Galera-galera: la giustizia che sogna la destra è già realtà di Iuri Maria Prado Il Riformista, 6 ottobre 2022 Che cosa farà la destra in argomento di giustizia, si vedrà. Che cosa vorrebbe fare, invece, Giorgia Meloni l’ha lasciato intendere molto chiaramente spiegando che lei è “garantista quando è il momento del processo e giustizialista quando è il momento della pena”. Un’impostazione e un programma di giustizia piombata che né qualche vaga proclamazione liberale, né qualche candidatura posta a rappresentarla a mo’ di foglia di fico, bastano davvero a ingentilire. Sfugge a una destra così impostata che la gran parte dell’incivile giustizia italiana risiede proprio nelle pene smodate e nel modo e nei luoghi in cui esse ricevono esecuzione: e dire che bisogna essere garantisti se uno va a processo e giustizialisti se lo condannano, assomiglia parecchio alla tesi per cui bisogna andar cauti e rispettosi quando si deve decidere se torturare qualcuno, e rigorosi mentre lo si tortura. Può essere un processo perfetto, infatti, presidiato da garanzie efficaci e irrevocabili, anche quello che appunto conduce a una pena incivile o incivilmente eseguita; e occuparsi del diritto alla difesa si risolve in poca cosa se il destinatario del processo impeccabile diventa la vittima dell’aguzzino. La verità è che l’approccio garantista di certa destra si manifesta ancora e come sempre nell’idea che il diritto individuale sia un fronzolo da rispettare se agghinda gli abiti della gente dabbene, ma è un affare inutile e anzi un’oltraggiosa pretesa quando è invocato dalla canaglia. Questa storia che l’importante è la certezza della pena dovrebbe essere bandita dal nostro discorso pubblico, almeno sino a che è raccontata nel Paese in cui è certissimo che molto spesso la pena è alternativamente illegale o ingiusta, ed illegalmente o ingiustamente eseguita. Ma non è di questa certezza che si occupano le istanze sicuritarie della destra, la quale pare accontentarsi del fatto che a preludio dell’ignominia penal-carceraria intervenga un processo ammodino. Perché poi a rimpolpare le prospettazioni di quella tradizione politica è sempre la campagna delle nascite di nuove figure di reato, punire e punire e punire, e un sanissimo disinteresse anche per la sola idea che si tratti, al contrario, di punire meno o di non punire affatto e, soprattutto, di dedicare attenzione e investimenti per far cessare il lavoro di questa fabbrica di disperazione, di violenza, di malattia, di morte, che è il carcere italiano. “Costruirne di più” è la bella ricetta che anche da quella parte si continua a proporre, in non casuale consonanza di intenti con le formazioni reazionarie della magistratura militante che, tra due ali di carabinieri e in faccia a una foresta di microfoni e telecamere, organizza le conferenze stampa ai margini dei rastrellamenti giudiziari. Vedremo, insomma. Ma se è quel tipo di giustizia che la destra ha in mente, allora non deve nemmeno impegnarsi troppo: basta che lasci le cose come stanno. E, se proprio serve, può chiedere qualche utile consiglio a un pubblico ministero di fiducia. Il 2022 è l’anno dei suicidi in cella. Antigone: “È emergenza salute mentale” di Giuseppe Pastore Avvenire, 6 ottobre 2022 Mercoledì a Palermo si è svolto un sit-in per sollevare l’attenzione delle istituzioni sulle morti dietro le sbarre. Da gennaio si sono registrati 66 suicidi negli istituti penitenziari italiani. Mai così tanti suicidi in carcere come quest’anno. Il 2022 si preannuncia l’anno con il numero più alto di persone che si sono tolte la vita dal 2009, quando i suicidi hanno raggiunto quota 72. Da gennaio a oggi, invece, se ne contano già 66 a cui si sommano altre 60 morti per cause diverse, alcune ancora da accertare. “Basta morti in carcere”, hanno detto a gran voce gli attivisti di Antigone che ieri, 4 ottobre, hanno tenuto un sit-in davanti al tribunale di Palermo a cui hanno preso parte anche i famigliari di Samuele Bua e Roberto Pasquale Vitale, morti suicidi nel carcere Pagliarelli di Palermo, e la madre di Francesco Paolo Chiofalo, detenuto nel penitenziario palermitano e deceduto per cause da accertare. Alle istituzioni si chiede di intervenire su una situazione che, dal 2000 a oggi, conta 3.500 decessi di cui 1.240 suicidi. A questi numeri, poi, si aggiungono circa mille atti di autolesionismo all’anno, spiega il presidente di Antigone Sicilia Pino Apprendi. “Sono numeri che dovrebbero far riflettere chi si occupa di giustizia”, dice Apprendi: “E invece si è fatta una campagna elettorale nel silenzio perché nessuno dei leader nazionali ha toccato questo tasto, nonostante fosse un periodo molto caldo per i suicidi in carcere”. Tra i corridoi degli istituti penitenziari italiani si incrociano storie di vite diverse, molte interrotte troppo presto. Secondo un rapporto di Antigone, infatti, l’età media delle persone che si sono suicidate è di soli 37 anni. La maggior parte dei suicidi si consuma nella fascia d’età tra i 30 e i 39 anni, seguita da quella tra i 20 e i 29 anni. “Ci sono stati casi di suicidio pochi mesi prima dell’uscita dal carcere”, rivela Michele Miravalle, componente dell’osservatorio nazionale di Antigone. Stando al report dell’associazione, inoltre, molte persone che si sono tolte la vita erano ancora in attesa di giudizio. Dodici suicidi avvenuti quest’anno, poi, sono avvenuti dopo brevi permanenze in carcere e “nella maggior parte di questi casi le persone erano affette da patologie psichiatriche”. Quello della salute mentale in carcere può definirsi un’emergenza. “Il problema della salute mentale forse è la grande emergenza del carcere di oggi in Italia”, evidenzia Miravalle spiegando che “il 40% delle persone detenute fanno uso sistematico di psicofarmaci”. Il carcere, aggiunge “non ha strumenti per affrontare molte di queste situazioni perché c’è un’emorragia di personale professionale sanitario e di operatori di salute mentale che sistematicamente mancano e quindi, spesso, si ricorre allo psicofarmaco senza poter fare null’altro”. Proprio il tema della salute mentale rientra tra quelli sottoposti all’attenzione delle istituzioni dopo il sit-in di ieri a Palermo. “Chiediamo di evitare la detenzione per i soggetti fragili, identificati come malati psichiatrici o con gravi problemi psicologici”, spiega Pino Apprendi. Ma le richieste al prossimo esecutivo non si esauriscono qui: “Chiediamo di creare le condizioni affinché i detenuti in attesa di giudizio possano scontare a casa il periodo che li vede lontani dalla condanna”. E ancora: “Un intervento svuota-carceri che metta fuori i ragazzi dai 20 ai 30 anni che sono negli istituti penitenziari per reati minori”. Sono persone che, secondo i dati di Antigone, rappresentano la seconda fascia d’età nei casi di suicidi. Ogni suicidio cela dietro di sé una storia che meriterebbe di essere analizzata senza trasformarla in un numero. Ma i numeri ci sono e vanno interpretati. Secondo il citato rapporto di Antigone, infatti, “un importante indicatore del fenomeno - oltre ai numeri assoluti - è il tasso di suicidi, ossia la relazione tra il numero di decessi e le persone detenute”. Sebbene l’anno non si sia ancora concluso, il tasso di suicidi nel 2022 “sembra destinato a crescere rispetto al biennio precedente”: nel 2020 il tasso di suicidi era pari a 11 casi ogni 10mila persone detenute, mentre nel 2021 il valore è stato di 10,6 suicidi ogni 10mila persone detenute. E se questo non bastasse, Antigone ha confrontato il fenomeno suicidario all’interno del carcere con quello fuori dove si registrano 0,67 suicidi ogni 10mila persone. Negli istituti penitenziari, invece, “ci si leva la vita ben 16 volte in più rispetto alla società esterna”. Ma perché il 2022 rischia di passare alla storia come l’anno con il numero di suicidi più alti dell’ultimo ventennio? “Le risposte possono essere molte - commenta Miravalle. Non è banale che questo sia stato il primo anno post pandemico e che questa sia l’onda lunga di una pandemia che ha trasformato molto non solo la società, ma anche il carcere. Il carcere si sta riprendendo dalla pandemia molto più lentamente della società: molti progetti, anche nel mondo del volontariato, sono andati avanti a singhiozzo e alcuni si sono fermati e non hanno più ripreso. E quindi è chiaro che il carcere si trova in una situazione di abbandono, di solitudine”. Un primo passo: più telefonate per i detenuti - “Monitoriamo la situazione dei suicidi da molti mesi”, spiega Miravalle. “Ad agosto 2022 - ricorda - abbiamo avuto praticamente un suicidio ogni due giorni. Ormai siamo ben oltre il numero di suicidi degli ultimi anni”. Proprio quest’estate Antigone ha lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita” per sollecitare un allargamento delle maglie in materia di colloqui telefonici dei detenuti. “Ovviamente le telefonate non sono risolutive del problema, ma sono un importante strumento di prevenzione”, spiega Miravalle. Solo pochi giorni fa il Dap (Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria) ha diramato una circolare che affida discrezionalità ai direttori del carcere nell’autorizzare i colloqui telefonici o le videochiamate (introdotte in pandemia), anche oltre i limiti stabiliti dal regolamento di esecuzione dell’ordinamento penitenziario. Ma l’intervento dovrà essere stabilizzato dal legislatore e, quindi, dal Parlamento che sta per insediarsi. “Il Dap - commenta Miravalle - ha scelto una strada abbastanza prudente suggerendo ai direttori di avere un’applicazione meno restrittiva del regime delle telefonate che era stato allargato durante il Covid e che noi auspicavamo diventasse legge. Non siamo ancora a quel punto, ma è un primo risultato di percezione di un disagio che va affrontato”. Vivere in cella senza coltello e forchetta di Isabella De Silvestro Il Domani, 6 ottobre 2022 Nelle carceri italiane una cella è grande generalmente una decina di metri quadrati. Ci vivono due persone che dormono l’una sopra l’altra. Davanti a loro un televisore, di fianco un armadietto che contiene i pochi vestiti e oggetti personali, se va bene qualche libro, qualche lettera, qualche fotografia a ricordare la vita lasciata fuori. Dietro il letto a castello una finestra con le sbarre e infine un minuscolo stanzino cieco con un lavandino e un gabinetto. La cucina non c’è, eppure la grande maggioranza dei detenuti italiani cucina e mangia in cella - colazione, pranzo e cena - per anni, decenni e talvolta per tutta la vita. A guardar bene, tra il lavandino e il gabinetto si nota un fornello da campeggio. È qui che i due detenuti che abitano la cella cucinano il cibo che mangeranno per pranzo. Se è inverno, preferibilmente al nord Italia, uno dei due aprirà la finestra e, dal davanzale esterno che funge da frigo, prenderà gli ingredienti necessari a cucinare. Se è estate il proprio cibo andrà cercato nel frigorifero comune a tutta la sezione, posizionato nel corridoio. Uno dei due detenuti è fortunato e ha ancora qualche riserva del cibo inviato dalla famiglia in uno dei quattro pacchi consentiti ogni mese, che ogni amministrazione penitenziaria regola a suo modo: formaggio solo tagliato a fettine sottilissime, carne solo senza ossa, alcuni tipi di biscotti banditi. Nel microcosmo della cella si creano codici e abitudini, ognuno fa qual che gli riesce meglio e contribuisce come può, si suddividono i ruoli e si determina una routine familiare. Il momento del pasto è uno dei pochi in cui i detenuti possono fingere una certa normalità e calore casalinghi, una dimensione domestica che ricordi anche solo vagamente quella persa al momento dell’arresto. Una volta pronti gli ingredienti, sull’unico tavolino a disposizione - che è scrivania, comodino e tavolo da pranzo insieme - si inizia a preparare il pasto. I coltelli non ci sono, o meglio, sono di plastica, così come le forchette, i cucchiai e i piatti. “Quando per la prima volta ho preso in mano delle posate vere, dopo quindici anni di galera, mi sembravano pesantissime. Dovevo reimparare a maneggiare un coltello, una forchetta, una tazzina da caffè, come un bambino che scopre il mondo”, racconta un ex detenuto. In mancanza di veri utensili da cucina, i detenuti si ingegnano. Un manico di scopa diventa il mattarello per stirare la pasta, la grattugia si ricava da una scatoletta di tonno il cui coperchio viene bucherellato con le forbicine delle unghie, le lattine di birra, tagliate e arrotolate, si prestano a creare i gusci di pasta per i cannoli siciliani, la panna viene montata in una bottiglia di plastica, il pan di Spagna si taglia con un filo, la pizza si cucina usando due padelle. Per tagliare si usano di nuovo i versatili coperchi delle scatolette di tonno, oppure si sfila una vite dalla cerniera dell’armadio e la si affila: “Finché non te la trovano le guardie e ti fanno un rapporto, che significa un mese e mezzo di galera in più”. Sulla costruzione di qualcosa che assomigli a un forno ci sono varie versioni. I detenuti di lunga data raccontano che un tempo si costruiva ricoprendo uno sgabello con la stagnola dei pacchetti di sigarette, che si posizionava sopra il fornello da campeggio a creare una cappa. Dentro si cucina ogni genere di piatto: dalla pasta al forno alle torte. Ognuno contribuisce con i piatti tipici della propria tradizione regionale. Oggi si usano le teglie di stagnola che si possono compare allo spaccio della galera: il cosiddetto sopravvitto, previsto dall’articolo 9 dell’Ordinamento penitenziario. La cucina carceraria fatta di escamotage e inventiva riguarda infatti solo i detenuti che possono permettersi di emanciparsi dal vitto garantito dalla galera, facendo la spesa settimanale. Lo spesino - una figura presente in ogni sezione - passa a ritirare gli ordini dei detenuti, che scelgono gli alimenti da acquistare da una lista in carta intestata al ministero della Giustizia, attingendo il denaro dal proprio libretto carcerario. Nonostante la legge preveda che i prezzi dei generi alimentari non debbano essere superiori a quelli dei supermercati vicini alla struttura, in moltissime carceri si registra un sovrapprezzo non indifferente. Mangiare ciò che si vuole, cucinandolo come si può, in galera è costoso, e chi non ha una famiglia che alimenti il libretto o non riesce a ottenere un lavoro - i detenuti cosiddetti lavoranti sono circa il 25 per cento della popolazione carceraria - deve rassegnarsi al cibo insoddisfacente della cosiddetta “casanza”. “Il cibo che passa il carcere è una forma di tortura”, racconta un detenuto, “non solo non basta a sfamare, ma è di qualità bassissima, monotono, insapore e degradante”. Minestrine annacquate d’inverno e d’estate, wurstel e uova, una fettina di carne ogni tanto, purè di patate, qualche verdura insapore, pane vecchio, spesso duro o cotto male. Molti detenuti lamentano mal di stomaco continuo e carenze alimentari. “Capitava spesso di ricevere carne o pesce maleodoranti, dall’aspetto terribile. Per fortuna le detenute che lavoravano in cucina ci avvertivano di non mangiare perché quel cibo era arrivato scaduto già alla cucina”, testimonia Lunina Casarotti, ex detenuta e oggi attivista, che ricorda come a nulla valessero le proteste. Sebbene sulla carta le cucine carcerarie abbiano dei menù settimanali che passano al vaglio di un medico, la realtà, salvo poche eccezioni, è che danno quello che possono, cucinato come possono. La monotonia accomuna la “casanza” di tutte le galere. Un detenuto racconta di essere stato trasferito da Spoleto a Civitavecchia ed essersi stupito di vedere dei kiwi, dal momento che l’unica frutta che arrivava al carcere di Spoleto erano mele (di terza qualità, sottolinea). Gli venne spiegato che si sarebbe stufato presto: a Civitavecchia c’erano solo kiwi, per mesi, anni, decenni. Nessuno li mangiava più, il frutto era diventato nauseante. Come mai il cibo che dovrebbe essere garantito alle persone ristrette è insufficiente e di pessima qualità? Non solo perché le cucine devono sfamare centinaia, quando non migliaia di persone alla volta. I motivi sono molti. Il business della fame - In