Cartabia: “Non disperdere il metodo ispirato alla Costituzione” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 9 ottobre 2022 Responsabilità diffusa, cooperazione, metodo, sono alcune delle parole chiave che hanno guidato la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, durante il suo intervento alla giornata di studi organizzata a Capri dalla Scuola superiore della magistratura, dal titolo “Organizzando la giustizia. Le riforme del diritto e del processo al passo dell’innovazione tecnologica, nella stagione del Pnrr”. Ha ringraziato i molti convenuti, ma anche i tanti assenti, che hanno attraversato questi 20 mesi “vissuti con una intensità tale che li fanno apparire anni di lavoro”, e i responsabili della giustizia dei partiti politici, di un “complessissimo governo di unità nazionale che abbracciava un arcobaleno di colori infiniti”. E ha ricordato come Alcide De Gasperi, durante la Costituente, “in condizioni imparagonabilmente più complesse e difficili”, era riuscito a fare la sintesi delle cose buone da qualunque parte arrivassero, perché consapevole ‘che in politica non tutto il male sta da una parte e le virtù dall’altra’: “Abbiamo cercato di fare altrettanto”. Ma soprattutto, Marta Cartabia, ha voluto offrire - pensando al prossimo passaggio di testimone - alcune riflessioni circa il metodo adottato per elaborare le riforme della giustizia civile e penale, oramai “alla ragioneria per il mitico bollino e quindi veramente in attesa di pubblicazione”. “Pianificare, lavorare con l’idea di raggiungere degli obiettivi e farlo attraverso una forte collaborazione, una cooperazione tra tutti i soggetti coinvolti” così ha sintetizzato la Guardasigilli, augurandosi inoltre che non vada dispersa neanche la “cooperazione orizzontale” che si è sviluppata tra le diverse amministrazioni. Ha idealmente “affidato a tutti” quello che fin qui è stato fatto: “Gli strumenti normativi, i mezzi digitali, le risorse umane, i concorsi e i giovani dell’ufficio del processo”. Perché: “Questi strumenti sono e potranno diventare un fattore di Rinnovamento - così ricordando le parole del Capo dello Stato - se davvero ciascun magistrato, ciascun cancelliere, ciascun addetto all’ufficio del processo, tutti i soggetti, ciascun avvocato, ne farà uso in vista di una responsabilità e di un interesse che riteniamo superiore a quelli che sono i nostri singoli obiettivi, ma che è veramente l’interesse generale”. Esperienze in atto, buone prassi e sperimentazioni già fatte: “Noi siamo realmente partiti da lì, illuminati da un unico faro, passati al vaglio della Costituzione così come vive nella giurisprudenza costituzionale”. La ministra Marta Cartabia ha così concluso l’intensa mattinata di lavori, in cui sono intervenuti, fra gli altri, Pietro Curzio, Luigi Salvato e Margherita Cassano, Primo presidente, Procuratore generale e Presidente aggiunto della Corte di cassazione, Giorgio Lattanzi, Presidente della Scuola superiore della magistratura, Elisabetta Garzo, Presidente del tribunale di Napoli, Francesco Paolo Sisto, Sottosegretario alla giustizia, Raffaele Piccirillo, Capo di Gabinetto, Maria Rosaria Covelli, Capo dell’Ispettorato, Franca Mangano e Concetta Lo Curto, Capo e Vice Capo dell’Ufficio legislativo, e Francesca Quadri, Capo dell’Ufficio legislativo della Ministra per il Sud. Riforma Cartabia, perché sull’esecuzione penale vedo un passo avanti nella giusta direzione di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 9 ottobre 2022 I nostri padri costituenti scelsero a ragion veduta di declinare al plurale quelle pene che secondo il terzo comma dell’art. 27 “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Eppure il codice penale, che la Repubblica italiana ha ereditato dal fascismo e mai sostituito, prevede il carcere come pena quasi esclusiva. In questa contraddizione continuiamo a vivere da circa tre quarti di secolo, senza che mai si sia riusciti a introdurre pene differenziate che il giudice potesse avere a disposizione fin dal momento della sentenza. La riforma approvata dal governo alla fine di settembre su proposta della ministra Marta Cartabia contiene alcune novità che finalmente vanno in questa direzione. Mi riferisco in particolare all’introduzione di sanzioni sostitutive non previste prima dall’ordinamento. Fino a oggi il giudice di merito - quello che accerta i fatti e decide se condannare o meno le persone imputate - può nelle proprie sentenze comminare quasi solamente la pena carceraria. È poi il giudice di sorveglianza - quello che interviene quando c’è già sul piatto una pena da gestire, decidendo in merito alla condotta tenuta dal condannato e ai possibili percorsi di reintegrazione sociale - a scegliere eventualmente di trasformare pezzi di detenzione in una qualche misura alternativa al carcere. La riforma voluta da Cartabia introduce, tra le molte altre cose, la possibilità di condannare già in sentenza a sanzioni sostitutive diverse dal carcere quando si tratta di reati non gravi. Quei procedimenti penali che sarebbero scaturiti in condanne a meno di quattro anni di detenzione possono oggi vedere in sentenza una condanna alla semilibertà, alla detenzione domiciliare, al lavoro di pubblica utilità. La semilibertà prevede che la persona trascorra in carcere un minimo di otto ore al giorno, tendenzialmente quelle notturne, così da poter uscire durante il giorno per svolgere attività lavorativa o di altro tipo (va però detto che meglio sarebbe stato il ricorso all’affidamento in prova ai servizi sociali, come pure proposto autorevolmente in passato, che non presuppone un posto letto in carcere); la detenzione domiciliare comporta l’obbligo di rimanere in casa almeno dodici ore al giorno; il lavoro di pubblica utilità, che lascia più perplessi, è la prestazione di attività non retribuita in favore della collettività. Come universalmente riconosciuto e sostenuto da tutti gli organismi internazionali, le detenzioni brevi o brevissime comportano un grande costo sociale a fronte di risultati assai peggiori rispetto ad altri tipi di punizione. Di fronte a reati non gravi, la frattura che il periodo di detenzione costituisce nel flusso ordinario della vita individuale contrasta con ogni risultato atteso dalla pena (la risocializzazione della persona, la lotta alla recidiva). De-socializzare qualcuno per poi doverlo risocializzare è particolarmente inutile quando si tratta di brevi periodi di pena. Il detenuto interrompe il rapporto di lavoro, interrompe il percorso di istruzione o di formazione, allenta i legami famigliari, si estranea dal proprio centro di riferimento sociale. Sanzioni diverse da quella carceraria, che vengono scontate all’interno della comunità, possono avere effetti ben migliori in termini di tutela della sicurezza pubblica. Questo intervento normativo andrà inoltre a sanare quella patologia del sistema costituita dai cosiddetti “liberi sospesi”. Oggi chi riporta una condanna al di sotto dei limiti prescritti dalla legge può chiedere una misura alternativa dalla libertà. In attesa che il magistrato di sorveglianza prenda la sua decisione, la persona non va in carcere ma neanche inizia a scontare la pena. Visto il grande carico di lavoro degli Uffici di sorveglianza, si è sempre andati enormemente al di là del termine previsto di 45 giorni, lasciando le persone in questo stato di limbo spesso per anni. L’esigenza di superare il primato del carcere nel sistema sanzionatorio è concreta e niente affatto relegata a sentimenti da anima bella. Il carcere costa, il carcere produce recidiva e dunque insicurezza, il carcere rinchiude disagio sociale, psichiatrico, economico, sanitario che ben dovrebbe essere gestito con altri strumenti. La riforma approvata è un passo avanti nella giusta direzione. *Coordinatrice associazione Antigone Pioggia di critiche dell’avvocatura sulle riforme in arrivo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 9 ottobre 2022 La contestazione. Nelle mozioni approvate dal Congresso nazionale forense di Lecce emerge l’ampia insoddisfazione per le nuove misure processuali. “Sovvertimento valoriale”, “ispirazione carcero-centrica”, contrasto con i principi di equità e di accesso dei cittadini alla giustizia, compromissione delle garanzie. Dal XXXV Congresso nazionale forense che si è chiuso ieri a Legge non esce benissimo il pacchetto di riforme da pochi giorni approvato definitivamente dal Governo sul processo civile e penale. Il quadro delle mozioni approvate dagli oltre mille delegati flagella con una serie di critiche, da quelle più generiche ad altre più puntuali, le misure con cui a breve tutti gli operatori dovranno fare i conti. Andiamo con ordine, allora. Sul processo civile, a non convincere sono, tra l’altro, l’aumento complessivo di costi ed oneri per il cittadino; l’introduzione di sanzioni pecuniarie e processuali; la compressione degli spazi della difesa; l’aumento della competenza del giudice di pace prima che venga esteso e messo a regime il processo telematico, di cui attualmente è privo; l’attribuzione al magistrato di discrezionalità in ordine alle modalità di esercizio della difesa sottraendo la scelta all’avvocato; la riesumazione del mai rimpianto processo societario; l’introduzione a scopo deflattivo della sanzione di inammissibilità collegata ai