sproporzione numerica tra operatori e persone detenute è un problema annoso, con molte richieste, poco tempo e una necessità impellente di individuare una soluzione (prima di tutto riequilibrando il rapporto numerico tra operatori e persone detenute). Tuttavia, questa sproporzione non ha impedito a questi professionisti di svolgere bene il loro lavoro e di portare avanti percorsi di sostegno con attenzione e dedizione, evitando spesso il peggio. Il cuore del loro lavoro era quello di impegnarsi a (ri)dare dignità alle persone dentro il carcere, ma li ho anche visti faticare molto nel provare a tessere fondamentali alleanze di lavoro con altri professionisti sanitari (infermieri, medici, psichiatri). Una volta, al quinto anno di università, un bravo professore ci fece riflettere sulla differenza tra intellettuali e tecnici nel nostro lavoro di cura: i primi sono persone che hanno sviluppato un pensiero critico e la cui pratica clinica deriva da un preciso posizionamento personale e professionale; i secondi svolgono i compiti che gli vengono assegnati, applicano i protocolli, hanno una fede cieca nella loro tecnica e nell’autorità. Eppure, ciascun operatore si posiziona, consapevolmente o meno, e da questo posizionamento derivano modi diversi di svolgere il proprio lavoro. Con quel professore ci ritrovammo a personificare questa differenza in due figure emblematiche come Franco Basaglia ed Emil Kraepelin, psichiatra tedesco che ha operato tra l’Ottocento e il Novecento. “Il modo di procedere di Basaglia - scrive Pier Aldo Rovatti - ti spingeva a una tale vicinanza con i ricoverati che tutti i filtri o le mediazioni, basate su quello che credevi di sapere, si incrinavano e saltavano quasi subito, lasciandoti completamente scoperto. Ti veniva detto di guardare quello che avevi di fronte, non quello che avevi nella testa”. Basaglia impostava il suo lavoro su una relazione il più possibile orizzontale con il malato, il quale veniva ascoltato e aveva persino un posto, accanto agli operatori, nelle assemblee dove si decideva anche del suo futuro. In qualità di direttore del manicomio di Gorizia, Basaglia ha rifiutato di firmare il registro delle contenzioni: ha pensato e ha detto no, ha preso distanza da un protocollo che non condivideva. Per un tecnico come Kraepelin, la relazione con il paziente era invece indiscutibilmente gerarchica: al vertice c’era il medico illuminato - dal sapere o dalla conoscenza divina - che forte del potere datogli dal sapere tecnico non aveva alcun bisogno di ascoltare la persona che aveva davanti, perché quella sarebbe stata solo ed esclusivamente un’inutile perdita del suo tempo. Ci sono ambiti in cui, più di altri, vige un’impostazione e un’organizzazione del lavoro di questo tipo, con una profonda distanza nella relazione, e l’istituzione totale è di certo uno di questi (Goffman spiega chiaramente come l’istituzione si fondi e si organizzi attorno a una differenza di status e privilegi tra staff e internati). Un clima culturale definito dalla tecnica, dai numeri e dalle statistiche rischia però di dominare anche settori specifici come quello sanitario. È noto, per esempio, come le aziende sanitarie siano tenute a produrre periodicamente documenti statistici per misurare l’efficienza dei loro reparti e persino dei loro operatori. Se pensiamo al carcere, poi, la sproporzione tra il numero di operatori e quello sempre crescente di detenuti finisce per creare una considerevole pressione all’interno di un sistema costruito in questo modo, di cui anche alcuni professionisti possono rimanerne vittime: “In cinque minuti ne vedo tre”, mi disse con orgoglio uno psichiatra, chissà se un discepolo di Kraepelin o una vittima dei numeri. Gli stessi gli operatori abitano, d’altronde, seppur con un ruolo differente, il medesimo contesto e la medesima istituzione totale delle persone detenute, e la loro appartenenza allo staff non implica che siano esenti dal risentire degli effetti negativi di questo contesto (che per sua natura tende a isolare e a rompere i legami). Ci si può sentire molto soli quando si lavora in carcere, e sempre, da soli, si fa molta più fatica. In questo senso anche le relazioni nelle equipe di lavoro sono a rischio, pur essendo fondamentali per mantenere una traiettoria condivisa, avere una rete di riferimento a cui potersi appoggiare, schiarirsi i dubbi attraverso il confronto. Ciò che serve, oltre all’analisi del dato, è creare dei presupposti perché queste condizioni di lavoro diventino ottimali, elemento indispensabile a fronte degli enormi carichi di lavoro, una gravissima costante nella storia del nostro sistema carcerario. La gestione del rapporto tra operatori, e tra operatori e detenuti, la frequenza e la difficoltà di lettura “qualitativa” dei gesti di autolesionismo dovrebbero interrogarci profondamente come collettività sulla funzione e il funzionamento del carcere, dal momento che questo è inteso come la risposta comunitaria alla devianza criminale. Quello che facciamo, invece, è parcellizzare questi fenomeni complessi, contarli, provando a mettere in campo dei rimedi puntuali, sviluppati attorno ai singoli nodi della rete, completamente ciechi rispetto al contesto più ampio. Per esempio, si pensi alla questione legata al numero di telefonate concesse alle persone detenute come strumento per contrastare la solitudine. Benedetto Saraceno definirebbe queste telefonate “intrattenimento”, un modo con cui far passare il tempo da scontare in carcere, ma incapaci di mitigare la solitudine che crea intrinsecamente l’istituzione totale, fatta, fra le altre cose, per strappare le persone dai loro contesti di appartenenza e spogliarle delle loro molteplici identità sociali (si mette a nudo il Sè delle persone, ossia la loro parte più intima, che può risultare molto fragile senza tutta una serie di appoggi, di cui le relazioni fanno parte.). Tutti i provvedimenti a cui si sta pensando, per quanto utili, sono dei palliativi finalizzati a “umanizzare” l’istituzione totale, concepita per totalizzare l’esistenza degli internati per poterne plasmare il Sé. L’istituzione totale isola? Allora noi rafforziamo i legami. Spersonalizza? Allora individualizziamo il trattamento. Ma perché, invece, abbiamo paura di dire che è la violenza intrinseca all’istituzione totale il problema? Perché tutte queste morti non ci portano a mettere seriamente in discussione il modo in cui ci prendiamo “cura” della marginalità e della devianza? In realtà, i fatti dicono che siamo davanti a un bivio: o investiamo nell’intrattenimento, provando a umanizzare l’inumanizzabile, oppure de-istituzionalizziamo, lavoriamo per smantellare l’istituzione totale. È la scelta che dovette fare Basaglia, una scelta obbligata per chi con onestà intellettuale comprese che il manicomio non poteva essere migliorato, doveva essere smantellato. Suicidi in carcere, le compagne di Donatella Hodo aprono gruppo su Facebook di Gabriella Cantafio La Repubblica, 13 settembre 2022 “Abbiamo esigenze diverse dagli uomini. Non devono privarci anche della speranza”. Micaela Tosato, ex detenuta, ha lanciato “Sbarre di zucchero” raccogliendo testimonianze e adesioni per denunciare le condizioni umilianti degli istituti penitenziari femminili: “Abbiamo sbagliato ma non siamo scarti della società: abbiamo il diritto di essere trattate con umanità”. A seguito del suicidio di Donatella Hodo nel carcere veronese di Montorio - ennesimo dramma delle precarie condizioni di vivibilità all’interno dei penitenziari italiani - è scesa in campo Micaela Tosato, ex detenuta nonché sua compagna di cella. Qual era il vostro rapporto? “Per lei, vista la nostra differenza di età - ora ho 50 anni - ero come una mamma. Era una ragazza ribelle e impulsiva, ma altrettanto combattiva. Cercavo di indicarle la strada da percorrere per riprendere in mano la sua vita. Insieme ad altre detenute, affrontavamo i momenti di difficoltà, si era creato un rapporto di amicizia che ho mantenuto anche dopo esser stata rilasciata. Talvolta, però, dinanzi alla carenza di assistenza, il malessere prende il sopravvento, soprattutto tra le donne più fragili come Donatella”. Come ha appreso della sua tragica morte? “Mi ha chiamata il fidanzato, ho stentato a crederci, ma, quando mi ha inviato la foto del biglietto scritto prima di ammazzarsi, sono crollata. Pensando anche a un’altra ragazza che si era suicidata, a dicembre scorso, sempre nel carcere di Verona, dove hanno cercato di contenere la notizia, ho deciso che era arrivato il momento di alzare la voce: sul mio profilo Facebook, ho pubblicato la fotografia di quel biglietto d’addio e altre ex compagne di cella hanno condiviso il post”. Così è nata l’idea di creare il gruppo social “Sbarre di zucchero”? “Sì, ci siamo unite attorno al suo ricordo e, il giorno prima del suo funerale, abbiamo creato questo gruppo social per dare un senso alla sua morte e accendere i riflettori sulle condizioni in cui versano le carceri femminili. Il nostro spazio di narrazione e confronto, nel giro di poche settimane, sta attirando l’attenzione di tanti avvocati, parroci, educatori e associazioni da tutta Italia, oltre a decine di detenute ed ex detenute. Si è creata una rete impensabile di persone che ruotano attorno al sistema penitenziario italiano, sostenuta anche dai genitori di Donatella”. Perché avete scelto questo nome? “Seppur dietro le sbarre, ci teniamo a tutelare la nostra dolcezza e sensibilità che dovrebbe essere rispettata anche in carcere e, invece, cercano di privarcene. Abbiamo aggiunto lo slogan “quando il carcere è donna in un mondo di uomini” per evidenziare che gli istituti di pena sono stati costruiti da uomini per uomini per contenerne la violenza, senza tener conto della nostra affettività e dei nostri bisogni diversi”. Quali sono i bisogni per cui chiedete maggiore attenzione? “Tante di noi sono madri con un’innata necessità di seguire, per quanto possibile, i propri figli, di poterli sentire maggiormente al telefono. E invece, almeno nel carcere di Verona, consentono solo una telefonata di 10 minuti a settimana. Non dimenticherò mai la disperazione di una madre che, anni fa, ha tentato il suicidio perché le era stata negata una chiamata alla figlia, nel giorno della sua cresima. Questi drammi, come quello di Donatella, rendono ancora più tangibile il malfunzionamento dell’esecuzione penale, l’inadeguatezza delle strutture, spesso sovraffollate, la carenza di educatori e psicologi”. Tra i vostri sostenitori c’è anche Rita Bernardini, presidente dell’associazione “Nessuno Tocchi Caino”... “Ci sostiene da sempre e noi - al momento 12 detenute del carcere di Verona e 53 de “Le Vallette” di Torino - abbiamo aderito al suo sciopero della fame, indetto dal 16 agosto per sollecitare un provvedimento d’urgenza da parte del Governo, dinanzi ai 58 suicidi registrati quest’anno. Abbiamo scritto anche al Presidente Mattarella e al Ministro della Giustizia. Non siamo scarti della società, abbiamo sbagliato, ma la detenzione deve essere rieducativa e riabilitativa, non umiliante e degradante”. Qual è la sua speranza? “Poter continuare a parlare di carcere femminile, unendo le nostre forze. Auspichiamo anche l’istituzione di centri per la giustizia riparativa, ma soprattutto combattiamo per garantire diritti e non permettere che le donne detenute vengano private della speranza”. Corsa contro il tempo per non cancellare la riforma Cartabia di Giulia Merlo Il Domani, 13 settembre 2022 Camera e Senato uscenti devono esprimere i pareri non vincolanti ma necessari, prima che i decreti legislativi possano venire definitivamente approvati. Nella confusione della campagna elettorale, silenziosamente il lavoro parlamentare prosegue. Delicatissimo è quello delle commissioni Giustizia di Camera e Senato: sui banchi ci sono i decreti attuativi della riforma del civile e di quella del penale, redatti dal governo per adempiere alle due leggi delega approvate nel corso del governo Draghi. Si tratta di decreti chiave, nell’ottica degli obiettivi del Pnrr. La riforma della giustizia penale e civile, infatti, è uno dei tasselli principali del piano approvato in Europa: il primo passo è stato il sì alle due leggi delega al governo approvate nel 2021, poi nel luglio 2022 il consiglio dei ministri ha