Dalla crisi energetica la scintilla per nuove rivolte nelle carceri di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 ottobre 2022 Tutti gli analisti sono concordi. Attraverseremo un momento difficile dal punto di vista energetico, tanto da far ipotizzare possibili razionamenti nella fornitura, ivi compresa la corrente elettrica, e addirittura blackout. Come abbiamo già visto con l’emergenza Covid 19, tra l’altro ancora non scongiurata, il carcere è quello che subisce di più, tanto da aver provocato violente rivolte. Ancora una volta il sistema penitenziario si ritroverà impreparato? Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, chiede al capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap) se è stato attivato un piano di intervento, onde evitare l’irreparabile. Il problema della fornitura elettrica e termica nelle carceri, di fatto era già persistente. Non di rado avvengono guasti, e si creano tensioni. I costi poi sono altissimi, tanto che nel passato, le forniture di acqua, luce, gas, energia elettrica, combustibili da riscaldamento, hanno determinato spese correnti insostenibili, che solo con l’artificioso rinvio delle liquidazioni da un esercizio all’altro sono state onorate. Non è un caso che con i fondi del Piano nazionale di ripresa e resilienza, sono 58 gli interventi di edilizia giudiziaria e penitenziaria distribuiti su tutto il territorio nazionale. Le attività sono prevalentemente indirizzate all’efficientamento termico e al risparmio energetico degli edifici giudiziari e al miglioramento dell’edilizia penitenziaria. Ma parliamo di un discorso a lungo termine, senza dimenticare che in Italia abbiamo 198 carceri, la maggior parte vecchie e quindi con maggiore dispersione energetica. Ma ritorniamo all’allarme lanciato dalla Uilpa. “La probabile recrudescenza della curva dei contagi da Covid- 19, il caro vita con possibili tensioni sociali e, soprattutto, la crisi energetica che potrebbe mettere a rischio la fornitura di basilari servizi nelle carceri, come l’illuminazione, i riscaldamenti, l’acqua calda e, persino, la preparazione dei pasti, rischiano di causare gravissime difficoltà per la tenuta dell’intero sistema penitenziario e d’innescare una miscela esplosiva ancora peggiore di quella vissuta nel marzo del 2020, che provocò 13 morti, centinaia di feriti e devastazioni”, denuncia il segretario De Fazio, sottolineando che è palese “che se vi fossero razionamenti di fonti energetiche e addirittura interruzioni alla fornitura della corrente elettrica, così come carenza di carburante per gli automezzi, andrebbero in crisi sia la già risicata sicurezza penitenziaria, sia i servizi minimi da fornire all’utenza detenuta”. Per questo osserva che è di vitale importanza, e non solo metaforicamente, allora, che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e tutte le sue articolazioni centrali e periferiche non si facciano cogliere nuovamente impreparati ad accadimenti comunque prevedibili. La Uilpa, per quanto accennato e nella speranza che il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria e tutte le sue articolazioni centrali e periferiche non si facciano cogliere nuovamente impreparati ad accadimenti comunque prevedibili, chiede al capo del Dap Carlo Renoldi di sapere con somma urgenza se siano stati condotti studi e rilevazioni compiute in merito al fabbisogno energetico di tutti gli edifici, le strutture, gli automezzi e quanto necessario a garantire la funzionalità e la continuità dei servizi istituzionali e se sia stato approntato o meno un piano d’intervento da attuare in caso di bisogno. Giustizia: carcere, Flick, Incalza di Valter Vecellio L’Opinione, 7 ottobre 2022 L’appello, il monito, l’allarme, lo si chiami come si vuole, è particolarmente autorevole, oltre che accorato. Il presidente emerito della Corte costituzionale, ma anche ministro della Giustizia e giurista tra i più apprezzati, Giovanni Maria Flick, sceglie la platea congressuale dell’Unione delle Camere penali per ricordare l’urgenza di quella che continua a essere la madre di tutti i problemi di questo Paese: la giustizia e il suo epifenomeno, il carcere. Flick premette che le pur caute, timide riforme dell’ormai ex ministro, Marta Cartabia, hanno un elemento positivo: “Siamo usciti dall’equivoco secondo cui le riforme della giustizia vanno scritte sotto il diritto di veto e di beneplacito della magistratura. Perché è così che è andata negli anni precedenti”. Tra le tante priorità, Flick individua innanzitutto quella del carcere: “Grave, incivile situazione: indegna perché appunto offende innanzitutto la dignità”. Non si può più attendere: “Va riconsiderato il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena. Va tenuto presente che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona, perché nega l’affettività, priva dello spazio e annulla il tempo. Il tempo cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, della speranza. Sul carcere le riforme sono urgenti”. Il timore di Flick, non infondato, che ancora una volta le questioni giustizia/carcere non siano una priorità della classe politica, che rinnoverà gli errori del passato lavandosene le mani. Un caso emblematico, prima di concludere questa nota. Ercole Incalza è un manager di lunga, sperimentata esperienza, tra l’altro alto ex dirigente del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti. È incappato in disavventure giudiziarie e per ben diciassette volte è assolto. Ermes Antonucci de “Il Foglio” raccoglie la sua desolata e amara riflessione: “Questa giustizia scoraggia chi gestisce la Pubblica amministrazione a rimanerci”. Ne ha ben motivo: si conclude con una quantità di assoluzioni (venti imputati su ventisette) il processo sulle presunte tangenti relative al cantiere del Terzo Valico. Per quanto riguarda Incalza, si stabilisce che “il fatto non sussiste”. Significa che non c’è, non esiste; non è mai esistito. Questo per 17 volte. Incalza la prende con filosofia, ma traspare amarezza: “È facile che prendano corpo delle denunce, molte volte anche degli attacchi da parte di schieramenti politici, e che quindi si diventi involontariamente martiri. Fortunatamente poi arriva la giustizia, anche se il tempo costituisce un fattore importante. Ci sono casi in cui un processo dura non uno o due anni, ma anche dieci anni. E poi, a dispetto di quanto si dica, cioè che si è innocenti fino a sentenza definitiva, la verità è che in Italia è sufficiente un rinvio a giudizio per essere immediatamente allontanati dal sistema”. Cesare Battisti detenuto comune? Macché scandalo, dovremmo esultare di Maria Brucale* Il Riformista, 7 ottobre 2022 Ègiusto che una persona che ha commesso un crimine terribile ormai quarant’anni fa venga punita oggi? È costituzionalmente orientata una sanzione che interviene quando il tempo ha reso l’artefice del delitto una persona nuova, risanata, inserita nel contesto sociale? La punizione, la necessità di infliggere una sofferenza che sia monito ed emenda, l’esigenza di restituire il male arrecato, spinte umanamente comprensibili, rispondono esclusivamente a una pulsione remunerativa, restitutiva, in ultima analisi, di vendetta sociale. Ma ha senso una pena che non tende a rieducare, a reinserire ma che interrompe un percorso, una vita di relazione ordinata e produttiva? È legittimo commisurare la privazione della libertà al nostro bisogno che chi ha arrecato ferite alla società sia privato della libertà, conosca il dolore e la sofferenza? Il concetto di Giustizia riflette quello della mitezza, della grazia, dell’umanità, dell’utilità sociale. È l’imperativo costituzionale di ogni pena che ne disegna la finalità ultima del restituire e apre le porte all’oblio. Battisti è in carcere dal 2019 per reati commessi quarant’anni prima, terribili, certo. Ma come si fa a legittimare la compressione della libertà individuale che interviene su una persona ormai anziana che ha vissuto un tempo così lungo senza mai più incorrere nel delitto? I primi anni della sua carcerazione sono trascorsi in un indebito isolamento in sezioni di alta sicurezza. È giunta in questi giorni finalmente la notizia della declassificazione in un regime detentivo ordinario. Un provvedimento che interrompe una situazione di illegalità. I reati ascritti a Battisti, in astratto inalveabili nell’art. 4 bis o.p., non possono determinare le compressioni di diritti stabilite da tale norma che è stata introdotta soltanto nel 1991, oltre dieci anni dopo la commissione dei reati per cui è stato condannato. La legge non dispone che per l’avvenire, non ha effetto retroattivo; nessuno può essere punito se non in virtù di una legge entrata in vigore prima della commissione del reato. Sono principi costituzionali posti a cardine del diritto penale liberale che salvaguardano chi commetta un crimine da una punizione imprevedibile e, perciò stesso, ingiusta. L’art. 4 bis è una previsione che determina gravi compressioni dei diritti soggettivi della persona e un regime carcerario oltremodo privativo disegnando preclusioni difficilmente superabili all’accesso alle misure alternative al carcere. Deve essere, pertanto, iscritta nel diritto penale sostanziale poiché incide non solo sulla qualità dell’esecuzione della pena ma sulla sua stessa natura. Per quasi trent’anni questo concetto, nella sua vistosa semplicità, non è riuscito ad imporsi. Le indebite restrizioni attingevano, infatti, autori di delitti (associazioni mafiose, terroristiche, finalizzate al commercio di sostanza stupefacente) che per la loro intrinseca gravità lasciavano vincere, con buona pace di tutti o quasi, le spinte della punizione ad ogni costo, anche quando ingiusta, anche quando illegale. Il dissennato ampliamento dell’art. 4 bis a reati, quali quelli contro la pubblica amministrazione, che nulla avevano a che vedere con le esigenze emergenziali che avevano indotto il legislatore dei primi anni ‘90 a prevedere fattispecie derogatorie, ha prodotto, quale effetto certamente non voluto, una serie di pronunce di illegittimità costituzionale, a partire dalla n. 32 del 2020. La Consulta ha chiarito che il principio sancito dall’articolo 25 della Costituzione, secondo cui nessuno può essere punito con una pena non prevista al momento del fatto o con una pena più grave di quella allora prevista, individua “uno dei limiti al legittimo esercizio del potere politico, che stanno al cuore stesso del concetto di Stato di diritto”. La normativa sopravvenuta non può, dunque, trovare applicazione “allorché non comporti mere modifiche delle modalità esecutive della pena prevista dalla legge al momento del reato, bensì una trasformazione della natura della pena e della sua concreta incidenza sulla libertà personale del condannato”. Il potere dell’amministrazione penitenziaria di stabilire speciali restrizioni può essere esercitato solo in presenza di motivate, specifiche e attuali ragioni di pericolo per la sicurezza sociale che oggi, a quarant’anni dai fatti criminosi in esecuzione, risulta del tutto inesistente. Illegittimo, dunque, infliggere a Battisti una carcerazione oltremodo restrittiva che scaturisce dal tipo di reato o dal tipo di autore secondo una disciplina normativa nata dopo le condotte criminose in espiazione. La sua collocazione in un circuito detentivo ordinario è solo un piccolissimo passo verso la legalità nelle carceri, principio guida di tutta la vita pubblica di Marco Pannella e che anima le azioni politiche di lotta nonviolenta di Rita Bernardini. Dovremmo gioirne. *Avvocato, Consiglio direttivo di Nessuno tocchi Caino Nessun diluvio dopo Cartabia, ma nessuna riforma se non cambiano le toghe di Tiziana Maiolo Il Riformista, 7 ottobre 2022 I nomi dei candidati sono rassicuranti. Non c’è rischio che arrivi un controriformatore. Va tenuto a mente però ciò che disse in Parlamento, tra le ovazioni, il Capo dello stato su magistratura e carcere. Non ci sarà nessun diluvio, dopo di lei. Forse. Il “dopo-Cartabia” per ora ha solo le fisionomie e i curricula, piuttosto rassicuranti, dei candidati a prenderne il posto, negli uffici di via Arenula, dove siede il ministro guardasigilli. Fisionomie e curricula che portano ai nomi di Giulia Bongiorno e Carlo Nordio. Due riformatori, pur nella loro diversità. Ed è singolare che colui che si candida a incidere in profondità il sistema-giustizia in crisi sia un magistrato, addirittura un pubblico ministero, mentre colei che si è affrettata a rassicurare il sindacato delle toghe sia un’avvocata. E ancor più sorprendente è che il ministro di giustizia “garantista” non venga indicato dal partito di Berlusconi, cioè di colui che non dimentica mai nel suo programma di governo i principi dello Stato di diritto. Ma che si siano invece fatti avanti a rivendicare quel ruolo due partiti come la Lega (che pure ha meritoriamente promosso i referendum) e Fratelli d’Italia che hanno ancora da mangiare un bel po’ di minestra, prima di arrivare a rivendicare non solo i diritti dell’imputato, ma anche quelli del carcerato, fino a Caino, il più cattivo e colpevole di tutti. Cesare Battisti, per esempio. Un piccolo sospiro di sollievo possiamo comunque tirarlo, perché non corriamo il rischio di vederci riproporre un contro-riformatore con la tendenza a far danni, come è capitato con la cosiddetta legge “spazzacorrotti”, come Alfonso Bonafede. Anche se pare che il partito di Conte stia minacciando con il kalashnicov di infilarlo come “laico” nel Csm. Potrebbe tentare di rivoltarlo come un calzino, secondo gli insegnamenti di uno dei suoi mentori. E in effetti ce ne sarebbe un gran bisogno, perché se c’è un luogo che è rimasto immutabile, anche a causa proprio della timidezza della piccola riforma Cartabia, è quello. Soprattutto per la non volontà dei magistrati di rigenerarsi e di pensare che, espulso come un nocciolo fastidioso conficcato in gola, Luca Palamara, magicamente siano scomparsi correnti e correntismo, camarille e giochetti sottobanco, e orientamento dei processi, quelli politici soprattutto. Eppure basterebbe - possiamo permetterci di suggerirlo prima di tutto alla futura