Ecco le nuove norme sul carcere contenute nel Decreto attuativo della riforma Cartabia di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 5 ottobre 2022 Si tratta di una potente rivoluzione copernicana capace di incidere sul sistema penitenziario-sanzionatorio nonché sulla stessa fisionomia del giudice penale di cognizione. Ecco perché. Da sempre il nostro ordinamento penale e penitenziario è giudicato eccessivamente “carcero-centrico” e, in effetti, le statistiche di primari Istituti nazionali, sovranazionali nonché dello stesso Ministero della Giustizia hanno sempre riportato, negli anni, un dato in continua crescita: le statistiche del Dipartimento per l’Amministrazione Penitenziaria, al 31 dicembre 2021 confermano che i detenuti per pene inflitte in misura inferiore a quattro anni erano 11.262 su 37.631, pari cioè al 29,9%. In sostanza, quasi un detenuto ogni tre stava scontando una pena detentiva “breve”. Circostanza, questa, che non aiuta certo a risolvere uno dei grandi problemi della giustizia penale nella sua fase esecutiva, ossia il sovraffollamento delle carceri, con tutte le conseguenze che da questo derivano. Per i condannati a pene detentive cd. brevi, infatti, l’ingesso in carcere è tutt’altro che rieducativo. Vale rammentare, a tal proposito, che da tempo è diffusa e radicata, anche nel contesto internazionale, l’idea secondo la quale una detenzione di breve durata comporta costi individuali e sociali maggiori rispetto ai possibili risultati attesi, sia in termini di risocializzazione dei condannati che di riduzione dei tassi di recidiva. Quando la pena detentiva ha una breve durata, rieducare e risocializzare il condannato (art. 27 Cost.) è obiettivo che può raggiungersi molto più efficacemente e con maggiori probabilità attraverso pene extra murarie le quali, eseguendosi nella comunità delle persone libere, escludono o riducono l’effetto alienante della detenzione negli istituti di pena, relegando questa al vero e autentico ruolo di extrema ratio. Da questa presa di coscienza, l’impegno della Riforma Cartabia e degli schemi di decreto attuativi di potenziare l’esecuzione penale esterna (già in voga in forza della sempre maggior applicazione dell’istituto della messa alla prova) attraverso l’introduzione di vere e proprie pene sostitutive alla detenzione (breve), nei contenuti, simili alle attuali misure alternative alla detenzione, ma, nei presupposti, ben differenti. La Riforma infatti intende attribuire al giudice della cognizione la possibilità di applicare, già a partire dal momento della condanna, richieste di accesso alle misure alternative senza necessità di pronunce di ordini di sospensione, né di pronunce di esecuzione condizionalmente sospesa, le pene sostitutive (eredi delle sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi introdotte più di quarant’anni fa con la legge 689 del 1981). Quest’ultime, ad onor del vero, non hanno mai visto la luce a causa, per così dire, dell’indiscusso “successo” ottenuto con la sospensione condizionale della pena. La pressoché irrilevante applicazione delle pene sostitutive di cui all’art. 53 l. n. 689/1981 è testimoniata, emblematicamente, proprio dai dati relativi alla semidetenzione - che ha interessato nel 2021 solo 11 persone - e alla libertà controllata - che ha interessato nello stesso anno solo 540 persone. Di qui la scelta del legislatore delegante di abolire tali sanzioni sostitutive di introdurre ex novo una disciplina organica. Il concetto di pena detentiva “breve” cambia e si allinea, nel giudizio di cognizione, con quello individuato in sede di esecuzione dall’art. 656, co. 5 c.p.p. per l’accesso alle misure alternative alla detenzione in costanza di sospensione di un ordine di esecuzione. Si allinea, così, il limite massimo della pena sostituibile con quello entro il quale in sede di esecuzione può applicarsi una misura alternativa alla detenzione. Questa scelta comporta, apprezzabilmente, sia il venir meno dell’integrale sovrapposizione dell’area della pena sospendibile con quella della pena sostituibile, ai sensi della l. n. 689/1981 (promettendo di rivitalizzare l’applicazione anche delle pene sostitutive) che la possibilità per il giudice della cognizione di applicare pene, diverse da quella detentiva, destinate a essere eseguite immediatamente, dopo la definitività della condanna, senza essere ‘sostituite’ con misure alternative da parte dei tribunali di sorveglianza, spesso a distanza di molto tempo dalla condanna stessa (come testimonia l’allarmante fenomeno dei c.d. liberi sospesi). In particolare, con il nuovo art. 20 bis c.p. si prevedrebbero le seguenti pene sostitutive: la semilibertà sostitutiva; la detenzione domiciliare sostitutiva; il lavoro di pubblica utilità sostitutivo; la pena pecuniaria sostitutiva. In particolare, la semilibertà sostitutiva e la detenzione domiciliare sostitutiva verrebbero applicate dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni; il lavoro di pubblica utilità sostitutivo potrebbe essere applicato dal giudice in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a tre anni; la pena pecuniaria