dato il via libera anche ai decreti attuativi. I testi, infatti, sono arrivati in consiglio dei ministri anche a camere formalmente sciolte, inseriti tra gli affari correnti che il governo dimissionario ha potuto continuare a gestire. Perché entrino in vigore dando definitiva attuazione alle cosiddette riforma Cartabia, però, manca ancora un passaggio formale: il parere obbligatorio ma non vincolante delle commissioni parlamentari, che deve essere approvato prima dell’insediamento del nuovo parlamento, la cui prima seduta è fissata per il 15 ottobre. Senza questo parere, i decreti delegati non potrebbero entrare in vigore e l’iter dovrebbe ricominciare da capo, col nuovo governo chiamato a esercitare la delega e quindi a riscrivere i decreti. L’obiettivo, per via Arenula, è scongiurare questa ipotesi, anche perché i decreti delegati sono stati approvati all’unanimità in consiglio dei ministri. La riforma Cartabia ha avuto un difficilissimo iter e non arrivare al via libera dei decreti attuativi significherebbe probabilmente cancellarla. La probabile vittoria del centrodestra, con Fratelli d’Italia come partito trainante, può significare uno smantellamento della riforma: nel programma, infatti, è prevista una riscrittura delle riforme del processo civile e penale. Attualmente, i lavori per il parere sembrano a buon punto e, pur sul filo della scadenza definitiva delle commissioni, entro questa settimana si dovrebbe arrivare al parere definitivo e all’ultimo passaggio del governo. “L’auspicio è quello del compimento di questo percorso, che è in fase molto avanzata, ma non è ancora concluso”, ha detto ieri la ministra. I decreti attuativi della riforma del civile sono in commissione al Senato e oggi è prevista la seduta che dovrebbe licenziare il parere. Un ostacolo, però, è rappresentato dalla presa di posizione del senatore leghista Simone Pillon che chiede di prevedere la mediazione obbligatoria in materia di diritto di famiglia, nel caso dell’affidamento dei minori. L’ipotesi, che era stata esclusa al momento dell’approvazione della legge delega, è osteggiata in particolare dal Partito democratico. La responsabile giustizia e senatrice Anna Rossomando, infatti, ha bollato la formulazione proposta da Pillon come “inaccettabile, perché contrasta con la convenzione di Istanbul sulla tutela delle donne e dei minori vittima di violenza, che è sovraordinata alla procedura civile stessa”. La mediazione obbligatoria, infatti, prevede necessariamente il tentativo di risolvere la controversia prima del ricorso al giudice. Fonti interne alla commissione sono fiduciose che l’iter al Senato possa chiudersi rapidamente, anche se palazzo Madama è la sede più ostica: il presidente della commissione Giustizia, infatti, è il leghista Andrea Ostellari e dunque - da rappresentante di un partito che propone di riscrivere le riforme Cartabia - potrebbe tentare un rallentamento degli ultimi passaggi parlamentari. Anche alla Camera, dove la commissione sta esaminando il decreto attuativo della riforma penale, l’iter è accidentato. In questo caso a puntare i piedi sono il Movimento 5 Stelle e il deputato di Leu, Piero Grasso, che hanno chiesto modifiche sostanziali al testo e minacciano il voto negativo. Se l’obiettivo finale è quello di salvare le due riforme più sostanziali nell’ottica del Pnrr, la caduta del governo ha prodotto una necessaria accelerazione della redazione dei decreti delegati che ha convinto poco non solo alcuni gruppi parlamentari, ma anche l’avvocatura. “I decreti delegati snaturano alcuni degli aspetti migliori della riforma Cartabia, e ne aggravano le parti peggiori, riscrivendo in modo sensibile la volontà del parlamento consolidata nella legge delega. Il parlamento reagisca ora, o altrimenti il nuovo parlamento si impegni a intervenire”, si legge in una nota del presidente delle camere penali, Giandomenico Caiazza. A rimanere certamente tagliata fuori, invece, è la riforma dell’ordinamento giudiziario. La legge delega al governo, approvata a maggio, conteneva una parte immediatamente attuativa, che riguardava la legge elettorale del Csm. Per la delega sulla restante parte, che disciplina le porte girevoli tra magistrati e politica e le regole interne del Consiglio, invece, spetterà al nuovo esecutivo decidere se esercitarla o ricominciare tutto da zero, mettendo su un binario morto gli accordi raggiunti dalla maggioranza del governo Draghi. Corte costituzionale, corsa a tre per succedere a Giuliano Amato di Giulia Merlo Il Domani, 13 settembre 2022 Per la presidenza, per prassi la Corte utilizza il criterio dell’anzianità di nomina. In questo caso Sciarra, De Pretis e Zanon sono stati nominati lo stesso giorno, quindi il plenum dovrà scegliere sulla base di un criterio non oggettivo. Una corrente di pensiero, molto formalista, ipotizza che si possa utilizzare il criterio ulteriore dell’età anagrafica, che sarebbe appunto un criterio oggettivo e che dunque escluderebbe qualsiasi valutazione di curriculum tra i candidati. In questo caso, a prevalere sarebbe Sciarra. Secondo indiscrezioni interne al mondo giuridico, la vera competizione sarebbe tra le due candidate donne e, complice il precedente di Cartabia sulla non tassatività del criterio anagrafico, la favorita della vigilia sarebbe Daria De Pretis. Si chiude il mandato di Giuliano Amato al vertice della Consulta. Formalmente, la data esatta è quella del 18 settembre, oggi però sarà la giornata da ricordare perché l’ex premier presiederà la sua ultima udienza. Seguirà il tradizionale saluto dei giudici e dell’avvocatura, poi Amato farà un suo intervento, che si preannuncia come “sostanzioso” e che dovrebbe riassumere la cifra della sua presidenza. Amato, sulla scia dei suoi predecessori Marta Cartabia, Mario Morelli e Giancarlo Coraggio, ha scelto di interpretare il suo ruolo all’insegna della trasparenza e dell’apertura all’esterno di palazzo della Consulta. Il suo passato politico in questo lo ha favorito: abile nel rapporto con i media, non verranno dimenticate presto le sue conferenze stampa per spiegare le ragioni della bocciatura dei quesiti referendari su cannabis, eutanasia e responsabilità civile dei magistrati. Una volta conclusi i suoi nove anni di carica, si attiverà il complesso iter istituzionale che circonda la Corte. Essendo Amato un giudice di nomina presidenziale, toccherà di nuovo al capo dello Stato, Sergio Mattarella, nominare il giudice che prenderà il suo posto. Poi, una volta ricostituito il plenum dei 15 giudici, si procederà all’elezione del nuovo presidente. Il caso inedito - La figura del presidente, per come intesa dalla Consulta, è peculiare rispetto a tutte le altre istituzioni. La sua scelta, infatti, è guidata dall’automatismo non scritto di preferire sempre il più anziano in carica. La logica di questa prassi è quella di considerare la presidenza come un ruolo tecnico-organizzativo e non politico, impedendo cordate interne tra giudici ed eventuali derive correntizie, rafforzando il principio della collegialità con cui la corte opera. Per questa ragione i presidenti normalmente rimangono in carica per un tempo molto breve, in alcuni casi addirittura solo per qualche mese come nel caso di Morelli. Per la prima volta da quando viene applicato, però, questo criterio ora è destinato ad entrare in crisi. Sono tre, infatti, i giudici costituzionali con il requisito dell’anzianità di servizio che possono aspirare a succedere ad Amato: due donne, Silvana Sciarra e Daria De Pretis, e un uomo, Nicolò Zanon, tutti entrati in servizio l’11 novembre 2014. Attualmente sono stati nominati tutti e tre vicepresidenti da Amato, ma per la presidenza un triumvirato non è possibile e il plenum dovrà sceglierne solo uno. L’interrogativo, allora, è quale criterio sceglieranno i giudici per individuare il loro nuovo vertice. Posto che una tale concomitanza di date di insediamento non si ricorda, infatti, non esistono ulteriori criteri non scritti oltre all’anzianità di servizio per l’individuazione del presidente. Una corrente di pensiero, molto formalista, ipotizza che si possa utilizzare il criterio ulteriore dell’età anagrafica, che sarebbe appunto un criterio oggettivo e che dunque escluderebbe qualsiasi valutazione di curriculum tra i candidati. In questo caso, a prevalere sarebbe Sciarra. Il fattore età fino ad oggi non è mai stato utilizzato come criterio di scelta, ma ha indirettamente un peso nella prassi della Consulta: proprio in virtù dell’anzianità, sarà Sciarra oggi a pronunciare il saluto e il ringraziamento ad Amato. Tuttavia, il criterio anagrafico è stato disatteso nel caso della nomina di Marta Cartabia alla presidenza. Cartabia, infatti, era stata nominata giudice costituzionale lo stesso giorno di Aldo Carosi, che era più vecchio di lei di 12 anni. Al momento della scelta del successore di Giorgio Lattanzi, però, il plenum ha votato Cartabia e Carosi è rimasto alla vicepresidenza. La favorita - Vista la concorrenza di tre nomi, difficilmente il nuovo presidente verrà eletto all’unanimità nello scrutinio segreto intero al plenum. Secondo indiscrezioni interne al mondo giuridico, la vera competizione sarebbe tra le due candidate donne e, complice il precedente di Cartabia sulla non tassatività del criterio anagrafico, la favorita della vigilia sarebbe Daria De Pretis. Trentina, ex rettrice dell’ateneo di Trento e professoressa di diritto amministrativo, De Pretis sarebbe la seconda donna ad essere eletta presidente, dopo Cartabia. Tuttavia nessuna certezza ci sarà fino alla nomina da parte di Mattarella del quindicesimo giudice, che sostituirà Amato, e che potrebbe influenzare gli equilibri del plenum. La dinamica tra i giudici, infatti, è imperscrutabile e il fatto che le decisioni vengano sempre assunte a scrutinio segreto non aiuta a cogliere in modo chiaro i singoli orientamenti. Nei prossimi anni il criterio dell’anzianità di servizio è destinato ad essere progressivamente accantonato, almeno in modo parziale, per ragioni contingenti. Lo stesso problema che sorge ora per il dopo-Amato, infatti, si ripresenterà anche per la nomina del presidente ancora successivo. I prossimi aspiranti, infatti, sono di nuovo tre: Franco Modugno, Augusto Barbera e Giulio Prosperetti, tutti nominati il 21 dicembre 2015. Dunque, nel prossimo futuro i giudici saranno chiamati ad esprimersi sulla scelta del presidente secondo un criterio di preferenza, pur nella rosa di candidati con uguale anzianità. Toghe, sindacati, giornali. “In Italia le riforme può farle solo la sinistra”, ci dice Ricolfi di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 settembre 2022 Per la corrente dei magistrati Area, dopo le elezioni si profilano passi indietro sui diritti civili. Il sociologo Ricolfi: “Se la destra proverà a cambiare il paese, magistratura, università, giornali, sindacati e mondo della cultura scenderanno in campo per fermarla”. “Io vedo non solo nei magistrati, ma in buona parte della sinistra e massimamente nel Pd, un deficit di maturità democratica. Non riescono a capire che in democrazia l’avversario politico - se vince le elezioni - ha il diritto di governare, fare leggi, cambiare quelle esistenti, e pure modificare la Costituzione, secondo le procedure previste dalla Costituzione stessa. Finché la sinistra non accetterà questo, la democrazia italiana sarà incompiuta”. Ad affermarlo, intervistato dal Foglio, è Luca Ricolfi, sociologo e tra i fondatori della Fondazione Hume. Il riferimento ai magistrati nasce dal comunicato rilasciato domenica dalla corrente di Area, che insieme a Magistratura democratica compone la sinistra della magistratura associata. Secondo Area, infatti, con le prossime elezioni politiche “si profila il rischio concreto che si ponga presto mano alla riscrittura delle norme che disciplinano il sistema dell’accoglienza, che si riprenda la repressione e criminalizzazione nei confronti dei migranti, che vengano messe in discussione le faticose conquiste di civiltà frutto di lotte decennali: dall’affermazione di una gravidanza consapevole che abbia al centro la donna, alle unioni civili”. Parole che, oltre ad avere destinatari indiretti ben individuabili, costituiscono in maniera evidente un’indebita entrata a gamba tesa delle toghe nel dibattito politico. “Prima