requisiti di forma degli atti. Di più, “appare discutibile la commistione tra la negoziazione assistita e l’attività istruttoria stragiudiziale che si intende introdurre”, mentre l’obbligo di effettuazione delle notificazioni esclusivamente a mezzo di posta elettronica certificata introduce un elemento di eccessiva rigidità. Non meglio vanno le cose sul penale. Che viene investito da una raffica di critiche. Dove, a monte di una sottolineatura dell’assenza di investimenti stabili (“l’inserimento di personale di supporto, a tempo determinato, in seno all’ufficio del processo rischia di non produrre gli effetti sperati” ma essere messi nel mirino sono una serie di interventi e di omissioni. È il caso della mancata razionalizzazione di alcune fasi processuali che, statistiche alla mano, rivendicano gli avvocati, rappresentano indebiti momenti di stasi: esemplare l’opzione “conservativo-riduttiva” adottata sull’udienza preliminare: è introdotta una “udienza filtro” dinanzi al giudice dibattimentale, con prevedibili complicazioni, dal difetto di terzietà, alle incompatibilità, al rischio di condizionamento del dibattimento, attesa la prognosi di condanna da cui dovrebbe prendere le mosse. Ma poi, i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale sono rimessi alla discrezionalità degli uffici requirenti dell’obbligatorietà; le notificazioni, in larga misura sono addossate alla difesa perché, invece di potenziare i canali di ricerca dell’imputato non detenuto per consentirgli l’effettiva conoscenza del procedimento, assegna al suo difensore, dopo una prima notifica spesso molto risalente, i relativi oneri a danno delle garanzie difensive. Ancora, le mozioni approvate contestano le misure sulle impugnazioni che valorizzano la fase scritta in stridente contrasto con i principi di oralità e immediatezza del Codice di procedura penale, le disposizioni sul mandato a impugnare , l’estensione del catalogo dei reati perseguibili a querela. E poi, sul tavolo delle richieste, il Congresso nazionale forense mette anche la sospensione dell’entrata in vigore della riforma Orlando sui giudici di pace, in attesa delle necessarie misure attuative, la cancellazione di qualsiasi limitazione all’esercizio del diritto di voto degli avvocati nei consigli giudiziari, la realizzazione di un’unica piattaforma telematica in grado di supportare gli avvocati e la contestuale trasposizione nei Codice delle norme in materia di processo telematico. I ragazzi “senza famiglia” e le proposte delle istituzioni Avvenire, 9 ottobre 2022 Giorni intensi sul fronte delle analisi sociali e statistiche sui minori. La scorsa settimana è arrivato il dossier dell’Autorità Garante per l’infanzia e l’adolescenza. Qualche giorno fa è stato reso noto il Documento finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle attività illecite connesse alle comunità di tipo familiare che accolgono minori. Due documenti strettamente connessi, per quanto le considerazioni espresse non sempre vadano nella stessa direzione. Secondo il dossier dell’Autorità garante che ha raccolto i dati delle procure minorili, sono 23.122 i bambini e i ragazzi ospiti delle 3.605 comunità per minorenni. “C’è una notevole difformità tra territori- evidenzia l’Autorità garante Carla Garlatti - e risultano evidenti le differenze tra i distretti. Ciò non è riconducibile solo al numero degli Msna, ma anche a una diversa presenza dei servizi sociali. Peraltro, a una quantità maggiore di allontanamenti non corrisponde sempre e necessariamente una condizione di più grave disagio del territorio, poiché gli interventi a protezione di bambini e ragazzi dipendono da una pluralità di fattori”. Dai dati raccolti emerge che il 55% degli ospiti ha un’età compresa tra 14 e 17 anni, il 15% tra 6 e 10 e il 14% tra 11 e 13. Nel dossier vengono evidenziati anche i motivi dell’allontanamento e dell’inserimento in comunità. Il 78% dei bambini e dei ragazzi presenti nelle strutture, è risultato esservi stato collocato su disposizione dell’Autorità giudiziaria, il 12% per decisione consensuale dei genitori e il 10% per allontanamento d’urgenza secondo l’articolo 403 del codice civile. Non manca neppure un accenno alla riforma del diritto minorile, di cui vengono evidenziate le criticità. Sullo stesso argomento insiste anche la Relazione finale della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle comunità minorile, diffusa mercoledì, in cui però - tra tanti altri temi - si fornisce un giudizio sostanzialmente positivo, con l’auspicio che prosegua “una organica riformulazione e razionalizzazione della normativa sostanziale in materia minorile”. Il cuore della Relazione è una pesante critica al nostro sistema di tutela dei minori fuori famiglia, considerato largamente inadeguato perché manca una regolamentazione omogenea a livello nazionale. La normativa, si dice, è poco specifica “e può determinare situazioni problematiche con allontanamenti ingiustificati”. Mancano “norme procedurali e strumenti di conoscenza e di controllo”. Non esistono banche dati e strumenti di monitoraggio davvero efficaci. La nostra rete socio-assistenziale è gravemente arretrata e non riesce ad offrire valide alternative all’allontanamento dei minori. Brescia. Detenuta si toglie la vita, nel 2022 già 67 suicidi nelle carceri italiane Corriere della Sera, 9 ottobre 2022 La donna di 51 anni, detenuta nel carcere bresciano di Verziano, si è uccisa impiccandosi con un lenzuolo legato al collo. Il suicidio, scoperto da una giovane agente della Polizia Penitenziaria, si è consumato all’interno della cella della donna. A darne notizia è Calogero Lo Presti, coordinatore regionale della Fp Cgil Lombardia. Il sindacalista evidenzia “l’ennesima” perdita di una vita umana all’interno delle carceri italiane “dove a volte non si riesce ad intercettare il disagio di coloro che poi la fanno finita con la vita. Secondo il dossier “Morire di carcere” di Ristretti Orizzonti, dal 1° gennaio di quest’anno sono almeno 67 i suicidi, mentre il totale dei decessi dietro le sbarre è di 127. Dal 2000 a oggi le persone che si sono tolte la vita in cella sono almeno 1.291 e i morti totali in carcere 3.456. Torino. Sette detenuti escono dal carcere per la posa della fibra di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 9 ottobre 2022 Escono dal carcere torinese ‘Lorusso e Cutugno’, dopo specifica formazione, i primi sette detenuti che saranno impiegati nella “posa e giunzione delle reti in fibra ottica”. Grazie infatti al Memorandum ‘Lavoro carcerario’ siglato dai Ministri Marta Cartabia e Vittorio Colao il 24 giugno 2022, un gruppo di volontari è stato ammesso al corso propedeutico di sei settimane curato dal gruppo aziendale Sirti: ad oggi nove hanno completato la formazione e sono abilitati. “Il lavoro è la componente decisiva, essenziale, per garantire il volto costituzionale della pena, che secondo l’articolo 27 della nostra Costituzione, è sempre orientata alla risocializzazione, rieducazione, reinserimento di tutti i condannati” così la guardasigilli Marta Cartabia durante la firma dell’Intesa, frutto della collaborazione tra il ministero della Giustizia e il Dipartimento per la transizione digitale. Il progetto offre ai detenuti opportunità professionali di formazione specialistica nei settori delle telecomunicazioni, con trattamenti economici pari a quelli previsti dai contratti collettivi di lavoro. Le attività previste si svilupperanno in due ambiti specifici: un progetto di rigenerazione degli apparati terminali di rete, a cui hanno aderito Fastweb, Linkem, Tiscali, Sky, Telecom Italia, Vodafone e Windtre; un progetto di realizzazione di reti di accesso telecomunicazioni con Open Fiber, Sielte e Sirti. Quello di Torino è solo il primo degli istituti penitenziari - coinvolti nel progetto - che ha aperto le porte a lavoratori a tutti gli effetti, il cui impegno sarà cadenzato sui bisogni produttivi dell’azienda. Altri istituti sono stati individuati per ospitare laboratori che si occuperanno del ricondizionamento dei modem di rete dismessi dalle abitazioni: Bologna, Cagliari, Catania, Frosinone, Lecce e Roma. Milano. Le baby gang che seducono i ragazzini: “Cocaina, pistole e odio razziale” di Andrea Galli Corriere della Sera, 9 ottobre 2022 Dalla Bovisasca al Corvetto fino al quartiere Adriano, la mappa aggiornata delle bande giovanili. Periferie e scorribande in centro sul modello dei trapper. Il dossier dei carabinieri inquadra i nuovi gruppi armati. Gli ultimi, beninteso in ordine cronologico, saranno presto i penultimi. Il panorama delle gang giovanili è dinamico, affollato; la sequenza di azioni violente e i conseguenti arresti, da un lato concludono parabole di formazioni criminali ma dall’altro lato quasi spingono nuovi volti ad affacciarsi e, daccapo, a percorrere piste nere. Per esempio, ecco gli adolescenti racchiusi nel gruppo “Bvsc”, ai quali i carabinieri del Comando provinciale di Milano, nell’aggiornamento del loro sofisticato dossier letto dal Corriere, dedicano ampio spazio. In un’operazione di mappatura, di letture del territorio, di acquisizioni informative che, forse, ed è ulteriore elemento che esplica la gravità del quadro, in città non si vedeva da tempo. Non c’è solo la faida tra le gang di “Simba la Rue” e “Baby Gang”, e di “Baby Touché”, che