primo luogo, le ditte appaltatrici che si occupano del vitto hanno anche la gestione del sopravvitto - lo spaccio da cui i detenuti possono comprare ciò che desiderano a prezzi spesso maggiorati. Ciò significa che affamare o malnutrire il detenuto equivale a spingerlo a spendere per una spesa decente. Un business molto lucroso a cui nessuno può opporsi, dal momento che vige la regola del monopolio e del prezzo unico. Ma il vero problema è a monte. La gara d’appalto per il vitto parte da una cifra di cinque euro e 70, ma poiché vince l’appalto chi offre il massimo ribasso, la cifra che le carceri italiane hanno a disposizione per l’alimentazione giornaliera di un detenuto non supera i tre euro e 90, nei quali deve rientrare il costo di colazione, pranzo e cena. Il paragone con altre forme di ristorazione collettiva è impietoso. Il paziente ospedaliero, che così spesso compatiamo per le minestrine a cui è condannato, mangia con 13 euro e 50 al giorno: quasi quattro volte quello che si spende per sfamare le circa 60mila persone ristrette nei penitenziari italiani, che, occorre ricordare, viene pagato in gran parte dai detenuti stessi, ai quali è chiesta una quota di mantenimento che ammonta a circa 85 euro al mese, detratti dallo stipendio per chi lavora, o da pagare a fine pena per chi invece non ha un impiego durante il periodo di detenzione. Seconda pena - Nell’ordinamento penitenziario è esplicitamente dichiarato che ai detenuti “deve essere assicurata un’alimentazione sana e sufficiente, adeguata all’età, al sesso, allo stato di salute, al lavoro, alla stagione, al clima”. Ma la legge viene tradita quotidianamente, condannando i detenuti a una pena ulteriore che passa dal corpo. L’unica possibilità per restituire all’alimentazione la sua dignità di funzione biologica e culturale fondamentale, è arrangiarsi. Se si entra in carcere all’ora di pranzo capita di sentire qualche buon profumo provenire dalle celle. Olio, aglio e peperoncino, frittura di pesce, sugo di pomodoro. Si ha per un breve momento la sensazione di trovarsi in qualche vicolo di un borgo d’Italia. Il cibo in prigione rivela qualcosa di importante: nonostante venga cucinato e mangiato nella stessa stanza in cui si dorme e si va in bagno, nonostante il lavandino per lavare le verdure sia lo stesso nel quale ci si lavano i denti, nonostante il fastidio dei coltelli di plastica e degli utensili costruiti alla bell’e meglio, mangiare per vivere e non per sopravvivere continua a essere una manifestazione rilevante di dignità, un momento di tregua e piacere, un rito culturale, un aiuto a scandire le monotone giornate, un pretesto per familiarizzare e combattere il supplizio a cui la galera condanna ogni giorno. Contro i suicidi il Dap apre a più telefonate. Ora la parola agli Istituti (e alla politica) comunicato Associazione Antigone Ristretti Orizzonti, 6 ottobre 2022 Nel mese di agosto, mentre nelle carceri si viveva uno dei momenti più drammatici degli ultimi anni, con un numero elevatissimo di suicidi, avevamo lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, chiedendo un intervento per garantire ai detenuti un numero di telefonate superiori rispetto ai 10 minuti a settimana che gli attuali regolamenti prevedono. Quel limite, oggi, a fronte dello sviluppo tecnologico e al conseguente abbattimento dei costi, non ha più alcun senso. Un appello che ha raggiunto una prima vittoria. Infatti, alcuni giorni fa, il capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria, Carlo Renoldi, ha emanato una circolare attraverso la quale si chiede alle direzioni degli istituti di utilizzare il loro potere discrezionale per garantire un numero maggiore di telefonate ai detenuti, per riaffermare il dirtto all’affettività e permettere a queste persone di poter trovare conforto nel parlare con i propri familiari. Quello che ci auguriamo è che tutte le carceri applichino questa circolare e, questo, sarà uno dei punti che monitoreremo nelle prossime visite del nostro osservatorio. Ma auspichiamo che il prossimo governo tenga in considerazione l’importanza di avere un contatto costante con la propria famiglia, mettendo mano al regolamento di esecuzione del 2000 e trasformando questa decisione, che oggi ha solo un’applicazione discrezionale, in una prassi generalizzata. Anche al fine di costruire una pena che garantisca, in qualsiasi carcere, i medesimi diritti. Gratteri sulle carceri: “Basta ipocrisie, si pensa solo a fare uscire i detenuti” di Antonio Capria catanzaroinforma.it, 6 ottobre 2022 “Bisogna intervenire sui tossicodipendenti e su quelli con problemi psichici”. Nel corso dell’incontro con gli studenti di Caposele, in Irpinia, il procuratore di Catanzaro avanza alcune proposte “che il nuovo governo può concretizzare da subito”. E sulla Polizia penitenziaria: “È stata umiliata: va motivata e rimessa al centro del sistema” Da Caposele, comune dell’Irpinia dove ha tenuto un lungo incontro sulla legalità con gli studenti nell’affollatissimo auditorium dell’istituto comprensivo, il procuratore della Repubblica di Catanzaro Nicola Gratteri ha affrontato, tra gli altri, i temi del trattamento dei detenuti e della funzione rieducativa della pena, sollecitato anche dalle riflessioni dell’arcivescovo di Sant’Angelo dei Lombardi Pasquale Cascio. “In questo momento gran parte delle carceri sono dei semplici contenitori, in cui non si fa rieducazione né trattamento, questioni su cui non si è investito negli ultimi anni. Si parla solo di sovraffollamento, di amnistia e indulto, e ci si sbraccia per trovare espedienti su come fare uscire il detenuto dal carcere”, ha detto il procuratore Gratteri, che ha criticato le “passerelle e il fanatismo garantista”: “Per me il garantismo - ha detto - è l’osservanza ortodossa delle regole”. Il magistrato ha quindi avanzato alcune proposte “che possono essere concretizzate nell’immediato, già nei primi giorni del prossimo governo”. Gratteri ha innanzitutto evidenziato come “molti detenuti sono tali a causa della loro condizione di tossicodipendenza, rubano e fanno rapine per comprarsi la dose. Non ha senso tenere questi ragazzi in carcere se poi appena escono pensano a procurarsi i soldi per la droga. Bisogna fare delle convenzioni con le comunità terapeutiche e capire quali di questi giovani può disintossicarsi”. Poi il tema dei detenuti con problemi psichiatrici: “Inutile sprecare soldi in progetti inutili, bisogna investire per costruire le Rems, le strutture protette che esistono solo sulla carta da quando per legge sono stati chiusi i manicomi”. E ancora sui detenuti stranieri la possibilità di “fare scontare la pena nel paese di provenienza”. Il procuratore di Catanzaro ha ricordato poi che “sono almeno 40mila i detenuti che possono lavorare - detenuti comuni e di media sicurezza - quindi si potrebbero fare delle convenzioni con i Comuni, le Province e le Regioni per farli lavorare, per pulire giardini, boschi, spiagge, l’alternativa è fargli trascorrere 6, 8 ore al giorno davanti ad un televisore”. Insomma per Gratteri serve “un modo nuovo di gestire le carceri, sono proposte che si possono fare da domani mattina, dopo si può pensare ad ampliare le strutture già esistenti”. Quello attuale, secondo il procuratore Gratteri, “è un sistema ipocrita se diciamo che la pena tende alla rieducazione, dobbiamo finirla di fare a gara per trovare espedienti per fare uscire i detenuti”. Poi dal procuratore parte un segnale di attenzione alla Polizia penitenziaria “che si sente delegittimata, demoralizzata, umiliata”. “Bisogna motivare la Polizia penitenziaria - ha detto Gratteri - creare nuovamente l’orgoglio del corpo di appartenenza, che è stato messo da parte e non al centro del problema carceri come i detenuti”. Riflessioni che hanno rappresentato solo l’inizio di un lungo dibattito sui temi della legalità e della giustizia con gli studenti di Caposele - cittadina di origine del capo della Sezione di polizia giudiziaria della Procura di Catanzaro, il tenente colonnello Gerardo Lardieri, presente in sala così come il giornalista Antonio Nicaso - nel corso del quale Gratteri ha parlato della sua esperienza di magistrato da sempre impegnato nella lotta alla mafia. La riforma della giustizia al tempo delle correnti di Giuseppe Corasaniti Il Messaggero, 6 ottobre 2022 Il Pnrr destina risorse ingentissime, oltre 133 milioni di euro, al ministero della Giustizia per la digitalizzazione dei Tribunali ordinari, delle Corti d’appello e della Corte di cassazione. Si tratta di un obiettivo fondamentale che richiede una gestione attenta e competente da parte delle figure dirigenziali, capaci di analisi avanzate per monitorare in pieno l’efficienza e l’efficacia del sistema giudiziario ed ottimizzare la gestione dei tempi di istruttoria. Ma questi investimenti potranno essere gestiti in modo efficace con metodi in grado di tradurre al più presto i progetti in realizzazioni uniformi, concrete e fruibili? Molto, se non tutto, dipende dalla dirigenza degli uffici giudiziari. E che qualcosa non funzionasse bene proprio nel sistema delle nomine dei dirigenti si era già intuito - ben prima del “caso Palamara” - con l’esclusione sistematica di Giovanni Falcone dall’ Ufficio istruzione di Palermo nel 1988, e poi dalla stessa Procura Nazionale Antimafia nel 1992 (come avvenne poi subito dopo anche per Paolo Borsellino). I vincoli correntizi pesano da sempre e non sono certo stati ridimensionati, si esprimono ancora con la interpretazione elastica delle regole per alcuni e al contrario rigidissima per altri, a seconda dei casi. Spesso, troppo spesso, è premiato chi ha saputo coltivare le relazioni più efficaci per (auto)promuoversi solo in ottica funzionale al consenso interno. Il criterio dell’anzianità - che almeno era oggettivo- è stato progressivamente abbandonato, col pretesto appunto di non voler ripetere l’ingiustizia subita da Falcone, ed è stato sostituito dalla crescente e primaria valutazione del merito, rimessa a parametri che lasciano la più ampia e discrezionalità del Csm. Oggi è quasi la regola che un magistrato entrato in servizio molto più tardi di un altro, anche di un decennio, prevalga nel merito e nelle attitudini correntemente “valorizzate” rispetto a colleghi molto più anziani e magari con maggiore esperienza. E non sempre ciò è riconoscimento di straordinarie capacità manageriali e di effettiva conoscenza delle strategie innovative, spesso sottolineate, marcate o presunte e sempre meno oggettivamente verificabili, ma forse non è solo questo il problema. A vincere sono spesso i candidati più “adatti” a comporre equilibri e quadri e ad incasellarsi nel posto giusto per poi mantenere e rafforzare negli anni un profilo superiore sempre vincente, specie se si è partecipato in qualche modo al circuito dell’autogoverno. I risultati non sono stati esaltanti, se è vero che quasi tutti i provvedimenti in materia sono costantemente impugnati dagli interessati davanti al giudice amministrativo, persino per i ruoli apicali come quelli di Presidente della Corte di cassazione o di Procuratore generale, il che mai era avvenuto nella storia della magistratura. Per di più sono davvero alte anche le percentuali di annullamento delle delibere consiliari, molto spesso per difetto di motivazione o per impropria valutazione dei requisiti richiesti agli aspiranti. Il che è un fenomeno quasi sconosciuto in altri ordinamenti europei. È chiaro che le recenti riforme legislative hanno tentato almeno di arginarne questo aspetto critico, per esempio valorizzando le esperienze specifiche o ampliando la legittimazione nelle funzioni, ma è ancora troppo presto per dire se e come vi saranno segni di cambiamento. Oggi si ha l’immagine di una magistratura in eterno conflitto con se stessa, incapace di valorizzare bene ogni esperienza acquisita senza disperdere o demotivare buona parte delle proprie risorse umane. Emerge un metodo di selezione della dirigenza imperfetto e inadeguato, che genera ancora e solo incertezze, che nasconde una difficoltà nell’individuare soluzioni oggettive per definire, esprimere e meglio riconoscere il merito professionale, specie nell’uso efficace delle tecnologie. E peraltro perfino i dirigenti nominati non vivono soltanto l’incertezza costante di un possibile rischio di annullamento a distanza della loro nomina, ma anche le difficoltà di produrre sostanziali mutamenti organizzativi degli uffici, nel continuo confronto con le parallele responsabilità amministrative dei servizi e con le plurime regolamentazioni, a volte sovrabbondanti e sovrapposte, adottate proprio dal Csm il cui peso resta ancora fondamentale anche nel rinnovo degli stessi incarichi direttivi. Eppure la (buona) organizzazione degli uffici non è un problema esclusivo della categoria dei magistrati e del loro autogoverno, perché il chiaro dettato dell’articolo 110 della Costituzione prevede una condivisione non formale delle politiche sulle scelte dirigenziali con il Ministro della Giustizia nella sua funzione esclusiva di responsabile dei servizi giudiziari. Si tratta di un tema sensibile che poi riguarda tutte le diverse amministrazioni che vi si interfacciano a vario titolo, ma anche e soprattutto gli utenti del servizio che sono poi non solo gli avvocati, ma anche tutti i soggetti che cooperano alle diverse incombenze processuali e i semplici cittadini. Tutti richiedono e sanno apprezzare, a prescindere dalle collocazioni individuali, informazione, innovazione ed efficienza, così come avviene in ogni moderna istituzione pubblica. Tutti vorrebbero solo vedere opzioni coerenti e soprattutto le persone capaci e giuste al posto giusto. Ma il punto di vista deve essere condiviso. Perché è con le scelte concrete e non solo a parole o con argomenti variabili che si può realizzare una autentica e leale “cooperazione” istituzionale in difesa dell’esercizio indipendente della funzione giudiziaria così come nella costruzione - certo complessa e difficoltosa - di quell’efficienza funzionale “del” sistema giustizia e “nel” sistema giustizia che oggi costituisce anche un obiettivo fondamentale agli occhi dell’Unione Europea. Altro che riforma “epocale”, per la giustizia civile siamo fermi di Iuri Maria Prado Libero, 6 ottobre 2022 La riforma della giustizia civile impasticciata per prendere i soldi, cioè debiti, del Pnrr è ormai cosa fatta. L’impianto generale è semplice ed è fondato su due pilastri. Il primo: sgravare l’amministrazione dal peso che la affligge appaltando una parte del lavoro a dei mediatori, cioè la fungaia di organismi cui il cittadino deve obbligatoriamente rivolgersi per far valere i propri diritti. Il secondo: accelerare il corso della giustizia facendo correre i cittadini che ad essa si rivolgono e lasciando in santa pace quelli che la amministrano. Non entriamo in dettagli perché sono parecchio noiosi, ma a questo in buona sostanza si riduce l’intervento “epocale” con cui per la ventottesima volta in qualche anno si cambiano le carte in tavola del processo civile, senza che ne venga nulla di nemmeno remotamente efficace a migliorarlo. Già il primo fronte della riforma, quello che allarga a dismisura la quota di giustizia rimessa in mediazione obbligatoria, si denuncia per quel che è: l’abdicazione della funzione giudiziaria, con lo Stato che in questo modo fa coming out sulla sua incapacità di rendere un servizio essenziale (è come chiudere le autostrade perché c’è troppo traffico). Ma anche il resto dell’intervento legislativo presenta lo stesso baco, vale a dire l’idea - e adesso purtroppo la pratica - per cui se un servizio funziona male bisogna bastonare sulla testa quelli che ne usufruiscono anziché aiutare, e pungolare quando serve, chi è incaricato di assicurarlo (la riforma è una costellazione di pene pecuniarie per chi fa il discolo davanti alla santità togata, mentre questa è libera di stabilire se, come e quando questo rompiscatole del cittadino ha diritto di avere udienza). Pressappoco la riforma è questa, dunque: siccome prima ti cucchi obbligatoriamente il mediatore, un magistrato che si occupi della tua causa in