Crescono i suicidi in carcere. Una sconfitta per la società di Anna Lisa Antonucci L’Osservatore Romano, 11 settembre 2022 Ogni suicidio in carcere è una sconfitta per la società, perché quella persona poteva essere recuperata e invece l’abbiamo perduta per sempre, dunque inquieta la crescita del fenomeno che, dall’inizio dell’anno, conta già 59 vittime tra i reclusi, al ritmo di uno ogni quattro giorni. Ad agosto, poi, le cifre sono praticamente raddoppiate, con 15 in un solo mese, uno ogni due giorni. E si tratta, per la gran parte, di persone giovani. L’analisi sul fenomeno dell’Associazione Antigone, che si batte per i diritti in carcere, parla di un’età media di 37 anni, ma con molte vittime (21) anche nella fascia tra i 3o e i 39 anni. Sono stati inoltre 16 i casi di suicidio tra i giovani di età compresa tra i 20 e i 29 anni. In più, sul totale delle persone che si sono tolte la vita in carcere (28 gli stranieri), 4 erano donne, un numero alto vista l’esiguità della popolazione detenuta femminile. A riflettere, con “L’Osservatore Romano”, su una realtà che allarma è il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma. “Il giorno di Ferragosto - racconta - nel carcere di Torino, un agente ha trovato morto, con un sacchetto ben annodato sulla testa, in modo da garantire il soffocamento, un ragazzo di 25 anni, entrato in carcere dalla libertà da meno di due settimane. Il reato riportato nella sua scheda è rapina. La scheda dice anche che aveva genitori, una casa. Altro non sappiamo della sua vita, ma certamente non possono essere state le condizioni detentive, spesso disattente alla dignità delle persone, ad avere determinato il suo gesto, perché non le aveva ancora sperimentate nei fatti”. E dunque importante, spiega Palma, “sgombrare il campo da una visione che connette le decisioni estreme alla difficoltà materiale della detenzione. Troppo breve è, in molti casi, la permanenza all’interno del carcere per supportare tale visione”. Così come, secondo Palma, “troppo frequenti sono anche i casi di suicidio tra chi, a breve, sarebbe uscito. Ciò ci fa capire che a volte è l’esterno a far paura quasi e più dell’interno”. A spingere al gesto estremo, dice il Garante, “è determinante la sensazione di essere precipitati in un “altrove” esistenziale, in un mondo separato, totalmente ininfluente o duramente stigmatizzato anche nel linguaggio dei media e talvolta anche delle istituzioni, dove spesso si è giunti dopo vite condotte con difficoltà e lungo il bordo del precipizio”. Non a caso si parla di una “tendenza all’incarcerazione della povertà” da cui deriva che la densità dei “senza fissa dimora” in carcere è altissima. Non deve stupire dunque che nell’ultimo anno quasi un quarto delle persone che si sono suicidate in carcere era senza fissa dimora. Inoltre, continua ad essere inutilmente frequente il ricorso alla misura detentiva per reati minori. Dunque, per garantire un’effettiva presa in carico delle persone, soprattutto al loro ingresso “occorre - suggerisce il Garante - restringere la platea delle persone in carcere, a partire da un dato chiaro: oggi 1.301 persone sono recluse per scontare una pena inferiore a un anno, mentre altre 2.567 scontano una pensa compresa tra uno e due anni”. Un altro aspetto che Palma sottolinea, analizzando il problema dei suicidi in cella, è il “tempo vuoto” che le carceri italiane riservano ai detenuti. “La sottrazione del tempo soltanto in funzione del vuoto non è accettabile - dice il Garante - e contribuisce alla percezione del proprio annullamento. Il tempo sottratto deve avere sempre significato e deve essere chiaramente orientato alla finalità che tale sottrazione ha consentito, è questo un diritto inviolabile della persona privata della libertà”. Infine, deve essere ridotta la distanza con l’esterno, “con l’incremento di contatti con i propri affetti, grazie all’utilizzo delle tecnologie”. “Un aspetto, questo - spiega Palma - che, oltre a favorire il reinserimento futuro in una società in rapida trasformazione tecnologica, può essere un segnale di non essere finiti in un mondo diverso”. Secondo Palma, non bisogna mai dimenticare “che l’essenza della pena è solo nella privazione della libertà e non in altri fattori, questo il messaggio che può aiutare a superare quell’invivibile angoscia del vuoto”. Carceri da vergogna, ora qualcosa si muove di David Allegranti La Nazione, 11 settembre 2022 Ci sono voluti cinquantanove suicidi in carcere, ma alla fine qualcosa si muove (seppur molto timidamente) anche tra i partiti. Venerdì 16 settembre a Roma, al Palazzo Santa Chiara, Stefano Anastasia, portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni italiani, ha organizzato un dibattito sul carcere con i partiti in vista delle elezioni politiche. Una lodevole iniziativa che merita attenzione. Anche perché sarà interessante vedere chi ha raccolto l’invito di Anastasia e chi no. Per ora ci saranno Francesco Paolo Sisto (Forza Italia), Anna Rossomando (Pd), Gennaro Migliore (Azione-IV), Riccardo Magi (+Europa), Giuseppe De Cristofaro (Verdi-SI). Gli organizzatori aspettano una risposta da Lega, FdI e M5S. Ma perché per la politica è così difficile occuparsi di carcere? Giro la domanda al filosofo del diritto Emilio Santoro, professore all’Università di Firenze: “Per la politica occuparsi di carcere è praticamente impossibile senza un grande atto di civiltà di tutti i partiti, che dovrebbero convenire di condividere il principio costituzionale che sancisce il dovere dello Stato di non infliggere trattamenti contrari al senso di umanità, garantire i diritti fondamentali di tutte le persone detenute e configurare una pena che mira al loro reinserimento sociale”. Insomma, dice ancora Santoro, “senza un accordo di questo tipo è impossibile per un partito proporre serie riforme del carcere lasciando agli altri lo spazio di cavalcare il risentimento sociale contro Caino”. È indicativo, prosegue Santoro, “che l’abolizione della pena di morte in Italia come negli altri paesi è avvenuta sempre grazie a un accordo più o meno esplicito che nessun partito significativo avrebbe fatto campagna elettorale contestando la sua abolizione e chiedendone il ripristino. Dove questo accordo non c’ è stato, vedi gli Usa, la pena di morte è tutt’ora in vigore. Va anche sottolineato che quello che viene chiamato il boom carcerario, cioè il forte e progressivo aumento del numero dei detenuti in tutto il mondo occidentale fa seguito alla scelta di Ronald Reagan prima e Margaret Thatcher poi di fare campagne elettorali basate su slogan come ‘duri contro il crimine’, ‘guerra alla droga’, ‘tolleranza zero’... Dato i successi elettorali di queste campagne tutti hanno fatto proprie queste tematiche a destra come a sinistra”. Paradigmatico, osserva Santoro, “è il caso di Lula, primo presidente brasiliano del partito dei lavoratori, che fa un propagandato viaggio a New York per studiare la tolleranza. La concorrenza elettorale ha provocato una spirale in cui destra e sinistra gareggiavano a proporre politiche più repressive o nel mostrare che erano più capaci di espellere gli stranieri”. Questioni che verranno senz’altro affrontate nell’incontro di venerdì prossimo a Roma. Scarpinato: “Il carcere non sarà mai civile fino a quando i colletti bianchi non cominceranno a esserne ospiti” Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2022 “Questa classe dirigente che ha sempre avuto in odio la Costituzione, ha declinato la propria criminalità sul versante dello stragismo, ma anche della corruzione”, così Roberto Scarpinato, ex procuratore generale di Palermo, candidato al Senato alle prossime politiche con il Movimento 5 stelle, intervenendo alla Festa del Fatto Quotidiano, durante l’evento “La restaurazione a 30 anni dalle stragi” con Gianni Barbacetto e Giuseppe Pipitone. “In quale Paese del mondo si rischia una crisi di governo per la prescrizione? Qual è il problema? L’efficienza del sistema penale? Sono ipocrisie culturali - ha continuato - Ma voi pensate che il mondo della corruzione, dell’alta mafia, dell’abusivismo edilizio, voglia un processo rapido ed efficiente? C’è un’inefficienza programmata che fa sì che in Italia si possano perseguire gli omicidi, la mafia, ma tutto il resto è una corsa a ostacoli perché è l’unico modo per garantire un’impunità”. “La cartina di tornasole di questa giustizia classista che hanno costruito è la composizione della popolazione carceraria in Italia, i colletti bianchi non sono statisticamente quotati. Il carcere in Italia non sarà mai un carcere civile fino a quando i colletti bianchi non cominceranno a essere ospiti delle nostre classi”. Csm al voto con nuove regole: meno spazio alle correnti, più outsider di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 11 settembre 2022 Tra una settimana circa 10mila magistrati alle urne per eleggere 20 consiglieri. Con la nuova legge più candidati. Non saranno le elezioni politiche, ma nel mondo della giustizia pesano e peseranno. Fra sette giorni, il 18 e 19 settembre, i magistrati andranno alle urne per rinnovare il Csm, eleggendo 20 consiglieri (2 in rappresentanza della Cassazione, 5 delle procure; 13 per la magistratura giudicante). Un numero superiore ai 16 attuali, che trova peraltro riscontro anche nella crescita dei componenti laici, eletti dal Parlamento, che passano da 8 a 10. Un banco di prova sotto una pluralità di punti di vista. Innanzitutto della capacità della magistratura di fare i conti con la bufera che ha investito lo stesso Consiglio superiore dopo il deflagrare dell’ormai proverbiale “caso Palamara” e poi dell’efficacia della riforma Cartabia, che ha introdotto una nuova legge elettorale (il “martarellum”), nel favorire una nuova rappresentanza istituzionale delle toghe anche attraverso un nuovo sistema elettorale. Candidature in aumento e, in attesa dell’esito, alcuni elementi si possono affermare con certezza: da una parte la forte crescita delle candidature, che, almeno sulla carta, rende il Csm più contendibile e poi, segnale anche questo da sottolineare, la considerevole presenza di candidati svincolati dall’appartenenza ai gruppi organizzati della magistratura. O perchè indipendenti o perchè usciti in dissenso dalle correnti “storiche”. Il tutto potrebbe produrre un significativo cambiamento nella rappresentanza, con uno spazio maggiore per gli outsider. Di più, la riforma ha ottenuto il raggiungimento della parità di genere e dato ingresso al sorteggio almeno in due forme: quella