premier? - partire dalle parole del presidente Mattarella. Da quel che ha detto nel messaggio al trentacinquesimo congresso nazionale forense, definendo il momento politico della giustizia come “importante stagione di rinnovamento”, alludendo proprio ai cambiamenti introdotti nel sistema civile come in quello penale dalle riforme Cartabia. Sicuramente l’aria è cambiata. La ministra ha ascoltato tutti i soggetti del sistema giustizia, ma non si è fatta condizionare dai tanti “no” della magistratura. Non ha chiesto loro il permesso, prima di tutto. Era dai tempi di Mani Pulite, che non succedeva. E poi, nonostante qualche bombetta giudiziaria, l’atomica non è piombata sulle elezioni del 25 settembre. Ma il discorso di Mattaco rella da ricordare è quello del febbraio scorso, quando il Presidente conquistò, con 38 minuti e 52 interruzioni con ovazioni, l’intero Parlamento con parole di fuoco sulla magistratura. Bisogna dirlo chiaro, non c’è riforma della giustizia se non cambia la magistratura. Se i soggetti protagonisti del processo non osservano le regole. Hanno la loro parte di ragione quelli che ritengono poco influente la separazione delle carriere tra pm e giudici (ma intanto facciamola), se il rappresentante dell’accusa continuerà a comportarsi come se tutto gli fosse concesso e dovuto. Come se le leggi fossero state scritte per gli altri, per tutti i cittadini tranne loro. Gli esempi non mancano. Basterebbe citare quel che succede quotidianamente nel distretto di Catanzaro e anche quel che è capitato negli anni scorsi alla Procura di Milano. Sergio Mattarella, che è anche il capo del Csm, conosce bene le toghe. E altrettanto bene le ha fotografate nel suo famoso discorso alle Camere. La magistratura italiana, ha detto, ha perso credibilità. Come non dargli ragione? Basterebbe sfogliare la giurisprudenza della Cedu. Si è spezzato il vostro rapporto di fiducia con la gente, aveva detto ancora il primo cittadino. Vi interessa più il potere che la giustizia, non vi siete rigenerati dopo lo scandalo Palamara e rischiate di produrre sentenze ingiuste, aveva concluso Mattarella, travolto da una standing ovation. Poi il sasso finale: il carcere. Prigione senza processo, prigione sovraffollata perché tanti, troppi non dovrebbero essere lì. E morti, tanti. Partiamo da lì, allora. E da quel che ha detto un “carceriere”, il capo del Dap Carlo Renoldi: “il carcere non è l’unica pena”. Un buon punto di partenza per il dopo-Cartabia. Se anche Nordio e Buongiorno la pensano così. Come Mattarella. Giustizia, Meloni valuta l’idea di un “esterno” di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 7 ottobre 2022 Ora a Nordio, Sisto e Bongiorno si aggiungono i nomi di Antonio Leone, Giuliano Amato e Nicolò Zanon. Schieramenti ancora in alto mare per quanto concerne la scelta del nuovo inquilino di via Arenula. Ogni giorno che passa, infatti, pare complicarsi sempre di più la definizione del puzzle di governo. I punti al momento ancora irrisolti sono essenzialmente due. Il primo, ovviamente, riguarda i rapporti di forza fra i partiti di centrodestra e di conseguenza quanti posti spetteranno ad ognuno di essi, unitamente al ruolo che avranno i rispettivi leader. Matteo Salvini, ad esempio, continua a chiedere che gli venga affidato il ministero dell’Interno. Una richiesta che sta facendo storcere la bocca a molti. Certamente, però, il leader della Lega non potrà essere umiliato con un ministero di seconda fascia. Il secondo, invece, è relativo ai numeri, alquanto risicati, che la maggioranza avrà al Senato. A Palazzo Madama il centrodestra occuperà 112 seggi dei 200 disponibili, escludendo i senatori a vita che sono tutti riferibili all’opposizione. Lo scarto dunque è di solo 12 senatori, molto poco per una soglia di sicurezza. E se a costoro verranno assegnati dei posti di governo, tra ministri e sottosegretari, tale soglia è destinata ad assottigliarsi di molto. Ma non solo. Alcuni senatori difficilmente presenzieranno ai lavori di commissione e di aula. Uno fra tutti, Silvio Berlusconi, il decano del futuro Senato. Ma veniamo ai nomi. Da settimane circolano, come è stato più volte ricordato, quelli di Giulia Bongiorno per la Lega e di Carlo Nordio per Fratelli d’Italia. La prima sarebbe doppiamente penalizzata, essendo stata eletta al Senato e per il ruolo di difensore di Salvini nel processo palermitano. Nelle ultime ore, poi, alcuni esponenti di Fratelli d’Italia hanno ricordato la circostanza, sempre stigmatizzata, di quando aveva seguito Gianfranco Fini nell’avventura di Futuro e Libertà. Ma la senatrice leghista sarebbe osteggiata anche dalle toghe per alcune sue affermazioni critiche nei confronti delle correnti della magistratura. Per Nordio gioca a sfavore l’inesperienza: un discorso è essere stato procuratore aggiunto un altro è gestire una macchina complessa come il ministero della Giustizia. Riguardo Forza Italia, infine, i candidati non mancano. Da Francesco Paolo Sisto, sottosegretario uscente alla Giustizia, a Pierantonio Zanettin, capogruppo azzurro in Commissione giustizia a Montecitorio, ad Anna Maria Bernini, capogruppo in Senato e per finire a Maria Elisabetta Casellati, presidente del Senato. Ironia della sorte tutti e quattro sono stati eletti al Senato e quindi si riproporrebbe lo stesso problema di Giulia Bongiorno. Anche perché l’elenco dei senatori che aspirano ad un incarico di governo è quanto mai lungo. Gianmarco Centinaio, Massimiliano Romeo, Erika Stefani, Roberto Calderoli, Massimo Garavaglia, per la Lega, Licia Ronzulli e Alberto Barachini per Forza Italia, Daniela Santanchè, Giovanbattista Fazzolari, Ignazio La Russa, Giulio Terzi di Sant’Agata, Marcello Pera per Fratelli d’Italia. Molti di loro, poi, potrebbe ricevere l’incarico di presidente di Commissione a Palazzo Madama. In tale scenario si starebbe allora facendo strada l’ipotesi di affidare il ministero della Giustizia ad un “esterno”, non necessariamente un tecnico, ma comunque una figura politica, d’esperienza e in buoni rapporti anche con i magistrati. Fra i papabili circola il nome di Antonio Leone, ex vice presidente della Camera per Forza Italia ed ex componente laico del Csm. Insieme a Leone, i giudici costituzionali Giuliano Amato e Nicolò Zanon. Quest’ultimo, di area centrodestra, attualmente è vice presidente della Consulta ma con il mandato in scadenza. Discorso relativamente più facile per i sottosegretari. I nomi più gettonati per la Lega sono Andrea Ostellari, Manfredi Potenti e Jacopo Morrone. Ostellari e Potenti sono stati eletti al Senato e quindi valgono sempre le stesse considerazioni sui numeri di scarto. Per Fratelli d’Italia ci sarebbe Andrea Delmastro, attuale responsabile meloniano del Dipartimento giustizia. La sciarada per via Arenula si intersecherà con la scelta dei laici per i vari organi di autogoverno delle toghe. Ad iniziare dal Consiglio superiore della magistratura e per finire al Consiglio di presidenza della giustizia amministrativa. Una tornata di nomine da effettuare quanto prima visto che tutti gli organi di autogoverno sono in regime di prorogatio da settimane. E anche stavolta la politica è appesa a un processo di Alberto Cisterna Il Riformista, 7 ottobre 2022 Se Salvini andrà al Viminale, difficilmente la sua avvocata Bongiorno potrà ambire a via Arenula. Toccherebbe a Nordio trovare la strada (senza leggi ad personam) per l’emancipazione della politica dall’azione penale. La partita della giustizia resta sullo sfondo delle trattative per il nuovo Governo. Altre urgenze battono alle porte della politica e la scelta del nuovo ministro della giustizia sembra messa da parte in attesa che si riempiano altre caselle. In primo luogo i posti chiave dei dicasteri economici, poi la partita complessa e controversa del ministero dell’interno. Par chiaro che se Matteo Salvini tornerà a sedersi scranno più alto del Viminale, difficilmente Giulia Buongiorno potrà ambire agli uffici di via Arenula. Non si possono trascurare gli impicci siciliani del leader leghista e il fatto che proprio l’avvocato Giulia Buongiorno lo difenda. Due ministri in aula a battagliare con giudici e pm avrebbe un costo di immagine enorme. Anche per un governo a trazione Centrodestra che del garantismo e di una certa polemica come toghe ha inteso fare la cifra della propria campagna elettorale, seppure languida sui tempi della giustizia. Quindi per l’ennesima volta la questione giudiziaria entra a piedi uniti nelle vicende politiche del paese, anche alla luce del comprensibile imbarazzo del Quirinale di dare il via a un governo in cui sieda, per giunta in posti di rilievo, l’imputato di delicati procedimenti penali. Per carità nulla di davvero ostativo, ma la strada è piena di insidie e problemi che Giorgia Meloni vorrà disinnescare per tempo. Alla fine, se Matteo Salvini sarà ministro al Viminale, allora il tragitto di Carlo Nordio verso via Arenula appare tranquillo e quasi scontato. Toccherà a un tecnico, immerso da poco nell’agone politico, trovare la quadratura del cerchio evitando (ovviamente) leggi ad personam e favorendo comunque un processo di emancipazione della politica dalla spada di Damocle dell’azione penale. Un percorso accidentato e fortemente condizionato dalla modifica costituzionale del 1993 sulla autorizzazione a procedere per i parlamentari per il quale devono evitarsi scorciatoie e pasticci nel segno della restaurazione. L’allarme dell’Anm: “Senza assunzioni gli obiettivi del Pnrr sono irraggiungibili” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 ottobre 2022 All’appello mancano 1.600 toghe. Il presidente Santalucia: “Criticità difficilmente risolvibile”. C’è “il rischio che la giurisdizione, nonostante l’impegno quotidianamente profuso dai magistrati e dal personale amministrativo, non riesca ad assolvere alla sua fondamentale funzione di tutela dei diritti delle persone”: è questo l’allarme lanciato dall’Associazione nazionale magistrati nell’ultimo Comitato direttivo Centrale. La causa è da rintracciare nella mancanza di personale: “II complesso processo riformatore in atto non interviene in modo efficace sulle risorse umane, quantomeno in termini di assicurazione della costante copertura effettiva degli organici di magistratura e del personale amministrativo”, si legge in un documento diffuso dall’Anm. Paradossalmente, fanno notare le toghe, “i vincitori del prossimo concorso per il reclutamento di cinquecento magistrati saranno immessi in servizio non prima del 2025, mentre gli obiettivi di riduzione dei tempi dei processi civili riduzione del 40% dei tempi di definizione dei procedimenti dovranno essere raggiunti, con le risorse ora disponibili, entro la fine del 2024”. Attualmente, negli uffici giudiziari risultano mancanti ben 1.600 magistrati, pari al 16% dell’organico complessivo. Eppure il ministero della Giustizia ha bandito già due concorsi - uno da 310 posti del 2019 e uno da 500 del 2021, le cui prove sono in fase di correzione -. Un terzo da 400 posti sta per essere bandito e sono state già avviate interlocuzioni tra via Arenula e il Consiglio superiore della magistratura. Inoltre all’interno del decreto “Aiuti ter” è stata prevista una novità: sarà possibile partecipare al concorso in magistratura subito dopo la laurea e si introduce la possibilità di utilizzare il computer per lo svolgimento delle prove scritte. Sempre al fine di accelerare i tempi di definizione dei concorsi, i professori universitari, membri della commissione di concorso, potranno chiedere l’esonero dall’attività didattica. Ad aprile la ministra Cartabia aveva firmato il decreto sulle piante organiche flessibili destinando 179 magistrati e si stanno avviando interlocuzioni con Csm dopo l’aumento delle piante organiche dei magistrati - per 82 unità - approvato nell’ultima legge di bilancio. Nonostante questo, termina il documento, si “rischia di riversare sui soli magistrati la responsabilità del mancato raggiungimento di obiettivi che sin d’ora si palesano di arduo, se non impossibile, conseguimento”. Il tema è talmente importante che sarà uno dei primi ad essere affrontato nel Congresso dell’Anm che si aprirà a Roma il prossimo 14 ottobre. Nella sessione “Qualità ed efficienza della giurisdizione” si discuterà proprio del problema della mancanza di risorse, con un focus su opportunità e criticità dell’Ufficio per il processo, e sui carichi esigibili e risultati attesi. “Purtroppo durante il periodo più critico della pandemia - ci spiega il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia - i concorsi per nuovi magistrati non sono stati espletati, probabilmente per un eccesso di cautela, a differenza di quanto avvenuto in altre amministrazioni. Questo ha comportato un significativo rallentamento del reclutamento che scontiamo oggi. Queste 1600 scoperture cadono in un momento in cui dobbiamo aumentare la produttività per raggiungere gli obiettivi imposti dal Pnrr. Si tratta di una criticità difficilmente risolvibile. La ministra Cartabia ha immesso nuove risorse tramite l’Ufficio per il processo. Esse sono certamente preziose, ma sono solamente di ausilio, in quanto il lavoro del magistrato non è delegabile all’Upp. La Guardasigilli ha bandito altresì diversi concorsi ma purtroppo il problema non si risolve, perché i nuovi magistrati entreranno in servizio troppo tardi rispetto alle tempistiche di raggiungimento degli obiettivi europei che siamo chiamati a perseguire. L’unica cosa che possiamo fare è stringere i denti”. Comunque è positivo che si potrà accedere al concorso direttamente dopo la laurea? “Fino al 1997 la magistratura ha sempre reclutato tra i laureati in giurisprudenza. Questa è quindi stata una riforma che abbiamo voluto noi. Si rischiava con quell’allungamento dei tempi di non intercettare le migliori intelligenze”. Qualcuno però teme che il prossimo passo sia quello di rendere meno ostico il concorso: “Forme semplificate di concorso non sono costituzionalmente compatibili. Il concorso è fondamentale in magistratura per essere legittimati ad esercitare la funzione. Se venisse meno questo la magistratura sarebbe in una crisi