tempi ragionevoli puoi scordartelo. Se poi ci arrivi, quello fa come gli pare e quando gli pare. Parla Enrico Costa: “Nordio in via Arenula? Non mi dispiace” di Valentina Stella Il Dubbio, 6 ottobre 2022 Intervista al deputato di Azione: “Vogliamo una giustizia liberale e coerenza politica”. Onorevole Enrico Costa, responsabile Giustizia di Azione, che caratteristiche deve avere il nuovo ministro della Giustizia? Restano molte cose da fare e non sarà indifferente la figura del prossimo Guardasigilli. Ci sono caratteristiche che, in base ai valori che noi difendiamo come Terzo Polo, riteniamo fondamentali: rispetto della persona, tutela delle garanzie, dei dettami costituzionali, diritto di difesa, giusto processo, presunzione di innocenza, rieducazione della pena. Si tratta di principi liberali che in molti dicono di condividere, ma che devono essere anche affermati e concretizzati con fermezza e determinazione. Ci sono in campo figure molto preparate, ma tra queste c’è chi ha una concezione più liberale, chi meno. Purtroppo abbiamo visto negli ultimi mesi che anche chi si è sempre battuto per una giustizia liberale, una volta al Governo, cambia un po’ pelle, adeguandosi alle situazioni, al quieto vivere, al dettato dell’ufficio legislativo. Tra i possibili Guardasigilli ricorre spesso il nome di Giulia Bongiorno. Eppure la Lega ha votato per la Spazzacorrotti. Quindi esclude la Bongiorno? Al di là delle singole figure su cui non voglio esprimermi, riscontro che tanto nella Lega quanto in Fratelli d’Italia emergono talvolta posizioni dai tratti poco liberali. Come ha ricordato lei, il Carroccio ha votato quella legge, poi ha fatto autocritica; successivamente ha promosso i referendum, ma li ha anche abbandonati al loro destino quando si è accorto che non avrebbero raggiunto il quorum. In questi giorni, e pure da FdI, stiamo leggendo dichiarazioni in cui si confondono certezza della pena e certezza del carcere. Ovviamente in questo quadro auspicherei che emergessero da entrambi i partiti le persone più attenta ai diritti della persona, dalle indagini alla carcerazione. Ho apprezzato molto le dichiarazioni di Carlo Nordio, già prima dell’inizio della campagna elettorale: credo non ci sia alcun problema da parte di un partito di opposizione, come il nostro, mettere in evidenza le qualità di chi è in maggioranza. Insomma la coerenza è un elemento importante per lei... Certo. Ho visto troppe volte la convenienza politica prendere il sopravvento sulla convinzione dei propri principi. Ho letto che un magistrato oggi in servizio potrebbe essere Sottosegretario alla giustizia. Ma solo fino a poco fa tuonavano contro le porte girevoli tra politica e magistratura. Tuonavano anche contro i fuori- ruolo, ma già si discute di un magistrato fuori ruolo a capo della struttura amministrativa di Palazzo Chigi. Mi auguro che siano solo delle boutade. Passiamo alle riforme. Lei dal palco dell’Ucpi ha tracciato una linea molto chiara... Ho detto innanzitutto che come primo atto della prossima legislatura sulla Giustizia depositeremo in Parlamento la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle carriere dei magistrati, nello stesso testo dell’iniziativa popolare promossa dalle Camere penali. Oltre a questa presenteremo una serie di proposte che inanellano tutti i temi che non sono stati affrontati in questa legislatura. Quali? Un testo sul tema “mai più bambini in carcere”, l’espunzione dalla sospensione della Severino dell’abuso d’ufficio, modifiche in tema di responsabilità civile dei magistrati - non in chiave diretta o indiretta, ma per togliere sacche di impunità -, di intercettazioni, di custodia cautelare con il giudice collegiale, di interrogatorio prima di varcare la soglia del carcere, di disciplinare e di valutazioni di professionalità. In particolare il fascicolo della riparazione dell’ingiusta detenzione dovrà arrivare sulla scrivania del titolare dell’azione disciplinare, così come l’appello del pm contro un’assoluzione in primo grado che finisca in una nuova assoluzione dovrà incidere sul suo avanzamento di carriera. Non dimentichiamo che non abbiamo ancora i decreti legislativi della riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario e a tal proposito, per aggiungere un altro auspicio circa il nuovo Guardasigilli, spero vivamente che non si sottragga dall’esercitare la delega per rispetto del lavoro fatto da questo Parlamento e dalla ministra Cartabia. Avrete molto da fare. Ma gli altri partiti? Su questo giornale abbiamo raccolto indiscrezioni da parte di FdI per cui “nella prima fase il nuovo governo non darà priorità alla Giustizia. E Meloni non vuole conflitti inutili con l’Anm”... Nessuno vuole lo scontro con la magistratura. Credo che noi dobbiamo mettere la magistratura nelle condizioni di lavorare al meglio, facendo in modo che ad emergere siano i magistrati migliori e non quelli lottizzati. È evidente però che se il tema della giustizia si dovesse tornare a trattare con le bandierine, come è avvenuto fino ad oggi con il Movimento 5 Stelle, sarebbe più complicato portare avanti un dibattito sereno. Al Congresso dell’Ucpi la presidente della Corte di Appello dell’Aquila ha detto: “Ho letto interviste per cui sarebbe maturo il tempo per portare a termine certe riforme. Temo una nuova stagione di conflitti”. Si riferiva anche alla separazione delle carriere, immagino… La magistratura potrà dire la sua ma quella della separazione delle carriere, come ripetuto più volte, non sarebbe una riforma contro qualcuno, ma per il giusto processo. A proposito di riforme costituzionali, c’è dunque vicinanza tra il Terzo Polo e il centrodestra… La separazione delle carriere è nel programma di tutti. Per le altre riforme siamo aperti a valutazioni costruttive, ma anche ad un’opposizione intransigente ove dovesse prevalere la logica giustizialista. Abbiamo nominato tutti i partiti tranne il Pd… Non considero pervenuto il Partito democratico sulla giustizia. È la cartina di tornale della totale assenza di identità del Pd. Ultimi dati Swg dicono che avete sorpassato Forza Italia e Lega… Lega e Forza Italia sono passate rispettivamente dal 17% e dal 14% a circa l’8%. Noi come Terzo Polo siamo passati da zero a 7.8% e ora gli ultimi dati ci dicono che li abbiamo superati arrivando all’ 8.3%. Noi saliamo, loro scendono: questo andamento si consoliderà nel corso del tempo. Bonafede al Csm: così il M5S rottama i tabù di Grillo di Errico Novi Il Dubbio, 6 ottobre 2022 Avanza, per l’ex guardasigilli, l’ipotesi di una elezione a componente laico di Palazzo dei Marescialli su indicazione pentastellata. Almeno nel suo caso verrebbe così evitata la “condanna all’oblio” voluta dal “garante” per chiunque abbia alle spalle due mandati in Parlamento. È un’ipotesi suggestiva, e carica di significati: sarebbe Alfonso Bonafede il nome del Movimento 5 Stelle per il Csm. L’ex guardasigilli, costretto a lasciare la scena parlamentare per il diktat di Beppe Grillo sul limite dei due mandati, potrebbe riprendere il percorso nelle istituzioni come laico a Palazzo dei Marescialli. È un’ipotesi che circola con insistenza nel Movimento e che consentirebbe a Giuseppe Conte di rimediare, almeno nel caso di Bonafede, ai pesanti sacrifici imposti dal “Garante”. Costati al momento l’estromissione, oltre che dell’ex ministro, di figure del calibro di Roberto Fico e Paola Taverna. Almeno Bonafede sopravviverebbe dunque al dissolversi della vecchia guardia pentastellata. In realtà, l’ex guardasigilli ha chiarito di recente di non aver affatto reciso il rapporto organico con il Movimento: continuerà a coordinarne la struttura territoriale, come ha spiegato in un’intervista al Fatto quotidiano. Ora l’ipotesi che i pentastellati, di qui ad alcune settimane, concentrino su di lui i voti per l’elezione al Csm. “È una scelta che ha senso per molti motivi”, spiega, dietro richiesta assoluta di anonimato, una fonte pentastellata. “Alfonso è una risorsa unica, che non va dispersa. E la sua conoscenza del mondo giudiziario, maturata nei tre anni e mezzo trascorsi a via Arenula, rappresenta un patrimonio prezioso. Sarebbe logico assicurare al nostro ex guardasigilli il proseguimento di un percorso istituzionale nella giustizia”. I giochi in realtà non sono chiusi. Di certo, per Conte si tratterebbe di un netto cambio di rotta rispetto alla precedente consiliatura di Palazzo dei Marescialli. In quella occasione, quattro anni fa, il confronto on line con la base portò all’elezione di tre laici provenienti dall’accademia: Alberto Maria Benedetti, Filippo Donati e Fulvio Gigliotti. Con Bonafede consigliere superiore, verrebbe abbandonata l’impostazione iperpurista del Movimento.Che tra l’altro avrebbe voluto introdurre nella riforma Csm il divieto di porte girevoli fra Parlamento e Palazzo dei Marescialli. Ma con l’ex guardasigilli non si avrebbe alcuna particolare contraddizione, giacché non si tratta più di un parlamentare, appunto. Nordio e il rebus sottosegretari - È chiaro che l’incognita decisiva da sciogliere sulla giustizia riguarda il futuro ministro. Ma più passano le ore, più le quotazioni di Carlo Nordio sembrano rafforzarsi: la premier in pectore Giorgia Meloni intende puntare sull’ex magistrato, eletto a Palazzo Madama come indipendente di Fratelli d’Italia. A cascata, si delinea un po’ più nitidamente, per il centrodestra, il quadro per le altre caselle: dai presidenti delle due commissioni Giustizia ai sottosegretari di via Arenula. Con Nordio guardasigilli, queste ultime due cariche andrebbero a Lega e Forza Italia. E dovrebbe trattarsi di nomi scelti tra chi non siederà in Parlamento. Nelle trattative tra Meloni e gli alleati, è emersa la necessità di non sguarnire il fronte parlamentare con incarichi esterni attribuiti agli eletti. Una cautela necessaria, ora che la riduzione del numero di deputati e senatori rende più fragile persino la tenuta del numero legale, sia in Aula che nelle commissioni. Un nome che pare destinato a un’indicazione come sottosegretaria alla Giustizia o consigliera a piazza Indipendenza è quello di Fiammetta Modena, senatrice uscente di FI. Tra i probabili futuri laici del Csm c’è Francesco Urraro, della Lega, tra i pochi parlamentari uscenti con un passato di vertice nelle istituzioni dell’avvocatura. Un incarico pare destinato certamente a Pierantonio Zanettin, che a Palazzo dei Marescialli, da laico, c’è già stato due consiliature fa: potrebbe tornarci, con qualche chance di essere eletto vicepresidente, ma potrebbe anche assumere la presidenza della commissione Giustizia al Senato. Probabile che la guida dell’altra commissione Giustizia, quella di Montecitorio, vada ad Andrea Delmastro di FdI. A meno che i pronostici per la carica di guardasigilli saltino, e al posto Nordio venga indicato il solo competitor attualmente in grado di tenergli testa, il sottosegretario uscente Francesco Paolo Sisto, di FI. A quel punto, una delle due caselle di sottosegretario a via Arenula spetterebbe a Fratelli d’Italia, e Delmastro sarebbe in pole. È un gioco di incastri complicato, che vede allontanarsi Giulia Bongiorno da incarichi nella giustizia. Ma certo la soluzione al rebus non sembra vicinissima. Mille avvocati a congresso. Masi: “Precari in aumento, da Lecce la sfida del futuro” di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 6 ottobre 2022 Da oggi a sabato l’assise organizzata dal Consiglio nazionale. Il presidente anticipa i temi e auspica una svolta contro la crisi. Tre tavole rotonde su riforme, giustizia predittiva e tutela dei diritti nel tempo dei cambiamenti globali, per individuare le istanze da presentare al governo che verrà. Si apre oggi a Lecce il XXXVI congresso del Consiglio nazionale forense che, presieduto dall’avvocata Maria Masi, fino all’8 ottobre vedrà la partecipazione di mille avvocati. Presidente Masi, quali ad oggi le priorità per l’avvocatura italiana? “Oggi l’avvocatura deve riflettere sul suo percorso, sulla natura della funzione che è chiamata ad esercitare, nel processo e fuori dal processo, sulle potenzialità future per la professione e soprattutto sul suo ruolo sociale, che non può prescindere da una profonda etica e dalla chiara consapevolezza dei nostri doveri per la tutela dei diritti dei cittadini”. In che stato è oggi l’avvocatura? “Risente del periodo che stiamo vivendo, che ha stravolto il modo di vivere di tutti. Sicuramente c’è un senso di precarietà ancora più forte. Gli avvocati subiscono e hanno subito lo stato di emergenza sanitaria prima come professionisti poi come cittadini. Il contributo di discussione che ci aspettiamo dal Congresso nazionale forense servirà a condividere nuove realtà, anche già esistenti come diverse attività sussidiarie, per riflettere e capire come rafforzare tutte le potenzialità di una avvocatura in cambiamento”. Come sono state le riforme Cartabia? “Quella sull’ordinamento giudiziario ha recepito in parte le nostre istanze, ma riteniamo che sia incompleta, perché non risolve gli effetti - che possono essere a tratti devastanti - di quella che è la mancanza o il pericolo di un “non equilibrio”, causato dal cosiddetto correntismo della magistratura. Per quanto riguarda quella civile, salvo il Tribunale della famiglia, abbiamo manifestato la nostra contrarietà: riteniamo infatti che non sarà possibile raggiungere i risultati di deflazione dei processi che l’Europa ci impone. Inoltre, semplifica solo apparentemente, perché attribuisce agli avvocati oneri ancora maggiori, ma non affronta il vero problema della carenza di organico di magistrati e personale amministrativo alimentando lo squilibrio che già esisteva e rendendolo ancora più evidente”. Giustizia predittiva: si può giudicare con un algoritmo? “Assolutamente no. I casi che necessitano di tutele sono talmente diversi, che difficilmente un algoritmo potrà fare sintesi e sostituirsi all’azione del magistrato e dell’avvocato. Tuttavia, forse condizionati da un equivoco non proprio residuale, abbiamo trascurato quelle che potevano essere le ipotesi d’applicazione dell’intelligenza artificiale, e quindi le occasioni per migliorare l’esercizio della nostra funzione a vantaggio dei cittadini. Al congresso ascolteremo chi ha avuto l’intuizione di applicarla, in maniera utile e funzionale”. Che congresso sarà? “L’auspicio è che sia un’occasione utile e produttiva, occorrerà ascoltare e fare sintesi. C’è grande fermento, tantissime mozioni, segno che l’avvocatura ha necessità di condividere le proposte e tracciare il percorso del cambiamento. Il tempo ci aiuta: abbiamo quello necessario per presentare le nostre istanze al nuovo governo”. Come vorrebbe l’avvocatura del domani? “Un’avvocatura consapevole del proprio ruolo, ma fortemente caratterizzata da un alto senso di responsabilità sociale, che non può prescindere da una grande caratterizzazione improntata all’etica. Ed anche un’avvocatura competente, non reazionaria, pronta a cogliere le occasioni, sia delle crisi come opportunità sia delle nuove sfide che l’attendono, sempre nel rispetto dei principi che caratterizzano la nostra professione”. Fughe, rapimenti, tratte: in Italia 35 denunce di bambini scomparsi ogni giorno Corriere della Sera, 6 ottobre 2022 Fughe, rapimenti, tratte: in Italia 35 denunce di minori scomparsi ogni giorno. Ecco le loro storie. Francesco: “Mia moglie ha portato mia figlia nell’inferno del Donbass, non so più nulla”. Il fenomeno delle sottrazioni e dei genitori disperati. Francesco le aveva accompagnate a settanta chilometri da Donetsk perché in città soffiavano già i venti della guerra. Era il 29 marzo 2021, una data che non avrebbe più dimenticato. Dopo aver viaggiato tutta la notte, lui, sua moglie Iryna e la loro bambina, Laura, un frugoletto biondo di tre anni, aspettavano una parente di lei all’interno del centro commerciale. “Puoi andare a prendere qualcosa per la piccola che ha fame?”, gli aveva chiesto Iryna. “Sono andato ma al ritorno, dopo un quarto d’ora, non c’erano più”. Francesco Lorusso, 31 anni, barese di Gravina, le ha così cercate al telefono, una, dieci, cento volte. Silenzio. Solo