in conseguenza delle indagini culminate a fine luglio e l’altroieri potrebbero entrare in una parabola discendente (24 arresti complessivi). Il culto per il passato - Dunque, “Bvsc”. Un gruppo di venti ragazzi, di 16 e 17 anni, d’origine marocchina, tunisina, egiziana, residenti alla Bovisasca; il sabato e la domenica la geografia muta per il trasferimento in centro, a caccia di cocktail nei locali. Solito sistema di comunicazione (su Whatsapp), una costante spinta, nelle conversazioni e negli ampi sfoghi sui social network, non tanto a compiere reati a caso, bensì a vendicarsi. Vendicarsi magari di piccoli torti subiti da uno delle gang in classe o al campetto di calcio; vendicarsi magari contro coetanei che avrebbero avviato relazioni con ragazze del quartiere senza il permesso di quelli di “Bvcs”. Nelle migrazioni metropolitane, la solita area di corso Como è la preferita. Dopodiché, non che sia un autentico percorso, pur se marcio, di studio, essendo più che altro vincolato a certe narrazioni di certi balordi del posto oppure a film del passato: però, nei discorsi, ricorrono omaggianti riferimenti a vecchie organizzazioni criminali. Clan italiani e stranieri. Un modello su cui puntare. Le radici della violenza - Bovisasca, periferia. Come periferia è la Bicocca. “Z9”. Qui una cinquantina di minorenni, anche di prima media, e senza dominanti provenienze (albanesi, italiani, e di nuovo marocchini, tunisini ed egiziani), ha scelto la cosiddetta “Collina dei ciliegi” come base; un’alternativa è il centro commerciale della Bicocca. Forte, assai forte è l’odio razziale soprattutto contro coetanei filippini. Rispetto a “Bvcs”, che però come anticipato è un fenomeno di fatto ancora embrionale, le indagini dei carabinieri su “Z9” ci svelano un’abbondanza di coltelli e di pistole ad aria compressa, tutte armi che accompagnano risse, rapine, danneggiamenti a macchine, motorini, biciclette, mezzi pubblici. Le convocazioni per gli agguati sono istantanee, a chiamata su, tanto per cambiare, Whatapp: la missione, le parole d’ordine, il luogo prescelto e in un breve lasso temporale si materializza l’offensiva. Spesso, basta scorgere un filippino che ritorna a casa da scuola per innescare pensieri (e successivi gesti). Sulla scia “musicale” - La musica come simbolo, come veicolo, la musica come strumento d’arruolamento. Sulla scia di “Simba la Rue”, “Baby Gang” e “Baby Touché”, eccoci a “El Kobtan”, cantante rap e figura di riferimento per la banda “Ko Gang”. Quartiere Adriano, elaborato sistema di propaganda diffuso proprio attraverso canzoni che mostrano persone con passamontagna e pistole, che pippano cocaina e sventolano banconote. La formazione delinquenziale contempla non esordienti quanto piccoli pregiudicati reduci da risse, aggressioni a passanti, storie di droga, risse. Un profilo non dissimile da quello di “Z2” (in alternanza “20127”), pur se in misura ridotta (dieci-quindici unità), da collocare in via Padova e nelle sue traverse (Arquà, Clitumno), e da seguire negli spostamenti sulla ciclabile lungo la Martesana. Dal punto di vista sociale, ci sono ragazzini di terza generazione: furono i nonni i primi a emigrare, e già i genitori sono nati a Milano. Se quelli di “Z2” o “20127” sono in misura esigua - il che non impedisce frequenza e pericolosità dei comportamenti - “Z4 Gang/Crvt” è una formazione notoria per le massicce presenze. L’irrisolto quartiere Corvetto, uno di quelli che Milano continua a non voler vedere, è il centro di raccolta. In linea con una fissa per esempio di “Baby Gang”, ci sono gli insulti contro poliziotti e carabinieri. I ragazzini del Corvetto vantano precoci esordi criminali con i successivi ingressi in comunità (e le immediate fughe). Abitudini e codici - Dal Corvetto a Calvairate. Con i “Z4” (o “20139”, e come si vede la scelta dei nomi delle gang non è molto creativa, anzi). Costoro sono fra i più abitudinari: s’incontrano ogni benedetto pomeriggio all’esterno di bar e altri negozi, attraversano la città sui tram, battezzano un punto d’azione e mettono in atto una consueta tecnica, per la quale il più giovane del gruppo si avvicina alla vittima - un residente a passeggio - si serve di pretesti banali come chiedere un’informazione o un accendino, e una volta stabilita l’immediata prossimità compaiono i complici che procedono alla rapina. Di quello che c’è: cellulare, contanti, cuffiette; in mancanza di oggetti che soddisfino, la vittima viene costretta a prelevare consegnando il denaro. La minaccia d’una vendetta che sarà terribile - i ragazzini quando possono scrutano i documenti d’identità e memorizzano le coordinate - fa sì che, a volte, l’episodio nemmeno venga denunciato. Catanzaro. Storie fuori dal carcere, uno spazio per riflettere sui concetti di errore e libertà lacnews24.it, 9 ottobre 2022 Una giornata dedicata ad un tema considerato tabù, quello delle carceri, per riflettere sui concetti di errore e di libertà in uno spazio libero: il giardino epicureo a Montauro. Un’esperienza narrativa interattiva che prenderà spunto dal libro, curato da Antonio Carpino ed edito da “Le Pecore Nere” di Cosenza, scritto dai detenuti della Casa Circondariale di Paola, dal titolo: “Narratori dentro. Storie fuori dal carcere”. Due attori, Vincenzo Lazzaro e Claudia Olivadese, della scuola di teatro “Enzo Corea” interpreteranno alcune parti del testo, rendendo gli spettatori partecipi delle emozioni e dell’immaginario dei detenuti che hanno partecipato al progetto. Il titolo dell’iniziativa trae ispirazione da una canzone di Fabrizio De Andrè che animerà il momento musicale conclusivo e sarà interpretata da Gregorio Mantella. Al termine dell’evento possibilità di consumare un aperitivo a base di prodotti tipici del territorio presso l’emporio del giardino. Il giardino è uno spazio libero e il fatto che il racconto rappresenti per i detenuti uno spazio di libertà ci consentirà di riflettere anche sul rapporto tra spazi e libertà. All’esperienza narrativa prenderanno parte il curatore del libro, il prof. Antonio Carpino, che nella Casa Circondariale di Paola insegna materie letterarie ai detenuti; Carmen Rosato, referente per la Calabria dell’Associazione “Bambini senza sbarre” di Milano; Marta Monteleone ed Emanuela Internò della libreria “Raccontami” di Cosenza e Maria Pina Iannuzzi, editrice, che dialogheranno con Massimiliano Capalbo, ideatore e curatore del Giardino Epicureo. La partecipazione all’evento è gratuita (aperitivo a parte) e si svolgerà domenica 9 ottobre, a partire dalle ore 11.00, al giardino epicureo a Montauro in provincia di Catanzaro. Chi (non) fa funzionare lo Stato di Sabino Cassese Corriere della Sera, 9 ottobre 2022 I “numeri due e tre” sono spesso il fattore di successo di una compagine di governo. Ma sono rimasti prigionieri della grammatica giuridica, ma non di un diritto “prospettico”, bensì di un diritto fondato sul precedente e sul “combinato disposto”. Da qualche giorno i vincitori delle elezioni politiche hanno spostato la loro attenzione dalle trattative sulla composizione del governo alla caccia dei collaboratori ministeriali, gli staff, i “gabinetti”. Una ricerca importante ma difficile: importante perché i “numeri due e tre” sono spesso il fattore di successo di una compagine di governo; difficile perché alla guida dell’esecutivo va una forza politica che ha avuto scarsa consuetudine con il potere. È naturale che questo “head hunting” cominci dai due grandi corpi che sono stati tradizionalmente i “vivai di grandi commessi dello Stato” (traduco così l’espressione francese); non a caso sono tra i pochi che recano nella loro denominazione la parola Stato: Consiglio di Stato e Ragioneria generale dello Stato. Questi hanno una lunga vita (il primo nasce prima dell’Unità d’Italia, nel 1831; il secondo subito dopo, nel 1869); sono per legge o per tradizione preposti a funzioni fondamentali (governano la macchina delle leggi e quella della spesa); hanno, in modi diversi, terminali operativi nelle amministrazioni pubbliche, che consentono loro di “avere il polso” della gestione pubblica; a partire dalla Repubblica, hanno rimpiazzato nel ruolo di guida degli apparati il ministero dell’Interno, che in precedenza era legato da un cordone ombelicale con il presidente del Consiglio dei ministri, tanto che la presidenza del Consiglio fino al 1961 ha avuto sede presso il ministero dell’Interno. Nei libri di storia delle istituzioni si ricorda il rispetto che Mussolini aveva per il Ragioniere generale Vito De Bellis, l’influenza esercitata dal Presidente di sezione del Consiglio di Stato Franco Piga, quale capo di gabinetto della Presidenza del Consiglio nel governo Rumor, l’importante ruolo svolto dal Ragioniere generale Vincenzo Milazzo quale capo di gabinetto di Giulio Andreotti. Ma anche i guardiani dello Stato invecchiano e non riescono più a stare al passo con i tempi. Anche persone singolarmente molto capaci non sempre si dimostrano all’altezza dei compiti richiesti ai grandi corpi dello Stato. Questo è accaduto per diversi motivi. Perché, mentre svolgevano la loro funzione di custodi dello Stato, non si sono accorti che lo Stato mutava, e sono quindi divenuti i custodi dello Stato di ieri, rivelandosi una forza frenante. O perché non hanno saputo cogliere i mutamenti intervenuti nei