ancora che indebite - commenta Ricolfi - sono affermazioni rivelatrici, che mostrano crudamente quanto una parte della magistratura sia faziosa, e quindi pericolosa per i cittadini”. L’impressione è di essere di fronte al preludio di ciò che potrebbe accadere in caso di vittoria alle elezioni del centrodestra guidato da Giorgia Meloni. Come ci ricorda la storia recente, infatti, di fronte a ipotesi di riforma (anche costituzionali) proposte dal centrodestra, la sinistra ha sempre avuto la straordinaria capacità di mettere in campo settori come magistratura, università, sindacati e giornali, che seppur oggi possano apparire “spelacchiati”, messi insieme compongono un ostacolo non di poco conto per la realizzazione di qualsiasi riforma. Insomma, professor Ricolfi, ma non le sembra che in questo paese le riforme le possa fare solo la sinistra? “Sì, per la ragione che le ho appena esposto: la sinistra è immatura, prima ancora che presuntuosa e arrogante - risponde il sociologo - Se fosse matura accetterebbe una discussione pubblica civile sui temi controversi, anziché rifiutare ogni dialogo con l’avversario politico. E soprattutto non farebbe il processo alle intenzioni: l’accusa di voler cambiare le leggi sull’aborto e sulle unioni civili non ha alcun fondamento. Diverso il discorso sull’immigrazione: lì quasi sicuramente ci saranno cambiamenti, se vincerà la destra. Ma è difficile che la destra faccia cose troppo diverse da quelle che faceva, o intendeva fare, il ministro Pd Minniti. E, in ogni caso, cambiare la politica migratoria è pieno diritto di qualsiasi governo eletto”. “Però lei ha ragione sul ruolo del blocco conservatore - aggiunge Ricolfi - se la destra proverà a cambiare il paese, magistratura, università, giornali, sindacati, mondo della cultura scenderanno in campo per fermarla. E ci accorgeremo che sono meno ‘spelacchiati’ di quanto si pensa”. Pochi giorni fa Calenda ha proposto di formare un “governo di larghe intese” con Meloni. Data l’esistenza del “blocco conservatore”, per il centrodestra non sarebbe meglio (paradossalmente) cercare una collaborazione con la sinistra per realizzare le proprie riforme, magari in forma meno radicale? “Ci aveva già provato Bossi sul federalismo, e il risultato fu l’affossamento della riforma federale. No, credo che per la destra l’abbraccio della sinistra sarebbe mortale, o meglio soporifero. Una maggioranza di pseudo-unità nazionale (tutti tranne Conte) porterebbe alla paralisi l’azione riformatrice della destra, senza peraltro spalancare la via alle riforme che piacerebbero alla sinistra”, replica Ricolfi, che aggiunge: “Dove invece vedrei bene una collaborazione è sul cambiamento della Costituzione, che la sinistra ha sempre imposto (titolo V) o tentato di imporre (referendum Renzi), ma sarebbe invece più saggio provare a concordare con l’opposizione o, più realisticamente, con una parte dell’opposizione”. “Il problema, anche qui, è l’immaturità della sinistra, che considera modificabile la Costituzione se a cambiarla è la sinistra stessa, ma fa scattare l’allarme democratico e il mantra della ‘difesa della Costituzione’ non appena si profila il rischio che a cambiarla sia qualcun altro”, conclude Ricolfi “Se l’equo compenso salta la colpa è di chi ha fatto cadere Draghi” di Simona Musco Il Dubbio, 13 settembre 2022 La replica al sottosegretario Sisto dopo lo stop al provvedimento che tutela i professionisti. Nessuno osi dire che il Partito democratico vuole affossare il ddl sull’equo compenso. A sostenerlo sono fonti dem, che rispediscono al mittente le critiche di chi, a destra, vuole scaricare sul partito di Enrico Letta la responsabilità dello stop subito dal disegno di legge. Il cui destino è ora appeso ad un filo, nella speranza che dalla conferenza dei capigruppo convocata per domani alle 13 esca fuori un’intesa per inserire in calendario il provvedimento, che attende solo l’ok del Senato per diventare legge. L’accusa è che la sinistra stia tentando di mettere i bastoni tra le ruote al ddl voluto dai partiti di centrodestra (prima firmataria Giorgia Meloni), lanciatissimi in questo ultimo scorcio di campagna elettorale e dati per vincenti alle elezioni. Accontentare oltre un milioni di professionisti - questo il retropensiero - significherebbe dare un assist a Meloni nella sua corsa verso Palazzo Chigi. Ma si tratterebbe di accuse infondate, secondo il Pd, che ricorda come a bloccare i lavori - e non solo per quanto riguarda l’equo compenso - sia stata la caduta del governo, voluta proprio dal centrodestra. Sono diversi, infatti, i provvedimenti che rischiano di finire in un cassetto per via della fine anticipata della legislatura: “Abbiamo cercato di migliorare il testo correggendo alcune criticità emerse, mentre la destra si è opposta - ha commentato la vicepresidente del Senato e responsabile giustizia e diritti del Pd, Anna Rossomando -. Nonostante questo lo abbiamo comunque votato alla Camera e successivamente in commissione al Senato. Il nostro impegno è estendere e rafforzare l’equo compenso, tanto che si tratta di un punto specifico del programma del Pd. Noi eravamo pronti per questo e altri provvedimenti, come la delega fiscale, l’ergastolo ostativo, la legge sul “Mai più bambini in carcere” e il suicidio assistito. Non gridi dunque allo scandalo la parte politica che ha agito per mero e cinico calcolo elettorale interrompendo la legislatura mentre andavano a meta questi importanti provvedimenti”. Insomma, in ballo ci sono proposte che vengono da più parti, compreso il dl aiuti, calendarizzato in Aula alla Camera giovedì, sul quale si tenta di trovare una quadra dopo gli scontri tra partiti, per evitare il rischio di mandare in fumo 17 miliardi di aiuti a famiglie e imprese. E sullo stop all’equo compenso nulla c’entrerebbero i tentativi del Pd di correggere il testo, specie per quanto riguarda le sanzioni per i professionisti che accettano compensi bassi. La posizione di Rossomando è simile a quella di Enrico Costa, vice segretario di Azione, che commenta le dichiarazioni rilasciate al Dubbio dal sottosegretario alla Giustizia, il forzista Francesco Paolo Sisto, che, pur dicendosi fiducioso sulla possibilità di portare a casa il provvedimento, ha respinto al mittente le accuse di chi addebita al centrodestra lo stop. “Questo è un provvedimento proposto da tre partiti, Forza Italia, Fratelli d’Italia e Lega - aveva dichiarato -. Ascrivere a chi lo propone la responsabilità di non volerlo portare a termine mi sembra davvero un paradosso”. Da parte nostra, ha spiegato Costa al Dubbio, “c’è la disponibilità a procedere, così come abbiamo fatto alla Camera. Ma è veramente sorprendente che un membro del governo e di un partito che ha fatto cadere il governo, ovvero Forza Italia, scarichi la responsabilità su altri. Dovrebbe fare un mea culpa e prendersela con il suo partito, invece vedo che scarica la responsabilità sparando a raffica. Penso che quando qualcuno è al governo debba avere quantomeno un profilo autocritico e una valutazione neutra delle responsabilità politiche che hanno determinato cose come questa. Abbiamo membri di governo che fanno parte di partiti che hanno votato contro il governo e rimangono lì come se niente fosse e in più criticano gli altri, cioè quelli che avrebbero voluto tenere in piedi il governo, ritenendoli responsabili dei ritardi. Se c’è una responsabilità è ovvio che dipende dal fatto che si è deciso di dire basta al governo Draghi per ragioni di mero tornaconto elettorale. Per quel che ci riguarda il sostegno al provvedimento rimane - ha aggiunto - ma è evidente che siamo in articulo mortis e siamo alla fine della legislatura. Non so quali margini ci siano, ma quelli che si preoccupano oggi ci dovevano pensare prima di fare lo sgambetto al premier, su questo e su molte altre cose”. Rispedisce al mittente le accuse anche il M5S, secondo cui il ddl è ormai da ritenersi morto e sepolto. E duro è il j’accuse di Mario Perantoni, presidente della commissione Giustizia alla Camera. “L’affossamento della legge sull’equo compenso per i liberi professionisti è l’ennesima pagina amara prodotta da alcune forze politiche - ha spiegato al Dubbio. La responsabilità è di tutti coloro che hanno tenuto più a mettere la propria bandierina su questo come su altri testi piuttosto che approvarli nell’interesse dei cittadini: il centrodestra non è innocente affatto, come pretende Sisto, è sempre stato dentro questo giochetto e adesso questo modo di agire lo pagano i professionisti”. Basilicata. Idee e progetti da portare in carcere Corriere della Sera, 13 settembre 2022 Si intitola “Da rete a sistema” il protocollo d’intesa per promuovere il volontariato in ambito penitenziario, siglato dal Csv Basilicata con il Tribunale di Sorveglianza, il Tribunale e l’Istituto penale per i minorenni, l’Udepe, e la Casa Circondariale “Antonio Santoro” con quella di Melfi. L’obiettivo è soprattutto quello di coinvolgere gli enti del Terzo settore nei processi di realizzazione di esperienze a valenza risocializzante/rieducativa/riparativa. Per questo martedì 20 settembre (16.30-18.30) si terrà un seminario in presenza rivolto alle associazioni che intendono occuparsi di tale tematica. Seguiranno due giornate formative, il 28 e 29 settembre. Info: www.csvbasilicata.it Arienzo (Ce). Si sente male improvvisamente: detenuto muore a 29 anni cronachedellacampania.it, 13 settembre 2022 Dramma nel carcere di Arienzo dove un detenuto è morto in seguito ad un malore improvviso. Si tratta di Mirko Di Napoli, partenopeo, 29enne proveniente dall’istituto penitenziario di Poggioreale. È deceduto nel giro di qualche minuto dopo essere stato colto da un malore improvviso. Immediati, ma vani i soccorsi al 29enne che - pare - soffrisse di qualche patologia anche se nulla lasciava presagire un dramma simile. La tragedia si è consumata sotto gli occhi di altri detenuti e degli agenti della Polizia penitenziaria nella serata di lunedì 12 settembre. La salma è stata subito trasferita all’ospedale di Caserta per l’esame autoptico. Nelle prossime ore, sarà riconsegnata alla famiglia per i funerali. Gela (Cl). Ucciso in carcere, depositata consulenza: sarà valutata dai legali dei familiari di Rosario Cauchi quotidianodigela.it, 13 settembre 2022 La relazione del consulente, nominato per valutare le cause della morte del sessantenne Paolo Costarelli, è stata depositata. L’esperto, che si è occupato dell’autopsia, ha riportato le proprie conclusioni. Costarelli fu trovato ormai privo di vita all’interno di una cella del carcere di Caltagirone, dove era detenuto per scontare una pena definitiva per maltrattamenti. Ad ammettere l’omicidio fu subito il quarantaquattrenne Salvatore Moio, suo compagno di cella e ristretto per una condanna per un precedente delitto. In base a quello che ha raccontato, l’avrebbe strangolato, pare dopo una colluttazione. Avrebbe agito con dei lacci da scarpe. La relazione sarà visionata dai legali dei familiari della vittima, che hanno già deciso di seguire l’inchiesta ed eventualmente appurare se ci siano state altre responsabilità, anche da parte di supervisori e funzionari della struttura. E’ emerso che il corpo di Costarelli, ormai privo d vita, fu rinvenuto dagli agenti della penitenziaria solo dopo due giorni. Nella struttura calatina sono diversi i casi di morte di detenuti, almeno negli ultimi anni. L’ultimo a fine agosto, indicato come suicidio. I familiari sono assistiti dai legali Giuseppe Cascino, Vittorio Giardino e Giuseppe Smecca. L’indagine è coordinata dai pm di Caltagirone. Sarebbero tanti gli elementi da verificare e le possibili anomalie. Costarelli ha riportato lesioni alle labbra e la rottura dei denti. Ci sarebbe stata la fuoriuscita di sangue dal cavo orale. Potrebbero essere segni di una violenta aggressione. Il decesso, in base alle indicazioni che furono date dopo una prima valutazione, sarebbe avvenuto per asfissia. I legali e i loro periti di parte analizzeranno le conclusioni dell’esperto nominato dalla procura. Il quarantaquattrenne reo confesso avrebbe detto di aver agito da solo, dopo l’ennesima lite. Genova. Il presidente degli avvocati: “La carenza di organici è un’emergenza nazionale” La Repubblica, 13 settembre 2022 Dopo l’astensione degli avvocati che ha fatto