“Un garantismo a metà non esiste e dovrebbe valere per tutti i partiti” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 ottobre 2022 “Nordio guardasigilli? Lo vedo benissimo”. Il giurista Giovanni Fiandaca: “L’ex magistrato ha anche il merito di guardare a un sistema meno carcerocentrico”. “Anche all’interno delle forze di centro destra ci sono posizioni non riconducibili ad un esasperato populismo carcerocentrico, o ad un garantismo mutilato del tipo “garanzie solo per i colletti bianchi”, e processi sommari e forche invece per i delinquenti comuni provenienti dai ceti sociali più disagiati”. Professor Giovanni Fiandaca, emerito di diritto penale all’Università di Palermo e Garante dei diritti dei detenuti siciliani, il quadro generale (guerra, crisi energetica) potrebbe far scivolare in secondo piano la giustizia? Mi auguro e confido che così non avvenga. Anche perché l’attuazione delle riforme della giustizia rappresenta uno dei presupposti essenziali per ottenere le risorse previste nell’ambito del Pnrr. All’interno della maggioranza ci sono due forze politiche che si dichiarano ufficialmente garantiste nel processo e giustizialiste nell’esecuzione penale... La formula “garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione penale”, con la quale in particolare il responsabile giustizia di FdI ha sintetizzato la politica penale del suo partito, è palesemente contraddittoria e irrimediabilmente contrastante con il costituzionalismo penale. Non ci può essere un garantismo dimidiato, come non ci può essere un costituzionalismo monco. I principi e i valori costituzionali relativi alla giustizia penale vanno rispettati nel loro insieme e questo vale per ogni forza politica, a prescindere dalla sua collocazione a sinistra, al centro o a destra. Dovrebbero costituire appunto un patrimonio comune. E tra i principi costituzionali, aggiungerei tra i principi supremi della nostra Carta, rientra anche il finalismo rieducativo delle pene, come specificazione e concretizzazione nel settore penale dei principi di eguaglianza materiale e solidarietà sociale. Per cui, il Presidente della Repubblica e la Consulta, quali garanti della Costituzione, dovrebbero opporsi ad ogni eventuale tentazione di modificare l’art. 27 Cost. che ne stravolga il contenuto essenziale, come ha già rilevato Andrea Pugiotto sul Riformista. Un ministro della Giustizia come Nordio secondo lei sarebbe la figura adatta da mettere a Via Arenula con questo tipo di maggioranza ambivalente? Anche all’interno delle forze di centro destra ci sono per fortuna posizioni differenziate. Non riconducibili unitariamente ad un esasperato populismo carcerocentrico, o ad un garantismo mutilato del tipo “garanzie solo per i colletti bianchi, e processi sommari e forche invece per i delinquenti comuni provenienti dai ceti sociali più disagiati”. Per esempio, un orientamento di fondo molto apprezzabile, direi in ampia misura costituzionalmente orientato, è espresso da Nordio che non solo io vedrei bene come nuovo Guardasigilli. Ho condiviso il suo pensiero su punti cruciali dell’odierna questione giustizia così come riportato da Claudio Cerasa nel recente libro “Le catene della destra”. Anche Nordio sostiene infatti che lo spazio della pena carceraria va molto dirotto, limitandolo solo agli autori dei reati più gravi e che siano davvero pericolosi socialmente, che un sistema penitenziario come quello esistente è criminogeno e che la quantità dei reati andrebbe non poco sfoltita così da contrastare l’inflazione penalistica, che è una delle principali cause dei tempi lunghi dei processi. Nordio è anche d’accordo su una più accentuata separazione delle carriere e sull’esigenza di rivedere le funzioni e i poteri del pm. In proposito concordano non pochi giuristi di orientamento politico progressista. Così non si rischia uno scontro con la magistratura? Per scongiurarlo, occorrerebbe una buona volta evitare di affrontare questi argomenti tuttora controversi con atteggiamento preconcetto e aggressivo da scontro ideologico o da guerra di religione e bisognerebbe ragionare con mentalità più laica e con approccio più pragmatico attento, oltre che ai principi astratti, pure alla realtà empirica del sistema giudiziario. Comunque non vedrei male come nuova Guardasigilli neppure Giulia Bongiorno, che è stata in anni non vicini una mia brava allieva e che mi risulta essere portatrice di orientamenti non estremistici, ma forse è più punitivista di Nordio. Al convegno dell’Ucpi lei ha detto che Cartabia avrebbe potuto avere più attenzione normativa al carcere... Volevo dire che avrebbe forse potuto concepire qualche intervento legislativo diretto a sfoltire la popolazione carceraria, agevolando ad esempio l’uscita dal carcere di condannati a pene residue molto brevi, rispetto ai quali la pena detentiva finisce col risultare inutile o comunque più dannosa che utile. Ma questo rilievo non mi impedisce di riconoscere i meriti della ministra nell’avere innescato una importante svolta culturale nel nostro sistema penale con la revisione e il potenziamento delle pene extracarcerarie e l’apertura alla giustizia riparativa. Forse la sua unica eredità su questo tema è la nomina di Carlo Renoldi al Dap... Questa svolta politica culturale è anche testimoniata da questa nomina. Mi auguro che venga confermato e non sostituito dal nuovo governo perché egli interpreta con notevole competenza e con molto equilibrio il modello di una pena costituzionalmente orientata, senza cedere a compiacenti clemenzialismi e senza soggiacere alla tentazione di ingiustificati irrigidimenti repressivi, che oltretutto potrebbero oggi provocare reazioni negative nella stessa popolazione carceraria: Renoldi contempera saggiamente invece tutela della sicurezza collettiva e diritto alla rieducazione di ogni condannato, che è appunto quel modello di equilibrato contemperamento di esigenze costituzionali concorrenti che dovrebbe stare a cuore a tutte le forze politiche, come patrimonio valoriale comune. D’altra parte cercare di valorizzare, oltre a preoccuparsi della tutela della sicurezza, la finalità rieducativa non è una generosa concessione fatta ai delinquenti, ma tiene conto pur sempre dell’utilità generale, se è vero che una pena rieducativa serve a ridurre la recidiva e a prevenire di conseguenza il numero dei reati futuri. Il Terzo polo è l’unico garantista nel parlamento? Per come conosco gli orientamenti passati e presenti dei partiti politici escluderei che il garantismo e il giustizialismo siano orientamenti esclusivi di alcuni partiti. In realtà anche nell’ambito di un partito come il Pd persistono tuttora settori giustizialisti e carcerocentrici, mentre mi sembra troppo presto per potere appurare se la vera e più credibile casa del garantismo penale coincida di fatto, al di là di alcune pur significative affermazioni di principio, con il nuovo centro di Calenda e Renzi. La giustizia riparativa non è uno strumento deflattivo: ecco perché il decreto va cambiato di Gianluca Gambogi* Il Dubbio, 8 ottobre 2022 La giustizia riparativa è un tema complesso. L a (migliore) definizione è contenuta nella Direttiva 2012/29/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio del 25 ottobre 2012: “Per giustizia riparativa si intende qualsiasi procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale”. Il termine “autore del reato” si riferisce, come noto, ad una persona che è stata condannata per un reato. Tuttavia occorre ricordare che per la Direttiva sopra richiamata il termine si riferisce altresì ad una persona indagata o imputata prima dell’eventuale dichiarazione di responsabilità e della sua condanna e fa salva la presunzione di innocenza. La definizione è piuttosto chiara: devono essere garantiti, in egual modo, la libertà della vittima e quella del reo di partecipare, o meno, ad un percorso riparativo di fronte ad un terzo imparziale. La Direttiva è già stata attuata nel nostro ordinamento con interventi mirati nel 2017 e nel 2019. Un’applicazione più significativa deriva dalla ormai ben nota legge n. 134/ 2021 contenente la Delega al Governo per rendere più efficace il processo penale, nonché per introdurre una disciplina organica proprio della giustizia riparativa. In questi giorni si discute, non poco, dello schema di D. Lgs., il cui testo è disponibile da alcune settimane, recante l’attuazione della delega. La disposizione più controversa è senz’altro il nuovo art. 129- bis, comma 1. La norma stabilisce che in ogni stato e grado del procedimento l’Autorità Giudiziaria può disporre, anche d’ufficio, l’invio dell’imputato e della vittima al Centro per la giustizia riparativa per l’avvio di un adeguato programma. È vero che il potere del Giudice sopra richiamato è previsto tra i criteri direttivi stabiliti nella legge delega (art. 1, comma 18, lett. C) e quindi la previsione non sorprende più di tanto, ma è altresì vero che l’art. 129 rimane una norma infelice. Innanzi tutto perché non pare opportuno che l’iniziativa del Giudice sia priva di indicazioni dei criteri in forza dei quali consentirla, ovverosia proprio di quei criteri di accesso richiamati nella delega. D’altra parte come non rilevare che, ad esempio, l’art. 168- bis c. p. prevede la sospensione del procedimento penale con messa alla prova dell’imputato lasciando solo a quest’ultimo il potere di effettuare la richiesta. È singolare quindi che in un contesto molto più complesso e difficile rispetto alla scelta di chiedere o meno la messa alla prova si consenta al Giudice di disporre d’ufficio il percorso riparativo. A ciò si aggiunga che anche il comma 3 del novello art. 129- bis appare censurabile sotto vari profili. La lettura del suddetto comma fa pensare che il Giudice possa inviare vittima e reo, con apposita ordinanza, al percorso riparativo senza neppure avere l’obbligo di sentire la vittima del reato. Una carenza significativa che dovrà senz’altro essere colmata: la disposizione, così come scritta, certamente non coglie il senso della Direttiva europea e neppure della legge delega. È paradossale che si possa pensare di eludere il pensiero della vittima la quale ha tutto il diritto di rifiutare il percorso riparativo. La lacuna è ancora più grave si si pensa ad altra condizione che a livello europeo è indicata come necessaria per l’avvio del percorso riparativo e cioè il riconoscimento da parte dell’autore del reato (termine quest’ultimo che deve essere letto con la precisazione riportata in precedenza) dei fatti essenziali del caso. La condizione è posta a garanzia dell’imputato (o indagato) forse prima ancora della vittima poiché è evidente che laddove l’indagato non riconosca i fatti, perché si ritiene del tutto estraneo alla vicenda, il percorso è inammissibile per carenza di un presupposto necessario. Non v’è dubbio, infatti, che, ed è proprio qui che si manifesta la straordinaria complessità del tema, qualsiasi modello di giustizia riparativa non può mai scalfire le prerogative difensive dell’imputato. Quest’ultimo, alla luce delle contestazioni, dopo essersi consultato con il proprio difensore, valuterà liberamente (l’avverbio è d’obbligo) se partecipare o meno al programma e non può certo subire tale scelta. Viene quindi il ragionevole sospetto che determinate scelte siano state operate in funzione di un obiettivo diverso: quello di ridurre i tempi di trattazione del procedimento penale. Concepire la giustizia riparativa come strumento deflattivo sarebbe, tuttavia, un ulteriore grave errore del quale faremo volentieri a meno. Appare quindi inevitabile che lo schema di Decreto legislativo non possa essere condiviso e che, in alcune parti, debba essere rivisto. Peraltro sussistono anche ulteriori perplessità riguardanti la formazione dei cosiddetti “mediatori”. Non solo e non tanto perché mancano elementi sufficienti per comprendere appieno il ruolo degli avvocati, ma anche perché parrebbe sottratta l’intera formazione dei suddetti alle istituzioni forensi. Forse è un eccesso di preoccupazione ma, tutto sommato, giustificato considerando che, stando alla lettura dello stesso schema (art. 59), la formazione teorica riguarda nozioni di diritto penale, processuale- penale, penitenziario e minorile, criminologia, vittimologia e ulteriori materie (giuridiche) correlate. *Full Professor of law (Diritto Penale) in U. P. M. Università di Diritto Internazionale, Milano Un terzo dei detenuti stranieri in attesa del primo grado di giudizio di Daniele Iacopini redattoresociale.it, 8 ottobre 2022 Il Rapporto di Caritas e Fondazione Migrantes. A fronte dell’aumento generale del numero dei detenuti (+1,4), la presenza straniera è sostanzialmente diminuita (-1%). “Se le pene inflitte denotano una minore pericolosità sociale degli immigrati, gli stessi beneficiano in maniera più blanda delle misure alternative”. Religioni: in aumento i cittadini stranieri musulmani, calano i cristiani (che tuttavia si confermano la maggioranza assoluta). Analizzando i dati della realtà carceraria emerge che l’incidenza della componente straniera è decisamente in controtendenza: a fronte dell’aumento generale del numero dei detenuti (+1,4), infatti, la presenza straniera, a distanza di un anno, è sostanzialmente diminuita (-1%). Il dato è in linea con il trend dell’ultimo decennio, nel corso del quale le cifre dei detenuti di cittadinanza straniera si sono notevolmente contratte. Ad affermarlo è il rapporto sull’Immigrazione 2022 di Caritas e Fondazione Migrantes. Dall’Africa proviene più della metà dei detenuti stranieri (53,3%) e il Marocco è in assoluto la nazione straniera più rappresentata (19,6%). Seguono Romania (12,1%), Albania (10,8%), Tunisia (10,2%) e Nigeria (7,8%). Nelle sezioni femminili, su un totale di 722 recluse straniere, spiccano soprattutto le detenute provenienti da Romania (24,1%), Nigeria (17,7%) e Marocco (5,8%). Pur se con cifre ogni anno sempre più esigue, si segnala ancora la presenza di madri detenute con figli al seguito, la metà dei quali di cittadinanza straniera. Le statistiche relative alle tipologie di reato confermano il dato generale che vede i reati contro il patrimonio come la voce con il maggior numero di ristretti (8.510 stranieri imputati o condannati per tale fattispecie di reato, ovvero il 27% dei ristretti per il reato in questione e il 49,9% dei detenuti stranieri). Seguono i reati contro la persona (7.285) e quelli in materia di stupefacenti (5958). “I dati restituiscono ancora una volta la fotografia di un sistema in cui le persone migranti finiscono con più facilità nel sistema carcerario e ne escono meno agevolmente degli italiani - si afferma nel Rapporto -. Se le pene inflitte denotano una minore pericolosità sociale degli immigrati, gli stessi beneficiano in maniera più blanda delle misure alternative rispetto ai detenuti autoctoni. Agli stranieri, inoltre, viene applicata con maggiore rigore la custodia cautelare in carcere: ben il 32% degli stranieri detenuti è in attesa del primo grado di giudizio. Circostanza, questa, che finisce con il determinare una sovra-rappresentazione della popolazione carceraria straniera”. Le condizioni di marginalità in cui spesso versa la popolazione migrante ne determina una maggiore esposizione al rischio di essere vittima di reato. “Il catalogo dei reati di cui gli stranieri sono soggetti passivi è, purtroppo, assai vasto e spazia dai reati più efferati, a cominciare dalla tratta di esseri umani, alle molteplici ed ‘ordinarie’ forme di vittimizzazione che rimangono spesso sommerse - si afferma. In cima alla lista dei reati più odiosi vi sono certamente quelli che vedono come vittime i minori. In tal senso, gli stranieri hanno rappresentato il 4% delle vittime di reati sessuali segnalate e prese in carico per la prima volta nel 2021 dall’Ufficio di servizio sociale per i minorenni. Gli stranieri vittime di altre forme di sfruttamento e maltrattamento sono stati invece il 9% del totale dei minori segnalati e presi in carico nello stesso periodo”. Come anticipato nella scorsa edizione del Rapporto Caritas/Migrantes, l’analisi dei decessi nel primo anno della pandemia mostra un netto svantaggio a carico della popolazione di nazionalità straniera residente in Italia. “Durante la crisi sanitaria pandemica centinaia di migliaia di persone, tra cui tanti immigrati, si sono trovate escluse dalle tutele, dai programmi di mitigazione e di prevenzione (ad esempio, tamponi e vaccini), dai ristori e, probabilmente, anche dalle future politiche di rilancio - si evidenzia -. Alcuni ambiti di tutela, in particolare quelli relativi alle donne in gravidanza e ai neonati, sperimentano poi, indipendentemente dalla pandemia, un grave ritardo nei confronti della popolazione di cittadinanza italiana”. Secondo il Rapporto, le disuguaglianze nei profili sanitari degli immigrati devono essere considerate degli eventi “sentinella” rispetto all’efficacia delle politiche di integrazione e segnalano “l’urgenza di un miglioramento della capacità di presa in carico dei bisogni di salute dell’intera popolazione”. Conteggiando l’appartenenza religiosa anche dei minorenni di qualsiasi età, le stime indicano i cittadini stranieri musulmani residenti in Italia al 1° gennaio 2022 in 1,5 milioni, il 29,5% del totale dei cittadini stranieri, in aumento rispetto allo scorso anno (quando erano meno di 1,4 milioni, pari al 27,1%). Si tratta soprattutto di cittadini marocchini, albanesi, bangladeshi, pakistani, senegalesi, egiziani e tunisini. I cittadini stranieri cristiani residenti in Italia scendono, invece, al di sotto dei 2,8 milioni (a fronte dei quasi 2,9 milioni dello scorso anno), ma si confermano la maggioranza assoluta della presenza straniera residente in Italia per appartenenza religiosa, seppure in calo dal 56,2% al 53% del totale. “Nell’ultimo anno all’interno del collettivo cristiano ha perso numerosità soprattutto la componente ortodossa, con meno di 1,5 milioni di migranti residenti in Italia al 1° gennaio 2022, pari al 28,9% del totale degli stranieri - si legge nel Rapporto -. Si tratta di