Il carcere non porta voti di Stefano Cece L’Opinione, 12 settembre 2022 C’è un allarme silenzioso e silenziato che non trova (mai) il giusto spazio sull’informazione dominante in Italia: dall’inizio dell’anno sono 59 (numeri ufficiali) i detenuti che si sono tolti la vita, alla media di uno ogni cinque giorni. Non si contano poi i numerosissimi atti di autolesionismo. Assente dal dibattito politico in questa campagna elettorale, la questione Giustizia dovrebbe invece acquisire un peso specifico dirimente, centrale, ineludibile, al pari naturalmente della condizione della comunità penitenziaria (operatori compresi). È il desolante quadro di un malessere cupo che affonda le sue radici nel totale disinteresse verso l’esecuzione penale. All’inerzia del mondo politico si contrappongono comunque lodevoli eccezioni, come l’Unione delle Camere Penali Italiane, che attraverso il suo Osservatorio Nazionale denuncia le innumerevoli violazioni di legge perpetrate nei confronti dei detenuti, in palese contrasto con i principi costituzionali. Senza dimenticare che le problematiche relative alla detenzione rimangono sempre al centro delle battaglie delle associazioni di settore. A cavallo di Ferragosto era stata proprio l’Ucpi a scrivere ai politici chiedendo impegni concreti e programmatici in tema di giustizia anche per rispetto dei cittadini-elettori. Fra i 5 punti si è posto l’accento sul “Rilancio della riforma dell’ordinamento penitenziario quale disegnato dal prezioso lavoro degli stati generali dell’ordinamento penitenziario del 2017, condiviso da magistratura, avvocatura, personale della amministrazione penitenziaria e operatori carcerari”. “Le condizioni di vita nelle carceri italiane sono tra le peggiori d’Europa - ha scritto l’Ucpi - Nonostante le procedure di infrazione e le condanne Edu, sovraffollamento e precarietà della situazione igienico-sanitaria sono la costante; lo Stato non si è rivelato in grado di garantire gli standard minimi previsti dalle Convenzioni internazionali e comunque di dare risposte strutturali adeguate. È necessario ritrovare la consapevolezza istituzionale per operare secondo Costituzione. I principi costituzionali impongono che sia finalmente abbandonata l’idea carcerocentrica della sanzione penale e le ostatività; debbono invece essere valorizzate le forme alternative alla detenzione, il potenziamento di percorsi di reinserimento, l’ampliamento dei casi di oblazione e il ricorso a condotte riparatorie. Fondamentale è da parte del Legislatore una concreta opera di depenalizzazione. L’intervento riformatore dovrà avere ad oggetto l’intera materia dell’esecuzione penale; in questa prospettiva è necessario recuperare il prezioso lavoro svolto dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale promossi nel 2017, le cui pregnanti risoluzioni non sono state fino ad oggi recepite in specifici provvedimenti legislativi. Il carcere non può essere la risposta ai fenomeni di marginalità sociale ma l’extrema ratio in assenza di alcuna altra possibilità di esecuzione alternativa della pena e comunque in esso devono essere garantite condizioni per il recupero del condannato. La custodia cautelare in carcere non può che assumere la dimensione di misura residuale, dovendosene limitare il ricorso solo alle ipotesi di gravi reati e per esigenze di cautela che non possono essere affrontate con altre modalità”. A sottolineare questo disagio, neanche a dirlo, è Mauro Palma, Garante nazionale dei diritti dei detenuti, secondo il quale “il carcere non porta voti”. C’è poi una contabilità delle morti nelle patrie galere che non rientra nelle statistiche: se ad esempio un detenuto che ha tentato il suicidio in carcere entra in coma, va in ospedale, ma morendo tempo dopo all’interno del nosocomio non viene contabilizzato tra i suicidi negli istituti penitenziari. È lo stesso Palma a lanciare un appello a tutti i partiti e ai loro leader di riferimento: “Il carcere richiede uno sguardo ampio e prospettico capace di superare la tendenza di gran parte dell’attuale dibattito politico a guardare solo all’immediato”. Poi l’invito del Garante alle forze politiche e ai candidati “a mettere al centro dei loro programmi il tema dell’esecuzione penale, non per proporre facili e talvolta vuoti slogan di bandiera ma per affrontare concretamente i problemi”. Palma chiede ai partiti un brusco cambio di rotta, cioè accendere la spia per una finalità che deve essere comune: “Il carcere sia un luogo adeguato per chi vi opera e funzionale per chi vi è ristretto, che dia la possibilità a tutti di tornare nella società. Alcune criticità del sistema possano trovare risposte comuni, su almeno quattro punti, al di là delle diversità di idee sul carcere. Proposte che non possono non trovare spazio nel dibattito preelettorale, nei programmi e negli impegni dei partiti e delle coalizioni”. Riportare temi di questa portata all’attenzione dell’opinione pubblica significherebbe misurare a che punto è il grado di civiltà raggiunto dal nostro Paese, nonostante i Referendum promossi dalla Lega e dai Radicali dello scorso giugno sono stati affossati sul nascere, il tutto grazie alla mordacchia che l’informazione ha messo sul tema. Condivisibili anche le parole del ministro uscente, Marta Cartabia: “Un efficace sistema di giustizia sia strettamente connesso con il benessere collettivo della vita sociale. Esiste una stretta correlazione tra certezza e tempi della giustizia e ambiente favorevole agli operatori economici”. Un atto di coraggio, forte, deciso, è quello che si chiede alla politica prima e dopo il 25 settembre. “Era meglio col Covid: a chi bastano 10 minuti di telefonata ogni 7 giorni?” di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 12 settembre 2022 Con la fine delle norme di sicurezza nelle carceri si torna al regime precedente, fatto di poche telefonate e contatti con i familiari. La prigione è - tra le altre cose - un luogo di paradossi. Di questi giorni infatti nel “pianeta carceri” si può constatare che c’è un sentimento nuovo: il rimpianto per la pandemia. È finito infatti con il 30 agosto ogni “regime speciale” attuato per la pandemia e tutta la vita, “dentro”, torna come prima. Una bella cosa, si potrebbe pensare: era meglio prima, no? Posizione errata: il “prima” presentava aspetti peggiori del “durante”. Nonostante le regole di comportamento, nonostante le mascherine obbligatorie, nonostante che alcuni si siano effettivamente infettati anche in prigione, pochissimi si sono ammalati. Quando arrivò e deflagrò la pandemia ovunque ha portato a chiusure, ha causato arresto di attività, ha comportato lo star chiusi e fermi. Ma questa è la norma in galera! Non è cambiato molto per i detenuti, dopo tutto. Sicuramente alcuni disagi: l’interruzione più o meno durevole delle attività; sospeso l’ingresso dei volontari; meno movimento tra le sezioni degli edifici. Si interruppero i colloqui in presenza con i propri familiari, questo è vero, ed è stato un problema. Però erano state concesse tre telefonate a settimana, portando il monte-minuti di conversazione con i propri cari da dieci a settimana a ben trenta! In più si sono potenziate le connessioni via Skype per sostituire i colloqui, il che ha consentito anche a parenti che abitano molto lontano di rivedere i propri cari detenuti: era un bel miglioramento! E non finiva qui: la Telecom ha fornito numerosi smartphone a tutte le carceri e così alle telefonate normali e al collegamento Skype si aggiungevano le video chiamate con WhatsApp: tre o quattro al mese da quindici minuti! Occorre considerare per farsi una chiara idea che il regime standard per i detenuti “comuni” (non parliamo di coloro che sono in alta sicurezza) è di avere un massimo di sei ore di colloquio al mese con i propri familiari, più quella telefonata da dieci minuti a settimana. Se ci si prende la briga di far la somma, sono tre giorni all’anno di colloqui, più otto ore di conversazione telefonica, sempre in un anno intero. Non molto, vero? E ora finisce l’emergenza, ora finisce la “chiusura” - concetto che per le prigioni appare davvero comico - e dunque, via tutto! Si torna a una telefonata da dieci minuti alla settimana, si cancella WhatsApp, pare che rimarrà Skype, ma con limiti e distinguo. Come prima, appunto. Davvero si rimpiange il Covid: quando c’era si sentivano un po’ di più i coniugi, i figli, i genitori, i fratelli. Si vedevano le facce dei familiari, si era in qualche modo più in contatto: benedetto Covid! Non ci resta che contare sul virus delle scimmie, su qualche altra bella pestilenza… dobbiamo metterci tutti a “fare il tifo” - espressione che diventa grottescamente letterale - per un qualche bacillo. Viene da scherzarci un poco, per non affliggersi troppo. Ma perché lassù in alto, là dove si prendono le decisioni, là dove si amministra, non comprendono che lasciar parlare un detenuto con la propria famiglia una o due volte in più non riduce la durata della pena, non è “allarme sociale”, non è un vituperato sconto facile? Che non c’è poi così tanto di terribile se un detenuto può vedere il viso della moglie, della mamma, o dei suoi bambini per dieci minuti ogni tanto? Anzi, sarebbe normale. “La giustizia non è un mondo a parte. I partiti la rimettano in sesto o la recessione sarà ancora più dura” di Errico Novi Il Dubbio, 12 settembre 2022 “Sappiamo bene cosa serve alla giustizia e a noi avvocati. Ora è necessario capire se ne sono consapevoli anche i partiti”. La presidente del Cnf Maria Masi, più che una sfida, rivolge alla politica una richiesta di chiarezza in vista del voto, del fatidico 25 settembre. Ricorda le vere emergenze del sistema giudiziario, dalle “carenze di organico nei tribunali” alla “persistente difficoltà di accesso agli uffici”, e le attese della professione forense, dall’equo compenso agli interventi sulla natura giuridica degli Ordini. Non si tratta di un dialogo a distanza: dopodomani, mercoledì 14, nella sede del Cnf, avvocatura istituzionale, Organismo congressuale forense e partiti si guarderanno negli occhi e si parleranno. Proprio la presidente Masi ha voluto un incontro per mettere sul tavolo l’agenda degli avvocati, e verificare se gli schieramenti sono disponibili ad attuarla. Interverranno i responsabili Giustizia dei partiti. Sarà anche l’occasione per un confronto elettorale sulla giustizia che finora la campagna per le Politiche ha offerto sì e no a sprazzi. Qual è la prima richiesta degli avvocati? Non usare più la giustizia come pretesto per gli slogan ma risollevarne le carenze con concretezza? Vorremmo che si smettesse di considerare la giustizia come una monade staccata dal resto. Com’è possibile trascurare la tutela dei diritti in un momento del genere, come se non facesse parte dell’ecosistema sociale? È l’impressione che ricava dalla campagna elettorale? Sì ed è sconcertante, perché anche a non voler cogliere il nesso sistemico che c’è fra giustizia e sistema sociale, fra giustizia ed economia, molto empiricamente si dovrebbe guardare alle conseguenze che la crisi, la recessione incombente, rischia di produrre sulla tutela dei diritti. È chiaro che se si tende a una fase di impoverimento e di difficoltà, aumenteranno i casi di chi è moroso, dei padri separati che non riescono a coprire le spese di mantenimento, perché magari quella cifra che hanno versato finora per le bollette non basterà a coprirne neppure una, di bolletta. Potremo avere più casi di licenziamento. Sono tensioni che pioveranno addosso a noi avvocati. Ma se non c’è una macchina giudiziaria che funziona davvero non saremo in grado di assicurare la tutela di quei diritti. Senta, lei coglie nella politica questa “dissociazione cognitiva”, chiamiamola così, dopo aver constatato la “distrazione” della campagna elettorale rispetto ai temi della giustizia? Be’, mi pare che il discorso elettorale sia evidente a tutti: non si dà adeguata importanza alla giustizia. Non la si considera un tema centrale. Vuole un esempio? Prego... Dei suicidi in carcere chi parla, a parte il Papa e i come sempre encomiabili radicali? Praticamente nessuno. Noi dedicheremo a un dramma così atroce una sessione del nostro congresso nazionale forense di Lecce. Il Cnf ha un dialogo e un rapporto costanti col Garante dei detenuti: un canale sempre aperto a partire dal protocollo che abbiamo sottoscritto nel febbraio scorso. Ma è la politica innanzitutto che deve affrontare con coraggio la situazione delle carceri. All’incontro con i partiti, di certo, verificheremo anche chi ha cuore il tema. Su cos’altro li interrogherete? Sull’occasione sprecata per l’equo compenso, sulla riforma fiscale, sulle idee che le forze politiche hanno rispetto alla natura giuridica degli Ordini forensi, solo per fare degli esempi. Ecco: noi avvocati sappiamo chi siamo. Vorremmo capire se lo sanno anche loro. A proposito di equo compenso: gli spiragli per approvare la legge ci sono ancora o no? Se ci sono, i partiti dovrebbero avvertire il dovere di approvare il ddl sull’equo compenso in extremis. Noi professionisti siamo stati strumentalizzati, schiacciati dai contrasti della campana elettorale. Non è possibile assistere a centrodestra e centrosinistra che si palleggiano le responsabilità. Capiremo, da quello che accadrà nelle prossime ore, che posto occupiamo nelle priorità della politica. A fine 2020 il Cnf ha presentato al governo una proposta sull’uso del Pnrr, con la “persona al centro”. Un disegno sulla nuova giustizia basato su razionalizzazione normativa, managerialità e formazione dei magistrati. È ancora attuale? Attuale? Ogni idea di nuova giustizia riteniamo debba partire da lì. Dovrebbe essere il riferimento per i prossimi anni. Ne parleremo all’incontro con i partiti, certamente. Va ricostruita la fiducia nella giustizia: è necessario andare oltre la riforma del Csm appena approvata? Serve tempo. Inutile illudersi. E certo, noi come avvocatura istituzionale abbiamo espresso più di una perplessità sull’efficacia della riforma. Siamo disponibili a verificare le nuove norme alla prova dei fatti. Ma è impensabile attendere che entri a regime la nuova impalcatura dell’ordinamento giudiziario senza nel frattempo agire con interventi più immediati. Innanzitutto perché quella fiducia dei cittadini nella giustizia è compromessa sì dagli scandali, ma prima ancora dall’inefficienza del sistema. A quali interventi si riferisce? Nel mio distretto, Napoli, ci sono vere e proprie interruzioni del servizio giustizia, per carenza di personale amministrativo. In tante altre sedi si assiste a un analogo arresto della macchina giudiziaria: cito i casi recenti di Monza, Livorno, Genova. Si interrompe una funzione pubblica, non so se è chiaro. Ed è insopportabile nel momento in cui abbiamo vincitori di concorso pronti a colmare le carenze di personale, e pure le risorse per assumerli. Ma è chiaro che il sistema va ristrutturato in modo da prevenire le emergenze. E quale può essere la strada? A breve valuteremo tempi ed efficacia del reclutamento dall’ultimo concorso per 500 magistrati. Noi abbiamo presentato una proposta sull’accesso in magistratura che prevede di poter attingere anche dalla professione forense. Ripeto: non si può aspettare che la riforma produca, magari fra qualche anno, i primi effetti. Naturalmente c’è un’opera da compiere anche sul piano culturale. Dai nuovi rappresentanti del Csm, dalla magistratura in generale, ci aspettiamo una comunicazione diversa, una capacità di rivolgersi ai cittadini e prendere un impegno preciso sul fatto che le vicende del