irreversibile”. Il vero problema però, conclude Santalucia, “oggi è la distribuzione delle risorse esistenti sul territorio, non cercarne altre. Nella riunione del Cdc non a caso ho fatto riferimento al piccolo Tribunale di Vibo Valentia che si trova a dover gestire processi anche con 600 imputati. E si rischia di non farcela. Allora ad esempio nei territori dove ci sono molti reati di mafia si dovrebbe cominciare ad approfondire l’idea di distrettualizzare i Tribunali”. Il teorema del patto tra stato e mafia (bocciato a Palermo) riesumato a Reggio Calabria di Ermes Antonucci Il Foglio, 7 ottobre 2022 Al processo “‘Ndrangheta stragista” i pm riesumano il teorema della trattativa tra stato e Cosa nostra, già bocciata a Palermo, infilandoci dentro pure clan calabresi, massoneria e servizi segreti deviati. Neanche Travaglio avrebbe potuto scrivere una sceneggiatura migliore. Il processo sulla fantomatica “Trattativa stato-mafia” si è sdoppiato. Non bastava quello aperto a Palermo dai vari Ingroia e Di Matteo, e demolito quasi un anno fa dalla corte d’assise d’appello palermitana, che ha stabilito che non ci fu alcuna “trattativa” tra lo stato e Cosa nostra, bensì un’operazione di intelligence portata avanti dai carabinieri del Ros per fermare le stragi mafiose. L’ipotesi accusatoria bocciata a Palermo è di fatto ancora viva e vegeta, ma a Reggio Calabria. Qui sta infatti andando in scena il processo “‘Ndrangheta stragista”, basato sull’inchiesta lanciata nel 2017 dalla Direzione distrettuale antimafia di Reggio Calabria, allora diretta da Federico Cafiero De Raho (poi diventato procuratore nazionale antimafia e oggi deputato M5s). Il processo vede imputate due persone: l’ex boss del quartiere palermitano di Brancaccio Giuseppe Graviano e Rocco Santo Filippone, ritenuto espressione della cosca Piromalli di Gioia Tauro. I due sono accusati dell’omicidio dei carabinieri Antonino Fava e Vincenzo Garofalo, avvenuto il 18 gennaio 1994, e per questo sono stati condannati in primo grado all’ergastolo. Si tratta molto di più di un semplice processo per l’omicidio di due carabinieri. Secondo l’ipotesi dei pm, in particolare del procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, l’omicidio dei due carabinieri rientrerebbe infatti nella strategia stragista lanciata da Cosa nostra contro lo stato agli inizi degli anni Novanta. A convincere i clan calabresi a partecipare alla strategia stragista sarebbero stati i corleonesi, attraverso una serie di incontri. “Occorreva - scrivono i giudici della corte d’assise nella sentenza di primo grado del processo “‘Ndrangheta stragista” - secondo il progetto del Riina, ‘fare la guerra per poi fare la pace’ con lo stato, ma a condizione di consistenti benefici (c.d. ‘papello’ Riina) che sarebbero stati concessi a Cosa nostra attraverso la mediazione dei nuovi referenti politici”. Riemerge, come si vede, persino il mito del “papello”, che secondo la vulgata antimafiosa sarebbe stato stilato da Riina con le richieste di benefici legislativi rivolte allo stato: “L’attenuazione del regime carcerario con la modifica del regime del 41 bis ord. pen. e la chiusura delle carceri nelle isole (Pianosa e l’Asinara), il mantenimento dei patrimoni illeciti, la modifica della legge sui pentiti, la revisione delle condanne subite dai sodali”. Peccato che, come noto, questo papello non sia mai stato ritrovato e che il documento presentato a Palermo da Massimo Ciancimino, figlio del boss Vito, sia stato ritenuto a livello giudiziario “frutto di una grossolana manipolazione” e del tutto inattendibile. Si arriva così, quasi inevitabilmente, al teorema della “trattativa”: “La finalità perseguita - scrivono sempre i giudici che hanno accolto le tesi dei pm - rendeva ancor più verosimile l’esistenza di una trattativa, anche perché in quella fase storico-politica, magmatica e tutta in evoluzione (si pensi alle travolgenti inchieste di Mani pulite, allo sfaldamento della c.d. prima Repubblica, alle elezioni del 1994), le aspettative di Cosa nostra di trovare l’interlocutore giusto potevano essere ancora più fondate”. “Il comune progetto criminale”, come viene definito dai giudici, portato avanti da corleonesi e ‘ndranghetisti, troverebbe fondamento nelle dichiarazioni di vari collaboratori di giustizia. Null’altro. E pazienza se ipotesi e date neanche coincidano in maniera logica tra loro. Ciononostante, la corte in primo grado non ha mostrato dubbi: “‘Ndrangheta e Cosa nostra avevano una necessità impellente: indurre lo stato a trattare”. Non solo, questo univoco progetto stragista avrebbe ricevuto il sostegno di “contesti massonici e pidduisti” e di “soggetti appartenenti ai servizi segreti deviati”. Ciliegina sulla torta: la strategia stragista si sarebbe fermata solo in seguito all’individuazione di “nuovi referenti politici”, ovviamente poi individuato nel “nascente partito politico di Forza Italia”, lanciato da Silvio Berlusconi, che tramite Marcello Dell’Utri avrebbe garantito leggi a favore dei mafiosi. Insomma, al processo in corso a Reggio Calabria, la tesi della trattativa bocciata a Palermo non solo viene riproposta, ma ne esce pure rafforzata, attraverso la partecipazione a quest’ultima della ‘ndrangheta e pure della massoneria e dei servizi deviati. Neanche Travaglio avrebbe potuto scrivere una sceneggiatura migliore. No all’estradizione in Turchia: “Rischio di trattamenti inumani e degradanti” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 ottobre 2022 La corte d’appello di Catanzaro nega l’estradizione in Turchia di un cittadino di etnia curda, perché c’è un evidente “rischio trattamenti inumani e degradanti nelle carceri turche”. Con la sentenza n. 10/ 2022 del 27 settembre, il Presidente relatore dott. Antonio Giglio, consiglieri dott. sse Maria Rosaria De Girolamo e Barbara Saccà, ha rigettato la richiesta di estradizione, avanzata dal governo Turchia nei confronti del sig. T. M., cittadino turco, per il rischio concreto che lo stesso possa essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti nelle carceri turche. Con questa importante pronuncia, nonostante la requisitoria favorevole alla richiesta di estradizione, avanzata dalla Procura Generale, la Corte ha inteso accogliere integralmente le conclusioni formulate dall’ Avv. Gianluca De Vito, difensore dell’imputato. La difesa ha evidenziato come sussista la condizione ostativa alla concessione dell’estradizone (art. 698 co. 1. C. p. p.) poiché l’imputato, di etnia curda, avrebbe concretamente rischiato di subire la violazione di diritti fondamentali in virtù del fatto che la Turchia, pur facendo parte della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950, in data 21.07.2016 abbia comunicato di sospendere la sua applicazione e quella del Patto Internazionale dell’ONU sui Diritti Civili e Politici del 1966. Inoltre secondo i recenti rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch nonché del Dipartimento di Stato Americano, vi sarebbero ancora molteplici falle nel sistema giudiziario e nel tessuto politico- sociale della Turchia, concernenti soprattutto l’abuso dei diritti umani, la repressione del dissenso, l’abuso di potere statale, la libertà di espressione e di riunione nonché abuso di maltrattamenti e condizioni di carcerazione inumane e degradanti sotto la custodia della polizia. In questo contesto, si inseriscono, appunto, innumerevoli condanne alla Turchia da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo tra cui la più recente risale al settembre 2021, con la condanna nei confronti della Turchia per la detenzione provvisoria dell’ex sindaco curdo di Siirti, Tuncer Bakirhan, incarcerato perché accusato di appartenere al PKK. Proprio per tali motivi la Corte d’Appello di Catanzaro, richiamando le pronunce della Corte di Cassazione n. 32685/201, n. 54467/2016 e 26742/2021, ha negato l’estradizione in Turchia dell’imputato. Ricordiamo che soprattutto nei confronti dei curdi, nelle carceri turche la tortura è ampiamente diffusa e avviene tuttora in modo sistematico. Al primo posto delle violazioni dei diritti umani in carcere ci sono i trasferimenti in località lontane dalle famiglie, la negazione di cure mediche, torture e trattamenti indegni di esseri umani, provvedimenti disciplinari, isolamento, il rifiuto di quotidiani e altri media e l’impedimento di visite da parte dei famigliari e l’interruzione della comunicazione nella lingua madre. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Altri 41 agenti indagati per atti di tortura sui detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 7 ottobre 2022 Il 7 novembre si aprirà il processo per i primi 107 poliziotti davanti alla Corte d’Assise. Altri 41 agenti di Polizia penitenziaria sono stati iscritti nel registro degli indagati, con l’accusa di atti di tortura, dal procuratore aggiunto Alessandro Milita e dai sostituti Alessandra Pinto e Daniela Pannone che indagano sulla “orribile mattanza”, come la definì allora il Gip, del 6 aprile 2020 nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta). Malgrado alcune telecamere che risultarono inspiegabilmente spente proprio in quel giorno in alcune zone del penitenziario, le immagini dei pestaggi riprese da altre videocamere hanno permesso alla procura di Capua Vetere di identificare altri tra quel centinaio di poliziotti che ancora mancavano all’appello e che comparivano, con casco e manganelli, mentre infierivano sui reclusi. Per quei fatti, ad aprile scorso, tra gli allora 120 indagati, sono stati rinviati a giudizio 107 persone tra agenti e funzionari del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, e il processo si aprirà il prossimo 7 novembre davanti alla Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere. Non per tutti, però: 3 di loro, 3 poliziotti, hanno patteggiato e chiesto il rito abbreviato. Per questi nei prossimi giorni si terrà l’udienza preliminare davanti al Gup Pasquale D’Angelo. Nell’inchiesta sono rientrati anche i 15 indagati per la morte del detenuto algerino Lakimi Hamine, che secondo alcuni testimoni subì violenze il 6 aprile 2020 ma morì il 4 maggio 2020 dopo molti giorni di isolamento. Inizialmente la sua morte venne classificata come suicidio dal Gip Sergio Enea che la stralciò dal fascicolo, per poi reintegrarla dopo il ricorso della procura. Mentre la direttrice del carcere della “mattanza”, Elisabetta Palmieri, è stata sostituita dal Dap più di un anno fa, non tanto per quei fatti a cui la responsabile del carcere si è sempre detta estranea (e infatti non è indagata) ma per una irregolarità commessa durante una visita ispettiva della senatrice del M5S Cinzia Leone (si fece sostituire dal “suo compagno, soggetto estraneo all’amministrazione”, motivò il capo del Dap Petralia). Ora, con difficoltà gli inquirenti hanno individuato attraverso le immagini altri 41 agenti accusati a vario titolo di aver partecipato al linciaggio. E così la procura ha chiesto e ottenuto dal Gip la proroga delle indagini per poter identificare anche gli altri. Di questi 41 pubblici ufficiali indagati, 27 sono attualmente in servizio al carcere napoletano di Secondigliano, 4 in quello di Avellino e 10 ancora a Santa Maria Capua Vetere. Nel processo che inizierà il 7 novembre il Garante campano dei detenuti, Samuele Ciambriello, si è costituito parte civile “e il mio legale, l’avvocato Francesco Piccirillo, mi ha confermato - ha spiegato Ciambriello che fu tra i primi a denunciare le violenze - che questa richiesta di proroga delle indagini rappresenta un ulteriore riscontro non solo della fondatezza della mia denuncia e di quella di tanti detenuti, fatte già poche ore dopo le violenze, ma soprattutto del fatto che esiste una volontà ferma da parte dei magistrati di restituire verità e giustizia. Le 41 persone adesso indagate potevano essere riconosciute già molto tempo prima, se solo esistessero sui caschi delle forze di polizia dei numeri o anche segni identificativi, che a mio avviso sono fondamentali non solo per chi entra in tenuta antisommossa nelle carceri, ma anche per chi agisce nelle piazze, durante le manifestazioni sindacali o studentesche”. Prato. Rivolta alla Dogaia, i detenuti rischiano pene molto pesanti di Paolo Nencioni Il Tirreno, 7 ottobre 2022 Subito rinviato il processo a 42 imputati per i fatti del 2020. È iniziata ieri mattina ed è stata subito rinviata al 15 dicembre per un difetto di notifica l’udienza preliminare del processo nei confronti di 42 tra detenuti ed ex detenuti della Dogaia che il 9 marzo del 2020 diedero vita a una sorta di rivolta che per un giorno mise in subbuglio la casa circondariale e richiese l’intervento dei reparti anti-sommossa, salvo poi risolversi senza grandi tragedie, soprattutto se paragonato a quanto accadde in altre carceri italiane. Erano i giorni durante i quali i detenuti protestavano contro la decisione del governo di sospendere i colloqui coi familiari per contrastare la diffusione del Covid, una decisione che fu vissuta come un’ingiustizia. Durante la rivolta nel carcere di Modena ci furono sette morti e a Foggia ci fu un’evasione di massa. A Prato ci si “limitò” a dare fuoco ad alcuni materassi e a sbattere le pentole sulle inferriate. I 42 indagati sono italiani, nordafricani, albanesi e nigeriani, tutti detenuti comuni. La Procura contesta loro anche l’uso delle armi (spranghe di legno ricavate da alcuni tavolini), la distruzione delle telecamere di sicurezza, l’incendio di alcuni materassi nelle celle, l’aver accatastato le brandine per fare una sorta di barricata all’ingresso della quarta sezione, dove in precedenza avevano sparso olio sul pavimento per ritardare l’intervento degli agenti di custodia. Tentarono anche di aprire un cancello, dove rischiò di rimanere bloccata la comandante della polizia penitenziaria, Barbara D’Orefice, prima dell’intervento di un ispettore. I 42 imputati che compariranno di nuovo davanti al gup Francesca Scarlatti il 15 dicembre sono accusati di resistenza a pubblico ufficiale, aggravata dal numero dei partecipanti. Un reato che prevede una pena tra i 3 e i 15 anni. Si prevede che solo pochi