cittadini in larga maggioranza originari della Romania. I cittadini stranieri di religione cattolica rappresentano la seconda confessione quantitativamente più rilevante tra gli stranieri cristiani residenti in Italia e al 1° gennaio 2022 si stimano in 892 mila (17,2% dei cittadini stranieri sul territorio nazionale), contro i 866 mila di un anno fa. Si tratta per lo più di cittadini provenienti da Filippine, Albania, Polonia, Perù ed Ecuador. Un interesse particolare - in questo momento storico segnato dall’invasione dell’Ucraina da parte della Russia - è naturalmente da porre sul collettivo ucraino, per un insieme di motivi di contingenza migratoria”. Ministro della Giustizia, i lettori del Dubbio scelgono Francesco Paolo Sisto di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 8 ottobre 2022 L’attuale sottosegretario alla Giustizia è il preferito dai lettori del nostro quotidiano. Ma il forzista è in lizza anche per la vicepresidenza del Csm, per la quale il Pd sta pensando anche a Cartabia. Il miglior ministro della Giustizia per i lettori del Dubbio? Francesco Paolo Sisto. È quanto emerge dal sondaggio, senza alcun valore scientifico ma indicativo di un sentiment, lanciato l’altro giorno sul sito del nostro giornale. L’attuale sottosegretario alla Giustizia, avvocato penalista di Bari e appena rieletto in Parlamento nelle liste di Forza Italia, con quasi il 50 percento delle preferenze ha stracciato tutti gli altri nomi che erano stati proposti. Sisto, in particolare, ha preso il doppio delle preferenze di Carlo Nordio ed il quadruplo di Giulia Bongiorno, i due candidati più gettonati per il ruolo di Guardasigilli, il primo in quota Fratelli d’Italia ed il secondo Lega. Molto staccati l’ex presidente della Corte costituzionale Sabino Cassese, il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, la capogruppo azzurra a Palazzo Madama Anna Maria Bernini. Gli ostacoli sulla strada di Sisto - Se il responso dei lettori è chiaro, a sbarrare la strada a Sisto potrebbe essere il diktat di Giorgia Meloni che, in più occasioni, ha affermato di non volere esponenti del governo Draghi nel suo esecutivo. Nei confronti di Sisto, poi, ci sarebbe agli occhi del premier in pectore un “handicap”: quello di aver convintamente sposato le riforme della giustizia, penale, civile, tributaria e dell’ordinamento giudiziario, volute dalla Guardasigilli uscente Marta Cartabia. Si tratta di riforme che sono state osteggiate in tutte le sedi dai parlamentari di Fratelli d’Italia che hanno sempre dichiarato di volerle modificare appena fosse stato possibile. In altre parole, Sisto ministro della Giustizia si troverebbe a dover mettere le mani su provvedimenti che egli stesso ha voluto. L’ipotesi “esterno” nei pensieri di Meloni - A parte ciò, comunque, il sondaggio, sia pure come detto senza alcun valore scientifico, ha confermato quello che i maggiori analisti politici vanno ripetendo a proposito del fatto che il prossimo inquilino di via Arenula molto difficilmente sarà scelto fra il duo Nordio-Bongiorno. Come anticipato dal Dubbio in questi giorni, infatti, è quasi certo che la scelta ricadrà su un soggetto verosimilmente di area forzista o esterno ai partiti. Nel primo caso, oltre a Sisto, sono in corsa in queste ore Pierantonio Zanettin ed Elisabetta Alberti Casellati. A loro si sono aggiunti Antonio Leone, ex vice presidente della Camera ed ex componente del Csm, e Nicolò Zanon, attuale numero due della Consulta ed anche egli ex componente laico di Palazzo dei Marescialli. Sia Sisto sia Zanettin e Casellati sarebbero anche in corsa per la vicepresidenza dell’organo di autogoverno delle toghe che, dopo decenni, potrebbe essere appannaggio di un laico non legato al Pd. Per sparigliare le carte, i dem sono tentati dal riproporre la candidatura di Massimo Luciani, presidente dei costituzionalisti, e già capo della riforma dell’ordinamento giudiziario voluta dall’attuale Guardasigilli. Ma l’ipotesi maggiormente suggestiva dalle parti del Nazareno è quella di candidare proprio la ministra Cartabia. A quel punto, anche grazie alla stima nei suoi confronti del capo dello Stato Sergio Mattarella, non ci sarebbe spazio per nessun altro. “Giustizia” senza diritto? L’asilo nelle aule dei tribunali di Francesco Tripodi associazionedeicostituzionalisti.it, 8 ottobre 2022 Mi occupo a tempo pieno da circa quattro mesi (quale magistrato in applicazione extra-distrettuale) di protezione internazionale, quindi, di asilo. La Lettera di questo mese, con l’invito a brevi contributi, mi spinge ad intervenire, muovendo dall’esperienza che sto vivendo e, devo subito dirlo, dal disagio profondo avvertito dopo le prime udienze di trattazione dei ricorsi per quella che definirei la mancanza “del diritto” nella decisione. Cerco di spiegarmi meglio. Non ho avuto difficoltà a studiare le poche regole sostanziali (d.lgs. n. 251/2007) e procedurali (d.lgs. n. 25/2008), più volte oggetto di interventi del legislatore, nel fluttuare delle maggioranze politiche e degli umori del Paese. Passo il mio tempo invece a “studiare” contesti tragicamente complessi dell’area medio-orientale (fino al Pakistan ed al Bangladesh) e dell’Africa maghrebina e subsahariana, dai quali - tra siccità, inondazioni, violenze etniche, politiche e religiose - milioni di persone “avrebbero” diritto, ove liberi di emigrare, a farlo, arrivando in Europa senza pagare nulla alle mafie turche, egiziane e libiche, senza rischiare di subire sevizie e/o affogare. In realtà, l’asilo non ha ontologicamente una dimensione “di massa” e non è mai stato volto a risolvere le iniquità del mondo, ha invece una nitida dimensione individuale e politica. Molti si chiedono se l’art. 10, terzo comma, della Costituzione nella sua originalità resti esempio di una norma “dimenticata”, se non “tradita”, e quali spazi possa ancora avere nel disegno più ampio della protezione internazionale, già in effetti così “affollato”. Io rovescerei i termini della questione, dovendosi fare i conti ormai con una “iperattuazione” distorta del diritto di asilo. Non riuscendo a fare scelte coraggiose su visti e flussi, né a bloccare i traffici, trattiamo con le logiche dell’asilo fenomeni più ampi e complessi, allargando le strette maglie della Convenzione di Ginevra. Accordiamo quindi, questa è la sostanza delle cose, i “nostri” diritti, legati al privilegio della cittadinanza, solo a coloro che rischiano la vita con un viaggio disperato per mare o per terra (maschi e giovanissimi al 90 %, pochissime donne ed adulti), sperando poi di vincere la lotteria, ché di questo si tratta, del giudizio di protezione nei Tribunali. La parola lotteria, detta da un giudice, potrebbe scandalizzare. Cercherò di spiegare perché essa è per larga parte realistica. I poli del giudizio sono due: la credibilità del richiedente asilo e la situazione del Paese d’origine. La conoscenza del “fatto”, che è l’essenza del giudizio, è però precaria su entrambi i fronti. Io leggo e rileggo l’art. 3 comma 5, d.lgs. 251/07, traendone sempre un senso di sconforto: “Qualora taluni elementi delle dichiarazioni del richiedente la protezione internazionale non siano suffragati da prove, essi sono considerati veritieri se l’autorità competente a decidere sulla domanda ritiene che…”. Le lettere da a) ad e) che seguono sono però quasi inutili da leggere, un campionario di concetti evanescenti, come il “ragionevole sforzo per circostanziare la domanda” o narrazioni “coerenti e plausibili” e via dicendo; la lettera e), che vorrebbe essere norma di chiusura, ne rappresenta la sintesi. Via libera se “dai riscontri effettuati il richiedente è, in generale, attendibile”. Anche il linguaggio appare approssimativo e per quanto si possano affinare le tecniche di esame, sembra delegare al giudice quasi un atto di fede. I “riscontri” infatti sono quasi sempre notizie che ci procuriamo da Internet, aggregati in reports più o meno qualificati preparati dall’Agenzia Europea per l’asilo (EASO, oggi EUAA) sulle aree di provenienza del richiedente asilo, ma non siamo in grado di apprezzare, se non in pochi casi, il nesso reale con la storia esposta dal richiedente. Un processo così è in grado di “accertare” assai poco ed è arduo anche definirlo tale. La cosa più sorprendente è che la Corte di Cassazione, reagendo all’unicità del grado di giudizio, introdotta dal 2017, ha allargato le maglie del suo controllo, accentuando l’assoluta anomia del settore, assecondando la massima espansione di astratte affermazioni dei diritti fondamentali e l’obbligo (quasi) del giudice di non fare troppe domande, colmando, come si può, ogni lacuna informativa. Qualche esempio: basta a giustificare la protezione “il solo rischio di essere sottoposto a regime di detenzione in carcere (per l’attività illegale di estrazione di oro)” perché il giudice non ha svolto, “in osservanza del dovere di cooperazione istruttoria”, alcuna “indagine specifica sullo stato del sistema giudiziario e carcerario del Paese di provenienza” (Cass. n. 24630/2022, ricorrente del Ghana, definito invece Paese “sicuro” dal DM 4 ottobre 2019). Ancora: “l’allegazione di vulnerabilità del richiedente protezione umanitaria che si fonda sulla percezione di discriminazione sociale e relazionale dovuta alla disabilità che per il rilevato rango dei diritti della persona lesi, integra una specifica condizione di vulnerabilità (Cass. n. 13400/2022, Tunisia, altro Paese in astratto “sicuro”). Ora, davvero qualcuno può pensare che lo stato delle carceri del Ghana o di qualunque altro Paese africano sia in regola con la Carta di Nizza o la CEDU? E può mai costituire prova la mera “percezione” del tunisino che si dice discriminato per la sua disabilità? Non sarebbe a quel punto più semplice e onesto dare a tutti i disabili un visto in ambasciata, invece di farli salire su un barcone? Un esercito di avvocati prospera su questo mare di ricorsi, spesso seriali. Il risultato del caso singolo dipenderà parecchio dal “fascino” della questione (violenza domestica, terrorismo, omosessualità) e dall’impatto “sensibile” del racconto, più che dalla prova effettiva di qualcosa che lo ha “costretto” ad espatriare (povertà ed insicurezza diffuse a parte). L’integrazione sociale e lavorativa, letta attraverso il prisma dell’art. 8 CEDU rende dal 2020 i casi degli immigrati “di lungo corso” meno indeterminati, ma anche in questo caso il giudice è arbitro di tutto, senza regole o quasi. Che cosa è accaduto? La protezione internazionale, io penso, sembra divenuta una sorta di diritto “ideologico”, pallida derivazione del vero diritto di asilo, sistema costruito per placare i sensi di colpa di “noi”, giuristi democratici ed europei, sostenuti da associazioni militanti e riviste giuridiche “monodirezionali”. Se sono in gioco i diritti fondamentali, si dice, la politica resti fuori, è la comune umanità non comprimibile da una linea di confine la chiave di lettura di un mondo fraterno e solidale, al quale vorremmo tutti appartenere. L’illusione della giustizia affidata al giudice “senza” una vera mediazione della legge (percepita come astratta e inadeguata) è antica come l’uomo ed il suo fascino si presenta oggi in termini nuovi nelle società più ricche ed avanzate, che vedono il giudice “guardiano” di conflitti irrisolti, come quello cruciale che ruota attorno alle migrazioni. Scelta miope, pericolosa, diseguale. Intervenendo nel dibattito che impegnò la cultura giuridica italiana a proposito del libro di Lopez De Onate “La certezza del diritto”, del 1942, Calamandrei (in contrasto con il richiamo all’umanità ed unicità del giudizio di Carnelutti) scriveva a difesa della funzione della legge che la giustizia del caso singolo “si riduce ad essere inquietudine ed incertezza” ed elevata a sistema “è negazione insieme di ogni diritto e di ogni libertà”. Dal paradiso terrestre della tutela multilivello dei diritti, di cui son stati fatti guardiani i giudici, ricordiamolo, restano fuori in tanti, in troppi, ed invece è a loro che il diritto dovrebbe soprattutto pensare. Anche a costo di sembrare, a qualcuno, cattivo. Progetti di recupero del disagio giovanile: accordo tra ministeri Interno, Giustizia e Cultura interno.gov.it, 8 ottobre 2022 È stato definito un accordo di collaborazione tra i ministeri dell’Interno, della Giustizia e della Cultura in tema di utilizzo di beni di proprietà del Fondo edifici di culto (Fec) nell’ambito di progetti per il recupero e il sostegno nei confronti di giovani in situazioni di disagio, provenienti da circuiti penali minorili. L’accordo è stato sottoscritto dal capo dipartimento per le Libertà civili e l’Immigrazione, dal capo dipartimento per la Giustizia minorile e di Comunità e dal segretario generale del ministero della Cultura. Il documento prevede specifiche forme di collaborazione per la promozione di azioni di tutela nei confronti dei giovani (dai 14 ai 25 anni) e di prevenzione del disagio minorile, attraverso la realizzazione di percorsi di formazione e fruizione culturale. Il Fondo edifici di culto possiede e gestisce uno straordinario patrimonio storico-artistico, disseminato nel territorio italiano: l’idea di forza dell’Accordo è quella di individuare, all’interno di questo patrimonio, specifici beni e siti di interesse culturale da destinare ad attività di formazione dei giovani in carico ai percorsi di giustizia minorile, con l’eventuale coinvolgimento anche del mondo delle associazioni e del volontariato. Insieme agli educatori, le professionalità con adeguate competenze tecniche nel campo dell’arte e della divulgazione saranno fornite dal ministero della Cultura. L’accordo ha una durata triennale e prenderà avvio con due progetti pilota a Roma, presso la chiesa di Sant’Ignazio di Loyola in Campo Marzio, e a Napoli, nel complesso monumentale di Santa Chiara: entrambi i siti, di proprietà del Fec, sono peraltro oggetto di importanti finanziamenti nell’ambito del Piano nazionale di ripresa e resilienza. Senza capi o come “piccoli boss”, la mappa delle baby gang in Italia di Alessandra Ziniti La Repubblica, 8 ottobre 2022 Dove sono e i modelli che le ispirano: la prima ricostruzione del fenomeno. I componenti sono in prevalenza italiani, si accaniscono contro i coetanei. “È il disagio sociale il collante, vanno in cerca di un’identità”. A dispetto del nome altisonante la gang del kalashnikov di Trieste non spara e non ha un’organizzazione strutturata che organizza atti criminali premeditati. Violenta sì, composta da una decina di ragazzi tra i 15 e i 17 anni, niente capo nè compiti predefiniti. Come la gran parte delle bande giovanili che negli ultimi cinque anni sono decisamente aumentate soprattutto al centro nord. E che - sorpresa - sono composte prevalentemente da italiani e non da stranieri, né di prima né di seconda generazione. Più che il disagio economico è il disagio sociale, la mancata inclusione nel contesto in cui si vive, l’assenza di modelli di riferimento in seno alla famiglia a spingere gli adolescenti verso il gruppo. Che pratica azioni violente, spesso gratuite, rilanciandole sui social network proprio per rafforzare l’identità di gruppo e generare riconoscimento ed emulazione. Alla ricerca dell’identità nel gruppo - Identità potrebbe appunto essere la parola chiave per leggere, in modo più analitico il fenomeno delle bande giovanili che resta di difficile definizione anche per chi lo studia. Come i ricercatori di Transcrime, centro di ricerca sulla criminalità transnazionaledelle università Cattolica di Milano, Alma Mater di Bologna e di Perugia, che insieme alla Direzione centrale della Polizia e al Dipartimento di giustizia minorile hanno dato vita alla prima mappatura delle gang in Italia evidenziandone caratteristiche e radicamento nelle diverse aree del Paese. Identità, dicevamo, perché - spiega Gemma Tuccillo, capo dipartimento per la giustizia minorile - “il gruppo gioca un ruolo in adolescenza per la costruzione dell’identità e nel processo di emancipazione rispetto al mondo adulto. Oggi si assiste a reati commessi da gruppi di adolescenti, appartenenti a classi sociali diverse, spesso non organizzati ed aggregati da contingenze occasionali, nei quali si evidenzia maggiormente il disagio sociale, piuttosto che una volontà criminogena”. La maggior parte dei reati loro attribuiti, infatti, sono ai danni di coetanei: risse, lesioni, aggressioni, bullismo, atti di vandalismo, disturbo della quiete pubblica. I quattro tipi di gang - Ecco l’identikit delle gang giovanili in Italia disegnato dalla ricerca che, sulla scorta dei dati della banca dati in cui confluisce l’attività di Polizia e carabinieri, propone quattro modelli definendone il radicamento sul territorio. Il più diffuso, in tutte le macroaree del Paese, è appunto il gruppo non strutturato, composto in prevalenza da ragazzi italiani che commettono atti di violenza di questo genere ma quasi mai traffico di stupefacenti, estorsioni, rapine in casa o in locali. Reati più gravi che invece caratterizzano la seconda tipologia di gang, quella che si ispira o ha legami con organizzazioni criminali ed è più presente nelle regioni del sud. Anche in questo caso i componenti sono quasi tutti italiani. Diversa invece la composizione dei gruppi, più diffusi al centro nord, soprattutto in Lombardia, Piemonte, Liguria, Emilia Romagna, che si ispirano a gang estere e che vedono insieme giovani stranieri di prima e seconda generazione non integrati nel tessuto sociale. L’ultima tipologia, diffusa nelle aree urbane, è quella dei gruppi che invece hanno una struttura definita e che compiono reati gravi pur non avendo legami con la criminalità. Nessun riferimento legislativo ad hoc - Alla fluidità del fenomeno corrisponde anche l’assenza di un riferimento legislativo ad hoc: quasi mai i giudici contestano l’associazione per delinquere e alla maggior parte dei ragazzi viene applicata la messa in prova. “ Il nostro compito - dice il prefetto Vittorio Rizzi, che guida la direzione centrale anticrimine - è quello di intercettare i fenomeni di disagio sul