rinviare il processo Morandi la tavola rotonda delle Camere penali. “C’è un problema di numeri e di gestione dei numeri. Siamo in una situazione inaccettabile. Chi è indagato o parte offesa in un processo e vede la prospettiva della sua decisione rinviata sine die si trova a dovere affrontare una tragedia personale. E qui a Genova, a parte il processo per il crollo del Morandi, non si fa altro”. Così il presidente dell’Unione delle camere penali italiane Gian Domenico Caiazza oggi a Genova per la tavola rotonda organizzata dalla Camera penale ligure in occasione dell’astensione indetta per lamentare la carenza di organico nel tribunale genovese e il conseguente rinvio al 2025 della fissazione delle udienze, visto l’avvio del processo Morandi e dell’arrivo di altri due maxi dibattimenti. “Questa non è una iniziativa contro il processo Morandi - ha concluso Caiazza - ma siamo davanti a una emergenza nazionale visto che il problema si presenta anche in altri fori. Non si può accettare che si parli di giustizia e riforma della giustizia senza comprendere che mancano magistrati e personale. Con le riforme si interviene sempre sul processo restringendo le garanzie difensive senza parlare dei numeri dell’organico. Noi ci siamo opposti alla riforma della ministra Cartabia. Invece di reclutare 16 mila giovani laureati per supportare i magistrati nella loro attività sarebbe stato meglio bandire un concorso per mille o due mila giudici in più”. “Il Csm e il vice presidente Ermini hanno fatto quello che potevano fare. Purtroppo non possiamo clonare o fabbricare altri magistrati - ha spiegato l’avvocato Stefano Cavanna, componente del Consiglio superiore della magistratura -. Capiamo l’appello lanciato dalle Camere penali ma il Csm non può fare di più. Quando è crollato il ponte sono stati mandati quattro magistrati in più. Il problema è nazionale. In una settimana la scopertura è aumentata di un punto”. “Se la pianta organica fosse completa - ha stigmatizzato la presidente delle Camere penali liguri Fabiana Cilio - qualunque processo si potrebbe fare tranquillamente. Per questo è importante avere una pianta organica completa. La ministra Cartabia è stata molto presente ma non può fare molto. L’effetto dei concorsi banditi si avranno tra oltre tre anni ma sarà troppo tardi. Sono arrivati due magistrati ma non sono sufficienti. Servono rimedi straordinari”. Alessandria. Cartabia: “Il lavoro è il vero riscatto per i detenuti” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 13 settembre 2022 La ministra della Giustizia, Marta Cartabia, ha visitato domenica 11 settembre, la casa di reclusione di Alessandria. Accolta dalla direttrice dell’istituto, Elena Lombardi Vallauri, la Guardasigilli dopo aver incontrato il personale e averne ascoltato esigenze e difficoltà, ha visitato alcuni reparti e incontrato i detenuti. L’attenzione della Guardasigilli per il carcere di San Michele è stata anche sollecitata dall’iniziativa che due anni fa, grazie all’impegno della Cooperativa sociale ‘Idee in fuga’, ha avviato in una piccola porzione dell’area agricola presente all’interno una coltivazione del luppolo. A oggi sono 300 le piante presenti che, nel giro di pochi mesi, hanno raggiunto 8 metri di altezza. Il progetto ha goduto del finanziamento di oltre cento donatori, del contributo della Fondazione CRT e del coinvolgimento di molte realtà associative alessandrine. “Una bellissima iniziativa - l’ha definita la Ministra - una possibilità di lavoro ai detenuti è sicuramente encomiabile ma è ancora più bello il fatto che la cittadinanza partecipi: è come se dicesse, in modo esplicito, ciò che permette a un detenuto di riscattarsi, di avere un’altra vita, è il lavoro”. La Guardasigilli ha preso parte alla cena allestita lungo i filari del “Luppoleto Galeotto”, organizzata dalla cooperativa Idee in Fuga, con la collaborazione dell’istituzione penitenziaria, del Corpo di Polizia penitenziaria, del Lions Club Alessandria Cittadella e di tanti partner. L’evento, ‘Evasioni di gusto’, creato in onore del primo raccolto, è stato realizzato con i prodotti, frutto del lavoro dei detenuti, a partire ovviamente dalla birra prodotta ad Alessandria. Sulle tavole non è però mancato il vino rosso del carcere di Alba e il panettone Maskalzone, una vera e propria anteprima, realizzato con una nuova ricetta per il prossimo Natale. Per spiegare l’importanza dell’interesse per il carcere, la Ministra ha citato don Gino Rigoldi: “Nel carcere c’è il volto del cambiamento”. Questo le disse il cappellano in un incontro a Bollate e questo per la Ministra è ciò che il lavoro può portare nella vita di un detenuto, cambiandoli e aiutandoli a reinserirsi nel mondo. Cosenza. “Yes i start up”, a Rossano anche i detenuti fanno impresa cosenzachannel.it, 13 settembre 2022 Il progetto rientra nell’ambito di Garanzia Giovani ed è stato realizzato grazie al Microcredito. È il primo esperimento in Italia indirizzato a persone che stanno scontando una pena. Parte dalla casa di reclusione di Rossano il primo corso in Italia “Yes I Start Up” rivolto, nell’ambito del programma “Garanzia Giovani”, a persone che stanno scontando una pena. Ad esprimere soddisfazione per questo risultato Annarita Lazzarini, responsabile Garanzia Giovani della Regione Calabria, e Antonello Rispoli, per l’Ente Nazionale Microcredito, che hanno ufficializzato, insieme alla direttrice dell’istituto, Maria Luisa Mendicino, all’amministratore unico del soggetto attuatore, Lenin Montesanto, ed al responsabile dei controlli formativi dell’ente Microcredito, Piero Ridolfo, l’avvio dell’esperimento. “Con questa iniziativa - dichiara Lazzarini - la Regione Calabria amplia ulteriormente la platea dei beneficiari nell’attuazione del programma Garanzia Giovani. L’esperienza avviata a Rossano rappresenta un vero e proprio valore aggiunto per l’intero Programma, trattandosi di una straordinaria opportunità di reinserimento sociale per i detenuti al termine del loro debito con la Giustizia”. “Yes I Start Up Calabria, con questo progetto - afferma Rispoli - continua a consolidarsi come una buona prassi europea per la creazione d’impresa destinata ai giovani calabresi o che vogliono investire in Calabria. I numeri, e cioè ad oggi quasi 1.600 ragazzi formati e accompagnati nel percorso di consapevolezza rispetto alla propria idea d’impresa e di valutazione della sostenibilità o meno della stessa ed oltre 700 attività già avviate, certificano e rafforzano il primato della Calabria in questo settore”. “Attraverso Microcredito e Garanzia Giovani, grazie alla sensibilità della direzione della casa di reclusione e la disponibilità del Centro per l’Impiego di Rossano - dice Francesca Felice, responsabile Formazione del soggetto attuatore - ci auguriamo di poter contribuire, con questo progetto pilota, alla piena affermazione del diritto costituzionale alla formazione per tutti e, soprattutto, al futuro inserimento socio-economico dei detenuti, una volta scontata la pena, che rappresenta una vera sfida”. Modena. Torna il Festival della Filosofia, il tema è la giustizia ansa.it, 13 settembre 2022 Duecento appuntamenti gratuiti a Modena dal 16 al 18 settembre. È dedicato al tema della giustizia, e a tutte le sue sfere, il Festival Filosofia di Modena, Carpi e Sassuolo che per la ventiduesima edizione, dal 16 al 18 settembre, torna in piena capienza, con duecento appuntamenti, tra grandi classici ed attualità, di cui 53 distribuiti, come da tradizione, nelle piazze delle tre città e proposti gratuitamente. Per la prima volta al ‘Filosofia’ sarà trasmessa in diretta streaming alle 18 di ciascun giorno la lezione di Modena sui canali web dell’iniziativa. Fra le novità del progetto di pedagogia collettiva che in 21 anni ha portato nel Modenese tre milioni di persone, per 3.400 eventi in tutto, ventiquattro nuovi ospiti che andranno ad affiancarsi ai volti storici dell’evento culturale. Tra gli habitué del ‘Filosofia’ troviamo, solo per citarne alcuni, Enzo Bianchi, Massimo Cacciari e Massimo Recalcati; tra i nuovi ecco Joanna Bourke, Anne Lafont e Brunilda Pali. Fra gli eventi in calendario, da segnalare la conversazione che vedrà come protagonisti Don Luigi Ciotti e Gad Lerner, su ‘Per una società libera. Lotta alle mafie e giustizia sociale’. Roberto Saviano porterà un monologo sul ‘coraggio della verità’. Ancora: Giancarlo Carofiglio parlerà in piazza Martiri a Carpi di ‘La sopravvivenza del più gentile, sui processi di empatia e la capacità di creare coesione e sanare ferite’. Non mancheranno spettacoli e mostre e fra queste ultime ecco il tema della guerra con, ad esempio, ‘Resolution 808. La guerra a processo” di Martino Lombezzi e Jorie Horsthuis. Uno spazio apposito sarà dedicato dal Festival Filosofia ai più piccoli: laboratori, giochi, attività, letture e spettacoli per comprendere le implicazioni del concetto di giustizia.nConfermata la formula dei menu filosofici per ristoranti ed enoteche. Cosenza. Il mondo della detenzione nel libro “Carcere” di Samuele Ciambriello ildispaccio.it, 13 settembre 2022 Sarà presentato oggi pomeriggio, alle 17:30, a piazza dei Valdesi, il libro “Carcere”, scritto dal professore Samuele Ciambriello, Garante campano dei diritti delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale. In caso di pioggia l’evento si terrà presso la Casa di Quartiere. L’evento rientra in una più ampia iniziativa dal titolo “La prigione e la piazza”, che vede il tema della privazione della libertà personale al centro di diverse tavole rotonde e convegni, nelle giornate del 12,13 e 16 settembre, tra Cosenza e Rende. Per il pomeriggio di martedì, è stata organizzata la presentazione del libro “Carcere” edito da Rogiosi. Con l’autore Ciambriello dialogherà il presidente della Camera Penale di Cosenza, l’avvocato Roberto Le Pere. Un incontro che avrà ad oggetto la difficile realtà del carcere, le sue luci ed ombre. Un momento di riflessione e di proposte per un profondo ripensamento del sistema penitenziario. Il carcere - per dirlo con le parole del professore Ciambriello - è considerato “una discarica sociale, un luogo di contenimento per preservare la società dal male. Così non è: il carcere, invece, riguarda ognuno di noi e non continuare a parlarne, ad occuparsene equivale a divenire complici”. L’oscuro nesso tra colpa e pena di Umberto Curi Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2022 Miti. Alla base dell’idea di giusta retribuzione c’è l’erroneo presupposto che funzioni da annullamento e possa ripristinare l’equilibrio perduto. Alla base del moderno diritto penale persistono due grandi idee forza, per alcuni aspetti alternative l’una rispetto all’altra, ma da altri punti di vista fra loro consonanti. Il primo grandioso mito che informa l’idea di pena è quello della giusta retribuzione. La pena appare in questa prospettiva come qualcosa che consegue rigorosamente dal reato. La colpa chiama la pena, letteralmente la invoca. Troviamo una spiegazione anche terminologica della ferrea connessione che stringe la pena alla colpa nella spiegazione etimologica che un filosofo come De Maistre proponeva per il termine supplicium. Esso deriverebbe da sub-pleo, rendo pieno di nuovo, come se il delitto avesse spalancato una voragine nella stessa struttura dell’essere e si trattasse dunque di colmarla tramite la pena. Ma è importante sottolineare che il nesso fra colpa e pena è già presente nel pensiero arcaico. Nelle prime parole che ci siano pervenute della filosofia occidentale, vale a dire nel celebre frammento di Anassimandro, troviamo infatti il dualismo fra dike e adikia, fra giustizia e ingiustizia, rappresentato nella forma della vicenda cosmica. In quanto rottura dell’unità originaria, la nascita degli enti particolari è vista come una ingiustizia che deve essere riparata. Per rimediare all’ingiustizia della nascita dovrà esservi un movimento uguale e contrario, capace di ripristinare l’ordine preesistente. E dunque, scrive Anassimandro, gli enti dovranno “rendere giustizia dell’ingiustizia”. Un’idea fondamentalmente identica si ritrova anche nell’altra componente della cultura occidentale, vale a dire quella di derivazione ebraico-cristiana. Fra i molti documenti che si potrebbero citare, il più significativo resta il libro di Giobbe. L’uomo