istituzionale, imposta dalla necessità di assicurare la piena rappresentanza femminile e poi quella promossa da un gruppo di magistrati (Altra proposta 2022) che ha proceduto alla individuazione di 8 giudici di merito (2 per ogni collegio), un pubblico ministero e un consigliere di Cassazione. Il confronto con il passato - Vuoi per la consapevolezza della stagione assai difficile in corso per tutta la magistratura, vuoi per i timori di un ritorno, in caso di assai verosimile governo di centrodestra, a scontri aspri con la politica, vuoi per la presa più limitata delle correnti nella determinazione delle candidature, certo il risultato, questo sì finale, testimonia una vera e propria mobilitazione. A misurare la distanza rispetto al recente passato basta il dato relativo alle elezioni dei pubblici ministeri, dove a fronte dei 4 candidati pero posti, in rappresentanza dei gruppi più strutturati, ora ci sono i8 pm per 5 posti nei due collegi nazionali. Tra questi, esempi di due diverse tipologie di candidature, oltre a quelle tradizionali veicolate dalle correnti con strumenti e obiettivi che comunque si sottolineano diversi dal passato (dal più diffuso uso delle primarie alla volontà di porre rimedio alla crisi del sistema di autogoverno anche attraverso condotte eticamente impeccabili), quelle al Sud, in totale autonomia, di Henry John Woodcock, pm a Napoli e protagonista di note inchieste e al Nord di Roberto Fontana, della Procura di Milano, ex coordinatore di Area e nome storico di Md, che si presenta da solo, ma con le firme di 100 colleghi a sostegno (la riforma esclude comunque un numero minimo di firme per potersi candidare), in disaccordo con le scelte fatte dalla “sinistra” delle toghe sulle forme di selezione dei candidati. Il meccanismo Se tra i pm i 5 seggi toccheranno ai primi due dei due collegi nazionali più il migliore terzo, dei 13 seggi spettanti ai giudici 8 saranno attribuiti con sistema maggioritario binominale su 4 collegi nazionali omogenei, mentre 5 saranno assegnati su base proporzionale in unico collegio nazionale. Un correttivo voluto dalla riforma per favorire il pluralismo e spingere i candidati ad associarsi in network il cui peso sarà determinato dal numero dei voti complessivamente ottenuto, scomputando però quello dei candidati risultati già eletti.ù Nei fatti il sistema ha prodotto in maniera “naturale” l’apparentamento tra i nomi tra i candidati sorteggiati, sia nella forma istituzionale sia in quella autonoma. Il nodo della data Certo tutto da valutare ci sarà tra una settimana l’esito della consultazione tra i circa 20.000 magistrati. Dove la data delle elezioni, ed è critica diffusa soprattutto fra i candidati indipendenti, favorisce in maniera significativa chi ha un gruppo strutturato alle spalle per farsi conoscere. Per tutti gli altri infatti il tempo a disposizione, in larga parte assorbito dal periodo di funzionamento a scartamento ridotto dell’amministrazione della giustizia durante agosto, è stato assai poco. Meglio sarebbe stato, si fa notare, un rinvio, allineando formalmente la scelta dei consiglieri togati a quelli votati dal Parlamento, dopo le lezioni del 25 settembre, che verosimilmente procederà non prima della fine dell’anno. Attacchi sulla stampa e cene di corrente: la corsa al Csm non perde certe abitudini di Giulia Merlo Il Domani, 11 settembre 2022 Se in questa campagna elettorale si è tornati più volte a stigmatizzare le condotte dei magistrati che offrivano o chiedevano nomine al Csm, tuttavia, alcune delle condotte prodromiche a quel sistema continuano a vedersi. Il 18 e 19 settembre si voterà per eleggere il nuovo Consiglio superiore della magistratura e la competizione è sempre più accesa. Si voterà con una nuova legge elettorale maggioritaria con correttivo proporzionale e collegi più piccoli, soprattutto per la componente di merito, inoltre i candidati sono moltiplicati rispetto al passato. Le candidature sono ben 87, molte delle quali indipendenti e quindi non legate ai gruppi associativi, e questo non permette di fare valutazioni certe sull’esito elettorale come era stato invece nel 2018, quando per coprire i 4 posti assegnati ai pubblici ministeri i candidati erano esattamente 4. Proprio questa inedita concorrenza interna ha generato occasioni di dibattito per discutere della cosiddetta “questione morale” legata ai fatti dell’hotel Champagne e del caso Palamara. Se in questa campagna elettorale si è tornati più volte a stigmatizzare le condotte dei magistrati che offrivano o chiedevano nomine al Csm, tuttavia, alcune delle condotte prodromiche a quel sistema continuano a vedersi. La delegittimazione sulla stampa - La stampa spesso si trasforma nel principale alleato o nel nemico peggiore per i candidati. Un consigliere del Csm dovrebbe essere scelto dai suoi colleghi sulla base delle sue idee e di come intende esercitare il suo ruolo in un organo di garanzia costituzionale: idee che possono essere espresse attraverso la collocazione culturale dentro un gruppo associativo e l’adesione al suo programma, oppure che possono venire esposte pubblicamente come candidato indipendente. Marginale o nessun ruolo, invece, dovrebbe avere l’attività professionale del singolo magistrato, la buona o cattiva pubblicità mediatica in merito a inchieste condotte da pubblico ministero o decise da giudice. Eppure, spesso la stampa prova a inserirsi per sparigliare le carte, spesso sostenuta anche da utili imbeccate. Ultimo caso in ordine di tempo ma non certo l’unico, questo è successo a Carlo Lasperanza, candidato indipendente ma con un passato in Magistratura indipendente e attuale pm di Latina. Nei mesi scorsi, il suo nome è finito nelle cronache giudiziarie per l’inchiesta che ha coinvolto la sindaca di Terracina, per cui è stata disposta la misura cautelare degli arresti domiciliari e che poi si è dimessa dall’incarico. L’inchiesta è stata firmata da lui e da altri due colleghi, ma anche dal procuratore capo ed era cominciata due anni fa. Eppure, al momento in cui le misure cautelari sono state parzialmente revocate anche in seguito alle dimissioni della sindaca, una parte preponderante della notizia è diventata il fatto che Lasperanza fosse candidato al Csm. L’utilizzo di inchieste in corso per legittimare o - in questo caso - tentare di delegittimare candidati al Csm è una prassi che lede prima di tutto gli indagati, che diventano strumento di lotta politica interna alla magistratura in una fase in cui dovrebbe prevalere il sistema delle garanzie. Le cene - A non essersi interrotta è anche la prassi delle cene elettorali da parte dei gruppi associativi, che era tra gli strumenti essenziali del Sistema raccontato dall’ex magistrato Luca Palamara e che, almeno a parole, tutti hanno rigettato. Più fonti interne alla magistratura le hanno segnalate a Napoli, che è uno dei distretti di corte d’appello più grandi e in cui la raccolta di voti può garantire la vittoria, ma anche a Bari, dove il meccanismo è lo stesso. Entrambe le città sono centri che storicamente hanno un forte radicamento dei gruppi associativi, che starebbero continuando a utilizzare il “vecchio sistema” per cooptare il voto dei colleghi. In questo ritorno a condotte che fino a qualche mese fa venivano unanimemente condannate, spicca la positiva iniziativa dell’Associazione nazionale magistrati della Cassazione, che ha organizzato in diretta streaming un incontro tra i nove candidati del collegio di legittimità, in cui candidati indipendenti ed espressione dei gruppi associativi si sono confrontati coi nodi aperti della riforma Cartabia e del superamento della crisi provocata dalle vicende dell’hotel Champagne. Il bilancio finale si potrà fare solo alla fine della campagna elettorale e dopo il voto. Tuttavia, anche in questa fase si gioca un pezzo della credibilità della categoria, chiamata a dimostrare prima di tutto davanti ai propri colleghi elettori di aver interiorizzato quanto avvenuto negli ultimi anni e di avere gli anticorpi per superare la crisi che ne è derivata. “Io guardasigilli? All’Italia servono riforme garantiste” di Anna Maria Greco Il Giornale, 11 settembre 2022 L’ex pm Carlo Nordio è candidato per Fdi: “Se vinceremo attueremo il codice penale liberale. Poi basta processi lumaca”. Carlo Nordio, ex magistrato, ora candidato alla Camera per FdI: dopo i referendum il tema giustizia è passato in secondo piano in questa campagna elettorale. Dottor Nordio, se diventasse il Guardasigilli in un prossimo governo di centrodestra da che cosa inizierebbe? “Intanto bisogna vedere l’esito delle elezioni, e poi i ministri li nomina il Capo dello Stato. Infine, le leggi le fa il Parlamento, e il ministro ha un ruolo importante ma solo propositivo. Detto questo, credo che oggi la priorità assoluta sia l’economia, e che quindi anche gli interventi più urgenti sulla giustizia siano quelli che possono incidere subito sul bilancio. Quindi occorre ridurre la lentezza dei processi penali e civili, madre dell’incertezza del diritto, della contrazione degli investimenti e di un rallentamento dell’economia che ci costa un due per cento di Pil. La seconda urgenza è la piena attuazione del codice Vassalli, un codice liberale voluto da un socialista decorato dalla Resistenza, che funziona solo con la separazione delle carriere, la revisione dei poteri e delle responsabilità dei Pm e molte altre condizioni che oggi mancano”. Lo schieramento al quale lei fa riferimento si definisce “garantista”, in che cosa si dimostra di esserlo? “Nella volontà di attuare il processo accusatorio voluto da Vassalli, che nella sua formulazione originale esprimeva i due volti complementari del garantismo: la presunzione di innocenza e la certezza della pena. Il paradosso più funesto della nostra giustizia penale è che è tanto facile entrare in galera prima della condanna, da presunti innocenti, quanto è facile uscirne dopo, da colpevoli conclamati”. La lunga durata dei processi è uno dei problemi che da anni si cerca inutilmente di risolvere. Berlusconi ha detto che bisogna che durino al massimo i 400 giorni della media europea. Ci si può arrivare e come? “Prima di tutto bisogna riempire e aumentare gli organici paurosamente vuoti; poi ridurre le leggi, semplificare le procedure e aumentare le risorse, non solo di magistrati ma soprattutto di collaboratori amministrativi. Infine rendere discrezionale l’azione penale, che oggi è lasciata all’arbitrio dei Pm, depenalizzare i reati minori, e allargare i patteggiamenti. Per il processo