passato non si ripeteranno più. Ora le toghe accusano i partiti di volerle colpire... Dalla politica ci si aspetta innanzitutto che sappia mettere a frutto le risorse economiche disponibili. A proposito dei concorsi per il personale, moltissimi di coloro che li hanno superati e vinti sono avvocati. Ristrutturare la giustizia non è una promessa vacua, insomma... Non lo è a condizione di sciogliere tutti i nodi che la soffocano. Tra i più insopportabili c’è il problema dell’accesso. Ancora persistono molte delle limitazioni fisiche introdotte con l’emergenza pandemica. Vanno superate anche per produrre, attraverso la forza dei simboli, un effetto di rassicurazione dei cittadini: devono vedere che la giustizia è un presidio accessibile. Ecco, dai partiti ci interessa sapere anche questo: se condividono l’idea di un giustizia davvero accessibile a tutti, che non resti più il solo ambito ancora stretto nelle maglie dello stato d’emergenza. Alcune riforme recenti presentano aspetti discutibili: in quella tributaria c’è un rigurgito di centralismo? Presenta di sicuro passaggi che non condividiamo. Tra i più problematici c’è l’estensione del patrocinio ad altre categorie professionali. Non si tratta di una difesa incondizionata della categoria, ma di un principio costituzionale. E se permette, il fatto stesso che la titolarità della difesa in giudizio venga considerata come una prerogativa non solo dell’avvocato ci ricorda quanto la riforma dell’avvocato in Costituzione resti necessaria. E che anzi, rispetto alla formulazione da noi già proposta, può essere ulteriormente arricchita di contenuti. Nel processo amministrativo rischiano di scaricarsi tutte le tensioni efficientiste indotte dal Pnrr? Vedremo. Finora per fortuna è l’ambito in cui le innovazioni procedurali hanno offerto la prova migliore, anche grazie al contributo di idee venuto dall’avvocatura. Ma c’è da restare vigili. Nell’ascoltare l’avvocatura, la politica deve anche compiere uno sforzo di umiltà? Umiltà vuol dire ascoltare chi conosce i problemi da vicino, li osserva con i propri occhi ogni giorno. Anche nella fase politica che sta per concludersi, gli esempi virtuosi di intervento sulla giustizia sono quelli in cui il contributo tecnico dell’avvocatura è stato recepito in maniera giusta. Non si tratta, lo ribadisco anche in questo caso, di una pretesa rivendicativa. È chiaro che l’avvocatura deve tutelare se stessa, ma nel farlo si occupa innanzitutto dell’interesse generale. L’impegno per l’ambiente e il diritto all’acqua può esserne considerato un esempio? Nella parte che resta del mandato mio e dell’attuale Consiglio nazionale forense, ci sono obiettivi che riguardano la natura degli Ordini, l’avvocato in Costituzione e certamente anche la questione dell’ambiente, dei diritti che le sono connessi. Presidente, lei ha sempre dedicato il suo impegno istituzionale anche alle pari opportunità. Garantirle significa attuare in pieno quella “giustizia con la persona al centro”, che guarda appunto ai bisogni di ogni singola persona nella sua diversità, anche di genere, su cui è concepita la vostra proposta per il Pnrr? È una chiave interessante nella misura in cui la giustizia deve salvaguardare e contemplare tutte le differenze, quelle di genere e tutte le altre possibili. Compito della giustizia è superare le differenze che limitano l’accesso ai diritti, che si tratti di limiti reddituali o di altra natura. Ecco, la giustizia con la persona al centro deve essere così: deve avere la forza di non escludere nessuno. Riforma giustizia, le intenzioni non bastano: la priorità è una politica non piegata alle toghe di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 12 settembre 2022 Se stiamo alle parole ed agli impegni proclamati in queste settimane di campagna elettorale, dovremmo trovarci alla vigilia di un nuovo Parlamento in grado, numeri alla mano, di realizzare in un batter d’occhio alcune tra le più agognate riforme liberali della giustizia penale. Riassumiamo. La separazione delle carriere, cioè la madre di tutte le vere riforme del processo penale, sarebbe (stando alle parole di oggi) la priorità assoluta almeno dell’intero centrodestra oltre che, altrettanto certamente, dell’area liberale che fa riferimento a Calenda e Renzi. Vale a dire, sondaggi alla mano, una solida maggioranza assoluta in Parlamento, a prescindere dagli assetti di governo. Lo stesso vale per la inoppugnabilità delle sentenze di assoluzione. Meno chiara la situazione in tema di divieto o forte limitazione del distacco dei magistrati presso l’esecutivo e di ritorno alla prescrizione sostanziale. Quanto al CSM, tutti preannunciano riforme epocali, ma sono parole d’ordine generiche che non aiutano a comprenderne la direzione. Accontentiamoci, forti degli insegnamenti oraziani sul senso della misura. Intendiamoci, noi vogliamo e dobbiamo dare piena fiducia a questi espliciti, inequivocabili impegni elettorali. Ma siamo anche consapevoli, in primo luogo, di quali resistenze fortissime incontreranno queste belle idee riformatrici. Se qualcuno pensa, per capirci, che la magistratura italiana se ne starà li a guardare, umilmente rispettosa (come pure dovrebbe) della volontà popolare espressa in una elezione democratica, beh costui ha vissuto in un altro Paese in questi ultimi trent’anni. Se volete un assaggio, leggete cosa dice e scrive il dott. Scarpinato, ex magistrato, candidato blindato nelle liste dei 5 stelle. Le idee riformiste espresse in ogni sede dall’ex collega, candidato anch’egli, dott. Carlo Nordio, non sono, come sarebbe normale e legittimo sostenere, non condivisibili o socialmente dannose; sono addirittura incostituzionali, insomma grossomodo eversive. Dunque, occorre una politica forte, un Parlamento autenticamente indipendente, capace di rivendicare il primato della propria legittimazione democratica e popolare quale voluta dalla nostra Costituzione. Occorre una classe dirigente orgogliosamente consapevole di essere espressione di un potere (quello legislativo) che nasce dalla volontà popolare, a fronte di un potere -ma meglio sarebbe dire, un ordine- (quello giudiziario) che ha una derivazione puramente burocratica, ancorché di rango costituzionale. I precedenti non sono felicissimi. Quando il corpo elettorale, piaccia o no, elesse una larga maggioranza parlamentare sotto la guida di Silvio Berlusconi, pure si parlava di separazione delle carriere; con in più lo straordinario vantaggio di un referendum servito su un piatto d’argento dal glorioso partito radicale, e dunque pronto per essere plebiscitato dalla schiacciante maggioranza degli italiani. Ma Berlusconi, che guarda caso stava vivendo momenti giudiziari difficilissimi, inopinatamente invitò il proprio elettorato ad andare al mare, invece che a votare SI. Alla separazione delle carriere, disse, ci avrebbe pensato il Parlamento, forte in quel momento di una maggioranza prossima, se non ricordo male, al 60%. L’elettorato in buona parte seguì quello sciagurato invito del leader, e non si raggiunse il quorum (mentre tra i votanti il SI raggiunse percentuali prossime all’80%). Naturalmente, la separazione delle carriere fu definitivamente seppellita. La morale della favola è molto semplice. E’ un bene che le intenzioni riformatrici di una così larga fetta delle forze politiche in competizione mostri di avere ben compreso quale sia la strada obbligata di una autentica riforma della giustizia e del suo ordinamento costituzionale, resa cogente dal varo -oltre venti anni fa, ormai! - del nuovo art. 111 della Carta costituzionale, che ha definitivamente sancito la natura accusatoria del nostro processo penale. Ma in questo Paese, sui temi della Giustizia penale, le maggioranze non sono sufficienti, purtroppo. Occorre una Politica forte, indipendente, non intimidita; occorre impegnarsi, culturalmente ancor prima che programmaticamente, per un drastico riequilibrio tra poteri dello Stato. Occorre insomma che la Politica - di ogni colore - trovi la forza di rivendicare il proprio primato democratico. E qui, purtroppo, le buone intenzioni non bastano. Riformare la giustizia, ricomporre la frattura di Mario Campanella Corriere della Calabria, 12 settembre 2022 Chiunque vinca anche se i pronostici sembrano assai chiari, dopo il 26 settembre avrà il compito di pensare a ricomporre una frattura esistente da 30 anni, e cioè dall’avvio di Tangentopoli, tra istituzioni, avviando e portando a compimento una riforma della giustizia moderna. Berlusconi, diciamolo chiaramente, nei periodi in cui ha governato ha pensato solo a norme spezzatino che lo hanno aiutato personalmente ma che non hanno prodotto benefici sul sistema. Il Pd, dal canto suo, sembra avere smarrito una certa tradizione libertaria, optando per una difesa corporativa della magistratura Lo stesso dicasi per i cinquestelle, con le norme Bonafede cassate fortunatamente dal governo successivo Una vera riforma della giustizia dovrebbe essere condivisa, fatta non contro la magistratura ma, nei limiti del possibile, insieme ad essa, guardando alle prospettive future e non all’ immediato. Lasciando da parte separazione delle carriere e responsabilità civile dei giudici (per la seconda forse ci vorrebbe una modifica della carta) una delle prime urgenze è la riforma della custodia cautelare. Il suo abuso, purtroppo, è noto sin dal 1992 e attraversa reati di ogni genere. La carcerazione preventiva dovrebbe essere un fatto eccezionale e, per questo, necessita di un intervento legislativo serio. Ci sono casi attivi di incensurati lasciati per anni in carcere, in attesa di giudizio, che gridano vendetta. Così come non è pensabile che si resti in attesa di provvedimenti subendo la dura legge alternativa dei processi mediatici, dietro cui c’è gente che soffre e che, in molti casi, è anche innocente. Un altro argomento sarebbe la depenalizzazione di reati che potrebbero diventare sanzione amministrativa e che intasano il lavoro giudiziario. Gli ultimi provvedimenti della Cartabia sembrano mettere un bavaglio alla stampa e anche questa è una soluzione peggiore del male da combattere. Per questo, sarebbe sacrosanto non rendere pubbliche intercettazioni o discussioni prive di significato penale che mettono nella stessa pentola presunti colpevoli e conclamati innocenti. Altra cosa da fare sarebbe la cancellazione della legge Severino, che anticipa di fatto giudizi sul versante amministrativo e che colpisce con sospensioni azzardate. Anche la legislazione antimafia, a mio avviso, andrebbe riguardata, nella parte ancora molto oscura del concorso esterno, spesso tramutatasi in assoluzioni tardive (Giacomo Mancini) dopo avere infangato il nome di persone integerrime. Se vincerà il centrodestra, come sembra, il Pd e il terzo polo dovranno concorrere a creare le condizioni di una rivisitazione del sistema, non ignorando la questione sempre aperta dei collaboratori di giustizia. Su di loro il giudizio è sempre dubbio, considerando il passato, ma è innegabile che possano essere prezioso strumento di investigazione. La veridicità di quanto dicono, però, va accertata, e nel caso vanno introdotte pene aggiuntive se si tratta di dichiarazioni mendaci. Anche il sistema di nomina, e con esso l’intero CSM, deve essere oggetto di modifica. Gli automatismi non premiano il merito, le valutazioni vanno fatte anche e soprattutto in considerazione delle risultanze delle operazioni effettuate. E il consiglio superiore deve abbandonare la logica del correntismo. Una riforma della giustizia, anche modificando la costituzione, dovrebbe comportare ostacoli per i magistrati che vogliono candidarsi alle elezioni . Se si rafforza l’autonomia è giusto preservare l’equilibrio tra poteri, senza che nessuno travalichi l’altro, com’è successo in questi lustri. Il ventennio di guerra tra magistratura e Berlusconi, leader allora indiscusso di una coalizione, ha impedito una riforma strutturale quanto mai necessaria. La politica non deve autotutelarsi ma tutelare i cittadini dagli abusi, garantendo a tutti la libertà come valore assoluto. La riforma va fatta non solo con i magistrati ma anche con gli avvocati, attori indispensabili delle garanzie costituzionali. In fondo, ma non per ultimo, qualcuno dovrà occuparsi della vergogna delle carceri sovraffollate. Mancherebbero le condizioni per realizzare l’amnistia negata finanche a San Giovanni Paolo II, che la chiese invano alle Camere unite, ma la depenalizzazione, le misure alternative, soprattutto il recupero sociale sono sigilli di quella Carta di cui si parla troppo a sproposito e che viene quotidianamente ignorata “La lunga strada verso il garantismo” di Claudia Diaconale L’Opinione, 12 settembre 2022 Riconosciuta professionista nel mondo della giurisprudenza, la dottoressa Augusta Iannini nella sua lunga carriera è stata, tra l’altro, magistrato di sorveglianza presso la Corte d’Appello di Roma per gli istituti penitenziari di Regina Coeli, Rebibbia Femminile, Rebibbia Reclusione e Civitavecchia; giudice istruttore del tribunale di Roma; direttore generale della Giustizia Penale; capo del Dipartimento per gli Affari Giustizia e, dal 2012, Presidente dell’autorità garante per la tutela dei dati personali. Ha ricevuto diversi premi nel corso della sua carriera come Cavaliere dell’Ordine Nazionale della Legion d’Onore, il premio Bellisario per la giustizia e il Minerva alla carriera. Avendo avuto modo di conoscerla alcuni anni fa durante un convegno, guarda caso sulla Giustizia Giusta, il nostro confronto inizia spontaneamente constatando l’attuale stato culturale italiano: “Siamo un po’ troppo massimalisti in tutto, invece le sfumature sono importanti”. Così dichiara la dottoressa Iannini, con pacatezza e, allo stesso tempo, con ferma consapevolezza. Il tema della giustizia non può essere affrontato impulsivamente, di pancia. Nonostante la prima reazione umana sia istintiva, poi bisognerebbe ragionare a mente lucida. Eppure… La giustizia si presta molto, purtroppo, a questo tipo di interferenza: il diritto ancora non viene considerato come una “scienza” come la matematica, la fisica o l’ingegneria. C’è la convinzione diffusa che chiunque possa parlare di giustizia, confondendo i contenuti. Invece ci sono delle regole, regole scientifiche come l’interpretazione delle norme, che possono condurre a risultati che non corrispondono alla giustizia intesa come valore generale. Però il fondamento dello Stato di diritto è esattamente questo: applicare le regole. A prescindere se si condivide o meno il risultato che l’applicazione delle stesse produrrà. Se volessimo utilizzare un’espressione banale ampiamente usata, potremmo sintetizzare chiedendoci: è meglio un colpevole fuori dal carcere o un innocente dentro? La risposta per me è ovvia: è meglio un colpevole fuori. La sentenza giusta non è quella che corrisponde al sentimento istintivo di chi la valuta. Però questo è molto difficile da far capire perché la vendetta è un sentimento umano non eliminabile. C’è anche una responsabilità da parte dei media nel come pongono la questione giustizia all’opinione pubblica? Perché il tema giuridico non viene affrontato in maniera scientifica? La frase al di là di ogni ragionevole dubbio non è una formula estetica, ma una questione sostanziale: finché esiste un margine di dubbio su come debba essere valutata una circostanza, non può esserci un giudizio di colpevolezza. Ogni qual volta un fatto si presta a più di un’interpretazione c’è il dubbio. Questo è il motivo per cui a volte si arriva a delle assoluzioni che il grande