nascere, intervenire per evitare un’escalation della violenza e, soprattutto, perché le vittime abbiano fiducia nelle forze di polizia e chiedano subito aiuto”. E tuttavia tutti gli attori concordano nell’affermare che il modello repressivo, l’unico al momento in campo in assenza di politiche dedicate ai giovani, è del tutto inadeguato. Don Burgio: “Baby Gang e Simba cresciuti tra comunità e carcere, con loro lo Stato ha fallito” di Zita Dazzi La Repubblica, 8 ottobre 2022 Intervista al cappellano del penitenziario minorile Beccaria: “Io li conosco molto bene e so da dove viene la loro rabbia, andavano a scuola in ciabatte e venivano derisi e discriminati”. Don Claudio Burgio, cappellano del carcere minorile Beccaria di Milano, lei conosce molto bene due degli indagati, Baby Gang e Simba. Il primo l’hanno arrestato nella sua comunità ieri all’alba... “Li conosco entrambi molto bene. In questo momento bisogna solo attendere che vengano accertati i fatti che vengono contestati. Già in passato Zaccaria, (Baby Gang, ndr) dopo 20 giorni è stato scarcerato perché è risultato non colpevole. Quindi per il momento posso solo esprimere il mio dispiacere, dato che l’arresto interrompe per l’ennesima volta un percorso”. Quale percorso? “Questi ragazzi vengono da un’infanzia traumatica, che li ha portati a vivere in contesti di fortissimo disagio, di povertà educativa oltre che economica. Zaccaria è stato più volte allontanato dai suoi affetti. A 8 anni era già in comunità. Ne ha girate dieci prima di finire al Beccaria a 15 anni, dove l’ho conosciuto io”. Lo sta giustificando? “No, lungi da me l’idea. Aspettiamo che la giustizia faccia il suo lavoro. Ma nella storia di questi due ragazzi l’intervento dello Stato e dei servizi sociali non c’è stato, e se c’è stato non ha sortito gli effetti attesi”. Non sono stati seguiti quando erano piccoli? “Zaccaria e Mohamed (Simba, ndr) raccontano la rabbia che è esplosa nelle loro canzoni, c’è il tema spietato della loro infanzia e di tutto quel che secondo loro hanno subito”. Cioè? “Andavano a scuola in ciabatte e venivano derisi, si sono sentiti sempre discriminati. Nel confronto con i coetanei a scuola è emersa la differenza sociale. E da lì sono arrivate le offese. Questi ricordi in carcere sono sedimentati e hanno prodotto una reazione rabbiosa contro il mondo degli adulti e delle istituzioni, avvertito come mondo che li giudica, li esclude”. Ma loro si fidano invece di lei, che comunque è un adulto e fa anche parte di un’istituzione? “Ho avuto l’opportunità di avere la loro fiducia perché li ho ascoltati, partendo dalle loro canzoni perché l’approccio tipico dei Servizi sociali è troppo cattedratico, quindi loro non si sono mai affidati all’autorità dei servizi. L’unica via d’accesso ai loro pensieri è stata la loro musica, da quando hanno cominciato a vivere in comunità, mi ha dato accesso alla loro vita interiore. Per questo ho un buon rapporto con loro”. Sono però accusati di fatti gravi, fra cui una sparatoria... “Non si riesce a evitare una serie di vissuti loro che producono scontri con gang rivali, dettati magari dall’impulsività del momento, dato che certe modalità fanno parte del loro modo molto aggressivo di rapportarsi con altri. Comunque, stanno facendo un loro percorso, sembrano a volte maturare”. Quale futuro li aspetta? “Finire in carcere per vecchie denunce rallenterà il loro percorso di cambiamento. Non conosco i capi di imputazione, ma se una rissa diventa motivo di carcerazione a San Vittore, penso che le conseguenze si vedranno per altri anni a seguire. Loro lo vivono come un accanimento delle istituzioni, io continuerò ad accompagnarli nel loro cammino di rinascita, senza aspettarmi cambiamenti improvvisi e redenzioni miracolose”. Perché lei nutre fiducia che possano cambiare, dopo tanti arresti e carcerazioni? “Chi li conosce per i reati, non li conosce da vicino per le cose belle, per i gesti generosi di cui sono capaci, come i soldi usati per aiutare tanti loro coetanei in difficoltà. Hanno valori di solidarietà dentro, anche se emergono a volte fatti che non depongono a loro favore. Lui pensava di essere autonomo e indipendente, anche perché ha soldi che guadagna con la sua musica, ora tutto si ferma”. Ma quando sono venuti ad arrestarlo che cosa ha pensato? “Sono rimasto molto deluso e affranto per questo ennesimo arresto. Simba si sta curando perché ha ancora postumi per un accoltellamento alla gamba di cui era rimasto vittima. Era stato appena operato, stava ricominciando a riprendersi. Penso che il carcere non sia l’ideale per non perdere la gamba destra, era uscito proprio perché le condizioni di salute sono molto precarie. Ed essendo da me agli arresti domiciliari stava rielaborando un periodo difficile”. Il carcere non fa bene a questi ragazzi? “La comunità sempre preferibile, anche qui ci sono mille controlli di giorno e notte. Non capisco la necessità di ricorrere al carcere, un posto dove solo c’è violenza che produce violenza, dove la pena non è affatto rieducativa. In più a San Vittore non è garantito nemmeno il diritto all’igiene. Figuriamoci se può essere un luogo di rieducazione. Ci sono stati quattro suicidi di ragazzi in quatto mesi”. Andrà a trovarli in carcere? “Se si potrà, certo. Cercherò di aiutarli a elaborare ancora, io non giustifico i loro comportamenti né legittimo gli errori che hanno fatto, ma devo avere uno sguardo diverso da quello del giudice. Io guardo al recupero di questi ragazzi, facendoli uscire da questa logica un po’ predatoria. Con me sono stati sempre bravissimi, mi hanno raccontato come vivono. Le loro storie raccontano di un’assenza delle loro famiglie e anche dello Stato. Li colpevolizziamo per i loro reati, ma andiamo anche alle radici e chiediamoci dove era lo Stato”. Vengono da quartieri difficili. E’ quello il problema? “Anche oggi in posti come San Siro ci sono interi gruppi di bambini e ragazzi di seconda e di terza generazione fondamentalmente soli, bambini piccoli a spasso nel quartiere che vedono lo spaccio, gli accoltellamenti, il sangue, bambini che raccattano i vestiti nell’immondizia. Poi ci domanderemo un giorno perché altri ragazzini commetteranno altri reati”. Sì all’uso di intercettazioni in altro procedimento se il reato che emerge si fonda sull’identità storica dei fatti di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 8 ottobre 2022 L’associazione in corruzione tra privati può ben emergere dall’attività degli inquirenti tesa ad accertare delitti contro la Pa. Il divieto di utilizzazione delle intercettazioni investigative in altro procedimento non opera se il reato diverso accertato tramite le captazioni informatiche rientra nelle deroghe previste dallo stesso Codice di procedura penale. I criteri sono la connessione qualificata dei reati in base ai fatti storico-naturalistici per cui sono state inizialmentge autorizzate le intercettazioni. Quindi, il legame tra il reato inizialmente indagato e quello che emerge dalle captazioni deve essere un collegamento non puramente di risultato investigativo. Cioè l’intercettazione è utilizzabile solo se vi è una connessione “forte” fondata sulla coincidenza dei fatti storico-naturalistici indagati sia per la contestazione del primo reato per cui sono state autorizzate le intercettazioni sia per la contestazione del reato delineatosi successivamente in base alla medesima investigazione. Sono però utilizzabili in altro procedimento le intercettazioni se da esse emergono reati per i quali l’intercettazione può essere disposta. La Cassazione nel caso concreto ha respinto - con la sentenza n. 37911/2022 - il ricorso del privato che lamentava la nuova contestazione di associazione a delinquere ai fini di realizzare il reato di corruzione tra privati basata sul contenuto delle captazioni autorizzate per accertare fatti di corruzione di pubblici ufficiali. Il caso - Era in realtà emerso che piuttosto che puntare alla corruzione di pubblici ufficiali le condotte “intercettate” avevano fatto emergere l’esistenza di un patto tra imprenditori finalizzato a far ottenere appalti pubblici a imprese gravitanti nell’orbita di una nota società. Divieto e deroghe - Secondo l’articolo 270 del Codice di procedura penale i risultati delle intercettazioni non possono di regola essere utilizzati in procedimenti diversi da quelli nei quali sono stati disposti, “salvo” che risultino rilevanti e indispensabili per l’accertamento di delitti per i quali è obbligatorio l’arresto in flagranza e dei reati di cui all’articolo 266, comma 1, dello stesso Codice. E - aggiunge la norma - che in materia di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile l’utilizzabilità dei risultati va ammessa in altro procedimento se da essi emergono reati che destano particolare allarme sociale come quelli contro la pubblica amministrazione. E comunque la captazione effettuata deve palesarsi come indispensabile al raggiungimento del fine della loro repressione. Il ricorso rigettato - La Cassazione premette che la decisione del tribunale sulla riutilizzabilità del materiale intercettato è questione di rito per cui si palesa irrilevante in sede di legittimità l’eventuale lacunosa motivazione sulla scelta. Ma dal suo esame, in termini di violazione di legge, la Cassazione non rileva un’errata estensione dei risultati investigativi al fine della contestazione del diverso delitto emerso. Infatti, l’associazione a delinquere al fine di realizzare il reato di corruzione tra privati non fuoriesce dal perimetro dei fatti inizialmente indagati che puntavano ad accertare la corruzione di soggetti pubblici. Conclude la Cassazione in tema di legge applicabile rationae temporis che la vicenda rientra nelle regole della riforma in vigore dal 2020 applicabile alle nuove iscrizioni di reato. E nel fare tale precisazione sconfessa il tribunale che riteneva l’inizale contestazione solo oggetto di aggiornamento mentre si trattava di vera e nuova iscrizione di reato. Lecce. “Grave la situazione carceraria”. Ferma denuncia degli avvocati lecceprima.it, 8 ottobre 2022 Animato dibattito oggi nel corso del focus dedicato ai penitenziari, nell’ambito del Congresso nazionale forense in svolgimento a Lecce. Ribadita la necessità di condizioni più umane e meno speculazioni politiche. “Per una detenzione più umana: dalla pena alla rieducazione, dalla risocializzazione al lavoro”. Era questo il tema del focus pomeridiano nell’ambito del Congresso forense, in svolgimento in questi giorni a Lecce. A moderare il dibattito, Giovanni Negri, giornalista de Il Sole 24 Ore. Vi hanno partecipato: Emilia Rossi, componente del Collegio del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, Maria Brucale, avvocato del Libero Foro, Giovanna Ollà, vicepresidente della Scuola superiore dell’avvocatura, Vinicio Nardo, componente dell’Ufficio di coordinamento dell’organismo congressuale forense e Giulia Merlo, giornalista del quotidiano Domani. Nel confronto è stato posto l’accento sulla grave realtà del sistema penitenziario italiano e sulla necessità di investire per un cambio di paradigma. Obiettivo: avere una detenzione più umana, dalla pena alla rieducazione, dalla risocializzazione al lavoro. Contro le speculazioni della politica - Per Emilia Rossi il quadro attuale è preoccupante. “Quello della detenzione, dell’esecuzione penale, è un tema che non interessa quasi a nessuno, in particolare alla politica, salvo quando diventa occasione per raccogliere consenso elettorale e quindi è fonte di grande strumentalità politica”, ha rimarcato. “Per questo ringrazio la presidente Maria Masi e il Consiglio nazionale forense che hanno voluto questa tavola rotonda e questo momento di riflessione”. “Tra Cnf e Garante nazionale - ha aggiunto - c’è un dialogo stretto, iniziato già nel 2017 con il primo protocollo d’intesa, che la presidente Masi quest’anno ha nuovamente sottoscritto, potenziandolo, amplificandolo, prevedendo delle forme di partecipazione degli avvocati al lavoro del garante nazionale, alla formazione e allo sviluppo di una cultura, giuridica e sociale sull’esecuzione penale in cui gli avvocati siano protagonisti, con tavoli di studio, di formazione, centri di raccolta delle segnalazioni che provengono dal mondo dell’esecuzione penale e prevedendo altresì il coinvolgimento degli ordini forensi nel momento della individuazione dei garanti comunali e provinciali. Si tratta di un potenziamento notevole di un’intesa all’interno della quale si iscrive questo utile momento di confronto”, ha concluso, nel suo intervento. Giovanna Ollà, sull’argomento, ha ulteriormente sottolineato: “Il tema del carcere, dell’esecuzione penitenziaria, del reato ancora prima, della privazione della libertà personale è strumentalizzato, politico nell’accezione peggiore, propagandistico. Su questo l’Avvocatura deve essere unita nel segnalare i rischi della strumentalizzazione politica di alcuni temi significativi come quelli che attengono al riconoscimento della tutela del diritto. Attenzione alle ricadute di un certo tipo di approccio a questi temi che non è affatto giuridico e che può portare anche a pericolose incursioni”. “I diritti non hanno nome - ha proseguito -, sono diritti anche i più impopolari come quelli dei detenuti. Alla risposta dell’opinione pubblica si deve rimanere impermeabili”. “Abbiamo visto episodi dove, a fronte della concessione di permessi premio, sono stati inviati ispettori ministeriali a verificare la correttezza del percorso autorizzativo”, ha proseguito. “Allora, attenzione perché questo va oltre la risposta della vittima: è chiaro che dobbiamo comprendere una risposta che vuole vendetta, la risposta dei familiari congiunti, ma attenzione che questo non diventi lo slogan di uno stato di diritto. L’Avvocatura deve essere compatta. Tutti, Congresso forense, Cnf, Consigli dell’Ordine e avvocati dobbiamo riscoprire quella cultura della legalità oggetto del protocollo e quindi garantire anche con i cittadini iniziative formative e informative”. “Il Cnf - ha aggiunto - può e deve dare un valore simbolico nell’esserci e un impegno sociale per garantire un messaggio. Bene la riforma Cartabia perché, se non altro, dal punto di vista del valore simbolico, porta la pena al di fuori delle carceri, lo fa con indicazioni importanti sulle pene sostitutive, con il comparto autonomo della giustizia riparativa. Ecco, visto che il tema della risposta sociale e politica è quello di dare ragione alle esigenze umane, comprensibili delle vittime, alloro cosa ripara le vittime? È un percorso dell’anima ma da là dobbiamo partire - ha concluso - perché il tema è prima di tutto culturale”. Parti controverse nella riforma del penale - Sulla stessa linea Vinicio Nardo, che è anche presidente del Coa di Milano: “La legislatura - ha esordito - è iniziata male, ma finisce meglio. Lo abbiamo scritto in una lettera alla politica prima delle elezioni, nel decreto legislativo di riforma del penale ci sono parti controverse. Parliamo di carcere e sul carcere possiamo dire bene della riforma anche perché durante il ministero della professoressa Cartabia abbiamo avuto anche la nomina di un capo del Dap che finalmente non è stato scelto tra i ranghi della direzione antimafia, segno di una considerazione diversa del carcere: non come un luogo di lotta alla criminalità ma di recupero delle persone”. “Abbiamo avuto la commissione Ruotolo che si è occupata di problemi per il carcere che riguardano l’innovazione penitenziaria e la salute”, ha proseguito, nel suo intervento. “Il carcere è un luogo opaco e la Commissione per i garanti si scontra con questo muro di opacità, muro di opacità che blocca da sempre gli avvocati. Il messaggio che deve passare in questo congresso e che deve essere uno stimolo agli avvocati per fare qualcosa di più è che non esiste solo il processo di cognizione. Inserire nel codice penale le pene sostitutive è centrale per rafforzare i percorsi trattamentali: c’è un valore simbolico importante. L’idea di applicare già dal giudice che fa il processo di merito la pena sostitutiva, è un’idea che c’è da tempo, ma aver avuto ora la forza e il coraggio di farlo è stato importante, dobbiamo darne atto alla Cartabia”. “Anche se nel percorso dalla commissione Lattanzi fino al decreto legislativo che sta per andare in Gazzetta si è perso qualcosa, il pezzo più pregiato, ossia l’affidamento in prova con il patteggiamento”, ha aggiunto. “È chiaro che, a seguito di patteggiamento, poter fruire, nel caso di pene sino a quattro anni, solo della semilibertà o della detenzione domiciliare può non essere un incentivo a patteggiare per avere la misura alternativa. Detto questo, questa riforma penale, questo sistema di procedibilità molto più severo, questo sistema di revoca implicita della querela, ha tutta una serie di aggiustamenti per evitare che il processo sia solo carcere. Ma questo, come Avvocatura, ci deve mettere sull’avviso, perché quando queste misure verranno applicate ci saranno contraccolpi politici e quindi noi dobbiamo prevedere, anticipare, ragionare, preparando il terreno a questa risposta”. “Ricordo a tutti che c’è stata una circolare del Dap di agosto sul fenomeno dei suicidi, un fenomeno drammatico che però ha aperto una finestra sul mondo del carcere che non è appunto una casa di vetro. Un provvedimento che stabilisce che tra avvocati e istituti penitenziari deve instaurarsi un rapporto diretto affinché l’assistente sociale, quello che oggi si chiama funzionario giuridico pedagogico - ha terminato -, possa rivolgersi all’avvocato per intercettare i problemi del detenuto prima che possa essere troppo tardi”. L’avvocata Maria Brucale ha fatto un passo indietro nella storia d’Italia. “Il 41 bis è il punto di massima rottura del nostro sistema costituzionale riguardo alla pena. Perché nasce nel 1992, quando l’orrore di quelle stragi allontanava completamente lo sguardo dai diritti costituzionali a cui potevano ambire le persone detenute per quei reati orribili. Nessuno si sarebbe sognato di dire, in quel momento, qualcosa a favore di quei detenuti