in tarda serata, Iryna Pikalova, la ventinovenne ucraina originaria del Donbass che aveva sposato nel 2010 in Puglia, gli ha risposto: “Mi ha detto una cosa che mi ha lasciato di sasso: “Sto andando a Donetsk in taxi, tu puoi tornare in Italia, ci penso io alla bambina, scusami se te lo dico in questo modo ma non ti amo più”... proprio così”. Non era un arrivederci. “Sono rimasto in quella cittadina, Kostjantynivka, circa un mesetto, senza la possibilità di entrare a Donetsk perché non avevo il passaporto che chiedevano i russi... e poi sono tornato a Gravina da solo, un’angoscia”. Come angoscianti sono stati i mesi successivi. “Lei mi concedeva solo delle videochiamate e chiedeva 500 euro al mese minacciando di cambiare numero di telefono se non avessi pagato”. Dopo un anno è scoppiata pure la guerra. “E da quattro mesi Iryna, che dal primo lockdown soffre anche di disturbi psichici, non risponde più. Ci sono stati i bombardamenti... mi sta distruggendo la vita...”, sospira questo padre inconsolabile con la voce strozzata dalla commozione. Va detto che nel frattempo il Tribunale di Bari ha sospeso la potestà genitoriale alla madre ed è stata attivata la convenzione dell’Aia sulla sottrazione internazionale di minori. Conclusione: la piccola Laura Lorusso risulta scomparsa. Gli allontanamenti volontari - Siamo partiti da questo caso per raccontare un fenomeno dai numeri che appaiono impressionanti. Secondo gli ultimi dati della Direzione centrale della Polizia criminale nel primo semestre di quest’anno i minori per i quali è stata sporta denuncia di scomparsa in Italia sono 6.312, che equivale a una media di circa 35 al giorno. Nello stesso periodo ne sono stati ritrovati 2.751 e dunque il mistero riguarderebbe gli altri 3.169. Numeri in linea con quelli registrati nel corso dell’intero anno 2021: oltre 12 mila denunce, 5 mila ritrovati e oltre 7 mila mai più visti. La statistica va però maneggiata con cura perché sconta un problema di fondo: spesso chi denuncia la scomparsa di un minore non la ritira nel momento in cui lo stesso viene ritrovato. E quindi il tutto va ridimensionato. Bisogna anche considerare che negli ultimi anni la stragrande maggioranza di queste “scomparse” è costituita da allontanamenti volontari di adolescenti in fuga da centri di accoglienza, istituti, comunità o famiglie: 5.972 denunce nel primo semestre di quest’anno, delle quali 4.198 riguardano stranieri dalla dubbia identità. “Il fenomeno ha le sue radici nel disagio sociale e nel desiderio di raggiungere altre mete, sul quale grava però un serio rischio: che questi ragazzi entrino in circuiti illegali”, ricorda Antonino Bella, commissario straordinario del governo per le persone scomparse ed ex magistrato. Criminalità, sfruttamento, violenze fisiche e psicologiche. Molti finiscono nelle reti dello spaccio, della prostituzione, dell’accattonaggio. A ogni numero corrisponde comunque un volto, spesso già segnato dalla vita e ignoto, o meglio, senza un nome certo. È l’invisibile esercito dei minori, accanto al quale crescono i drammi di adolescenti e bambini vittime di altri reati: sottrazioni, rapimenti, omicidi, tratte. Le pagine di cronaca nera ci ricordano di tanto in tanto i casi irrisolti più clamorosi del passato: Emanuela Orlandi, la figlia quindicenne di un dipendente del Vaticano che scomparve misteriosamente nel 1983; Angela Celentano, 3 anni, sparita nel 1986 nel bosco del Monte Faito (Napoli) quand’era in compagnia dei genitori; Denise Pipitone, 4 anni, anno 2004, stessa sorte a Mazara del Vallo (Trapani) mentre giocava davanti all’abitazione della nonna. Altri sono meno noti, ma hanno comunque lasciato vuoti senza fine su madri, padri, fratelli, amici. “Molti non li cerca più nessuno, invisibili fra gli invisibili, le loro storie le conosciamo solo noi addetti ai lavori”, allarma Annalisa Loconsole, vicepresidente di Penelope Italia, l’associazione presieduta dall’avvocato Nicodemo Gentile alla quale lei ha aderito dopo aver vissuto la dura esperienza di aver perso il padre, svanito nel nulla una sera di molti anni fa. Una lunga silenziosa sofferenza, la sua come quella di molti altri. Alessandro saluta e non torna più - Per esempio, una fredda domenica del gennaio 2009 Alessandro Ciavarella, studente sedicenne di Monte Sant’Angelo, Gargano, saluta sbrigativamente madre e sorella: “Esco con gli amici”. Chiude la porta di casa e da quel momento, erano le dieci del mattino, di lui non si sa più nulla. Nessuno gli ha parlato, nessuno l’ha visto né sentito. Dov’è finito Alessandro, che in quel periodo stava pensando di lasciare la scuola? “Siamo cinque fratelli e lui era il più metodico, molto legato al territorio, al suo paese, al bar, agli amici, era difficile pensare a un allontanamento ma è chiaro che lo speri”, racconta oggi la sorella Annamaria, l’ultima ad averlo salutato e la prima ad organizzare i gruppi di ricerca, battendo il paese e le campagne palmo a palmo. Il tempo che passa consuma però le speranze: “Il dolore cambia ma è sempre lì, nel cuore, pesante, irrisolto”. Sale un convincimento: “Penso sia stato ucciso, forse ha visto qualcosa che non doveva vedere”. E si aggrappa alle ultime notizie sulla criminalità pugliese: “Ci sono state delle retate, speriamo che qualcuno parli, che almeno ci dica che è morto”. Il desiderio di un punto fermo, sia pure quello della morte, ha accompagnato l’intera vita anche dei genitori di Vincenzo Monteleone, scomparso nel nulla a 10 anni mentre era alle giostre della festa patronale di Adelfia: “È successo tanti anni fa, la mamma ha perso il senno e non si è più ripresa, mentre le ultime parole del padre, sul letto di morte di una casa di riposo, sono state per lui: salgo in Cielo e finalmente saprò dov’è Vincenzino”, ricorda Loconsole. Lutti sospesi, eterni, mai elaborati perché non c’è un corpo su cui piangere. Il buco nero di Rossella - Fra i casi più laceranti quello vissuto dai parenti di Rossella Corazzin, adolescente di San Vito al Tagliamento sparita una mattina d’estate di oltre 40 anni fa mentre era in montagna con i genitori. Un mistero che di recente ha ripreso ad agitare la famiglia. Lo scossone è arrivato da chi meno te lo aspetti perché il personaggio in questione nulla c’entra con il mondo di quella ragazza perbene: Angelo Izzo, il cosiddetto mostro del Circeo, una delle personalità più inquietanti della cronaca nera italiana, condannato per aver drogato, violentato, seviziato e massacrato al Circeo con un amico due ragazze un mese dopo la scomparsa di Rossella. Nel 2016 Izzo raccontò al procuratore della Repubblica di Belluno che il responsabile della fine di Rossella è il suo complice di allora. Cioè, il ragazzo di cui Rossella aveva parlato in quei giorni a un’amica altri non sarebbe che lui. Aveva lo stesso nome e in quel periodo si trovava in vacanza nella vicina Cortina. Secondo Izzo il suo amico aveva conosciuto e avvicinato la ragazza convincendola a seguirlo per poi, insieme con altri, narcotizzarla e ucciderla. Di più: secondo Izzo, oltre al mondo criminale e di estrema destra del complice, Rossella incrociò pure quello di un medico perugino morto misteriosamente nel 1985 e, giusto perché non manchi nulla alla tragedia, legato ai misteri del Mostro di Firenze. Insomma, una vita semplice finita forse in un grande vortice nero dove c’era dentro di tutto, mostro, estremismo, sette massoniche. Detto che la ricostruzione di Izzo è stata considerata dalla magistratura inattendibile e archiviata, per i familiari non è così. Per loro tutto torna. “Una botta enorme, che mi accompagnerà per il resto dei miei giorni, penso all’anima bella di Rossella e quanto avrà sofferto - sospira oggi la cugina Mara Corazzin -. Per me non si è voluto indagare, perché la verità su di lei e non solo su di lei coinvolge i poteri forti. E, come dice Izzo, la giustizia non è per i poveri e quindi difficilmente verrà a galla... ora indaga l’Antimafia, spero in loro. Giusto per far capire cos’è stata la vicenda per la nostra famiglia, ricordo che la mamma di Rossella ha vissuto per lei fino alla morte e il padre, che lavorava con il mio, dopo la sparizione si era chiuso in un silenzio assoluto: sedeva in cucina a capotavola e stava due ore senza aprir bocca. Erano silenzi terribili. Bambini sottratti e genitori abbandonati - Fenomeno nel fenomeno, da una decina danni s’impone la sottrazione internazionale di minori, che vedono protagonisti i bambini contesi e portati all’estero da un genitore in fuga dall’altro. È il caso della piccola Laura che abbiamo raccontato in apertura di questa inchiesta. Secondo l’Autorità centrale italiana, creata al ministero della Giustizia nel 1994, anno in cui l’Italia ha reso effettiva la convenzione dell’Aia del 1980 che tutela questi minori, dal 2000 al 2021 le vicende trattate sono state 2.300, in crescita più o meno costante dal 2007, e circa nove volte su dieci hanno riguardato una madre che se n’è andata all’estero con uno o più figli. “Crescono per il semplice motivo che ci sono sempre più matrimoni misti con bambini oggetto di dispute e genitori che si scontrano con legislazioni diverse, per cui alla fine le vicende spesso non arrivano a una soluzione”, racconta Cosimo Ferri, ex sottosegretario alla Giustizia con trascorsi in magistratura e un certo slancio per alcune vicende di bambini scomparsi. Su tutte, Chantal Tonello, uno scricciolo che non stava ancora in piedi quando dieci anni fa mamma Klaudia l’ha portata al suo paese, in Ungheria, per una breve vacanza. “Non sono più tornate e io non smetto un solo giorno di pensare a Chantal”, ricorda Tonello che in questi dieci anni le ha provate tutte per cercare di riportare a casa la sua piccola: ha girato per la cittadina magiara travestito da clochard, è andato con un camion pubblicitario che esponeva la gigantografia della bambina, ha offerto una taglia a chi gli dava qualche soffiata utile. “Ogni quindici giorni andavo lì a cercarla, prima da solo, poi con un avvocato, poi con mio padre e anche con un investigatore privato... Nulla”. Sulla madre pende una condanna a 4 anni del Tribunale di Padova per sottrazione di minore e pure un ordine di rimpatrio del giudice di Budapest. “Sono testimone diretto, avevo promesso al padre che l’avrei riportata a casa - ha precisato Ferri -. All’epoca ero sottosegretario alla Giustizia e decisi di andare di in Ungheria, dove ho incontrato due ministri e il potentissimo capo della Polizia. Ho trovato un muro: non hanno saputo dirmi neppure se la piccola va a scuola, se ha un medico. Eppure la madre c’era perché si costituiva sempre in giudizio... e stiamo parlando di un Paese comunitario”. Che fare, dunque? “Sono necessari due interventi - propone Chiara Balbinot, avvocato di Tonello che fa parte dell’associazione Angeli rubati -. Bisogna che l’autorità centrale intervenga tempestivamente quando c’è una notizia di sottrazione, il tempo è decisivo in questi casi. É giunto poi il momento di mettere mano alla legge che in questo momento esclude la custodia cautelare”. “Addio caro Giovanni”. E scappa con il bambini - I dati del ministero della Giustizia sono da allarme sociale: dei 1.314 bambini portati all’estero dal 2010, solo 472 hanno fatto effettivamente ritorno, meno di uno su due. Ne sa qualcosa Giovanni Bocci, padre di Adelio, che una mattina d’autunno del 2015 ha trovato questo biglietto sul tavolo della cucina: “Mi dispiace davvero per il dolore che ho causato a te e alla tua famiglia. Sei un buon marito e un buon padre. Hai fatto il meglio...”. La moglie, Aigul Abraliyeva, trentasettenne kazaka, era tornata in patria con Adelio, il loro bambino di due anni. Lei è stata condannata per sottrazione di minore ma la sentenza italiana non ha alcun valore in quell’angolo della Terra. “Ho speso 140 mila euro solo di avvocati per cercare una via d’uscita a questo incubo. È stato tutto inutile. E Adelio ormai parla solo russo e kazako...”. Un contributo alla soluzione dei casi lo dà senz’altro il programma “Chi l’ha visto?”, importante punto di riferimento di questo mondo. Molto attivo arche Telefono azzurro che in Italia gestisce il numero unico europeo per i bambini scomparsi, 116000, attivo dal 2009. Servizio che fa capo al ministero dell’Interno ed è connesso con il network Missing Children Europe, struttura del parlamento europeo. “Si tratta di una delle più grandi piaghe della nostra società, soprattutto oggi con i bambini che sono scappati dalla guerra in Ucraina”, ricorda Ernesto Caffo, presidente di Telefono azzurro. Adelio, Chantal, la piccola Laura. Storie di bambini scomparsi e di genitori affranti. Papà Francesco continua a mandarci i video dei bombardamenti di Donetsk: “Me l’ha portata proprio lì, in quell’inferno... brutto, molto brutto”. *Il Corriere della Sera e il sito Corriere.it oggi e domani escono senza firme dei giornalisti per un’agitazione sindacale Condizionale, risarcimenti entro i termini di Patrizia Maciocchi Il Sole 24 Ore, 6 ottobre 2022 Sezioni unite. Se il termine non è fissato dai giudici, coincide con la fine della sospensione. In caso di sospensione condizionale della pena, subordinata all’obbligo di risarcimento, il giudice deve fissare nella sentenza il termine entro il quale l’imputato deve adempiere. Se non lo fa, scattauna violazione della legge penale sostanziale, che consente al giudice d’appello di intervenire d’ufficio o a quello dell’esecuzione, se l’omissione perdura, di agire su input di una parte o del pubblico ministero. Se la scadenza non viene ancora fissata, questa potrà coincidere con il tempo previsto dal Codice penale (articolo 163) di sospensione della pena: due anni, per la contravvenzione, cinque anni per il delitto. Le Sezioni unite della Cassazione (sentenza 37503) dirimono il contrasto sul momento nel quale è possibile revocare la sospensione condizionale, se il giudice non ha indicato in sentenza un termine per il pagamento. Risposta non banale se si considera il successo dell’istituto, confermato dalle statistiche di via Arenula: il 50 per cento delle condanne a pena detentiva nel decennio ami - 2021, è rappresentato da condanne a pena sospesa. Il supremo collegio dopo aver sottolineato la necessità di garantire sia l’imputato sia il creditore, esclude che l’obbligo di pagamento possa coincidere con il passaggio in giudicato della sentenza, perché si imporrebbero all’imputato tempi troppi stretti per adempiere. Sottolineata anche l’importanza della valutazione delle capacità economiche del condannato, per evitare che la sospensione “nasca già morta”, perché condizionata da ‘inizio da un onere non sostenibile. Una valutazione che compete al giudice dell’esecuzione, ma non esonera dall’accertamento preventivo, anche sommario, il giudice di cognizione. Se nessuno dei giudici fissa il termine nei vari gradi, questo, come extrema ratio, coincide conia dead line per la sospensione indicata dal Codice penale. Lombardia. Forattini (Pd): “La situazione della salute mentale nelle carceri è drammatica” askanews.it, 6 ottobre 2022 “Quello che emerso” dall’indagine conoscitiva sulla salute mentale nelle carceri lombarde promossa dalla Commissione Speciale Carceri del Consiglio regionale “è un quadro drammatico, aggravato dal pesante sovraffollamento che caratterizza tutte le carceri italiane e che rende insufficienti le proposte attuali e il personale e, ancora di più, dall’avvento del Covid che ha acuito l’isolamento dei detenuti e aumentato esponenzialmente i casi a rischio, per cui attualmente non esistono risposte sufficienti”. È questa l’analisi della presidente della Commissione speciale Carceri della Lombardia, Antonella Forattini (Pd), che sintetizza così la conclusione di un lavoro durato un anno e mezzo. “Lo scopo del nostro lavoro era individuare criticità e possibili soluzioni di fronte a una problematica che vede in Lombardia il più alto numero di suicidi in carcere d’Italia. Partiamo dalla constatazione che le liste di attesa delle Rems sono troppo lunghe e il numero di strutture presenti sul territorio regionale insufficiente, per cui si rende necessario dare