pubblico non capisce. Ma se si applica correttamente la formula, non si può condannare senza certezza della colpa. Il garantismo ovviamente implica anche altri aspetti, ma questo è il punto di partenza fondamentale. Che tutto sommato non è poi così difficile da capire. Eppure, molto spesso il garantismo viene scambiato o presentato come innocentismo, anche se sono due posizioni profondamente differenti... Peggio ancora, può succedere che il garantismo venga scambiato con la volontà di coprire o addirittura favoreggiare il crimine. Ma questa è la prospettiva dei giustizialisti. Perché quando si arriva - applicando le regole - a un verdetto inequivoco di colpevolezza, si deve solo quantificare la pena. Anche in questo caso seguendo i criteri prestabiliti dalla legge. Ma serve la certezza della colpevolezza. Infatti, si deve garantire anche la certezza della pena. Ma il garantismo si batte affinché questa pena sia giusta e non vendicativa. Come, tra l’altro prevede la nostra Costituzione: la pena ha lo scopo di riabilitare la persona rea per consentirle il corretto reinserimento in società... Questo è un concetto molto difficile da far accettare, ma è esattamente così: la pena in carcere dovrebbe essere scontata con il fine ultimo del reinserimento nella società. Questo implica fornire gli strumenti idonei per la realizzazione dello scopo. Purtroppo, le statistiche non confortano: conosciamo tutti il rischio della recidiva, di reiterare il crimine già commesso, dopo aver scontato la pena. Ma non possiamo non valutare le carenze strutturali e la mancanza di reali percorsi di reinserimento. Vanno impiegati mezzi opportuni, perché bisogna certamente migliorare i dati numerici, ma ribadire il principio fondamentale per il quale se anche una sola persona riesce a compiere il difficile processo del reinserimento, il sistema ha funzionato. Tra l’altro, è proprio la statistica che ci dice che per tutti i detenuti che accedono ai percorsi alternativi (che non vuol dire non scontare la pena, ma avere la possibilità di impiegare le proprie giornate in maniera diversa che essere rinchiusi in cella a non fare niente) il rischio recidiva si abbatte di oltre il 90 per cento. Perché quindi è così difficile mettere in pratica ciò che la legge già prevede? La mia esperienza di magistrato risale a molti anni fa, agli anni ‘80, però fu molto interessante proprio perché era all’inizio dell’applicazione della legge Gozzini (legge che implica la possibilità di modulare e graduare la pena nel corso dell’esecuzione in modo da favorire il processo rieducativo del condannato, ndr). In alcuni istituti penitenziari era stato fatto un investimento per studiare come applicare nel modo migliore possibile questa nuova legge. Il numero dei detenuti e l’automatismo che si è instaurato successivamente in alcuni istituti, come la liberazione anticipata ed i permessi premio, non ha giovato a rassicurare l’opinione pubblica. Certe misure poi, oltre all’auspicabile reinserimento nella società, hanno avuto lo scopo di deflazionare il numero dei detenuti in carcere e questo ha contribuito a creare nell’opinione pubblica una percezione sbagliata, nonostante lo scopo di evitare il sovraffollamento negli istituti di pena fosse giusto. Ci sono poi tante altre criticità: la scarsità di lavori reali da svolgere una volti usciti dal carcere; l’oggettiva difficoltà di seguire il percorso di ogni singolo detenuto. Ma sono comunque convinta che il fine del reinserimento vada perseguito nonostante le difficoltà. Tutte quelle norme che sottraggono una persona al percorso del reinserimento, non le condivido. Quanto più il crimine è odioso tanto più bisognerebbe lavorare con la persona che ne è dichiarata responsabile. Nonostante il tema delle strutture carcerarie non sia stato ancora risolto, nonostante tutti gli anni passati a discutere del problema, bisogna migliorare il sistema. La legge Gozzini non può essere utilizzata solo come strumento per mantenere la disciplina in carcere: il fine era sicuramente anche quello di sgravare le strutture carcerarie, ma l’obiettivo primario della legge era quello di incentivare comportamenti virtuosi in modo da rendere il reinserimento effettivo. È paradossale ma il reinserimento, finché si è protetti dal carcere e dalla comunità terapeutica, non può essere realmente verificato proprio perché si ha ancora un sostegno che, una volta finita di scontare la pena, non ci sarà più. Se volessimo generalizzare, l’opinione pubblica sembra percepire il rientro in società di un detenuto come distante da sé. Manca un po’ la percezione di quanto la società sia unica e che se fallisce il reinserimento di un detenuto fallisce tutta la società civile? C’è solo una percezione di difesa nei confronti di chi ha commesso un crimine, nonostante abbia espiato la pena e si sia reinserito. Le difficoltà sono enormi. Chiunque, consapevole che un proprio dipendente si fosse trovato ad avere a che fare con la giustizia, non sarebbe così disponibile a continuare nel rapporto di lavoro. Il rischio di tutto il mondo della rieducazione è sempre di dover rincorrere delle soluzioni protette: che siano comunità, cooperative o associazioni. Perché per un ex detenuto l’accesso al mondo del lavoro, come un qualunque altro cittadino, è acrobatico. È proprio questo che crea i maggiori problemi: lo stigma sociale, dovuto anche alla errata informazione e alla strumentalizzazione del tema giustizia, impedisce l’applicazione della legge e il reale reinserimento in società di una persona che ha scontato la pena... Il percorso fuori dal carcere, grazie anche agli assistenti sociali e a tutti gli operatori, è fondamentale. Bisogna essere consapevoli che c’è un lavoro enorme da fare ed è sempre in salita. È per tutte le difficoltà di cui abbiamo parlato che il tema giustizia è totalmente assente dalla campagna elettorale? E, oltre a questo, si assiste ad una sorta di blocco: da tempo si fanno gli stessi ragionamenti ma non cambia niente... “Io distinguerei il tema della giustizia civile da quella penale. Il settore civile è un parametro con il quale si misura la crescita della nostra economia. Sono stati fatti notevoli passi avanti. Per esempio, grazie allo strumento della negoziazione assistita ed alla mediazione (legge del 2008 portata avanti dalla stessa dottoressa Iannini, ndr). Trovare un accordo, anche se questo implica la rinuncia di qualcosa da ambo le parti, è preferibile rispetto ad una sentenza. Vittoria e sconfitta sono termini divisivi. L’avvocatura può svolgere un grande ruolo per riuscire a trovare un accordo tra le parti. Poi si possono ulteriormente migliorare gli strumenti e formare una classe forense specializzata nell’utilizzare sistemi alternativi di risoluzione delle controversie. Questo è uno dei modi più immediati per stimolare gli investimenti in Italia. Infatti, se non si riportano gli investitori in Italia, a causa della lungaggine della giustizia civile, non si possono creare nuove occasioni di lavoro con tutte le implicazioni che questo comporta. Per quanto riguarda invece la giustizia penale, non si sono fatti grandi passi avanti. Non si è mai affrontato in modo serio la depenalizzazione, uno dei primi temi da dipanare. Come il tema della giustizia riparativa che non viene mai preso di petto. E, allo stesso tempo, il processo penale che deve essere affrontato in maniera radicale con tutte le garanzie del caso: il ruolo dell’accusa si è espanso in maniera enorme e non è stato in alcun modo bilanciato da analoghi poteri conferiti alla difesa. E, in questo confronto accusa/difesa, il giudice terzo è un po’ venuto meno alle sue funzioni. Anche gli attacchi al rito abbreviato sono attacchi all’efficienza di un sistema: limitare l’accesso al rito abbreviato vuol dire escludere anche la possibilità di concludere un processo in tempi brevi. Condizione necessaria per poter parlare di equo processo. E, d’altra parte, se ci si fida del giudice, perché si vuole limitare il suo ruolo? Andrebbero potenziate tutte le pene alternative: il carcere deve essere l’ultima opzione. Non dovrebbe esistere l’ergastolo ostativo. Ma mi rendo conto che forse non siamo ancora pronti per affrontare questa questione, servirebbe un maggiore coinvolgimento dell’opinione pubblica ed un maggiore approfondimento. Sempre in tema di giustizia penale, lo scorso giugno si è tenuto il referendum (che non ha raggiunto il quorum) dove venivano presentati 5 punti: gli stessi di cui si parla da almeno 20 anni... Devo dire che ho trovato tutti i quesiti difficili da spiegare a chi non è del settore. Allo stesso tempo non si è fatta una campagna di informazione sufficientemente adeguata. È molto difficile fare informazione su queste tematiche perché c’è un naturale atteggiamento di difesa da parte dell’opinione pubblica. Purtroppo, spesso, il ruolo della stampa non aiuta perché banalizza le questioni in nome dell’audience. E il tema del garantismo non porta risultati in termini di audience, perché non è popolare. Le persone non pongono l’attenzione su queste tematiche fino a quando non le riguarda in prima persona. È un tema molto delicato e bisognerebbe andare per gradi. Tornando al tema del carcere, bisogna incentivare il lavoro e lo studio dei detenuti, due elementi fondamentali del trattamento. Un detenuto che consegue la laurea in carcere ha diritto a uno sconto di pena perché ha impiegato il proprio tempo in un percorso virtuoso di miglioramento come essere umano. È riuscito nel difficile processo di trasformazione di se stesso tramite un lavoro di crescita interiore e di autoconsapevolezza. Anche il lavoro in carcere, nel senso dell’acquisizione di una professionalità, dovrebbe essere inquadrato rispetto ai bisogni della società nella quale il detenuto sarà chiamato a reinserirsi. Se servono saldatori, si può provare ad attivare dei corsi all’interno del carcere; se occorrono programmatori informatici, bisogna indirizzarli verso questo percorso di studi. In una parola, il carcere dovrebbe sfornare professionalità competitive rispetto al mercato del lavoro. E forse, in questa prospettiva, anche l’opinione pubblica potrebbe ritenere che ne valga la pena. “Riforma sì, ma anche investimenti” di Claudia Diaconale L’Opinione, 12 settembre 2022 L’avvocato Antonino Galletti, presidente dell’Ordine degli Avvocati di Roma, inizia la nostra conversazione con una battuta che denota una buona dosa di umorismo pragmatico: “Sul tema della giustizia tutti i nostri politici mi sembra che siano un po’ rassegnati… come il traffico a Roma, non ci provano neanche più a combatterlo!”. Rido, di una risata amara. Avvocato, secondo lei perché si è arrivati a questo punto? Perché non c’è la reale volontà di destinare i soldi necessari per far funzionare il sistema giustizia. Sistema che è un apparato complesso, che ha necessità di uomini, mezzi e infrastrutture edilizie e tecnologiche per poter funzionare. Lo Stato italiano investe troppo poco: investe meno di quanto la giustizia produce come utile per lo Stato. Le somme che i cittadini e gli avvocati versano, per esempio, per le marche da bollo ed i contributi unificati, non vengono destinate per intero al comparto giustizia. Ad agosto a Roma ci sono state delle polemiche relative alla decisione, da parte del presidente del tribunale, di sospendere per sei mesi le assegnazioni delle udienze collegiali provenienti dal gip. Quel provvedimento, per quanto contestabile, fotografa una situazione comune in tutta Italia: la mancanza di personale a tutti i livelli. Carenza di organico di circa 1.500 magistrati e scoperture a livello amministrativo che vanno dal 40 al 60 per cento. In queste condizioni, qualsiasi organizzazione o attività non riuscirebbe funzionare. Tanto meno può funzionare il sistema giustizia. Oggi sono gli avvocati che cercano di portare avanti l’efficienza del sistema giustizia, talvolta consentendo di garantire i servi essenziali con personale offerto dalle istituzioni forensi. C’è un abuso dello strumento giudiziario del processo civile da parte della società? Il nostro ordinamento purtroppo ha da sempre dei tempi lunghi, ovviamente per la parte debitrice o quella che ha torto può essere conveniente sfruttare le lungaggini processuali per pagare il più tardi possibile. In ogni caso, i tempi lunghi dei processi sono un problema non solo per i cittadini coinvolti, ma per gli stessi avvocati: implicano un lavoro molto più lungo che difficilmente sarà adeguatamente remunerato. Questo vale anche per clienti grandi come le banche o le assicurazioni, oggi si va al ribasso nel riconoscere il giusto valore al lavoro dei professionisti. Tant’è che il Parlamento ha fatto una legge sull’equo compenso per garantire una soglia di sostentamento minima a tanti professionisti in difficoltà che non sono solo gli avvocati. Oggi la metà degli iscritti agli albi ha ricevuto il reddito di ultima istanza (Il Decreto Cura Italia - D.l. n. 18/2020 - ha istituito con l’articolo 44 il Fondo per il reddito di ultima istanza, con lo scopo di sostenere economicamente lavoratori autonomi e professionisti, iscritti a enti di previdenza obbligatoria di diritto privato, costretti a ridurre, sospendere o cessare la loro attività a causa dell’emergenza Covid-19, ndr). Nonostante ciò, da anni a Roma è l’ordine forense a fornire agli uffici giudiziari mezzi e personale per consentire alla giustizia di funzionare, per esempio al Tribunale civile, a quello dei Minori, al Giudice di Pace o all’ufficio liquidazioni; dunque, non solo gli avvocati non intralciano il funzionamento del sistema, ma pagano addirittura di tasca propria per consentire un migliore funzionamento che consenta di lavorare. È chiaro che tutte queste storture vanno non solo a complicare il lavoro degli avvocati, ma contribuiscono a distorcere la percezione che l’opinione pubblica ha del sistema giustizia nel suo insieme... “Purtroppo sì. Per fortuna oggi la maggior parte dei magistrati concordano con la posizione dell’avvocatura e per questo denunciamo le stesse storture: per prima cosa bisognerebbe ripianare le piante organiche del personale di magistratura e quello amministrativo. A quel punto servirebbe una verifica di almeno cinque anni, nei quali non andrebbero introdotte nuove riforme, per vedere in concreto se il sistema funziona e quali sono gli aspetti da migliorare ulteriormente. Solo dopo che si è messo il sistema in condizione di funzionare si possono fare eventualmente le riforme giuste e necessarie. Perché altrimenti il meccanismo si incepperà sempre. Basti pensare alle sedi giudiziarie. Io parlo di Roma, ma la Capitale ha il tribunale più grande d’Europa: dovrebbe rappresentare un fiore all’occhiello non solo a livello nazionale. Eppure, le nostre sedi giudiziarie sono fatiscenti, quando esistono. Il giudice di pace, per esempio, è ospitato in palazzine a via Teulada costruite per altre finalità; il giudice penale o il tribunale dei minori come quello ordinario hanno tutte sedi sparse sul territorio romano dove manca una vera e propria città giudiziaria. È un sistema fatiscente anche da un punto di vista meramente organizzativo. Sotto la pandemia, per esempio, tanti processi sono stati bloccati perché le sedi giudiziarie non sono ancora in grado di garantire un collegamento telematico adeguato. Nel 2022 è abbastanza inquietante questo stato dell’arte. Cosa ne pensa dei referendum sulla giustizia dello scorso giugno, anche se non è stato raggiunto il quorum? Credo che sia un peccato che non siano passati. Sicuramente avrebbero meritato