torturati all’Asinara o a Pianosa. Non si vuole per queste persone la libertà. Si vuole però che siano inserite in un sistema costituzionale della pena e che lo Stato rispetti, anche per loro, quegli obblighi positivi di reintrodurle e di rieducarle e di dare loro una possibilità. Lo Stato dia loro una speranza, cosa che oggi non accade. E io credo che l’Avvocatura debba essere impegnata in modo coeso nel volere che accada”, ha concluso. Il difficile ruolo dei media sul carcere - Infine, la giornalista Giulia Merlo ha aperto una finestra anche sul ruolo dei media e il carcere. “Noi del mondo del giornalismo facciamo fatica a parlare di questi temi, anche per una ragione legata al lessico. Il carcere - ha sottolineato - è un mondo chiuso, ha terminologie che per gli avvocati hanno un significato a cui noi giornalisti, che questa materia la mastichiamo meno, facciamo fatica a dare un contesto”. “Immaginate la difficoltà nel rendere questo significato a un pubblico che così professionale non è e soprattutto che vede il carcere come un luogo distante”, ha ricordato. “Anche i giornalisti fanno fatica a interfacciarsi con il carcere, la figura del garante per i detenuti è stata un’istituzione che ci ha molto aiutato a scoprire degli aspetti nascosti, sollevare problematiche che altrimenti sarebbe stato difficile far arrivare all’esterno, che sarebbero rimaste all’interno dell’esecuzione penale, all’interno di quella fase processuale che sempre meno è all’attenzione della stampa”. “Il processo mediatico - ha sottolineato - si concentra su una fase che non è quella dell’esecuzione penale, ma molto sulle indagini preliminare, sulla fase iniziale del processo. Quel che succede dopo viene raramente portato all’attenzione dell’opinione pubblica. Un grosso problema legato al fatto che il carcere per l’appunto è un luogo chiuso. Un esempio: il Covid ha colpito fuori e dentro il carcere, ma per noi giornalisti avere i numeri dei detenuti malati è stato molto difficile. Il ministero non li dava ai media, ma ai sindacati di polizia penitenziaria. Allora immaginate cosa significa leggere un dato che viene da un sindacato e non da un’istituzione, il valore di raccontare un dato che veniva da un soggetto di parte era molto diminuito. Pian piano - ha detto, infine - il ministero ha capito che bisognava liberalizzarli”. La Spezia. Dalle parole scritte arriva il moto di riscatto di Alma Martina Poggi La Nazione, 8 ottobre 2022 Il premio letterario “Castelli” consegnato nel carcere cittadino ad alcuni detenuti. Evento curato dalla San Vincenzo De Paoli. “Scusi, ma quello a destra è il mare…?” È la domanda che Andrea rivolge al capo scorta del furgone di polizia penitenziaria durante il viaggio per il suo trasferimento al nord. A un altro carcere; quale sia non gli è dato saperlo. Di tutta risposta ne ottiene un’occhiata accigliata, stranita, e poi il silenzio. Il furgone prosegue la sua corsa in autostrada per poi, improvvisamente, su ordine di quel brigadiere, fermarsi. Il gabbiotto viene aperto e Andrea viene fatto scendere dal mezzo per guardare il mare e sentirne l’odore. È l’efficace narrazione di uno scatto di umanità nato dall’incontro tra una domanda ingenua e una risposta accogliente, quello scatto apre alla possibilità di uno scambio alla pari fra uomo e uomo, fra chi si sente uno scarto in quanto detenuto e l’agente che lo ha in custodia e ne ha scorto gli occhi buoni. “Scusi, ma quello a destra è il mare?” è il testo di Andrea, detenuto della casa di reclusione di Fossombrone, primo classificato per il premio letterario per la solidarietà intitolato all’assistente volontario vincenziano Carlo Castelli e giunto quest’anno, alla sua quindicesima edizione, proprio alla Spezia. La cerimonia di premiazione si è svolta ieri mattina presso la casa circondariale della nostra città alla presenza della sua direttrice Maria Cristina Bigi, di Licia Vanni, capo area trattamento cc la Spezia, del sindaco Pierluigi Peracchini, del questore Lilia Fredella, del viceprefetto Roberta Carpanesi, don Luca Palei a nome del vescovo, Salvo Piscopo, presidente del consiglio comunale, Paola Da Ros e Giulia Bandiera, rispettivamente presidente e delegata della federazione nazionale della società San Vincenzo de Paoli per il settore carcere e devianza. Il premio, istituito dalla società San Vincenzo De Paoli e rivolto a tutti i detenuti delle carceri italiane e istituti per minori, ha avuto quest’anno come tema “No all’indifferenza: nessuno è uno scarto” e riassume tutta la tragicità che segue un reato: “L’indifferenza - dice Giulia Bandiera - riguarda chi lo ha commesso nei confronti della vittima ma spesso è anche la reazione della società nei confronti del detenuto. Da qui lo scarto che ne è la conseguenza, e che crea una catena umana di dolore, privazione e solitudine”. Maria Cristina Bigi, sottolinea come il ruolo del carcere non sia solo quello di portare le persone a riflettere sui propri sbagli ma anche a dare speranza: “Siamo convinti che questo sia il nostro ruolo - spiega - perché quando una persona non ha più speranza interrompe il contatto con la società e non è più possibile riprendere un cammino”. E c’è davvero chi in carcere ha ripreso in mano la sua vita e sa ora con certezza che il suo momento per brillare arriverà come scrive Triplice, pseudonimo della seconda classificata dal carcere di Sollicciano a Firenze. Accoglienza e valorizzazione sono gli ingredienti per favorire consapevolezza e crescita umana che permettono di intravvedere un futuro migliore. Anche per Andres, pseudonimo del terzo classificato, 17 anni, dall’istituto penitenziario minorile di Bari, il carcere è stato la seconda possibilità, il luogo dove ha cominciato a conoscersi e a scoprire quella parte di sé che “si può riciclare” come scrive. Al premio Castelli per questa edizione è stato conferito il riconoscimento dell’alta medaglia da parte del Presidente della Repubblica Sergio Mattarella. Rossano Calabro (Cs). “Più fondi per le attività scolastiche nelle carceri”, la richiesta della Lega orizzontescuola.it, 8 ottobre 2022 “Chiediamo al ministro Bianchi, che è in carica per altre due settimane, di voler finanziare le attività scolastiche nelle carceri, che hanno subito un dimensionamento del budget”. Così in una nota i deputati della Lega Simona Loizzo e Domenico Furgiuele. “A Rossano in Calabria - aggiungono - è stata chiusa una delle due classi esistenti nell’istituto penitenziario. Le risorse per le carcerarie e le serali sono incluse nell’organico generale. Sarebbe opportuno che il ministro trovasse le risorse per un budget dedicato, considerando la grande importanza che riveste la scuola all’interno del mondo carcerario”. “Tutti quanti - concludono Loizzo e Furgiuele - riteniamo fondamentale che il carcere sia luogo di recupero sociale e tagliare gli impegni scolastici non è un fatto positivo, per cui confidiamo che si sappia risolvere la questione mantenendo un cardine di socialità utile per tutti i carcerati”. Torino. Giustizia riparativa, un libro e una mostra fotografica La Stampa, 8 ottobre 2022 Parole e immagini per descrivere le vite rinate oltre le sbarre. All’ElKòN Museo della Fotografia di piazza Statuto 13 sabato alle 17: sarà presente il coautore e protagonista della vicenda. Mondo della fotografia, dell’arte e della scrittura si incontrano domani, sabato 8 ottobre, alle 17, all’ElKòN Museo della Fotografia di piazza Statuto 13 a Torino per la presentazione del libro “Nemmeno mai è per sempre - lettere abbandonate al Ferrante Aporti di Torino” curato dal giornalista de La Stampa Marco Accossato. Interverrà ed esporrà le sue opere il fotografo e grafico Lorenzo P. Merlo. Dalla fine degli anni Settanta ai primi anni Ottanta Torino - amministrazione comunale, amministrazione carceraria e università insieme - fece la scelta coraggiosa e illuminata di non abbandonare al proprio destino i ragazzi e le ragazze detenuti nel carcere minorile Ferrante Aporti, ma di dar loro un’opportunità di riabilitazione attraverso l’incontro con la cultura, l’arte, la bellezza e il lavoro. La città divenne in tutta Italia per questo un modello di giustizia riparativa. Il libro - presentato all’edizione 2022 del Salone Internazionale del Libro - documenta, attraverso una testimonianza coraggiosa ed esemplare, la scelta vincente di quella linea politica. Racconta il riscatto di uno dei ragazzi del Ferrante Aporti, studente allora quindicenne condannato al massimo della pena per un delitto. Una sorta di Cyrano per i coetanei che in carcere lo incaricavano di scrivere per loro le lettere a genitori e fidanzate. “Nei tempi al Ferrante Aporti - ricorda - ho pensato che la mia vita fosse finita. Non immaginavo di poter arrivare a oggi. Ma la speranza nasce e si alimenta giorno dopo giorno, in chi riesce a farlo. Giorno dopo giorno, appunto, io ero vivo. E non riuscivo a riconoscere l’altro-io, il ragazzo che aveva commesso ciò per cui ero finito lì”. L’intera citta? ne fu coinvolta in quel dare la seconda possibilita? ai ragazzi del Ferrante. I giornali ne parlarono: associazioni, societa? sportive, volontari, furono chiamati a entrare in carcere. La Chiesa fece la sua parte. Ai ragazzi detenuti venne insegnato un mestiere, scommettendo sull’umanizzazione e le relazioni sociali con progetti oltre le sbarre, fuori. Alla presentazione del libro sarà presente il coautore e protagonista della vicenda: a 15 anni di distanza ha varcato nuovamente i cancelli del carcere minorile per incontrare i ragazzi oggi detenuti. “Il Ferrante Aporti - dice - è stata un’opportunità di recupero; ai giovani non ho nulla da insegnare, ma voglio che la mia testimonianza serva loro per non ripetere lo steso errore”. Il libro è una testimonianza di giustizia riparativa, ma accende un faro anche sulla necessità di progetti di prevenzione. Per questo motivo, nei mesi scorsi, è stato presentato in alcune scuole superiori, divenendo fonte di incontri-dibattiti con gli studenti. Nel percorso tra fotografia e scrittura all’ElKòN Museo della Fotografia Lorenzo P. Merlo esporrà alcune delle sue opere: fotografie stampate su cellulosa plastificata, realizzate decostruendo e riportando alla luce l’immagine più essenziale e veritiera di un soggetto; lenzuola e schermi di computer che diventano tele. Lavori che - si scoprirà - sono inscindibilmente legati al tema e alla vicenda raccontata nel libro. Ragusa. Nel carcere sport e spazi per padri detenuti e figli a cura di Rosa Cambara* conmagazine.it, 8 ottobre 2022 Un’area gioco dentro il carcere con giocattoli e altri strumenti per permettere a padri detenuti e figli di trascorrere un po’ di tempo insieme in un’atmosfera allegra e colorata, accogliendo i bambini in uno spazio confortevole. Sarà una delle prossime iniziative che il progetto “Giocare per diritto” realizzerà nella casa circondariale di Ragusa. Il progetto, selezionato da Con i Bambini nell’ambito del Fondo per il contrasto della povertà educativa minorile, è promosso da Uisp Sicilia. Presente in 8 istituti penitenziari della Sicilia, coinvolge più di 40 partner tra istituzioni e associazioni. L’obiettivo per i prossimi mesi sarà migliorare il rapporto tra genitori detenuti e i loro figli, coinvolgendo la comunità educante: le scuole, i soci Uisp, psicologi, Università. L’iniziativa che ha dato il via al progetto nella casa circondariale di Ragusa è stata “Vivicittà - porte aperte”, la corsa per la pace promossa da Uisp, che si svolge in 30 città italiane. Un evento dentro le mura del carcere per unire chi vive ristretto nell’istituto e chi vive fuori: detenuti e atleti Uisp e dell’Asd “No al Doping”. La corsa è stata un’occasione per avviare un dialogo con i detenuti e far capire loro quanto lo sport sia strumento di benessere non solo fisico, ma mezzo per condividere e stare insieme ai propri figli, creando anche dei laboratori di movimento nelle scuole e nelle strutture comunali. Non tutti i detenuti sono genitori, ma sono comunque figli, mariti o fratelli. Anche per loro l’impegno di “Giocare per diritto” è quello di agevolare i rapporti familiari, attraverso una serie di appuntamenti che consentano un miglioramento psicofisico. Preziosa la collaborazione della direttrice, Giovanna Maltese, e la Capo Area, Rosetta Noto, per poter dare voce dei detenuti, come Mario, Francesco, Filippo e Giancarlo. A telecamere accese hanno superato le timidezze e si sono fatti sentire fuori dalle mura del carcere, con i loro pensieri e un messaggio di pace con la speranza della fine della guerra tra Ucraina e Russia. *Grazie alla collaborazione di Laura Bonasera, responsabile comunicazione “Giocare per diritto”, e Carmen Attardi, referente comunicazione “Giocare per diritto” a Ragusa. Mantova. “Rock flowers”: una campagna sugli stili di vita corretti con i detenuti mantovauno.it, 8 ottobre 2022 I detenuti in prima linea di una campagna di sensibilizzazione sugli stili di vita sani a favore della popolazione. Questo lo scopo del progetto “Rock flowers” che prevede counselling di gruppo fra l’11 e il 14 ottobre con il ricorso a varie discipline in una logica di peer education. Gli incontri saranno guidati dall’equipe medico-infermieristica della Medicina penitenziaria. Un percorso promosso da Asst e direzione della Casa circondariale di Mantova, per prevede la divulgazione sul territorio di materiale informativo - video e fotografie - prodotto durante una serie di laboratori espressivi tenuti in carcere. Il Lions Clubs International metterà a disposizione il suo caravan per realizzare un percorso itinerante. “Il titolo dell’iniziativa, Rock flowers - spiega Laura Mannarini, responsabile della Medicina Penitenziaria - testimonia come situazioni di vita caratterizzate da determinanti sociali e sanitari sfavorevoli possano comunque essere occasioni di salute. Possiamo imparare a fiorire dove siamo”. Un lavoro di rete, a cui hanno contribuito diverse realtà: per Asst, oltre alla Medicina Penitenziaria, la Direzione sanitaria, le Malattie Infettive, il Servizio Dipendenze, la Diabetologia, la Promozione della Salute, le Rems; la Prefettura, il Comune di Mantova, il progetto Strade Blu, l’associazione Abramo, il Csa; le cooperative Olinda, Alce Nero, Hike, Emergency Transport Pobic; Agape Casa San Simone, Aspef Mantova Dormitorio, Cooperativa di Bessimo - Comunità San Giorgio, Cpia Mantova, Discipline BioNaturali - Sistema Rolando Toro Biodanza. Il progetto - I partecipanti al counselling di gruppo saranno portati a riflettere sul messaggio di promozione della salute e sulla motivazione che conduce persone in stato di detenzione a diventare promotori di iniziative a favore del benessere bio-psico-sociale. Gli incontri termineranno con la proposta di screening gratuiti per il diabete e per l’epatite C (test rapidi su sangue capillare - pungidito) e la presentazione di alcuni servizi di bassa soglia della Provincia di Mantova con divulgazione della mappa Low-threshold services. “Ci ispiriamo ai principi della medicina narrativa - aggiunge Laura Mannarini - protagonisti sono la narrazione, l’ascolto, l’incontro. Vogliamo intrecciare storie di persone interessate alla ricerca della salute. Parole, ma non solo, disegni, colori, oggetti. L’obiettivo è comunicare in modo personalizzato ed efficace, migliorare la relazione tra medici, infermieri, pazienti”. Rock flowers rientra nel più ampio percorso Empowerment, realizzato dalla Medicina Penitenziaria in accordo con la direzione della Casa Circondariale di Mantova, all’interno del progetto Milone 3.0 Regione Lombardia. Sviluppa varie strategie di intervento per valorizzare le risorse personali dei pazienti. Si somministra una ‘terapia informativa’ che aiuti realmente le persone a prendere decisioni migliori per la propria salute. L’apprendimento emotivo ed esperienziale è alla base del metodo di lavoro, per permettere la riattivazione dei processi di socializzazione tra i pazienti in stato di detenzione. Gli incontri sono strutturati per definire azioni sanitarie di promozione della salute personalizzate e quindi più efficaci ed appropriate. Nella letteratura scientifica esistono molteplici strumenti proposti, in rapporto a differenti contesti, obiettivi e attori. Questo progetto predilige il colloquio condotto con competenze narrative, l’intervista narrativa semi-strutturate, la scrittura riflessiva, la pittura, il disegno e la costruzione di piccoli oggetti in legno o in pasta modellabile. Milano. Siete mai entrati in un carcere? di Valeria Vantaggi vanityfair.it, 8 ottobre 2022 Torna al Pac di Milano il progetto Ri-Scatti e questa volta racconta le complessità e le difficoltà della vita negli istituti di reclusione, al di là delle semplificazioni e delle stigmatizzazioni. È uno sguardo diverso il loro: lo sguardo di chi se ne intende, di chi sa di che cosa parla. Questa volta, per il progetto Ri-scatti, che torna al Pac per la sua ottava edizione, i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria di quattro istituti di detenzione milanesi (Casa di Reclusione di Opera, Casa di Reclusione di Bollate, Casa Circondariale F. Di Cataldo, IPM C. Beccaria) hanno fotografato i loro spazi, i volti dei “colleghi” e la quotidianità all’interno delle carceri. Per 11 mesi hanno seguito un corso che li ha portati a scattare, scattare, scattare, nelle celle, nelle aree comuni, ovunque, là dove pochi guardano e dove pochi osano entrare. Ne sono uscite centinaia di foto, capaci di comporre un racconto intenso, veritiero, esplicito, dalle tinte forti, quasi duro. Si conclude così un’altra puntata di quello che è un progetto che ormai dura da anni: ideato e organizzato dal PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e da Ri-scatti Onlus, l’associazione di volontariato che dal 2014 crea eventi e iniziative di riscatto sociale attraverso la fotografia, ha portato in luce nel tempo storie sui disturbi alimentari, sull’inclusione sociale, sugli homeless e le varie forme di felicità. Con la potenza delle immagini si vuole questa volta raccontare le complessità, le difficoltà, ma anche