rapporti Stato-società, ed hanno continuato a dire le loro messe in latino. O perché non sono riusciti a impadronirsi delle innovazioni tecnologiche che investivano gli apparati pubblici. O, infine, perché non hanno saputo valorizzare le forze vive, che pure esistono nella macchina pubblica, mentre è stata da loro considerata solo come un soggetto passivo, di cui assumere il comando o da tenere sotto controllo. I consiglieri di Stato nei gabinetti ministeriali, hanno continuato a svolgere il compito di redattori di leggi nella maniera in cui scrivono sentenze, in modo casistico, pieno di riferimenti ad altre leggi, oscuro, senza ascoltare la parola delle molte scuole di linguisti che hanno dedicato tanta attenzione all’ordine, alla chiarezza, alla intellegibilità delle leggi. Hanno sempre proceduto per addizioni, senza fare attenzione ai labirintici percorsi che disegnavano per le amministrazioni e i cittadini, con più attenzione per il passato (il precedente) che per il futuro. Non si sono preoccupati di sviluppare nel proprio interno un corpo di legisti. Come primi amministratori, hanno supplito alle carenze delle burocrazie, ma non si sono preoccupati di dotarle di capacità gestionali, spinti da un generale orientamento vincolistico a porre limiti “ex ante” piuttosto che a prevedere controlli “ex post”, sui risultati. Sono rimasti prigionieri della grammatica giuridica, ma non di un diritto “prospettico”, bensì di un diritto fondato sul precedente e sul “combinato disposto”. Nel frattempo, il “Conseil d’État” francese, che è stato il modello di quello italiano, ha invece ispirato, disegnato, organizzato la codificazione del diritto francese, un’opera che coinvolge ormai più della metà delle leggi di quel Paese, rendendo così la vita facile a cittadini e amministratori. La Ragioneria, a sua volta, attenta alla “domiciliazione” della spesa e al controllo del rispetto dei suoi limiti, mentre tiene sulla corda persino il Parlamento, si fa sfuggire la galassia dei satelliti statali, tanto che le sue statistiche - sempre più carenti - non riescono a includere i loro dipendenti. Fa controlli ragionieristici, ma non riesce a fare analisi costi-benefici, perché “l’amministrazione vive senza i conti e i conti vivono senza l’amministrazione”, come osservava un alto funzionario dello Stato già un secolo fa. Non è riuscita, salvo qualche iniziale tentativo, a introdurre il calcolo economico nello Stato, mentre la “bollinatura”, il timbro che dà il via a qualunque decisione pubblica, resta un oscuro ma definitivo “rescritto del principe”, non motivato, e fondato su parametri e calcoli sconosciuti. Accetta, però, l’ossessiva ripetizione della ipocrita clausola di invarianza finanziaria, che si può leggere in tanti atti, secondo la quale “agli adempimenti disposti da questa norma si deve provvedere con le risorse umane, strumentali e finanziarie già previste a legislazione vigente”. Consiglio di Stato e Ragioneria generale dello Stato, se vogliono - come tutti auspichiamo - continuare a svolgere il prezioso ruolo che hanno svolto nel passato, debbono cogliere i mutamenti intervenuti nella struttura dei poteri pubblici e nella domanda sociale rivolta allo Stato e dotarsi della “expertise” tecnica necessaria. Il Consiglio di Stato non può mandare ottimi autori di sentenze a scrivere leggi, perché queste vanno scritte da legisti, non da magistrati (mentre le strutture parlamentari, dove esistono i migliori confezionatori di leggi, dovrebbero dare anche esse il loro contributo al governo, che è divenuto il maggiore legislatore). La Ragioneria generale dello Stato deve dotarsi di economisti, se vuole continuare a svolgere il compito di supremo guardiano della finanza (mentre l’Ufficio parlamentare di bilancio dovrebbe cercare di corrispondere alle funzioni per cui era stato istituito, quelle di occhio del Parlamento). Infine, forse non sarebbe inappropriato che qualche ingegnere, qualche matematico e qualche filosofo venisse chiamato a far sentire, in questi grandi corpi, la voce di culture diverse. Viva la pace. Ma come arrivarci? di Beppe Severgnini Corriere della Sera, 9 ottobre 2022 Ha un immenso valore, e va protetta. Per decenni, in Europa, l’abbiamo data per scontata; i rumori della guerra vicina ci hanno svegliato. Putin irride la nostra angoscia. Siamo tutti per la pace, a parte qualche maniaco. Gridarlo - in piazza, in televisione, in un’intervista - è legittimo e comprensibile. Ma serve? Il responsabile della mostruosa guerra ucraina è uno solo - Vladimir Putin - e irride la nostra angoscia. Per lui, è solo uno strumento per convincere i governi occidentali a togliere gli aiuti all’Ucraina, così da poterla massacrare meglio. La pace ha un immenso valore, e va protetta. Fa bene, Papa Francesco, a ricordarlo continuamente. La pace è meravigliosa, come la salute: capiamo quant’è importante quando rischiamo di perderla. Per decenni, in Europa, l’abbiamo data per scontata; i rumori della guerra vicina ci hanno svegliato. Oggi la questione della pace si riassume in due parole: come arrivarci. Le manifestazioni di piazza hanno senso se frenano e condizionano i responsabili della violenza. Pensiamo alla mobilitazione delle donne occidentali in favore delle donne iraniane, brutalizzate perché chiedono rispetto: la pressione è sul regime di Teheran. In passato, le proteste per guerra in Vietnam erano dirette alla Casa Bianca, che ne era condizionata. Le proteste contro la guerra in Ucraina a chi sono rivolte? Ho letto con attenzione l’intervista di Giuseppe Conte a l’”Avvenire”, quotidiano cattolico. Grande fiutatore di vento, il leader del Movimento Cinque Stelle 2.0 ha capito che la crisi della sinistra moderata lascia scoperto una parte del mondo cattolico: dolore e senso d’impotenza sono una combinazione orribile. Conte invita “a manifestare per invocare una svolta negoziale che ponga fine al conflitto”. Benissimo. Ma chi invochiamo? Putin, che se ne frega? Zelensky, costretto a difendersi? Oppure l’Unione Europa, magari chiedendogli di togliere le sanzioni alla Russia, che non aspetta altro? Ero giovane, ai tempi della mobilitazione della sinistra europea contro i missili americani in Europa. Ma non così giovane da non capire: se le proteste avessero avuto successo, gli unici missili rimasti in Europa sarebbero stati quelli sovietici. Oggi stiamo vivendo una versione riveduta e corretta di quella vicenda. “Give peace a chance”, date una possibilità alla pace, per citare l’immenso John Lennon, dovremmo cantarla sotto le mura del Cremlino. Provate ad avvicinarvi, se ci riuscite. Cecilia Strada: “La marcia da sola non basta serve una cultura non violenta” di Lodovico Poletto La Stampa, 9 ottobre 2022 L’ex presidente di Emergency: “Il pacifismo in Italia è vivo, va ascoltato ho grande fiducia nei giovani, hanno un senso di giustizia innato” Buongiorno Cecilia, lo sa che Conte ha lanciato una marcia della pace per indirizzare il dibattito sulla fine della guerra? “Chi, Conte? Guardi, le marce sono generalmente un fatto simbolico. Che per produrre dei risultati devono avere dei contenuti da portare. Per valutare bisognerebbe capire il contenuto di questa cosa che propone”. Perché? “Perché tutti vogliono la pace. Ma bisogna capire come ci si arriva”. E come si arriva alla pace? “Parlandone. E non soltanto quando cadono le bombe su Kiev. Parlando di disarmo, di disarmo nucleare, di non violenza e di alternative alla guerra ogni giorno dell’anno. Smantellando cioè il sistema guerra. E parlando di diritti. Perché è la pratica dei diritti che definisce la pace. Non soltanto l’assenza delle bombe”. Qualcuno dice che il pacifismo è morto. È vero? “Pacifismo e non violenza ci sono eccome. La verità è che questo è un argomento a cui non si dà mai spazio. La rete Pace e disarmo lavora tutto l’anno. Tutti gli anni. Ma nessuno lo dice. Poi, però, vanno a chiamare gli esponenti del mondo pacifista quando c’è un conflitto”. Visto che di conflitti ce ne sono tanti, li mobilitano spesso? “No, soltanto quando ce n’è uno che ci interessa. Vedi l’Ucraina. Quelli africani non interessano. Ciò che accade in Yemen non ci interessa”. Quando è vicino, invece? “Chiamano l’esponete pacifista, gli mettono il microfono sotto il naso e gli chiedono: “E ora come si ferma Putin?” E propongono una marcia”. Quindi il mondo che lotta per la pace non è morto? “Guardi: il pacifismo in Italia c’è. E c’è anche il movimento non violento, che bisognerebbe ascoltare un po’ di più. Poi, giustamente, siamo tutti terrorizzati quando si appalesa l’incubo nucleare: tutti avremmo voluto che Putin non avesse l’atomica. Ma io non è che dormivo più tranquilla prima sapendo che ci sono diversi Paesi che hanno l’atomica, compresi gli Stati democratici. Per cui di disarmo nucleare e di pace è qualcosa di cui dobbiamo discutere ogni giorno”. La politica durante la campagna elettorale non ne ha mai parlato. Perché? “Penso che fosse considerato un tema troppo scivoloso su cui giocarsi le proprie carte. E comunque, in generale, io non ho sentito tanti contenuti in questa tornata”. E cosa hanno detto? “Votate noi perché quegli altri loro sono brutti e cattivi. E questo, non è politica”. Invece cosa dovrebbe essere? “La politica che io vorrei è quella che ci spiega come facciamo a dare ai nostri figli o ai nostri nipoti un futuro migliore. Io questo non l’ho sentito. Ma ho sentito gente discutere di come fare per ridare una poltrona a questo o quel parlamentare”. Non parlandone i ragazzi diventano insensibili al tema? “Meno se ne parla e più è difficile che loro se ne occupino. Ma io penso che loro abbiano un senso della giustizia molto forte. Innato. Siamo noi adulti che roviniamo tutto”. Ne è sicura? “Le faccio un esempio. In questo periodo andiamo nelle scuole a parlare di soccorso in mare ai migranti. E non c’è un ragazzo che tiri su il dito e dica “no, è un tema divisivo”: è così immediato e così ovvio che chi rischia di annegare va salvato. Punto. Poi quando siamo con i piedi all’asciutto parliamo di tutto il resto”. E se tornasse Salvini al ministero dell’Interno? “Vedremo...”