chiederanno il rito abbreviato, molti altri sceglieranno il rito ordinario, soprattutto quelli che sono ancora detenuti. Viterbo. Detenuto impiccato in cella, rinviati a giudizio agente della penitenziaria e due sanitari viterbotoday.it, 7 ottobre 2022 Il Gup del Tribunale di Viterbo ha invece assolto l’ex direttore del penitenziario per la morte di Andrea Di Nino. Tre rinvii a giudizio e una assoluzione per la morte di Andrea Di Nino, 36enne detenuto a Mammagialla trovato impiccato in cella quattro anni fa. Il gup del tribunale di Viterbo, Giacomo Autizi, ieri pomeriggio ha accolto la richiesta del pm Michele Adragna di rinvio a giudizio per omicidio colposo per due operatori sanitari e un agente di polizia penitenziaria. Respinta, invece, la richiesta di condanna a quattro mesi di reclusione per l’ex direttore del carcere di Viterbo. Quest’ultimo, difeso dall’avvocato Marco Russo, aveva scelto il rito abbreviato. Il gup lo ha assolto. Per i tre imputati rinviati a giudizio l’inizio del processo è fissato per settembre 2023. Tredici i familiari di Di Nino che si sono costituiti parte civile: i cinque figli e gli otto fratelli. Per la famiglia, il 36enne non avrebbe mai potuto suicidarsi. È stato trovato impiccato in cella di isolamento intorno alle 22 del 21 maggio 2018. In carcere da un paio di anni per droga, era stato trasferito a Mammagialla pochi mesi prima di morire. Sarebbe uscito di lì a un anno. Venezia. Lavoro e carcere: “Troppi pochi detenuti che lavorano” veneziaradiotv.it, 7 ottobre 2022 Nei momenti di crisi il Terzo settore, quello dell’inserimento, della riabilitazione, dell’inclusione soffre di più. Se ne sta parlando in questi giorni all’Ateneo Veneto di Venezia dove i vertici del mondo carcerario italiano stanno denunciando grandi difficoltà nell’avviare al lavoro i detenuti. Soltanto il 34% dei carcerati è operativo nel lavoro in questo momento in Italia, una percentuale troppo bassa se si pensa che è in vigore la legge Smuraglia dal 2000 che prevede sgravi fiscali per le imprese che accolgono detenuti nei loro cicli produttivi. Se ne è parlato all’Ateneo Veneto a Venezia durante un convegno dedicato al tema carcere e lavoro. La dichiarazione di Carlo Renoldi, Capo Dipartimento Amministrazione Penitenziaria - “Dobbiamo fare un grande sforzo, un grande sforzo che deve mettere in campo tutti gli attori dei processi economici, sociali e amministrativi che sono finalizzati e che possono consentire un maggiore impiego nel lavoro delle persone detenute. Questo sforzo deve coinvolgere intanto le imprese, le quali spesso non conoscono le straordinarie opportunità che la legge Smuraglia consegna loro. I motivi della resistenza delle imprese - La resistenza tra gli imprenditori si registra anche nel Triveneto, territorio che pullula di aziende che però hanno a che fare con un’offerta di lavoro complessa, essendo il 60% dei detenuti di origine straniera con difficoltà linguistiche spesso. Le parole di Maria Milano Franco d’Aragona, Provveditrice regionale del Triveneto - “Io credo che la resistenza provenga dal fatto che la realtà penitenziaria è una realtà non conosciuta. Purtroppo se ne parla sempre soltanto quando ci sono eventi tristi, si parla solo delle disfunzioni, non si parla invece dei punti di forza. Forse questo è il motivo per cui ci sono resistenze. E’ anche vero che molta della popolazione detenuta è popolazione che non conosce il valore del lavoro, non ha mai lavorato. Nelle nostre carceri del nord, parlo del Triveneto che è la situazione che ho più a conoscenza, c’è una percentuale altissima di stranieri, sono almeno il 60%. Devo dire che questo ovviamente comporta delle difficoltà per il personale di polizia penitenziaria e per noi. Grazie però all’introduzione di mediatori culturali, del volontariato, di molto personale educativo e anche di psicologi si riesce in qualche modo a capire quelle che sono differenze soprattutto a fare il nostro lavoro di rieducazione. Bari. Multietnico e sovraffollato: la vita nel carcere di Mara Chiarelli ledicoladelsud.it, 7 ottobre 2022 Nella prima “camera” a destra due africani, originari del Mali, spalle alla finestra sbarrata, pregano per il terzo dei sei riti quotidiani. Quella affianco, con la tendina colorata, i cuori di cartoncino e i miniposter di bionde platinate e succinte alle pareti, ospita due baresi “fine pena maggio 2038”. Nella Babele di etnie, lingue, tipologie di reati, condizioni di salute differenti e appartenenza a clan contrapposti, nel carcere di Bari sorprende un insolito ordine. Piccoli mondi concentrici, in un macrocosmo separato dal “fuori” da un muro di cinta, nei quali si fatica non poco a tenere un equilibrio. E non è solo un problema di numeri: 431 (ndr, aggiornato a ieri) detenuti in una struttura del 1920 che su carta ne può ospitare al massimo 299. L’ormai atavica questione del sovraffollamento, pluridenunciata e mai risolta, è la cifra che comprende il tutto. “Tanto per cominciare abbiamo cinque reparti detentivi composti da persone che non si possono incontrare - premette la direttrice della Casa circondariale di Bari, Valeria Pirè - Ma il problema principale è che buona parte dei detenuti ha patologie fisiche (o psichiche, ne abbiamo 120 seguiti dal Dipartimento di Salute mentale) di varia natura (oncologiche, degenerative e altre disabilità). Abbiamo reso idonee alcune stanze, ma non è sufficiente e quindi spesso restano in cella con altri. Un problema che sta diventando esplosivo”. E ancora, la difficoltà di garantire un trattamento dignitoso per gli extracomunitari che non conoscono la lingua, magari arrestati all’aeroporto o al porto, di passaggio, sradicati sul territorio, a forte rischio suicidiario. Difficili da assistere, curare, se non dopo settimane di lavoro dell’equipe che si occupa, tra l’altro, della presa in carico dei casi critici: tre persone che svolgono attività per il recupero sociale, tra lavoro, sport e cultura e che in staff multidisciplinare si occupano tra l’altro, proprio della prevenzione dei suicidi. Un progetto dell’Arci, finanziato dal Garante dei Detenuti inoltre fornisce, su richiesta, operatori che parlano dialetti di varie etnie per quelli che non conoscono le lingue più diffuse, e uno sportello legale, a supporto della forte rete di mediazione culturale interna alla struttura. Ciò che manca, denuncia Valeria Pirè, è “la possibilità di programmare le attività ma anche e soprattutto una visione d’insieme, in particolare per quanto riguarda la sfera sanitaria”. Le grandi cucine con le moka da 18 tazze, i pentoloni e i carrelli che distribuiscono il pranzo alle 12.30, sono pulite grazie al lavoro di alcuni detenuti. Sono quelli che hanno dimostrato un comportamento positivo, partecipando attivamente a quell’opera di rieducazione che dovrebbe essere alla base di ogni pena detentiva. “Ho finito ora di cucinare per 200 persone”, dice invece Giovanni (ndr, il nome è di fantasia per tutelarne la privacy). Sulla soglia della cella, “si chiama camera di pernottamento”, spiegano, ci introduce nel suo piccolo mondo di tre metri per tre: la tenda colorata alla finestra, lo stendino con la roba pulita ai piedi del letto, la mensolina sul perimetro con la caffettiera, il televisore a schermo piatto, sigarette e phon. La foto di sua moglie, quella no, non è esposta, la tiene al sicuro nell’armadio: “Mi sono sposato in carcere tre anni fa”, la mostra orgoglioso. Il futuro è lontano 16 anni, intanto cucina: “Mi piace assai, mi piace preparare qualsiasi cosa”. Paolo è nella sala colloqui al piano terra, usa lo smartphone per parlare con sua moglie, la versione tecnologica dell’ora di incontro coniugale che gli spetta sei volte a settimana. In quella attigua una coppia scherza. Un giovanissimo extracomunitario viene portato, spaesato, nella stanza per la fotosegnalazione e il rilievo delle impronte. Gli agenti della polizia penitenziaria sono ovunque, solleciti e fermi. “Sulla carta ne abbiamo un numero sufficiente, 274 su 276 previsti - spiega la comandante Francesca De Musso - ma nella realtà sono molti meno, fra distaccamenti in altre sedi e altre problematiche”. Piccolina e leggera, attraversa corridoi, saluta detenuti, li ammonisce col sorriso a tenere tutto pulito e in ordine, e loro le si rivolgono con rispetto. “Un numero che in ogni caso non tiene conto delle reali esigenze e peculiarità di questa casa circondariale”, tra la vocazione sanitaria, le sezioni di alta sicurezza (due su cinque) e la presenza di clan contrapposti. La piccola chiesa con l’altare luccicante, le aule scolastiche con i banchi delle elementari, il biliardino e il tavolo da ping pong, i pacchetti di sigarette vuoti nel cortile, i cartelli scritti a mano con i pennarelli al posto delle targhe sulla porta degli uffici. “Questa per me è casa”, dice Carlo, dimenticato dai parenti. Difficile pensarlo, mentre le chiavi girano nella toppa del cancello che si chiude ad ogni passaggio, i quattro metal detector suonano se indossi la cinta con la fibbia di metallo o le scarpe che, sicuramente, contengono parti di metallo. Bari. Più informazioni sulle carceri di Riccardo Polidoro* ledicoladelsud.it, 7 ottobre 2022 È raro che un giornale dedichi due intere pagine alla visita in un istituto penitenziario. È tanto raro, quanto giusto. L’iniziativa di “L’Edicola del Sud”, che ha raccontato cosa avviene nella Casa Circondariale di Bari, è opera meritoria che dovrebbe essere replicata da altre testate che, invece, ignorano le problematiche relative all’esecuzione penale e i drammi che affliggono le persone detenute. Eppure suscitare l’interesse del lettore sui luoghi di detenzione dovrebbe essere naturale, in quanto il carcere altro non è che un’istituzione pubblica che ha precise finalità: punire, ma allo stesso tempo “rieducare”, per il reinserimento sociale del condannato. Come i cittadini vengono informati dello stato degli ospedali e delle scuole, importanti per le cure mediche e l’istruzione, così dovrebbe accadere per gli istituti penitenziari. L’assenza d’informazioni favorisce il disinteresse verso il mondo dell’esecuzione penale, che è dimenticato o addirittura ignorato. Eppure se ci si lamenta dell’aumento della criminalità e, nelle grandi città, di quella predatoria, sarebbe opportuno che l’opinione pubblica avesse maggiore interesse per il trattamento riservato ai condannati. Si dovrebbe preoccupare se la pena non avesse anche una funzione di recupero del soggetto, ma fosse esclusivamente afflittiva e addirittura - come avviene in molti casi - scontata senza il rispetto delle norme in materia. Il detenuto, pur condannato ad una pena severa, un giorno uscirà dal carcere e l’interesse comune dovrebbe essere quello di restituirlo migliore alla vita sociale. Alcuni anni fa, l’Unione Camere Penali con il suo Osservatorio Carcere, si fece promotore dell’iniziativa “Carceri porte aperte”, al fine di far conoscere la realtà detentiva ai cittadini. Si prenotarono in tanti e il numero indicato, quale limite possibile, fu subito raggiunto. Dall’iniziale curiosità per un mondo sconosciuto, i visitatori compresero che quelle mura appartenevano alla città e che all’interno vi erano persone che andavano assistite e seguite e che, purtroppo, spesso vivevano nel deleterio ozio. Far conoscere il carcere, promuovere iniziative affinché l’opinione pubblica provi reale interesse per quanto accade negli istituti penitenziari ha una duplice importanza. Da un lato si fa comprendere ai cittadini qual è il senso della pena, dall’altro i detenuti si sentiranno meno abbandonati dalla comunità e potranno, con maggiore impegno, intraprendere la strada verso il necessario recupero. Bene, dunque, ha fatto “L’Edicola del Sud” a scrivere della Casa Circondariale di Bari. Una struttura del 1920 che attualmente ospita 431 detenuti, a fronte di una capienza regolamentare di 299 persone. Già questi dati rappresentano una realtà problematica, con cui la direzione del carcere deve fare i conti. Emerge dagli articoli che vi sono molti detenuti con patologie fisiche e psichiche, per i quali non vi è possibilità di una collocazione adeguata e, spesso, restano in stanza con altri. Il lettore comprende che è necessario un immediato intervento e che non è possibile abbandonare detenuti e personale dell’amministrazione penitenziaria in una situazione illegale, che non tiene conto dei principi costituzionali, delle norme dell’Ordinamento Penitenziario e delle stesse direttive europee. Articoli del genere sono, pertanto, utili perché ricordano alle persone libere che esiste un regime penitenziario che va sostenuto, nell’interesse di tutti. Migliorare la qualità della vita in carcere, seguendo la strada già tracciata dal legislatore, migliorerà anche la vita delle persone libere. Solo la presa di coscienza di quanto sia drammatica ed ingiusta la vita all’interno del carcere, potrà smuovere una politica inerte, che non interviene perché preferisce la scorciatoia populista di non concedere nulla ai condannati, neanche i loro diritti. *Responsabile Osservatorio Carcere Unione Camere Penali Italiane Civitavecchia. “Due Blu”, il podcast realizzato con i detenuti del carcere di porta Tarquinia terzobinario.it, 7 ottobre 2022 Disponibile online da venerdì 7 ottobre Due Blu, il primo podcast realizzato dai detenuti della Sezione Lavoranti della Casa Circondariale G. Passerini di Civitavecchia. Frutto del progetto “La Scena Invisibile” svolto e condotto da Federica Manzitti con la collaborazione di Ludovica Andò e la consulenza di Paolo Maddonni, il podcast è un esperimento audio-narrativo che mette in campo diverse competenze da parte degli autori, sia tecniche che relazionali. Nato dalla stretta collaborazione tra area educativa e la compagnia teatrale AdDentro dell’Associazione Sangue Giusto che da oltre 10 anni è attiva negli istituti penitenziari di Civitavecchia, “La Scena Invisibile” è stato realizzato con il contributo della Regione Lazio - Direzione regionale Affari Istituzionali e Personale - Area Politiche degli Enti Locali Polizia Locale e Lotta all’Usura. Il progetto ha coinvolto dodici detenuti