maggiore attenzione da parte di tutte le forze politiche. I problemi che denunciavano i quesiti referendari riguardano criticità reali: il referendum non è servito, ma si potrebbe porre rimedio con leggi ordinarie. Qualcuno ci deve pensare. Ma sono 20 anni che non si fanno investimenti a riguardo. Il problema reale e concreto sono sempre i soldi. Mi rendo conto che le spiegazioni filosofiche o ideologiche sarebbero più affascinanti. Ma la realtà dei fatti è questa: senza i fondi necessari, non si possono risolvere i problemi strutturali. E fino ad allora non sarà possibile migliorare il funzionamento del sistema giustizia nel suo complesso. Ci vorrebbe una presa di coscienza collettiva e un investimento da parte del nuovo Governo che si formerà. Altrimenti gli italiani saranno sempre più rassegnati e scarsamente considerati nel resto d’Europa e del mondo. Questo naturalmente ha delle ripercussioni anche sulla competitività del Paese: se un operatore economico sa che in Italia per ottenere un decreto ingiuntivo ci metterà almeno 4 mesi, e poi le lungaggini col processo ordinario in caso di opposizione possono protrarsi anche per più di dieci anni, non verrà certo ad investire più in Italia. Ciò penalizza tutti i settori economici e non solo il mondo della Giustizia”. Il funzionamento del sistema giustizia influenza il funzionamento di tutto il sistema Paese. Eppure, per quanto lapalissiano, l’opinione pubblica non riesce a percepire questa interdipendenza... Nella maggior parte dei casi, il cittadino non lo concepisce fino a che non gli capita di trovarsi alle prese con qualsiasi problema giudiziario. Purtroppo, la situazione è drammatica e noi avvocati cerchiamo di svolgere un grande lavoro di mediazione anche per aiutare il cittadino a districarsi tra le lungaggini processuali e burocratiche. Gli stessi magistrati hanno difficoltà a lavorare. Tra l’altro le poche misure che sono state prese nell’ultimo periodo hanno un’utilità a breve termine. Per esempio, l’ultima misura per aumentare il personale, misura possibile grazie al Pnrr, è totalmente insufficiente perché a tempo determinato (nel 2026 scadranno i contratti) e perché ha previsto assunzioni nel ruolo di funzionari, non tenendo conto delle reali professionalità che servirebbero per sopperire alle mancanze sistemiche. Per dare dei numeri, a Roma manca il 15 per cento dei magistrati ordinari, su 202 giudici di Pace ce ne sono solo 62. Su 197 magistrati onorari ce ne sono 99. Manca più del 50 per cento del personale. Sono numeri impressionanti. Ribadisco: per capire la situazione basta pensare che a Roma il presidente del Tribunale è stato costretto a bloccare per sei mesi l’assegnazione dei processi penali di competenza collegiale. La situazione è drammatica, ma la soluzione della maggior parte dei problemi sarebbe a portata di mano, se solo ci fosse la volontà di investire realmente. Qual è la sua valutazione sulla riforma Cartabia? Innanzitutto, è una riforma ancora monca perché mancano i decreti attuativi. Poi bisogna vederla alla prova dei fatti. Credo che senza investimenti su personale e infrastrutture qualsiasi riforma sia destinata a naufragare. Servirebbero delle procedure straordinarie di reclutamento del personale amministrativo, di cancelleria e ufficiali giudiziari. Poi, in realtà, si dovrebbe anche rivedere il concorso in magistratura per rendere più veloce ed ugualmente selettivo il sistema di accesso. Servirebbe investire nell’edilizia giudiziaria per creare strutture adeguate e moderne. Stesso discorso vale per il carcere. La riforma Cartabia in questo senso ha fatto qualche passo in avanti per quanto riguarda la giustizia riparativa, ma non si è mai proceduto ancora ad un processo più ampio di depenalizzazione. Questo crea un sovraffollamento di giudizi e di processi che intasa inutilmente un sistema già in sofferenza. Sarebbe interessante fare una comparazione e vedere quante sono le fattispecie di reato in Italia in confronto a quelle dei Paesi del resto d’Europa. Sono convinto che il dato sarebbe impressionante: non basta introdurre una fattispecie di reato per risolvere un problema e non si ottengono cittadini virtuosi inasprendo il sistema sanzionatorio. Tra l’altro, nel resto d’Europa l’ergastolo non può durare più di 35 anni, in Italia invece un ergastolano ha il fine pena mai... Sì, come se ciò avesse in concreto disincentivato il crimine, invece non solo non è così ma si va ad inficiare il valore rieducativo previsto dalla nostra stessa Costituzione. Non c’è una spiegazione logica. Purtroppo, nel nostro Paese la giustizia non ha l’attenzione che merita, viene strumentalizzata a livello politico, ma non c’è la volontà di provare a risolvere i problemi. Io, da ottimista di natura, credo che riusciremo a risalire la china. Paradossalmente, il fatto positivo è che sta aumentando la percezione del malfunzionamento della giustizia in capo ai singoli cittadini. Non riguarda più solo gli operatori del settore: la necessità di cambiamenti si sta diffondendo a livello generale. E questo può portare ad un reale processo di cambiamento. Siamo ai limiti dello Stato di diritto, ma se i cittadini aumentano la propria consapevolezza possono influenzare anche il dibattito politico e spingere il Governo ad occuparsi del tema giustizia nel suo complesso”. Gratteri: “Riforma Cartabia? In fumo 1 processo ordinario su 2” di Vincenzo Bisbiglia Il Fatto Quotidiano, 12 settembre 2022 “La legge Cartabia, quella che manda in fumo il 50% dei processi, è passata col silenzio-assenso dei giornali”. È durissimo il giudizio di Nicola Gratteri nei confronti della stampa italiana e del ruolo avuto nell’accettare le nuove disposizioni in materia di “presunzione d’innocenza” e di rapporti tra la magistratura e i giornalisti, volute dalla ministra della Giustizia uscente, Marta Cartabia. Oltre alle riforme sull’improcedibilità che affossa i procedimenti penali. Il procuratore di Catanzaro, intervenuto alla festa del Fatto Quotidiano, ospite del dibattito “A che punto è la giustizia?”, moderato da Andrea Scanzi e Valeria Pacelli, ieri è tornato sulla conferenza stampa tenuta a margine della maxi-operazione della scorsa settimana di contrasto alla ‘ndrangheta, durante la quale ha parlato di “202 presunti innocenti”, senza dare ulteriori dettagli. “Quando veniva fatta la legge che impediva ai magistrati di spiegare al territorio determinate operazioni - ha detto Gratteri - i sindacati dei giornalisti non si sono impegnati minimamente per protestare. E allora ho detto ai cronisti calabresi, indispettiti, di non prendersela con me e di andare dai loro editore affinché parlassero con la politica”. Il giudizio di Gratteri nei confronti della gestione Cartabia è tutt’altro che positivo. “Le riforme di quest’ultimo anno non le avrei mai immaginate possibili - afferma il magistrato - a cominciare dall’improcedibilità. Con queste leggi, il 50% dei processi non arriveranno alla conclusione, non si celebreranno. Come se nulla fosse avvenuto. Questa la grande riforma che ha chiesto l’Europa? No. L’Europa ci ha chiesto di velocizzare i processi, non di non celebrarli”. Secondo Gratteri, queste riforme non hanno nulla a che vedere con il funzionamento della macchina giudiziaria. “A 30 anni da mani pulite è arrivato il momento della resa dei conti della politica - avverte - Quale momento migliore ora che la credibilità è ai minimi termini?”. La politica e il contrasto alle mafie è un altro cavallo di battaglia di Gratteri. E anche su questo punto non va per il sottile. “Dal giorno in cui si è insediato e finché io non sono andato in tv a criticarlo, Mario Draghi non aveva mai parlato di mafia. Poi ha fatto un punto della situazione per i 30 anni della Dia. Ma noi lo stato dell’arte lo conosciamo. Noi invece avremmo voluto sentire dal presidente del Consiglio cosa voleva fare sul piano normativo per contrastare le mafie”. Poi attacca: “In realtà è da un po’ di governi che non si parla di contrasto alle mafie, governi sia di centrodestra, sia di centrosinistra”. Un silenzio che risulta assordante anche in campagna elettorale. “Chi ha parlato di mafie? - chiede - Nessuno, finora. Io ho bisogno che i politici mi dicano cosa faranno sul piano normativo”. Si parla di politica e la domanda è quasi d’obbligo: Gratteri pensa di candidarsi in futuro? Il procuratore prima sembra possibilista: “Mai dire mai”, poi chiude: “La politica non è cosa mia”. Ma non risparmia anche un rimprovero al M5s: “Bonafede (Alfonso, ex ministro della giustizia, ndr) è stato una persona perbene. Detto questo, non si può dire che i 5 stelle siano senza peccato. Ad esempio, avrebbero staccare la spina al governo Draghi quando fu approvata la riforma per l’improcedibilità dei processi”. Ma per chi vota la mafia? “Le mafie sono sì una minoranza, ma sono una minoranza organizzata - dice Gratteri - Le mafie tendono a non stare mai all’opposizione, puntano sul cavallo vincente, per capitalizzare i voti. E se sbagliano il cavallo durante il percorso si riposizionano. Cercano sempre di intercettare i voti”. Il motivo è anche pratico, ma apre a una riflessione: “Un capomafia sta sul territorio tutti i giorni, il politico sta sul territorio 4 mesi prima delle elezioni e dal giorno dopo non vuole essere disturbato. Le mafie danno risposte drogate, come il lavoro in nero, ma danno risposte. Durante il Covid, mentre i politici si sono trasformati in virologi, i capimafia facevano arrivare i borsoni della spesa. Quando sarà ora di votare, in quelle famiglia si ricorderanno di chi ha portato la borsa della spesa. Mentre noi facciamo le ideologie perché abbiamo la pancia piena”. Tribunali bloccati per mancanza di personale da Piacenza a Nocera Inferiore di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 12 settembre 2022 Sono tra i casi più emblematici. Il presidente del Coa campano: “Abbiamo cercato di coinvolgere i politici, abbiamo incontrato la sottosegretaria Macina e proseguiremo nella protesta”. Al netto delle riforme che fanno ben sperare, l’estate che sta per concludersi è stata piuttosto agitata in alcuni sedi giudiziarie. Il riferimento è alle difficoltà che ogni giorno affrontano, da Nord a Sud, gli avvocati nei Tribunali, costretti a fare i conti con la carenza di magistrati e personale amministrativo. Difficoltà che inevitabilmente si ripercuotono sui cittadini. Un caso emblematico è quello di Nocera Inferiore, in provincia di Salerno. Il presidente del Tribunale, Antonio Sergio Robustella, ha rassegnato le dimissioni in segno di protesta per la carenza di personale, soprattutto negli uffici del Giudice di Pace. Un paio di mesi fa è stata ordinata la chiusura anticipata dell’ufficio della sezione fallimentare e delle cancellerie dell’esecuzione mobiliare ed immobiliare. La grave carenza del personale non ha risparmiato neppure il settore penale. Le cancellerie dibattimentali e dell’ufficio Gip/Gup sono state sbarrate. “Mi si spezza il cuore all’idea di andarmene. Il prossimo anno andrei naturalmente in pensione. Potevo mettere la testa sotto la sabbia e fare finta di niente oppure sollevare il problema e mettere chi di dovere di fronte alla situazione che si vive a Nocera Inferiore. Ho scelto la seconda opzione”. Con queste parole Antonio Sergio Robustella, con oltre quarant’anni di servizio, ha commentato la sua scelta di lasciare la magistratura (si veda Il Dubbio del 7 giugno 2022). Guido Casalino, presidente del Coa di Nocera Inferiore, da tempo cerca di sensibilizzare chi di dovere sulla deprimente situazione che si vive nel circondario della città campana. “Negli ultimi anni - dice - ho reiteratamente segnalato l’insufficienza del numero dei magistrati presso il Tribunale e le gravi carenze di personale amministrativo che sussistono negli Uffici del Giudice di pace del nostro circondario, che, in alcuni casi, non permettono di erogare con puntualità ed efficienza i servizi o celebrare in tempi ragionevoli i processi. A causa di tali mancanze di personale, infatti, i nostri uffici giudiziari rischiano davvero una grave paralisi, con ripercussioni che vanno a ricadere non solo su noi avvocati, ma anche su tutti i cittadini, che, vista la gravità della situazione in atto, stanno perdendo sempre più fiducia nel sistema giustizia. Amministrare e ricevere giustizia presso gli uffici del nostro circondario sta diventando davvero difficile. Basti pensare, per esempio, che in Tribunale le cause mature per la decisione vengono rinviate per la precisazione delle conclusioni anche di tre anni oppure che nell’ufficio del Giudice di pace di Nocera Inferiore il tempo medio di attesa per la pubblicazione di una sentenza, dopo la sua stesura da parte del Giudice, è di otto mesi”. Tante le iniziative per tentare di risolvere i problemi che mortificano la quotidiana attività dei legali nocerini. “Abbiamo cercato di coinvolgere - afferma l’avvocato Casalino - i politici del territorio, che negli ultimi tempi hanno presentato numerose interrogazioni parlamentari. Una delegazione del Coa è stata ricevuta dalla sottosegretaria alla Giustizia, Anna Macina, alla quale, numeri alla mano, è stata illustrata la drammatica situazione di carenza di organico presso il Tribunale di Nocera Inferiore. Ad oggi, però, si è ancora in attesa di una risposta concreta da parte del ministero. Noi siamo fiduciosi che si possa muovere qualcosa, anche perché la situazione degli uffici giudiziari del circondario è sotto gli occhi di tutti, anche alla luce delle recenti dimissioni del presidente del nostro Tribunale. Credo che si tratti di una decisione eccezionale, mai capitata per simili motivi. Speriamo che ci sia un intervento serio da parte del ministero della Giustizia, affinché si possano risolvere le criticità che abbiamo rappresentato in tutte le sedi. Nel frattempo, l’intera classe forense continuerà imperterrita, nonostante le oggettive difficoltà che quotidianamente incontra, a gridare le proprie ragioni e a mantenere alta l’attenzione sul Tribunale di Nocera Inferiore”. Il mese di agosto ha caratterizzato in negativo le attività degli avvocati di Piacenza. Per quasi tutto il mese scorso gli uffici della Procura sono rimasti chiusi al pubblico. Impossibile per gli avvocati e i cittadini usufruire del front office e della visualizzazione dei procedimenti. Sono stati chiusi per diversi giorni pure gli uffici del dibattimento e quelli del Giudice di pace. Il motivo? Sempre lo stesso: la mancanza di personale. La Camera penale, presieduta da Elena Del Forno, dopo aver proclamato nelle scorse settimane lo stato di agitazione, spera che si trovi una soluzione concreta a stretto giro, dato che con gli ulteriori pensionamenti chi lascia il posto di lavoro non viene sostituito. Il presidente del Coa di Piacenza, Giovanni Giuffrida, ritiene che la situazione vada affrontata con un confronto costruttivo tra tutti i protagonisti della giurisdizione. Giuffrida teme che i problemi potrebbero essere acuiti in questi giorni con la definitiva ripresa delle attività. “Quando la coperta è corta si verificano queste situazioni”, afferma sconsolato. Woodcock l’indipendente e gli altri: 87 toghe in corsa per 20 posti al Csm di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 12 settembre 2022 Pm e giudici, l’altra campagna elettorale. Le sfide, le correnti, le regole per le nomine, la separazione delle carriere, il post-scandalo Palamara. “Le logiche di potere? Per eliminarle c’è chi propone di introdurre fasce di anzianità e criteri di priorità”. “Io non sono mai stato iscritto a una