le opportunità della vita negli istituti di reclusione, al di là delle semplificazioni e delle stigmatizzazioni, generando anche un confronto costruttivo e una sinergia concreta tra l’amministrazione cittadina, quella penitenziaria e le istituzioni culturali. Tutte le foto - stampate da FDF Fotolaboratorio Digital Service su carta Canon Photo Paper Pro Luster 260 gr. - e il catalogo (pubblicato da Silvana Editoriale) sono in vendita: l’intero ricavato andrà a supportare e a finanziare interventi architettonici volti al miglioramento della qualità della vita nelle carceri. La mostra, allestita al Pac, in via Via Palestro 14 a Milano, dura un mese, da domenica 9 ottobre a domenica 6 novembre. Pistoia. Incontro culturale dedicato carceri pistoiesi e della giurisdizione carceraria comune.pistoia.it, 8 ottobre 2022 Martedì 11 ottobre alle ore 17 nella sala Gatteschi della Biblioteca Forteguerriana è in programma un nuovo appuntamento del ciclo “Leggere, raccontare, incontrarsi” con la presentazione del libro Carte custodite. Il carcere di Pistoia e il suo Archivio storico (1901-1991) di Rosa Cirone (Settegiorni Editore, 2022). Oltre all’autrice interverranno Andrea Ottanelli, la direttrice del carcere di Pistoia Loredana Stefanelli e il commissario Mario Salzano, comandante del carcere. Nel volume figura un’attenta ricostruzione storica delle vicende legate alla giurisdizione carceraria in Italia nel periodo che va dal XVIII al XX secolo, che permette all’autrice di mostrare come nel corso del tempo si siano evoluti e modificati profondamente l’orientamento del legislatore e della società nei confronti dell’applicazione delle pene e della gestione dell’istituzione carceraria. Un’evoluzione letta attraverso le vicende delle carceri pistoiesi: le antiche “Stinche”, conosciute attraverso la memoria storica, e il carcere di Santa Caterina in Brana, la casa circondariale posta appena fuori dalle mura cittadine, progettata e realizzata nei primi decenni del Novecento. Rosa Cirone, funzionario del Ministero della giustizia, Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, lavora presso la Casa circondariale di Pistoia. Laureata in Materie letterarie e in Scienze storiche, con master in scienze criminologiche e in mediazione familiare, da sempre coltiva una grande passione per la storia e la storia dell’arte, a cui si è affiancata anche quella per la storia della medicina ed in particolare per la Scuola medica pistoiese ed i suoi protagonisti. Fra i suoi interessi è andato maturando negli anni anche quello delle problematiche legate alla violenza sulle donne, da cui sono scaturiti numerosi convegni e seminari e la pubblicazione, nel 2017, del libro “La situazione giudiziaria e carceraria nella metà dell’800. Il caso Migliorini tra giustizia ed ingiustizie”. Si è dedicata quindi allo studio del sistema carcerario, pubblicando nel 2019 “Storia della legislazione e del sistema penitenziario in Toscana. Da Pietro Leopoldo alla nascita della nuova scienza penitenziaria”. Andrea Ottanelli, direttore della rivista Storialocale, collabora stabilmente con università, enti, associazioni e amministrazioni locali per studi e ricerche su specifici aspetti della storia moderna e contemporanea pistoiese, curando la realizzazione di varie pubblicazioni e partecipando a convegni e studi di storia economica. Il programma completo degli appuntamenti del ciclo è consultabile sul sito della Biblioteca Forteguerriana https://www.forteguerriana.comune.pistoia.it/leggere-raccontare-incontrarsi-settembre-dicembre-2022/ La città come luogo della sfera pubblica è la culla della giustizia di Riccardo De Vito Il Domani, 8 ottobre 2022 Considerare lo spazio urbano quale lente di ingrandimento per scrutare la giustizia in tutte le sue dimensioni, non soltanto istituzionali e formali, dovrebbe suonare istintivo e lo faremo all’evento “Parole di Giustizia”, a Pesaro, Fano e Urbino del 21-23 ottobre. Il 24 maggio 2007, in un modo del tutto particolare, è stata una giornata memorabile. Per la prima volta nella sua storia, l’umanità residente nelle città ha superato nei numeri quella insediata nelle zone rurali. Una corsa inarrestabile dei popoli di ogni latitudine verso le metropoli che oggi, a causa della pandemia e delle guerre, accenna solo a rallentare, ma non certo a finire. La città (capitalistica) sembra essere la dimensione naturale di tutto: sviluppo, relazioni umane, desideri, immaginario. Si avverte l’urgenza, dunque, di sottoporre anche gli argomenti della giustizia - troppo spesso schiacciati su parole d’ordine ambigue (decoro, sicurezza, carcere) o chiusi nei palazzi giudiziari e della politica - alla prova dello spazio urbano. È proprio questo l’obiettivo che si propone l’edizione 2022 di “Parole di Giustizia” (Urbino, Fano, Pesaro, 21-23 ottobre 2022): Una città per pensare. Diritti e libertà nello spazio urbano. L’evento - Una manifestazione (per il secondo anno consecutivo promossa anche dall’Università di Urbino, in particolare dal Dipartimento di Giurisprudenza, insieme con l’Associazione Borrè e Magistratura democratica) come da tradizione itinerante, che si muove tra e nei luoghi che la ospitano, aperta a tutte e tutti: “confusione” culturale in luogo di parole d’ordine, mescolanza di vocabolari, critica e interrogativi al posto dei pensieri unici. Considerare lo spazio urbano quale lente di ingrandimento per scrutare la giustizia in tutte le sue dimensioni, non soltanto istituzionali e formali, dovrebbe suonare istintivo. La città, in fondo, è la premessa della legge e del tribunale: è Atene, la città per eccellenza, a ospitare quel consesso di giudici, l’Areopago, che spezza le catene della vendetta fino a diventare, insegna Eschilo, “baluardo della regione e della città”. Legge e costruzione della città - lo raccontano tutti i miti di fondazione, fino a quelli della frontiera americana - vanno di pari passo e si influenzano in maniera reciproca. Entrambe, come ha scritto Salvatore Settis (che concluderà gli incontri con la sua lectio magistralis) “rappresentano, anche, gli esiti, i meccanismi e le dinamiche di una mappa del potere economico e politico”. Non basta, infatti, la parola legge per dire giustizia. La dimensione urbana rappresenta in maniera tangibile il dramma di questa approssimazione: “Viviamo in città - ha spiegato David Harvey - sempre più divise, frammentate, conflittuali. La nostra visione del mondo e delle possibilità che ci offre dipendono interamente dal “lato della strada” in cui viviamo”. Risorse, opportunità, diritti civili e sociali - anche la possibile azione del giudice e il suo racconto pubblico (se ne discuterà in relazione alle recenti riforme) - hanno intensità e gittata diversa a seconda che si viva nei centri urbani gentrificati o nei suburbi svuotati dei servizi, nelle fortificate città giardino dei ricchi o negli slums dei poveri. Le linee di frattura passano anche attraverso altri confini: di genere, di età, di condizione lavorativa. Siamo lontani anni luce dal programma dell’art. 1 della Carta europea dei diritti dell’uomo nella città (2000): “La città è uno spazio collettivo che appartiene a tutti gli abitanti, i quali hanno il diritto di trovarvi le condizioni necessarie per appagare le proprie aspirazione dal punto di vista politico, sociale ed ambientale, assumendo nel contempo i loro doveri di solidarietà”. Il futuro delle città - Immaginare il futuro delle città - argomento che sarà messo nelle mani di Mario Cucinella -, pertanto, vuol dire anche ri-costruire un progetto di giustizia. Ribaltare il teorema in base al quale “prima occorre diventare ricchi e poi costruire buone città”, come ha saggiamente avvertito l’architetto cileno Alejandro Aravena, necessita anche di “un corretto sistema di leggi”. Ancora una volta un nesso inscindibile tra ordito delle norme e trama del territorio. Il godimento effettivo delle libertà e dei diritti - alla salute, al lavoro, alla pace - è misurato dalla forma che assume lo spazio urbano e, allo stesso tempo, contribuisce a configurare quella forma. Legislatore e architetto, giudice e urbanista hanno la responsabilità di interagire nel contributo che danno a disegnare la sfera pubblica. Tanto più la devono avvertire in questa fase storica di emergenze e crisi de decrittare e governare: guerra, pandemia, migrazioni, cambiamento climatico. Porre l’attenzione sulla città, naturalmente, non significa (non deve significare) trascurare tutto ciò che metropoli non è e che, a volte, allo sviluppo urbano incontrollato paga il tributo più alto. Saranno ben accetti, dunque, spunti capaci di rovesciare il tema della centralità della città e di spostare l’angolo visuale sugli spazi interurbani -valli e Comuni montani, piccoli paesi, campagne non divorate dai suburbi, più in genere su tutte le soggettività sociali e culturali collocate fuori dei perimetri urbani -, provando anche a mettere a nudo le retoriche con le quali troppo spesso ci si arrende a contrastare le dinamiche di spopolamento di quei luoghi: il piccoloborghismo, la “monocultura del turismo”, l’enogastronomia di lusso nobilitata dal richiamo alla cultura popolare. L’alluvione - Discuteremo, dunque, di tutti questi argomenti e lo faremo in una provincia che quest’anno porta su di sé l’impronta drammatica della recente alluvione, della tragedia ascrivibile al terribile mix di cambiamento climatico, “eco-frizioni” dell’Antropocene, sviluppo dissennato, consumo di suolo. Un motivo in più per essere presenti in tanti e ragionare insieme sulle forme del vivere e dell’abitare contemporaneo, sulle fragilità sociali e su quelle del territorio, sulla possibilità di plasmare spazi (fisici e normativi) più inclusivi. Ascolteremo linguaggi diversi da quello del giurista e, dialogando con esperti di altri settori, continueremo a perseguire uno degli scopi di Parole di Giustizia: avvicinare la cultura giuridica alle urgenze del quotidiano, ai bisogni e alle questioni della vita associata. Noi che rimuoviamo la paura di Simonetta Agnello Hornby La Stampa, 8 ottobre 2022 Ascolto l’allarme di queste ore, la paura di un nuovo conflitto nucleare, le sirene della diplomazia che cercano di scongiurare la guerra mondiale e ripenso a quella sventata di poco nel 1962, le settimane in cui con la crisi della Baia dei Porci rischiammo forse più di quanto all’epoca credevamo sarebbe potuto accadere. Quando il presidente americano Kennedy e quello russo Chruscev si sfidavano sulla pelle di noi tutti, avevo diciassette anni e vivevo nella mia città, Palermo. Cuba era lontana. Quel nome evocava i Caraibi, un luogo che avrei conosciuto solo anni dopo visitando l’Avana per un congresso di scrittori, dove mi fu possibile immergermi in quel popolo ideologizzato e umano, coraggioso, capace di sopportare gli stenti quotidiani. A Cuba ci si accontentava del mito e dei sigari leggendari. Ero una ragazza semplice nel 1962 e la guerra minacciava il mio futuro, ma non avevo paura. Credevo, come pensavo credessero tutti, nell’umanità progressiva, ed ero convinta, come tanti altri, che ce l’avremmo fatta. Lo spettro dell’Apocalisse non si sarebbe materializzato. Vivevamo di sogni, di orizzonti da scoprire, di grandi paure da esorcizzare ma anche di grandi speranze da condividere. Scoprivamo Paesi lontani e viaggiavamo. La nostra Europa, quella della Comunità europea, garantiva una pace duratura su cui i nostri genitori non avrebbero scommesso mai. Credo che il vero deterrente della guerra fredda sia stato sociale, eravamo noi, era la consapevolezza di venire dalle macerie di due conflitti mescolata alla fiducia nella comunità; sapevamo cosa era successo durante le due guerre mondiali e la conoscenza ci avrebbe protetto dal ripetere il male. Oggi che sono nonna vedo il mondo con occhi diversi. Alle certezze degli ideali si è sostituita l’insicurezza esistenziale, la rabbia, la polverizzazione dei punti di riferimento. Mi sembra che oggi nessuno creda più in qualcosa, che prevalga l’avidità della ricchezza, che la società rivendichi tutto come fosse un diritto al godimento e al sesso, che si sia perduta la bussola. Cosa c’entra con la guerra? C’entra perché mi sento più in pericolo. C’entra perché ho l’impressione che l’individualismo portato alle estreme conseguenze coincida con il nazionalismo e i nazionalisti sono guerrafondai. Allora c’era un equilibrio, nel mondo della crisi di Cuba, ed è saltato. Ho lavorato per tanti anni come avvocato dei minori. Nelle famiglie di cui mi occupavo ho visto svanire il senso di responsabilità sia nelle madri che nelle nonne, per non parlare dei padri. Così, camminiamo oggi mantenendoci in bilico su un sentiero strettissimo, come funamboli senza rete. Viviamo in un mondo molto pericoloso. Ma non è il mondo ad essere cambiato, i potenti si sono sempre fatti la guerra. Siamo noi, gente normale, ad essere cambiati e viviamo questa vita come un film, da spettatori che partecipano a distanza. Siamo lontani dal dolore altrui come non lo eravamo quando avevo diciassette anni e questo ci mette in pericolo, più di prima. Anche perché c’è più cattiveria e ci sono più armi a disposizione. Guardiamo tutto leggermente, ci si dispera appena e nutriamo deboli speranze; siamo informati di tutto ma non partecipiamo a nulla, aspettiamo. Anche alla mia età marcerei per un ideale, ma non ci sono marce. Ignavia? Apatia? Penso che siamo semplicemente addormentati. Bisogna fare attenzione a questo, il sonno della ragione può generare mostri. Oggi rischiamo più di ieri. Dobbiamo svegliarci per rendere migliore la vita dei nostri figli e la società intera. Nobel per la pace agli attivisti e ai dissidenti russi e bielorussi di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 8 ottobre 2022 Mentre la guerra in Ucraina se possibile si intensifica ancora di piu con gli scontri feroci che ormai hanno raggiunto sia Kherson e Zaporizhia e ogni giorno si trovano fosse comuni con persone che mostrano segni di tortura. All’orizzonte non si intravede una qualsivoglia possibilità di arrivare almeno a una tregua. Ma un segnale, proprio nel giorno in cui Putin ha festeggiato il suo settantesimo compleanno diventando il leader piu longevo dopo Joseph Stalin, arriva da Oslo dove ieri sono stati annunciati i vincitori del Nobel per la pace. Un premio che significativamente è stato assegnato a tre organizzazioni che da anni si battono per la difesa dei diritti umani in Bielorussia, Russia e Ucraina. Si tratta di uomini come l’attivista bielorusso Ales Bialiatski fondatore del gruppo Viasna (primavera), dei russi di Memorial International e dell’organizzazione ucraina Center for Civil Liberties. Berit Reiss-Andersen presidente del comitato norvegese del Nobel ha spiegato le motivazioni della scelta: “si desidera onorare tre eccezionali campioni dei diritti umani, della democrazia e della coesistenza pacifica nei paesi vicini Bielorussia, Russia e Ucraina.” Inoltre Reiss- Andersen ha esortato il regime di Minsk a rilasciare dal carcere proprio Bialiatski. Quest’ultimo è stato arrestato nel luglio dello scorso anno con l’accusa di evasione fiscale, una mossa che gli oppositori di Alexander Lukashenko hanno visto come una tattica neanche troppo velata per mettere a tacere il suo lavoro. L’organizzazione di Bialiatski è stata fondata nel 1996, è il più importante gruppo per i diritti umani della Bielorussia, il cui lavoro ha tracciato le tendenze sempre più autoritarie di Lukashenko e delle sue forze di sicurezza. Viasna, nato durante le proteste di massa a favore della democrazia diversi anni dopo il crollo dell’Unione Sovietica, ha cercato di aiutare i manifestanti imprigionati e le loro famiglie. La reazione del governo bielorusso alla notizia del Nobel è stata fortemente critica e sprezzante come se evince dalle parole ufficiali provenienti da Minsk che hanno tacciato quella del Comitato di Oslo come una scelta politica e che il fondatore del premio Alfred Nobel si starà “rivoltando nella tomba.” Il riconoscimento scelto per i russi di Memorial si basa sul lavoro per i diritti umani che va avanti da molti anni e rappresenta un sostegno contro gli attacchi e le rappresaglie subite. Come dimostra lo scioglimento forzato del gruppo di Mosca che è stato costretto a trovare una nuova sede. Particolarmente significativo il nobel per il Centro per le libertà civili ucraino. Oleksandra Matviichuk, responsabile dell’organizzazione si e detta sorpresa ma felice: “siamo grati per questo premio perché abbiamo fatto uno sforzo titanico sull’altare della pace, della democrazia e della libertà”. Quei tre Nobel di pace e libertà di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 8 ottobre 2022 Meritevoli del premio Nobel per la Pace si potrebbe pensare che siano coloro che hanno operato per porre fine ad una guerra o per prevenirla, facendo tacere le armi: chi, ad esempio, riuscirà ad interrompere la guerra scatenata dalla Russia contro l’Ucraina. L’Accademia reale svedese ci ha detto che non è così, premiando militanti per i diritti e le libertà fondamentali: Ales Bialiatski insieme a Memorial e al Centre for Civil Liberties. Il primo è fondatore dell’organizzazione bielorussa per i diritti civili Viasna ed è ora detenuto, la seconda è una organizzazione russa, messa fuori legge da quel governo, dedita alla documentazione dei crimini staliniani e delle violazioni dei diritti civili, il terzo è una organizzazione ucraina di difesa dei diritti civili e di documentazione dei crimini di guerra. Il nesso stretto tra pace e rispetto dei diritti e delle libertà fondamentali è costantemente affermato nei documenti internazionali riguardanti i diritti umani. In tal senso si esprimono, fin dal loro Preambolo, la Dichiarazione universale dei diritti umani approvata dall’ONU nel 1948 e, nell’area europea, la Convenzione per la protezione dei diritti umani e le libertà fondamentali (1950) e la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (2000). Si tratta d’altra parte di un legame di tutta evidenza, considerando la pace sia all’interno delle società statali, che