civile suggerirei di copiare il sistema tedesco, che a parità di risorse fa durare le cause un terzo del tempo che occorre da noi”. La presunzione d’innocenza spesso rimane teorica anche per il risalto delle inchieste sui mass media che generano processi di piazza. Come evitarlo? “Il primo passo spetta alla politica, che deve affrancarsi dalla paura della magistratura e ripudiare il principio che un’inchiesta penale possa compromettere la carica o l’eleggibilità di un cittadino. Poi occorre rivedere la stessa funzione dell’informazione di garanzia, che da strumento di tutela dell’indagato si è rivelato una condanna anticipata. E infine limitare le intercettazioni e secretare quelle rimaste, sotto la diretta responsabilità del Pm che le ha chieste”. Lei è d’accordo sulla proposta di rendere inappellabili le sentenze d’assoluzione di primo e secondo grado? “Certo. Se una condanna può intervenire solo al di là di ogni ragionevole dubbio, come puoi condannare dove un giudice ha già dubitato al punto da assolvere? E comunque, laddove si ammettesse l’impugnazione, magari per la sopravvenienza di nuove prove a carico, il processo andrebbe rifatto daccapo, e non risolto in appello, come accade oggi, in base ai soli verbali cartacei del precedente giudizio”. Per raggiungere una parificazione dei diritti tra pm d’accusa e avvocati di difesa serve la separazione delle carriere? “Certamente sì. E del resto ovunque sia in vigore il processo accusatorio, come quello voluto da Vassalli, le carriere sono separate. Dirò di più. Nei sistemi anglosassoni si dà la possibilità anche agli avvocati di diventare giudici o Pm, e viceversa. Perché i Pm sono elettivi, i giudici sono di nomina a governativa o presidenziale, e comunque non giudicano un bel nulla, perché il verdetto di merito è devoluto alla giuria popolare, sorteggiata e in parte ricusabile. E nessuno si sogna di definirlo un sistema autoritario e liberticida”. Il centrodestra è in largo vantaggio nei sondaggi ma alcuni sottolineano le divisioni interne e i problemi di leadership, dicendo che se andasse al governo non garantirebbe stabilità al Paese... “Il centrodestra ha stretto un patto di coalizione e sono certo che lo rispetterà. Del resto i programmi degli alleati sono molto più omogenei di quanto si dica. Le differenze sarebbero facilmente composte, per dar vita a un governo coerente nell’azione e duraturo nella stabilità”. “Emergenza democratica sulla giustizia” di Francesco Boezi Il Giornale, 11 settembre 2022 “Il Parlamento voti ogni anno una lista di reati che le procure devono perseguire in via prioritaria”, sostiene la candidata con il Terzo Polo alla Camera dei deputati. Benedetta Frucci, esponente d’Italia viva e candidata con il Terzo Polo alla Camera dei deputati, a tutto campo sulla Giustizia. Crede in una maggioranza trasversale sulla Giustizia? “Iv ha il garantismo nel dna: nel programma del Terzo Polo la giustizia è centrale. Riformarla tutti insieme, da Fdi al Pd, è possibile. Un ruolo cruciale di raccordo potrebbe essere svolto dalla Fondazione Einaudi, che con il suo Presidente Giuseppe Benedetto ha riunito spesso intorno al tavolo forze politiche fra loro avversarie”. Concorda con Nordio sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione? “Concordo. Per essere condannato l’imputato deve essere ritenuto colpevole oltre ogni ragionevole dubbio: con una sentenza di assoluzione, il dubbio non solo sorge, ma diventa illogico ritenere che le stesse prove raccolte in primo grado e che hanno determinato l’assoluzione, servano in appello per determinare la condanna. E poi l’inappellabilità velocizzerebbe i processi”. Si è presentata agli elettori con idee garantiste... “In Italia la giustizia è un’emergenza democratica. Serve una vera separazione delle carriere, ma anche una separazione dei palazzi: i pm e i giudici non devono più prendere il caffè insieme. Va scardinato il potere delle correnti: si dovrebbe far carriera perché si è bravi, non perché si è iscritti a Magistratura Democratica. Per non parlare della responsabilità civile: qualunque cittadino, se sbaglia, paga. Un magistrato invece al massimo perde un mese di anzianità, come successo all’ex Procuratore di Firenze Creazzo accusato di aver molestato una collega”. Una sua proposta innovativa? “Alcuni pm sono prontissimi ad aprire indagini e disporre misure cautelari quando si tratta di politici o personaggi noti, mentre non usano lo stesso metro per i reati violenti. La mia proposta è che il Parlamento voti ogni anno una lista di reati che le procure devono perseguire in via prioritaria. Per farlo basta una riforma dell’articolo 112 della Costituzione, quello che sancisce l’obbligatorietà dell’azione penale. Vorrei un Paese che considera il contrasto alla violenza sulle donne più urgente rispetto al perseguimento del presunto abuso d’ufficio di un sindaco”. Novara. “Troppo disinteresse sul carcere, mondo da riavvicinare alla città” di marco benvenuti La Stampa, 11 settembre 2022 Appello della direttrice: “Anche la nostra struttura ha bisogno dell’aiuto del volontariato”. “Il carcere non è un altro mondo, fa parte del territorio. Deve essere inserito nel tessuto sociale ed è importante che il territorio lo conosca. E invece c’è disinteresse: qualche novarese non sa nemmeno dove si trova. La cosa che mi sorprende è che a Novara non ci siano volontari, non c’è gente che chieda di dare una mano. Non serve curiosità, ma aiuto”. L’appello alla ricerca di volontariato per la casa circondariale di via Sforzesca è stato lanciato dalla direttrice Rosalia Marino venerdì durante l’incontro “Vita in carcere: un ponte fra detenzione e libertà”, tradizionale appuntamento di approfondimento pre-spettacolo della rassegna “Le notti di Cabiria” a Casa Bossi, che in serata ha poi ceduto il testimone a “Il colloquio”, rappresentazione teatrale dedicata al mondo del carcere e al rapporto fra detenuti e famigliari. Un’occasione per riflettere su problemi, disagi, carenze, obiettivi. Assieme al garante regionale per i detenuti Bruno Mellano e all’avvocato Alessandro Brustia, presidente della Camera penale di Novara, la direttrice Marino ha voluto lanciare un monito affinché i cittadini e le istituzioni prendano coscienza di problemi e difficoltà fra quelle mura, e al “dopo”, senza deviare in scontri ideologici all’insegna del “buttare via la chiave”. L’appello va anche alla politica: “In questa campagna elettorale non abbiamo sentito una parola per il carcere”. Si chiede attenzione: “Il nostro ordinamento giudiziario - ha detto Rosalia Marino - è del 1975. Oggi molte cose sono cambiate: il carcere era previsto come “estrema ratio”. E invece, allontanandosi da quei principi, è diventato il contenitore di tutto ciò che la società non vuole. Molti detenuti devono scontare definitivi inferiori a uno, due anni. Come possiamo intervenire su queste persone per garantire il “reinserimento” previsto dalla Costituzione? E’ già tanto se riusciamo a incontrarle una volta”. I numeri confermano: in Italia 1.324 dei 55 mila detenuti devono scontare meno di un anno, e altri 2.593 pene fra uno e due anni: “Sono persone su cui non possiamo fare nulla”, conferma la direttrice. Le dà man forte il garante Mellano: “Nei 190 istituti del Paese abbiamo “esseri umani”, persone: dobbiamo restituirli alla società”. Anche l’avvocato Brustia si appella al mondo politico-istituzionale: “Servono energie e risorse in termini economici e di personale: non possiamo pensare che avvocati e agenti penitenziari facciano anche gli psicologi, gli educatori, gli assistenti sociali, i mediatori. Non è il loro lavoro”. Bruno Mellano ha ribadito l’importanza di un collegamento col tessuto sociale: “Occorre fare sistema, perché altrimenti la detenzione non serve a nulla: i dati ci dicono che 7 detenuti su 10 tornano a delinquere una volta usciti. Così il sistema è fallimentare. Il carcere deve essere vissuto come un pezzo di società, e occorre pensare al dopo”. Novara, come ha sottolineato la direttrice, ci sta provando: “Siamo stati fra i primi, nel 2014, a stipulare con Comune e Assa un accordo per il lavoro esterno. Abbiamo rimesso in piedi la tipografia. E già anni fa, molto prima del Covid, abbiamo istituito le videochiamate coi famigliari. Da soli, però, non andiamo da nessuna parte”. La casa circondariale di via Sforzesca ha due “anime”: accanto alla sezione ordinaria, con un centinaio di detenuti comuni, attualmente ci sono anche 69 persone al regime del “41 bis”, riservato ai reati della criminalità organizzata. La capienza regolamentare dichiarata è 158 persone, sempre superata. Palermo. Totò Cuffaro chiede il Reddito di cittadinanza per gli ex detenuti di Miriam Di Peri La Repubblica, 11 settembre 2022 Il leader della Dc Nuova ha dato il via a uno sciopero della fame “a staffetta” (un giorno ciascuno) tra i dirigenti e i militanti del partito. Mentre il resto del centrodestra in imbarazzo si barcamena tra gli elettori siciliani glissando sul sì o no al reddito di cittadinanza - cavallo di battaglia di FdI a livello nazionale - Totò Cuffaro nuota controcorrente. Lo fa puntando il dito contro le modifiche alla misura di sostegno inserite nel decreto Aiuti in vigore dallo scorso 15 luglio, che tagliano fuori dall’elenco dei beneficiari i condannati, anche se hanno scontato la pena, prima che siano trascorsi dieci anni dalla scarcerazione. L’ex governatore condannato per favoreggiamento alla mafia in piena campagna elettorale ha puntato i riflettori su carceri e carcerati. Ha dato il via a uno sciopero della fame “a staffetta” (un giorno ciascuno) tra i dirigenti e i militanti della Dc per chiedere “una carcerazione più umana e la salvaguardia dei diritti dei detenuti”. E ora lancia una battaglia per allargare le maglie del reddito di cittadinanza a chi ha scontato una pena. “Una stortura - dice Cuffaro - che mi viene segnalata da Salvo Imperiale, uno dei nostri consiglieri al Comune di Palermo”. Un consigliere eletto con ben 1.300 voti, raccolti in prevalenza nel centro storico, dove ha un grande radicamento. Un fedelissimo che l’ex governatore definisce “da sempre vicino alle persone più bisognose”. “Perché un condannato che ha scontato la sua pena, che è stato rieducato e reinserito nella società, ma che non riesce a trovare lavoro, non ha diritto a percepire il reddito di cittadinanza?”, è lo sfogo di Cuffaro, che si spinge a definire la misura “la più importante riforma del welfare degli ultimi decenni”. Per l’ex governatore “sembra quasi