di Uz non incarna affatto, come abitualmente si sostiene, l’esempio dell’uomo che tutto sopporta senza ribellarsi. È vero, invece, esattamente il contrario. Giobbe reclama che Jahvè gli dia delle spiegazioni e pretende addirittura di convocarlo in giudizio, per chiedergli conto di ciò che sta accadendo. Ciò che Giobbe contesta è per l’appunto che la regola fondamentale che è alla base della visione ebraica della giustizia - vale a dire che il buono sia ricompensato e il malvagio venga sanzionato - nel suo caso non sia stata rispettata. Insomma, sia nella componente greco-latina che in quella ebraico cristiana, troviamo confermata la grande idea della giusta retribuzione. A dispetto della sua rivendicazione di perfetta razionalità, il diritto penale moderno si fonda su un’idea che affonda le sue radici in una concezione mitologico-religiosa. Ma c’è di più. Alla base dell’idea della giusta retribuzione resta un assunto che non solo è del tutto indimostrabile, ma che anzi appare come effetto di una vera e propria distorsione logica e teorica, e cioè che la pena possa funzionare come condotta di annullamento, come qualcosa che è in grado di lavare la colpa, che sia in grado di ripristinare l’equilibrio e l’ordine violato. Questo carattere attribuito alla pena risulta più evidente se usiamo un termine che è in qualche modo sinonimo di pena, vale a dire castigo. Come è noto, infatti, castigo viene da castus, puro, pulito, e implica dunque che il castigo agisca pulendo l’impurità della colpa, ripristinando la pulizia originaria. Insomma, da qualunque prospettiva la si osservi, l’interpretazione della pena come giusta retribuzione traballa da ogni parte, sembra essere indifendibile. Come ha rilevato René Girard, a fondamento della concezione retributiva della pena, per quanto dissimulato, resta il meccanismo della vendetta, la logica appena un po’ civilizzata del sangue chiama sangue. Resta soprattutto un’idea di fondo - e cioè quella di far corrispondere al male il male, al male della colpa il male della pena, al dolore della colpa il dolore della pena. Come se l’afflizione in quanto tale potesse rimediare al dolore della colpa. D’altra parte, non si può dire che il paradigma abitualmente contrapposto alla concezione retributiva della pena, vale a dire il paradigma che potremmo dire umanistico, fondato su una visione rieducativa, correttiva, terapeutica, della pena, per quanto eticamente preferibile, sia del tutto immune da aporie e difficoltà. In relazione ad esso valgono infatti due ordini di considerazioni che esigerebbero di essere sviluppate in termini più analitici. È implicita, anzitutto, una concezione organicistica dello stato, inteso come manipolatore terapeuta, che si prende cura del reo. In secondo luogo, e più importante, alla base della concezione rieducativa della pena vi è anche, più o meno dichiarata, la presunzione da parte di chi commina la pena di possedere sistemi di valori ai quali è bene educare. Una presunzione - questa - logicamente insostenibile nell’ambito di una cultura giuridica che si richiama alla distruzione di ogni visione metafisica soggiacente alla retribuzione. Insomma, i due principali modelli di concezione della pena, per ragioni diverse, ma anche per alcuni presupposti comuni, appaiono fortemente in crisi. Né la “terza via”, il modello preventivo, riassumibile nel motto latino per il quale la pena va usata non perché vi sia stato un peccatum, ma piuttosto ne peccetur, è immune da insormontabili difficoltà di ordine teorico e pratico, a cominciare dalla più volte documentata inefficacia sul piano della deterrenza e della dissuasione dalle recidive. Alla luce di queste sommarie considerazioni, si pongono alcuni interrogativi fondamentali. È possibile individuare nella giustizia riparativa una valida alternativa ai tradizionali modelli della pena? È possibile una soluzione che liberi davvero dalla spirale della vendetta, comunque civilizzata o modernizzata? Come altrove si è cercato di argomentare più ampiamente, la giustizia riparativa può essere tanto più persuasiva, quanto meno pretende di aver risolto una volta per tutte le aporie connesse con la nozione stessa di pena. Al contrario, per evitare di essere infine coinvolta e travolta da quelle stesse aporie che minano la plausibilità dei modelli tradizionali, la giustizia riparativa dovrebbe puntare a proporsi eminentemente come una pratica che non ambisce contraddittoriamente a fondazioni incrollabili, ma che agisce nella presa di coscienza del limite. Una concezione e una prassi che anzi individuano il loro punto di forza nella presa di coscienza del limite insuperabile insito nel diritto in quanto tale, come “imitazione” intrinsecamente e irreparabilmente imperfetta della giustizia. Sovvertire i criteri dell’agire giusto in nome del futuro di Luciano Eusebi Il Sole 24 Ore, 13 settembre 2022 Rischia di svanire, il futuro, se non rivisitiamo la categoria del relazionarsi giusto verso le condotte altrui: una categoria che, a partire dai pitagorici e con diverse sfumature, s’è universalmente imposta, attribuendo il crisma della giustizia alla pratica della corrispettività. Concetto, quest’ultimo, di natura formale, in quanto deriva i suoi contenuti, per analogia, dalle caratteristiche di ciò cui s’intenda rispondere. Buono, forse, per i traffici commerciali, ma estremamente pericoloso oltre i loro confini. Presuppone, infatti, un giudizio sull’altro, che se è negativo comporta una reazione altrettanto negativa. Il che, sotto le parvenze aristoteliche del ristabilire l’eguaglianza, moltiplica il negativo: dato che vi sarà sempre qualcosa di censurabile, in un altro, che faccia da alibi per agire contro di lui. Quel giudizio, anzi, facilmente è dipeso dal fatto che l’esistenza stessa dell’altro non rispondesse agli interessi, o alle visioni, del giudicante. E il configurarsi biunivoco di simile approccio ha portato a ravvisare nel conflitto un profilo ordinario delle vicende umane: in cui il bene di sé stessi risulta identificato nella sconfitta, nella sottomissione o addirittura nell’annientamento di chi percorra una strada che in qualche modo s’intrecci con la propria. È una prospettiva che emerge da sempre nell’intendere la pena come contrappasso. Ma che si manifesta, del pari, nelle tradizionali giustificazioni della guerra. Il che, però, rende quella prospettiva - date le armi oggi disponibili nonché i rischi per l’ambiente e la salute connessi alla competizione tra gli Stati - destinata, ormai, a produrre la catastrofe. Appare necessario, allora, ridefinire in radice il concetto di giustizia, affrancandolo dall’immagine della bilancia. Fare giustizia sta nell’opporre al negativo che accostiamo progetti di segno opposto: nel cercare di rendere giuste, per tutti, relazioni che non lo siano state. In ciò consistendo il nucleo della giustizia riparativa, la quale, dunque, non attiene soltanto a procedure di riconciliazione dopo i misfatti, ma a una forma diversa dell’impostare ab initio i rapporti umani. Non a caso, la stessa prevenzione penale risulta dipendere, fermo il contrasto dei profitti e degli apparati criminosi, da strategie di motivazione, piuttosto che di ritorsione. E chissà che dal progredire dell’idea di una fratellanza universale possa giungere il messaggio per cui i popoli non riconoscono più la ricerca del loro bene attraverso dinamiche di rivalità o di dominio. Il Terzo settore? Dovrebbero chiamarlo “Primo”. In edicola il libro di Claudia Fiaschi di Paola D’Amico Corriere della Sera, 13 settembre 2022 La presentazione del libro “Terzo - Le energie delle rivoluzioni civili” con l’autrice, l’economista Stefano Zamagni, la Portavoce del Forum Vanessa Pallucchi e il presidente di Vidas, Ferruccio de Bortoli. Il Terzo settore si fonda sulla reciprocità ed è un ingrediente irrinunciabile della democrazia, una componente essenziale per il buon funzionamento di un ordine sociale tripolare insieme allo Stato e al mercato. Ma “invece di terzo dovrebbero chiamarlo Primo”. Il professor Stefano Zamagni, presidente della Pontificia Accademia delle Scienze Sociali, interviene a gamba tesa alla presentazione in diretta da Sala Buzzati del Corriere della Sera di Terzo - Le energie delle rivoluzioni civili, il libro di Claudia Fiaschi in edicola gratis martedì 13 settembre con il Corriere e con Buone Notizie. E lo fa sottolineando le provocazioni intellettuali che sono la fine tessitura di un “libro che farà discutere”. A cominciare dal sottotitolo che Fiaschi stessa commenta: “Spesso le rivoluzioni sono cruente. Ma ce ne sono di silenziose, costanti nel tempo, portate avanti da persone che provano a costruire cambiamenti, più difficili ma duraturi”. Peccato, insiste Zamagni, che forse proprio quell’aggettivo “terzo” lo condanni a un ruolo residuale come accade, per esempio, nel Pnrr, la cui lacuna più grave “non sta tanto nella pochezza delle risorse locate ma nel fatto che nel piano si legge che l’azione pubblica potrà avvalersi del contributo del Terzo settore e co-progettazione”. Si scrive potrà non dovrà. E “si parla di co-progettazione che serve a poco, è la co-programmazione - aggiunge Zamagni - che definisce modalità e tempi degli interventi”. Il libro nasce al termine della esperienza di Fiaschi come Portavoce del Forum del Terzo settore. A raccogliere il testimone è stata Vanessa Pallucchi, anch’essa ospite alla presentazione del libro che, dice, è uno strumento “utile a chi propone un cambiamento, perché non c’è posto per realtà che non si interrogano. Questo lavoro pone più domande che risposte, in chiave maieutica, pedagogica”. E sottolinea come in una società dove è evidente “l’indebolimento dei corpi intermedi, delle forze politiche, il Terzo settore è un punto di riferimento più intenso che nel passato”. Ma il dato di fatto è che “viene consultato ma non ascoltato”. E restando sul tema del Pnrr: “I bandi spesso sono ritagliati - continua Pallucchi - sulle esigenze del profit”. Quando per realizzare l’accesso ai fondi deve esserci un vestito adeguato al non profit. Insomma, “si trascura quel seme, la capacità di una rivoluzione dolce, è come se non si capisse che il Terzo settore può prendere in mano il cambiamento”. Che il Terzo settore non possa essere marginale lo dice con forza anche Ferruccio de Bortoli, presidente Vidas. “Procura tutta una serie di buone relazioni che sono il tessuto connettivo di una società. È una valvola di sicurezza. Grazie al Terzo settore abbiamo comunità coese, nelle quali il concetto di restituzione è ben presente”. Basti pensare alla guerra in Ucraina: “In Italia abbiamo avuto una reazione più ordinata rispetto ad altri Paesi, le comunità sono state un ammortizzatore sociale più efficace di molti interventi, uno stabilizzatore civico”. Il dibattito ha toccato anche il tema del calo dei volontari e della difficoltà di “agganciare” le nuove generazioni. E di nuovo l’economista Zamagni ha messo il dito nella piaga: “Ai giovani non può bastare la generica motivazione dell’aiutare l’altro. Devi entrare nel merito delle sfide e far vedere come partecipare a queste realtà è una chiave di risposta. Un esempio è il bisogno di felicità, tutti ne hanno un bisogno disperato e non la trovi nei luoghi di vita. I giovani hanno bisogno di aprirsi. L’information Technology crea l’effetto della omofilia, le persone interagiscono con persone simili, ma l’omofilia è contraria alla felicità, tendo a stare solo con chi è simile a me e poi mi stufo”. In conclusione, secondo Fiaschi, non serve un nuovo nome per dare dignità al Terzo settore. “Bisogna riempirlo dei nostri contenuti. Non è un mondo a lato ma un mondo dentro, se non lo capiamo trascuriamo il fatto che è un motore della pace sociale. La felicità pubblica nasce da questo motore, se non investiamo in questo carburante anche le risorse avranno impatto limitato. Superiamo questa grande disattenzione”. Disabile vola giù dalla finestra durante una perquisizione: “Pestato dagli agenti” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 settembre 2022 Il tragico episodio è stato denunciato alla Camera da Riccardo Magi: gli agenti avrebbero fatto irruzione in borghese, senza un mandato. Il 37enne di origini rom ora è in coma, i pm indagano per tentato omicidio. Un uomo sordomuto in coma, un