. Gino Strada diceva che non era pacifista ma contro la guerra. Anche lei è così? “Io sono contro la guerra, pacifista e non violenta. La citazione si rifà a quando c’era un governo di centrosinistra che si dichiarava pacifista, e poi diceva che per ottenere la pace dobbiamo fare la guerra. Lui non amava il pacifismo che votava per fare la guerra in Afghanistan”. Bisogna continuare a mandare le armi in Ucraina? “Non penso che questa sia una guerra che l’Ucraina possa vincere sul piano militare perché c’è una tale sproporzione tra le parti. Per questo non ho mai pensato che potesse essere una soluzione inviare armi”. Quindi che si fa? “Mi auguro che vinca la via dei negoziati. Anche perché inviare le armi è una soluzione problematica”. In che senso? “Nel senso che gli ucraini hanno già pagato troppo. E hanno pagato e pagano troppo anche tanti ragazzi e ragazze russe che per protestare contro la guerra sono finiti in galera”. Ma qualcuno scappa... “Certo che scappano. E lo sa perché? Perché è sempre la povera gente che paga il conto della guerra. Anche tra gli aggressori”. Ma a cosa servono davvero le manifestazioni pacifiste? di Stefano Feltri Il Domani, 9 ottobre 2022 Come tutti voglio la pace, la guerra in Ucraina non piace a nessuno, la crisi energetica ancora meno. Ma ho molte perplessità sulle manifestazioni pacifiste che si preparano. Su questo giornale Mario Giro ha scritto che “la pace è un affare molto serio da non delegare ai soli responsabili politici. Questo è il senso dell’attuale mobilitazione: fare qualcosa, farsi sentire, gridare”. Le motivazioni per essere angosciati non mancano, il rischio di una escalation del conflitto è sempre stato presente e, a torto o a ragione, ora viene percepito in crescita. E le scienze sociali, da Albert Hirschman in poi, hanno sempre chiarito che esiste un beneficio intrinseco nella partecipazione democratica: il senso di impotenza di fronte a eventi fuori controllo viene mitigato dalla mobilitazione. Si va in piazza, insomma, per sentirsi meglio, non perché possa fermare le armi atomiche. In un mondo di solitudini e connessioni soltanto virtuali, le piazze pacifiche sono un bene raro. Ma se guardiamo gli argomenti, gli obiettivi e le possibili conseguenze delle imminenti mobilitazioni pacifiste molti dubbi sono legittimi. Le grandi manifestazioni simili del passato avvenivano in un altro contesto: il 15 febbraio del 2003 milioni di persone sono sfilate a Roma (sei milioni, si disse all’epoca) contro la guerra in Iraq. Ma quella protesta era contro un’azione militare di un governo alleato, quello americano, sostenuta da molti governi europei, incluso quello italiano. Le piazze pacifiste servono, quando servono, ad alzare il costo politico della scelta militare (o quantomeno a renderlo evidente). Così chi vota per la via delle armi ci pensa due volte e chi si oppone può intercettare il voto del dissenso. Nel caso delle manifestazioni che si preparano, chi è il bersaglio? Dubito che Vladimir Putin possa vederle come un problema, anzi. L’unico costo politico che sale è quello del sostegno militare agli ucraini. Ci sono una serie di ipotesi discutibili non esplicitate nel messaggio pacifista: che la guerra ci sia anche per volontà occidentale, che qualcuno (Stati Uniti?) voglia una guerra lunga per trarne qualche beneficio, che forse se lasciamo a Putin il Donbass e la Crimea il rischio nucleare si allontana. Ognuna di queste ipotesi è coerente in una cornice ideologica di pregiudizi anti americani (o filo russi), ma poco suffragata dai fatti. Putin non ha mai dato la disponibilità a negoziare, gli Stati Uniti hanno messo in guardia in anticipo dal rischio di un’invasione mentre i paesi europei non credevano agli allarmi ed è la Russia a evocare l’atomica, non l’occidente. Soltanto chi aderisce alla propaganda del Cremlino, come certi opinionisti italiani, può attribuire al presidente ucraino Volodomyr Zelensky il desiderio di continuare una guerra nella quale rischiano ogni giorno la vita lui e tutto il suo popolo. L’idea che smembrare l’Ucraina sia la premessa per la pace è contraddetta dalla storia (lasciare a Putin la Crimea nel 2014 ha solo messo le basi per un’altra guerra). Infine, evocare le armi nucleari porta all’apocalisse o al congelamento del conflitto sul terreno perché irrilevante di fronte alla prospettiva dell’annichilimento? La minaccia della reciproca distruzione tra Stati Uniti e Urss ha congelato lo scontro diretto tra le potenze nella guerra detta appunto fredda, scaricando le tensioni militari su altri teatri periferici. Le manifestazioni pacifiste sono sempre belle, ma solo in alcuni casi sono utili. Talvolta sono perfino dannose. Caporalato. Contro lo sfruttamento del lavoro serve anche l’aiuto dei consumatori di Alessandro Monti* Avvenire, 9 ottobre 2022 I controlli o la sola prevenzione non sono sufficienti ad arginare gli abusi. Raddoppiano i lavoratori in nero, le vittime del caporalato sono aumentate del 47%. Continuano e addirittura si intensificano le diverse forme di sfruttamento del lavoro, richiamate spesso sotto l’etichetta del “caporalato”, che segnano un po’ tutta Europa e con amara e particolare intensità il nostro Paese. L’attenzione ai singoli casi non deve far perdere la visione d’insieme sino a depotenziare il messaggio di riprovazione per un fenomeno tanto aberrante quanto non episodico, che ricorda come in nome della logica indiscriminata del profitto, più volte condannata anche da papa Francesco, si continuino a calpestare i diritti e la dignità delle persone coinvolte, fino ad attentare alla loro stessa incolumità. Ufficialmente le vittime dello sfruttamento sono quelle identificate nell’attività di vigilanza dell’Ispettorato Nazionale del Lavoro, ma quanto emerge anche nel Rapporto 2022 è solo la punta di un iceberg. Il forte aumento delle vittime scoperte dalle ispezioni nel 2021 rispetto al 2019 (da 1.488 a 2.192: + 47,3%) e il più che raddoppio dei lavoratori in nero (da 741 a 1.680), sono un indicatore chiaro della tendenza espansiva. Le accresciute ispezioni mirate, pure se riferite solo in parte all’agricoltura (11,7%), riflettono l’aumento della presenza di braccianti in condizione di essere sfruttati, che restano in gran parte invisibili. Uno studio dell’European House Ambrosetti nel 2020 stimava in 80 i distretti produttivi interessati dal fenomeno, con circa 400mila persone coinvolte (oltre 600 milioni di euro l’evasione fiscale e contributiva); mentre il V Rapporto dell’Osservatorio Placido Rizzotto calcola in 180mila le persone sottoposte a sfruttamento lavorativo e caporalato nel solo settore agricolo: quasi due terzi in più rispetto al 2018 (110 mila). Non si dispone di stime aggiornate ma lo sfavorevole contesto socioeconomico dell’ultimo biennio fa ritenere che la tendenza si sia mantenuta e purtroppo rafforzata. La dilatazione e la virulenza dell’attività illegale trovano conferma nell’incremento sia delle sanzioni ammini-strative, sia delle denunce penali del Comando dei Carabinieri per la tutela del lavoro: le persone deferite all’autorità giudiziaria per i reati di intermediazione illecita della manodopera e sfruttamento del lavoro (art.603 bis del Codice Penale) sono passate da 324 nel 2019 a 418 nel 2021, anche se i trasgressori arrestati sono scesi da 99 a 54. L’immigrazione irregolare rappresenta la maggiore area di pescaggio di lavoratori indifesi da ricattare brutalmente. Ad acuire la loro vulnerabilità ha contribuito la pandemia, che accentua fragilità e marginalità sociale di persone già soggette a violenze e torture durante il viaggio e la detenzione nei centri di raccolta in Libia. Il clima politico poco favorevole ad accoglienza e integrazione ha finito per rallentare la regolarizzazione dei lavoratori stranieri che avrebbe ristretto la platea delle potenziali vittime. Il Rapporto 2022 del Centro Astalli, rileva che a fronte di oltre 207mila domande di sanatoria presentate nel 2019 dai migranti, a fine 2021 quelle accolte erano meno del 20%. Si tratta di smaltire un parterre in continuo aumento. Secondo i dati del Ministero dell’Interno le persone arrivate sulle coste italiane nel 2021 sono infatti quasi raddoppiate rispetto all’anno precedente (da 34.154 a 67.140). E il quadro tende a peggiorare: al 30 giugno 2022 erano entrati in Italia ben 89.897 migranti: quasi il triplo di quelli del primo semestre 2021. Provenienti in prevalenza da Nigeria, India, Senegal ed Eritrea, i due terzi vengono trattenuti nei Cas (Centri di Accoglienza