che sia in atto una manovra in favore dell’esclusione sociale, dei favoritismi alla criminalità organizzata pronta sempre a reclutare manovalanza”. Dunque la promessa elettorale: “La Dc chiederà di sospendere le modifiche contenute nel decreto aiuti”. La sfida all’ultimo voto passa anche dagli ex detenuti. Perugia. Giustizia lumaca, scatta lo stato di agitazione dei penalisti di Egle Priolo Il Messaggero, 11 settembre 2022 Tempi troppo lunghi delle cause, diritti erosi dai mesi di attesa, valori costituzionali rosicchiati dalle lungaggini della burocrazia. Abbastanza perché chi per lavoro difende anche quei diritti proclami lo stato di agitazione e sia pronto a dare battaglia, anche fuori dalle aule di tribunale. “Il Consiglio Direttivo della Camera Penale di Perugia “Fabio Dean” ha deliberato di proclamare lo stato di agitazione per denunciare un’eccessiva dilazione nei tempi di definizione dei procedimenti, sia monocratici che collegiali, trattati dalla Magistratura di Sorveglianza di Perugia”. Così, in una nota firmata dal presidente Marco Angelini i penalisti di Perugia denunciano le difficoltà riscontrate nel tribunale di sorveglianza, che forse più di altri effettivamente sconta problemi di organico che certamente influiscono sul sistema. Come emerso nell’ultima inaugurazione dell’anno giudiziario, infatti, per gli uffici perugini “la mancanza di un magistrato di sorveglianza sui due dell’organico ha avuto influenza negativa”. Secondo la relazione del presidente Antonio Minchella, tra l’altro, a fronte di un organico previsto di 20 dipendenti, in servizio come personale amministrativo sarebbero solo in 13, quasi la metà. Quindi, nonostante l’impegno, la volontà di mantenere le quattro udienze camerali al mese e l’aumento (ben 2.828 nell’ultimo anno considerato) dei procedimenti definiti, è chiaro come la situazione sia difficile e in qualche modo costretta ai ritardi. “Si tratta di ritardi - insiste quindi il presidente Angelini - che finiscono per incidere profondamente sull’attuazione dei diritti delle persone detenute ad ottenere in tempi ragionevoli le misure alternative alia detenzione, i permessi premio e gli altri benefici previsti dall’Ordinamento Penitenziario e che, di fatto, rendono assai più difficoltoso, se non vanificandolo, il percorso di rieducazione e risocializzazione sancito dalla Carta costituzionale. La problematica, da tempo già segnalata all’autorità giudiziaria competente, sta avendo gravi ripercussioni all’interno degli istituti penitenziari del nostro distretto. Nell’ambito del proclamato stato di agitazione saranno intraprese numerose iniziative volte a sensibilizzare gli organi giudiziari e tutti gli operatori e addetti del settore”. Tra queste, anche l’appuntamento previsto per domani per sensibilizzare anche l’opinione pubblica, con una visita dei rappresentanti della Camera penale insieme all’associazione Nessuno tocchi Caino al carcere di Capanne. Se il mondo che soffre ci regala coraggio di Elena Stancanelli La Stampa, 11 settembre 2022 Le cellule chimera. Il monologo più citato del festival di Venezia è l’arringa finale dell’avvocata che difende la giovane madre che ha ucciso la figlia. Una storia vera dalla quale la regista Alice Diop ha trattato un film di impressionante vigore e precisione intitolato “Saint Omer”. Vincitore del premio opera prima e anche del premio speciale della Giuria, scritto insieme a Marie NDaye - autrice eccezionale ma poco nota in Italia sebbene tradotta, vincitrice del premio Goncourt nel 2009 col romanzo “Tre donne forti” (Giunti) - mette in scena il dolore e la violenza delle emozioni trasmesse per linea materna, nella cultura africana, della quale è originaria la protagonista e anche la regista, ma anche nella nostra. Tenere il filo della lunga catena che ci lega alle nostre antenate è complicato, noi che siamo corse tanto avanti rispetto a loro. Chimere, dicevamo: mostri. Ogni donna è un mostro, dice l’avvocata, perché è capace di albergare nel suo corpo cellule che ospitano un doppio Dna: quello della madre e quello dell’embrione, persino quando la gravidanza è stata interrotta. Di chimere e altri mostri è stato affollato questo festival, uomini e donne esiliati a vario titolo, le cui vicende sono adesso accolte e raccontate. A partire da Aldo Braibanti, interpretato da Luigi Lo Cascio nel film di Gianni Amelio, la cui relazione amorosa con un ragazzo divenne oggetto di un processo, per lui, e una lunga e straziante detenzione in un ospedale psichiatrico per il giovane, Giovanni Sanfratello. Monica invece, nel film omonimo di Andrea Pallaoro, è una donna transessuale, interpretata da Trace Lysette, bellissima e brava, prima attrice transessuale con un ruolo da protagonista in un festival internazionale. Mostri e innamorati i due protagonisti del film di Luca Guadagnino (Premio migliore regia, Leone d’argento), emarginati, vittime di famiglie disastrose, super queer e incidentalmente cannibali. Chimerica nel film di Emanuele Crialese, “L’immensità”, l’identità sessuale di una bambina che sente di essere un maschio, dentro una famiglia nella quale i ruoli sessuali sono invece di grottesca fissità: un padre femminaro e violento, una madre che cinguetta la sua voglia di leggerezza portando in giro una bellezza immensa. E poi ci sono le guerre, coi morti. Cinquecentomila circa si dice, le vittime della crisi degli oppioidi scatenata negli Stati Uniti da un farmaco, l’Oxycontin, prodotto dalla Purdue Pharma, l’azienda farmaceutica di proprietà della famiglia Sackler. “All the Beauty and the Bloodshed”, il film di Laura Poitras, unico documentario in concorso e vincitore a sorpresa del Leone d’oro, segue la battaglia della fotografa Nan Goldin per vanificare il tentativo dei Sackler di ripulire la loro immagine come mecenati dell’arte. Epitome dell’intero festival e simbolo per eccellenza della lotta per i diritti negati vince il Gran premio della giuria “No Bears”, il film del regista iraniano Jafar Panahi, perseguitato dal regime e attualmente in carcere. E la sua sedia vuota nella conferenza stampa è l’incubo che incombe sulle nostre teste. L’orrore delle dittature che limitano le libertà fino a trasformare le idee in reati e combattere, imprigionare e uccidere ogni forma di dissidenza. Nell’anno dell’attentato a Salman Rushdie che avremmo immaginato/sperato non sarebbe più avvenuto, al festival di Venezia vincono uomini e donne che si oppongono a tutte le limitazioni delle nostre libertà, anche a costo della propria. La guerra, la pandemia, le crisi climatiche ci hanno tolto speranza ma forse ci hanno regalato un po’ di coraggio. Servono storie di persone coraggiose e questo festival ce ne ha regalate parecchie. “No Bears” di Panahi al Lido ma il regista è in carcere in Iran di Valerio Cappelli Corriere della Sera, 11 settembre 2022 Lo scorso luglio era stato arrestato e la proiezione del film al Lido è stata anticipata da un flash-mob sul tappeto rosso. Jafar Panahi ha davvero un coraggio da leone per girare un film come “Gli orsi non esistono” (No bears) in cui, abbandonate allusioni e ironie, ci va giù duro con l’Iran, raccontando da una parte la voglia di fuga di chi ci vive e, dall’altra, quella di restare e combattere proprio come ha fatto e fa lui (in una scena chiave del film, in sala con Academy Two il 6 ottobre, il protagonista non attraversa il confine che lo renderebbe libero, anzi fa un passo indietro). E Gli orsi non esistono, fortemente candidato al Leone d’oro di questa 79esima edizione della Mostra del cinema di Venezia, in qualche modo si muove sempre tra queste due opzioni. Troviamo così lo stesso Panahi, nel ruolo di se stesso, che in un paesino iraniano di confine dirige, da remoto, un film in Turchia (ed è quello che è davvero avvenuto). Protagonista poi di quest’opera via zoom una coppia molto innamorata che deve scappare clandestinamente dal Paese ed è in cerca di passaporti falsi. Mentre nella località dove vive Panahi, ospite di una famiglia accogliente e semplice, è in corso un’altra storia d’amore che potrebbe essere compromessa da una foto che il regista avrebbe fatto alla coppia sbagliata. Di fatto dopo un po’ la presenza di Panahi diventa scomoda, comincia a dare fastidio ai locali che temono di avere problemi con il potere iraniano. E, in parallelo, tra gli stessi attori del suo film, la protagonista (Mina Kavani) non accetta affatto il compromesso usato nella sceneggiatura per la sua fuga e si rivolge cosi pirandellianamente al regista per dirgli che non ci sta, che non è giusto. Insomma quest’ultimo lavoro di Panahi è senza compromessi, duro e molto esplicito: il regista lo ha girato poco prima di venire imprigionato, a luglio scorso, a causa delle sue parole a favore dell’indipendenza di un altro artista iraniano. L’autore di film come Il palloncino bianco e il cerchio è infatti attualmente uno dei tre registi incarcerati di recente in Iran dal regime di Teheran, con Mohammad Rasoulof e Mostafa Aleahmad. E così, non a caso, prima della proiezione del film, sul red carpet del Palazzo del Cinema hanno sfilato Julianne Moore, Sally Potter, Alberto Barbera, Roberto Cicutto, Laura Bispuri, Isabelle Coixet, Rocio Munoz Morales e un centinaio di persone per attirare l’attenzione sulla situazione dei cineasti finiti in manette. A scandire il flash mob, tanti cartelli con la scritta “Liberate Panahi”. Ieri in conferenza stampa Reza Heydari, uno degli attori e tecnico del suono de Gli orsi non esistono ha detto: “Jafar Panahi ci manca, il suo posto è vuoto. Spero sarà liberato al più presto. È il nostro maestro e il fatto che un insegnante così grande sia in carcere invece di essere qui ad insegnarci qualcosa è una cosa molto triste”. Infine due frasi chiave del film: “Parlare non serve a risolvere le cose”. E ancora: “È la nostra paura a nutrire il potere”. “Il Signore delle formiche”, Gianni Amelio resuscita l’Italia retriva del caso Braibanti di Fabio Ferzetti L’Espresso, 11 settembre 2022 La terribile storia dell’intellettuale eretico, nato nello stesso anno di Pasolini e come lui destinato a tirarsi addosso il peggio di un Paese feroce e reazionario. Tutto l’amore che poteva legare un giovane intellettuale a un ragazzo di buona famiglia in un film che spreme ogni possibile dolcezza (e durezza) dalle campagne emiliane, dai portici di Piacenza, dai lunghi dialoghi fra maestro e allievo, da quella lingua insieme tenera e contundente. Tutto l’orrore di un’Italia dimenticata e vicina in un film che non ci risparmia