corrente, mi sono dedicato solo al lavoro con grande passione, secondo alcuni anche troppa...”, dice Henry John Woodcock dalla macchina che lo sta portando a Pescara, nuova tappa della sua campagna elettorale. Non per il Parlamento ma per il Consiglio superiore della magistratura: il 18 e 19 settembre, una settimana prima delle elezioni politiche, i magistrati italiani voteranno i componenti togati del prossimo organo di autogoverno, e il pubblico ministero anglo-napoletano è in lizza come indipendente. Uno degli 87 candidati per 20 posti divisi per funzioni: 2 di Cassazione, 5 pm e 13 giudici di merito, con un sistema misto tra proporzionale e maggioritario. “Le correnti in passato hanno svolto un ruolo importante - spiega Woodcock -, ma oggi può essere utile l’apporto di chi ha fatto sempre e solo il magistrato, magari con qualche turbolenza”. Le storie personali - Da una visita negli uffici giudiziari della Lombardia replica Mario Palazzi, pm romano candidato del gruppo progressista Area: “Chi aderisce a una corrente aderisce a un’idea della giurisdizione, a valori che gli elettori possono conoscere e valutare. Quando si viene scelti come rappresentanti non contano solo le storie personali”. Dopo essersi incontrati sulla via dell’accidentata inchiesta Consip, in cui Woodcock finì indagato da Palazzi per una fuga di notizie (poi ci fu l’archiviazione chiesta dalla stessa Procura di Roma), ora i due pm affrontano questa sfida a distanza, in due collegi diversi: uno al Sud e l’altro al Centro-Nord. “La magistratura deve riacquisire credibilità” - Accusato spesso di aver condotto indagini rumorose svanite in altrettanti flop giudiziari, Woodcock liquida l’addebito con aplomb inglese (“La campagna elettorale non è la sede per parlare dei miei procedimenti, chi è interessato può documentarsi sul loro esito”) e preferisce soffermarsi sulla propria scelta: “Nel distretto di Napoli e Salerno, tra 1.200 magistrati non c’era un pm disposto a mettersi in gioco, e allora l’ho fatto io, con una candidatura che “spariglia”. Penso che la magistratura abbia bisogno di riacquistare credibilità all’esterno ma pure al proprio interno, con comportamenti che ci riavvicinino agli altri cittadini, facendoci sentire uguali e non un gradino sopra”. Quanto alle riforme, quella appena approvata “rischia di accentuare gli aspetti burocratici del nostro lavoro”. La separazione delle carriere - Il centro-destra favorito alle elezioni politiche vuole introdurre la separazione delle carriere tra giudici e pm, malvista dalla maggioranza delle toghe, ma Woodcock preferisce soprassedere: “È un argomento così delicato da meritare un’intervista a parte”. Palazzi invece lo inserisce tra “i soliti refrain ideologici che non incidono sulle legittime aspettative dei cittadini. C’è un completo disinteresse per riforme utili a far funzionare la giustizia come gli organici, l’edilizia giudiziaria o una razionale depenalizzazione, mentre si ritorna a proporre di “riformare i magistrati”, con la burocratizzazione del lavoro e la stessa separazione delle carriere”. A presidio della legalità - Dario Scaletta, pm antimafia a Palermo e candidato di Magistratura indipendente, la corrente togata considerata più a destra, è contrario, “non solo per rispetto ai precetti costituzionali, ma anche per la personale esperienza maturata in oltre vent’anni di carriera, passando da una formazione di civilista a rappresentante dell’accusa. Con un pm ancorato alla cultura della giurisdizione si garantisce meglio la funzione di presidio di legalità per le parti offese e pure a tutela dell’indagato”. La riforma del Csm - Quanto all’esigenza di sottrarre il Csm a “logiche di potere e correntizie”, Scaletta ritiene che per le nomine si potrebbero “introdurre fasce di anzianità e criteri di priorità per evitare che valutazioni contrapposte trascendano in arbitrio; servirebbero punteggi specifici uniformi per evitare che la provenienza dallo stesso territorio diventi in un caso un vantaggio e in un altro un handicap. Le decisioni devono essere prevedibili come quelle giudiziarie, pur lasciando al Consiglio un certo margine di discrezionalità”. La crisi delle correnti e lo scandalo Palamara - I diversi schieramenti che votano compatti, per Scaletta sono “un fatto fisiologico se frutto di identità valutative o culturali, e patologico se rispecchiano solo logiche di appartenenza”, ma la crisi delle correnti avrà un peso in queste elezioni. La più colpita dal cosiddetto “scandalo Palamara” è la “centrista” Unità per la costituzione che al Sud candida il pm di Catania Marco Bisogni; il quale con l’ex pm radiato dall’ordine giudiziario ha avuto scambi di accuse arrivati agli annunci di reciproche querele. “Il mio gruppo ha mutato completamente classe dirigente - chiarisce - e le modalità di selezione dei candidati, siamo stati scelti dalla base e non calati dall’alto come in passato. Il Csm deve garantire il massimo di trasparenza nelle sue decisioni, che non riguardano solo le nomine ai vertici degli uffici”. Nuove regole per l’organismo di autogoverno - Anche Bisogni è contrario alla separazione delle carriere perché “un buon pm deve essere il primo giudice e non l’ultimo poliziotto incontrato da un cittadino sotto inchiesta, mentre penso che come primo atto il Csm debba darsi un nuovo testo unico con regole chiare. Per le nomine dev’essere valorizzato il lavoro giudiziario svolto, che deve prevalere sulle medagliette o altri incarichi. E per le valutazioni dovremmo interloquire con i magistrati degli uffici, portando elementi di democrazia nelle scelte”. Su questo Woodcock si spinge ancora più in là: “Non sono contrario ai giudizi di avvocati e professori, non mi piace l’idea della separatezza della magistratura dal resto della società. Io posso promettere un metodo di lavoro: decidere approfondendo ogni questione attraverso la lettura delle carte, pure nei procedimenti disciplinari o i trasferimenti d’ufficio, dove la matrice deontologica del giudizio non giustifica la violazione delle regole”. “No a un Csm come ufficio del personale” - Da un altro fronte, Mario Palazzi ribatte: “La questione morale al nostro interno resta una priorità, ma la furia iconoclasta purtroppo presente anche nella magistratura è solo un assist per chi, da fuori, anela a un Csm trasformato in silente ufficio del personale”. Voci dall’altra campagna elettorale, di pm a caccia di voti togati. Elezioni Csm, le toghe di AreaDg. “Si respira una brutta aria, sostegno ai candidati” di Davide Varì Il Dubbio, 12 settembre 2022 La nota della corrente associativa della magistratura: “Si profila il rischio concreto che si riprenda la repressione e criminalizzazione nei confronti dei migranti”. “Pieno sostegno ai candidati che si sono riconosciuti in AreaDg ed hanno messo a disposizione il loro tempo e le loro qualità personali, le loro idee, la loro professionalità per rappresentare a tutti gli elettori lo spirito con il quale AreaDg ha deciso di partecipare a questa competizione ed i progetti di profondo rinnovamento dell’autogoverno che abbiamo messo in campo e siamo pronti a realizzare”. Così in un documento il coordinamento del gruppo delle toghe progressiste, in vista del voto del 18 e 19 settembre per l’elezione dei togati al Consiglio superiore della magistratura. Elezioni che coincidono con la campagna elettorale per le politiche che “sta portando al centro del dibattito progetti di riforma, anche costituzionale, improntati alla restaurazione di un modello pre-costituzionale”, denuncia Area. Cosa scrive AreaDg a sostegno dei suoi candidati - Tutti i candidati al Consiglio, sottolinea il documento, “in queste poche settimane di confronti e dibattiti hanno evidenziato come il prossimo Csm sarà chiamato a dare attuazione alla riforma Cartabia della magistratura, assumendo un serio e argomentato impegno a sostenerne i pochi aspetti positivi e ad arginare, se non contrastare gli aspetti, purtroppo numerosi, che rischierebbero di determinare effetti pericolosi e persino nocivi: l’esasperata spinta alla gerarchizzazione anche degli uffici giudicanti, la matrice produttivistica a scapito della qualità delle decisioni giudiziarie, l’impronta burocratica perseguita attraverso l’introduzione di leve disciplinari suscettibili di forti strumentalizzazioni”. “Ma questo purtroppo non è l’unico impegno che si pone per l’immediato futuro, certamente gravido di cupi segnali per la preservazione dello statuto costituzionale vigente in tema di magistratura e di tutela dei diritti”. A giudizio dei magistrati di Area “riprendono campo opzioni decisamente orientate verso la separazione delle carriere, l’introduzione di nuove forme di responsabilità civile idonee a condizionare seriamente la serenità del giudicare, il depotenziamento degli strumenti di indagine più evoluti e moderni, la cesura del rapporto virtuoso tra forze di polizia ed autorità giudiziaria, la stessa “demolizione del Consiglio superiore della magistratura”. Proposte inserite nel più ampio campo della riscrittura dei diritti fondamentali dei cittadini e della generale capacità del sistema giustizia di offrire loro adeguata tutela”. AreaDg e la criminalizzazione dei migranti - “Si profila, infatti - osserva il documento delle toghe progressiste- il rischio concreto che si ponga presto mano alla riscrittura delle norme che disciplinano il sistema dell’accoglienza, che si riprenda la repressione e criminalizzazione nei confronti dei migranti, che vengano messe in discussione le faticose conquiste di civiltà frutto di lotte decennali: dall’affermazione di una gravidanza consapevole che abbia al centro la donna, alle unioni civili. Sono progetti ampiamente condivisi tra le varie forze politiche, anche più moderate, che si candidano alla guida del Paese e che, quando non condivisi, vengono contrastati in modo flebile e soprattutto senza proposte di un disegno alternativo che dia spazio ad un effettivo ammodernamento della giustizia in chiave di efficienza e credibilità”. AreaDg e il programma ambizioso - “Riteniamo che, senza ambizioni di assurgere ad interlocutore politico generale, il Csm che verrà debba, nel rigoroso rispetto dei propri poteri e prerogative, saper opporre una forte resistenza culturale a queste prospettive - ammonisce Area - contrapponendo ad esse proposte autorevoli che finalmente intercettino i problemi centrali del sistema giudiziario ed avviino, anche su questo piano, una stagione di rilancio che tenga uniti i piani della qualità e tempestività della risposta giudiziaria, della preservata e rafforzata capacità di incidere nel vivo della tutela dei diritti, della ripristinata credibilità professionale ed etica della magistratura. È un programma estremamente ambizioso, forse utopistico, che certamente richiede sia presente nel Csm - è infine l’auspicio espresso nel documento - un gruppo di magistrati capaci di intraprenderlo e dotati di un forte bagaglio culturale condiviso, arricchito dalle specifiche qualità personali ed esperienze professionali, consapevole del momento particolarmente delicato che sembra doversi intraprendere, che si faccia forte ma al contempo rigorosamente consapevole delle sue prerogative e dei suoi poteri ma anche dei relativi limiti, che sia completamente immune dalla capacità di seduzione del potere politico che, come abbiamo potuto constatare, ha la capacità di condizionare e blandire l’autogoverno”. Aperture sulle sanzioni per favorire il ricorso alla procedura alternativa di Guido Camera Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2022 Il procedimento ordinario dovrebbe essere riservato ai giudizi più complessi È auspicabile che, anche grazie alla riforma Cartabia, il giudizio abbreviato si lasci definitivamente alle spalle la sua struttura originaria, che lo rende tutt’oggi privo di particolare attrattiva, se la strategia difensiva non sia principalmente basata sul contenimento della pena. Quando, nel 1989, il legislatore introdusse il processo penale accusatorio - la cui caratteristica principale è la formazione dialettica della prova, nel contraddittorio tra le parti - l’abbreviato era un patteggiamento sul rito, la cui concessione era subordinata al consenso del pubblico ministero e non prevedeva il diritto per la difesa di chiedere un condizionamento probatorio. L’unico beneficio era lo sconto di un terzo della pena che il giudice era obbligato a riconoscere. Con una serie di nutriti interventi, il legislatore e la Corte costituzionale hanno progressivamente aumentato i diritti difensivi, eliminando il consenso del pubblico ministero e prevedendo la possibilità di integrazioni probatorie; ma il diritto alla prova della difesa è rimasto soggetto a un rigido criterio di ammissibilità. Basta pensare che per ascoltare pochi testimoni, oppure un consulente tecnico, è necessario celebrare il dibattimento. Soprattutto nei processi di semplice e media difficoltà, queste caratteristiche hanno impedito al rito abbreviato di espandere i suoi effetti positivi per la riduzione dei tempi processuali. È un serio problema, perché sono il numero preponderante delle cause complessivamente pendenti, mentre un sistema accusatorio ha successo solo se i riti alternativi sono appetibili ed efficaci, in modo da riservare il dibattimento a un numero circoscritto di casi. Ora la riforma punta a eliminare questi limiti, ponendo le condizioni perché aumenti il numero dei procedimenti definiti con giudizio abbreviato condizionato; aumento che potrebbe essere ulteriormente agevolato dalle nuove disposizioni che intervengono sul sistema sanzionatorio. Si allargano infatti le maglie della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, dando rilevanza anche alla condotta successiva al reato, e viene previsto un ampio catalogo di pene alternative al carcere, secondo un criterio di effettiva proporzionalità, che attribuisce al giudice dell’abbreviato la possibilità di comminarle in aggiunta al doppio sconto di pena. Rimane una preclusione: il giudizio abbreviato, dopo la legge 33/2019, non è esperibile per i delitti puniti in astratto con l’ergastolo. Era auspicabile l’abrogazione del divieto, in modo da lasciare al giudice l’obbligo di valutare - in modo individualizzante - l’esistenza degli elementi per irrogare la pena perpetua, anche alla luce dell’esito di un’eventuale integrazione probatoria. Nel giudizio di rinvio rileva la prescrizione anche se la condanna è annullata sulla qualificazione del reato di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 12 settembre 2022 Il giudicato parziale copre le parti della sentenza confermate in Cassazione solo se non essenzialmente connesse a quelle annullate. È suscettibile di passare in giudicato il capo della sentenza quando tutti i singoli punti che lo compongono sono divenuti irretrattabili. Per cui il giudice del rinvio è tenuto a dichiarare l’intervenuta prescrizione del reato “riqualificato”, anche se la responsabilità dell’imputato non è messa in discussione, cioè nel caso in cui - a seguito di annullamento parziale da parte della Cassazione - il giudice di appello è chiamato a operare la riqualificazione del reato in una diversa fattispecie penale. Infatti, dall’annullamento parziale della sentenza di condanna non deriva l’automatico passaggio in giudicato di tutte le statuizioni (rectius, punti) contenute nelle parti confermate della decisione se sono essenzialmente connesse a quelle oggetto di annullamento. Di conseguenza, le cause estintive del reato rilevano in sede di rinvio anche se l’annullameno parziale