tra gli Stati. E non è la prima volta che lo ricorda l’Accademia svedese, che già l’anno scorso aveva insignito del Nobel per la Pace due giornalisti che a caro prezzo personale si sono battuti per la libertà di stampa e di critica del potere: la filippina Maria Ressa e il russo Dmitry Muratov. Assegnando il premio per la pace quest’anno l’Accademia insiste nella valorizzazione della protezione non solo in generale dei diritti civili, ma anche a specificamente della libertà di espressione nella sua forma di libera critica delle politiche dei governi e di denunzia dei crimini e delle violazioni dei diritti individuali. La nazionalità dei tre premiati, bielorussa, russa e ucraina è un evidente riferimento all’area europea colpita dalla guerra. Ma l’importanza della difesa dei diritti civili e in particolare della libertà di espressione, condizione della democrazia e dello Stato di diritto, non è limitata all’attuale vicenda in Ucraina. Sempre, nel mondo, le guerre combattute o minacciate si accompagnano alla repressione del dissenso interno. Tra i paesi membri della Convenzione europea non è solo la Turchia che ne offre esempio. E la Russia ha dovuto esserne espulsa. L’importanza della scelta che ha portato alla assegnazione del Nobel della Pace, quest’anno come nel precedente, deriva anche dal fatto che i premiati sono esponenti della società civile e non governanti o rappresentanti dei poteri pubblici. Certo nel riconoscimento dei diritti civili come nella loro violazione i governi sono in prima fila, ma la resistenza alla oppressione e l’opposizione ai governi antidemocratici, irrispettosi dei diritti civili e delle libertà individuali è prima di tutto affare della società civile. La resistenza può essere efficace solo se è viva sul terreno interno, fuori delle istituzioni pubbliche: nelle dittature persino fuori dai Parlamenti e dall’opera dei giudici. È la Dichiarazione universale che riconosce che la protezione dei diritti umani è indispensabile, “se si vuole evitare che l’uomo sia costretto a ricorrere, come ultima istanza, alla ribellione contro la tirannia e l’oppressione”. Certo, accanto ai movimenti interni agli Stati c’è, in linea di principio, l’insieme della Comunità internazionale, cioè gli altri Stati. Ma troppi interessi (la sicurezza militare, il gas, il petrolio, il commercio estero) frenano o persino inquinano la politica degli Stati. Senza andare lontano, oggi basta ricordare che l’adesione di Svezia e Finlandia alla Nato è tenuta in ostaggio dal governo turco che, per approvarla, pretende la consegna di un certo numero di curdi che si sono rifugiati in quei paesi. I vincoli che derivano dalla Convenzione europea dei diritti umani impediscono probabilmente a quei governi e alle relative magistrature di provvedere nel senso richiesto dalla Turchia, ma il solo fatto che si sia accettato di discuterne per poter procedere all’accesso alla Nato è segno che a livello statale, quando esistano gravi ragioni (qui la sicurezza nazionale) vi sia la disponibilità a discutere di diritti e libertà individuali che pure, sempre si proclamano universali e indisponibili. Il Nobel contro i soprusi di Ezio Mauro La Repubblica, 8 ottobre 2022 Le scelte per la Pace premiano la società civile e chi oppone alle democrature, a partire dal Cremlino. Come se precipitassimo indietro negli Anni Settanta (segno della regressione dei tempi in cui viviamo) il premio Nobel per la pace torna a premiare il dissenso. Da decenni non si sentiva più citare questa formula, che sembrava svanita con la fine delle dittature ideologiche con cui il Novecento prima di concludersi aveva saldato i conti, fino alla scomparsa dell’Unione Sovietica. Eravamo anzi convinti che il dissenso da testimonianza morale individuale, o di piccoli gruppi, fosse finalmente diventato opposizione, affacciandosi come un soggetto politico riconosciuto e pienamente legittimato nella contesa per il consenso davanti alla pubblica opinione. Non avevamo fatto i conti con la torsione delle democrature, che per difendere il potere autocratico di leader neo-autoritari chiudono violentemente tutti gli spazi di un’opposizione appena nata, rimettendo in discussione la libertà politica, di espressione e di organizzazione dei cittadini. E dove il potere oscura, il Nobel illumina. Il comitato norvegese per il Nobel, infatti, continua a farsi carico della responsabilità morale non solo di una testimonianza, ma di un vero e proprio allarme. Il premio del 2022 svolge esattamente questa doppia funzione. Scegliendo l’attivista bielorusso dei diritti umani Ales Bialiatski, in carcere dal 2020 dopo aver fondato il Viasna Human Rights Centre, l’associazione russa Memorial e il Centro ucraino per le libertà civili, il Nobel segnala l’impegno civile di resistenza ai soprusi di Stato e insieme denuncia l’intolleranza sovrana nei confronti dei movimenti e delle organizzazioni di cittadini che non rinunciano a monitorare gli abusi del potere. Bialiatski è la figura storica di riferimento di ogni opposizione bielorussa al dittatore Lukashenko, Memorial è l’associazione voluta da Andrei Sakharov - e osteggiata dal Cremlino - per recuperare e custodire le biografie smarrite e calpestate negli anni del gulag e del lager sovietico, l’organizzazione ucraina fondata nel 2007 si è ora riconvertita alla documentazione dei crimini di guerra russi, denunciandoli agli osservatori internazionali. Minsk, Kiev e Mosca: il Nobel traccia la frontiera dell’ultima frattura europea, che è insieme una linea d’allarme ma anche di resistenza. In Ucraina col premio si punta a sostenere la popolazione civile, assicurando che i colpevoli di abusi dovranno rispondere dei loro crimini; in Bielorussia si intende richiamare l’attenzione e l’impegno internazionale per la lotta di Bialiatski, detenuto senza processo, chiedendo la sua liberazione; in Russia si vuole sottolineare il valore della memoria e della documentazione sull’oppressione politica comunista, per evitare che le vittime del regime sovietico vengano dimenticate. Identificando i punti più acuti della crisi che stiamo vivendo, il comitato di Oslo con le sue scelte promuove e difende la società civile, che è la vera vincitrice del Nobel 2022. È questa la cifra comune dei premiati nel loro impegno per proteggere le prerogative fondamentali dei cittadini, per denunciare gli abusi dei governi, per rivendicare il diritto universale di criticare il potere: “Hanno fatto uno sforzo straordinario - dice la motivazione - e insieme dimostrano il significato delle società civili per la pace e la democrazia”. E questo è un richiamo anche per noi. Il Nobel, accusato troppe volte dal qualunquismo opportunista di “fare politica”, continua infatti la sua ricognizione nei punti dolenti della libertà, con la selezione di figure che scelgono e testimoniano semplicemente una ostinata fedeltà alla democrazia, pagando il prezzo che i regimi impongono. C’è un filo che unisce, in questo senso, i premiati da un anno all’altro. Scegliendo nel 2021 due giornalisti perseguitati nel loro Paese, il direttore della Novaja Gazeta di Mosca (chiusa dal Cremlino) Dmitrij Muratov, e la filippina Maria Ressa, col sito Rapper sottoposto a rappresaglie continue dal presidente Duterte, il comitato ha scritto nella carte del Nobel il principio della democrazia come garanzia di sicurezza, e della libera informazione come garanzia di democrazia. Oggi tocca all’impegno civile spontaneo dei cittadini, nella resistenza ai soprusi e nell’affermazione dei diritti. Tutto questo, non dimentichiamolo, in nome della pace: e il Nobel ci dice molto in proposito, proprio nel momento in cui Biden certifica che Putin fa sul serio, con “la minaccia di un Armageddon”, per la prima volta dalla crisi dei missili a Cuba. Come dimostrano la biografia, il sacrificio e la solitudine dei premiati, la pace infatti non è disarmo ed equidistanza, ma impegno e militanza. La pace si costruisce prendendo parte, non lavandosene le mani, difendendo la democrazia dei diritti e la democrazia delle istituzioni, non disprezzandole. Ogni soluzione di pace giusta, e per questo duratura, passa necessariamente dalla difesa degli oppressi e dal ristabilimento di un equilibrio violato: giuridico, morale, soprattutto umano. Tutti vogliamo vivere in pace ripudiando la guerra. Ma come ci dicono le tre storie dei Nobel, quando la scelta per la pace ci impedisce di distinguere tra l’aggressore e l’aggredito, diventa un ideologismo che non ci permette di capire, perché acceca. Le ACAT di tutto il mondo si uniscono per un appello comune: la pena di morte è tortura acatitalia.it, 8 ottobre 2022 In occasione della XX Giornata mondiale contro la pena di morte che si celebra il 10 ottobre e che quest’anno è dedicata alla riflessione sul rapporto tra l’uso della pena di morte e la tortura o altri trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti, le ACAT di tutto il mondo hanno deciso di lanciare un appello comune a partire dal caso di un uomo che si trova nel braccio della morte in attesa di esecuzione. Il caso è quello di Joseph Mwamba Nkongo una delle tante persone condannate a morte ogni anno nella Repubblica Democratica del Congo (RdC), stato africano non abolizionista. Nkongo è stato ritenuto colpevole e condannato per l’uccisione della moglie in seguito a procedimento giudiziario viziato da numerose falle procedurali e macchiato da accuse di tortura che l’uomo avrebbe subito ad opera delle forze dell’ordine subito dopo il fermo. La condizione di Nkongo è simile a quella di altre 500 persone attualmente detenute nel braccio della morte. La RdC infatti continua a ingrossare le fila dei paesi che applicano ancora la pena di morte ma di fatto non la pratica dal 2003, il che significa che una persona condannata a morte può rimanere anche per anni nel limbo dell’attesa dell’esecuzione senza che ci sia una data precisa, con gravi conseguenze per la sua salute fisica e mentale. Questo tipo di condizione era stata definita già nel 2012 dal Relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura e le condizioni di detenzione come “sindrome del braccio della morte” configurandosi come vera e propria forma di tortura e dunque in violazione palese con gli impegni internazionali presi dallo stato africano e nello specifico la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Per questo, in una lettera appello indirizzata alle autorità congolesi, le ACAT chiedono al governo n n solo di riesaminare il caso specifico, ma anche e soprattutto di commutare tutte le sentenze c pitali e decidere per l’abolizione definitiva della pena capitale. ACAT Italia è una associazione cristiana ecumenica che agisce contro la tortura e la pena di morte, impegnandosi al fianco di tutti coloro che hanno gli stessi obiettivi e promuovono i Diritti Umani nel mondo. Perché la politica non parla mai di droghe? di Vanessa Roghi Il Domani, 8 ottobre 2022 La conferenza nazionale sulle dipendenze dovrebbe tenersi ogni anno per fare il punto, ma non è così e i partiti preferiscono ignorare l’argomento. Ma intanto il mondo cambia. Il 27 e 28 novembre 2021, quindi quasi circa un anno fa, si è tenuta a Genova la Conferenza nazionale sulle dipendenze. La sesta per l’esattezza. Erano anni che in Italia, le persone che si occupano di questi temi, la attendevano. Dal 2009. Prevista dalla legge 309 del 1990, avrebbe dovuto essere convocata ogni tre anni per aggiornare la riflessione e le strategie pubbliche in materia di droghe. Invece, dopo le prime cinque conferenze, a lungo il parlamento italiano si è guardato bene dall’organizzarla, come se il problema non esistesse più. Si sono succeduti governi di destra e di sinistra ma nessuno, davvero nessuno, ha pensato bene di dare seguito a una norma di legge dello Stato italiano. Nel frattempo le dipendenze patologiche non solo non sono scomparse ma sono aumentate: la ludopatia è entrata a far parte delle emergenze da affrontare e anche i SerT (servizi per le tossicodipendenze) hanno cambiato nome e ora si chiamano SerD (servizi per le dipendenze) proprio perché in ballo c’è la dipendenza nella sua accezione più larga e non solo la “tossicodipendenza”, la dipendenza da sostanze. Perché, tuttavia, viene da chiedersi, questo argomento non ha interessato, e continua a non interessare affatto la politica se non in una prospettiva punitiva? Davvero un mistero, poiché in termini cinicamente elettorali ogni famiglia ha, al suo interno, una persona dipendente da qualcosa: fumo, alcol, gioco, e in alcuni casi cocaina eroina, psicofarmaci. Il problema scuole - Quello della dipendenza dovrebbe essere un argomento da affrontare fin dalle scuole primarie: gli insegnanti dovrebbero essere formati, almeno con alcuni strumenti minimi. Alle scuole superiori dovrebbe essere discussa seriamente e non delegata esclusivamente all’intervento delle forze dell’ordine che, ovviamente, affrontano l’argomento per gli aspetti che compete loro, ovvero quelli dell’illegalità. Ma è evidente che la dipendenza si sviluppa anche su sostanze o comportamenti perfettamente legali. Così i ragazzini, per esempio, hanno pensieri confusi perché vedono che consumare alcol, sigarette e persino medicinali è perfettamente accettabili e in sintonia con quello che fanno gli adulti intorno a loro, mentre consumare cannabis non lo è. Problematizzano la sostanza in sé e non la spinta che li indirizza verso la sostanza. Disabituati a ragionare sulla dipendenza come comportamento a rischio, fumano di nascosto le canne e centinaia di sigarette davanti a tutti. Si imbottiscono di medicine trovate nell’armadietto di casa, e ci bevono sopra. E così pensano di tenere sotto controllo il problema laddove il problema esiste. Invece non è così. Di questi temi se ne dovrebbe parlare in famiglia, in TV, normalmente e non solo quando accade qualche disgrazia o il fenomeno si manifesta in modo parossistico. La salute pubblica dovrebbe riguardare tutti e non solo gli specialisti. Anche per questa diseducazione della politica italiana su questi temi la Conferenza per anni non è stata convocata e oggi accade che il futuro presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, possa usare tranquillamente una parola che era già vecchia e connotata negativamente negli anni Settanta e che nessuna persona, nemmeno di destra, con una solida cultura politica, userebbe mai in paesi come gli Stati Uniti per esempio, ovvero “devianza” quando si riferisce a comportamenti “a rischio”. Persino l’ex presidente americano George W. Bush, del resto, ha parlato della sua dipendenza da alcol in TV e nessuno si sognerebbe mai di definirlo un deviante. Dunque, davvero, manca un lessico minimo condiviso in modo trasversale che ci consenta di fare un passo avanti nella soluzione di un problema sempre più urgente. Soltanto nominando le cose in modo corretto, infatti, è possibile vederle e, vedendole, agire per trasformarle. Il motivo di questa assenza di un linguaggio che assomiglia alle cose che descrive risiede, guardando il problema in un’ottica di lungo periodo, nel fatto che essendo venuto meno un dibattito pubblico di un certo livello, come invece c’era stato negli anni Ottanta e Novanta, si è creato un deserto di parole, concetti, categorie interpretative utili per i tempi nuovi. Così, quando ha preso la parola una nuova generazione di politici, giornalisti, ma anche comuni cittadini, completamente immemore di quello che si era detto o fatto nel corso degli anni Settanta e Ottanta in Italia e nel mondo, è stato imbarazzante constatare come l’unico strumento analitico a disposizione fosse piuttosto rabberciato e vecchiotto da un lato, dall’altro del tutto fuori fuoco. Il frutto di memorie antiche, antiche paure (vedi come si è parlato di eroina a Rogoredo) e nuove sollecitazioni da oltre oceano. Un ibrido che serve a ben poco se non a perpetuare convinzioni sbagliate (le droghe sono tutte uguali!) e a generare confusione. Droga e droghe - Si continua a scrivere, infatti, “droga” e non “droghe”, si parla di narcotraffico come se fossimo esperti biografi di Pablo Escobar perché si sono viste decine di serie su Netflix, ma non si sa niente sullo spaccio sotto casa nostra, si commentano Sanpa o Dopesick su Facebook, e così si pensa di avere chiaro il problema, le sue cause e pure gli strumenti per risolverlo. Ma, incredibile a dirsi, l’Italia non è l’America e non si può ragionare su quello che accade da noi con lenti a stelle e strisce. Qua l’emergenza oppioidi, per esempio, non c’è stata. Eppure farmaci come Oxycontin (ormai sineddoche del male assoluto in ogni serie tv) sono legali. Questo dimostra che da sola nessuna sostanza è sufficiente a “scatenare l’inferno”. Solo ragionando seriamente sul contesto in cui viviamo, individuandone caratteristiche e criticità, possiamo pensare davvero di fare qualche passo in avanti. Dobbiamo, per esempio, ragionare sul sistema sanitario pubblico e cercare di capire se questo ci ha protetto da questa epidemia farmacologica per cui sono morte centinaia di migliaia di persone in America, persone storicamente non ascrivibili all’universo dei “drogati”: giovani studenti liceali, binchi, classe media, campioni in qualche sport, operai di mezza età, casalinghe. Forse non basta togliere la targa che ricorda le donazioni della famiglia Sackler, produttrice di Oxycontin, dal Metropolitan Museum di New York, per mettere in chiaro chi sono “i cattivi” in questa storia, di chi sono le colpe, come sono andate le cose insomma, come certa pubblicistica ci indurrebbe a fare. Anche a questo, dunque, servirebbero le Conferenze triennali: a contestualizzare, a fare il punto, a dare strumenti analitici nonché dati su cui lavorare a tutti, politici, giornalisti, comuni cittadini. Sarebbe bello se la prossima Conferenza, per esempio, ospitasse anche il lavoro di ricerca degli storici, per dire. A questo doveva rispondere la Conferenza di Genova di un anno fa. Ma non mi pare che i risultati siano diventati oggetto di pubblico dibattito in alcun modo. La fine della legislatura e il silenzio di ogni