corso al più presto alla realizzazione delle nuove Rems previste. Un altro problema cruciale è la carenza di personale, per cui proponiamo di coinvolgere anche figure diverse dagli psichiatri, come psicologi, infermieri psichiatrici e tecnici di riabilitazione psichiatrica. Serve, poi, implementare i percorsi formativi e lavorativi di reinserimento post-detenzione, di cui abbiamo potuto toccare con mano l’importanza nel dare una speranza per il futuro” ha aggiunto. “Non vanno, inoltre, sottovalutate le difficoltà delle donne in carcere che, in quanto in numero minore rispetto agli uomini, rischiano di essere escluse da percorsi specifici di tutela, anche attraverso la cosiddetta medicina di genere. Le criticità nella salute mentale, infine, non riguardano solo i detenuti ma anche il personale. Dal confronto con gli organi sindacali della polizia penitenziaria è emerso come sia necessario investire sulla formazione e prevedere sportelli di ascolto per dare supporto agli agenti”, ha concluso Forattini. Palermo. “Mio figlio sprofondato in quell’abisso infinito”. Le storie di chi non ce l’ha fatta di Salvo Palazzolo La Repubblica, 6 ottobre 2022 Roberto Vitale e Samuele Bua, entrambi ventinovenni e con disturbi della personalità, si sono tolti la vita in cella al Pagliarelli. Il drammatico racconto dei genitori. “L’inferno pensavo di averlo già visto quel pomeriggio del 19 luglio 1992”. Ino Vitale, ex poliziotto delle Volanti, fu uno dei primi ad arrivare in via d’Amelio dopo l’esplosione della bomba che uccise Paolo Borsellino e i cinque agenti della scorta. “Invece, l’inferno dovevo ancora attraversarlo: mio figlio Roberto me lo raccontava ogni volta che andavo a trovarlo al Pagliarelli di Palermo. Era in cura psichiatrica, anche il giudice aveva detto che doveva essere trasferito in una comunità nonostante fosse stato arrestato per una tentata rapina in una parafarmacia”. Ma da maggio una comunità non si è trovata per Roberto. E lui è crollato: il 28 agosto, era solo in cella, ha fatto un cappio con le lenzuola e si è lasciato cadere giù. Roberto Vitale è morto il 15 settembre all’ospedale Civico, dopo una terribile agonia. “Aveva 29 anni - racconta il padre - e una grande gioia di vivere. Amava il mare e la pesca. Amava il suo pastore tedesco, che oggi ha 9 anni: erano inseparabili. Roberto aveva un disturbo borderline della personalità: era dolce e affettuoso, ma in certi momenti entrava in una situazione difficile, non si rendeva conto delle conseguenze”. La prima volta, tentò una rapina nella farmacia di fronte casa del nonno per aiutare un amico che non aveva i soldi per comprare i pannolini del figlio. “Doveva pagare per quello che aveva fatto - racconta ancora il padre - ma non in quell’inferno di carcere, fra il caldo asfissiante e i compagni che non lo accettavano, per questo lo spostavano continuamente di cella”. Chiede giustizia anche Lucia Bua, è la mamma di Samuele, un altro giovane trovato impiccato al Pagliarelli, in una cella d’isolamento. Era il maggio 2018. Pure Samuele aveva 29 anni ed era in cura per una patologia psichiatrica, gli era stata diagnosticata una schizofrenia, era finito dentro dopo una violenta lite in casa. In carcere ha resistito sei mesi. Ufficialmente, il cappio l’ha realizzato con i lacci delle scarpe: “Ma io non ci credo che si sia suicidato - sussurra la madre - non smetterò di chiedere giustizia, anche se l’indagine sembra dire altro”. Mamma Lucia lancia un appello: “Non lasciate soli i genitori dei ragazzi che entrano nella spirale del disagio. Io me ne sono accorta troppo tardi, e per tanto tempo non ho saputo cosa fare. Alcuni rappresentanti delle forze dell’ordine mi dicevano addirittura che la strada giusta era quella di farlo arrestare, per i suoi atteggiamenti violenti, in modo da portarlo poi in comunità”. Ma neanche Samuele Bua è mai arrivato in una comunità. Per la sua morte erano finiti sotto accusa due medici del carcere, perché non avrebbe colto il disagio del giovane. Però, poi, anche la procura ha chiesto l’assoluzione, “perché il fatto non sussiste”. Il giovane, poco più di un mese prima del suicidio, era stato posto in vita comune, ma sarebbe stato subito male, diceva che se non fosse stato lasciato da solo avrebbe “spaccato tutto”. Gli imputati visitarono quindi Bua, per il quale alla fine si decise la detenzione in una cella singola. Dove rimase per 34 giorni, visitato anche da altri medici, “senza che vi fossero segnali di un possibile gesto estremo”, si sono difesi i sanitari al processo. Però quell’isolamento portò Bua alla morte. “Non doveva restare in carcere”, accusa la madre. “Aveva un gran sorriso e amava il pallone”, racconta ancora. Poi, alcune amicizie sbagliate lo avevano portato sulla strada della droga. “Questo era il vero problema che doveva essere affrontato”. Invece, quella cella d’isolamento è diventata la metafora della solitudine di un giovane che non vedeva più vie d’uscita. La stessa solitudine di Roberto. “Per una regola non scritta in carcere - spiega Ino Vitale - quando vedono qualcuno prendere una pillola, gli altri detenuti lo allontanano. Così avevano fatto con mio figlio, che era stato costretto a cambiare tante celle”. Il 28 agosto, il giorno del suicidio, aveva parlato al telefono con i familiari. Poi, era andato nell’area socialità: “Ma all’improvviso aveva avvertito l’agente che sarebbe rientrato, perché si sentiva strano”. Poco dopo, l’hanno trovato impiccato. E non c’è stato nulla da fare”. Non si dà pace papà Ino, una vita per le istituzioni: prima in Calabria, ai tempi della guerra di mafia, poi nel 1989 a Palermo, all’ufficio scorte. “Ho protetto anche Falcone e Borsellino”. E, ora, si fa tante domande sullo Stato che ha servito: “Avrebbe dovuto custodire mio figlio, invece me l’ha strappato per sempre”. Dice ancora Ino: “L’estate scorsa, c’era un caldo infernale al Pagliarelli. Mio figlio comprava a peso d’oro le bottigliette d’acqua che utilizzava di nascosto per rinfrescarsi. Di nascosto, perché aveva paura che lo punissero”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Altri 41 agenti indagati per le violenze nel carcere ansa.it, 6 ottobre 2022 La Procura chiede una proroga dell’inchiesta per poliziotti mai identificati. Proroga di indagini per 41 agenti della Polizia penitenziaria in relazione alle violenze e i pestaggi ai danni dei detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere (Caserta) il 6 aprile 2020. Si tratta di poliziotti intervenuti ma mai identificati in quanto muniti di caschi protettivi e mascherine anti-Covid; erano almeno un centinaio i pubblici ufficiali che mancavano all’appello tra i tanti ripresi dalle telecamere interne del carcere mentre pestavano i detenuti con mani nude e manganelli facendoli passare anche in un “corridoio” di agenti. La Procura di Santa Maria Capua Vetere (procuratore aggiunto Alessandro Milita, e i sostituti procuratori Alessandra Pinto e Daniela Pannone) ne ha identificati con difficoltà per ora 41, tutti indagati per atti di tortura, e ha così chiesto e ottenuto dal Gip la proroga delle indagini per poter identificare anche gli altri. Dei 41 poliziotti penitenziari indagati - rispondono di atti di tortura - 27 sono attualmente in servizio al carcere napoletano di Secondigliano, quattro ad Avellino e dieci a Santa Maria Capua Vetere. Si avvicina intanto la data di inizio dibattimento per i 105 tra agenti, funzionari del Dap (Dipartimento Amministrazione Penitenziaria) e dell’azienda sanitaria locale, accusati a vario titolo di responsabilità in ordine alle violenze ai danni dei detenuti avvenute nel carcere di Santa Maria Capua Vetere nell’aprile 2020. Il processo partirà infatti il 7 novembre prossimo davanti ai giudici togati e popolari della Corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, mentre nei prossimi giorni ci sarà davanti al giudice per l’udienza preliminare Pasquale D’Angelo il processo con rito abbreviato per tre agenti che hanno decisi di non andare al dibattimento. Pistoia. “Cammino libera tutti”, detenuti in marcia sul Cammino di San Jacopo di Riccardo Bonaguidi reportpistoia.com, 6 ottobre 2022 Si sono messi in cammino 3 giorni fa, partendo da Firenze in direzione Lucca. I due detenuti che hanno partecipato al progetto “Cammino libera tutti” percorreranno il Cammino di San Jacopo in un viaggio che ha il sapore di una rinascita. Il progetto è seguito dall’associazione Sentieri di felicità odv, in collaborazione con il comune di Lucca. I detenuti, tutti a fine pena, provengono dalla casa circondariale lucchese. Istruttori e detenuti fanno visita al Duomo di Pistoia – “È il secondo anno che realizziamo questa iniziativa - spiega Samanta Cesaretti presidente dell’associazione - e il nostro obbiettivo, oltre al reinserimento sociale e alla conoscenza del Cammino, mira alla creazione di una testimonianza artistica”. Al termine del percorso infatti, grazie alla collaborazione con la psicoterapeuta Laura Casamassa i detenuti elaboreranno una pubblicazione che racconterà l’esperienza vissuta. Nella passata edizione furono realizzati un documentario e una mostra. “Grazie all’aiuto della dottoressa Casamassa - aggiunge Cesaretti - vogliamo creare una storia che ha abbia come filo conduttore il cammino e che verta sui nostri atteggiamenti personali. Questa forma di condivisione permette a tutti noi di stare alla pari, detenuti e istruttori, con l’obbiettivo di far emergere ciò che le persone possono dare”. Insomma una riscoperta di fiducia e libertà, elementi che sicuramente sono venuti a mancare ai detenuti che ora si apprestano a il ritorno in società. Oggi, all’arrivo a Pistoia, il gruppo, accolto dall’assessore Alessandro Sabella, ha visitato la città. Nel primo pomeriggio inoltre la comitiva si è recata in visita al Duomo di Pistoia. Domani mattina ripartiranno verso Montecatini. “È un’iniziativa lodevole - ha commentato l’assessore Alessandro Sabella - siamo contenti che abbiano scelto il Cammino di San Jacopo. Recentemente - ha aggiunto - è stato presentato al ministro Gravaglia il progetto di un “cammino per tutti”, nell’ottica di rendere il Cammino pienamente accessibile ad ogni persona”. In tal senso quindi l’iniziativa dell’associazione incarna un po’ lo spirto di compartecipazione che sta dietro a questo percorso. “Il nostro - conclude Sabella - è un progetto pilota. Ogni regione dovrebbe avere il suo Cammino, anche in ottica dello sviluppo turistico”. Roma. Le baby gang che copiano il Sudamerica di Andrea Ossino La Repubblica, 6 ottobre 2022 La guerra del sabato sera tra i quartieri: “All’Eur scorrerà sangue”. Sono centinaia a squadra, ci sono i ‘17’ della Garbatella, i ‘18’ di Roma nord, e sono in lotta costante, tra chat, social, vendette e brutali risse come quelle avvenute nell’aprile 2021 al Pincio. Una realtà che emerge dall’indagine sul pestaggio di un 17enne con un lieve disturbo cognitivo, messa in atto da cinque 15enni. Come le gang sudamericane, danno vita a risse che pubblicano sui social e organizzano spedizioni punitive massacrando chi viene additato come un pedofilo o semplicemente come qualcuno che ha dato fastidio “alla pischella”. Sono le baby gang della Capitale, con il loro slang, le chat e i luoghi di ritrovo. Bande di adolescenti che colpiscono in branco, diffondono i video delle vittime e anche quelli che le coetanee hanno concesso ai fidanzati in un momento di intimità. Uno spaccato di realtà che emerge dall’indagine sul pestaggio di un 17enne con un lieve disturbo cognitivo, un’aggressione avvenuta nel maggio 2021 e messa in atto da cinque ragazzi grazie a una trappola ordita da una quindicenne. L’imboscata viene filmata e diffusa sui social, prima di finire all’attenzione dei pm del minorile che lavoravano già sul fenomeno. Le indagini adesso sono terminate. “Ricalcano il fenomeno delle bande sudamericane” - “Si fa spesso menzione a scontri tra ragazzi e bande, tra cui la banda denominata ‘17’ e la banda denominata ‘18”, scrive la squadra mobile a proposito delle chat acquisite. Ognuna è “formata da circa 100 ragazzi di età tra i 13 e i 17 anni”. I “18” si vedono alla Garbatella e all’Eur e nella foto del gruppo social si accalcano tra i gradini della scalinata della Basilica di San Pietro e Paolo. I “17” frequentano “le zone di Roma Nord” e sul web pubblicano “video che riprendono le loro gesta di violenza”. Entrambe le bande, rivali tra loro, “ricalcano il fenomeno delle gang sudamericane”. Ne esistono altre: “I 17 stanno con me, torre Maura sta con me, Tbm sta con me, Corviale, Ostia, alcuni dei ponti”, elencano le chat propedeutiche a una rissa. Le risse: “Javemo rotto naso, labbro e un occhio rientrato” - Lo scopo è chiaro: “Sono stati rilevati numerosi scambi di messaggi inerenti presunti incontri tra minori che hanno come fine causare vere proprie risse e pestaggi tra coetanei senza apparenti motivi”, certificano gli atti. Il capo dei 18, “Fragolone”, “scambia messaggi, video e foto allo scopo di trovare seguaci”. “Alle tre devo menà uno”, sentenzia indicando ora e luogo. Gli appuntamenti sono diversi: “Ao sabato se appiccichiamo de brutto coi 17 stai a venì?”. Le ragazze non sono escluse: “Me sa che se stiamo a mette contro i 17... se vanno a rompe er ca..o ar pischello mio non credo che sto bona”, spiega l’adolescente impegnata a reclutare adepti. Si parla dell’aggressione a “Rana” da parte dei “17” e anche dell’agenda dei nemici: “Porto i 18 a Labaro venerdì a menasse”. Si erigono a giustizieri: “A Piramide avemo pestato un pedofilo trentenne nel video non sè vede ma javemo rotto naso labbro e un occhio rientrato”. Tormentano le vittime: “Ho rincorso Sugit pe tutta Eur...Se è chiuso in un bar, ha chiamato e guardie”, scrivono. “Avrebbero partecipato a numerosi atti di bullismo e violenza sfociata in brutali risse avvenute nella capitale al termine del lockdown per il Covid nell’aprile 2021 (a Villa Borghese ndr)” ricordano le informative. La vittima: “Era una trappola” - Nel mirino di alcuni esponenti dei “18” è finito anche il 17enne che ha dato via all’indagine. Lui racconta del “pranzo con due mie amiche” e dell’appuntamento con Martina “a Ostiense”: “Mi aveva detto se ci volevamo conoscere”. Era una trappola: “Appena sono uscito dal treno ho visto Martina che stava lì davanti all’uscita ... Poi dopo 30 secondi mi trovo alle spalle gli amici. Erano sei o sette mi hanno aggredito picchiandomi...dopo un minuto sono scappati”. Poi il video del pestaggio diffuso su internet e le reazioni delle gang rivali: “Sabato queste sette facce di me..a si ritrovano sanguinanti per terra davanti mezza Roma...Fate girare la voce perché queste cose non devono mai più succedere... Sabato Eur non serve che dica il posto preciso perché ci vanno 10 quartieri”. Bologna. Sabato prossimo il convegno: “La salute dietro le sbarre” labottegadelbarbieri.org, 6 ottobre 2022 “Come si amministra la vita e si somministra la morte nelle carceri italiane”. Di carcere ci si ammala, di carcere si muore. La tanatopolitica - il lasciar morire - da anni è per il carcere l’unica forma di governo, sia nell’eccezionalità delle rivolte e delle pandemie, che nella normale quotidianità penitenziaria. La logica del “lasciar morire” è quella che sottende la fine di 13 detenuti che nel marzo 2020, invece dei soccorsi, trovarono violenza, cinismo e indifferenza. È la logica che ha negato misure di deflazione carceraria mentre il contagio di Covid-19 correva nelle celle sovraffollate. È la logica che nega ogni giorno, nelle prigioni, l’assistenza sanitaria ordinaria, gli esami diagnostici e finanche le più elementari condizioni igieniche, producendo aggravamenti e morti per mancata diagnosi, per mancato soccorso, per mancata cura, per operazioni urgenti rinviate a sine die. È la logica che nega le misure alternative a chi è in condizioni di salute incompatibili col regime detentivo. I segni della tanatopolitica carceraria emergono anche in questi giorni dalle cronache quotidiane. L’undici agosto 40 detenuti del Due Palazzi di Padova hanno denunciato in un esposto “cure in ritardo, patologie gestite