in sede di legittimità non ha messo in discussione la responsabilità dell’imputato, ma altri aspetti che ne definiscono definitivamente la conseguente condanna, come nel caso, appunto, dell’annullamento con rinvio al fine della riqualificazione del reato. Così la Corte di cassazione, con la sentenza n. 33256/2022, ha ribadito la propria adesione all’orientamento che afferma la piena autonomia tra capi e punti della sentenza. Affermando che i punti - cioè le statuizioni e non le argomentazioni - contenuti in sentenza per definire i diversi capi di imputazione hanno una loro autonomia rispetto al capo cui afferiscono. Per cui se viene annullata una statuizione interna al capo della sentenza “confermato” dalla Cassazione tale capo non diviene defintivo, perché non coperto dal giudicato parziale. Ciò vale anche per la mancata declaratoria di cause estintive del reato che concorrono a definire o meno conclusa la potestà puntiva dello Stato. Nel caso in esame il giudice di appello non ha applicato il giusto computo del termine della prescrizione omettendo di dichiararla. Oggi la Cassazione afferma l’avvenuta prescrizione del reato e rinvia al giudice di merito solo la riquantificazione della pena per i reati residui. Toscana. Un’intesa per migliorare le condizioni del personale delle carceri toscana-notizie.it, 12 settembre 2022 Regione e Amministrazione penitenziaria firmeranno un’intesa finalizzata al miglioramento del benessere del personale che opera nelle carceri e in particolare di quello del Corpo di polizia penitanziaria. La firma e la relativa conferenza stampa sono in programma alle 12.30 di martedì 13 settembre nella Sala Esposizioni al primo piano di Palazzo Strozzi Sacrati in piazza Duomo 10 a Firenze. Parteciperanno il presidente della Regione Toscana, l’assessore regionale al diritto alla salute, il provveditore regionale dell’Amministrazione penitenziaria e il direttore dell’Azienda ospedaliera universitaria di Careggi. Forlì. Ferrini (Terzo Polo) sul nuovo carcere: “È ora di porre fine alla storia infinita” forlitoday.it, 12 settembre 2022 “È un atto di civiltà verso i detenuti e il Terzo polo intende investire risorse nelle infrastrutture strategiche per il territorio, per realizzarle davvero”, afferma Luca Ferrini, candidato del Terzo Polo nel collegio uninominale di Forlì-Cesena. Tra i temi della campagna elettorale in vista delle elezioni politiche del 25 settembre c’è anche quello del nuovo carcere di Forlì. “È un atto di civiltà verso i detenuti e il Terzo polo intende investire risorse nelle infrastrutture strategiche per il territorio, per realizzarle davvero”, afferma Luca Ferrini, candidato del Terzo Polo nel collegio uninominale di Forlì-Cesena. “La vicenda del nuovo carcere di Forlì è uno scandalo: ideato nel 2001, è ancora da terminare - attacca -. Nonostante le roboanti promesse - tanto per cambiare - della Lega e dell’allora sottosegretario Jacopo Morrone (oggi candidato a Rimini), l’opera non è pronta”. Il parlamentare uscente Marco Di Maio, ricorda Ferrini, “aveva messo in guardia affermando che “il bando è affrettato e scritto male”. Purtroppo, aveva ragione, ed il Tar, con sentenza di fine 2018, annullava la gara per 34 milioni di euro. Questo è il modo di governare della Destra: formulare promesse senza alcuna capacità di realizzarle. Il nuovo carcere è un atto di civiltà verso i detenuti. E’ un’opera che consente di restituire alla Città di Forlì la Rocca di Caterina Sforza, perché diventi luogo della cultura e del tempo libero dei cittadini, ricordando l’indomita “Tigre di Forlì”. E’ una realtà che consentirebbe di avviare lavori di viabilità altrettanto attesi”. “Si aggiunga che l’opera servirà a dare anche immediata risposta alla carenza di organico della polizia penitenziaria denunciata dalla Direttrice: mancano almeno 30 agenti, a fronte di oltre 140 detenuti, quasi tutti definitivi - prosegue. L’obiettivo è, perciò, attivare da subito tutte le procedure necessarie per sbloccare la realizzazione di quest’opera. Senza fare promesse, ma facendo parlare i fatti. Il nuovo carcere di Forlì deve essere una priorità per tutti, indipendentemente dai colori politici. E noi della Lista Italia Viva - Azione Calenda, saremo in prima linea per lavorare in questa direzione e collaborare con tutti per il raggiungimento dell’obiettivo”. Bergamo. I detenuti a don Mazzucchetti: “Un’ancora a cui aggrapparsi” di Luca Bonzanni Avvenire, 12 settembre 2022 Dopo 10 anni il cappellano ha lasciato il carcere. La vicinanza della parola, la vicinanza del gesto. Qui dove la libertà è ristretta, la cura pastorale è ancora più concreta. Anche per questo è con affetto e commozione che i detenuti del carcere di Bergamo hanno salutato don Giambattista Mazzucchetti che, dopo dieci anni come cappellano, ha assunto un altro incarico - parroco di Piario, in alta Val Seriana - e si è congedato da un’esperienza forte e significativa. Domenica, nella cappella della casa circondariale, l’ultima Messa. I detenuti hanno poi affidato il loro pensiero a una lettera: “Grazie per quanto ci ha donato con la sua presenza: in questi dieci anni, è stato per tutti un’ancora a cui aggrapparsi. Non possiamo dimenticarci dei rapporti con le nostre famiglie, che anche grazie a lei non abbiamo smarrito. Da lei non venivamo solo per aiuto materiale, ma anche solo per una parola di conforto, sollievo, coraggio e speranza”. “Sacerdote, confessore, voce oltre le sbarre per portare conforto e speranza anche ai nostri cari”, così lo descrivono i detenuti. Nella Messa di saluto don Mazzucchetti ha lasciato la promessa non solo di non dimenticarli, ma anche “l’invito forte e appassionato di saper dire i sì e i no utili al proprio sentirsi cristiani”. “È stata un’esperienza di ricchezza umana”, ha raccontato il sacerdote nei giorni scorsi, a proposito dell’incarico nel carcere di Bergamo assunto nel 2012. “Il cappellano ha il ruolo dell’ascolto, del porsi accanto all’altro, facendo emergere il desiderio di riscatto e ritorno in comunità”. A proseguire come cappellano è don Luciano Tengattini, già in servizio in via Gleno dal settembre 2020. Solo pochi mesi prima, su Bergamo soffiava la bufera del Covid: una tragedia di comunità che s’è incuneata anche nella casa circondariale, fortemente toccata dalla perdita di don Fausto Resmini, per quasi trent’anni cappellano, venuto a mancare a causa del virus nel marzo 2020. Proprio a don Resmini è oggi intitolato il carcere di Bergamo. Sono 526 i reclusi - secondo gli ultimi dati del Ministero della Giustizia, aggiornati a fine agosto - contro i 315 posti disponibili, con un tasso di affollamento del 167%. Una cronicità, quella del sovraffollamento, che si cerca di affrontare con la collaborazione tra tutte le componenti. La socialità ha un ruolo fondamentale: per la fine del mese si sta organizzando una gara di atletica lungo il perimetro del carcere, e si terrà anche la presentazione del libro Dalla parte sbagliata scritto da Adriana Lorenzi, insegnante che da anni opera nella struttura. “Lavoriamo per trasformare il carcere in un quartiere di democrazia - le parole di Valentina Lanfranchi, garante dei detenuti di Bergamo -. C’è un lavoro importante: si stanno costruendo molte iniziative significative, anche in vista di Bergamo-Brescia capitali della cultura”. Palermo. “La Vita è sogno e il Sogno è realtà”, progetto d’inclusione in memoria di Padre Puglisi sicilianews24.it, 12 settembre 2022 “La Vita è sogno e il Sogno è realtà” il titolo del progetto a sostegno di un progetto corale, d’inclusione sociale e arti varie in memoria di Padre Pino Puglisi. Dal 15 settembre spettacoli e laboratori nei quartieri di Palermo. A idearlo e dirigerlo Aida Satta Flores, organizzato dall’associazione “Arte Senza Fine”, con il sostegno del Ministero della Cultura, del Comune di Palermo e della Città Metropolitana di Palermo. Un progetto d’inclusione sociale e valorizzazione delle periferie di Palermo dedicato al Sogno del Beato Padre Pino Puglisi di una Vita “altra” da certe cattive esistenze umane. Si svolgerà dal 15 al 25 settembre e coinvolgerà numerosi artisti palermitani e ma anche associazioni di volontariato tra laboratori e spettacoli in diversi quartieri della città Numerosi i work-shop che si terranno nei quartieri Brancaccio, Cardillo, Roccella/Settecannoli, Zen/Marinella e a Carini, con ragazzi, donne e bimbi vittime di violenza domestica, detenuti ed ex-detenuti, tossicodipendenti. I laboratori saranno curati da diversi artisti rappresentanti le 7 arti, che si esibiranno anche negli spettacoli insieme ai ragazzi dei quartieri coinvolti e agli utenti delle associazioni aderenti al progetto. Allo Zen/Marinella l’artista Salvo Piparo preparerà l’inedito cuntu “la Vita è sogno”, insieme agli utenti della ODV “Un Nuovo Giorno”. Al Museo dell’opera dei Pupi, nel Castello di Carini, si svolgeranno i work-shop guidati dal maestro Puparo Angelo Sicilia che preparerà, insieme ai ragazzi, l’inedita rappresentazione “il sogno è realtà” per lo spettacolo finale del 25 settembre. Brancaccio/Settecannoli ospiterà donne e bambini della Onlus “Life & Life” nei laboratori musicali e canori nella sede dell’Accademia Musicale Etienne Ecole De Musique, Open Space, diretti dai maestri musicisti Teodolindo Edmondo Negri e Mariano Tarsilla, e dalle cantanti Rary Milani, Roberta Scacciaferro e dalla stessa Aida. Tutti gli spettacoli saranno a ingresso libero e avranno inizio alle ore 20.40. Giovedì 15 settembre, nella Chiesa Maria SS delle Grazie in Roccella. “Padre Pino Puglisi. Un prete contro la mafia” di e con il maestro puparo Angelo Sicilia. Un evento nell’evento, dal momento che si svolge nel giorno in cui nasce e muore il Beato Padre Pino Puglisi. Martedì 20 settembre, nella Fabbrica Ceramiche Nino Parrucca, a Cardillo, si potrà assistere alla proiezione di “Voci dal silenzio”, pluripremiato docu-film, viaggio tra gli eremiti d’Italia, alla presenza dell’autore/regista Joshua Wahlen. Seguirà dibattito. Domenica 25 settembre lo spettacolo corale conclusivo “la Vita è sogno e il Sogno è realtà”, si svolgerà nel Centro Polivalente Padre Pino Puglisi e M. Kolbe, a Brancaccio. Il terzo appuntamento del progetto sarà lo spettacolo corale in occasione della “Giornata mondiale del Sogno” e si esibiranno tutti gli artisti che hanno condotto i laboratori, insieme agli utenti delle associazioni di volontariato. Il concerto di Aida Satta Flores con la sua band ospiterà: Salvo Piparo e Angelo Sicilia che presenteranno i loro inediti lavori, cunti e opera dei Pupi; il gruppo vocale dei Gate4 ci sorprenderà con nuove sonorità su storiche canzoni di Aida, come “Qui la mafia non c’è”, prodotta dai Nomadi nel 1992; grande emozione l’esecuzione corale di “Moru”, che Mariano Tarsilla scrisse dedicandola proprio a Padre Pino Puglisi; gran finale con la Fanfara del XII Reggimento Carabinieri di Sicilia, diretta dal M° Paolo Mario Sena. Lunga è la lista degli artisti che hanno aderito al progetto, curando i work-shop ed esibendosi nei loro spettacoli, singoli e insieme. In ordine alfabetico: Aida Satta Flores, Alessandro Valenza, Angelo Sicilia, Davide Rizzuto, Fabrizio Francoforte, Gate4, Giuseppe Naselli, Lorenzo Profita, Mario Tarsilla, Rary Milani, Roberta Scacciaferro, Salvo Piparo, Teodolindo Edmondo Negri. Un ringraziamento speciale a Nino Parrucca e a Don Ugo Di Marzo della Chiesa “Maria SS. Delle Grazie” in Roccella. Il progetto ideato dalla Satta Flores, da sempre sensibile a tematiche sociali, umanitarie e culturali, intende contribuire, attraverso l’incontro con le 7 arti praticate nei laboratori distribuiti nei diversi quartieri della città, alla fortificazione delle identità umane, minate dall’imperante omologazione di media e social, a partire proprio dal “futuro della società umana”, i nostri giovani e quegli individui che nella loro esistenza hanno sbagliato, nella speranza si possa, tutti insieme, edificare una Vita da Sogno, fondata su 2 piedi: quello della Realtà e quello del Sogno. “Se puoi sognarlo puoi farlo”. I Sogni cui Aida ha dedicato tutto l’articolato progetto non sono i sogni notturni, ma quelli che facciamo a occhi aperti: la “Giornata mondiale del Sogno” (World Dream Day) ha come parola chiave Creatività e Collaborazione. “Se puoi sognarlo puoi farlo” (Walt Disney). “L’iniziativa del World Dream Day - afferma Aida Satta Flores - nacque 10 anni fa, nel 2012, col fine di incoraggiare individui, famiglie, scuole, imprese e comunità a dedicare del tempo a concentrarsi sulle proprie idee, obiettivi e sogni, portandoli avanti nell’interesse del progresso delle comunità e del mondo intero. L’aspirazione a una vita felice è insita nell’uomo; anche la dedica a Padre Pino Puglisi, che spese la sua vita per fortificare ragazzi e gioventù “bruciata”, non è un caso. “Quelli che riflettono troppo prima di fare un passo, trascorreranno tutta la vita su di un piede solo”. Istruzione, povertà: i significati inattesi se dici Giustizia di Raffaella De Santis La Repubblica, 12 settembre 2022 Il Festivalfilosofia esplora le implicazioni più rilevanti, ma anche quelle meno scontate, di un termine fondamentale che resta di dolorosa attualità. Giustizia è la parola per eccellenza, quella che fa sperare in un mondo migliore. La più importante per le nostre democrazie, sicuramente la più evocata. Qual è il suo perimetro? Valutarla nei suoi confini concettuali, storici, culturali, geografici è quanto possono aiutarci a fare gli studiosi. Il Festivalfilosofia di Modena Carpi e Sassuolo dedica la sua ventiduesima edizione al dibattito delle idee intorno alla giustizia, da prospettive filosofiche, politiche, teologiche: incontri con filosofi, storici, economisti, scrittori e intellettuali per ricostruire la genealogia e fenomenologia di un concetto dall’antichità a oggi. Appuntamento dal 16 al 18 settembre, con accesso libero. Qui vi proponiamo una guida ragionata. Orari e programma su www.festivalfilosofia.it. Giustizia e diseguaglianze - Il presente, tra crisi economica e guerra, rende il tema urgente, come spiega Daniele Francesconi, direttore scientifico del festival: “Viviamo in società ferite dalle diseguaglianze e fratturate da polarizzazioni che impongono di trovare forme di riparazione. Lo scoppio della guerra in Ucraina ha ovviamente acuito l’urgenza del tema ‘giustizia”. Le aspettative di eguaglianza saranno alla base dell’intervento di Roberto Esposito, mentre Salvatore Natoli e Marco Santambrogio metteranno in relazione virtù e merito. “Dal punto di vista teorico, le teorie della giustizia, che risalgono al contrattualismo, si sono molto trasformate negli ultimi trent’anni, per esempio integrandosi con l’approccio delle ‘capacità’ “, aggiunge Francesconi. Focus sull’istruzione con Chiara Saraceno che si concentrerà sui rischi della povertà educativa e Umberto Galimberti sulle conseguenze emotive sui giovani dell’attuale sistema educativo. Sulle diseguaglianze nel mondo delle piattaforme si soffermerà Riccardo Staglianò, mentre Walter Scheidel rifletterà sull’impatto del Covid e Maurizio Ferraris, invece, sulla società dei dati. Colpa, pena e Legge - Un’altra pista del Festivalfilosofia riguarda il rapporto tra colpa e pena, giustizia e legge: ne parlerà Enzo Bianchi. Il rapporto con la politica sarà approfondito da Adriana Cavarero attraverso la figura di Antigone e da Ivano Dionigi, in un viaggio culturale alle origini, tra Atene e Roma. Massimo Recalcati esplorerà invece il dissidio traumatico tra Legge e desiderio. Tra gli ospiti anche Umberto Curi. La