volo dal balcone, dei poliziotti sulla scena, e tanti punti da chiarire. È questa la sintesi della drammatica vicenda del giovane di etnia rom Hasib Omerovic, disabile di 37 anni, precipitato il 25 luglio dalla finestra di un appartamento di uno stabile di edilizia popolare a Primavalle nel corso di un presunto controllo delle forze dell’ordine. La storia è stata resa nota oggi durante una conferenza stampa convocata dall’onorevole Riccardo Magi, Presidente di +Europa, alla Camera dei deputati. Con lui erano presenti Fatima Sejdovic, la madre della vittima, Carlo Stasolla, portavoce di Associazione 21 luglio, e gli avvocati della famiglia Susanna Zorzi e Arturo Salerni. “Questa è una vicenda tragica - ha esordito il parlamentare radicale -, resa ancora più sconvolgente dalla mancanza di chiarezza e verità in cui è avvolta. La famiglia ha deciso di renderla nota affinché l’attenzione pubblica aiuti a sapere la verità”. Magi ha presentato una interrogazione a risposta scritta rivolta al ministro dell’Interno Luciana Lamorgese, non potendosi utilizzare lo strumento dell’interpellanza urgente essendo sciolte le Camere. Nell’atto di sindacato ispettivo è riassunto l’esposto presentato dalla famiglia alla Procura della Repubblica di Roma, grazie alla testimonianza della sorella di Hasib, presente quel giorno in casa: “Il 25 luglio mattina H., sordomuto, si trovava nella sua abitazione a Roma con sua sorella S., disabile, mentre i genitori e la sorella E. erano fuori casa, quando presso l’abitazione si recano quattro agenti della Polizia in borghese; il giorno precedente, la sorella E. era stata avvicinata dal proprietario di un bar della zona che le aveva riferito che stava girando su Facebook un post “perché H. ha importunato alcune ragazze del quartiere e lo vogliono mandare all’ospedale”, chiedendo di vedersi anche con H. il giorno dopo per parlarne; il post sarebbe stato rimosso, ma i familiari sono in possesso di uno screenshot allegato agli atti; il testo, accompagnato dalla foto del ragazzo, recitava: “Fate attenzione a questa specie di essere, perché importuna tutte le ragazze bisogna prendere provvedimenti”. Il giorno della tragedia alle 13.12, prosegue l’interrogazione, “la sorella E. riceveva una telefonata della vicina che li invitava a tornare immediatamente a casa e che passava il cellulare a un agente, il quale li avvisava che H. era ferito e si trovava all’ospedale; rientrati a casa, alcuni agenti in borghese li rassicuravano circa le condizioni del figlio, che “aveva solo un braccio rotto”; in realtà H. era ricoverato al Gemelli in rianimazione con prognosi riservata; tuttora è polifratturato, ha subito un intervento chirurgico al volto e si trova in uno stato di coma vigile, tanto che non è gli è possibile comunicare”. Sempre secondo quanto riportato nell’esposto, “nei giorni successivi un agente del commissariato di Primavalle avrebbe riferito informalmente ai familiari che H. avrebbe “infastidito molestandole alcune ragazze del quartiere”, per cui gli agenti si sarebbero recati nella sua abitazione per chiedere l’esibizione dei documenti; secondo il racconto dell’agente, H. sarebbe rimasto tranquillo, tanto che gli stessi gli avevano scattato delle foto, ma mentre stavano andando via, avrebbero sentito alzare la tapparella della finestra della camera da dove H. si sarebbe buttato”. La sorella S., unica testimone oculare della vicenda, pur essendo affetta da disabilità, ha raccontato “in modo chiaro sia ai genitori che all’amministratore di sostegno: “ho sentito suonare e ho aperto la porta… una donna con degli uomini vestiti normalmente sono entrati in casa. La donna ha chiuso la serranda della finestra del salone… hanno chiesto i documenti di H. Hanno fatto le foto… lo hanno picchiato con il bastone, H. è caduto e hanno iniziato a dargli i calci… è scappato in camera e si è chiuso… loro hanno rotto la porta… loro gli hanno dato pugni e calci… lo hanno preso dai piedi e lo hanno buttato giù”“. Nell’esposto i familiari riferiscono, allegando le foto, che “la serratura della porta di ingresso della camera di H. è completamente divelta, la tubatura esterna del termosifone sradicata dal muro, il rinvenimento del bastone di una scopa spezzato e di sangue sul lenzuolo”. Durante la conferenza stampa a domanda di un giornalista, l’avvocato Salerni ha escluso, in base alle testimonianze raccolte, che il volo dalla finestra sia stato preceduto da una spedizione punitiva del quartiere contro Hasib. E allora, se c’erano solo i poliziotti, perché sono entrati a casa di Hasib? Avevano un mandato? Hasib è stato prima picchiato e poi lanciato dalla finestra dagli agenti? Forse hanno pensato che essendo l’appartamento a piano terra, anche la finestra non avesse un vuoto di 9 metri sotto? C’è un verbale della perquisizione? Sono stati effettuati dei rilievi da parte della polizia giudiziaria? Queste sono alcune delle domande a cui dovrà rispondere il pubblico ministero Stefano Luciani, che ha disposto il sequestro del manico di scopa e delle lenzuola macchiate di sangue. Le indagini sono affidate alla Squadra Mobile di Roma. Si indaga per tentato omicidio in concorso. Per tutto questo l’onorevole Magi chiede alla ministra “se sia a conoscenza della vicenda riportata in premessa e se, al di là dei profili di competenza dell’autorità giudiziaria, non ritenga di avviare con la massima urgenza un’indagine interna per fare luce sugli obiettivi e le modalità dell’intervento della polizia di Stato e su eventuali violazioni anche disciplinari poste in essere, se vi sia un rapporto di servizio sull’intervento e quale sia il contenuto dello stesso”.Stasolla ha annunciato di aver lanciato con l’Associazione 21 luglio due appelli: “Uno al Comune di Roma per una nuova abitazione per la famiglia di Hasib. Era stata loro regolarmente assegnata ma se ne sono dovuti andare per il clima che c’è intorno. E un altro al Capo della Polizia Lamberto Giannini affinché si adoperi a far luce sulla vicenda”. La madre di Hasib ha concluso: “Voglio sapere la verità e voglio giustizia per mio figlio. Ha 37 anni e non ha precedenti. So che non ha fatto male a nessuno”. Uscire dalle baraccopoli è possibile. I rom prendono casa di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 settembre 2022 La famiglia di Hasib Omerovic, 37enne disabile in coma da fine luglio per un volo dalla finestra durante un controllo di polizia nella sua casa, aveva ottenuto l’alloggio popolare a Primavalle tre anni e mezzo fa. Una regolare assegnazione, in seguito alla richiesta al comune di Roma e l’attesa in graduatoria al pari degli altri aventi diritto. In precedenza aveva vissuto nei campi di Tor de’ Cenci e La Barbuta. La sua storia è quella di altre 700 persone identificate come rom che nella capitale, nello stesso periodo, sono riuscite a costruirsi una vita lontano dalle baraccopoli. Ottenendo una casa vera. Un fenomeno che smonta l’idea per cui i rom sarebbero nomadi per natura o scelgano di vivere nei campi. Lo stereotipo è particolarmente radicato in Italia, definita nel 2000 dall’European Roma Rights Centre “il paese dei campi”. Non a torto. Sono 110 gli insediamenti storicamente riconosciuti in cui vivono famiglie rom o sinte, per un totale di circa 12 mila persone. Altre 5.500 si trovano in insediamenti informali abitati in maniera transitoria. I numeri vengono dall’Associazione 21 luglio, che si batte da anni per il superamento dei “ghetti monoetnici”. A partire da un dato di fatto: le baraccopoli non sono il prodotto di una scelta, ma il segno dell’insufficienza delle politiche sociali e di un razzismo di matrice “culturalista”. Lo testimoniano le stime sulla popolazione rom presente nel territorio nazionale: circa 180 mila individui. Nove su dieci non vivono nei campi. La storia delle baraccopoli istituzionali inizia nella seconda metà degli anni Ottanta. Dopo la morte di Tito, per fuggire a violenze, persecuzioni e alla crisi che porterà al conflitto balcanico, molti rom abbandonano l’ex Jugoslavia. Quelli che arrivano in Italia finiscono nel sistema dei campi, creato su spinta di alcune regioni. Sarebbe dovuta essere una soluzione temporanea, ma è ancora là. Alla base c’era l’equivoco di voler tutelare una presunta identità culturale e nomade di quelle persone. Che invece cercavano sicurezza e accoglienza, al pari degli altri rifugiati politici. Recentemente, però, si registra una positiva tendenza al “superamento” dei campi: è già successo in 28 casi dal 2019 a oggi, mentre per altri 23 i lavori sono in corso. Il concetto non equivale a quello di chiusura. Chiudere un campo significa sgomberarlo senza soluzioni alternative. Per superarlo occorre mettere in campo strumenti di ascolto e politiche sociali in grado di fornire autonomia e futuro ai cittadini coinvolti. Il primo passo è la garanzia del diritto alla casa. A Roma sono state percorse soprattutto due strade. La prima autonomamente dai rom attraverso la richiesta di una casa popolare, al pari degli altri cittadini. La seconda con l’attivazione, grazie alle proteste degli abitanti dei campi e al lavoro della 21 luglio, di una riserva di alloggi per le situazioni di estrema fragilità. Meno successo hanno avuto i “bonus affitto” da spendere sul mercato privato introdotti dalla precedente giunta pentastellata. Troppo forte lo stigma sociale e troppo complessa la situazione degli affitti nella capitale. “Il superamento dei campi sta avvenendo in molte città grazie al lavoro di amministrazioni di diverso colore - afferma Carlo Stasolla, portavoce della 21 luglio - È necessario mettere in pratica un approccio partecipativo e abbandonare quello etnico. Roma però è in forte ritardo. A un anno dell’insediamento la nuova amministrazione non ha prodotto alcun piano per superare le baraccopoli”. Migranti. Tre bambini e tre adulti morti di sete nel Mediterraneo di Giansandro Merli Il Manifesto, 13 settembre 2022 Tutti siriani, partiti dalla Turchia il 30 agosto. Ammatuna, sindaco di Pozzallo: “I sopravvissuti sembravano usciti da un lager nazista”. Sos di Alarm Phone per un barcone stracarico: “A bordo una bimba morta di stenti”. “Sembravano sopravvissuti ai lager nazisti”, ha sbottato il sindaco di Pozzallo Roberto Ammatuna dopo lo sbarco nel porto siciliano di 26 migranti, disidratati e ustionati, soccorsi dal mercantile Arizona e poi trasbordati su una motovedetta della guardia costiera. È andata peggio ai sei che non ce l’hanno fatta: due bambini di uno e due anni, un 12enne e tre adulti, tra cui la madre e la nonna di alcuni dei piccoli sopravvissuti. Le vittime sono tutte siriane. La strage è stata ricostruita dall’Unhcr raccogliendo le testimonianze all’arrivo sul molo. I corpi privi di vita sarebbero stati gettati in mare. Lo spazio era ridotto e non c’era riparo dal sole. L’equipaggio della nave battente bandiera liberiana non li ha trovati né a bordo, né in acqua. Il barchino su cui viaggiavano siriani e afghani, comunica l’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), era partito il 30 agosto dalla Turchia. Ha finito il carburante ed è andato alla deriva, in direzione delle coste della Libia orientale. Decine di miglia lontano dalla rotta che avrebbe dovuto seguire per raggiungere l’Italia. A bordo c’era anche una bambina evacuata d’urgenza domenica, insieme alla madre, con un elicottero maltese. Era in stato di grave disidratazione. La guardia costiera italiana ha diffuso nel tardo pomeriggio di ieri un brevissimo comunicato in cui fa sapere che nei giorni scorsi la piccola imbarcazione in difficoltà era stata avvistata da un assetto aereo. La centrale operativa di Roma ha dirottato l’Arizona, che navigava nelle vicinanze, e un mercantile italiano. La prima nave ha salvato le 28 persone presenti a bordo. Nel comunicato ufficiale mancano informazioni importanti per chiarire la vicenda. La richiesta di maggiori dettagli avanzata dal manifesto non ha avuto risposta. NON È specificato quando e dove è avvenuto il soccorso. Dalla ricostruzione dei tracciati dell’Arizona sembrerebbe che l’operazione si sia svolta intorno alle 23 di sabato scorso in acque internazionali, una cinquantina di miglia nautiche a nord-ovest delle coste libiche. Inusuale il coordinamento italiano dell’operazione, che si è svolta nell’area di ricerca e