nulla: gli elettrochoc in primo piano con cui la “buona famiglia” tenta di curare il ragazzo, i marchettari sempre pronti a diventare violenti, le scritte sul muro (“Casa del culatòn”), il processo per plagio, reato da sempre brandito contro i “diversi”, i giudici che fanno domande offensive e l’imputato che a lungo nemmeno risponde, rifiutando di difendersi per non legittimare le accuse che gli vengono mosse. Ma anche il caporedattore dell’Unità che censura gli articoli del cronista inviato a seguire il processo Braibanti, impedendogli di scrivere “omosessuale” o “Partito Comunista”, di cui Braibanti aveva fatto parte, cosa inconfessabile nel 1968. Infine, tutto l’investimento personale di un regista, Gianni Amelio, che ha fatto “Il Signore delle formiche” su proposta di Marco Bellocchio, come ha detto a Venezia, ma che su queste figure e questi conflitti lavora da sempre. Anche se mai in modo forse così esplicito. E viene da dire: era ora. Sembra incredibile infatti che ci sia voluto tanto tempo per dedicare un vero film al caso Braibanti (già oggetto di un appassionante documentario di Carmen Giardina e Massimiliano Palmese nel 2020). Eppure nella storia terribile di questo intellettuale eretico, inclassificabile, non celebre, nato nello stesso anno di Pasolini (a cui curiosamente assomigliava) e come lui destinato a tirarsi addosso il peggio di un’Italia retriva, feroce e così reazionaria da non esserne nemmeno consapevole, ci sono tutte le linee di frattura su cui si sarebbero combattute le battaglie fondamentali degli anni a seguire, fino a oggi. Rievocate finalmente con tale puntiglio che qualcuno, a destra e a sinistra, già parla di un film vecchio, didascalico, insistente. Mentre se Amelio qua e là può aver l’aria di mettere i puntini sulle i è proprio per riempire un vuoto storico di rappresentazione con la consapevolezza di oggi (anche la scelta di due sceneggiatori molto giovani va in questa direzione). Ed ecco dunque anche il Braibanti maestro e seduttore (quale vero maestro non seduce almeno in senso figurato i suoi allievi?), che non teme di essere sgradevole ma sfonda pregiudizi e resistenze per chi sia disposto a capirlo, con una forza che deve molto all’interpretazione assolutamente superlativa di Luigi Lo Cascio. Ecco, quando l’intellettuale e il suo giovane allievo (il debuttante Leonardo Maltese, prima incerto poi sempre più convincente) fuggono a Roma, il “ballo delle checche” (nessuno diceva gay allora) forse più esplicito e fiammeggiante che si ricordi nel cinema italiano. A sottolineare la pluralità di quel mondo (“Io non sono come loro, ma sono anche come loro”, dice Braibanti all’allievo stupefatto), con personaggi anche abbastanza riconoscibili sotto gli pseudonimi. Ecco infine l’apparizione volutamente anacronistica di Emma Bonino a ricordarci che i radicali furono tra i pochissimi a mobilitarsi in difesa di Braibanti. Mentre il cronista dell’Unità, l’unico ad aver capito la vera posta in gioco nel processo, con bella invenzione drammaturgica riesce a conquistarsi la confidenza di Braibanti e a influenzare in certo modo l’andamento del processo, o almeno a guidare la nostra lettura del medesimo. E qui sarebbe stato bello sapere quanta verità storica c’è dietro il personaggio di questo cronista coraggioso censurato dal Pci, interpretato da Elio Germano con un impeto e una convinzione che compensa anche qualche vaghezza di sceneggiatura, se Amelio, a una nostra precisa e cordiale domanda in conferenza stampa, non fosse sbottato in una violenta tirata pubblica contro il sottoscritto e L’Espresso, rei di aver strapazzato il suo “Hammamet”. Episodio increscioso che non fa onore né al talento del regista né alla concezione dei rapporti fra la stampa e il cinema che sottintende, e riportiamo per puro dovere di cronaca augurandoci che fosse dovuto alla tensione del festival. Mariella Mehr mi raccontò la sua storia di poetessa “zingara” tolta alla madre e reclusa di Pino Petruzzelli* Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2022 Il 5 settembre è morta Mariella Mehr. Per alcuni era semplicemente una “zingara”, per il mondo della cultura era una straordinaria poetessa. La conobbi, ne scrissi in un libro e inserii il suo racconto in uno spettacolo. Ricordo il nostro incontro al tavolino di un bel bar all’aperto. Le casse acustiche diffondevano una musica conosciuta: The dark side of the moon dei Pink Floyd. Mariella era con Uli, suo marito, un ingegnere svizzero in pensione che, dopo avere letto il romanzo Steinzeit di Mariella, se ne innamorò a tal punto da rivoltare l’intera Svizzera pur d’incontrarla. Ci riuscì e da allora divennero inseparabili. Mariella l’avevo vista solo in fotografia, ma dal vivo, mi apparve diversa. Un incedere lento. Un grosso paio di occhiali scuri mettevano al riparo dalla luce la poca vista che le era rimasta. Anche la schiena, troppo rigida, portava i segni di un cattivo rapporto con la medicina. Non era di corporatura gracile, ma ugualmente risultava delicata, fragile, sensibile come una ferita aperta. Solo all’età di dieci anni cominciò a scrivere poesie trovando conferma che un altro mondo esisteva. Magari nella letteratura. All’epoca fu considerata troppo stupida per poter essere iscritta ad un ginnasio e venne internata in un istituto gestito da suore. Fu lì che trovò una biblioteca con volumi rilegati in pelle. Bellissima. Dei libri così belli non potevano che contenere cose belle. Li aprì. Nietzsche, Sartre. Mariella, appena nata, fu strappata dalle braccia della madre e portata via con la forza. Fu un’organizzazione, la Pro Juventute, che la rubò. Nel 1912 in Svizzera, per contrastare la mortalità infantile, fu creata una fondazione: la Pro Juventute. Venne subito riconosciuta di pubblica utilità e beneficiò di contributi da parte della Confederazione Elvetica. Nel 1926 le fu affidato l’alto compito di proteggere i bambini dall’abbandono e dal vagabondaggio e così ideò il progetto Bambini di strada. Il fondatore e direttore, dottor Alfred Siegfried, si fece personalmente carico di “sradicare il male del nomadismo” dalla società svizzera. Cardine della sua filosofia era la conversione di tutti gli jenisch, gli zingari svizzeri, da nomadi a sedentari. Così la Pro Juventute sottrasse con la forza, alle rispettive famiglie jenisch, i figli. Da appena nati fino alla maggiore età. Il dottore, che definiva gli zingari geneticamente “inferiori e mentalmente ritardati”, collocò i bambini, anche quelli in fasce, presso famiglie affidatarie svizzere o in ospedali psichiatrici. Ogni contatto con la precedente famiglia era categoricamente vietato. “Ogni qualvolta, vuoi per nostra bonarietà, vuoi per uno sfortunato e casuale incontro, uno di questi bambini, ancora disadattati e instabili, entra in contatto con i propri genitori, tutto il nostro lavoro è vanificato.” Anche i cognomi furono cancellati per impedire possibili e futuri ricongiungimenti. Molte bambine sterilizzate. Mentre per bambine e bambini con problemi di linguaggio era pronto un metodo speciale: furono infilati in vasche e bloccati al collo con delle assi per impedire ogni movimento. Questa teoria scientifica asseriva che i problemi di linguaggio di un bambino zingaro, strappato alle braccia della propria famiglia, potevano essere risolti immergendolo anche per venti ore in acqua fredda. Le teorie naziste non erano né sconosciute né avversate dalla Pro Juventute che al contrario intrattenne stretti e proficui rapporti con i medici nazisti. E così dal 1926 al 1972 la civilissima Svizzera rubò agli zingari 2000 bambini. Solo a tredici anni Mariella iniziò a rendersi conto di quello che le stava accadendo. Ma oramai, cosa fare? Di suo padre e di sua madre non c’era più traccia. Dopo avermi raccontato tutto questo Mariella sorseggiò la bevanda ordinata al bar e volse il capo in direzione di Uli che delicatamente le accarezzò la mano. “Era quello il metodo: lo sradicamento, l’isolamento, la separazione. Il vagabondaggio andava estirpato piantando i bambini nella terra buona. Sì - ricordò Mariella - Nella terra buona. Proprio così dicevano. Oggi sono solo ciò che ho subito nell’infanzia. La vita è una ferita che non si rimargina mai”. Si fece silenzio. Intorno la vita della piazza continuava. Mariella si scusò e si assentò per qualche minuto. Restai solo con Uli: “A sedici anni, dopo l’affido in quella famiglia e i successivi ospedali psichiatrici, Mariella fu obbligata dalla Pro Juventute a firmare un foglio in cui s’impegnava ad andare a Lucerna, cercare lavoro e condurre una vita autonoma. Mariella andò e trovò da lavorare in un bar per omosessuali. Fu assunta, in nero, come cameriere. Il proprietario aveva pensato che poteva, con i giusti ritocchi e vestiti, farla passare per un uomo. Lavorò lì per un anno circa. Nel bar un giorno arrivò un uomo. Era un ingegnere francese di madre rom e di padre ebreo che durante il nazismo fu deportato a Dachau e che, finita la guerra, arrivò in Svizzera dove trovò lavoro come portiere d’albergo. Quel giorno entrò per caso nel bar e s’accorse subito che Mariella era una donna. Presero a frequentarsi e lei gli rivelò di essere sotto tutela della Pro Juventute. Qualche tempo dopo Mariella rimase incinta. La notizia era doppiamente bella perché oltre alla felicità per la futura nascita sembrò portare anche la possibilità di liberarsi della Pro Juventute. Mariella trovò lavoro presso una famiglia di professori universitari: si sarebbe dovuta occupare dei loro figli. La situazione si era solo in apparenza regolarizzata perché appena la Pro Juventute seppe che una loro ragazza era rimasta incinta, fece scattare un’indagine in cui accusò Mariella di essere fuggita, raggirando la tutela, con uno zingaro e di voler mettere al mondo un nuovo zingaro. Mariella fu arrestata e condannata a trentasei mesi di carcere e senza nemmeno un processo. In questi casi bastava la sentenza della Pro Juventute. Dopo sei mesi di prigione Mariella fu condotta in ospedale dove partorì il bambino che subito dopo le fu tolto e dato in affido a una famiglia di svizzeri.” Ero senza parole. Mariella ritornò al tavolino. “Volevo dire al nostro amico di quando tu e quel giornalista faceste emergere quello che stava facendo la Pro Juventute.” “Si - riprese Mariella - il giornalista scrisse degli articoli su un’importante rivista svizzera, basandosi su informazioni raccolte da me e da altre quattro donne jenisch. In seguito a queste denunce scoppiò lo scandalo e nel 1972 la Pro Juventute chiuse