superficialmente e morti che potevano essere evitate”, in un carcere dove i prigionieri convivono con ratti e scarafaggi in celle fredde e umide. All’inizio di settembre una lettera dei detenuti e delle detenute della Dozza di Bologna, denunciava che la salute di più di 700 detenut* era affidata a un solo medico, invece dei cinque previsti in pianta organica, e che non c’era altro modo di venir visitat* se non quello di tagliarsi, perché “se non si vede sangue non si vede nessuno”. Pochi giorni prima, un loro compagno, Dragan Nikolic, si era tolto la vita, come altri 66 detenut* dall’inizio del 2022 ad oggi, ma così tant* da 20 anni a questa parte. Vittime della distruzione della speranza, della distruzione della psiche, della costrizione dei corpi all’interno di un “tempo vuoto”, in luoghi dove la disperazione trova nello psicofarmaco l’unica risposta. Nel frattempo a Viterbo, l’indagine per la morte di un detenuto al 41 bis, il cui tumore non era stato diagnosticato in tempo, si avvia verso l’archiviazione. Il “lasciar morire” - nelle sue svariate forme - avviene senza che nessuno ne risponda, nell’indifferenza, nella deresponsabilizzazione e nell’impunità. Di tutto questo parleremo a Bologna, sabato 8 ottobre, dalle h. 18,30, in: “La salute dietro le sbarre. Come si amministra la vita e si somministra la morte nelle carceri italiane”. Ex Centrale, via di Corticella 129, Bologna. Incontro con: Sara Manzoli - Comitato Verità e Giustizia per i morti del Sant’Anna. Autrice del libro: “Morti in una città silente. La strage dell’8 marzo 2020 nel carcere Sant’Anna di Modena”. Vito Totire - Medico del lavoro e psichiatra, portavoce della “Rete europea per l’ecologia sociale” Rosa Ugolini - Avvocatessa, componente dell’Osservatorio Diritti umani, Carcere e altri luoghi di privazione della libertà della Camera Penale di Bologna. Giuseppe Capone - Psicologo. Organizzano: Associazione Bianca Guidetti Serra Comitato Verità e Giustizia per i morti del Sant’Anna (MO) Assemblea per la Salute nel Territorio ExCentrale - Bologna Diretta sulle pagine FB della Assemblea per la Salute nel Territorio e dell’ Associazione Bianca Guidetti Serra. Palermo. Il Festival delle filosofie riflette sulla giustizia di Eleonora Lombardo La Repubblica, 6 ottobre 2022 Tra gli ospiti Maffettone, Flores D’Arcais e Galli della Loggia. Si inaugura venerdì alle 17 a Piazzetta Mediterraneo, il Festival delle Filosofie diretto da Marco Carapezza e Pietro Perconti, giunto alla V edizione. Quest’anno il tema è quello della “Giustizia” in tutte le sue declinazioni. “Si tratta di uno dei grandi temi in cui la filosofia incontra da vicino il nostro modo di stare assieme, la socialità umana. Il rifarsi alla Giustizia è un tratto specifico degli animali umani. Noi viviamo in una situazione di emergenza, ci stiamo abituando a fronteggiare emergenze climatiche, migrazioni, pandemie, da ultima la guerra, che ci costringono a scelte difficili, a mettere in discussione le nostre abitudini più radicate” si legge nel manifesto che accompagna questa quinta edizione che per tutti i fine settimana di ottobre farà tappa, oltre che a Palermo e Monreale, anche a Cefalù e Messina. Molti gli ospiti da ogni regione d’Italia, ad aprire gli incontri sabato 8, interrogandosi su “È possibile una teoria della giustizia”, sarà il professore Sebastiano Maffettone dell’università Luiss di Roma, il 16 Casa Professa ospiterà la lectio magistralis del direttore di MicroMega Paolo Flores d’Arcais incrociando insieme le istanze di politica, filosofia e giustizia, il 27 Gianfranco Pasquino parlerà del rapporto tra scienza e politica, mentre il 29 Ernesto Galli della Loggia, nella ricorrenza del centenario della marcia su Roma, interverrà in occasione della presentazione di “Golia, marcia del fascismo” di Giuseppe Antonio Borgese. Gli incontri saranno di vario tipo, dai più accademici ai più divulgativi per coinvolgere un pubblico diversificato, l’attore Jacopo Fo farà riflettore con il sorriso con il suo “Allegri l’apocalisse del clima non ci sarà”, sono previsti appuntamenti per i più giovani e non mancheranno i convivi multiculturali e le passeggiate filosofiche tra i boschi di Cefalù. A Palermo i luoghi coinvolti saranno diversi , dallo Steri a Casa Professa, dal co-work Moltivolti all’Orto botanico, un modo per abbracciare una città che - come è nelle intenzioni del Festival - “sta raccogliendo sfide politiche e sociali di grande portata storica, una città che si sta impegnando a fondo in un cambiamento epocale che la vede al terzo posto in Italia come presenze turistiche, una città che cerca faticosamente di liberarsi dai luoghi comuni e dagli appellativi di capitale della mafia”. Milano. Una fotografia è più grande di una cella di Letizia Magnani Grazia, 6 ottobre 2022 È una mostra speciale quella che si apre il 9 ottobre al Pac-padiglione d’arte contemporanea di Milano, perché ha per protagonisti i detenuti e gli agenti di polizia penitenziaria di quattro carceri milanesi (San Vittore, Bollate, Opera e l’istituto penale per minorenni Beccaria). Dopo un corso di formazione, con la possibilità di usare le macchine fotografiche anche nelle celle e (per gli agenti) negli orari di lavoro, hanno raccontato la vita in prigione con immagini difficili da dimenticare. Progetto del Pac con la onlus” Ri-scatti”, ingresso gratuito. Fino al 6 novembre. Una madre che ha sbagliato. Una ragazza mai amata. Tanti giovani pieni di rabbia. Sono i detenuti che hanno raccontato la loro vita in carcere con le immagini esposte alla mostra benefica “Ri-Scatti”. E qui dicono che solo l’ascolto aiuta persone come loro a rinascere. Leticia è una giovanissima detenuta di origini brasiliane. È in carcere perché faceva la sentinella della droga. Quando le hanno chiesto se voleva imparare a scattare fotografie, ha risposto subito sì. E ora per la prima volta nella sua vita si sente utile e ascoltata. Ci sono altri detenuti come lei che, seppur dietro le sbarre, hanno trovato nuova linfa per ricominciare. Le foto che hanno imparato a realizzare sono ora esposte in Ri-Scatti, il progetto ideato dal PAC, Padiglione d’Arte Contemporanea di Milano, e da Riscatti Onlus, l’associazione che crea eventi di riscatto sociale con la fotografia, promosso dal Comune di Milano, con il sostegno di Tod’s. La nuova edizione, dal 9 ottobre al 6 novembre, torna patrocinata dal ministero della Giustizia e realizzata con il Politecnico di Milano e il Provveditorato Regionale Lombardia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria: si propone di raccontare le difficoltà della reclusione, ma anche il riscatto civile e umano. “Volevamo dare voce alle persone che non vediamo mai. Lo abbiamo fatto ricercando un gesto artistico nello sguardo di chi vive il carcere da recluso o da persona che ci lavora”, dice il curatore della mostra, Diego Sileo. Gli autori delle foto sono 60 detenuti, 40 agenti di polizia penitenziaria, un educatore. Per 11 mesi ogni settimana Sileo è entrato nelle quattro carceri milanesi coinvolte: San Vittore, Opera, Bollate e il carcere minorile Cesare Beccaria. Con lui c’era Amedeo Novelli, fotografo professionista di Riscatti Onlus. “Quando lavori in carcere devi andare oltre il pregiudizio. Non ci siamo informati sui reati delle persone, volevamo costruire un rapporto di fiducia”. Il risultato sono le 860 immagini raccolte nel catalogo della mostra: i proventi finanzieranno opere di riqualificazione in ogni carcere. Ilaria deve scontare una pena di 26 anni, ha due bambini piccoli che vede poco: con le foto è riuscita a raccontare gli spazi intimi di una donna che vive la sua condizione. A San Vittore Martina, oltre a frequentare il laboratorio di fotografia, lavora nel bar. Non può vedere suo figlio. “È stato difficile anche lavorare con i ragazzi del carcere minorile Beccaria. Sono arrabbiati, vengono da quartieri con marginalità e le loro famiglie sono povere. In gruppo fanno i bulli”, racconta Novelli. “Anche i carcerati del reparto La Nave di San Vittore sono stati arrestati per droga. Uno di loro, che è stato ritratto in un’immagine, qualche settimana dopo la foto si è tolto la vita. Per noi è stato uno shock”. Suicidi: nelle carceri italiane se ne sono contati 62 nel 2022, ed è una delle emergenze quotidiane. Lo sa Roberto Cabras, uno degli agenti di polizia penitenziaria che hanno partecipato. “Lavora da quando ha aperto il carcere di Bollate. Sono suoi i ritratti fatti dentro le celle: si è conquistato il rispetto dei detenuti ed è uno dei pochi agenti che possono entrare in spazi così privati per quelle persone”. Un altro reddito è possibile di Roberto Ciccarelli Il Manifesto, 6 ottobre 2022 “La povertà in Italia”, un volume di Chiara Saraceno, David Benassi e Enrica Morlicchio, per Il Mulino. Messa a tema la contraddizione che unisce chi si batte per mantenere, o modificare, il “reddito di cittadinanza”. La politica del risentimento sociale oppone i soggetti sfruttati sulla base etnico-nazionale. Il libro coglie il significato del ciclo reazionario attuale: le classi dominanti di diverse ispirazioni alimentano il conflitto regressivo sugli strumenti del Welfare. La stigmatizzazione è un processo intrinseco al Workfare che mescola controllo e retoriche imprenditoriali al di là delle maggioranze che sono al governo. Il “reddito di cittadinanza” è sulla bocca di tutti ma è poco conosciuto. Non ci si interroga, ad esempio, sul senso dell’obbligo di spendere una cifra media di 580 euro entro il mese, sull’aliquota marginale altissima sui redditi da lavoro che scoraggia la ricerca di un’occupazione, sul perché si premiano più i single che le famiglie povere numerose o sul vincolo del lavoro gratis fino a 16 ore a settimana. Raramente è stato oggetto di un’analisi critica comparata con sistemi analoghi in Francia, Germania o Gran Bretagna che sono stati peggiorati in maniera significativa negli ultimi 20 anni. Nella legge del 2019 che ha istituito il “reddito di cittadinanza” Cinque Stelle e Lega hanno replicato le condizionalità, e le trappole, denunciate da tempo in questi paesi, ma non ancora in Italia. Basterebbero questi elementi per stabilire che nel nostro paese non esiste un “reddito di cittadinanza” propriamente detto, cioè un’erogazione monetaria diretta ai residenti in un territorio, ma un sussidio riservato a una parte dei “poveri assoluti” la metà dei quali sono vincolati sulla carta al lavoro e alla formazione obbligatoria. La truffa semantica tende a celare il colossale tentativo di creare un sistema sociale chiamato Workfare orientato alla certificazione della ricerca di un lavoro, alla moralizzazione dei poveri e al lavoro coatto. Il contrario di uno Stato sociale inteso come leva di una redistribuzione della ricchezza che dovrebbe garantire un diritto di esistenza indipendentemente dal mercato, dalla classe e dalla nazionalità. Il governo di estrema destra postfascista che si formerà nel prossimo mese dovrebbe lasciare un sussidio di povertà solo a coloro che sono stati definiti “inabili al lavoro” e, forse, restringerà a una l’offerta di lavoro che si può rifiutare senza perdere l’assegno, peggiorando quanto ha già fatto il governo Draghi. Nel partito di maggioranza Fratelli d’Italia c’è chi pensa di cedere i fondi alle imprese in cambio della promessa di fantomatici “corsi di formazione” arricchendo il business della disoccupazione. Verrebbe così radicalizzata una norma già presente nella legge attuale che paga le imprese con i sussidi destinati ai poveri. Che funzioni in questo, o in un altro modo, in ogni caso l’orientamento del provvedimento stabilito da Cinque Stelle e Lega potrebbe essere mantenuto. La battaglia annunciata da più parti contro le destre che vogliono cambiare il “reddito di cittadinanza” rischia di rimuovere queste, e altre, gravissime distorsioni. Sarebbe un paradosso: difendere un dispositivo per il “bene dei poveri” che però è stato concepito per governare la loro inclusione differenziale. Questo dovrebbe essere un problema per una sinistra frammentata e subalterna ai Cinque Stelle che rivendicano il “merito” di avere razionalizzato il Workfare in Italia, lo stesso sistema che le destre sembrano volere implementare rafforzando le politiche attive del lavoro richieste dal “Piano nazionale di ripresa e resilienza” (Pnrr). Non diversamente da quanto ha cercato di fare il governo Draghi. Chi desidera comprendere la portata di tali problemi può oggi leggere il libro scritto da tre sociologi di rilievo: La povertà in Italia di Chiara Saraceno, David Benassi e Enrica Morlicchio (Il Mulino, pp. 248, euro 24). Gli autori spiegano la contraddizione che unisce chi si batte per mantenere, o modificare, il “reddito di cittadinanza”. Il problema è che la povertà è intesa nel dibattito corrente come una conseguenza della disoccupazione individuale, e non come uno degli effetti della mancanza di una reale domanda di lavoro, della prevalenza del lavoro part-time involontario, dei bassi salari e di uno Stato sociale frammentario, familistico e inefficiente. Questa idea, ricorrente nella teoria economica neoliberale, è ispirata a un’ideologia del lavoro per cui sarebbe sufficiente mantenere un’occupazione qualsiasi per essere protetti dalla precarietà e dalla povertà. Così non è in una società che ha scoperto la realtà del “lavoro povero” ma rifiuta di conoscere le cause e prospettare il suo superamento. Il libro è un utile strumento per ricostruire il concatenamento tra crisi diverse iniziate nel 1992 con i requisiti di Maastricht, il blocco dei salari, la de-industrializzazione, il crollo degli investimenti e della produttività, un sistema sociale sgangherato privo di un reddito minimo collegato al lavoro. È stato introdotto solo trent’anni dopo anche se sembra destinato al fallimento a causa della rovinosa riforma del titolo V della Costituzione che dal 2001 mette in concorrenza lo Stato e le regioni sulle politiche occupazionali. La crisi pandemica ha colpito un paese che non aveva recuperato i costi sociali della crisi di dodici anni prima. I governi Conte e Draghi hanno introdotto alcune “una tantum” effimere. Oltre al bonus terme o a quello per i monopattini, si ricorda il “reddito di emergenza”, un doppione del “reddito di cittadinanza” deciso per evitare l’estensione della misura principale in direzione di un reddito di base e di una riforma universalistica del Welfare. Allora si credeva nell’illusione della “crescita”. Il mercato, sostenevano i populisti e i neoliberali al governo, avrebbe rimediato a tutti i mali. Dopo la nuova crisi dell’inflazione e dell’energia, sono ancora in pochi ad avere compreso che non si può affidare la soluzione alla causa dei problemi. Per chi si dedica all’analisi delle elezioni del 25 settembre oggi sarebbe utile interrogarsi sulla responsabilità di chi ha evitato dì avviare una riforma strutturale dello Stato sociale e prepararsi alle crisi che viviamo oggi. Una necessità rimossa e sostituita da un’argomentazione ispirata a una stima dell’Istat secondo la quale il “reddito di cittadinanza” avrebbe evitato di creare un milione di poveri in più. Solo in pochi hanno evidenziato che, in numeri assoluti, l’Istat ha confermato che la povertà nel 2021 è tornata al livello del 2019: cioè 5,6 milioni di persone. Mentre il “reddito di cittadinanza” va a 2,3 milioni. Questo significa che è usato per contenere il danno e non agisce per prosciugare le disuguaglianze. Il libro di Saraceno, Benassi e Morlicchio coglie inoltre il significato del ciclo reazionario attuale: le classi dominanti di diverse ispirazioni alimentano il conflitto regressivo sul Welfare, tagliando o non finanziando l’accesso agli alloggi pubblici, al trasporto, alla sanità o all’assistenza e favoriscono la guerra tra i cittadini nazionali e extracomunitari. La politica del risentimento sociale oppone i soggetti sfruttati sulla base etnico-nazionale. Sulla stessa base è costruita la logica del “reddito di cittadinanza” che esclude i più poveri tra i poveri, cioè le famiglie dei cittadini extracomunitari che risiedono da meno di 10 anni in Italia. Una norma