nel corso di sette mesi (marzo- settembre 2022), prima con un lavoro di avvicinamento alla forma podcast, poi di studio degli aspetti tecnici legati alla scrittura audio e quindi di coinvolgimento in prima persona dei partecipanti sia in fase di sceneggiatura che di interpretazione e montaggio. Due Blu è il racconto di un rapporto affettivo speciale: quello con la propria madre. Un’esperienza unica e universale in cui ciascuno è portatore di un principio di innocenza e di colpa, di rimorso e di redenzione che precede e sottintende qualsiasi altra relazione con il mondo e con la comunità. Nelle otto audio narrazioni raccolte, ogni detenuto ha evocato una figura, una dinamica di relazione e un “mondo sonoro” diverso dall’altro. Commozione, nostalgia, a tratti comicità, ironia o ammirazione. I colori emotivi che emergono lasciano sbiadite sullo sfondo le storie criminali, permettendo agli autori/interpreti di narrare sé stessi oltre il percorso carcerario, nell’unicità degli affetti. DueBlu di e con Mirko B., Jude O. N., Gert, P., Francesco G., Edoardo D. Maurizio S., Vincenzo B., Fabio F. Sound design a cura di Cristiano Cervoni. Un ringraziamento particolare ad Elsa Lila e Lorenzo Bucci per l’interpretazione e l’esecuzione del brano Kengaenenes. Link https://www.spreaker.com/show/due-blu-la-scena-invisibile Federica Manzitti: giornalista (Corriere della Sera dopo anni di radio) è autrice di originali radiofonici e podcast indipendenti tra cui i premiati Vico della Croce Bianca, 2019 e Falsi Miti 1999. Nel novembre 2021 al Teatro Valle di Roma ha preso vita il suo format Invisibile, selezione di podcast internazionali d’autore. Milano. Entrare nelle carceri con l’occhio dei fotografi di Fulvia Degl’Innocenti Famiglia Cristiana, 7 ottobre 2022 Dall8 ottobre al 6 novembre si può vedere la mostra di fotografia sociale “Ri-Scatti. Per me si va tra la perduta gente” - ideata dalla Onlus Ri-Scatti e promossa dal Comune di Milano al PAC Padiglione di Arte Contemporanea di Milano. Il ricavato della vendita delle foto andrà a supportare e a finanziare interventi architettonici volti al miglioramento della qualità della vita nelle carceri. Dal 9 ottobre al 6 novembre 2022, per l’ottavo anno consecutivo, torna Ri-Scatti, il progetto ideato e organizzato dal PAC Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano e da Ri-scatti Onlus - l’associazione di volontariato che dal 2014 crea eventi e iniziative di riscatto sociale attraverso la fotografia - e promosso dal Comune di Milano con il sostegno di Tod’s. La nuova edizione, patrocinata dal Ministero della Giustizia e realizzata in collaborazione con il Politecnico di Milano e con il Provveditorato Regionale Lombardia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, si propone di raccontare le complessità, le difficoltà, ma anche le opportunità della vita negli istituti di reclusione, al di là delle semplificazioni e delle stigmatizzazioni, fornendo ai partecipanti uno strumento formativo e generando anche un confronto costruttivo e una sinergia concreta tra l’amministrazione cittadina, quella penitenziaria e le istituzioni culturali milanesi. Quest’anno quindi i protagonisti assoluti sono stati i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria dei quattro istituti di detenzione milanesi: Casa di Reclusione di Opera, Casa di Reclusione di Bollate, Casa Circondariale F. Di Cataldo, IPM C. Beccaria. Un percorso mai affrontato prima da nessun altro, con una novità assoluta per i partecipanti che hanno seguito il corso di formazione durato mesi: per i detenuti la possibilità di avere a loro disposizione le macchine fotografiche nei reparti e nelle celle e per gli agenti di polizia la possibilità di disporne durante i loro orari di lavoro. Il risultato è un racconto intenso, veritiero, esplicito, dalle tinte forti ed estremamente duro. La mostra al PAC che conclude il progetto formativo è come sempre ad ingresso gratuito. Data l’eccezionalità dell’evento, la mostra si estende in durata per un mese intero e apre alla città Sabato 8 ottobre dalle 19:30 fino alle 23:30 in occasione della Diciottesima Giornata del Contemporaneo, promossa da Amaci Associazione dei Musei d’Arte Contemporanea Italiani per raccontare la vitalità dell’arte contemporanea nel nostro Paese. Tutte le foto - stampate da FDF Fotolaboratorio Digital Service su carta Canon Photo Paper Pro Luster 260 gr. - e il catalogo sono in vendita e l’intero ricavato andrà a supportare e a finanziare interventi architettonici volti al miglioramento della qualità della vita nelle carceri. Queste attività saranno gestite e coordinate dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano che, insieme al Dipartimento di Design, da molti anni svolge ricerche di tipo partecipativo negli spazi detentivi, documentate in mostra nella Project Room Laboratorio Carcere. Bari. La figlia si laurea, il padre detenuto assiste alla seduta dal carcere di Benedetta De Falco La Repubblica, 7 ottobre 2022 Emozione a Bari dove l’università ha accolto la richiesta della neodottoressa che si è laureata in Scienze della formazione primaria con una tesi dedicata proprio all’importanza delle relazioni familiari nell’ambito della rieducazione. ll 5 ottobre all’Università di Bari una giovane studentessa ha potuto condividere tramite la sua seduta di laurea anche con suo padre, detenuto in carcere (non a Bari) tramite un canale online. “E’ stato emozionante per tutti, sia per chi assisteva online, sia per tutti i presenti in aula” racconta con soddisfazione Ignazio Frattaglia, docente e referente Uniba per percorsi formativi con l’Amministrazione detentiva: “Non c’è solo un aspetto emotivo, ma un’evidenza scientifica. Analizzando le storie, investire nei legami familiari abbassa la recidiva, abbassa la possibilità di compiere nuovi reati, non delinquono”. La neo dottoressa si è laureata in Scienze della formazione primaria con una tesi dedicata all’importanza delle relazioni familiari nell’ambito della rieducazione. Una storia che acquista valora e potenza considerata la scelta della giovane ragazza di voler diventare un’educatrice. “Questo aspetto ha un peso tenendo conto anche della sua esperienza privata dolorosa. Lei è stata coraggiosa perché un decina di giorni prima della seduta ha deciso di mettere in piazza il suo desiderio e condividere una dimensione privata, delicata” rimarca Ignazio Frattaglia. La seduta è stata presieduta da Loredana Perla, direttrice del Dipartimento Forpsicom Uniba, e composta dai docenti Armando Saponaro, relatore della tesi e Pasquale Musso. Non è l’unico caso che si verifica all’ Università di Bari. Sono molti gli studenti che hanno familiari in un istituto di detenzione, ma per riservatezza, non lo condividono con i docenti. Il lavoro congiunto e sinergico tra Università di Bari e Magistratura di Sorveglianza, operatori penitenziari e direzione della struttura penitenziaria in cui il papà della studentessa è ristretto, hanno permesso di realizzare un momento di condivisione familiare. La storia in realtà esprime bene la direzione politica degli organi coinvolti sul tema: “ La detenzione non dovrebbe essere un motivo di isolamento, ma prevedere un percorso educativo ed anche di condivisione” specifica Grattagliano: “L’8 luglio è stata stabilita una convenzione fra Amministrazione penitenziaria e vari atenei pugliesi”. Già dal 2017 l’attenzione del mondo della formazione verso quello penitenziario ha trovato spazio in tavoli tecnici a livello nazionale con importanti sinergie tra università e istituti detentivi. In Puglia esistono poli universitari per i detenuti per garantire loro un’offerta formativa e per dare l’occasione agli studenti di conoscere in modo diretto il personale della penitenziaria, spesso coinvolto attivamente durante le lezioni di Criminologia all’UniBa. “Il problema centrale, lavorando in carcere” - conclude Grattagliano - “è coniugare l’educazione e la promozione insieme alla sicurezza. E in questo anello di congiunzione è nata la possibilità di far iscrivere dei detenuti ai corsi. C’è una piattaforma nazionale che permette di iscriversi all’università”. Novara. “Il colloquio” in carcere va in scena con Le Notti di Cabiria di Cecilia Colli lavocedinovara.com, 7 ottobre 2022 L’appuntamento è per venerdì 9 a Casa Bossi. Incontro pre spettacolo a ingresso gratuito con la direttrice del carcere di Novara, il garante regionale dei detenuti e il presidente della Camera Penale. Nuovo appuntamento con la rassegna teatrale “Le Notti di Cabiria” nel cortile di Casa Bossi. Venerdì 9 settembre alle 21 andrà in scena “Il colloquio” - vincitore Premio Scenario Periferie 2019 -, uno spettacolo sul tema della detenzione interpretato da Renato Bisogni, Alessandro Errico, Marco Montecatino con la regia e la drammaturgia di Eduardo Di Pietro. L’ambientazione è quella del carcere di Poggioreale, Napoli, giorno di colloqui tra i detenuti e i famigliari. Tre donne, in coda con altre persone, attendono stancamente l’inizio degli incontri: portano oggetti da recapitare all’interno e una di loro è incinta: in maniera differente desiderano l’accesso al luogo che per ognuna custodisce un legame. La galera, un luogo alieno, in larga parte ignoto ed oscuro, si rivela un riferimento quasi naturale, oggetto intermittente di desiderio e, paradossalmente, sede di libertà surrogata. In qualche modo la reclusione viene condivisa all’esterno dai condannati e per le tre donne, che se ne fanno carico, coincide con la stessa esistenza: i ruoli maschili si sovrappongono alle vite di ciascuna, ripercuotendosi fisicamente sul corpo, sui comportamenti, sulle attività, sulla psiche. Nella loro realtà, la detenzione è una fatalità vicina - come la morte, - che deturpa l’animo di chi resta. Anche questa volta lo spettacolo sarà preceduto da un incontro alle 18.30 dal titolo “Vita in carcere: un ponte fra detenzione e libertà” al quale interverranno Rosalia Marino, direttrice del carcere di Novara; Bruno Mellano, garante regionale di detenuti; Alessandro Brustia, presidente della Camera Penale di Novara. Info e ingressi: 10 euro in prevendita su vivaticket.com oppure presso Tune Dischi (via Rosselli 23, Novara). In caso di maltempo, gli spettacoli sono garanti nello spazio coperto di Casa Bossi. La deriva della giustizia in un paradigma moralizzante di Patrizio Gonnella Il Manifesto, 7 ottobre 2022 “Il malinteso della vittima” di Tamar Pitch, per le Edizioni Gruppo Abelez. La vittima potenziale o effettiva di un delitto diviene l’arma a disposizione di un pezzo di mondo politico il quale, disprezzando ogni ipotesi di società inclusiva, solidale e welfaristica, affida le sorti del proprio consenso a politiche di sicurezza e repressive che vadano a sostituire le più tradizionali politiche sociali La deriva della giustizia in un paradigma moralizzante - Siamo tutti vittime? A questa domanda Tamar Pitch prova a dare risposte razionali, articolate e profonde nel suo ultimo libro (Il malinteso della vittima, Edizioni Gruppo Abele, pp. 112, euro 14). “Il protagonismo della e delle vittime all’interno della giustizia penale indica una tendenza alla privatizzazione (e moralizzazione) della giustizia penale stessa”. Il diritto penale dovrebbe svolgere ben altra funzione, ossia anestetizzare il rischio del ritorno alla vendetta privata, affidando allo Stato la risposta punitiva. Il paradigma vittimario, invece, tende a mettere al centro delle politiche di sicurezza, penali e penitenziarie la vittima. In suo nome si trasformano le città in luoghi video-sorvegliati, si riducono le garanzie, si aumentano le pene, si negano le misure alternative alla detenzione. Non di rado accade nelle prassi dei tribunali di sorveglianza che si neghino provvedimenti di liberazione condizionale o di affidamento ai servizi sociali in quanto il detenuto non si sarebbe adoperato per risarcire o chiedere scusa alla vittima. La vittima potenziale o effettiva di un delitto diviene dunque l’arma a disposizione di un pezzo di mondo politico il quale, disprezzando ogni ipotesi di società inclusiva, solidale e welfaristica, affida le sorti del proprio consenso a politiche di sicurezza e repressive che vadano a sostituire le più tradizionali politiche sociali. Tamar Pitch ci ricorda come un tempo venisse diversamente declinata, in particolare nel mondo progressista e democratico, la parola sicurezza. Esistevano nelle realtà territoriali del nostro Paese, ad esempio, gli assessorati alla sicurezza sociale. Essi sono stati progressivamente sostituiti da giunte di destra e di sinistra dagli assessorati alla sicurezza, senza ulteriori aggettivazioni. Negli ultimi tre decenni abbiamo subito la retorica della “tolleranza zero”. Tutto più o meno iniziò con le politiche di Rudolph Giuliani nella New York della metà degli anni Novanta del secolo scorso. Tolleranza zero verso i poveri, i tossicodipendenti, i neri, contro chiunque vivesse ai margini della società. La criminalità di strada è stata a lungo al centro di tante campagne elettorali, al di là e al di qua dell’oceano. Il tutto per assicurare decoro (parola molto cara all’autrice che l’ha destrutturata in un altro suo bellissimo libro) e benessere alla componente ricca e borghese della società, che avrebbe potuto essere potenzialmente vittima di aggressioni di strada. La sicurezza, ci ammonisce l’autrice, ha perso quel significato che aveva in epoca illuministica in Beccaria e Montesquieu, ossia sicurezza individuale dagli arbitrii del potere sovrano. Per Tamar Pitch il sistema penale è selettivo sulla base del censo, della nazionalità, dello status sociale delle persone colpite. È sufficiente andare in visita in un carcere metropolitano per rendersi conto di chi affolla le nostre prigioni: i soliti noti che sembrano riportarci al titolo di uno straordinario disco di Tom Waits del 2006: Orphans: Brawlers, Bawlers & Bastards. Passando di canzone in canzone, con un riferimento a Gold Watch Blues di Donovan si apre il primo capitolo del libro dedicato allo scenario di riferimento. Nel testo c’è un colloquio di lavoro tra il padrone e un suo