partito sulle droghe in campagna elettorale ha fatto il resto. Cosa fare - Eppure a Genova si è messo in chiaro, fra non poche contraddizioni visto che vi sedevano tutti, proibizionisti e non, il fatto che in Italia le urgenze sono fondamentalmente due: cambiare la vigente legislazione antidroga (art. 1, D.P.R. 309/1990), e adottare il nuovo Piano d’azione italiano sulle dipendenze (PAND) presentato alla stampa solo quattro giorni fa. I motivi per cui la legge del 1990 va modificata li ho esposti nelle settimane scorse in diversi interventi e non ci torno sopra se non per ricordare l’insostenibile situazione delle carceri italiane dove vengono rinchiuse centinaia di persone per reati che il senso comune ormai non ritiene più tali (piccolo spaccio di droghe leggere da parte di consumatori). Di due giorni fa la notizia per cui anche il presidente americano Joe Biden ha annunciato di voler cancellare i crimini federali per possesso di cannabis. “Migliaia di persone sono in carcere per questo, mettiamo fine a questo approccio fallimentare”. Se Biden, presidente della nazione che ha “inventato” l’ideologia stessa della “guerra alla droga” dice questo, forse siamo davvero di fronte a una svolta epocale. L’Onu e la cannabis - Una conseguenza del 2 dicembre 2020, un giorno che verrà ricordato per molto tempo, scrive Leonardo Fiorentini nel suo L’onda verde. La fine della guerra alla droga (officinadihank 2021): “È la data di una storica inversione di marcia della macchina del controllo internazionale sulle droghe, sancita dal voto dell’Onu sulla raccomandazione dell’Organizzazione Mondiale della Sanità sulla declassificazione della cannabis. La decisione della Commission on Narcotic Drugs dell’Onu è una pietra miliare sulla strada della riforma, non solo perché sono caduti due tabù, quello sulla cannabis e quello dell’immodificabilità delle convenzioni, ma anche perché la massima autorità sanitaria mondiale è riuscita a convincere La “Chiesa della proibizione”, che la cannabis non è la “pianta del demonio”, bensì una risorsa terapeutica. Certo è stato molto difficile farlo: due anni di lavoro preparatorio, altri due per arrivare ad un voto risicatissimo, ventisette voti a favore contro venticinque contrari ed un astenuto. Questo, insieme alla successiva bocciatura delle ulteriori raccomandazioni che l’Oms aveva prodotto, rappresenta la testimonianza che il vento ideologico del proibizionismo soffia ancora forte nel mondo, alimentato da Russia e Cina”, ma che forse sta per crollare. Dov’è la depenalizzazione? Eppure, nel Piano d’azione sulle dipendenze (a differenza che nella relazione in parlamento) è scomparso ogni riferimento alla depenalizzazione della cannabis, tema certo inviso alle destre, per cui viene da chiedersi se il passo indietro su questo punto sia propedeutico a ragionare sul resto o semplicemente una dichiarazione di resa per cui, caduto il governo che l’ha voluto, del Piano non si saprà più niente. Il Piano d’azione sulle dipendenze, del resto, non certo in sé rivoluzionario in alcun modo. Si struttura in tre parti: riduzione della domanda (prevenzione trattamento assistenza, riduzione dell’offerta (garantire la sicurezza sociale), affrontare i danni connessi alle dipendenze. Sulla sua applicabilità la ministra per le Politiche Giovanili Fabiana Dadone, pochi giorni fa, ha manifestato all’Ansa una viva preoccupazione riguardo ai ritardi cronici della situazione italiana in tema di limitazione dei rischi e di riduzione del danno. “Il nostro Paese da questo punto di vista non è fra i più aggiornati e anche attraverso il confronto con gli esperti dell’Emcdda che hanno preso parte ai lavori del Pand è emerso forte il bisogno di sperimentare l’efficacia di alcune tipologie di servizi ad oggi poco presenti o del tutto assenti: drug checking e sperimentazioni delle stanze del consumo, fanno parte delle proposte emerse. Un approccio al tema del consumo tra medico e culturale che è presente in realtà come Svizzera, Germania, Spagna, Francia, Paesi Bassi o in Norvegia”. Il piano, senza dubbio, risente della mancanza di una visione unitaria anche perché hanno concorso a scriverlo 271 esperti del settore in rappresentanza di tutte le reti dei servizi pubblici e del terzo settore. Malgrado questo, che potrebbe apparire un limite, il piano è un punto di partenza ineludibile, coerente con le linee guida in materia di dipendenze elaborate in sede Ue. Secondo Hassan Bassi, esperto che ha partecipato ai lavori per conto di Forum droghe: “Dovremmo sicuramente ripartire da lì. Soprattutto per quanto riguarda quelle azioni previste di Riduzione del danno che hanno ormai dimostrato la loro efficacia in termini di sicurezza e salute pubblica diffuse in tutta Europa, come il drug checking e le stanze per il consumo sicuro. Il piano rilancia anche l’esigenza di un approccio multi attore dei servizi sociali e sanitari che sappia valorizzare il protagonismo dei destinatari, senza il quale è ormai acclarato, gli interventi sono autoreferenziali e inefficaci”. Che cosa ci dobbiamo aspettare dai prossimi mesi, dunque, appare avvolto nella più totale incertezza. Si andrà avanti nella direzione indicata a Genova? Ci si allineerà alle indicazioni del presidente Biden? A quelle dell’Unione europea in tema di riduzione del danno? Oppure si farà di nuovo, ancora una volta, finta di niente. Continuando a punire chi usa sostanze senza alcun altro tipo di intervento andando ad allungare le vittime nostrane di quella guerra alla droga che ormai, a quanto sembra, hanno rinnegato anche i suoi padri fondatori, constatandone il fallimento? Stati Uniti. Biden cancella la pena a 6.500 persone condannate per possesso di marijuana di Livia Paccarié huffingtonpost.it, 8 ottobre 2022 Un cambiamento fondamentale nella risposta dell’America a una droga che è stata al centro di uno scontro tra cultura e polizia per più di mezzo secolo e che potrebbe rappresentare un passo verso la legalizzazione. “Mandare le persone in prigione per il possesso di marijuana ha sconvolto troppe vite - per un comportamento che è legale in molti Stati”. Sono le parole che ha detto il presidente degli Stati Uniti Joe Biden in un videomessaggio pubblicato sul suo profilo Twitter, annunciando la cancellazione delle pene dei condannati per il reato federale negli USA di possesso di marijuana. Biden ha ricordato che lo aveva promesso durante la campagna elettorale per le elezioni presidenziali. “Cominciamo a riparare questi errori”, ha proseguito nel video, riferendosi poi alle disparità di matrice razzista che alcuni cittadini hanno dovuto subire nei processi giudiziari. “Mentre i bianchi e i neri fanno uso di marijuana a tassi simili, i neri vengono arrestati, perseguiti e condannati a tassi sproporzionatamente più alti”. Una persona nera infatti ha più del triplo delle probabilità di essere arrestata per possesso rispetto a una persona bianca, secondo un rapporto dell’A.C.L.U. che ha analizzato i dati sugli arresti per marijuana negli Stati Uniti dal 2010 al 2018. Secondo il Washington Post con questa mossa il presidente dà una forte spinta per la legalizzazione di questa droga. Biden ha anche rivolto un invito ai governatori perchè per quanto di loro competenza compiano atti di clemenza come il suo nei confronti di chi detiene la marijuana per uso personale. Ha poi detto che la sua amministrazione vuole accelerare una revisione del modo in cui la marijuana è categorizzata come drega, se debba essere ancora inserita nella tabella 1 del sistema americano di classificazione legale delle sostanze psicoattive, la stessa di eroina, LSD ed ecstasy, che contribuisce a determinare il tipo di pene previste. Cambiare categoria alla cannabis potrebbe anche rappresentare un cambiamento nel modo in cui la sostanza è considerata nel mondo, data l’influenza che gli Stati Uniti esercitano da decenni a livello internazionale sul tema delle droghe. La cancellazione della pena riguarda tutti coloro che sono stati condannati con accuse federali di possesso di marijuana, da quando è diventato un crimine negli anni Settanta. I funzionari del governo hanno riferito al New York Times che sono circa 6.500 le persone condannate per il possesso tra il 1992 e il 2021, ma i dati non sono completi. La grazia non si applica invece alle persone condannate per vendita o distribuzione di marijuana. I funzionari hanno anche fatto sapere che non ci sono persone che stanno scontando una pena nelle carceri federali per il possesso di marijuana ma che l’azione di Biden aiuterà chi cerca di ottenere un lavoro, trovare un alloggio, iscriversi all’università oppure ottenere benefici federali a eliminare un ostacolo significativo. Le dichiarazioni del presidente, che arrivano a un mese dalle elezioni di midterm e potrebbero accrescere il sostegno dei democratici, sembrano indicare, almeno nelle intenzioni, un cambiamento fondamentale nella risposta dell’America a una droga che è stata al centro di uno scontro tra cultura e polizia per più di mezzo secolo. Biden si è astenuto dal chiedere la completa depenalizzazione della marijuana, compito che spetta al Congresso. Ma ha detto che il governo ha ancora bisogno di poter contare su “importanti limitazioni al traffico, alla commercializzazione e alla vendita di marijuana ai minorenni”. Comunque le sue posizioni allineano il governo federale a quelle già assunte da alcuni governi statali, che hanno ridotto o eliminato le pene per il possesso di cannabis. La marijuana è già pienamente legale in circa 20 Stati, e alcuni altri Stati hanno attenuato le sanzioni penali, secondo la DISA, la società di test antidroga che tiene traccia delle leggi statali sulla marijuana. La stragrande maggioranza degli arresti per marijuana ricade sotto la giurisdizione degli Stati, ma il reato ha rappresentato circa un terzo degli arresti per possesso di droga effettuati a livello nazionale da funzionari statali e federali. Secondo i dati preliminari dell’FBI, più di 170.800 dei circa 490.000 arresti per possesso di droga nel 2021 erano legati al possesso di marijuana. Il presidente americano durante i suoi 36 anni al Senato ha contribuito ad approvare una serie di leggi che hanno gettato le basi per incarcerazioni di massa. In campagna elettorale si è scusato per alcune parti di una delle misure più aggressive che aveva sostenuto, la legge sul crimine del 1994, la cosiddetta legge dei “three strikes”, per cui chiunque venga condannato per la terza volta per qualsiasi crimine di una certa entità viene mandato in prigione per una pena compresa tra i 25 anni e l’ergastolo. La legge venne istituita tramite referendum, cavalcando una forte ondata di rabbia dell’opinione pubblica nei confronti di chi continuava a compiere reati gravi una volta scontata la pena. Solo nel 2004 il 60% di questo tipo di detenuti era stato condannato per crimini di droga e i “three strikers” per droga, nelle prigioni, rappresentavano un numero superiore di dieci volte quello dei condannati per la stessa legge, ma per il reato di omicidio. Dopo l’annuncio della grazia da parte di Biden, si sono susseguite diverse reazioni. Alcuni critici repubblicani si sono scagliati contro il presidente. “Nel bel mezzo di un’ondata di criminalità e sull’orlo della recessione, Joe Biden concede una grazia generalizzata a chi commette reati di droga”, ha dichiarato il senatore Tom Cotton, repubblicano dell’Arkansas. “È un tentativo disperato di distrarre l’attenzione da una leadership fallimentare”. Altri gruppi invece hanno esortato Biden ad agire per dimostrare il suo impegno a riformare le iniquità del sistema giustiziario. Inimai Chettiar, direttore federale della Justice Action Network, ha definito la mossa del presidente “un passo davvero buono” e ha detto che la revisione del modo in cui i futuri crimini legati alla marijuana saranno perseguiti rappresenta la volontà di cambiare una decisione politica che equipara la cannabis alle altre droghe, “cosa che sappiamo non essere vera”. M anche alcuni oppositori della piena legalizzazione della marijuana hanno lodato la mossa di Biden, affermando che si tratta di un buon modo per evitare di andare oltre. “Nessuno merita di finire in prigione per uno spinello”, ha detto Kevin Sabet, che guida Smart Approaches to Marijuana, gruppo che si oppone alla legalizzazione. “Ma non dovremmo nemmeno vendere prodotti con THC altamente potenti, né promuovere e incoraggiare l’uso tra i giovani”. Già a luglio una mezza dozzina dei senatori più liberali del Senato aveva scritto a Biden una lettera in cui lo esortava a prendere queste misure. “L’incapacità dell’amministrazione di coordinare una revisione tempestiva della sua politica sulla cannabis sta danneggiando migliaia di americani, rallentando la ricerca e privando gli americani della possibilità di usare la marijuana per scopi medici o di altro tipo”, scriveva il gruppo di senatori, tra cui i suoi ex rivali Bernie Sanders, indipendente del Vermont, ed Elizabeth Warren, democratica del Massachusetts. Stati Uniti. Quanto costano le armi agli americani: ogni anno in fumo 557 miliardi di dollari di Sergio D’Elia Il Riformista, 8 ottobre 2022 Radio radicale è un pozzo di conoscenza. Cercare nel suo archivio, ascoltare le sue rubriche e le sue dirette integrali, è come andare a scuola, un’alta scuola popolare di formazione politica e civile. Così l’ha pensata e fondata Marco Pannella. L’ultima Rassegna di Geopolitica di Lorenzo Rendi ha dato un contributo straordinario al sapere quel che può accadere quando scopi giusti sono perseguiti con mezzi sbagliati. L’eterogenesi dei fini non è un mero incidente, è spesso un destino del nostro modo di agire. Le conseguenze e gli effetti secondari possono essere tali da modificare tragicamente gli scopi originari delle nostre azioni. Lorenzo Rendi ha dato conto di uno studio di Everytown for Gun Safety Support Fund sui “costi economici della violenza armata negli Stati Uniti”. Secondo questa grande organizzazione americana di prevenzione della violenza armata che unisce anche i sopravvissuti e le famiglie delle vittime, ogni anno, le armi da fuoco uccidono in media 40.000 persone, ne feriscono il doppio con una conseguenza economica per la nazione di 557 miliardi di dollari, pari al 2,6 per cento del prodotto interno lordo. Questo problema miliardario della violenza armata per le casse degli Stati e per i contribuenti americani include: i costi immediati che iniziano sulla scena di una sparatoria, come indagini di polizia e cure mediche; i costi successivi, come cure, assistenza sanitaria fisica e mentale a lungo termine, guadagni persi a causa di invalidità o morte e spese di giustizia penale; le stime dei costi della qualità della vita persa nel corso del tempo per il dolore e la sofferenza delle vittime e delle loro famiglie. L’analisi evidenzia che Stati con leggi severe sulla sicurezza delle armi hanno un costo annuale inferiore per la violenza armata rispetto agli Stati con leggi permissive sulle armi. La storia americana è iniziata con la Bibbia e il fucile. L’antico testo ha ispirato l’idea di giustizia: occhio per occhio. L’arma da fuoco ha ispirato l’idea di sicurezza: un cittadino, un’arma. Le “armi legittime” dello Stato, pene di morte e pene fino alla morte, non hanno fatto diminuire i reati. Le armi costituzionali di prevenzione e tutela personale non hanno garantito la sicurezza. Anzi, prevenire è stato peggio che punire. La libera circolazione delle armi ha minato l’ordine, la sicurezza e la pace sociali negli Stati Uniti. La società “legge e ordine”, il potere politico nato dalla canna del fucile per neutralizzare i delitti di sangue, per tragico paradosso, ha conosciuto la realtà dell’omicidio come crimine praticato con frequenza maggiore rispetto al resto del mondo. È sempre una questione di cattivi pensieri. Il pensiero maligno della giustizia biblica ha generato la realtà maligna della “striscia della Bibbia” che coincide con quella della pena di morte. L’ossessione della sicurezza ha alimentato quel complesso militare-industriale che il generale Ike Eisenhower, Presidente degli Stati Uniti, già nel 1961, denunciava come un pericolo mortale per l’umanità, e per la stessa America. È la maledizione dei mezzi che prefigurano i fini. Sul viatico manicheo di pena capitale e di “legge e ordine” anche uno Stato democratico può generare Caini o diventare esso stesso Caino! È ora di cambiare paradigma, di adottare un modo di pensare, di sentire e di agire radicalmente nonviolento. Fare leva sulla forza della parola e del dialogo, della speranza e, innanzitutto, dell’amore che è il principio attivo della nonviolenza. Perché la vittoria decisiva non consiste nell’abbattere fisicamente o umiliare moralmente il nemico, ma nel con-vincere, vincere con, trasferire al potere assassino e all’ordine costituito sul delitto, la forza dello Stato di Diritto e l’amore per lo stato della vita. Il paradigma meccanicistico secondo la quale “al male, si risponde con il male”, a ben vedere, non corrisponde alla realtà dell’universo e all’ordine naturale delle cose, il quale non tollera confini chiusi, separazioni; al contrario, ama le relazioni, le interdipendenze, l’armonia di una vita eraclitea nella quale “tutto scorre come un fiume e non ci si bagna mai nella stessa acqua”. Quale spreco di energia nell’essere “diabolici”, nel separare, nel porre in mezzo ostacoli! Ascoltiamo la voce di fondo dell’universo, assecondiamo il principio d’ordine da cui tutto origina e a cui tutto tende. È un ordine “religioso”, che unisce, tiene insieme cose e vite diverse. Parlare al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza. Questo vuol dire “Nessuno tocchi Caino”! E non riguarda solo la pena di morte, la pena fino alla morte o la morte per pena. La missione è politica, ecologica, universale. Riguarda la vita del diritto e il diritto alla vita. Vuol dire vivere nel modo e nel senso in cui vuoi vadano le cose. Essere speranza contro ogni speranza. Gran Bretagna. Una catena umana per salvare Assange circonderà il Parlamento inglese