soccorso (Sar) libica. Negli ultimi anni Roma tende a non intervenire in quella vasta porzione di mare, nonostante le note problematicità: scarsa capacità operativa di Tripoli e mancanza di un porto sicuro di sbarco. La decisione potrebbe dipendere dall’aereo che ha segnalato l’imbarcazione, ma sono ipotesi: nel comunicato non è nominato. Lungo la rotta del Mediterraneo centrale sono attivi i droni di Frontex ma anche i velivoli dell’operazione Irini-EunavforMed. Il comandante è il contrammiraglio della marina italiana Stefano Turchetto e il quartier generale è la base militare di Centocelle, a Roma. La rappresentante Unhcr Chiara Cardoletti e il portavoce Oim Flavio Di Giacomo hanno definito “inaccettabile” questa nuova tragedia e sono tornati a ribadire l’urgenza di “ripristinare un meccanismo di ricerca e soccorso tempestivo ed efficiente, guidato dagli stati nel Mediterraneo”. Ieri il centralino Alarm Phone, che raccoglie e diffonde le richieste d’aiuto dei migranti, ha lanciato un altro allarme per un barcone con 250 persone partito una settimana prima dal Libano. “Chi ha chiamato ha detto che sua figlia di tre mesi è morta di sete”, twitta Ap. L’imbarcazione avrebbe terminato benzina, cibo e acqua. La nave umanitaria Sos Humanity ha cambiato rotta nel pomeriggio per tentare di raggiungerla, perché le autorità non avrebbero risposto all’Sos. Al momento della segnalazione i migranti erano nell’area Sar maltese ma più vicini alle coste greche. L’ultima posizione li dà alla deriva verso sud. La situazione è simile a quella del barcone partito il 29 agosto dal Libano con 57 persone. Avrebbero iniziato a chiedere aiuto il 31 agosto nella Sar greca. Quattro giorni dopo, ormai nell’area di ricerca e soccorso maltese, hanno finito cibo e acqua. Sono stati soccorsi da un mercantile solo il 6 settembre. Una bambina di quattro anni, Loujin, è morta di sete. Due ragazzi risultano dispersi. Intanto si è allungata la lista dei morti nel naufragio di venerdì scorso al largo della Tunisia: le autorità hanno comunicato il ritrovamento di altri sei cadaveri, che portano a 14 le vittime confermate. Altri nove restano dispersi ma non ci sono speranze di trovarli in vita. Nel 2022 il Mediterraneo centrale ha inghiottito 1.280 persone. Molte altre mancano all’appello. Il comunicato della guardia costiera 28 migranti sono stati tratti in salvo nei giorni scorsi ad opera di un mercantile battente bandiera liberiana a largo delle coste orientali libiche. La nave, che si trovava in navigazione in prossimità della piccola imbarcazione alla deriva, procedeva al recupero di tutte le persone presenti a bordo. La nave liberiana, a seguito di un avvistamento aereo dell’unità in difficoltà, era stata appositamente dirottata in zona, per prestare assistenza, dalla Centrale Operativa della Guardia Costiera italiana, unitamente ad un altro mercantile di bandiera italiana. Dalla nave, diretta verso nord, nella giornata di ieri veniva evacuata per motivi sanitari, una bambina in grave stato di disidratazione, e trasportata urgentemente, insieme alla madre, a La Valletta tramite un elicottero maltese. I restanti naufraghi - a circa 80 miglia a largo di Siracusa - venivano trasbordati sulla motovedetta CP 325 della Guardia Costiera italiana e condotti in salvo a Pozzallo. Il Comando di bordo della nave liberiana riferiva di non aver rinvenuto corpi privi di vita né a bordo né in mare in prossimità dell’imbarcazione. Pozzallo: sei migranti morti di fame e sete su un barcone. Allarme ignorato per giorni di Claudio Del Frate Corriere della Sera, 13 settembre 2022 La notizia data dall’Unhcr: erano con altre 20 persone alla deriva da giorni e sono stati soccorsi dalla Guardia Costiera. Il gruppo proveniva dalla Siria. Sei migranti tra cui tre bambini, sono stati trovati morti a bordo di un barcone assieme ad altre persone alla deriva su un barcone. Tutti sono arrivati oggi nel porto di Pozzallo, in Sicilia. Ne ha dato notizia l’Unhcr, l’agenzia dell’Onu che si occupa dei richiedenti asilo. Le vittime - tra cui tre piccoli di un anno, due anni e 12 anni - sono probabilmente morte di fame e di sete. Le alte tre vittime sono donne. Il gruppo di naufraghi, 26 in tutto, di nazionalità siriana o afghana, è stato soccorso da una vedetta della Guardia Costiera a circa 70 miglia a sud della coste siciliane di Portopalo: erano in mare da diversi giorni e molti di loro presentavano ustioni sul corpo. “L`UNHCR - si legge in un comunicato - esprime profondo rammarico per l’ultima perdita di vite umane in mare e chiede il ripristino di un meccanismo di ricerca e soccorso rapido ed efficiente. L’UNHCR si rammarica profondamente per la tragica morte di sei siriani, tra cui due bambini piccoli e una donna anziana, avvenuta durante un viaggio disperato in mare per cercare sicurezza in Europa”. Le operazioni di sbarco dei sopravvissuti sono state effettuate a Pozzallo con l’aiuto di autorità sanitarie, forse dell’ordine e organizzazioni umanitarie. Alcuni di loro hanno dovuto essere trasportate in ospedale perché in condizioni gravi dovute alla lunga permanenza in mare. L’operazione è stata condotta dalla motovedetta Cp 325 della Guardia Costiera: in precedenza gli occupanti del barcone alla deriva erano stati salvati dal mercantile Arizona. Due donne, proprio a causa delle loro precarie condizioni erano state sbarcate già ieri e portate in ospedale a Malta. Il barcone era salpato circa due settimane fa dalle coste della Turchia: nel giro di pochi giorni sono finite le scarse dotazioni di cibo e poi anche quelle di acqua, tanto che alcuni naufraghi avrebbero poi bevuto quella del mare. Secondo le prime testimonianze raccolte a terra, il barcone avrebbe incrociato alcune navi, una di queste avrebbe lanciato una cassa di acqua ma i migranti non sono riusciti a recuperarla, nè la nave si preoccupò di portare a bordo i migranti in pericolo. La disperata condizione in cui si trovavano il barcone e i suoi occupanti era dunque nota da giorni ma non sono partiti soccorsi tempestivi in seguito al Sos. Secondo l’agenzia Onu sono già 1.200 le persone morte o disperse nel 2022 mentre tentavano la traversata del Mediterraneo. Altrettanto drammatica la testimonianza del sindaco di Pozzallo, Roberto Ammatuna, che ha assistito all’arrivo dei naufraghi in porto: “L’immagine terribile era paragonabile a quella dei sopravvissuti nei lager nazisti” ha raccontato. “È impressionante - prosegue Ammatuna - lo stato di disidratazione e debolezza di tutti i migranti che faticavano a mantenere la stazione eretta. Oltre al grave stato di disidratazione, si evidenziava anche un’eccessiva desquamazione cutanea da probabile esposizione al vento, al sole e al mare”. Sempre questa mattina la nave italiana Diciotti ha salvato altri 350 immigrati, da un motopesca in difficoltà a 50 miglia dalle coste siciliane: a questa imbarcazione è stato assegnato il porto di Crotone. Migranti. Emma Bonino: “L’Ue può evitare queste tragedie, il blocco navale è disumano” di Antonio Bravetti La Stampa, 13 settembre 2022 La senatrice di +Europa: “In Italia una destra retrograda e reazionaria. Letta sia più sicuro di sé contro chi vuole portare l’Italia alla deriva”. I morti di ieri dimostrano ancora di più che l’Unione europea è “indispensabile” e non solo per affrontare le migrazioni. Per Emma Bonino, senatrice e fondatrice di +Europa, la soluzione non è il blocco navale proposto da Giorgia Meloni: “Servono serietà e un briciolo di umanità”, dice. E avverte: “FdI e Lega rappresentano una destra grottesca e retrograda, reazionaria. Con Meloni al governo l’Italia tornerebbe indietro nel tempo e finirebbe isolata in Europa”. Cosa ci dice la tragedia dei migranti di ieri? “Che l’Europa è indispensabile. Continueremo ad assistere a indicibili drammi come quest’ultimo finché non sarà possibile affrontare a livello europeo un fenomeno vecchio come l’umanità quale è quello delle migrazioni. È inutile chiedere all’Europa di occuparsene, quando la Commissione non ha questa competenza. Solo dando più competenze alla Commissione e superando il voto all’unanimità del Consiglio potremo avere anche un approccio più umano”. La soluzione è il blocco navale proposto da Giorgia Meloni? “A parte il diritto internazionale, cosa vuole fare, vuole forse schierare le portaerei per intercettare i gommoni dei disperati? Ma siamo seri, su! E poi un briciolo di umanità. La questione migrazione non si risolve con le battute, ma con una strategia europea e di lungo periodo. A partire dall’apertura di canali legali di immigrazione economica. Un Paese in crollo demografico come il nostro ha interesse a questi sviluppi”. Meloni però dice che con lei al governo “per l’Europa è finita la pacchia”... “Con lei e con Salvini al governo finisce la pacchia per l’Italia, non per l’Europa. La pacchia di avere un leader italiano, Mario Draghi, protagonista delle decisioni a livello della Ue. L’interesse dell’Italia in Europa si fa con autorevolezza e leadership, non “battendo i pugni sul tavolo”. Salvini e Meloni sono cresciuti politicamente ed elettoralmente attaccando la Ue e la Bce, esattamente quello ricominceranno a fare dal 26 settembre, quale che sia il risultato delle elezioni”. Salvini ieri ha affermato che il governo di centrodestra continuerà a sostenere militarmente Kiev. E’ credibile, dopo tanti tira e molla sulla questione? “No, non è credibile. Salvini ha sempre osteggiato e criticato anche le sanzioni europee contro Mosca per l’annessione della Crimea. E una settimana fa è tornato a criticare le sanzioni per l’invasione della Ucraina. La sua simpatia per Putin è arcinota e documentata”. Il M5S non voterà altri invii di armi all’Ucraina. Cosa ne pensa? “Giuseppe Conte è riuscito a dire nei giorni scorsi “non si dica che Putin non vuole la Pace”: un’affermazione assurda. Il ridimensionamento di Putin e il fallimento del suo tentativo di conquistare l’Ucraina è interesse primario dell’Europa in termini di sicurezza, di interessi e di valori. Se non avessimo sostenuto Kiev anche con le armi, oggi Putin sarebbe trionfante, invece è sempre più in difficoltà. Conte ha già fatto un favore a Putin sfiduciando Draghi insieme a Salvini e Berlusconi, vuole insistere disarmando Kiev?”. Conte dice anche che Meloni è inadeguata a governare. Condivide? “Non giudico la persona ma le idee: il suo sovranismo e il suo nazionalismo economico ci metterebbero in rotta di collisione con l’Ue. Sui diritti Meloni è reazionaria, parla di lobby Lgbt, si scaglia contro la fantomatica teoria gender e, dove FdI governa, l’aborto diventa sempre più difficile. Sarebbe un governo che isolerebbe l’Italia e che la porterebbe indietro anziché avanti”. FdI ha perso due giorni ad attaccare Peppa Pig... “Grottesco, retrogrado, pericoloso... Ma questa è la cultura della destra sovranista in Polonia, in Ungheria e anche in Italia. Chi finge di non vederlo compie un grave errore di sottovalutazione. Nel mirino finiscono subito le persone Lgbt e i diritti delle donne, a partire dall’interruzione della gravidanza”. Le spiace non aver tenuto Calenda nell’alleanza di centrosinistra? “Mi spiace che abbia cambiato repentinamente idea e non abbia tenuto fede al patto politico elettorale che insieme avevamo firmato con Letta sapendo benissimo che in forma diversa ci sarebbero stati Verdi e SI. L’accordo con Letta era chiaro: liberali e socialdemocratici, vista la legge elettorale, uniscono le forze per battere Salvini e Meloni. Non c’era ragione di cambiare idea e noi siamo stati coerenti”. Letta sta sbagliando qualcosa in questa campagna elettorale? “Deve essere più sicuro di sé e in questi dieci giorni deve insistere sulle nostre buone ragioni e sul fatto che Meloni/Salvini non sarebbero business as usual, ma porterebbero l’Italia lontana dalla traiettoria positiva impressa da Draghi. E chi vuole proseguire nella direzione di Draghi deve votare per noi e in particolare per +Europa, perché 225 seggi si assegnano con il maggioritario e andranno a noi o al centrodestra”. Cosa pensa di Mélenchon? E poi: Unione Popolare di De Magistris è un progetto che ha un futuro? “Onestamente, spero di no. La sinistra populista può tirare su qualche voto, tanti in Francia, pochi in Italia, ma non ha idee per governare ed è antieuropea in maniera simmetrica