Straordinaria) in condizioni disumane, spesso in spazi ridotti (fino a 10 volte più della prevista capienza) dai quali molti si allontanano per poi cadere nelle mani dei caporali moltiplicando i casi di sfruttamento in agricoltura, soprattutto nelle regioni meridionali. I comuni con più estesa presenza di alloggi fatiscenti dove sono tenuti i lavoratori agricoli - secondo un’indagine dell’Anci - sono ubicati al Sud. Dei 37 comuni individuati dal Ministro del Lavoro con il Dm 55 del 29 marzo 2022 - ai quali destinare 200 milioni del Pnrr per risanare le strutture abusive - quelli con più alta presenza di lavoratori stranieri sono in Puglia (12 comuni, tra i quali spiccano Manfredonia e San Severo) e in Sicilia (8 comuni tra i quali spiccano, Petrosino, Ispica e Castelvetrano) a ridosso dei luoghi di sbarco dei migranti. Conferma questa prevalente dislocazione la “Mappa geografica del lavoro sfruttato” di recente costruita dall’Osservatorio Placido Rizzotto. Delle 405 aree e località individuate, la maggior parte è ubicata nelle regioni del centro-sud con ben 276 aree, di cui 39 nel Lazio, 41 in Puglia e 53 in Sicilia. Nella lotta al caporalato si sono rivelati efficaci gli strumenti di repressione amministrativa e penale (legge 199/2016), mentre le misure di prevenzione sono state insufficienti. Concepite, promosse e attuale prevalentemente a livello di amministrazioni centrali dello Stato, ruotano attorno al Piano Triennale di contrasto allo sfruttamento lavorativo in agricoltura 2020-22 del Ministero del Lavoro. Nonostante la mappatura delle coltivazioni agricole e il calendario dei raccolti, essenziali per pianificare i flussi di manodopera; nonostante la dotazione di ingenti mezzi finanziari mobilitati dai ministeri coinvolti (oltre 700 milioni); nonostante i gruppi di lavoro e gli organi consultivi a sostegno delle azioni prioritarie del Piano, inclusa la recente Consulta per l’attuazione di un apposito Protocollo di Intesa interministeriale, non si registra una significativa flessione del fenomeno. La stessa Rete di Lavoro Agricolo di Qualità, istituita sin dal 2014 e gestita dall’Inps per incentivare le aziende a rispettare i diritti dei lavoratori e gli obblighi contributivi, in cambio di controlli meno penetranti e offerta di manodopera regolare, ha finora avuto scarso seguito. Al 7 dicembre del 2021 risultavano iscritte alla Rete soltanto 5.978 aziende: poco più del 2% dei 250/300 mila potenziali aderenti, appena 1472 in più rispetto all’anno precedente. Una più fruttuosa azione di contrasto potrebbe scaturire da un maggior coinvolgimento locale di Enti pubblici, sindacati, Ong e consumatori. A livello territoriale possono approntarsi interventi più rapidi e puntuali contro l’attività criminale in fieri, o fermarla al suo insorgere. Il principale strumento di prevenzione rimane però la vigilanza degli enti coordinati dall’Inl (con personale in aumento di 2.560 unità) che si muove all’insegna del “Più ispezioni, meno lavoro nero. Meno lavoro nero, meno concorrenza sleale”, i cui esiti dovrebbero confluire entro il 2022 in un’unica Banca dati nazionale. Dipenderà da estensione, continuità e incisività dei loro controlli l’effetto deterrente della Clausola di Condizionalità Sociale di recente inclusa nella strumentazione d’intervento del Piano della Politica Agricola Comune (Pac). A partire dal 2023 la sua applicazione consentirà di sospendere, fino a sopprimere, l’erogazione degli aiuti europei alle aziende agricole che violano i diritti e gli obblighi dei contratti collettivi e della legislazione del lavoro. Resta cruciale però il ruolo etico dei cittadini- consumatori. Che con le loro scelte d’acquisto, quel “voto col portafoglio” spesso proposto su queste pagine, dovrebbero preferire i prodotti delle aziende virtuose che operano in regime di legalità e aderiscono alla Rete di lavoro agricolo di qualità. La sistematica combinazione di attività pubbliche di contrasto sempre più decentrate e mirate e di comportamenti collaborativi individuali sempre più attenti al rispetto dei diritti umani e della dignità delle persone, appare la strategia più realistica per una progressiva emarginazione di un fenomeno ripugnante, incompatibile con una società civile. *Professore di Teoria e politica dello sviluppo, già Università di Camerino Don Giulio Mignani, prete sospeso per il sostegno alle coppie Lgbt: “Se si calpestano i diritti umani bisogna schierarsi” di Marco Grieco L’Espresso, 9 ottobre 2022 Parla il parroco di Bonassola che non potrà più celebrare messa in pubblico né predicare per le sue posizioni su aborto, fine vita ma soprattutto amore omosessuale. “Non si può parlare di accoglienza e poi escludere la dimensione affettiva: l’unione non è peccato”. Per il Vaticano lo scandalo ha un nome: si chiama don Giulio Mignani, parroco di Bonassola, Montaretto, Framura e Castagnola, sospeso dal suo ministero con una notifica firmata dal vescovo di La Spezia, monsignor Luigi Ernesto Palletti su decisione diramata dal Vaticano stesso: “Tecnicamente con la sospensione a divinis, rimango un prete, ma posso celebrare messa da solo, senza predicazioni pubbliche né catechesi”. Che la parola avesse avuto un peso importante nella sua vita, don Giulio lo aveva già intuito quando aveva stracciato un contratto a tempo indeterminato come dipendente bancario per passare a ben altri talenti da investire. E così, con le sue parole, è arrivato dove la Parola con la maiuscola chiede di andare, “alla fine del mondo”, anche quando ha l’estensione di una parrocchia di 1.500 abitanti. Per la Santa Sede, invece, le sue posizioni rappresentano la fine di un mondo sedimentato per secoli e l’inizio di una Chiesa che si lascia interpellare da domande esistenziali, come quella sul fine vita, che lo ha visto partecipe di un convegno a Genova con Marco Cappato. Lo scandalo sull’amore Lgbt - Eppure, raggiunto al telefono, don Giulio puntualizza: “Considerato che tutto è partito dalla mia posizione sulle coppie omosessuali, che poi ha avuto una certa eco mediatica, devo evincere che l’argomento che li ha scandalizzati maggiormente sia stato quello. Il precetto penale, infatti, è stato emanato a dicembre, quando io non avevo ancora fatto esternazioni sull’eutanasia e sull’aborto. È stato il vescovo stesso a dirmi che l’eco mediatica aveva dato loro fastidio e hanno ritenuto necessario intervenire. Visto che tutto è partito prima, è stato quello l’argomento che ha dato più fastidio”. Tutto nasce dopo la domenica delle Palme del 2021, quando don Giulio decide di non benedire le piante come forma di protesta verso il responsum con cui la Congregazione per la dottrina della fede ha vietato le benedizioni alle coppie omosessuali: “Negli incontri, il vescovo mi aveva già richiamato verbalmente. Poi a dicembre scorso c’è stato un richiamo scritto, che mi ha notificato quello che tecnicamente si chiama precetto penale: se avessi continuato a fare esternazioni contrarie al Magistero della Chiesa, sarei incorso nella sospensione a divinis. E così è stato”. Don Giulio, però, non ci sta. Nei mesi precedenti al processo presso il tribunale ecclesiastico diocesano, ha avuto modo di contestare ciò che per la chiesa cattolica rimane intoccabile: il Magistero, in base a cui l’omosessualità è considerata peccato, ammettendo implicitamente che alcune relazione fra persone siano contrarie all’ordine di creazione voluto da Dio: “Il vescovo mi ha richiamato ai documenti del Magistero, dove si distingue tra persona omosessuale e atti omosessuali, ma io l’ho contestato: che accoglienza è quella in cui si accoglie a parole una persona ma poi la si strappa da una dimensione importante della persona umana, cioè l’affettività, la sessualità? E poi, secondo me, si deve uscire dal paradigma di considerare che l’unione sia un peccato. Perché è bello che il Papa parli di accoglienza, ma se poi parla di accoglienza del singolo, e non di coppia, anche lui è dentro questo paradigma”. La lettera al Papa - Qualche anno fa, don Giulio ha scritto una lettera a papa Francesco, ma non ha mai ricevuto una risposta: “Ho apprezzato la lotta del Papa contro il potere clericale, allora gli scrissi che il passo da fare come Chiesa era smetterla di riconoscere che noi possediamo la verità. Perché, se pensiamo di essere i detentori di questa verità, ci sentiamo di imporla agli altri, anche se in buona fede. E in passato molte persone sono state ammazzate per questo. È anche quello che accade con me: mi si dice che la verità e questa altrimenti devo stare con la bocca chiusa. Finché non c’è questo passo, la Chiesa non può essere una democrazia, ma resta una struttura gerarchica”. Ma c’è un’altra chiesa, quella dal basso che in questi giorni sta mostrando a don Giulio la sua vicinanza: “Molti sacerdoti mi sostengono in privato, anche riguardo alle unioni omosessuali. Però mi confessano che evitano di manifestare pubblicamente perché, così, possono aiutare chi viene escluso come pastore. E poi, vogliono evitare di fare la fine che ho fatto io. Rispetto la loro posizione, però credo anche che, quando ci sono dei diritti della persona che vengono calpestati, occorre schierarsi pubblicamente”. È il pastore che parla, il parroco che si fa prossimo alla gente e che vede nel processo sinodale della Chiesa avviato da papa Francesco l’occasione per ascoltare le inquietudini spirituali dei fedeli oggi: “Per il Sinodo, ho inviato un questionario a 434 parrocchiani su temi come le unioni Lgbt, l’eutanasia e l’aborto. Quasi il 90 per cento è favorevole alle coppie omosessuali. Questo dimostra che nella Chiesa c’è grande fermento, c’è un sostegno notevole alla base. Ma non è sufficiente una spinta dal basso se dall’alto non se ne prende atto. Perché come credente devo imporre la mia visione? Io sono prete e sono a favore del matrimonio egualitario e dell’adozione per le coppie dello stesso sesso. Perché lo vedo dal vivo: a Bonassola conosco due donne che hanno due figli, ma che sono considerati tali solo per una di due. Perché?”