aspirante lavoratore. Si desume quale fosse la normalità a quei tempi, ossia il lavoro a tempo indeterminato. Oggi, nell’era della precarietà lavorativa, proprio per immunizzare il potere dai rischi del conflitto sociale, le politiche dalla sicurezza non sono pensate per proteggere dalla precarizzazione delle vite ma soltanto dai rischi di diventare vittime di crimini di strada. Una scelta semplificata, truce, reazionaria frutto dei tempi che stiamo subendo. Tamar Pitch ne offre un quadro allarmato e nitido. “Le pene e il carcere” di Stefano Anastasia letture.org, 7 ottobre 2022 Prof. Stefano Anastasia, Lei è autore del libro Le pene e il carcere, edito da Mondadori Universita?: cos’è la pena e quali possono essere le sue concrete articolazioni? Le pene e il carcere, Stefano AnastasiaLa pena è esattamente quello che dice di essere: una sofferenza. Una sofferenza inflitta intenzionalmente dallo Stato a chi abbia violato norme e leggi a cui il nostro tempo storico (la nostra cultura, le sue classi dirigenti, i sentimenti popolari diffusi) attribuiscono un valore fondamentale, tale, appunto, da giustificare una inflizione di sofferenza istituzionale. La più comune delle sofferenze inflitte sotto forma di pena continua a essere la privazione della libertà per un periodo di tempo determinato, ma sopravvivono le pene capitali (la pena di morte o la pena fino alla morte dell’ergastolo) e si diffondono le misure penale di comunità, applicate in alternativa al processo, alla pena detentiva o durante la sua esecuzione. Ma dal punto di vista fenomenologico se la pena giuridica è innanzitutto inflizione di sofferenza, è difficile non considerare tale qualsiasi forma di privazione della libertà inflitta coattivamente, come gli arresti o la custodia cautelare in carcere in attesa del processo o l’esecuzione di una misura di sicurezza che sopravvivono nel nostro ordinamento, dopo la pena principale o al posto di essa. Quali dinamiche hanno caratterizzato il sistema penitenziario italiano e quali chiavi di lettura e? possibile darne? Da trent’anni il sistema penitenziario italiano vive una perenne emergenza, segnata da un sovraffollamento che non si riesce a contenere, se non in situazioni eccezionali e per brevi periodi di tempo. È questo il frutto di un cambiamento di clima politico-sociale che, a partire dai primi anni Novanta del secolo scorso, ha reso il vocabolario della colpa (e quindi della pena) lo strumento comunicativo essenziale di una sfera pubblica depoliticizzata, in cui non ci sono più conflitti sociali alla ricerca di soluzioni progressive, ma colpe individuali o collettive da portare a processo, condannare e punire. In che modo la questione dei diritti umani dei detenuti e? venuta emergendo nella giurisprudenza umanitaria? A cavallo tra la prima decade del nuovo secolo e questa, dopo la crisi economico-finanziaria del 2008, anche gli Stati più generosi nel finanziamento dello “stato penale” e della “incarcerazione di massa” hanno marcato l’impossibilità di continuare a sostenere il tasso di accrescimento del proprio sistema penitenziario e quindi si sono trovati davanti al bivio tra incarcerazione di massa e rispetto dei diritti umani dei detenuti: se la finanza pubblica non garantisce (come è stato per decenni negli Usa) l’ampliamento del sistema penitenziario al ritmo dell’accrescimento della popolazione detenuta, l’alternativa tra carcere e rispetto dei diritti umani dei detenuti diventa secca. Così abbiamo avuto la storica sentenza Brown vs. Plata della Corte Suprema statunitense nel 2012, la legittimazione del numero chiuso in carcere da parte della Corte costituzionale tedesca nel 2011 e, per quanto ci riguarda, le sentenze Suleijmanovic (2009) e Torregiani (2013) della Corte europea dei diritti umani contro il sovraffollamento. Seguendo una confusa giurisprudenza della Corte costituzionale, pronunciamenti di questa natura vengono ancora generalmente qualificati dalla dottrina penalistica come effetto dell’auspicato principio rieducativo che è nell’art. 27 della nostra Costituzione, ma io credo che si debba piuttosto riferirli al divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, pure previsto dallo stesso articolo costituzionale e dalle principali carte internazionali dei diritti, limite categorico alla legittimità del potere punitivo da parte dello Stato. Si tratta, dunque, di “giurisprudenza umanitaria”, non di “giurisprudenza rieducativa”. Una talpa a cui affidare un’opera di scavo in concreto della legittimità delle pene e di quella detentiva in particolare. Che ruolo svolge la questione della sicurezza nelle politiche penali? La svolta punitiva maturata in Italia a partire dall’inizio degli anni Novanta non ha una correlazione significativa con l’andamento degli indici di delittuosità, né è solo il frutto di capricci repressivi del legislatore, della giurisprudenza o degli apparati di sicurezza. Certamente le trasformazioni del potere politico a livello locale, nazionale e transnazionale hanno pesato nell’investimento istituzionale in politiche repressive capaci di garantire consenso di massa a sistemi politici sempre più deboli nella determinazione del benessere economico-sociale, ma non bisogna dimenticare l’altro corno del problema: la svolta neoliberale della fine del secolo scorso ha prodotto una progressiva dismissione dei sistemi di protezione sociale novecenteschi, con l’effetto di generare una penuria sociale di sicurezza ontologica che, non potendo più rivolgersi alle istituzioni del welfare, trova risposte sul versante della prevenzione dei rischi di vittimizzazione e nella individuazione di capri espiatori in soggetti che abitano le nostre città o travalicano le nostre frontiere. È così che la vecchia questione della “sicurezza sociale” è stata assorbita nelle nuove politiche della sicurezza volte al contrasto della marginalità e della devianza (le cd. politiche di “tolleranza zero”). D’altro canto, nel paradigma meritocratico neoliberale chi non ce la fa è esso stesso responsabile della sua condizione: chi è causa dei suoi mali, pianga se stesso. Quali effetti producono le interpretazioni populiste del diritto e della giustizia penale? Da qualche tempo preferisco parlare di uso populista del diritto e della giustizia penale, piuttosto che di populismo penale. Il populismo penale evoca l’esistenza di un movimento politico-ideologico propriamente giustizialista, che veda nella esecuzione delle pene il proprio fine ultimo, il che è evidentemente una distopia. Invece parlare dell’uso populista del diritto e della giustizia penale dà conto della diversità di attori, motivazioni, obiettivi, strumenti degli usi possibili ed effettivamente praticati del diritto e della giustizia penale a fini di consenso, legittimazione e successo da parte di movimenti politici, attori istituzionali o imprese editoriali. L’uso populista del diritto e della giustizia penale travolge i canoni tradizionali del diritto penale liberale e alimenta quel senso di insicurezza a cui vorrebbe rispondere. Come scrivevano Garapon e Salas nella loro Repubblica penale, il diritto penale è uno strumento rozzo, che si manifesta ai cittadini quando non è riuscito a prevenire quel delitto o quel misfatto che avrebbe voluto evitare. Quindi non solo rivolge lo sguardo all’indietro, senza dare risposte alle domande sul futuro che tante questioni “penalizzate” dal suo uso simbolico e populista evocano, ma si avvolge in una spirale senza fine, per cui ogni delitto evoca un reato che ancora non c’è o una pena da rendere più grave attraverso l’ennesimo “pacchetto sicurezza”. I risultati sono sotto gli occhi di tutti, con un sistema di esecuzione penale triplicato in trent’anni a parità di reati e una insicurezza percepita sopita solo recentemente dal timore del virus nei momenti più gravi della pandemia. Che ne è dei diritti umani in carcere? I diritti umani in carcere sono posti a grave rischio ogni volta che si manifesti una sproporzione tra i livelli di incarcerazione e le risorse a disposizione del sistema. Quando si denuncia il sovraffollamento delle carceri non si parla solo di spazi e ambienti inadeguati e insalubri, ma anche di risorse umane e finanziarie insufficienti a garantire l’assistenza sanitaria, l’istruzione, le relazioni familiari, il “trattamento rieducativo”. Tutti questi sono diritti umani dei detenuti a rischio di fronte a un uso del diritto e della giustizia penale che li considera variabili dipendenti delle necessità di consenso di attori politici e sociali esterni. Quali giustificazioni e limiti incontra il diritto di punire? La migliore giustificazione del diritto di punire riposa su quali sarebbero gli effetti della sua inesistenza: non mancherebbero la violenza e l’abuso tra gruppi e individui, ma sarebbero sregolati. Si manifesterebbe, cioè, quello che Raul Zaffaroni chiama il “potere punitivo” che esiste in natura, il potere del più forte sul più debole, senza che a esso sia possibile dare freno e confine. Ecco allora che il diritto di punire si giustifica come limite al potere punitivo sregolato che verrebbe esercitato in sua assenza. Per questo, da un punto di vista teorico, il diritto penale non può che essere minimo, cioè finalizzato alla minimizzazione della violenza che si manifesterebbe in sua assenza, come ci ha insegnato Luigi Ferrajoli. Il limite del diritto di punire è dunque fissato nel riconoscimento della piena umanità, e della piena dignità, dell’autore di reato, condannato per un fatto, ma non identificato con la condotta che lo ha portato davanti al giudice. Piena umanità e piena dignità del condannato significano piena titolarità dei diritti umani, non comprimibili - come dicono le carte internazionali - oltre le strette necessità conseguenti alla privazione della libertà (per i casi e per i reati per cui il sacrificio della libertà personale possa trovare giustificazione, aggiungo io). Quali questioni rimangono ancora aperte e interrogano radicalmente la legittimita? e la sopravvivenza del sistema penitenziario? Nel libro ne individuo tre, ma sono pronto ad accettare un ampliamento della casisitica: la tutela del diritto alla salute, la violenza nei confronti dei detenuti, la pena dell’ergastolo. La pena senza fine dell’ergastolo non confligge solo con la finalità rieducativa della pena, ma ancor più radicalmente con il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità: quale condizione umana è quella che è destinata a consumarsi tra le mura di un carcere, senza poter più immaginare una signoria sul proprio corpo e sulla propria vita? La violenza e gli abusi in carcere, in danno dei detenuti (ma anche quelli che subiscono talvolta gli agenti e gli operatori penitenziari) sono il sintomo della violenza latente che è nella privazione della libertà, nella coazione dell’istituzione sui suoi “ospiti involontari”, come anni fa un raffinato capo dell’Amministrazione penitenziaria chiamava i detenuti. Al di là dei singoli casi di abusi e violenze che arrivano agli onori delle cronache, il problema è quanto e in che misura sia accettabile un sistema di esecuzione penale che mette in conto una violenza latente che, in situazioni conflittuali, possa sprigionarsi in violenza manifesta. Infine, nel 2008 in Italia ha trovato finalmente attuazione il principio di equivalenza delle cure, in carcere come nella società esterna, e il Servizio sanitario nazionale ha preso in carico l’intera popolazione detenuta. Ma come garantire un’effettiva equivalenza nell’assistenza sanitaria tra chi è costretto in carcere, in una situazione patogena dal punto di vista fisico e psichico, e chi è fuori e può accedere a una pluralità di servizi, se ne ha la possibilità anche a proprie spese, e comunque può far valere la propria voce di fronte a eventuali disservizi del sistema? Se diritti umani devono essere, possiamo dire che il carcere garantisce effettivamente una equivalenza delle cure e non lede il diritto alla salute di chi vi è costretto? Cosa resta della pena dopo la sua fine? La finalità rieducativa delle pene, e in particolare di quella detentiva, resta spesso un miraggio, così raro da non essere talvolta neanche perseguito. Il fine della pena è la sua fine, scriveva qualche tempo fa Adriano Sofri. Eppure la finalità rieducativa evoca un futuro oltre la pena, cosa essenziale se non si vuole ridurre l’autore al suo reato, la persona a cosa. Abbandonata una concezione catartica della pena, la responsabilità pubblica, di chi la infligge in nome nostro, è quella di garantire ai detenuti e alle detenute il libero godimento di tutti i diritti fondamentali esercitabili in condizione di privazione della libertà e di offrire tutte le opportunità di istruzione, formazione e crescita culturale che possano compensare lo svantaggio sociale che porta la gran parte di loro a essere tali. Il resto è nella capacità di ciascun uomo e ciascuna donna detenuta di fare memoria della propria esperienza detentiva nella ricostruzione della propria biografia, senza cancellare nulla del proprio vissuto, ma riconoscendolo come parte di una soggettività ancora aperta all’esperienza. Annie Ernaux, il Nobel e la rivoluzione della scrittura di Michela Marzano La Repubblica, 7 ottobre 2022 Nessuno dei suoi libri può veramente dirsi un romanzo perché lei ha stravolto i canoni letterari intersecandoli alla storia e alla sociologia. La capacità di scavare dentro la vergogna. La scrittura come esigenza: una necessità che non lascia spazio a nient’altro. È difficile trovare un modo diverso per descrivere l’opera di Annie Ernaux, la scrittrice francese che ha vinto quest’anno il premio Nobel per la Letteratura. Premio meritassimo ma anche inatteso, nonostante il nome di Ernaux circolasse parecchio negli ultimi giorni. Anche semplicemente perché la scrittura di Annie Ernaux non è affatto convenzionale. Anzi. Ha contribuito, come forse, nessun’altra, a stravolgere i canoni letterari tradizionali: nessuno dei suoi romanzi può d’altronde essere davvero definito un “romanzo”. Il premio nobel Annie Ernaux tra fiction e autobiografia - I libri della scrittrice francese, nata