rispetto ai sovranisti”. Milioni vivono “in schiavitù”, ma nessuno vede di Paolo Fallai Il Manifesto, 13 settembre 2022 Un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), di Walk Free e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, (Oim), segnala che è “salito a cinquanta milioni il numero di persone vittime di schiavitù “moderna” nel mondo”. Ci sono parole che fanno parte del nostro quotidiano ma che tendiamo emotivamente a collocare lontano dal presente, come se quello che evocano non ci riguardasse. Poi succede che una ricerca, uno studio, un approfondimento un po’ più lungo di 140 caratteri, ci costringa ad un brusco ritorno alla realtà. Una di queste parole è schiavitù: proprio ieri un rapporto dell’Organizzazione internazionale del lavoro (Ilo), di Walk Free e dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni, (Oim), segnala che è “drammaticamente salito a cinquanta milioni il numero di persone vittime di schiavitù “moderna” nel mondo”. Poco meno dell’intera popolazione italiana. Cosa intendano queste agenzie con “schiavitù moderna” è presto detto: “Nel mondo 28 milioni di persone sono sottoposte a lavori forzati e 22 milioni costrette in matrimoni forzati”, in totale sono 10 milioni in più rispetto alle stime del 2016. “Più della metà (52%) del lavoro forzato e un quarto di tutti i matrimoni forzati si concentrano nei Paesi a reddito medio-alto o alto, inoltre la maggior parte dei casi di lavoro forzato (86%) si registra nel settore privato”. Quasi uno su otto di tutti i lavoratori forzati sono bambini (3,3 milioni) e più della metà sono vittime di sfruttamento sessuale. Infine, l’indagine segnala che i lavoratori migranti hanno una probabilità più che tripla di essere sottoposti a lavoro forzato rispetto ai lavoratori adulti non migranti. Il rapporto di queste agenzie propone ai governi una serie di raccomandazioni tra cui migliorare l’applicazione delle leggi e delle ispezioni del lavoro; porre fine al lavoro forzato imposto dallo Stato; estendere la protezione sociale e rafforzare le tutele legali, compreso l’innalzamento dell’età legale del matrimonio a 18 anni senza eccezioni (in molti Paesi non è proprio prevista). Quello che il rapporto non dice è che la schiavitù moderna l’abbiamo sotto gli occhi e troppo spesso voltiamo lo sguardo per non vedere. La schiavitù? Roba del passato. Stati Uniti. Alabama, in prigione per aver fumato marijuana da incinta di Giovanna Branca Il Manifesto, 13 settembre 2022 La 23enne Ashley Banks è una delle tante donne criminalizzate dalla legge che antepone la salute del feto a quella della madre. Il 25 maggio la 23enne Ashley Banks stava guidando nella contea di Etowah, in Alabama, quando degli agenti di polizia l’hanno fermata per un controllo. Nella sua macchina sostengono di aver trovato un piccolo quantitativo di marijuana: in una situazione normale, Banks avrebbe potuto pagare la cauzione e tornare a casa in attesa di processo. Ma quel giorno la ragazza ha ammesso ai poliziotti di aver fumato marijuana poco prima di scoprire di essere incinta da 6 settimane. Per questo, è rimasta vittima della prassi della contea: incarcerare le donne con problemi di dipendenza per tutelare la salute del feto. Una politica di per sé aberrante ma che nel caso di Banks raggiunge picchi surreali dato che la 23enne è potuta uscire dal carcere solo 3 mesi dopo, il 25 agosto, intrappolata in un paradosso stile Comma-22: per poter uscire su cauzione avrebbe dovuto completare un trattamento di riabilitazione, che le è stato rifiutato per ben due volte perché il suo consumo di marijuana non era qualificabile come dipendenza. I suoi avvocati hanno poi affermato che le forze dell’ordine hanno cercato di spingerla ad ammettere di avere una dipendenza per poter uscire dal carcere su cauzione. La sua vicenda è emersa pochi giorni fa grazie a un’inchiesta della testata locale Al.com, che ha gettato una luce sulla criminalizzazione delle donne incinte nello stato del profondo sud Usa dove chi ha avuto un aborto spontaneo può venire incriminata e condannata fino a 99 anni di prigione se ha fatto uso di droga durante la gravidanza. Come scrive sul Guardian Moira Donegan, “allo scopo di tutelare l’entità superiore che è il feto, sostiene il movimento anti-scelta, è giustificabile, perfino necessario, rubare la libertà delle donne”, ritenute di “status” inferiore. In prigione dove era obbligata a dormire per terra perché i letti della sua cella erano già occupati, Banks ha cominciato ad avere delle emorragie che hanno messo in pericolo la sua gravidanza già a alto rischio. E il suo caso non è il solo: Al.com riporta anche la storia di Hali Burns, arrestata 6 giorni dopo la nascita del suo secondogenito: era stata trovata positiva agli oppiacei perché prendeva un farmaco prescritto proprio alle donne incinte con una dipendenza da queste droghe. In prigione per oltre due mesi, non le è stato neanche concesso di ricevere gli assorbenti e gli indumenti intimi che il marito le portava per far fronte alle perdite di sangue dovute al recente parto. L’associazione no profit National Advocates for Pregnant Women definisce la conte di Etowah “il ground zero della nazione nella criminalizzazione della gravidanza”: negli ultimi dieci anni sono ben 150 le donne incappate in una persecuzione penale ai sensi dello statuto relativo alla “messa in pericolo di un minore con sostanze chimiche”, nato per tutelare i bambini nelle case trasformate in laboratori per la produzione di metanfetamina e presto strumentalizzato per criminalizzare le donne. In tutto il Paese, le donne imprigionate per aver “messo a rischio” la salute del feto sono - secondo un report del Napw - 413 fra l’anno in cui è stata emanata sentenza che garantiva il diritto all’aborto Roe v.Wade (1973) e il 2005, e ben 1.300 solo fra il 2006 e il 2020. Una tendenza inevitabilmente destinata a crescere negli Stati uniti post Roe. “Sappiamo di stare per essere testimoni di un’accelerazione dei casi in cui delle persone incinte vengono criminalizzate”, ha detto a The Nation la coautrice del report Afsha Malik, che sottolinea come le cause della persecuzione non sono limitate al consumo di droga ma potrebbero anche derivare da una caduta dalle scale, la sieropositività, un parto fra le mura domestiche. O aver fumato un po’ di marijuana. Stati Uniti. Leonard Peltier è stanco di Marco Cinque Il Manifesto, 13 settembre 2022 Il simbolo della resistenza nativa è rinchiuso da 46 anni in un carcere negli Stati uniti dopo un processo-farsa. Il comitato che ne chiede la liberazione ora porterà la sua lotta all’Onu. Leonard Peltier è chiuso in carcere da ormai 46 anni ed è l’emblema dei prigionieri politici e delle minoranze indigene negli Stati uniti. Di ascendenza Ojibwa Lakota, è tra i fondatori dell’Aim (American Indian Movement) e simbolo di una resistenza che dura da più di 500 anni. La sua vicenda giudiziaria è ormai arcinota, raccontata in svariati libri, film e anche in molti articoli dedicatigli da questo giornale. Nei primi 10 giorni di ottobre di quest’anno è previsto l’arrivo in Europa di una delegazione dell’International Leonard Peltier Defense Committee, storico comitato che da tempo si batte per la sua causa, composta da Jean Roach, Lona Knight e Carol Gokee, che saranno presenti anche in diverse città italiane, a partire da Milano. Il ciclo delle manifestazioni di sostegno vedrà il suo culmine a Ginevra, in un incontro con le Nazioni unite. Per chi non la conoscesse, la storia di Peltier vale la pena di essere ricordata. Tutto ebbe inizio il 26 giugno 1975, a Pine Ridge, territorio degli Oglala Lakota, una delle Riserve indiane più grandi e povere degli Stati uniti. Erano tempi di forti tensioni e scontri, di continue aggressioni alle comunità indigene, soprattutto da parte dei “Goons”, bande armate formate in parte da nativi stessi, comprati dal governo statunitense per reprimere le lotte di rivendicazione dell’Aim. Quel giorno, senza alcun preavviso, irruppe nella riserva un’automobile priva di targa con due uomini a bordo che diedero inizio a un conflitto armato. In seguito si scoprirà che erano agenti dell’Fbi e che il pretesto per l’irruzione fosse la ricerca di un indiano che avrebbe rubato un paio di stivali. Ovviamente erano palesi bugie e, più probabilmente, l’irruzione fu una sorta di provocazione che portò sul teatro dello scontro, nel giro di pochi minuti, centinaia di agenti. La sparatoria che ne seguì fu caotica, lasciando a terra i due agenti provocatori e un nativo. Sul nativo nessuno si prese la briga di indagare, come avveniva regolarmente anche per la gran quantità di indigeni uccisi in quegli anni, ma per i due agenti qualcuno doveva pagarla cara. In quanto attivista dell’Aim, il trentunenne Leonard Peltier divenne così il capro espiatorio perfetto. In una successiva intervista Peltier rivelò: “Sono stato minacciato con le pistole in faccia quando ho cercato di filmare un blocco stradale di una squadra Goon; in un’altra occasione sono stato sbattuto contro un muro dai Goon, che tendevano a percepire l’intero corpo della stampa come simpatizzante dell’Aim. I freni della mia macchina furono tagliati e, in un’occasione, un fucile ad alta potenza fece un buco in un’automobile su cui viaggiavo. Ma le mie esperienze impallidiscono in confronto ai pestaggi, le bombe incendiarie e le sparatorie in auto durante quel periodo, dove almeno 28 omicidi di indiani rimangono ancora irrisolti e la tribù Oglala Sioux ha ripetutamente presentato petizioni al governo federale per riaprire questi casi”. L’arresto di Peltier avvenne in Canada, il 6 febbraio successivo, ma l’estradizione fu ottenuta con prove così fasulle che, in seguito, il governo canadese protestò formalmente col governo statunitense. Peltier venne condannato nel 1976 a due ergastoli, dopo un processo segnato da discriminazione e pregiudizio, dove venne accusato dell’omicidio dei due agenti Ronald A. Williams e Jack R. Coler. Nonostante un accurato rapporto balistico della stessa Fbi rivelasse che i proiettili non potevano essere stati sparati dall’arma del leader dell’Aim, il destino dell’imputato Ojibwa Lakota era segnato. Il processo infatti fu una farsa che ricalcò un copione già scritto: la giuria era composta esclusivamente da bianchi. Nel 2003 i giudici del 10° Circuito dichiararono: “Gran parte del comportamento del governo nella riserva di Pine Ridge su quanto è accaduto a proposito del Signor Peltier è da condannare. Il governo ha trattenuto delle prove ed ha intimidito testimoni. Questi fatti sono incontestabili”. Centinaia di singoli cittadini, associazioni e comitati in tutto il mondo hanno sostenuto la causa di Peltier, raccogliendo milioni di firme e sottoscrivendo migliaia di appelli. Si sono occupate del suo caso anche personalità come Desmond Tutu, il Dalai Lama, papa Francesco, David Sassoli, istituzioni come il Parlamento europeo, organizzazioni come Amnesty International, artisti come Robert de Niro, Robbie Robertson, Bruce Springsteen e tanti altri. La sua tragica vicenda è stata dettagliatamente raccontata dal regista Michael Apted, nel film documentario del 1998, Incident a Oglala. In una delle tante lettere scritte dal carcere Peltier denunciava: “Nelle terre indiane e in tutto il mondo ci sono uomini che lottano ogni giorno per la libertà. L’America ha più gente in prigione di ogni altro Paese e il nostro sistema giudiziario è ormai un’industria, non un mezzo per cercare la giustizia”. Alla soglia degli ottant’anni, Peltier è duramente provato e malato. Lo scorso gennaio è anche risultato positivo al Covid, fenomeno molto frequente nelle carceri americane, così la sua salute è diventata ancor più precaria. In un commovente messaggio spedito ai sostenitori della sua causa, Leonard scrisse: “Ho sacrificato tutti questi anni di vita al mio popolo. Sono stanco. Per anni ho nascosto le mie sofferenze. Ho sorriso quando volevo piangere. Ho riso quando mi sentivo morire. Ho dovuto guardare le fotografie dei miei bambini per vederli crescere. Ho perduto il piacere di stare con gli amici. Ho perduto la gioia di passeggiare nei boschi. Ho perduto la mia libertà. Vi prego, non dimenticate che in tutto il mondo i popoli indigeni sono oppressi. Vi prego, non vi dimenticate di me, domani”.