giustizia è anche un grande tema letterario perché ha a che fare con ciò che c’è di più umano: errore, colpa, vendetta. Simona Forti partirà dal paradigma dostoevskiano per interrogarsi sul male radicale e Stefano Massini userà la letteratura per parlare del nostro posto nel mondo. Massimo Cacciari e Natalino Irti, invece, rifletteranno sulla novella Michael Kohlhaas di Heinrich von Kleist, che narra della metamorfosi morale di un uomo dopo un torto subito. Le forme del diritto - Ci saranno inoltre le lezioni sui fondamenti della giustizia nel diritto, tra cui quella di Donatella Di Cesare sui meccanismi di vittimizzazione e quella di Gustavo Zagrebelsky sulle eccezioni e gli errori della legge. Di mafia parlerà invece Gad Lerner insieme a Don Ciotti. Tra le presenze più interessanti Lea Ypi, autrice di Libera, cresciuta nell’Albania comunista e della caotica liberalizzazione degli anni Novanta. Alla violenza contro i monumenti è dedicata la lezione di Anne Lafont, mentre Michela Marzano riannoda i fili della memoria familiare. Pace e guerra - Inevitabile interrogarsi su quanto sta accadendo in Ucraina e più in generale sui conflitti nella storia. Avishai Margalit parlerà di pace “giusta”, Carlo Sini della guerra come pratica discorsiva, la storica Joanna Bourke della seduzione della violenza, Carlo Galli delle relazioni tra politica e guerra, Sebastiano Maffettone delle teorie classiche sulla giustizia, a cominciare da John Rawls. Non solo lezioni - Il festival sarà ricco di eventi e spettacoli: da Umberto Orsini e Giovanna Marini in scena con La ballata del carcere di Reading. Da Oscar Wilde a Roberto Saviano con Il coraggio della verità, da Gianrico Carofiglio, che porterà in piazza a Carpi La sopravvivenza del più gentile a Massimo Donà con Anelito di giustizia, sul palco insieme agli allievi dell’Istituto musicale Vecchi-Tonelli. Un po’ di numeri - Dall’anno del suo debutto nel 2001, il Festivalfilosofia ha organizzato 3400 eventi e coinvolto tre milioni di persone. Perfino negli ultimi due anni funestati dalla pandemia, ha contato dalle 206 mila presenze del 2019 alle 76 mila dello scorso anno. Gli appuntamenti sono cresciuti passando dai 98 della prima edizione ai 188 del 2021. Quando fu inaugurato più di 20 anni fa, non esistevano festival del genere in Europa, interamente dedicati alla filosofia. Avviata per iniziativa di un comitato di enti locali, poi costituitisi in consorzio, la manifestazione propone una formula vincente rimasta inalterata nelle 21 edizioni: una parola chiave individua un concetto della tradizione filosofica e al tempo stesso una questione di attualità. Nessun dubbio che la giustizia si presti a un dibattito trasversale: dall’etica di Aristotele alle teorie politologiche di John Rawls, da Dante Alighieri a George Orwell, le riflessioni sulla giustizia fanno parte della storia delle civiltà e sono vitali per le nostre democrazie. “Terzo. Le energie delle rivoluzioni civili”, di Claudia Fiaschi di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 12 settembre 2022 Il Terzo settore non è “terzo”. Non viene dopo un primo e un secondo, insomma. Non è marginale ma centrale. E per dimostrarlo Claudia Fiaschi parte da un parallelismo con la Rivoluzione Francese e con il Terzo Stato. Pochi mesi prima della convocazione degli Stati Generali, l’abate Seyès pubblica un pamphlet in cui “descrive il Terzo Stato come un uomo forte e robusto con un braccio ancora in catene, oppresso, ostacolato ed evidenzia che se si rimuovessero questi impedimenti sicuramente la Nazione sarebbe “qualcosa in più”“. Chi è - Claudia Fiaschi, impegnata da sempre nel mondo del volontariato e delle cooperative sociali, dal 2005 al 2008 è stata Portavoce del Forum del Terzo settore: e “per fare un po’ la sintesi di questa esperienza, di questi incontri e di questa sfida politica affrontata” ha scritto il libro “Terzo - Le energie delle rivoluzioni civili” che domani è in edicola gratis con il Corriere della Sera come allegato del suo inserto Buone Notizie. Un libro la cui stesura è stata sollecitata da più parti, in realtà, perché al mondo del Terzo settore serve riflettere su cosa sono stati gli anni della Riforma e della ricerca di un nuovo protagonismo anche politico. E serve capire come muoversi ora per essere più incisivi. Il libro viene presentato oggi durante un dibattito cui partecipano, oltre all’autrice, l’economista Stefano Zamagni (che firma anche l’introduzione) l’attuale Portavoce del Forum Vanessa Pallucchi e il presidente dell’associazione Vidas Ferruccio de Bortoli: il tutto trasmesso alle 15 in streaming su Corriere.it. Per ribadire che se quasi sette milioni di cittadini sono impegnati in questi mondi (e 850mila di loro ricevono uno stipendio), se il valore economico di questa macchina è di 72 miliardi di euro, davvero non si può fingere che non esista: “I numeri e i contenuti dell’impegno civico organizzato dei cittadini di una nazione e di ogni comunità sono un indicatore di civiltà”, scrive Fiaschi. Che poi non sono i “buoni” contro presunti “cattivi”: “il Terzo - prosegue l’autrice - è da considerarsi un pilastro delle nostre comunità ... radice di ogni forma di attività umana: politica, economica, lavorativa”. Uomini e donne, volontari e attori del cambiamento - Fiaschi con sguardo disincantato affronta anche i limiti del Terzo settore: la fatica ad attivare il passaggio di testimone fra generazioni; l’atteggiamento competitivo che a volte “produce frammentazione” e riduce “l’efficacia dell’azione sociale e di rappresentanza”; la paura del cambiamento. Vero è che poi alla prova dei fatti, le donne e gli uomini che fanno parte di questo mosaico di capacità solidale riescono a fare la differenza, come dimostrato nelle recenti emergenze della pandemia e della guerra ucraina e come dimostra anche il quotidiano servizio a favore di bambini e anziani, donne sole e giovani in difficoltà, di persone malate, di disabili, di detenuti. Servizi a 360 gradi, dallo sport alla cultura, dall’ambito socio-sanitario a quello educativo. Ovunque ci sia un bisogno. Ovunque ci sia desiderio di generare benessere condiviso e diffuso. Il Festival dell’Economia Civile - L’impatto ricade non solo sul welfare ma sul sistema economico del nostro Paese: ecco perché il libro “Terzo”, strumento utile di riflessione e orientamento, verrà poi presentato sabato 17 settembre anche nell’ambito del Festival dell’Economia Civile (Fnec) che comincia venerdì 16 a Firenze, organizzato da NeXt-Nuova economia. Scuola di Economia civile Sec, Federcasse e Confcooperative. All’evento è dedicata la copertina dell’inserto Buone Notizie di domani: perché, e non è un caso, dal libro di Claudia Fiaschi al Festival al nostro inserto, c’è un filo che unisce questi progetti. Una terza via per crescere insieme. Politica e promesse: il voto tra ombre e realtà di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 12 settembre 2022 Onesto sarebbe dire agli italiani che tocca coprirsi bene per il lungo inverno e faticare tutti un po’ di più per come si può, per quanto le forniture energetiche lo consentiranno. Le promesse prima del voto, si sa, valgono quanto quelle, proverbiali, dei marinai. Del resto, nessuno può pretendere che, andando a chiedere appoggio ai cittadini, un candidato offra loro “sangue, fatica, lacrime e sudore”, come Churchill nel famoso discorso del maggio 1940 alla Camera dei Comuni. Erano tempi di guerra, quelli, non di elezioni generali. Il problema è che anche questi lo sono, benché in modo assai diverso e sia pure in sciagurata concomitanza con una tornata elettorale. Ed è quest’ombra bellica immanente ciò che accentua il senso di straniamento dal quale è attraversato il discorso pubblico approssimandosi al 25 settembre. Mai nella nostra storia repubblicana una campagna elettorale era apparsa così scollegata dalla realtà. Perché, parliamoci chiaro, forse non avremo davanti “la più terribile delle ordalie”, come quella prospettata agli inglesi durante l’aggressione hitleriana. Ma di sicuro è surreale sentire, spesso dalla voce del medesimo leader, paventare al mattino una strage delle imprese e la deindustrializzazione del Paese quale contraccolpo delle sanzioni a Putin e, alla sera, promettere una tassa piatta che costerebbe varie decine di miliardi alle nostre casse già sforacchiate dal debito pubblico con tanto di condono fiscale annesso. Può apparire spiazzante ascoltare in tv il grido di dolore delle prime aziende in crisi assieme ad analisi sul gelo incombente e sul razionamento venturo, e leggere al tempo stesso programmi di partito o di coalizione che giurano di innalzare le pensioni, garantiscono assegni universali, libri e doti ai diciottenni, stipendi aggiuntivi e cornucopie di benefici per tutti, dando per raggiungibili incrementi di welfare nel più assistito e assistenziale dei Paesi occidentali. Onesto sarebbe dire agli italiani che tocca coprirsi bene per il lungo inverno e faticare tutti un po’ di più per come si può, per quanto le forniture energetiche lo consentiranno. Spiegare loro che per qualche anno ci sarà, sì, da sperare in salvagenti, ma non certo da attendersi regalie. E che meglio sarebbe stato non abbattere un governo di semi-unità nazionale nel bel mezzo di una crisi planetaria per poi chiedere a quello stesso governo, ormai in carica solo per gli affari correnti, di toglierci dalle peste. Ora siamo alla fiera delle buone intenzioni, tutte destinate al falò. Analisti e cacciatori di bufale sostengono senza girarci attorno che nessuno o quasi tra gli impegni più importanti assunti dai concorrenti del 25 settembre abbia serie possibilità di essere realizzato nel breve o nel medio periodo. Non a torto un politologo serio come Giovanni Orsina chiariva l’altro giorno su La7 che i programmi politici vanno presi come orientamenti di massima: si capisce insomma che il Pd sarà attento ai diritti civili o che Fratelli d’Italia terrà molto a cuore la famiglia tradizionale, ma più in là è arduo andare perché la realtà cambia vorticosamente e, come Covid e guerra ci hanno mostrato, ci troviamo nell’impossibilità di fare previsioni serie non da qui a un anno ma da qui a due mesi. Secondo la squadra di fact-checking di Pagella Politica, il 96% delle promesse contenute nei programmi elettorali sarebbe senza coperture: coalizioni e partiti hanno promesso circa 330 misure, “solo in 13 casi hanno detto dove prenderanno le risorse per finanziarle”. Naturalmente tutti affermano di contare sul recupero dell’evasione fiscale, come se si potesse farvi davvero affidamento in un Paese che ha 106 miliardi di evasione l’anno e 1.100 miliardi di cartelle esattoriali non riscosse (altro che saldo e stralcio…). Chi annuncia qualche taglio di spesa pubblica in genere si guarda bene dal dire in quale settore. Non appare insomma così strano che, ormai a pochi giorni dall’apertura dei seggi, la percentuale di indecisi sia arrivata al 42%: e c’è da pregare che ad essa non corrisponderà il tasso reale di astensione e che almeno un 10% di chi non sa ancora cosa votare si decida a votare comunque, evitando così di minare la base stessa della nostra convivenza. Già in un’analisi dello scorso inverno (e dunque prima degli ultimi affanni che ci affliggono) Alberto Brambilla notava come le promesse dei partiti “sono talmente tante e insostenibili finanziariamente che buona parte non viene mantenuta, aumentando così il rancore degli italiani verso la politica”. A tale rancore pare aggiungersi adesso una percezione, diciamo istintiva nel corpo elettorale, sulle inquietanti dimensioni dell’area grigia, del non-detto, all’interno delle coalizioni. È come se si mettesse in cartellone una partita di calcio sapendo già, sin dagli spogliatoi, che in realtà se ne giocherà una di pallacanestro. L’equivoco, certo, è stato alimentato da una legge elettorale ambigua e pericolosa che, tenendo insieme il peggio del sistema proporzionale e di quello maggioritario, costringe ad alleanze fasulle chi molto probabilmente non avrebbe la coesione minima per governare più di sei o otto mesi. Ma l’area grigia adesso è ingigantita da un convitato di pietra nel dibattito esterno e interno ai gruppi politici: Vladimir Putin. Nulla può corrispondere ai proclami dei leader su fisco, welfare, riforme, spesa pubblica, perché il vero grande tema continua a riemergere dalla realtà, amplificato dai travagli di questi giorni, e distorce qualsiasi programma, che infatti risulta subito vecchio e irrealistico appena lo si scorra: è il tema della guerra, delle sanzioni e in definitiva del decisivo scontro tra democrazie liberali e regimi autoritari postmoderni. In qualche misura, a parte pudiche affermazioni sulla fedeltà atlantica e sul sostegno all’Ucraina, il tema viene eluso dal copione delle promesse elettorali. Ed è questo che crea l’effetto menzogna: come se si potessero davvero impegnare con leggerezza altri danari pubblici o alterare le entrate fiscali senza sapere se, da qui a primavera, il dittatore di Mosca avrà centrato o no i suoi obiettivi; come se il destino dell’Europa libera non avesse effetti sulle nostre bollette, sui nostri risparmi, sulla qualità del nostro futuro. Spiegare agli italiani quanto la differenza tra una democrazia e una democratura possa pesare pure sul loro borsellino sarebbe, quello sì, un canovaccio di realismo con cui sostituire tante pagine di parole al vento. Le ipocrisie italiane sulla scuola, sulle carceri e sulla sanità di Gianluca Budano huffingtonpost.it, 12 settembre 2022 Ma i decisori pubblici sono colpevoli, superficiali o fanno finta di non conoscere la realtà? Scuola, il 12 settembre è squillata la campanella: cori di auguri e in bocca al lupo ai nostri ragazzi, al personale docente e anche a noi genitori che affidiamo i nostri figli per 9 mesi circa alla comunità scolastica, l’unica sub comunità che dura quasi quanto tutto l’anno solare, operando per accrescere la cultura e le competenze e per concorrere alla crescita educativa della Nazione. La scuola è però anche inclusione e integrazione degli alunni diversamente abili, affidata ai servizi scolastici di Comuni e Ambiti Territoriali Sociali, in una difficile collaborazione che renda concreto in tutta Italia, senza disuguaglianze, un modello che garantisca in modo efficace il diritto allo studio e all’inclusione dei nostri ragazzi speciali. Insegnanti di sostegno atavicamente insufficienti e reclutati spesso senza titoli, mancata specializzazione per la presa in carico delle disabilità comportamentali, organici a regime settimane dopo l’inizio dell’anno scolastico. I dati ci dicono però che gli insegnanti italiani sono, ogni 100 studenti: nella primaria 9,7, contro i 5,9 nei Paesi Ocse; nella secondaria di primo grado 9,7 contro i 7,3; nella secondaria di secondo grado 8,7 contro i 7,9. Problemi di numero insomma non paiono essercene, se ci riferiamo ai valori assoluti. Se andassimo a guardare gli stipendi vedremmo che i numeri invece non quadrano: ad esempio un docente in Germania guadagna 45000 euro l’anno, allo stesso livello di carriera molto molto meno avviene per l’omologo italiano. In sintesi gli insegnanti non mancano, gli stipendi sono anormalmente bassi sulla logica antimeritocratica e mortificante del guadagnare meno e lavorare tutti, mentre il numero di precari abbonda e per una strana contingenza astrale non si riesce mai ogni anno ad avere un contingente stabile che abbia passato un concorso pubblico (quindi verificando i requisiti di accesso), nonostante gli alunni decrescono di anno in anno. Per