in Normandia nel 1940, non sono né semplici opere di fiction, né banali testi autobiografici, né saggi divulgativi, né reportage, ma tutte queste cose insieme: collocandosi all’intersezione tra la letteratura, la storia e la sociologia, Annie Ernaux non ha mai smesso di vivisezionare la propria memoria e il proprio vissuto, restituendo con enorme coraggio i legami profondi che legano ogni persona alle sue radici. La scrittrice francese parte sempre da sé e dalle proprie vicende, dalla storia dei propri genitori e dalla vergogna di essere nata in un contesto familiare umile, lontano dalla capitale e dal milieu culturale parigino. Ma lo scopo non è mai quello di mettere a nudo sé stessa: la sua scrittura è un atto politico, un modo per denunciare i privilegi di nascita e le nevrosi di classe, trasformando le persone comune, le “petis gens” come lei stessa le definisce, in eroi. Nei libri del premio Nobel Annie Ernaux il ritratto di una generazione - Libro dopo libro, la scrittrice francese è stata sempre capace di universalizzare la propria esperienza, raccontando così al tempo stesso la storia di un intero paese e la crisi della propria generazione. A partire da Gli armadi vuoti, pubblicato da Gallimard nel 1974, fino a Le jeune homme, uscito quest’anno (passando ovviamente per Il posto, Una donna, La vergogna e Gli anni, solo per citare alcuni dei suoi romanzi più belli), Annie Ernaux utilizza una scrittura scarna, essenziale, priva di orpelli e virtuosismi. Ciò che conta, per lei, è nominare nel modo giusto le cose e accompagnare il lettore, prendendolo per la mano, alla scoperta di sé stesso. Che si tratti della propria infanzia o dell’Alzheimer della madre, la scrittrice tocca le corde più intime dell’esistenza, mette in scena la commedia umana, e incarna in maniera ammirabile quella vergogna e quella colpa che, in tanti, ci portiamo dentro per tutta la vita, nonostante siano molto più numerose le volte in cui non si sceglie (e ci si lascia trascinare e determinare dal contesto storico-sociale in cui si evolve), che le volte in cui si decide autonomamente come comportarsi. Ma è soprattutto il voler “salvare qualcosa per quando non ci saremo più” che rende straordinaria l’opera di Annie Ernaux: la necessità di lasciare una traccia, appunto, attraverso una scrittura che scava dentro, nomina le mille sfaccettature dell’esistenza, e rende magnificamente testimonianza della vulnerabilità della condizione umana. Tra diritto comunitario e nazionale di Giuliano Pisapia Corriere della Sera, 7 ottobre 2022 Chi mette in discussione il principio di gerarchia che vede il diritto comunitario prevalere in molti casi su quello nazionale dimentica che questo è previsto nel Trattato di Lisbona. Caro direttore, esistono molti modi di mettere in discussione l’Europa specie dopo il fallito assalto “no euro” degli anni passati. Gli stessi che criticavano la moneta unica sono ora in fila per chiedere più soldi a Bruxelles e alla Bce. Si sta infatti profilando una nuova strategia, più subdola: quella di proporre modifiche nell’ordinamento costituzionale italiano che però finirebbero per minare l’esistenza stessa dell’Unione. Il punto principale, citato esplicitamente in Italia da importanti esponenti della nuova maggioranza, è quello di eliminare, completamente o solo parzialmente, il principio di gerarchia che vede il diritto comunitario prevalere in molti casi su quello nazionale. Il risultato concreto sarebbe il ritorno a una sostanziale anarchia giuridica in cui ogni Stato della Ue potrebbe fare come vuole, con l’addio a ogni politica comune europea. Salterebbe de facto il principio stesso di unione. A favore della revisione del principio di primazia tra diritto comunitario e nazionale vengono spesso richiamate le decisioni della Corte Costituzionale tedesca. È stato sostenuto che la Corte avrebbe affermato che fra i due sistemi normativi, prevale sempre quello che più tutela i cittadini tedeschi. Non ultima viene annoverata la celebre sentenza del 5 maggio 2020 della Corte di Karlsruhe relativa all’applicazione del quantitative easing da parte della Bundesbank nel rispetto dei provvedimenti della Banca Centrale Europea. Una decisione che però ha trovato l’immediata risposta della Commissione, del Parlamento e della Corte di Giustizia Europea che hanno ribadito il primato delle decisioni comunitarie sui temi espressamente previsti dai trattati Ue. È stata anche aperta una procedura d’infrazione contro la Germania per violazione degli obblighi derivanti dai Trattati. Se la questione con la Corte Costituzionale tedesca sembra - al momento - rientrata, diverso è il discorso con la Consulta polacca. Con sentenza del 7 ottobre 2021 - a seguito di un giudizio promosso dal primo ministro polacco - la Corte ha indicato che l’interpretazione secondo cui le disposizioni del Trattato sull’Unione europea porterebbero al primato delle norme di diritto internazionale sarebbero incompatibili con la gerarchia delle fonti di diritto vigente in Polonia. Il Parlamento Europeo, a distanza di due settimane esatte da quella esplosiva sentenza, ha adottato una risoluzione in cui “deplora profondamente la decisione del 7 ottobre 2021 del Tribunale Costituzionale” e la definisce illegittima “in quanto compromette il primato del diritto dell’Ue come uno dei suoi principi fondamentali ed esprime profonda preoccupazione per il fatto che tale decisione potrebbe costituire un pericoloso precedente”. Spesso si dimentica che il Trattato di Lisbona - che definisce i limiti delle competenze degli Stati membri e dell’Unione europea - è stato approvato nel 2008 all’unanimità dal nostro Parlamento, sia alla Camera che al Senato. Gli ambiti in cui i singoli Paesi, compresa l’Italia, hanno deciso di concedere all’Unione europea e il primato del diritto europeo su quello nazionale sono quindi stati concordati, sottoscritti e ratificati da tutti i Paesi europei, incluso il nostro che storicamente ha sempre svolto un ruolo fondamentale nella costruzione del progetto europeo, a partire dal Trattato di Roma del 1957. Troppo spesso si dimentica anche che è la nostra Carta costituzionale a consentire la limitazione della sovranità nazionale per contribuire alla creazione di un ordine internazionale che “assicuri la pace e la giustizia tra Nazioni” e che “le leggi debbono rispettare i vincoli comunitari” (articoli 11 e 117). La prevalenza della normativa Ue, del resto, riguarda solo le poche competenze esplicitamente attribuite dai trattati (unione doganale, regole su mercato interno, politica monetaria per i Paese con l’euro, risorse del mare e per la pesca e politica commerciale comune). Le numerose restanti materie sono rimaste di competenza nazionale o condivisa. Ad esempio neppure la sanità è di competenza Ue, anche se poi, il contributo positivo dell’Europa è stato fondamentale per contrastare il virus. Ecco perché, soprattutto in questo periodo difficile e complesso, le proposte che hanno l’effettivo obiettivo di minare il principio di supremazia della legge comunitaria su quella dei singoli Stati non inducono certo serenità nei nostri partner europei e stanno già facendo emergere dubbi, preoccupazione e mancanza di fiducia nei confronti del nostro Paese, con tutte le conseguenze economiche e sociali che ne conseguono. Era da augurarsi che simili proposte fossero solo boutade propagandistiche, ma al contrario trovano nuova vita anche dopo la campagna elettorale. Se il nostro Paese è cresciuto in termini di prosperità e ha oggi gli strumenti e le potenzialità per superare l’attuale momento difficile e delicato, lo deve anche, e in alcuni casi soprattutto, all’integrazione europea che si è sviluppata, quando necessario, anche con la supremazia della legge comunitaria su quella nazionale. Interrompere l’integrazione europea, ponendo fine a principi fondamentali, esporrebbe il nostro Paese (più di altri) a conseguenze incalcolabili e impensabili. L’Italia, paese fondatore prima della Comunità e poi dell’Unione europea, non può permettersi di diventare attore della messa in discussione delle sue basi fondative. Sono in gioco i nostri valori ma, è bene ricordarlo, anche i nostri interessi. *Vicepresidente della Commissione affari costituzionali Ue Alice Zago: “Non sono magistrata ma indago sui crimini contro l’umanità” di Stefano Lorenzetto Corriere della Sera, 7 ottobre 2022 È l’unica italiana a svolgere funzioni da pm nella Corte penale internazionale dell’Aia: “Putin? Non si può processarlo in contumacia” “Ho pianto con i bambini soldato del Congo” “La giustizia? È fatta di sfumature”. Mai lamentarsi dei tempi della giustizia italiana. La prima richiesta d’intervista ad Alice Zago, unica italiana head unified team (capo della squadra unificata) presso la Corte penale internazionale dell’Aia, risale al 28 aprile. Solo il 18 settembre le hanno concesso il nullaosta per conferire con il Corriere della Sera. Al lavoro su dossier scomodi - Trascorsa qualche altra settimana, ha accettato di parlare, a condizione che venisse premessa la seguente formula di rito: “Qualunque opinione esprimerò è puramente personale e non riflette in alcun modo la posizione dell’International criminal court”. Oltre cinque mesi di prudenza forse non guastano, essendoci di mezzo il tribunale sovranazionale che indaga sui genocidi, sui crimini di guerra e su quelli contro l’umanità. Nel frattempo, Paul Gicheru, il principale imputato perseguito da Zag o, accusato di aver corrotto e intimidito testimoni che avrebbero potuto inguaiare l’attuale presidente del Kenya, William Ruto, ha tirato le cuoia proprio il giorno prima del nostro colloquio: “Il processo era terminato a maggio. Stavo aspettando la sentenza. Dopodiché, se dichiarato colpevole, avrei formulato la richiesta della pena, come avviene nella procedura anglosassone”. Quanti anni di galera? “Non mi sento di poterle rispondere. È morto. Quindi adesso è innocente”. Un ruolo equivalente a quello italiano del Pm - Abituati alla loquacità delle Procure italiche, si resta basiti di fronte al riserbo di questa donna che ha appena compiuto 48 anni e che non vuole essere chiamata magistrata, pur rivestendo nell’Icc il ruolo svolto nel nostro Paese dal pubblico ministero e, quando va in udienza, del sostituto procuratore. Eppure da lei dipendono una decina fra magistrati, investigatori, analisti ed esperti in rogatorie internazionali. Alice Zago è cresciuta a Venezia e a Mostaganem, città algerina dove i genitori Carlo e Daniela hanno lavorato come architetti. Dopo la loro separazione, ha vissuto a New York e a Santiago del Cile con la madre, per lungo tempo funzionaria dell’Onu. Poteva diventare una toga in Italia… “Infatti m’iscrissi a Giurisprudenza alla Cattolica di Milano. La facoltà migliore. Lo feci per ribellarmi ai miei, simpatizzanti dell’estrema sinistra”. Lo sono ancora? “Le etichette sbiadiscono”. Era già attratta dalla magistratura? “Da Giovanni Falcone e da Paolo Borsellino. E dal processo Enimont. Ero in aula quando Antonio Di Pietro interrogò Arnaldo Forlani. Dopo un anno di studi, passai alla Statale e mi laureai in diritto greco antico con Eva Cantarella. Fui conquistata dalla professoressa sentendola parlare dello scudo di Achille. La tesi verteva su un’orazione di Demostene contro la prostituta Neera”. Un cambio di rotta mica da poco... “Poi avrei voluto sostenere il concorso per la magistratura. Ma tre anni di attesa mi sembravano un’eternità. Così prevalse il mio desiderio di fuga dall’Italia”. Meta? “Belgio, con l’Ong “Non c’è pace senza giustizia”. Stage a Bruxelles accanto a Emma Bonino, Marco Cappato e altri radicali del Parlamento europeo. Nel contempo, master in diritto a Lovanio”. E poi? “In missione con le Nazioni Unite in Guatemala. Quasi tre anni fra massacri dei militari e rivolte degli indios affamati, che linciavano i latifondisti”. All’Onu la raccomandò sua madre? “No, vinsi un concorso. In seguito raggiunsi il mio compagno a New York e tornai a lavorare da lì per l’Ong. Fornivamo assistenza giuridica e legale a Timor Est, resosi indipendente dall’Indonesia”. Quando è stata ammessa nella Corte penale internazionale? “Nel 2004, con un bando per titoli ed esami. Fra i requisiti richiesti c’erano capacità analitiche e perfetta conoscenza dell’inglese. Entrai come investigatrice”. Che esperienza vantava in materia? “Avevo indagato sulle violazioni dei diritti umani in Guatemala”. Quali grandi criminali ha scovato? “Più sono grandi e meno sono noti”. Il suo primo incarico all’Aia quale fu? “Mi spedirono in Congo, provincia di Ituri, dove la lotta fra Hema e Lendu era fomentata per il controllo delle miniere di oro e cobalto. Io mi occupavo di stupri e arruolamento di bambini soldato, altri tre colleghi di stragi etniche, omicidi, torture e mutilazioni. Alloggiavamo in un container dell’Onu. Portammo alla sbarra Thomas Lubanga Dyilo, leader dell’Union des patriotes congolais. Fu condannato a 14 anni di reclusione”. Che faceva di brutto Lubanga Dyilo? “Reclutava i dodicenni e li drogava. Una combattente di 14 anni era incinta, quando la interrogai. Sono le situazioni in cui il mio lavoro diventa difficile”. In quei frangenti che fa? “Eh, ogni tanto si piange. Non si dovrebbe, ma l’emozione è troppo forte”. Fu l’esperienza più drammatica? “Sì, insieme con quella di human right officer dell’Onu nella giungla del Guatemala, dopo gli accordi di pace che avevano posto fine alla guerra civile. Avevo appena 24 anni. Con me c’erano un poliziotto, un medico forense, un genetista, un antropologo e un interprete. Il nostro compito era di scoprire le fosse comuni e dissotterrare le salme. Il lezzo della morte c’impregnava i vestiti”. Aprite i fascicoli d’ufficio o vi deve arrivare una segnalazione? “Entrambe le eventualità. Le denunce però non possono arrivare dai privati: solo dagli Stati o dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite”. L’Icc è riconosciuta da tutti gli Stati? “No, solo da 123. Non aderiscono 42 Paesi, fra cui Stati Uniti, Cina, Russia, India, Israele, Egitto, Iraq, Libia”. Quindi, se si ripresentasse un caso Eichmann, Israele