il progetto Bambini di strada.” “Io, come ingegnere sono un esempio di civilizzato che, in giacca e cravatta, ha rovinato questo pianeta inquinando aria e acqua. In un anno soltanto riusciamo a bruciare risorse che potrebbero bastare per i prossimi cento. Eppure il bersaglio principale sono i rom. A volte mi chiedo perché abbiamo creato una società così?” “Perché siamo pazzi.” Gli fece eco Mariella. “Sai cosa resta oggi, dentro di noi vittime del programma Pro Juventute? Traumi, lesioni, vergogna. Vergogna per me stessa perché vivo con l’impressione di essere sempre colpevole. Tutti questi pensieri sono troppo per me. Alla sera, a letto, non riesco a sopportarli. Sono come un film che mi fa impazzire. Allora scrivo, se posso. Ora sono due mesi che ogni mattina, alle cinque, vado al computer per cercare di mettere giù qualche pensiero, ma non riesco. Mi blocco. Devo aspettare. Devo aver pazienza. Passerà, forse. Sono passati tanti momenti, passerà anche questo. Sì, passerà.” “Ma la popolazione jenisch da dove arriva? C’è chi dice dall’India e chi vi ritiene figli di minatori tirolesi.” Domandai. “È lo stesso.” Disse Mariella con dolcezza. “Sono soltanto teorie. La verità è che abitiamo tutti questo pianeta.” *Regista, autore e attore Giovani italiani sottopagati, mai così tanti a rischio povertà di Valentina Conte La Repubblica, 11 settembre 2022 In 360 mila, tra i 20 e i 29 anni, guadagnano meno di 876 euro al mese: in Europa solo la Romania fa peggio. Le buste paga sono ferme dal 1990 e quest’anno la super inflazione ridurrà di un altro 3% il potere d’acquisto. In totale 3,5 milioni di venti e trentenni vivono un “disagio occupazionale”. Giovani, anzi giovanissimi, lavoratori italiani a rischio povertà. Sono tanti, 360 mila nella fascia tra 20 e 29 anni. Il 13,1% nel 2021: quasi record d’Europa, secondi solo alla Romania nella classifica Eurostat, e record nel decennio. Significa che guadagnano meno di 10.591 euro all’anno, sotto gli 876 euro al mese, anche meno del Reddito di cittadinanza. Di loro la politica non si occupa da tempo, neanche in campagna elettorale. Dovrebbe, anche perché la povertà lavorativa non riguarda solo la gioventù, allorquando la precarietà sembra il prezzo da pagare all’inesperienza, quasi un biglietto d’ingresso nel mercato del lavoro (il 62% degli occupati under 24 è a termine). Il lavoro povero si trascina anche dopo, quando giovani non si è più. Lo dice il rapporto che la commissione di esperti, voluta dal ministro del Lavoro Orlando, ha reso pubblico a gennaio. La povertà lavorativa tocca quasi un lavoratore su quattro, di tutte le età: 3 milioni di persone. Dilaga tra giovani, donne e al Sud. E porta l’Italia al quarto posto in Europa. Salari bassi - Poche ore di lavoro a settimana, poche settimane nell’anno, salari bassi: queste le cause della povertà lavorativa. Salari bassi perché la produttività è bassa, quella del capitale perché le imprese investono e innovano poco. Risultato: l’Italia è in coda, ultima - secondo l’Ocse - per la crescita dei salari medi. Anzi in trent’anni - dal 1990 al 2020 - sono saliti ovunque tranne che da noi: -2,9%. In Spagna +6,2%. In Francia +31,1%. In Germania +33,7%. E con l’inflazione alle stelle pagheremo più di altri la perdita di potere d’acquisto: -3% in busta paga nel 2022, contro una media Ocse del -2,3%. Il nodo retributivo - acuito dall’assenza in Italia di un livello di salario minimo, non risolutivo ma cruciale nell’area della giungla contrattuale - si accompagna a una precarietà oramai strutturale. Un lavoro diffuso ieri dalla Fondazione Di Vittorio della Cgil definisce la precarietà come “locomotiva” della crescita economica italiana e “ultima carrozza” quando tutto si mette male. Se il Pil cresce, volano i contratti a tempo: a luglio abbiamo toccato il record storico di 3,2 milioni di occupati a termine. Nelle crisi - debito sovrano, Covid, guerra e recessione energetica - i primi a essere scaricati dalle aziende sono proprio i contrattini. Non è un caso che giovani e donne abbiano pagato il prezzo più alto in pandemia, perdendo il lavoro nel 2020. E recuperandolo poi in fretta dopo. Il disagio occupazionale - Ma quale lavoro hanno recuperato? Dice sempre la Fondazione Di Vittorio, presieduta da Fulvio Fammoni, che l’area del disagio occupazionale si è dilatata nel 2021: qui ci sono 4,8 milioni di lavoratori che lavorano con part-time involontario o tempo determinato involontario oppure sono occupati sospesi, in Cassa integrazione o inattivi, ma pronti a impiegarsi. In quest’area di disagio vivono i due terzi degli under 24 e un terzo di chi ha tra 25 e 34 anni: quasi 2 milioni in tutto. Di questi, 388 mila hanno il doppio “disagio” non voluto: impiego sia part-time che a termine. Un mix deleterio che investe soprattutto questa fascia d’età più di tutte le altre. Se ai “disagiati” aggiungiamo anche i disoccupati “sostanziali” - chi cerca lavoro, gli scoraggiati, i bloccati (dagli impegni in famiglia come le donne), i sospesi - tutte categorie Istat disposte a lavorare subito, si raggiunge l’iperbolica cifra di 9,1 milioni di lavoratori in difficoltà, di cui 3,5 milioni sotto i 34 anni. In queste condizioni il rischio di scivolare in povertà è altissimo. “È la conseguenza della frantumazione contrattuale per una generazione intrappolata troppo a lungo in stage e lavoretti”, dice Tania Scacchetti, segretaria confederale Cgil. Allarme suicidi tra i giovani: “Nuove generazioni fragili, la colpa è della scuola” di Paolo Colonnello La Stampa, 11 settembre 2022 La psicoterapeuta Silvia Vegetti Finzi: “Tra i ragazzi c’è una debolezza che non ha precedenti. Il sistema li demotiva, dovrebbero avere più fiducia e quote di potere”. Dati e statistiche raccontano una realtà che rimane ben lontana dalle campagne elettorali: gli aumenti dei suicidi tra gli adolescenti, quinta causa di morte tra i giovanissimi. “C’è una debolezza intrinseca nelle nuove generazioni che non ha precedenti”, dice Silvia Vegetti Finzi, psicoterapeuta, una delle massime esperte in Italia di disagio giovanile. Dottoressa, è un segno di debolezza generazionale? “Si, credo che questa sia una generazione estremamente fragile e vulnerabile, anche confrontata con i genitori del boom. Il problema è che nel Dna dell’adolescenza sta scritta una spinta energetica, fisica e psichica verso il futuro che in un’epoca di crisi come quella che stiamo vivendo non trova riconoscimento e sostegno”. Ansia da guerra e da Covid? “Non solo, sarebbe un comodo scarico di responsabilità per gli adulti. Ci troviamo in situazione estremamente difficile, ma questo non deve esimerci dal riflettere su nostre responsabilità”. Quali sono? “Vorrei sottolineare che esiste, anche se non esclusivamente, soprattutto la responsabilità della scuola, perché ha il compito di integrare i giovani nella società ma questo avviene raramente. Manca in generale un’educazione alle emozioni, non abbiamo più nemmeno le parole per dirlo: siamo degli illetterati affettivi”. Motivo? “Da una parte vi è un’inerzia per cui molti insegnati stanchi e delusi continuano a operare come se non fosse accaduto niente, come si è sempre fatto”. Parla delle chiusure per Covid? “Certo, pochissimi hanno preso atto dai problemi indotti soprattutto dall’isolamento e dal lockdown. Dall’altra parte invece individuo delle spinte innovative su questo vecchio tronco, che mi sembrano molto preoccupanti”. Quali sono? “Sono per esempio atteggiamenti di tipo selettivo molto forte: si dà molta importanza ai voti, alle prove d’ingresso alle facoltà universitarie, con test impersonali che non tengono conto di attitudini e personalità dei ragazzi, un tentativo di rendere oggettiva l’educazione attraverso i test che finiscono in realtà per togliere umanità al processo educativo. Io i test li abolirei”. Per anni si è parlato della necessità di un sistema meritocratico e adesso scopriamo che è diventato abnorme e schiacciante? “Si, è un sistema selettivo che discrimina, che espelle, che demotiva. Si tenga conto che poi in Europa l’Italia è agli ultimi posti, subito prima della Grecia, nel numero dei laureati. Non capisco perché vi sia questa selezione impersonale. Credo ci sia una rinuncia al nostro patrimonio umanistico in favore di un tecnicismo tipicamente anglosassone che, come dice Galimberti, mi fa porre questa domanda: il problema non è cosa faremo noi della tecnica ma cosa farà la tecnica di noi”. È il motivo che porta i giovani ad essere più fragili? “È un sistema che li demotiva, li rende fragili. In mancanza di mete di orientamento e di modalità che incanalino le spinte sessuali e aggressive dell’adolescenza, queste energie rischiano di rivolgersi contro se stessi”. Come spezzare questo circolo? “Dando fiducia ai giovani, cedendo loro più quote di potere, dare fluidità ai loro percorsi di vita: sono troppo irrigiditi, invece dovrebbero guardarsi più in faccia, abitare la realtà concreta, non solo quella virtuale che esaspera le passioni negative”. Il diritto a non soffrire per 500mila malati ogni anno. Ma gli hospice non bastano di Chiara Daina Corriere della Sera, 11 settembre 2022 A circa mezzo milione di cittadini con malattie inguaribili servono ogni anno cure palliative. Obiettivo è garantirle soprattutto a domicilio, dove ci possa essere un caregiver. La rete dei 307 hospice. Sopportare il decorso di una malattia inguaribile con meno sofferenza e una migliore qualità di vita. È lo scopo delle cure palliative e della terapia del dolore, definite con la legge 38 del 2010, a cui hanno diritto le persone affette da una patologia che non dà speranza di guarigione, per cui non esistono cure efficaci ed è segnata da un inarrestabile peggioramento. L’assistenza palliativa accompagna il paziente e la sua famiglia fino alla fine della sua vita. Non è riservata soltanto alla fase terminale, ma può affiancarsi presto alle terapie per prevenire e attenuare i sintomi della malattia. Le cure palliative sono senz’altro un traguardo di civiltà e una garanzia di dignità nel momento più duro dell’esistenza. Possono essere erogate durante il ricovero in ospedale, nelle strutture residenziali per anziani e disabili, negli hospice, a livello ambulatoriale e a domicilio del paziente. “Nonostante i passi in avanti fatti negli ultimi anni in tutte le Regioni, occorre un investimento economico maggiore per rafforzare i servizi ambulatoriali, gli interventi nelle Rsa e le équipe a domicilio in modo da dare più sollievo alle persone nei luoghi in cui abitano e