di Rossella Guadagnini micromega.net, 8 ottobre 2022 L’8 ottobre la grande manifestazione a Londra per liberare il giornalista australiano. Una catena umana per salvare Julian Assange circonderà il Parlamento di Londra l’8 ottobre per chiedere la liberazione del fondatore di Wikileaks, da tre anni detenuto nella prigione di massima sicurezza di Belmarsh, detta la “Guantanamo di Londra”. È un altro capitolo della clamorosa saga giudiziaria che ha suscitato interrogativi e dubbi in Europa e nel mondo sui confini tra libertà di stampa e sicurezza nazionale dei paesi, che rischia di mettere nuovi limiti alla possibilità di informare l’opinione pubblica sull’operato dei governi. L’incriminazione di Assange per spionaggio e cospirazione riguarda lo svelamento di segreti di Stato attraverso migliaia di file diffusi dall’organizzazione da lui fondata Wikileaks, in particolare sui crimini di guerra compiuti dai soldati statunitensi durante i conflitti in Iraq e in Afghanistan. L’orario d’inizio della manifestazione è previsto per le 13: è atteso un gran numero di partecipanti nella capitale britannica fin dalla prima mattina, non solo attivisti, ma anche comuni cittadini, provenienti da luoghi distanti del Regno Unito e dall’estero. Ci saranno alcune interruzioni di viaggio sulla rete ferroviaria, a causa dello sciopero fissato per sabato. Un team di steward alla stazione di Westminster indirizzerà le persone verso il posto da occupare nella catena. “Quando tutti saranno arrivati - spiegano gli organizzatori - sarà ora di unire le braccia: le sirene dei megafoni e le trombe daranno il segnale. Un altro segnale suonerà per chiudere la protesta”, dopo che Stella Moris Assange, avvocata 38enne sudafricana, moglie dal marzo scorso del giornalista australiano, e altri intervenuti avranno rilasciato dichiarazioni alla stampa. Julian Assange ha presentato, tramite i suoi avvocati, istanza di ultimo appello presso l’Alta Corte di Londra contro il decreto di estradizione negli Usa, autorizzato il 17 giugno scorso dalla ministra degli Interni inglese Priti Patel. Se verrà estradato negli Stati Uniti rischia una condanna a 176 anni di carcere che significherebbe, in pratica, la sua condanna a morte. Per il fondatore di Wikileaks - accusato di aver rivelato al mondo le prove di atti di criminosi di cui ha responsabilità il governo americano- non ha avuto valore neppure la tutela del Primo Emendamento della Costituzione statunitense, che afferma: “Il Congresso non promulgherà leggi per il riconoscimento ufficiale di una religione, o che ne proibiscano la libera professione; o che limitino la libertà di parola, o della stampa”. Il giornalista è stato incolpato in base all’Espionage Act, una vecchia legge del 1917, usata negli ultimi anni anche da Trump (quando era alla Casa Bianca) contro le spie e per perseguire i responsabili di fughe di notizie e i ‘whistleblower’, come sono chiamati i funzionari pubblici che denunciano irregolarità interne al sistema. Questa normativa stabilisce che è illegale la raccolta di informazioni, fotografie o copie di documenti relative alla difesa nazionale con l’intento di usarle contro gli Stati Uniti o nell’interesse di altre nazioni. Gli avvocati di Julian Assange - a loro volta - hanno fatto causa alla Cia accusandola di aver spiato gli incontri con il loro cliente, mentre era rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Nel ricorso si chiama in causa una società di sicurezza privata, la Uc Global, ed il suo responsabile, per aver illegalmente registrato i colloqui per consegnarli all’agenzia di spionaggio americano, allora guidata da Mike Pompeo. Numerose le iniziative in appoggio ad Assange da parte di organismi come Amnesty International e gli appelli per la sua liberazione: dall’inviato speciale dell’Onu contro la tortura Nils Melzer al Premio Nobel per la Pace Adolfo Maria Pérez Esquivel. L’analista informatico Edward Snowden, americano naturalizzato in Russia, ha sostenuto che “Assange è un prigioniero politico”. Solidarietà e mobilitazioni hanno attraversato il pianeta, dall’Europa all’Australia, dove vive il padre di Assange, John Shipton, e il fratello Gabriel. In Italia, si sono svolti eventi di sensibilizzazione dell’opinione pubblica, organizzati dai principali organismi della stampa, a partire dalla Fnsi, Ordine dei giornalisti e sindacati, preoccupati per le conseguenze che un verdetto negativo potrebbe avere sulla libertà di informazione e i diritti umani. L’Italia arma la “sicurezza” che soffoca l’Egitto di Valentina D’Amico Il Manifesto, 8 ottobre 2022 Un decennio di cooperazione anti-migranti: da Roma per al-Sisi elicotteri, tecnologie (e manutenzione), motovedette e addestramento. E i rapporti si sono intensificati tra il 2016 e il 2019, dopo l’omicidio di Giulio Regeni. Dall’Egitto non partono più, o quasi, imbarcazioni di migranti irregolari. Lo dice l’Euaa, European Union agency for asylum, in un rapporto pubblicato a luglio scorso. Il risultato è stato raggiunto grazie a una legislazione severa contro il traffico di esseri umani introdotta dal Cairo nel 2016 e che prevede per i trafficanti la reclusione, i lavori forzati e multe comprese tra 200mila e 500mila lire egiziane (circa 10mila e 25mila euro). L’Unione europea ha sostenuto l’impegno del governo egiziano stanziando circa 60 milioni di euro tramite il Fondo fiduciario di emergenza per l’Africa. Un esborso che supera ogni precedente sovvenzione e che finora però, oltre all’istituzione di numeri di emergenza per denunciare casi di tratta, l’apertura di centri di accoglienza per le vittime e un progetto per creare opportunità di lavoro in 70 villaggi, il cui impatto sui tassi di migrazione non è noto, sembra essere stato destinato “alla sicurezza e al rafforzamento delle frontiere, piuttosto che affrontare le cause della migrazione irregolare”, annota nel suo rapporto l’Euaa. A ben guardare, infatti, i flussi dall’Egitto non si sono arrestati, hanno finito semplicemente per essere dirottati verso l’inferno libico dove, in soli due mesi, dicembre 2021-gennaio 2022, sono stati registrati 117.156 migranti egiziani, la seconda più grande popolazione migrante del paese (dati Organizzazione internazionale per le migrazioni). Secondo il ministero dell’Interno italiano, tra il primo gennaio e il 13 giugno 2022, sono sbarcati in Italia 3.935 egiziani (il 18% degli sbarchi del periodo), superati solo dai bengalesi. Per Euromed Rights, tra le più grandi reti di organizzazioni per i diritti umani della regione euromediterranea, i ritardi nell’attuazione dei progetti concordati suggeriscono che la cooperazione tra Ue e Il Cairo sia semplicemente funzionale a rafforzare “la legittimità internazionale di un regime sempre più autoritario” dei cui servigi l’Unione europea ha bisogno per controllare le frontiere. Per quanto riguarda l’Italia, la cooperazione con l’Egitto in materia di difesa e sicurezza risale alla fine degli anni Novanta e, secondo una ricerca di EgyptWide, associazione italo-egiziana con sede a Bologna, si è rafforzata di pari passo con la deriva securitaria delle politiche migratorie europee (che mettono nello stesso calderone migranti e terroristi) e il processo di esternalizzazione delle frontiere, ormai luoghi di sospensione delle garanzie giuridiche dove si viene trattenuti in attesa di rimpatrio, senza adeguata assistenza legale. Lo studio di EgyptWide, concernente le relazioni sull’attività delle forze di polizia che il ministero dell’Interno italiano presenta annualmente alle Camere, rivela che nel decennio 2010-2020 l’Italia ha messo a disposizione delle forze di polizia e del National security service egiziano (specializzato nella lotta al terrorismo e alle minacce alla sicurezza nazionale): venti elicotteri dismessi dalla polizia di stato italiana, ceduti a titolo gratuito; tecnologie Afis per l’identificazione delle persone migranti prima dell’arrivo alle frontiere esterne europee, la cui installazione e manutenzione annuale sono curate dal Servizio di polizia scientifica italiano; motovedette, veicoli di terra e altro equipaggiamento per il pattugliamento del territorio e delle acque nazionali; oltre 62 corsi di formazione, curati dal Dipartimento centrale affari generali della polizia di stato o dall’Arma dei carabinieri presso centri di addestramento in Italia e in Egitto; il distaccamento di esperti in materia di contrasto al terrorismo internazionale e migrazioni presso l’ambasciata italiana al Cairo. Una cooperazione che, segnala EgyptWide, non s’è arrestata nemmeno dopo “la promulgazione dell’embargo sulle forniture di sistemi d’arma al nuovo governo egiziano” stabilito dal Consiglio affari esteri dell’Ue nel 2013 “a seguito di massicce violazioni dei diritti umani per mano delle forze di sicurezza”. Il 2013 è stato l’anno del colpo di stato e dei massacri in due piazze del Cairo, Rabia al-Adaweya e al Nahda, quando oltre 900 persone furono uccise durante le proteste contro l’estromissione del presidente eletto, Mohamed Morsi, per mano del generale Abdel Fattah al-Sisi. Più di 650 partecipanti condannati “fino a 25 anni di carcere, sottoposti a isolamento e spesso torturati, altri 75 condannati a morte al termine di processi clamorosamente irregolari”, ha denunciato Amnesty International. L’avvio della cosiddetta “lotta al terrorismo” promossa da al-Sisi, in risposta alla minaccia di gruppi armati di matrice fondamentalista, si è tradotta poi in una sistematica repressione di qualsiasi forma di dissenso, anche pacifica, attraverso “il ricorso a sparizioni forzate, torture ed esecuzioni extragiudiziali per mano delle forze armate egiziane contro presunti combattenti e non solo”, denuncia EgyptWide. “Sappiamo che la polizia egiziana è coinvolta fino ai massimi vertici in gravissimi abusi dei diritti umani - dice Alice Franchini, ricercatrice di EgyptWide - Gli stessi presunti omicidi di Giulio Regeni sono alti ufficiali dell’Nss, l’apparato di sicurezza egiziano, per tutti questi anni interlocutore privilegiato delle autorità italiane del ministero degli interni e della polizia. Una cooperazione che non è stata interrotta neanche a seguito dell’omicidio di Regeni, l’offerta formativa più significativa si concentra proprio negli anni tra il 2016 e il 2019”. Proprio il giorno in cui arriva al Cairo il nuovo ambasciatore italiano, Giampaolo Cantini, il 13 settembre 2017, a un anno dal ritiro del rappresentante diplomatico italiano in seguito all’omicidio del ricercatore italiano, è stato dato avvio al progetto Itepa, International training at Egyptian police academy, volto a realizzare, all’Accademia di polizia del Cairo, un Centro internazionale di formazione specialistica per il controllo delle frontiere e la gestione dei flussi migratori indirizzato a 310 funzionari di polizia e ufficiali di frontiera di 21 paesi africani. Al termine di Itepa nel 2019, è stato avviato Itepa2 che sarebbe dovuto terminare a settembre 2022 ma sul sito del ministero dell’Interno risulta ancora in attuazione. Entrambi sono stati finanziati con il Fondo per la sicurezza interna dell’Ue a disposizione dell’Italia: poco più di due milioni e 147 mila euro per Itepa e un milione e 64 mila euro per Itepa2. “Fondi che vanno inevitabilmente a vantaggio del ministero dell’Interno egiziano”, ha scritto il 14 aprile 2020 il parlamentare europeo Miguel Urbán Crespo del gruppo della Sinistra Due/Ngl in un’interrogazione alla Commissione europea per sapere “quale meccanismo o processo esista per verificare l’uso finale dei finanziamenti… e per valutare l’impatto sui diritti umani di questi programmi”. La Commissione ha risposto di essere “consapevole della violazione dei diritti umani in Egitto” e che la tutela degli stessi è “tematica trasversale in ogni ambito formativo”. Finora “le autorità italiane non hanno fornito alcuna risposta soddisfacente a questi interrogativi”, chiosa EgyptWide. I detenuti di tutto il mondo potranno partecipare ai campionati mondiali di scacchi di Pasquale Coccia Il Manifesto, 8 ottobre 2022 Sport in carcere. I detenuti di tutto il mondo potranno partecipare ai campionati mondiali di scacchi online, promossi dalla Federazione internazionale degli scacchi (Fide): la competizione si svolgerà il 13 e 14 ottobre 2022. Oltre le sbarre per dare scacco al re e andare verso una nuova vita con maggiore consapevolezza. Meditare a lungo prima di fare una mossa che può compromettere il risultato di una partita è una qualità che i detenuti affinano in carcere tramite la scacchiera, metafora di una vita che oltre le sbarre non ammette mosse avventate. L’esercizio mentale quotidiano con una scacchiera davanti allo schermo richiede di valutare le conseguenze di una mossa, sapendo che dall’altra parte a distanza di chilometri c’è un altro detenuto che cerca di metterti in difficoltà e vuole vincere. È un allenamento mentale che rappresenta non solo uno stimolo per il sistema nervoso, ma anche l’abitudine a prendere decisioni dopo aver valutato tutte le ipotesi e le relative conseguenze. Se la scacchiera è metafora della vita e forse per alcuni aspetti anche maestra di vita, la mossa sbagliata all’interno di una partita di scacchi consente all’avversario di chiudere la partita e tutto resta nell’ambito ludico, se, invece, la mossa sbagliata porta nella cella di una prigione il prezzo è alto e si paga in prima persona. Tra qualche giorno a far vivere a chi abita le prigioni due giornate ludiche all’insegna della competizione sarà proprio la scacchiera on line. Un’evasione mondiale - I detenuti di tutto il mondo, infatti, potranno partecipare ai campionati mondiali di scacchi on line, promossi dalla Federazione internazionale degli scacchi (Fide), la competizione si svolgerà il 13 e 14 ottobre, la partecipazione è gratuita. La competizione scacchistica mondiale è riservata a squadre di uomini, donne e giovani al di sotto dei 20 anni (per tutte le informazioni:chessforfreedom.fide.com/) e rientra nel programma delle più ampie iniziative promosse in occasione della Giornata internazionale dell’Educazione nelle carceri. Ogni squadra può essere costituita da quattro giocatori, ma il numero delle riserve pronte a subentrare è illimitato, mentre ogni Paese può essere rappresentato da un massimo di tre squadre (per l’Italia al momento in cui scriviamo si è iscritta solo la squadra del carcere di Spoleto). Alla competizione internazionale di ottobre risultano finora iscritti i detenuti delle carceri di Argentina, Armenia, Australia, Bosnia ed Erzegovina, Colombia, Repubblica Ceca, Ecuador, Inghilterra, Germania, India, Kirghizistan, Mongolia, Macedonia del Nord, Norvegia, Isole Turks e Caicos, Filippine, Serbia, Sud Sudan, Spagna, e Stati Uniti. Scacco all’ansia - L’idea di promuovere un campionato mondiale di scacchi è nata durante la pandemia del Covid-19, quando i detenuti della Contea di Cook (Chicago) si cimentarono in un torneo interno on line di scacchi, su iniziativa dello sceriffo della Contea, appassionato di scacchi, che aveva notato un aumento esponenziale dell’ansia tra i detenuti a causa del Covid. Durante la pandemia sperimentò che impegnare per ore i detenuti innanzi alla scacchiera attenuava i loro stati di ansia. Di qui la proposta alla Federazione scacchistica internazionale, presieduta dal russo Arkadij Dvorkovic, da poco rieletto, che l’anno scorso ha promosso in via sperimentale il primo campionato internazionale e sulla base dell’esperienza del 2021 a ottobre si svolgerà il secondo appuntamento scacchistico on line su scala mondiale riservato ai detenuti. Maestri in carcere - In alcuni paesi, come le Filippine, che ai mondiali dell’anno scorso si è classificata al quinto posto, in numerosi penitenziari i detenuti oltre a leggere libri di approfondimento sulle tattiche e tecniche scacchistiche, si sono avvalsi della presenza di maestri di scacchi riconosciuti sul piano internazionale come Shrihaan Poddar e Winston Silva, per migliorare il loro livello di gioco, un’esperienza che ha visto protagonista in particolar modo l’istituto penitenziario di General Santos City a South Cotabato, nelle Filippine. Anche negli istituti penitenziari dell’India si sono svolti tornei per selezionare i migliori detenuti scacchisti per rappresentare il proprio paese ai mondiali di ottobre. In Italia a promuovere gli scacchi in alcuni istituti di pena tra i quali quello di Spoleto è stato l’istruttore Mirko Trasciatti che tra il 2015 e il 2018 ha tenuto varie lezioni e oggi prepara i detenuti della città umbra che parteciperanno ai mondiali di ottobre: “Gli scacchi non sono solo passione e hobby ma rappresentano un potente strumento di aggregazione sociale. Nelle carceri ci sono detenuti di varie etnie e lingue, che si contrappongono tra loro lasciandosi andare spesso a considerazioni razziali, ma davanti alla scacchiera non esistono discriminazioni. Ho visto detenuti parlare di scacchi con le guardie carcerarie e cercare di risolvere insieme a loro degli esercizi”. Diamoci una mossa - Sulla base dell’esperienza avviata nel carcere di Spoleto, tra il 2015 e il 2022 anche nel carcere di massima sicurezza di Terni e poi di Pesaro-Urbino alcuni detenuti si sono avvicinati al gioco degli scacchi fino a prendere parte a un vero torneo. Naturalmente la fantasia di chi è dietro le sbarre non conosce limiti, la squadra del carcere di Foligno è ricorsa all’ironia e si è data il nome “Diamoci una Mossa”. I detenuti di Foligno partecipano al campionato nazionale a squadre di serie C promosso dalla Federazione italiana scacchi del Coni e quando le distanze lo permettono nelle partite casalinghe ospitano gli avversari, che sono liberi cittadini, come è avvenuto nell’incontro con gli scacchisti di Viterbo che hanno intitolato la loro squadra a Bobby Fischer. Gli occhi dei detenuti appassionati di scacchi sono puntati tutti sulla contea di Cook a Cicago, dove la Federazione scacchi internazionale ha allestito il centro per l’organizzazione dei mondiali, che il 13 e 14 ottobre si potranno seguire interamente sul canale You Tube della Fide.