non potrebbe chiedervi di processare il criminale nazista... “No, finirebbe a giudizio in Germania, dove ebbero luogo i misfatti. La Corte penale internazionale interviene quando uno Stato non può o non vuole perseguire un crimine contro l’umanità”. Avete ricevuto denunce a carico di Vladimir Putin per le barbarie commesse dagli invasori russi in Ucraina? “Non sono autorizzata a rispondere”. Non potete procedere d’ufficio? “C’è un’indagine condotta da un nostro procuratore, aperta a marzo”. Potreste processare e condannare in contumacia il presidente russo? “No. L’imputato dev’essere in aula”. Quale aula? “Qui all’Aia, nella sede dell’Icc, ne abbiamo tre per celebrare i processi”. Che durano quanto? “Compresa l’istruttoria? Dipende dalla complessità del caso e dal numero di crimini. Con Gicheru siamo arrivati a conclusione in tre-quattro mesi. Quando va per le lunghe, due anni al massimo”. Com’è possibile che fra tribunale, appello e Cassazione in Italia occorrano 1.545 giorni, cioè circa 4 anni e 3 mesi? “Non mi faccia parlare di fatti sui quali non sono informata”. Non ha la cittadinanza italiana? “Ce l’ho, ma non appartengo alla magistratura del mio Paese di origine. Immagino che vi siano molteplici ragioni a spiegare i ritardi, che vanno dal volume di attività alle carenze di organico”. La pena più severa inflitta dall’Icc? “Trent’anni di reclusione. Non irroghiamo l’ergastolo”. Il condannato dove la sconta? “Nel centro di detenzione qui all’Aia oppure nel Paese di appartenenza. Abbiamo accordi bilaterali in tal senso con molti Stati, soprattutto scandinavi”. Ha mai ricevuto minacce di morte? “Di morte e di violenza, in Congo, da parte dell’esponente di un gruppo armato. Ma non le ho mai prese sul serio. Non mi reputo una persona importante”. Non ha mai rischiato la pelle? “Solo una volta, in Guatemala, ma per tutt’altri motivi. Con il cibo o con l’acqua mi entrò in circolo un’ameba, che stava distruggendomi l’intestino. Fui salvata dai medici cubani. Sono molto preparati. In America Latina ne trovi sempre qualcuno nei luoghi più sperduti, quelli di cui persino Dio sembra essersi dimenticato. Fui trasportata a Città del Messico e da lì a New York, dove i sanitari dell’Onu mi tennero in cura per tre anni”. Non ha la scorta? “No, nessuno di noi ce l’ha. Solo il procuratore capo”. C’è un magistrato al quale s’è ispirata? “Sì, ma è poco noto. Si chiama Ben Gumpert, britannico. Era avvocato della Corte penale internazionale. Ora è giudice alla Crown Court a Londra, la Corte della Corona. Ha una capacità di controllo e un’eloquenza che soggiogano”. Da simil-pubblico ministero quale carriera la attende? “Da grande mi piacerebbe diventare la direttrice di Vogue al posto di Anna Wintour. Per divertirmi un po’”. (Ride). Il diavolo veste Prada... “Confesso di avere una smodata passione per la moda e per l’interior design, insomma per tutto ciò che è frivolo ma assolutamente necessario nella vita”. Crede che esista la giustizia terrena? “Io credo che esista soltanto la giustizia terrena”. Quella divina no? “Soggettivamente non penso che ci sia. Posso solo occuparmi di ciò che conosco. Anche se vorrei che esistesse una giustizia ultraterrena”. E in nome di chi va amministrata? “Di tutti noi”. “Occhio per occhio e dente per dente”, come detta l’”Esodo”, è giustizia? (Ci pensa). “No, non sempre. Anzi, direi proprio di no. Ho imparato che non esistono mai solo bianco e nero. Ci sono unicamente moltissime sfumature. La capacità di coglierle si chiama giustizia” Iran. Così l’aria della rivolta spazza via “il destino dell’obbedienza” di Dacia Maraini Corriere della Sera, 7 ottobre 2022 Sono i tempi dell’auto repressione, i tempi della riflessione e dell’incertezza: avrò il diritto di parlare? Le donne iraniane lo hanno fatto: la solidarietà è preziosa. Le donne hanno bisogno di tempo per passare dal pensiero all’azione. Per il semplice fatto che sono state abituate, per costrizione, a ingoiare il malcontento, a tacere, rimandare, sopportare. Sono i tempi dell’auto repressione, i tempi della riflessione e dell’incertezza: avrò il diritto di parlare? Avrò il diritto di disobbedire senza venire meno al mio destino di donna? Avrò il diritto di esprimere il mio disaccordò, la mia ira, avrò il diritto a un principio di libertà? Tutte domande a cui la storia ha sempre risposto: no, tu non hai diritto di disobbedire alle leggi dei Padri. Se la donna insisteva chiedendo il perché di questo destino, la risposta era sempre la stessa: perché lo vuole Dio Padre. Ti puoi mai mettere contro Dio? Se pretendi di saperne più del Padre che sta nei cieli o sei pazza e ti mandiamo subito in manicomio, oppure sei solo presuntuosa, allora sarai condannata all’esilio dalla comunità. In certi periodi, dopo un processo fatto di torture per ottenere la confessione di connivenza col demonio, veniva condannata al rogo. Bruciata viva davanti alla sua comunità. E si chiedeva ai parenti di portare le fascine e di pagare il cibo consumato in prigione. Per tutte queste ragioni le donne fanno fatica a ribellarsi. Molte poi hanno talmente introiettato la condizione di inferiorità da non rendersi nemmeno conto delle ingiustizie che subiscono. Per fortuna alcune, di solito le più allenate all’uso del pensiero autonomo e della parola, di fronte a un ultimo atto di crudeltà misogina finalmente trovano il coraggio di uscire allo scoperto. E improvvisamente le altre, quelle che hanno sempre taciuto, respirano l’aria della rivolta e riconoscono in se stesse la rabbia per quella ideologia che le vuole deboli, remissive e silenziose. Capiscono, dall’esempio delle più ardimentose, che si può reagire, si può protestare. E non importa se si rischia la vita. Per una volta rifiutano una quotidianità fatta di umiliazioni accettate perché volute da un Dio Padre crudele e discriminante. È quello che è successo in Iran in questi giorni. Alcune ragazze intraprendenti, prese dall’indignazione di fronte alla uccisione di una coetanea da parte della “polizia morale”, hanno cominciato a protestare in pubblico togliendosi il velo e tagliandosi i capelli. Le altre hanno seguito, accompagnate spesso da ragazzi insofferenti a un regime di totalitarismo religioso. La reazione è stata brutale e spropositata: a oggi si parla di 150 morti e 20.000 arrestati. Segno che il regime è terrorizzato dalla protesta dei giovani e pensa di fermarla con il terrore. Li buttano nel famigerato carcere di Evin, conosciuto per le sue efferatezze. Ma ce la faranno a fermare la protesta? E che dire della decisione delle donne europee che si tagliano ciocche di capelli in segno di solidarietà? Sono state accusate di frivolezza e gesti di inutile teatralità. A me sembra invece che facciano benissimo. La solidarietà è preziosa e aiuta chi protesta. Tutti i regimi cercano il consenso e il consenso straniero ha un suo peso. Quindi anch’io, simbolicamente, mi taglierò i capelli (che ho già corti per antica disobbedienza) e manderò loro un saluto pieno di ammirazione e di affetto. Iran. 82 uccisi in un giorno, ma la rivolta non si ferma di Farian Sabahi Il Manifesto, 7 ottobre 2022 Medio Oriente. La denuncia di Amnesty: “Venerdì nero” nella regione sunnita con aspirazioni autonomiste. Domani nuovi scioperi a scuola. L’Europarlamento chiede sanzioni. Mattarella: “La forza dei valori è inarrestabile”. Al di là di simbolici tagli di ciocche sui social, il primo gesto concreto di solidarietà nei confronti degli iraniani che protestano giunge dalla ministra tedesca dell’Interno. Rivolgendosi agli stati federali tedeschi, a cui spettano le decisioni di questo tipo, la socialdemocratica Nancy Faeser ha dichiarato che “i rimpatri verso l’Iran sono irresponsabili di fronte all’attuale situazione disastrosa dei diritti umani” e quindi “il divieto di espulsione è il passo giusto su cui i Laender dovrebbe decidere al più presto”. La Bassa Sassonia ha già temporaneamente sospeso la possibilità di rimpatriare persone verso l’Iran e il ministro dell’Interno del Land, il socialdemocratico Boris Pistorius, ha annunciato che alla prossima conferenza dei ministri dell’Interno dei Laender presenterà una risoluzione per un divieto generale di rimpatri verso l’Iran. Da parte sua, Nancy Faeser potrebbe fare un passo ulteriore e fermare i rimpatri direttamente su base nazionale. Dal vertice di Arrajolos a Malta ha parlato ieri il presidente della Repubblica italiana. Sergio Mattarella ha dichiarato che “la forza dei valori europei a difesa dei diritti, della libertà e della democrazia è inarrestabile come dimostra la situazione in Iran”. Il Parlamento europeo chiede sanzioni ed esprime forte sostegno e “condanna fermamente l’uso diffuso, intenzionale e sproporzionato della forza”. Gli eurodeputati chiedono di “rilasciare immediatamente e incondizionatamente i difensori dei diritti umani, e di ritirare le accuse” e domandano al Consiglio per i diritti umani delle Nazioni unite di avviare un’indagine. Intanto, sono almeno 82 le persone - tra cui minori - uccise venerdì scorso a Zahedan, il capoluogo del Sistan e Balucistan nel sudest, dove si era diffusa la notizia dello stupro di una quindicenne da parte del capo della polizia nella località portuale di Chabahar. Una zona povera, al confine con Pakistan e Afghanistan, dove i pasdaran intervengono militarmente per colpire i contrabbandieri locali. La popolazione è di etnia baluci e di fede musulmana sunnita. Si tratta di una minoranza al tempo stesso etnica e religiosa, caratterizzati da un tasso di crescita demografica più alto rispetto al resto del paese. Qui, le proteste hanno riacceso le rivendicazioni di autonomia. Le iraniane e gli iraniani scendono in strada, nonostante i rischi, e non solo affinché il velo sia una libera scelta. Contestano la mala gestione della cosa pubblica ed esprimono preoccupazione per la disoccupazione e l’inflazione galoppante. In alcune province le proteste assumono un carattere locale, con rivendicazioni di autonomia e sulle questioni climatiche come a Urmia, il capoluogo della provincia iraniana dell’Azerbaigian occidentale, dove manca l’acqua. In prima linea ci sono i giovani, anche adolescenti: non vedono prospettive, i loro sogni verranno spenti dal clero sciita al potere che impone il diritto islamico, e dai pasdaran che hanno preso le redini del potere. Un peso reso ancora più gravoso dall’embargo internazionale e dalle sanzioni economiche. Agli iraniani, in Iran, poco importa dell’accordo nucleare e di ciò che sta a cuore alla diplomazia internazionale. Protestano, e muoiono. Il 20 settembre la sedicenne Nika Shahkarami aveva partecipato alle proteste. Secondo un documento ottenuto dalla Bbc Persian, sarebbe deceduta per “ferite multiple causate da percosse con un oggetto duro”. La famiglia avrebbe voluto seppellirla nella città natale di Khorramabad, nell’Iran occidentale, ma le autorità lo hanno impedito e sono passati alle minacce. Un attimo prima di essere arrestata, la zia aveva dichiarato alla Bbc Persian che i pasdaran le avevano detto di avere tenuto la nipote in custodia per cinque giorni per poi consegnarla alle autorità carcerarie. Minacciata, la zia è stata costretta a dichiarare in televisione che la nipote sarebbe “caduta da un edificio”. Di fronte alla repressione, che cosa c’è da aspettarsi? Mentre stiamo per entrare nella quarta settimana di proteste, l’impressione è che, di fronte alla mano pesante del regime, siano sempre più numerosi gli iraniani che scendono in strada. Oggi, venerdì, è un giorno festivo. Domani, a partire dalle 12, ci saranno proteste e scioperi dentro le scuole e nelle università: gli studenti andranno in aula ma, in segno di dissenso, non ascolteranno gli insegnanti. Myanmar. La “giustizia” della giunta: 10 anni di galera al regista giapponese di Emanuele Giordana Il Manifesto, 7 ottobre 2022 Toru Kubota condannato per “incitamento al dissenso”, come molti altri fotografi e filmmaker prima di lui. Un modo per colpire Tokyo, storico partner birmano che ora tentenna. Dieci anni di galera per un paio di scatti. Si potrebbe riassumere così la vicenda del regista giapponese Toru Kubota, condannato mercoledì in Myanmar per “aver incoraggiato il dissenso contro i militari e aver violato una legge sulle comunicazioni elettroniche”, come ha detto ieri una fonte diplomatica nipponica all’Afp. Accusato di un reato d’opinione, Kubota rischia una nuova condanna per aver violato anche la legge sull’immigrazione. La prossima udienza per questo capo d’accusa dovrebbe tenersi tra una settimana. Kubota, 26 anni, è stato arrestato durante a una manifestazione anti-giunta a Yangon a luglio insieme a due cittadini birmani. La condanna a un filmmaker e documentarista che aveva già lavorato a dossier sensibili in Myanmar, come il suo primo lavoro dedicato alla minoranza musulmana Rohingya, è la quinta a colpire giornalisti o fotografi. Prima di lui sono stati arrestati i cittadini statunitensi Nathan Maung e Danny Fenster, il polacco Robert Bociaga e il giapponese Yuki Kitazumi, tutti successivamente liberati e deportati. La giunta militare ha appena fatto condannare anche un cittadino australiano Sean Turnell, economista già consigliere economico del Governo della Lega nazionale per la democrazia (Nld), arrestato dalla giunta 5 giorni dopo il golpe del 1 febbraio 2021: deve scontare tre anni. I militari birmani non hanno gradito le prese di posizione australiane e giapponesi contro i golpisti e dunque il pugno sembra essere diventato più duro. Tokyo è tra i principali donatori del Myanmar e ha una relazione di lunga data con l’esercito del Paese, ma in settembre il ministero della Difesa giapponese ha dichiarato che interromperà un programma di addestramento per i militari birmani dal prossimo anno a causa delle esecuzioni di attivisti pro-democrazia da parte della giunta. In luglio sono stati giustiziati quattro oppositori, accusati di atti terroristici: Kyaw Min Yu (detto Ko Jimmy), Ko Phyo Zeya Thaw, Hla Myo Aung e Aung Thura Zaw. La giunta aveva promesso nuove elezioni nel 2023 ma sta già cambiando idea e intende posporle a data da destinarsi.