razzista denunciata anche dalla Commissione ministeriale presieduta da Chiara Saraceno. La distinzione tra “poveri meritevoli”, o meno, è un altro degli effetti delle politiche che vincolano i “redditi minimi” alle “politiche attive del lavoro” e scaricano sulle spalle dei beneficiari la responsabilità del mancato incontro tra la domanda e l’offerta di lavoro che, come dovrebbe essere noto, non dipende dai singoli bensì dal mercato e dal sistema industriale e sociale capitalistico. Una simile impostazione ha amplificato le accuse ai beneficiari del “reddito” di essere “divanisti”, camorristi, lazzaroni, vivere sulle spalle dei contribuenti e non accettare il ricatto di salari da tre euro all’ora. L’aporafobia, cioè la paura e il disprezzo dei poveri, è accompagnata dalla produzione istituzionale della devianza e della dipendenza. Così si spiega anche l’uscita di Meloni secondo la quale il reddito sarebbe un “metadone di Stato”, se ne deduce che i percettori siano eroinomani. La stigmatizzazione dei poveri è un processo intrinseco al Workfare che mescola politiche del controllo e retoriche imprenditoriali indipendentemente dal colore politico delle maggioranze che lo governa. Come ogni buon libro anche quello di Saraceno, Benassi e Morlicchio non offre soluzioni pronte all’uso, ma fa emergere un’alternativa: da un lato, c’è una politica che tende a trasformare i poveri in attori di un mercato del lavoro secondario con salari bassissimi; dall’altro lato, ci sarebbe una politica che rafforza l’autonomia sociale e afferma la libertà e l’uguaglianza nella solidarietà. È sempre il tempo delle scelte per condurre una vita liberata. Spaventati no, preoccupati sì di Michele Serra La Repubblica, 6 ottobre 2022 Suggerisco a chi lo avesse perso di leggere l’articolo di Luigi Manconi nella sua rubrica su Repubblica online. Si parla di carceri e carcerati, argomento molto caro all’autore. Ma, per esteso, si parla della nostra situazione politica e, direi, della precarietà psicologica, e pure logica, della nostra Polis. In breve. Manconi invita a smetterla con la fessa ipotesi (fessa e falsa) che la sinistra abbia perso le elezioni perché ha lanciato un allarme antifascista a vanvera. Nessuno ha detto - perché nessuno lo ha pensato - che una vittoria di Meloni avrebbe significato l’instaurazione di un regime. Piuttosto, è stato detto da più parti che un governo di destra, in applicazione delle proprie convinzioni politiche, potrebbe mettere in atto misure restrittive dei diritti (aborto e fine vita, per fare i due esempi più evidenti). E questa è tutt’altra cosa. Non è criminalizzazione ideologica, è legittima ostilità politica a quelle misure. A riprova della perfetta liceità di queste preoccupazioni, Manconi riporta dichiarazioni di tre esponenti di punta di Fratelli d’Italia contrari alle pene alternative. Poche storie: in galera, e non fatela troppo lunga. Non esattamente in linea con Cesare Beccaria. Ovvio che chi punta al reinserimento sociale dei detenuti se ne preoccupi assai, e denunci il probabile giro di vite. Il fascismo non c’entra, c’entra la lotta politica qui e ora, c’entra il conflitto tra concezioni del sociale, e direi dell’umano, radicalmente differenti. Lo “scegli” di Letta non si riferiva a niente di fumoso, o di anacronistico, o di sovreccitato. Si riferiva ai prossimi cinque anni di legislatura e a questioni come quella sollevata da Manconi. Al concreto svolgersi del nostro futuro prossimo. La trappola dell’impegno sociale e la politica lontana di Carlo Allegri Il Manifesto, 6 ottobre 2022 L’assenza di rischio politico e le tattiche di conservazione dello status quo riducono i principi e le istanze del “fermento sociale” a mera strategia comunicativa, a cui non fanno seguito (o non precedono) azioni e decisioni trasparenti. La sconfitta della coalizione a trazione Pd ha riportato nell’agenda il mancato rapporto tra la politica progressista e la società. Sul tema Fabrizio Barca ha insistito in due recenti interviste. Un’intervista a La Stampa, l’altra al manifesto. “Se la sinistra non sa ascoltare il Paese”, titola il primo articolo; “C’è stato un mancato riconoscimento degli interlocutori”, sostiene il coordinatore del Forum Diseguaglianze e Diversità nel secondo. Non c’è dubbio che il Paese sia costellato di esperienze di produzione, gestione e distribuzione di beni e servizi economici che hanno conseguenze importanti. Esperimenti che generano micro-modelli di sviluppo dove crescita economica, equità sociale e sostenibilità ambientale cercano nuovi punti di equilibrio. Si tratta, spessissimo, di esperienze a livello sub-locale, vuoi nelle aree interne, vuoi nelle periferie urbane, luoghi che non contano. Un fermento sociale ed economico che, effettivamente, rappresenta una delle pochissime cose meritevoli di attenzione degli ultimi trent’anni. Troviamo qui aziende for profit con nuovi modelli di business più equilibrati tra capitale e lavoro, imprese recuperate, cooperative di comunità, modelli di distribuzione con algoritmi negoziati con i lavoratori (e che quindi non cadono nella combinazione mostruosa tra cottimo e tecnologie digitali, come la maggioranza delle piattaforme per rider), cliniche sociali, accoglienza diffusa dei migranti nei territori, imprese di economia sociale, piccoli Comuni che cercano di gestire in modo veramente pubblico le poche risorse rimaste, gestione virtuosa dei beni confiscati alle mafie, produzione e distribuzione alternativa nelle filiere agroalimentari, comunità energetiche. E molti altri, casi di azione sociale diretta (si veda L. Bosi e L. Zamponi, Resistere alla crisi. I percorsi dell’azione sociale diretta, Il Mulino, 2019). Tutto vero, ma non è bastato. La responsabilità maggiore, questa è la tesi degli articoli citati, è della politica e, segnatamente, dei partiti di centro-sinistra che non sono stati in grado di intercettare queste esperienze, dando loro potere e voce pubblica. Chi un po’ conosca da vicino il “fermento sociale” in questione, non può che convenire con questo argomento generale. Del resto, c’è in questa lettura un’omissione importante: proprio l’intrinseca gratificazione che queste esperienze trasmettono a chi le anima, sia come lavoratore che come attivista o volontario, tengono lontano la partecipazione attiva nella vita politica. Non si tratta solo o tanto del voto alle elezioni, da qualunque parte vada. Ma della volontà di mettersi in gioco direttamente nella vita politica, come offerta e capacità organizzativa. Vuoi scalando i partiti (per quanto) esistenti, vuoi creando nuove forme organizzate dell’agire politico. Ci sono certo ottime ragioni per non farlo. I partiti più vicini a questi mondi si sono ridotti in grandissima parte a sistemi di gestione del potere, attenti solo a posti, risorse, scambi, controllo. Il tatticismo elettorale domina sulla scelta dello schema di gioco: meglio non rischiare nulla e scegliere l’opzione più sicura nelle alleanze. Meglio confermare la propria base elettorale, con accordi non compromettenti. L’assenza di rischio politico e le tattiche di conservazione dello status quo riducono i principi e le istanze del “fermento sociale” a mera strategia comunicativa, a cui non fanno seguito (o non precedono) azioni e decisioni trasparenti. Gli standard sono quindi eccessivamente bassi: c’è molta più politica e visione di futuro nella gestione condivisa di una comunità energetica, o nel piano industriale scritto dal Collettivo di fabbrica della GKN, che negli stantii processi decisionali di un partito politico. Ma proprio queste buone ragioni costituiscono una trappola: la politica è partigiana e le decisioni che contano non avvengono per magnanimità, lungimiranza o casualità. In Italia, come dappertutto, sono le persone nei ruoli che - quando possono - decidono. Se anche si pensasse che sono altri poteri - nascosti e non elettivi - a decidere, è comunque con questi ruoli politici che tali poteri devono mediare, negoziare e cercare qualche forma del compromesso. È, in altri termini, proprio il buon funzionamento della micro-politica nel sociale che disincentiva la presa in carico in prima persona dell’azione nella politica istituzionale. Certo, la responsabilità maggiore è dei partiti, non fosse altro per via dei rapporti di forza asimmetrici e della diversità dei ruoli ricoperti. Ma se le cose stanno anche così - e se non si può chiedere ai partiti ciò che non sono strutturalmente in grado fare, cioè auto-riformarsi - allora non resta che la strada del conflitto politico. Sostituirsi all’offerta politica esistente, senza aspettare la delusione dell’ennesimo tatticismo privo di orizzonte. L’allarme delle coop sociali: “Troppi rincari, addio ai servizi per i fragili” di Mirko Giustini Corriere della Sera, 6 ottobre 2022 L’allarme bollette degli enti privati di assistenza: “Così non ce la facciamo, 30mila lavoratori in bilico”. A rischio le case famiglia, chi si occupa di anziani e disabili e anche lo sport “popolare” e i coltivatori diretti. Il caro energia non risparmia nessuno, nemmeno disabili, immigrati e minori disagiati. A lanciare l’allarme sugli effetti dell’inflazione sull’economia sociale è Confcooperative Roma, che conta 412 aziende a scopo mutualistico, 30 mila dipendenti e 1,5 miliardi di fatturato. A temere di più sono le case famiglia, ancora alle prese con l’adeguamento dei prezzari. Da Prati l’ente di volontariato “Casa al plurale” fa sapere che alle strutture locali mancano più di 60 milioni e le istituzioni coprono solo la metà dei 150 milioni di fabbisogno. L’entità della prima retta fu fissata dalla giunta Rutelli e da allora la cifra ha subìto solo piccoli aggiustamenti. “Una situazione aggravata oggi da forniture e materie prime alle stelle - afferma Marco Marcocci, presidente di Confcooperative Lazio -. Le strade sono due: chiudere o aumentare le tariffe. Non possiamo di certo spegnere i riscaldamenti, servire piatti freddi o staccare gli elettrodomestici”. Lo sa bene la coop “Spes contra spem”, che in 6 abitazioni ospita 42 persone tra adolescenti e disabili. Nei primi 8 mesi le bollette del gas sono salite dagli 8.500 euro del 2021 ai 13.300 del 2022, quelle della luce da 7 mila euro a più di 14 mila. “Occorre poi saldare gli stipendi dei 70 operatori sociosanitari che forniscono assistenza h 24 - aggiunge Luigi Vittorio Berliri, presidente della coop-. Con l’arrivo dell’inverno che facciamo? Tagliamo i servizi a chi è costretto a letto o su una sedia a rotelle?”. Sono nella stessa situazione gli impianti sportivi delle società dilettantistiche, che per l’associazione di categoria Anif hanno già licenziato solo a Roma 12 mila impiegati e alzato gli abbonamenti fino al 18%. “C’è chi limita le docce, chi chiude prima. Palliativi utili solo a rimandare l’inevitabile - spiega Barbara Pescatori, responsabile sport per Confcooperative Lazio -. Eppure ogni euro investito in attività fisica ne fa risparmiare 5 in salute. Temiamo per l’occupazione e il valore sociale che generiamo”. A farne le spese è il benessere dei meno fortunati. Il club calcistico Vis Aurelia di via Pineta Sacchetti fa giocare ragazzi problematici, disabili e figli di famiglie a basso reddito. “Da ottobre a aprile fa buio presto e sia le caldaie che le luci rimarranno accese più a lungo - fa notare il direttore Massimo Anselmi -. La Regione prende 2mila euro per l’affitto del campo, chiedendo ai genitori mensilità sufficienti solo a pagare il materiale e gli istruttori, presto saremo costretti a autotassarci o a chiedere un finanziamento”. Non va meglio per le coltivazioni. Il Consorzio cooperativo ortofrutticolo alto viterbese (Ccorav) dal 1972 rappresenta oltre 600 associati: “Un quinto degli iscritti ha preferito non seminare - svela Augusto Di Silvio, presidente Ccorav -. Il concime è salito del 110% in 2 anni, il gasolio è raddoppiato. Irrigare un campo ci costa 1.400 euro in più all’ettaro. Per non licenziare e non scaricare gli incrementi a valle abbiamo ridotto i turni giornalieri a 5 ore, ma potrebbe non bastare”. Fuori le forze dell’ordine dalle scuole: non tocca a loro educare gli studenti di Christian Raimo Il Domani, 6 ottobre 2022 Attraverso accordi nazionali, regionali, o stretti direttamente con i singoli istituti, carabinieri, polizia, guardia di finanza, anche l’esercito sono di casa nelle scuole; come le caserme e i commissariati sono tra i pochi luoghi della società che i bambini conoscono. Quale è la ragione per cui militari e forze dell’ordine vengono investiti di questo ruolo educativo così autorevole, e spesso esclusivo? Le risposte che vengono immediate riguardano la supplenza che persino nell’ambito educativo la politica chiede alle istituzioni d’ordine per educare alla cittadinanza. Non sappiamo come cambierà la politica del prossimo ministero dell’istruzione, ma possiamo essere sicuri che qualcosa resterà immutato: ed è la presenza sempre più consistente, sempre più pervasiva, delle forze dell’ordine a scuola. Attraverso accordi nazionali, regionali, o stretti direttamente con i singoli istituti, carabinieri, polizia, guardia di finanza, anche l’esercito sono di casa nelle scuole; come le caserme e i commissariati sono tra i pochi luoghi della società che i bambini conoscono. Le prime uscite scolastiche che possono fare i bambini alla primaria vengono organizzati per conoscere come sono fatti i mezzi in dotazione alla polizia o ai carabinieri. Se si deve parlare di educazione alla legalità, di bullismo e cyberbullismo, di pedopornografia, di sicurezza stradale, di dipendenze o abuso di alcol o di sostanze, di stalking e femminicidio, di tutela del patrimonio culturale, e molto altro, ci sono sempre comandanti dei carabinieri e di polizia pronti a fare lunghi discorsi educativi nelle scuole di ogni ordine e grado. Pedagogia delegata - Le forze dell’ordine e quelle militari non ricordano semplicemente quale sia l’apparato normativo, non spiegano soltanto quale sia la loro funzione di tutela delle leggi, ma spesso trasformano questi momenti con le in delle vere e proprie conferenze pedagogiche; in rete se ne trova una testimonianza copiosa: gli ufficiali si profondono in considerazioni sociologiche sulle abitudini dei ragazzi di oggi, sulle questioni sociali eminenti e sui modi di affrontarle. Non si sottraggono nel dare consigli, paterni e intransigenti. Alle volte capita - per esempio a Ragusa a marzo scorso - che a pochi giorni dagli incontri sulla legalità, gli stessi carabinieri si ripresentino con le unità cinofile, per fare controlli nelle classi, con l’accordo della dirigenza e dei docenti, come operazione di contrasto allo spaccio. L’idea che l’educazione alla legalità corrisponda a un’educazione non alla consapevolezza ma al controllo e all’irrigimentazione è anche più marcata nei progetti che nelle scuole coinvolgono l’esercito. Nel dicembre 2021, per esempio, sempre in Sicilia, è stato firmato un accordo per il Pcto (percorsi per le competenze trasversali e l’orientamento, l’ex alternanza scuola-lavoro) tra Ufficio scolastico regionale e l’esercito per affidare a quest’ultimo l’offerta formativa su materie come la topografia e la progettazione di progetti edili, e si sono anche pensati progetti destinati alle primarie su inglese e multiculturalismo con i marines della basi di Santa Teresa di Riva (Messina) e Sigonella (Catania). L’ufficio marketing dell’esercito (sic) ha in vigore un altro protocollo con il ministero dell’Istruzione intitolato Sogna Cresci Realizza che lascia all’esercito la possibilità di orientare gli studenti rispetto alla carriera militare direttamente nelle classi. Troppe divise - La familiarità che già dalle prime classi della primaria si ha con il mondo in divisa non ha paragoni con gli altri contesti sociali o altri soggetti civili. Per la maggior parte degli studenti restano ignote altre professioni e altri spazi: si può arrivare all’esame di maturità senza aver visto mai una fabbrica, un ospedale o una biblioteca. Soprattutto si può aver discusso di legalità in classe senza essersi confrontati con chi le leggi le elabora o le approva (ragionando