rendere al contempo più sostenibile il Servizio sanitario nazionale”, spiega Luca Moroni, direttore dell’hospice di Abbiategrasso (Milano) e coordinatore per la Lombardia della Federazione cure palliative, che raggruppa 103 enti non profit di tutta Italia di cui il 40 per cento gestisce hospice e assistenza a casa e il resto si occupa del servizio. Mancano le strutture - “Solo - prosegue - in caso di ostacoli logistici presenti nell’abitazione, di problemi organizzativi della famiglia e in mancanza di un caregiver h24 si ricorre all’hospice, che deve essere integrato in un percorso di cura che includa necessariamente anche gli altri nodi della rete a seconda delle esigenze del malato. Nel contesto della nuova riforma della sanità territoriale, che mira a fornire servizi più prossimi alle persone e in cui solo i casi acuti e gravemente instabili sono inviati in ospedale, la vera sfida è riuscire a modulare l’assistenza in base all’intensità del bisogno dell’assistito attraverso i diversi setting di cura e con l’indispensabile collaborazione di tutti i professionisti coinvolti, dal medico di medicina generale agli specialisti ospedalieri, operatori di rsa e del servizio domiciliare”. I numeri parlano chiaro. “Il fabbisogno annuo di cure palliative nell’ultimo periodo di vita - aggiunge Moroni - è per 450-500mila soggetti, di cui il 40% con cancro e il resto con altre malattie cronico-degenerative. Eppure il 39% dei pazienti oncologici continua a morire in un letto di ospedale anziché in hospice o a casa propria circondato dagli affetti. In Lombardia quelli con malattie non oncologiche in carico ai servizi palliativi sono appena il 23% contro il 60% potenzialmente stimato”. La situazione in Italia - Gino Gobber, presidente della Società italiana di cure palliative (Sicp), con i dati alla mano, afferma: “Con i nuovi criteri fissati nel decreto 77 del 23 maggio 2022 del ministero della Salute, le Regioni dovranno dotarsi di 8 posti letto in hospice ogni 100mila abitanti. Sono ancora parecchio sotto lo standard di riferimento Campania, Puglia, Sicilia, Sardegna, Umbria e Marche. Anche il Veneto, che però ha puntato molto sulla presa in carico domiciliare. Soddisfano già la soglia richiesta Lombardia, Emilia Romagna, Lazio e Basilicata. Sotto di poche unità le altre Regioni”. In tutto il Paese, si legge nella rilevazione dell’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali (che si è conclusa nel dicembre 2021 ed è quella più aggiornata), si contano al momento 307 hospice (la Regione che ne ha di più è la Lombardia: 73), di cui sette pediatrici, per un totale di oltre tremila posti letto. “Complessivamente in questo ambito non siamo messi male. Oggi il punto critico della rete - rimarca anche Gobber - restano i servizi palliativi a domicilio, ancora insufficienti rispetto alla domanda. La casa, dove c’è un caregiver, è il luogo di cura da privilegiare”. Il DM 77 stabilisce un’unità di cure palliative domiciliari ogni 100mila abitanti. “È stata alzata l’asticella del fabbisogno, adesso è assolutamente prioritario reperire un numero adeguato di professionisti”, conclude. Il caso di Reggio Calabri - Anna Tiziano è vice direttrice dell’hospice Via delle stelle di Reggio Calabria e coordinatrice regionale della Sicp: “Rispetto a qualche anno fa la situazione è sicuramente migliorata. Gli hospice fino al 2018 erano due mentre adesso sono sei. Ma non bastano ancora. La città di Reggio Calabria, con oltre 180mila abitanti, ne ha appena uno e deve rispondere anche alle richieste di assistenza provenienti dalla provincia perché i due hospice che erano stati realizzati a Siderno e Melicucco non sono mai entrati in funzione e sono stati devastati dai vandali”. Il bisogno di cure palliative è in crescita anche perché oggi c’è più consapevolezza nella società. “Grazie alle numerose campagne di informazione e sensibilizzazione - precisa Tiziano - si è diffusa la cultura di questo servizio e i cittadini sanno che ne hanno diritto. Serve uno sforzo maggiore da parte dei clinici. I medici palliativisti dovrebbero lavorare più in sinergia con gli oncologi durante i cicli di chemioterapia per gestire meglio il dolore e gli effetti collaterali”. Se la fame globale cresce, non è tutta colpa della guerra. Ecco alcuni miti da sfatare di Francesco Petrelli* Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2022 Mentre i leader mondiali si interrogano su come far fronte alla crisi dei prezzi del cibo e mentre l’export di grano viene usato come arma di scambio o ricatto tra gli Stati, occorre una riflessione sulle cause reali della crescita della fame globale. Se da un lato è evidente che la crisi attuale sia stata accelerata dalla guerra in Ucraina, è altrettanto vero che a causarla e inasprirla vi siano logiche finanziarie che stanno influenzando i prezzi. Il cibo - trattato al pari di altri beni - è diventato un asset su cui scommettere e speculare alla Borsa di Chicago, che determina il prezzo delle materie prime, soprattutto nel settore cerealicolo. In altre parole la guerra e le sue conseguenze immediate si sono inserite nelle dinamiche di un sistema alimentare globale già disfunzionale, profondamente ingiusto e disuguale. Basti pensare che i prezzi del grano erano aumentati dell’80% già tra aprile 2020 e dicembre 2021. Ci nutriamo, in altre parole di “falsi miti” - secondo il nuovo studio pubblicato oggi da Oxfam - che ci allontanano dall’obiettivo più importante: salvare centinaia di milioni di persone e azzerare la fame entro il 2030. Perché se è vero che la media dell’inflazione alimentare nei paesi G7 come l’Italia è oggi al 10%, in paesi come Etiopia e Somalia è arrivata al 44%. Ma andiamo per gradi. In meno di 20 anni tre crisi alimentari, ma ben poco è stato fatto - Prima dell’attuale, abbiamo assistito alle crisi dei prezzi innescate dai crolli finanziari del 2007-2008 e del 2011. Nonostante questo però nessuno è intervenuto per correggere distorsioni del mercato già del tutto evidenti. Nulla o molto poco si è fatto, per esempio, per fronteggiare le disuguaglianze sempre più estreme nei paesi e tra i paesi, lasciando crescere i profitti solo per pochissimi, con il favore di un processo di concentrazione nelle mani dei colossi dell’agribusiness (4 aziende detengono il 70% del valore dell’intero mercato alimentare). Una sola delle quattro principali aziende del settore agro-alimentare globale del comparto cerealicolo, la Cargill, ha visto aumentare i miliardari all’interno della famiglia che la controlla da 8 a 12 negli ultimi 2 anni. Patrimoni e profitti in eccesso che se venissero tassati adeguatamente consentirebbero agli Stati di avere sufficienti risorse per affrontare la crisi alimentare in atto. Il sistema è tale che molti paesi a basso reddito producono cibo solo per l’esportazione, senza essere in grado di sfamare la propria popolazione, essendo costretti a dipendere quasi totalmente dalle importazioni di cibo da una manciata di paesi come la Russia e l’Ucraina. Due esempi su tutti sono Eritrea e Somalia, assieme ad altri 50 paesi, in gran parte poveri, che dipendono da questi 2 paesi per oltre il 30% delle importazioni di grano. Aumentare la produzione alimentare non è la soluzione - Aumentare la produzione di cibo, come proposto da molti sostenitori dell’agricoltura industriale, a prescindere dai costi ambientali che ne deriverebbero, non aiuta ad azzerare la fame. Abbiamo quantità di cibo sufficiente a sfamare l’intera popolazione mondiale. Serve al contrario garantire una distribuzione più equa rimuovendo i fattori che determinano l’aumento dei prezzi alimentari, come l’uso fuori controllo dei terreni agricoli per scopi diversi dalla produzione di cibo. A riprova di quanto detto bastano alcuni dati: una riduzione dell’8% nell’uso di cereali destinati l’alimentazione animale nell’Unione europea basterebbe per compensare il deficit globale di grano causato dalla guerra in Ucraina. Sì perché in effetti, al di là del blocco dei canali di approvvigionamento, dallo scorso febbraio, la produzione globale di grano, secondo le previsioni, calerà (appena) da 777 milioni di tonnellate nel 2021/2022 a 771 milioni di tonnellate nel 2022/2023. Meno dell’1%! Una transizione urgente è necessaria - La somma di queste distorsioni dimostra che l’attuale modello della divisione del lavoro e della produzione agroalimentare oltre che rigido e insostenibile, è incapace di fronteggiare shock, come guerra, crisi climatica o pandemia. Pur di fronte alla necessità di mantenere i mercati aperti, la questione della diversificazione e della varietà produttiva, del rafforzamento dei mercati locali è perciò prioritaria per garantire la sicurezza alimentare, salvare vite umane e il pianeta. Non si tratta di sostenere forme di uscita dalla globalizzazione, ma di porre per tutti e anche per i paesi ricchi la questione della transizione verso forme di autonomia e sovranità alimentare, di sistemi più resilienti che si integrino con un commercio caratterizzato da regole anti-speculative realizzando concretamente il diritto al cibo come diritto umano fondamentale, cosi come sostenuto dalle Nazioni unite e sottoscritto dai governi di tutto il mondo, a condizione di arginare adesso gli intollerabili fenomeni speculativi cui stiamo assistendo. *Policy advisor per la sicurezza alimentare di Oxfam Italia Stati Uniti. Dopo 21 anni i processi ai mandanti dell’11 settembre sono ancora bloccati di Nicolò Guelfi La Stampa, 11 settembre 2022 I parenti delle vittime aspettano ancora giustizia. Cinque uomini sono attualmente detenuti nel carcere di Guantanamo, in attesa di essere giudicati per la strage che ha segnato un secolo. La tragedia che ha cambiato per sempre la storia dell’Occidente lascia dietro di sé quasi tremila morti, un numero incalcolabile di vittime indirette e nessun vero colpevole sul banco degli imputati. Ventuno anni dopo gli attacchi dell’11 settembre 2001 è ancora bloccato il processo ai terroristi considerati le menti dell’attentato. Khalid Shaikh Mohammed e altri quattro uomini membri dell’organizzazione fondamentalista islamica Al-Quaida sono ancora oggi detenuti nel carcere di massima sicurezza a Guantanamo, territorio in dotazione agli Stati Uniti sull’isola di Cuba, in attesa di un giudizio, le cui udienze tuttavia vengono cancellate o continuamente rinviate. L’ultima battuta d’arresto è arrivata il mese scorso, quando sono state cancellate le udienze preliminari previste per l’inizio dell’autunno. Per le famiglie delle migliaia di