. Essere al loro fianco - Dopo la sua presa di posizione a favore delle coppie Lgbt, don Giulio ha accolto e continua ad essere vicino a molti della comunità che si sentono ancora esclusi dalla Chiesa: “Tempo fa ho ospitato una coppia di donne in un cammino di fede. La lettera che mi hanno scritto mi ha commosso: “Quando ci hai accolto, ci hai preparato una stanza matrimoniale. Per noi ha voluto dir tanto, essere state accolte come coppia” Da quel giorno, la pastorale di don Giulio è nel solco di una trincea dove la Chiesa che deciso di servire lo considera una minaccia al suo status quo: “Ho partecipato alla cerimonia di unione di due cari amici di Bonassola: volevo essere lì come prete, dire loro sono con voi. Penso che quando i diritti umani vengono calpestati, chi ha autorità deve schierarsi anche pubblicamente. È importante esserci”. Oggi don Giulio è nell’occhio di un ciclone che potrebbe strappargli quella veste talare, per lui diventata sinonimo di accoglienza: “Io sono sereno, ma c’è una sola cosa che mi rattrista. Che la Chiesa parli di scandalo, ma non tiene conto dei frutti positivi, dei genitori che mi ringraziano perché sostengo i loro figli, delle lettere di anonimi che ringraziano per sentirsi finalmente accolti. Se i frutti sono questi, allora perché tagliare l’albero?”. Belgio. La colpa di sopravvivere di Caterina Soffici La Stampa, 9 ottobre 2022 Nel 2016 Shanti aveva visto morire gli amici negli attentati dell’Isis in Belgio. Devastata dalla depressione ha chiesto l’eutanasia. È morta a maggio. Uccidersi a 23 anni perché sei sopravvissuta. Shanti De Corte il 22 marzo 2016 stava camminando nella sala partenze dell’aeroporto di Bruxelles con i compagni di scuola. Erano in gita, destinazione Italia. Prima uno scoppio, poi un altro, il buio, le grida, il sangue, le sirene, brandelli di corpi umani: le bombe dell’Isis quel giorno fecero 32 morti e 300 feriti. Shanti aveva 17 anni e quel 22 marzo si è salvata per un soffio, ma la morte le è passata troppo vicina, le si è attaccata addosso e non l’ha più lasciata. Da quel giorno ha sofferto di attacchi di panico, non riusciva più a stare in mezzo alla gente, viveva imbottita di antidepressivi, 11 pasticche al giorno, solo per sopravvivere. Shanti De Corte ha chiesto di essere uccisa con l’eutanasia, perché non ce la faceva più a vivere. È il senso di colpa dei sopravvissuti. Primo Levi, il sopravvissuto per eccellenza, si tolse la vita gettandosi nella tromba delle scale della propria casa di Torino. Anche Shanti aveva provato a suicidarsi. Una prima volta nel 2018, un’altra nel 2020. Dopo di che ha contatto un’organizzazione che difende il diritto alla “morte dignitosa” e ha chiesto un’eutanasia per “sofferenza psichiatrica insopportabile”. Dal giorno dell’attentato all’aeroporto di Bruxelles soffriva di una depressione gravissima e di disturbo da stress post traumatico. Era rimasta illesa fisicamente, ma la sua mente ha subito cicatrici profonde, è stata colpita al punto da non riuscire più a vivere una vita normale. Un calvario psicologico che l’ha lasciata senza forze. Era stata ricoverata a più riprese nell’ospedale psichiatrico di Anversa, la sua città. Sui social media ha parlato spesso della sua lotta contro quella testa che la tirava giù, in un luogo dove nessuno ti può aiutare. “Con tutti gli psicofarmaci che prendo, mi sento come una fantasma che non sente più niente. Forse ci sono altre soluzioni oltre ai farmaci”. Nell’ultimo post ha scritto: “Ho riso e pianto. Fino all’ultimo giorno. Ho amato e mi è stato permesso di sentire cos’è il vero amore. Ora me ne vado in pace. Sappiate che mi mancate già”. Si può decidere di morire a 23 anni perché la vita è insopportabile? Il suicidio è una soluzione disperata su cui è difficile pronunciarsi, abitare l’idea stessa di uccidersi è cosa incomprensibile se svincolata dall’esperienza del singolo. Nessuno potrà mai entrare nella testa di un suicida, ma Primo Levi ne I sommersi e i salvati ci ha lasciato la testimonianza più credibile di quello che passa per la testa di un sopravvissuto. Chi si è salvato vive con il senso di colpa di essere al posto di qualcun altro e nel sospetto di non meritarlo. “Hai vergogna perché sei vivo al posto di un altro? E in specie di un uomo più generoso, più sensibile, più savio, più utile, più degno di vivere di te? Non lo puoi escludere… è una supposizione, ma rode; si è annidata profonda, come un tarlo; non si vede dal di fuori, ma rode e stride…”. Chissà se Shanti ha mai letto queste pagine prima di chiedere ai medici di mettere fine al suo dolore. È morta il 7 maggio dopo che due psichiatri hanno approvato la sua richiesta, una procedura legale in Belgio (in Europa solo in Lussemburgo e Olanda è possibile in casi come questi). La storia è venuta alla luce per il racconto della madre Marielle al canale belga VRT. La donna ha voluto parlare apertamente del dolore della figlia, della gabbia in cui era rimasta chiusa dopo gli attentati. C’erano altre soluzioni? Forse. Il suicidio di una 23enne sarebbe già di per sé una notizia tragica. Il fatto che sia morta in seguito a una richiesta di eutanasia rende tutto più complesso e infatti anche in Belgio oltre alle polemiche è stata aperta un’inchiesta. I pubblici ministeri di Anversa hanno avviato un’indagine dopo aver ricevuto denunce da un neurologo dell’ospedale Brugman di Bruxelles che ha affermato che la decisione di eutanasia per Shanti “è stata presa prematuramente”. La Commissione federale per il controllo e la valutazione dell’eutanasia ha dato parere positivo, ma il neurologo Paul Deltenre ha affermato che c’erano ancora diverse modalità di cura e trattamento disponibili per Shanti, che non sono state provate. La vita è una cosa che ci accade. In genere anche la morte. Ma sopravvivere a un trauma così grosso, come un olocausto o un attentato, è come nascere una seconda volta, un privilegio inaspettato a scapito di altri. E forse una seconda vita qualcuno non è in grado di viverla. Stati Uniti. La marijuana liberata di Biden di Luca Celada Il Manifesto, 9 ottobre 2022 Il decreto presidenziale. Un’amnistia pre-elettorale che accende lo scontro politico, destre all’attacco ma il presidente - che ha rivisto le sue posizioni degli anni 90 - ci crede: “Nessuno dovrebbe rimanere in carcere per il solo uso o la detenzione di cannabis, parliamo di qualcosa che è già legale in molti stati Usa”. L’amnistia proclamata da Biden ha l’effetto immediato di estinguere le pene e ripulire le fedine penali di circa 6500 persone condannate per reati di “semplice detenzione” di cannabis. Il decreto esecutivo interessa per ora chi ha ricevuto la condanna in sede federale, una esigua minoranza rispetto ai milioni di condannati dai sistemi penali dei singoli stati. Quelli per detenzione marijuana equivalgono a più della metà di tutti gli arresti per stupefacenti (circa 29 milioni dal 1965). Il paradosso attuale è che centinaia di migliaia rimangono in carcere per un’attività che è libera nella maggior parte degli stati. “Come ho sostenuto sin dalla mia campagna elettorale - ha dichiarato il presidente- parliamo di qualcosa che è ormai considerato legale in molti stati. Nessuno dovrebbe rimanere in carcere per il solo uso o la detenzione di marijuana”. allo stato attuale 38 Stati consentono l’uso di cannabis e derivati a scopo terapeutico, in 19 è legale l’uso ricreativo di marijuana (altri 5 voteranno sulla legalizzazione in referendum accorpati ai midterm di novembre). Alla normalizzazione di fatto corrisponde la rigidità degli statuti federali che fermi alla “war on drugs” di cinquant’anni fa classificano erba e derivati alla stregua di droghe pesanti come eroina e fentanil. Çosì mentre nella maggior parte del paese il mercato legale sviluppa ormai affari per 25 miliardi di dollari e in molte città prodotti di cannabis si comprano in boutique simili ad Apple store (o con comodo recapito a domicilio) le grandi aziende di settore non possono ancora utilizzare le reti bancarie o assicurative che dipendono da licenze federali. L’azione di Biden rappresenta quindi un grande passo verso la decriminalizzazione che attivisti - insieme a un crescente comparto industriale - chiedono da tempo. È un’inversione di tendenza importante soprattutto per la potenziale rimozione della marijuana dalla famigerata tabella 1 degli stupefacenti. La riclassificazione auspicata dal presidente (cha ha anche chiesto ai governatori di tutti gli stati di seguire il suo esempio) aprirebbe a una riforma integrale e all’eventuale definitiva legalizzazione. La decisione di Biden, acclamata