in questo modo che le regole sono frutto di contrattazione e di discussione pubblica), o chi si occupa di diritto per ragioni di studio; si possono conoscere i pericoli dell’uso di sostanze senza avere la minima idea della riduzione del danno e del consumo consapevole. Quale è la ragione per cui militari e forze dell’ordine vengono investiti di questo ruolo educativo così autorevole, e spesso esclusivo? Le risposte che vengono immediate riguardano la supplenza che persino nell’ambito educativo la politica chiede alle istituzioni d’ordine per educare alla cittadinanza. Scalabrini, un santo per i migranti di Gian Antonio Stella Corriere della Sera, 6 ottobre 2022 Domenica 9 ottobre sarà canonizzato in San Pietro l’apostolo dei lavoratori costretti a lasciare la propria terra d’origine: Giovanni Battista Scalabrini, il vescovo che lottò contro miseria e sfruttamento. “Ho visitato popolose città e collettività nascenti, campi fecondati dal lavoro e immensi piani non tocchi dalla mano dell’uomo, ho conosciuto emigranti che avevano toccato il fastigio della ricchezza, altri che vivevano nell’agiatezza, e più l’oscura immensa falange dei miseri, che lottano per la vita contro i pericoli del deserto, le insidie dei climi malsani, contro la rapacità umana, soli in un supremo abbandono, nell’inopia di tutti i conforti religiosi e civili e di ogni cosa; ho sentito i cuori palpitare all’unisono col mio…”. Domenica mattina, 9 ottobre, a San Pietro, centodiciassette anni dopo avere inviato a Papa Pio X il suo straordinario “Memoriale per la costituzione di una commissione pontificia Pro emigratis catholicis” del 1905 col racconto di alcuni dei suoi viaggi tra gli italiani sparsi per il pianeta, Giovanni Battista Scalabrini diventerà santo. Giusto giusto ora che torna a infiammarsi il tema dell’immigrazione e del “blocco navale” invocato dalla destra? Sospetti insensati: la beatificazione del vescovo di Piacenza, noto nel mondo per aver fondato le congregazioni dei missionari “scalabriniani” ed esser stato forse il primo ad avere un’idea lucida e globale del fenomeno, fu celebrata nel 1997 da Papa Wojtyla e già da decenni “L’Osservatore Romano” dedicava all’”Apostolo degli Emigranti” pagine di ammirata devozione. Ma certo un figlio di emigrati come Papa Francesco proverà domenica un’emozione in più. Il nuovo santo fu infatti tra i primi a teorizzare, come dimostra un passaggio nell’Antologia: una voce viva (scalabriniani.org/giovanni-battista-scalabrini-scritti), il “diritto naturale” degli uomini all’emigrazione. Una tesi cantata a fine Ottocento anche da anarchici come Francesco Bertelli (“La casa è di chi l’abita/ è un vile chi lo ignora/ il tempo è dei filosofi/ la terrà a chi lavora”), ma forse mai riassunta con la profondità e la fede del vescovo emiliano. Parlava dei “nostri” emigrati. Ce l’aveva con chi si metteva di traverso al sogno di “catàr fortuna” altrove come i poveri cristi affollati alla stazione di Milano: “Sulle loro facce abbronzate dal sole, solcate dalle rughe precoci che suole imprimervi la privazione, traspariva il tumulto degli affetti che agitavano in quel momento il loro cuore. Erano vecchi curvati dall’età e dalle fatiche, uomini nel fiore della virilità, donne che si traevano dietro o portavano in collo i loro bambini, fanciulli e giovanette tutti affratellati da un solo pensiero (...) e aspettavano con trepidazione che la vaporiera li portasse sulle sponde del Mediterraneo o di là nelle lontane Americhe”. Ce l’aveva coi proprietari terrieri “impensieriti da questo repentino impoverimento di braccia, che si traduce in un adeguato aumento di mercedi per quelli che restano” e levavano “i loro lagni al governo” per ottenere provvedimenti “per sanare e circoscrivere questo morbo morale, questa diserzione, che spoglia il paese di braccia e di capitali fruttiferi”. Richieste inaccettabili, per lui. Bloccando l’emigrazione “si viola un sacro diritto umano” poiché “i diritti dell’uomo sono inalienabili e quindi l’uomo può andare a cercare il suo benessere ove più gli talenti”. Non bastasse, sosteneva, “l’emigrazione, forza centrifuga, può diventare, quando sia ben diretta, una forza centripeta potentissima” capace di “immenso profitto”. Tesi che nel 1901, due anni dopo il linciaggio di undici italiani a Tallulah, in Louisiana, aveva espresso anche a Theodore Roosevelt: l’immigrazione era una risorsa straordinaria, un vero dono per un Paese che stava crescendo come gli Usa. Nato a Fino Mornasco nel 1839 in una famiglia molto cattolica, “candidato al sacerdozio” fin da giovanissimo, seminario frequentato negli anni del Risorgimento al punto di lasciare in lui qualche difficoltà, come scriverà lo storico Matteo Sanfilippo, nel “bilanciare appartenenza nazionale e appartenenza religiosa”, sacerdote a 24 anni col “sogno di andare nelle Indie per evangelizzare gli infedeli” (copyright di Graziano Battistella nella biografia Scalabrini vescovo fondatore) ma trattenuto dal vescovo di Como con la nomina a professore e vicerettore (poi rettore), vescovo di Piacenza a 36, riuscì a farsi amare come pochi altri con gesti passati alla leggenda. Riassunti nel 1980 da Raimondo Manzini, sull’”Osservatore Romano”, in poche righe: “Vendette la pariglia (allora si andava con i cavalli e non coi cavalli a motore) dicendo che il vescovo può benissimo andare a piedi; alienò il calice d’oro per sostituirlo con uno di stagno o di ottone, vendette le pietre della sua croce per riscattare alla povera gente i pegni del Monte di Pietà. “Se va avanti così morirà sulla paglia”, gli disse un familiare. “Sarebbe poco male”, rispose il vescovo, “dato che sulla paglia Cristo ha voluto nascere”. Va da sé che nel mondo sofferente dell’emigrazione italiana riuscì a toccare il cuore di tutti. Certo, non fu l’unica figura di spicco tra i nostri missionari oltre oceano. Basti ricordare la lodigiana Francesca Cabrini, infaticabile fondatrice delle Missionarie del Sacro Cuore di Gesù e canonizzata nel 1946 come prima santa statunitense, patrona degli emigranti. O la mitica Maria Rosa Segale, portata in America quando aveva quattro anni, diventata celeberrima come suor Blandina nell’estremo Far West (i giornali dell’epoca le dedicarono indimenticabili ritratti) per avere fermato all’ingresso del paese di Trinidad, in Colorado, un Billy the Kid furioso e deciso a fare una strage. Forse nessuno però, con l’amico Geremia Bonomelli vescovo di Cremona, ha pesato tanto nella storia della nostra emigrazione. A partire dall’insistenza sulla necessità che lo Stato italiano, distratto se non indifferente (a parte l’imposizione del servizio di leva) si facesse carico del problema. E dalla battaglia nel 1888 contro una proposta di legge che, citiamo ancora Manzini, “sanciva la concessione ai cosiddetti “agenti di emigrazione” di fare arruolamenti, il che voleva dire legalizzare la piaga dei cosiddetti “procacciatori”, i quali ingaggiavano, facendo loro pagare tassi esosi ed esponendoli a condizioni miserevoli, a situazioni proibitive e a un insieme di pericoli, quei lavoratori agricoli e industriali, che cercavano il pane oltre i confini della Patria”. Pane che, scrisse il vescovo piacentino citando Dante, sapeva di sale ed era “bagnato dalle lacrime”. La perse, Scalabrini, quella battaglia. Ma aveva ragione lui. E tredici anni dopo governo e Parlamento furono costretti a fare retromarcia ammettendo nella relazione a una nuova legge: “Errammo tutti nel 1888 e non abbiamo allora compreso che occorrevano provvedimenti in materia economica e sociale; non soltanto o principalmente di polizia: ciò che si deve cercare è l’inviolabilità della persona dell’emigrante, esposto a tante offese, a tanti patimenti; sinora e troppo spesso l’emigrante fu il mezzo o lo strumento per arricchire coloro che si trovavano accanto a lui col pretesto di rendergli un servizio”. Parole che sembrano scritte ieri mattina contro i trafficanti libici, gli affittacamere abusivi che ammucchiano immigrati in fetide topaie, gli immondi gangster del caporalato che approfittano di uomini e donne i quali, direbbe san Giovanni Battista Scalabrini, “tratti (quaggiù) da vane speranze o da false promesse, trovarono un’iliade di guai, l’abbandono, la fame, e non di rado la morte, ove credettero di trovare un paradiso”. Svizzera. Invecchiare in prigione di Francesca Calcagno rsi.ch, 6 ottobre 2022 In Svizzera i detenuti sono sempre più anziani e il Ticino non fa eccezione: il 10% ha più di 65 anni. Cosa significa essere anziano, in carcere? C’è una sezione dedicata? Si lavora? Abbiamo cercato di rispondere a queste domande anche perché ieri martedì, a Lugano, è stato condannato per atti sessuali con fanciulli un uomo di quasi ottant’anni che dovrà scontare in carcere 8 anni. Non è certo il solo, nelle strutture carcerarie cantonali il 10% dei detenuti ha più di 65 anni. In totale sono 22. In carcere non si va in pensione - “Il nostro compito”, spiega alla RSI il direttore delle strutture carcerarie cantonali Stefano Laffranchini, “è preservare le persone di una certa età dall’esuberanza dei più giovani”. A loro è dedicato il pian terreno della sezione I della Stampa, è un piano di facile accesso, ci sono poche scale e strutture sanitarie per chi ha difficoltà motorie. Un modo anche per razionalizzare le risorse e permettere “una prossimità più capillare del sevizio medico senza uno sforzo eccessivo del personale carcerario”. Poi c’è il grande capitolo delle attività lavorative, perché in carcere non esiste età di pensionamento. Il codice penale prevede infatti che un detenuto lavori fino al termine della sua pena indipendentemente dalla sua età. “Cerchiamo di inserire le persone più anziane in laboratori non produttivi, quindi dove può gestire il suo tempo”. Stefano Laffranchini ha precisato però che “non si assiste a un isolamento o auto isolamento dei detenuti anziani anche perché in alcuni gruppi di carcerati le persone anziani sono dei punti di riferimento e danno consigli agli altri detenuti”. La legge prevede però anche che se una persona soffre di problemi di salute gravi possa scontare la fine della sua pena in una casa per anziani. In Ticino è già successo almeno tre volte. È una decisione che prende il Giudice dei provvedimenti coercitivi e comunque si tratta di persone “per cui il rischio di recidiva è da escludere” proprio per la loro età e le condizioni di salute. Una sfida sempre più grande - Di invecchiamento della popolazione carceraria si è cominciato a parlare 3 anni fa, nel 2019 quando sono stati pubblicati i risultati di uno studio che i Cantoni hanno commissionato al Centro svizzero di competenza in materia d’esecuzione di sanzioni penali. Uno studio che ha pubblicato dei dati che dicono che in Svizzera almeno il 5% dei detenuti ha più di 60 anni e che questo numero è destinato a raddoppiare o addirittura triplicare entro il 2035. I motivi sono diversi: le pene comminate sono sempre più lunghe, crescono i numeri delle persone condannate all’internamento o a misure di lunga durata e poi l’invecchiamento della popolazione lo sappiamo è una tendenza generale. I Cantoni sono dunque coscienti della sfida che li attende anche perché le carceri sono stati pensate per persone giovani e quindi non sono più al passo con i tempi. Alessia Piperno detenuta in Iran: contatti tra i ministri di Roma e Teheran di Giuliano Foschini La Repubblica, 6 ottobre 2022 Diplomazia a lavoro per cercare di liberare la ragazza italiana arrestata mentre era in viaggio nel Paese. Una telefonata tra il ministro degli Esteri iraniano, Hossein Amirabdollahian, e quello italiano, Luigi Di Maio, è stata ieri il primo passo formale del lavoro per la liberazione di Alessia Piperno, la ragazza italiana arrestata una settimana fa in Iran. Nelle scorse ore l’ambasciata aveva avuto interlocuzioni ad alto livello per provare a trovare una via di uscita a una situazione che ora dopo ora diventa sempre più delicata. Ieri è arrivato il passo della politica, letto dagli osservatori come molto importante: gli iraniani stanno dimostrando infatti di voler collaborare, seppur al momento manchino alcuni tasselli fondamentali per ricostruire la vicenda. Nessun nostro diplomatico è riuscito a parlare con Alessia che è rinchiusa nel carcere di Evin, quello dei prigionieri politici. Non ci sono state ancora notificate le accuse che l’Iran muove alla travel blogger romana. Benché in maniera informale, è stato comunicato all’Italia che la ragazza avrebbe partecipato ad alcune delle manifestazioni che stanno attraversando il paese. “Un equivoco” dicono i nostri 007, visto che Alessia, viaggiatrice esperta, è sempre stata lontana dalle manifestazioni di piazza. Ma stava banalmente festeggiando il suo compleanno con un gruppo di ragazzi, per lo più europei, che dormivano nel suo stesso ostello fuori Teheran. Ed è proprio in quell’ostello che potrebbe essere nato l’arresto di Alessia, scambiata per qualcosa che invece non era. “L’Iran ha detto di aver fermato nove stranieri che avrebbero preso parte alle manifestazioni. Se questa fosse l’accusa anche per Alessia, sarebbe del tutto ingiustificata”, spiega Riccardo Noury, portavoce di Amnesty. Nella telefonata con Amirabdollahian, Di Maio ha chiaramente chiesto di Alessia. E gli è stato assicurato che a breve arriveranno notizie ufficiali. Sul tavolo, come lo stesso governo iraniano ha poi comunicato ai media, l’Iran ha messo però altro: ha chiesto all’Italia un impegno diretto per revocare le sanzioni e ristabilire un rapporto bilaterale corretto con il nostro Paese e l’Europa. Ed è questa la paura. Che sul tavolo della scarcerazione di Alessia qualcuno a Teheran possa giocare partite diverse. Ingiocabili. India. Writer italiani arrestati, restano tutti in carcere di Sara Ferreri Il Resto del Carlino, 6 ottobre 2022 Slitta l’udienza per i due giovani marchigiani e i due abruzzesi. Avevano disegnato con le bombolette su carrozze della metropolitana. Graffitari arrestati in India per aver disegnato ‘tag’ in due carrozze della metropolitana, è stata rinviata a domani l’udienza. A renderlo noto è stato il sindaco di Monte San Vito (Ancona), Thomas Cillo, che è in contatto con la famiglia di Sacha Baldo, il 29enne nato a Mantova e residente da diversi anni appunto in provincia di Ancona, arrestato insieme al ventisettenne Paolo Capecci di Grottammare (provincia di Ascoli Piceno). Il giovane che risulta residente a Monte San Vito ma da anni gira il mondo, si trova in stato di fermo nelle celle di sicurezza della polizia a Mumbai, sulla costa occidentale dell’India. Insieme ai due giovani marchigiani Sacha Baldo e Paolo Capecci in stato di fermo si trovano anche altri due writer abruzzesi: Gianluca Cudini di Tortoreto e Daniele Stranieri di Spoltore. Nella notte tra venerdì e sabato, bombolette spray in pugno, secondo l’accusa si sono introdotti nel deposito della città indiana di Ahmedabad disegnando graffiti su due carrozze della metropolitana della capitale del Gujarat, proprio poche ore prima dell’inaugurazione alla quale era attesa la partecipazione del premier indiano Narendra Modi. L’accusa per loro, i quali sono stati ripresi dalle telecamere di videosorveglianza, è di avere danneggiato una pubblica proprietà, per un danno di 50mila rupie (circa 600 euro), e di essersi introdotti in aree vietate al pubblico. Sacha era partito la scorsa settimana assieme agli altri tre amici che sarebbero in India con un visto turistico di un mese. Sono arrivati a Mumbai da Dubai la scorsa settimana, mercoledì ma sono sotto indagine anche per altri graffiti impressi in altre città indiane. Alla polizia i quattro graffitari hanno detto di avere disegnato i murales e le tag (in pratica le scritte che i graffitari usano come parola in codice per distinguersi) “per gioco” e che la scritta “Tas” riportata sui treni significherebbe “tagliatelle al sugo”. Dunque nulla a che fare con minacce contro la nazione né una sigla in codice contro il governo come ipotizzato inizialmente dagli inquirenti indiani. Hanno ricevuto la visita dei funzionari del consolato e sarebbero in buone condizioni.