non parlare del personale ATA che in Italia non entra per concorso, ma per cumulo di esperienze, alla faccia di chi deve fare un concorso per entrare normalmente in qualunque altra pubblica amministrazione. Che si tratti di pessima programmazione è certo, ci domandiamo se la scelta è consapevole o no da parte dei nostri decisori politici, nei confronti di quello che viene definito (a parole) tra i beni più cari della nostra Nazione: la scuola e quindi le future generazioni! Carceri: è noto che sono sovraffollate, ma tali restano e tutti i progetti di giustizia riparativa stentano a partire così come quelli di edilizia carceraria. Per non parlare della pena la cui funzione rieducativa è nota solo per non essere realizzata e quindi, nella sua sostanziale assenza, per la sua funzione punitiva. Ma la vera punizione è dei familiari del recluso, in particolare i figli minori, privi di qualunque presa in carico stabile e infrastrutturata, condannati a una sorte non molto diversa dai padri e dalle madri, tra povertà educativa che spesso sfocia in devianza per diventare una condanna futura ad ereditare gli errori dei genitori anche quando questi si sono veramente pentiti. Che questa sia una verità oggettiva è noto, ci domandiamo se il comportamento inerte e omissivo dei decisori politici, come per la scuola, sia colpevole o no, anche qui nei confronti di quelli che vengono definiti (a parole) gli esseri più cari alla Nazione: i bambini! Sanità: secondo i dati Eurostat 2019 l’Italia aveva 405,7 medici ogni 100.000 abitanti, contro la media europea di 390,6. Ne abbiamo circa 69 in più della Francia, 34 e 35 in meno della Germania e della Spagna. Con 83 milioni di abitanti la Germania ha circa 1914 ospedali e 800 posti letto ogni 100.000 abitanti, l’Italia 314 posti letto con poco più di mille ospedali e cliniche. La media europea è 537,84 posti letto ogni 100.000 abitanti (dato 2018). È evidente che non può essere un dogma il fatto che i medici in Italia sono pochi, perché proprio pochi, in valore relativo, non lo sono. Forse è l’organizzazione sanitaria che non è adeguata. Che quanto dichiariamo sia una verità oggettiva scaturita da una banale analisi dei numeri pare lapalissiano, ci domandiamo anche qui come per scuola e carceri, quanto sia doloso o solo colpevole per negligenza il comportamento dei decisori pubblici a tutti i livelli, anche qui, nei confronti della salute della popolazione che è la cosa (speriamo non a parole) di più caro che abbiamo! Tre settori, tre temi, tre fragilità possibili in campo, che dimostrano o per lo meno mettono seriamente in dubbio l’amore che ha l’Italia di se stessa e fanno vacillare un’informazione che pare spesso orientata, anzi trascinata da notizie prive del rigore sulla loro fondatezza. Ma questo rigore i bambini, i malati (conclamati e potenziali) e gli studenti del nostro Paese non lo meritano proprio? E chi si candida a governare il Paese, senza eccezione di schieramento, nel corpo non sente proprio il brivido della coscienza e della propria inadeguatezza? Ovviamente chi scrive non lo fa per demolire, ma per costruire e per essere smentito prima possibile, come chi banalmente vuole bene a se stesso e agli altri! La guerra rimossa dai partiti in gara di Alessandro De Angelis La Stampa, 12 settembre 2022 La contorsione verbale più spettacolare è dell’avvocato del popolo: “L’Italia non è in grado di sopportare un nuovo sforzo bellico, perché siamo in recessione”. Così Giuseppe Conte di fronte platea amica della festa del Fatto, dopo il blitz al festival “no war-no base” a Colato. Realizzato poi che la resistenza ucraina funziona perché nei cannoni non ci sono fiori, si corregge un po’: “Sono orgoglioso - due ore dopo a In mezz’ora in più - del sostegno all’Ucraina”. Insomma, gli ucraini riconquistano spazi di libertà grazie a cannoni senza fiori (evviva!) ma “no escalation, la linea non cambia”. Dicono che funziona, anche se non si capisce cosa significhi. Morale: i fatti, con la loro testa dura (diceva il compagno Lenin), raccontano di una disfatta russa nel Donbass proprio nei giorni Putin ne aveva annunciato la conquista (15 settembre). Ma neanche questo riesce a scalfire una discussione, tutta italiana, che pare separata dal mondo: “autarchica”, il cui epicentro è tutto nazionale e tiene fuori la guerra, sia come analisi della situazione sul campo, sia come scossa in termini di emergenza energetica, migratoria, alimentare. E infatti aiuta la Meloni che è autarchica per definizione. La contorsione verbale di Conte disvela quanta ipocrisia c’è stata e c’è nel variegato mondo del pacifismo nostrano. Qualche tempo fa si teorizzò addirittura il “dovere della resa” degli ucraini per non allungare una inevitabile agonia davanti all’invincibile armata di Putin. I pifferai magici di allora, nelle piazze e nei teatri, oggi invece tacciono, peraltro dopo aver preferito le vacanze all’organizzazione di un partito per far pesare in Parlamento tesi che, si diceva, intercettavano il consenso della maggioranza degli italiani. Però la rimozione riguarda anche, paradossalmente, chi nei fatti con la testa dura potrebbe trovare un assist per rivendicare la giustezza delle proprie convinzioni: un popolo che riconquista spazi di libertà non è un buon motivo per dare agli italiani, angosciati dai sacrifici, quantomeno il senso di una missione alta che li giustifichi? In questo caso, nella prudenza, pesa la paura dell’impopolarità dei costi da sopportare (e ci risiamo con gli occhiali domestici), in un paese che vota col portafoglio. Soprattutto perché è sempre più vuoto. E le soluzioni sempre più complicate col povero Draghi stretto, dopo essere stato tirato giù, tra richieste di scostamento e logoramento sul decreto Aiuti. Diciamo le cose come stanno: la riconquista ucraina del Donbass rafforza Giorgia Meloni, che sulla collocazione atlantica ha posto in essere un lavorio politico non banale (vedi la visita di Urso a Kiev e in Polonia). E rende più complicato per Salvini, a questo punto, volare a Mosca dal 26 settembre, a spese o meno dell’ambasciatore Razov, nel momento in cui le chiavi del conflitto sono meno saldamente nelle mani di Putin. Per carità, lui continuerà a menare la grancassa sulle sanzioni. Ma il terreno non gioca a suo favore, e non è poco. Migranti. “Loujin morta di sete fra le mie braccia. Quest’Europa è indifferente e disumana” di Filippo Femia La Stampa, 12 settembre 2022 La bimba siriana di quattro anni vittima in un naufragio nel Mediterraneo. La denuncia del padre: “Le navi sono passate senza soccorrerci”. Loujin sorride dalla foto profilo WhatsApp di mamma Tasmin. Nell’immagine scattata al tramonto indossa un abito bianco da cerimonia, gli occhi felici. Quel sorriso non c’è più: è stato cancellato, spazzato via dall’indifferenza di chi poteva salvarla ma ha scelto di voltarsi dall’altra parte. Questa bimba di quattro anni è morta in mezzo al Mediterraneo, al largo delle coste maltesi. In quell’Europa dove la sua famiglia, siriani rifugiati in Libano, sognava una seconda vita. Le sue ultime parole sono state un’implorazione, l’ennesima, sussurrata ai genitori: “Datemi qualche goccia d’acqua, per favore”. Ma sul barchino che trasportava la speranza disperata di sessanta persone non c’era né cibo né acqua, da diversi giorni ormai. È morta di sete, Loujin, la notte dell’otto settembre, tra le braccia di mamma e papà, ancora sotto choc: “Il suo pianto inconsolabile avrebbe commosso anche i sassi - singhiozza il padre, Ahmad Adbelkafi Nasif -. Avete idea di cosa significhi per un genitore vedere morire una figlia in questo modo atroce?”. Il barchino su cui viaggiavano sessanta migranti era partito dal Libano a inizio mese, direzione Italia. Ma da giorni i motori erano fuori uso e lo scafo aveva iniziato a imbarcare acqua. Con un telefono satellitare qualcuno ha mandato un Sos, rilanciato immediatamente da Nawal Soufi, un’attivista catanese di origini marocchine, che da anni si occupa di salvataggi in mare. “La barca si trovava nella zona Sar (Search and rescue, ndr) di Malta e ho subito avvertito le autorità di La Valletta - racconta -. Dopo un giorno di silenzio mi è stato risposto che c’era una nave in avvicinamento: “Il salvataggio è solo questione di tempo”, mi è stato detto”. Quella nave non è mai arrivata. I testimoni raccontano che ne sono passate diverse, ma nessuna si è fermata. “Svuotavamo lo scafo con i secchi, era evidente che stavamo naufragando - racconta indignato Ahmad -. Alcuni ci hanno anche fotografati e poi hanno continuato”. La salvezza si è materializzata sotto forma di un mercantile battente bandiera di Antigua e Barbuda, ma per la piccola Loujin era già troppo tardi. Ora la famiglia Nasif si trova in un ospedale di Creta, dove Mira, l’altra figlia di un anno, è ricoverata dopo aver ingerito grandi quantità di acqua. “Grazie a dio non è in pericolo di vita - spiega la madre -, ma il nostro cuore è in cenere”. Oltre alla speranza hanno perso ogni cosa: “In Libano rischiavamo di vivere di elemosina. Abbiamo provato a partire in maniera legale, ma l’unica via è stata quella del mare - spiega il padre -. Nel viaggio abbiamo investito tutti i nostri risparmi: 12 mila euro”. Dal sogno di una vita, la bandiera con le 12 stelle su fondo blu si è trasformata in un inferno. “Credevamo che l’Europa fosse il continente dell’umanità, ci sbagliavamo. Ci ha strappato nostra figlia. Se potessimo tornare indietro, mangeremmo terra in Libano piuttosto che vivere questa tragedia”, mormora il padre. Che però non riesce ad avere rancore. Se avesse di fronte a lui i politici europei, spiega, augurerebbe loro di vedere i figli nella stessa situazione di Loujin, a implorare un po’ d’acqua: “Ma io vorrei passare di lì per non lasciarli morire”. Sui social sono già iniziati a piovere i commenti contriti per una morte assurda. Scene già viste: c’è da prevedere che l’indignazione duri fino alla prossima tragedia, che anche stavolta non verrà evitata. Questione di ore, secondo Nawal Soufi: “Purtroppo abbiamo notizie di molte imbarcazioni in difficoltà, il prossimo dramma non tarderà ad arrivare. Serve un’operazione di salvataggio coordinata a livello europeo”. Perché l’attivista non ha alcun dubbio: “Loujin è morta a causa delle politiche europee”. Il Kurdistan senza pace di Bernard-Henri Lévy* La Repubblica, 12 settembre 2022 Daesh è tornato senza che gli alleati dei curdi, europei o americani che siano, si rendano conto del pericolo. Quel popolo è il nostro scudo contro il ricatto energetico messo in atto da Putin e il caos che ne consegue. La prossima vittima della guerra in Ucraina sarà il popolo curdo? Non parlo dei curdi di Iran e Turchia, il cui livello di persecuzione, da quando l’Occidente guarda altrove, è salito di una tacca. Né dei curdi del Rojava, che il criminale di guerra Erdogan, forte dei suoi presunti buoni uffici nella crisi del grano ucraino, chiede (a Teheran, a Mosca...) di poter massacrare ancora un po’. Parlo dei peshmerga, i curdi iracheni, ai quali ho dedicato due dei miei film, che ho visto combattere contro l’idra islamista con un eroismo pari solo a quello degli ucraini e che ancora una volta stiamo abbandonando. Daesh è tornato. Rialza la testa a Sulaymaniyya. Riprende posizione nelle grotte e nei passaggi sotterranei dei monti Qarachok. Mette alla prova tutti i giorni, lungo il vecchio fronte del Settore 6, nei dintorni di Gwer, le capacità di resistenza del generale Sirwan Barzani. E tutto ciò senza che gli alleati dei curdi, europei o americani che siano, si rendano conto del pericolo. È ingratitudine? O la pessima abitudine, in democrazia, di gettare gli alleati dopo l’uso? Oppure solo incredulità di fronte a una minaccia troppo terrificante per poterla immaginare? Se si tratta di incredulità, ecco il messaggio di uno dei fondatori, assieme a Thomas S. Kaplan, della Ong americana Justice For Kurds (JFK), che dispone di fonti credibili: Daesh non è un tumore estirpabile, è mercurio nero, un argento vivo lugubre e trismegisto, un gas invisibile che evapora, resta in sospensione e non chiede di meglio, se i suoi avversari abbassano la guardia, che precipitare nuovamente. Ed è lì, nel Kurdistan iracheno, che sta per succedere. L’Iran regge le fila. Sveglia gli agenti dormienti nella zona. Galvanizza le milizie sciite al soldo delle Forze di mobilitazione popolare e, in certi casi, persino delle unità di Guardiani della rivoluzione. Lancia razzi sulle zone raggiungibili dalla piana di Ninive e, già diverse volte quest’anno, fino ai sobborghi di Erbil e intorno al suo aeroporto. E tutto, di nuovo, senza che gli alleati del Kurdistan si preoccupino di dare un senso a quei segnali: odio per l’eccezione curda? Volontà di sabotare un’esperienza democratica di cui, come Putin con l’Ucraina, si teme lo splendore? Oppure si tratta, come Putin, che calza ancora gli stivali troppo grandi per lui degli zar della Santa Russia, come Xi Jinping che ravviva, da Taiwan all’Africa, passando per le nuove vie della seta, le ceneri degli antichi imperi Han, Ming e Qing, o come Erdogan che tenta di resuscitare l’impero Ottomano defunto, di un manipolo di ayatollah che si credono eredi di una Grande Persia estesa almeno fino a Bagdad? Tutte e tre le ipotesi sono vere. E io, in L’Empire et les cinq rois, ho spiegato perché questa è la sfida principale che attende le generazioni future. Questo Kurdistan, per il diritto internazionale, dopo la prima guerra del Golfo e l’inizio della fine di Saddam Hussein, è solo il Krg, ovvero una delle entità costitutive dell’Iraq moderno. Ora, su pressione, giustamente, dell’Iran, l’Iraq lavora da mesi e persino da anni per indebolire, umiliare e infine strangolare questa “regione autonoma” curda dotata di una sovranità purtroppo limitata. Dal 2014, la quota di budget federale destinata a questa regione è bloccata. A trentamila peshmerga non viene versata la paga; la si lascia, anno dopo anno, alla buona volontà dell’amministrazione americana. E ancora, si vieta loro l’esportazione e lo sfruttamento del petrolio, vitale per la regione, a cui si finge che non abbiano diritto in virtù di una lettura fallace di tre articoli della costituzione federale (gli articoli 110, 111 e 112). E gli alleati non dicono niente. O poco. E senza la vigilanza di un gruppo bipartisan di rappresentanti e senatori americani che, assieme a Michael Waltz, Dina Titus, Jim Risch, Doug Lamborn, Michael McCaul o Bob Menendez, suonano regolarmente l’allarme, i curdi sarebbero tornati da tempo all’epoca delle montagne. Vista la situazione, le soluzioni sono due. O gli Stati Uniti non sanno più contare fino a due e ritengono che, nella guerra mondiale dichiarata loro dal blocco delle potenze autoritarie e neoimperialiste indicato da Macron durante la Conferenza degli ambasciatori, non possono impegnarsi su più di un fronte alla volta, e quindi Erbil si deve preparare a fare la fine di Kabul. Oppure si rendono conto che il petrolio e il gas curdi sono una delle più serie alternative al petrolio e al gas russo; comprendono che, come ai tempi in cui erano il nostro baluardo contro Daesh, ora i curdi sono il nostro scudo contro il ricatto energetico messo in atto da Putin e il caos che ne consegue; si ricordano, en passant, di quegli antichi, che i loro padri fondatori conoscevano a memoria, secondo i quali la geopolitica, quando si è Atene o Roma, è l’arte di vedere il mondo “come se fosse un’unica città”, e capiscono quindi che a Kiev e a Erbil si sta giocando una stessa partita. *Traduzione di Alessandra Neve