dagli attivisti che da tempo la reclamavano, è sicuramente collegata alle manovre pre elettorali. Una misura, come già il mese scorso il colpo di spugna sul ripagamento dei debiti studenteschi, mirata a un elettorato giovanile portato all’assenteismo e di cui il Partito democratico ha disperato bisogno. E come tale il decreto è stato immediatamente aspramente attaccato dai Repubblicani fautori semmai dell’inasprimento delle pene e di una generale allarmismo sulla “criminalità dilagante”. Uno scontro politico in cui Biden si è trovato ancora una volta a rivestire i panni di propulsore progressista in netta controtendenza con gli “stati rossi” e con la corrente neo reazionaria che spinge per la restaurazione trumpista. Un altro elemento che potrebbe aver influito sulla decisione è il caso di Brittney Griner, l’atleta americana detenuta in Russia per detenzione di olio di Thc e la cui liberazione è reclamata dalla Casa bianca. Come quasi tutti i grandi temi politici negli Stati uniti, la questione si carica inevitabilmente anche dei riflessi razziali che investono gli equilibri sociali del paese. “I precedenti penali di questo tipo - ha detto Biden - comportano barriere riguardanti lavoro, alloggio e istruzione, senza contare le iniquità razziali fra chi ne soffre le conseguenze”. Il riferimento è alla statistica secondo cui gli afroamericani ricevono condanne per cannabis a un tasso quattro volte superiore rispetto a quello dei cittadini bianchi. Il decreto ha un impatto notevole, quindi, soprattutto per come altera il giustizialismo punitivo che è cifra base della politica e del sistema giudiziario Usa. Si tratta di un’inversione di tendenza macroscopica per un politico come Biden che negli anni 90, con Clinton, era stato fautore della riforma giudiziaria cui molti imputano la carcerazione di massa e in particolare di milioni di neri, ispanici e poveri nel complesso carcerario-industriale di un paese che detiene oggi un quarto dei prigionieri di tutto il mondo. Mentre le azioni di Biden hanno ricevuto il plauso generale del settore, negli stati “permissivi” la legalizzazione non ha posto termine a tutte le problematiche. Una recente inchiesta del Los Angeles Times ha rivelato che nelle principali zone di produzione, le coltivazioni che forniscono il mercato legale rimangono comunque spesso in mano a una criminalità organizzata che a scapito dei piccoli produttori in regola monopolizzano operazioni caratterizzate da violenze, sfruttamento di manodopera ed enormi danni ambientali. Iran. “Dalle donne parte la ribellione alla teocrazia” di Francesca Luci Il Manifesto, 9 ottobre 2022 Parla un docente iraniano di scienze politiche e diritto internazionale. Nelle ultime tre settimane abbiamo visto manifestazioni frequenti in moltissime città iraniane dopo la morte della giovane curda Mahsa Amini. Ne abbiamo parlato con un docente di scienze politiche e diritto internazionale iraniano, che ha chiesto di restare anonimo. Come si spiegano queste manifestazioni? Sono il prodotto di un malessere generale che è presente tra quasi tutte le classi sociali in misure e modalità diverse. La grave crisi economica, il tentativo di controllare e modellare la sfera privata dei cittadini, la diffusa corruzione amministrativa pubblica, dalle raccomandazioni fino all’appropriazione indebita di centinaia di miliardi di toman (la moneta locale, ndr). Le insensate promesse non mantenute, la falsa empatia di personaggi chiave che non ha mai portato a nulla. Ma i manifestanti contestano il velo obbligatorio per le donne e rivendicano i loro diritti... Infatti questo costituisce una novità, neanche tanto inaspettata. Le donne sono più acculturate e accademicamente più preparate, e allo stesso tempo più discriminate e maltrattate. Non bastassero le limitazioni e le ingiustizie legalizzate, ci sono anche le pattuglie di Ershad (la polizia morale, ndr) che controllano il loro modo di vestire e arbitrariamente le fermano, le maltrattano, le multano e, in alcuni casi come quello di Mahsa Amini, finisce in tragedia. Anche se il loro comportamento è illegale, vengono palesemente coperti dal sistema giudiziario. Ecco quindi che le rivendicazioni delle donne sono diventate il simbolo di tutti i malesseri e delle ingiustizie sociali, politiche ed economiche. Partendo dalle donne si colpisce il centro di una teocrazia obsoleta che giustifica tutto in nome della religione e che di fatto si è allontanata anche dai veri valori islamici. Le università iraniane sfornano poco meno di un milione di laureati all’anno di cui decisamente più della metà sono donne. Come si può pensare di obbligarle forzatamente ad entrare in un modello prestabilito? Senza considerare che usare la forza bruta per convincere un individuo ad essere un buon musulmano non è contemplato nella religione islamica e tutti i riferimenti citati dalla classe oscurantista della nostra società sono semplicemente interpretazioni di contesti storici molto lontani. Da più parti viene detto che tutto è organizzato dagli “stranieri” o da iraniani pagati dagli stranieri... Una vecchia retorica che per un periodo ha funzionato. Il timore che succeda ciò che è successo in Iraq, Siria, Libia e Afghanistan certamente ci spaventava. Ma attribuire a esterni tutta questa pressione sociale e la discriminazione perpetrata dai tutti gli organi dell’establishment è davvero troppo. Certo sappiamo che in Iran sono gruppi in al soldo degli stranieri. Sappiamo che Israeliani e sauditi hanno una rete organizzata all’interno del paese. Basta pensare agli attentati che sono riusciti a fare. È vero che anche alcune organizzazioni di opposizione all’estero dispongono di elementi nel paese. Ma chiudere gli occhi sul disagio sociale, politico e economico che oggi viviamo e pensare che questi gruppi possano essere così influenti da promuovere le manifestazioni nella maggiore parte del paese è solo non volere accettare la realtà sul campo. I manifestanti sono giovani e giovanissimi: le fonti governative sostengono che l’80% degli arrestati ha meno di 25 anni. Se questa grande potenzialità ed energia viene chiusa in una gabbia bisogna aspettarsi prima o poi la sua esplosione. Adesso tutti i quotidiani scrivono che l’articolo 27 della costituzione riconosce il diritto alle proteste popolari e molti chiedono di creare una piattaforma per lo svolgimento di raduni di protesta. Vogliono istituzionalizzare anche le proteste. È davvero una cecità che colpisce la nostra classe politica. Nel nostro parlamento c’è un gruppo di yes men che impedisce lo sviluppo naturale del progresso sociale. Non si fidano dei loro stessi figli che hanno allevato nelle scuole per 8 ore al giorno, 9 mesi all’anno. Stanno uccidendo la creatività dei giovani mettendo a rischio il loro futuro, e con esso il futuro del paese. Dove invece questa creatività trova spazio, cresce e si sviluppa in modo eccezionale. Un esempio: c’è un panorama multiforme di creatività che ha permesso a 10 milioni di giovani iraniani di lavorare attraverso internet. Non è tutto è rosa e fiori ma è stupido pensare che tutto sia il male. È ancora più stupido pensare che per ciò che il nostro establishment ritiene un male venga chiusa l’intera rete senza neanche considerare che tra poco ci sarà la possibilità di connettersi a internet senza i server locali. Tutto si è tradotto in una mancanza di fiducia tra la popolazione e la classe dirigente che sembra insanabile, a meno che le cose non cambino profondamente. Ma in silenzio, senza promesse: un lavoro di risanamento onesto che ci porti fuori da questo pantano. I manifestanti mirano a un cambio di regime? Tale rivendicazione richiede l’unità di molte classi produttive del paese. Non bastano studenti, universitari, giornalisti e noi docenti. È una condizione che non si presenta oggi ma che onestamente non credo sia indispensabile. Se però tutto questo continua è inevitabile che a un certo punto il processo risulti irreversibile. Crimini di guerra in Etiopia, l’Onu proroga il mandato degli osservatori di Riccardo Noury Corriere della Sera, 9 ottobre 2022 Venerdì scorso il Consiglio delle Nazioni Unite sui diritti umani ha deciso di estendere il mandato della Commissione internazionale di esperti in materia di diritti umani in Etiopia, che potrà dunque continuare a monitorare e a documentare pubblicamente i crimini di diritto internazionale in corso nello stato africano, raccogliendone e conservandone le prove. Questa decisione dovrebbe riaccendere una piccola speranze nelle vittime delle violazioni dei diritti umani, che da tempo attendono verità, giustizia e riparazione. Tutto questo è tanto più vero per quanto riguarda il conflitto in corso ormai da quasi due anni, con rare pause negoziali, nel nord dell’Etiopia: un conflitto brutale, nel corso del quale le forze armate dell’Etiopia, affiancate da quelle dell’Eritrea, hanno commesso crimini di guerra nei confronti della popolazione civile del Tigray tra cui stupri sistematici. I gruppi armati tigrini, a loro volta, sono accusati di gravi crimini di diritto internazionale. Di fronte all’impossibilità, da parte della giustizia nazionale, di individuare e punire i responsabili di tali crimini, l’unica strada possibile è quella che coinvolga i meccanismi internazionali sui diritti umani e quelli giudiziari.