vittime morte nello schianto di quattro aerei di linea contro le Torri Gemelle del World Trade Center a New York, la sede del Pentagono ad Arlington e Shanksville, in Pennsylvania, un processo potrebbe essere il momento della verità, per dare risposta alle ultime domande rimaste insolute. In caso di condanna definitiva, il kuwaitiano Mohammed, che nel 2007 si è dichiarato “responsabile dell’operazione dalla A alla Z”, rischia la pena capitale. James Connell, avvocato di Ammar al-Baluchi, altro terrorista coinvolto nell’operazione, ha detto che le parti stanno ancora cercando di raggiungere un accordo preliminare. L’avvocato ha definito lo sforzo di processare Mohammed davanti a un tribunale militare, piuttosto che nel normale sistema giudiziario statunitense, “un tremendo fallimento” che è “offensivo per la nostra costituzione e per il nostro stato di diritto”. Nel 2009, all’inizio del suo primo mandato, l’allora presidente Barack Obama annunciò che Mohammed sarebbe stato trasferito a New York per essere processato in un tribunale federale di Manhattan. Tuttavia, la Grande Mela si tirò indietro di fronte ai costi esorbitanti che la sicurezza avrebbe richiesto: processare Mohammed nella città dove ha avuto luogo il disastro di cui è accusato, avrebbe potuto provocare reazioni imprevedibili. Il New Yorker criticò la proposta di Obama di spostare il processo in una corte federale: il kuwaitiano è accusato di “un atto militare” e dovrebbe essere giudicato dalle forze armate. David Kelley, ex procuratore dello stato di New York che ha presieduto l’indagine nazionale del ministero di Giustizia sugli attacchi, ha definito i ritardi come “il fallimento nel perseguire un’orribile tragedia per le famiglie delle vittime”. Poco prima dell’alba del 1° marzo 2003, gli Stati Uniti hanno ottenuto la vittoria più emozionante contro i complici degli attentati dell’11 settembre: la cattura di Mohammed, portato via dagli agenti dei servizi segreti da un nascondiglio a Rawalpindi, in Pakistan. Una caccia all’uomo internazionale durata oltre un anno e mezzo. Oltre a lui vennero catturati anche lo yemenita Walid bin Attash, capo dei campi paramilitari di Al-Qaida in Afghanistan (che aveva fornito simulatori di volo e notizie sulle compagnie aeree); lo yemenita Ramzi bin al-Shibh, cellula Al-Qaida di Amburgo (che aveva iscritto i dirottatori nelle scuole di volo americane); il pachistano Ammar al-Baluchi, imputato per aver portato nove terroristi negli Stati Uniti e inviato loro 120 mila dollari americani; il saudita Mustafa al-Hawsawi, il quale provvedeva al reperimento di contanti, carte di credito e abiti occidentali. Mohammed e i suoi coimputati sono stati inizialmente detenuti in prigioni segrete all’estero. I cinque rappresentavano una fonte d’informazioni troppo preziosa e i servizi segreti americani hanno cerato di utilizzarli per smantellare Al-Qaeda. Secondo Human Right Watch, gli agenti della Cia li sottoposero a tecniche d’interrogatorio rafforzate che equivalevano alla tortura. Mohammed è stato sottoposto a waterboarding (ovvero la tecnica dell’annegamento controllato) per 183 volte. Le sue stesse confessioni, se estorte sotto tortura, potrebbero essere completamente invalidate. La fonte però si è seccata presto: un’indagine del Senato ha poi concluso che gli interrogatori non hanno portato a nessuna informazione preziosa. Ma ha scatenato un’infinita serie di controversie preliminari per stabilire se i rapporti dell’Fbi sulle loro dichiarazioni possano essere usati contro di loro. Nel frattempo, la lotta al terrorismo è andata avanti: nel 2011 Osama bin Landen rimase ucciso in un ride in Pakistan e il suo vice (poi successore) Ayman al-Zawahiri è deceduto in un attacco con i droni a Kabul lo scorso 31 luglio. Ora, ha detto Kelley, con il passare del tempo sarà molto più difficile perseguire Mohammed in un tribunale, tanto meno in un’aula di tribunale. “Le prove diventano stantie, la memoria dei testimoni viene meno”. Russia. Per Navalny isolamento e conversazioni con l’avvocato monitorate di Rosalba Castelletti La Repubblica, 11 settembre 2022 L’attivista è stato privato del rapporto di riservatezza con i suoi legali e confinato in una cella d’isolamento per la quarta volta. Protesta di collaboratori e Usa. Ci sono due foto che dicono quanto sia dura la prigionia di Aleksej Navalny, l’oppositore russo che sta scontando una condanna - giudicata “motivata politicamente” - a nove anni di carcere sotto regime “severo”. La prima è il fermo-immagine di un suo video-collegamento a un’udienza: Navalny appare smagrito, volto scavato, occhi infossati, un’ombra del pugnace oppositore che infiammava le piazze moscovite. La seconda è una cella di due metri e mezzo per tre: la cella di isolamento dove è stato confinato per la quarta volta in un mese. Come se non bastasse l’attivista anti-corruzione 46enne è stato privato del rapporto di riservatezza avvocato-cliente. D’ora in poi le sue conversazioni con i suoi legali non saranno più riservate e ogni documento scambiato sarà soggetto a “verifica per tre giorni” da parte dell’amministrazione penitenziaria. La motivazione è che, secondo i suoi carcerieri, starebbe svolgendo “attività criminali” anche in prigione. “Con i miei avvocati, ora discutiamo attraverso una finestra rivestita di plastica, attraversata da una griglia. La nostra conversazione è più simile a un numero di mimo”, si è lamentato Navalny con il suo solito umorismo pungente in quello che potrebbe essere uno degli ultimi messaggi consegnati ai suoi avvocati che poi vengono pubblicati online dal suo team. “In verità, non è rimasto più nulla, formalmente, dei miei diritti di difesa, che erano già del tutto illusori”. Precedentemente si era lamentato dei continui periodi di isolamento a cui era sottoposto dopo aver annunciato la creazione di un sindacato per detenuti e dipendenti del carcere di massima sicurezza di Melekhovo, nei pressi della città di Vladimir, 200 km a Est da Mosca, dove è detenuto. “Navalny è in completo isolamento e non è autorizzato a comunicare in modo confidenziale con i suoi avvocati. Non abbiamo più modo di sapere cosa gli sta succedendo. I rischi per la sua vita sono aumentati considerevolmente”, ha affermato una delle sue collaboratrici in esilio Maria Pevtchikh. Anche il Dipartimento di Stato Usa è intervenuto chiedendone ancora una volta il rilascio. In carcere per accuse considerate politiche, Navalny è stato arrestato nel gennaio del 2021 al suo atterraggio in aeroporto a Mosca dalla Germania dove era stato curato dall’avvelenamento da Novichok. In Afghanistan sempre più terrorismo. Presto potrebbe non limitarsi alle aree di conflitto di Amer Al Sabaileh* Il Fatto Quotidiano, 11 settembre 2022 Nelle ultime settimane si verificano sempre più spesso nuovi attacchi terroristici, soprattutto in Afghanistan, dove vengono condotti frequenti attacchi contro obiettivi locali e recentemente per lo più russi. L’ultimo attacco è avvenuto contro un’affollata moschea durante le preghiere, provocando la morte di oltre 20 persone. Oltre questo tipo di attacco, un nuovo stile di attentati suicidi è stato utilizzato per prendere di mira l’area vicino all’ingresso dell’ambasciata russa a Kabul provocando la morte di due dipendenti dell’ambasciata. È estremamente importante osservare ciò che sta accadendo in Afghanistan inquadrandolo come parte dell’ampia scena delle tendenze terroristiche globali, poiché ciò potrebbe indicare il modo in cui queste tendenze terroristiche potrebbero espandersi. Tuttavia questa propensione è attualmente vista come una lotta interna tra gruppi per minare il pieno controllo del paese da parte degli stessi talebani. Semplicemente in questo momento in cui i talebani hanno il controllo del potere - e questo potrebbe rappresentare un elemento di mutamento nelle sue relazioni con i suoi vecchi alleati, in particolare la rete Haqqani - si potrebbe creare una situazione che dia la possibilità a un nuovo protagonista emergente in Afghanistan come IS-K di apparire e condurre operazioni che diano al gruppo una sorta di potere e attenzione mediatica, anche internazionale. Questo scenario potrebbe presentarsi se i gruppi continuano a condurre operazioni che minano la sicurezza dell’Afghanistan e prendono di mira obiettivi stranieri presenti nel Paese, mettendo a rischio l’autorità dei talebani e cambiando la situazione complessiva dentro e intorno all’Afghanistan. Da un altro lato, in una prima fase, questo potrebbe cambiare il modo in cui i paesi stanno attualmente affrontando i talebani e potrebbe suonare l’allarme della necessità di prepararsi ad affrontare nuove ondate di terrorismo che si spostano dall’Afghanistan ai paesi vicini. Su un altro fronte, la prima apparizione significativa di al-Qaeda dopo l’annuncio della morte di Ayman Al Zawaihri si è verificata in Yemen, dove combattenti di al-Qaeda hanno ucciso almeno 20 combattenti allineati con i separatisti meridionali dello Yemen in un attacco nella provincia di Abyan. La dinamica di entrambe le attività in Afghanistan, dove il vecchio stile di attentato suicida è quello utilizzato dai gruppi terroristici per lo più IS-K in Yemen, al-Qaeda ha preferito fare la sua comparsa attraverso un assalto militare utilizzando razzi e granate, applicando la tattica dell’imboscata, che mostra l’intenzione del gruppo di impegnarsi negli attuali combattimenti in Yemen scegliendo di attaccare in questo modo il gruppo separatista meridionale. C’è sicuramente un nuovo desiderio tra i vecchi gruppi terroristici di riapparire sulla scena e impegnarsi più attivamente nei conflitti. Questo vale anche con la tattica usata finora dall’Is in Siria e Iraq. La crescente competizione tra i gruppi terroristici potrebbe portare a una nuova fase di violenza e conflitti, soprattutto perché hanno già ampie reti e presenza in questi luoghi di conflitto. Pertanto, in questa fase, il rischio di un effetto valanga rotante è elevato, poiché l’efficienza di queste operazioni potrebbe indicare che il numero di operazioni potrebbe aumentare ed espandersi. Dall’Afghanistan al Pakistan fino al Medio Oriente, soprattutto nei luoghi di aperto conflitto. In questa fase il terrorista sta riapparendo e le tattiche dei gruppi potrebbero presto non limitarsi alle aree di conflitto o agli assalti militari, ma potrebbe anche cercare di dichiarare il suo ritorno concentrandosi su operazioni che potrebbero avere un più ampio impatto mediatico. *Docente e direttore di Triageduepuntozero