sostitutiva in caso di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a un anno. Alcuni commentatori, sul punto, hanno opposto riserve a tale dirompente innovazione poiché - si argomenta - essendo il giudice della cognizione ad infliggere direttamente la pena sostitutiva, e non più o non solo più il magistrato di sorveglianza (sotto forma di misura alternativa), tale meccanismo potrebbe portare ad una sorta di “miopia di vedute”. Si sostiene, infatti, che, a differenza del giudice della cognizione, il magistrato di sorveglianza potrebbe valutare elementi relativi alla persona che il giudice del fatto non conosce. Se, da un lato, il dubbio è fondato, dall’altro, ritiene lo scrivente, anche come possibile soluzione, occorrerà incaricare il giudice della cognizione di svolgere, egli stesso, già in sede di condanna, in un’ottica certamente prognostica, una più approfondita indagine sulla personalità dell’imputato, anche con la formulazione di ipotesi trattamentali dei singoli condannati. Ad ogni modo, come è stato detto, si tratta - condivisibilmente - di una silenziosa ma potente rivoluzione copernicana portatrice di novità in grado di incidere, in via organica, sul sistema penitenziario-sanzionatorio nonché sulla stessa fisionomia del giudice penale di cognizione, il quale ultimo, come è stato detto, si troverà a dover dismettere gli abiti dello storico dovendo volgere lo sguardo al futuro delle persone giudicate. *Avvocato, direttore Ispeg - Istituto per gli studi politici, economici e giuridici Comunità urbane e carceri, quali sinergie? di Sandro Libianchi La Discussione, 5 ottobre 2022 I Comuni e le Città Metropolitane possono e debbono avere un ruolo determinante sia per la tutela dei diritti delle persone detenute che per la difesa delle comunità urbane. La legge 56/2014 ha indicato chiare finalità istituzionali generali come la cura dello sviluppo strategico del territorio metropolitano, la cura delle relazioni con le città e le aree metropolitane europee, soprattutto per la promozione e la gestione integrata dei servizi e delle infrastrutture, incluse quelle sociosanitarie. A tale proposito il Pnrr ha sancito un principio di collaborazione interistituzionale con la creazione di specifici modelli organizzativi per la popolazione generale come le “Case per la Comunità”, le “Centrali Operative Territoriali” e gli “Ospedali di Comunità”. Percorsi di riconciliazione del condannato con la società che ha danneggiato - Un importante e noto precedente di questa collaborazione è la costituzione di partenariati locali, in tema di droga e sistema penale. In questo ambito le amministrazioni locali hanno sancito collaborazioni tra terzo settore e servizi pubblici, di cui un esempio sono i c.d. “Lavori di Pubblica Utilità” (D.M. 26 marzo 2001). Si tratta di prestazioni non retribuite a favore della collettività con interventi a favore di: portatori di handicap, anziani, protezione civile, tutela del patrimonio pubblico e ambientale, ecc.. Il condannato può, quindi, evitare il carcere e avviare un percorso di riconciliazione con la Società che ha danneggiato, per mezzo di attività che si svolgono presso le regioni, le città metropolitane, i comuni o presso enti e organizzazioni di promozione sociale o di volontariato. Il requisito fondamentale è che questi enti abbiano sottoscritto una convenzione con il locale Tribunale. Quindi, ancora una volta risulta determinante il coinvolgimento di tutti gli attori in gioco, anche se la cooperazione tra enti pubblici e privati non è mai semplice. Gli enti locali devono tutelare l’interesse generale - In ambito penale e carcerario, gli amministratori locali devono negoziare queste logiche in nome dell’interesse generale che rappresentano, ponendo una particolare attenzione alle fasce più vulnerabili quali i minori e gli stranieri. La normativa attuale prevede anche altri tipi di tavoli operativi: la Conferenza Socio-sanitaria metropolitana, il Patto metropolitano per il contrasto alle disuguaglianze sociali, la costituzione di un Centro studi e ricerche metropolitano per l’inclusione sociale e la promozione della comunità. In ogni caso un ‘NO’ deciso ad ‘osservatori’ o altrimenti denominati (cabine, gruppi, sportelli, agorà) laddove non siano partecipativi o restituenti informazioni ed un ‘SI’ ad Osservatori quali produttori di dati e conoscenza da diffondere. Ma forse il modello più produttivo in ambito penale e socialmente reintegrativo è rappresentato dal ‘Consiglio di Aiuto Sociale’ per le persone detenute e dal ‘Comitato per l’occupazione degli assistiti’ (artt. 74 e 77, L. 26 luglio 1975, n. 354) di cui si prevedeva la costituzione presso il capoluogo di ciascun circondario giuridico. Strutture adatte abbassano la recidiva criminale - Queste strutture permetterebbero di creare una rete stabile ed efficace tra istituzioni, società civile, mondo religioso, fornendo sostegno a coloro che “hanno sbagliato” e, in definitiva, abbassando la possibilità di recidiva criminale. Una unica ricerca risalente al 2003 del Gruppo Consiliare Radicale Piemontese ha rilevato che delle 90 risposte ricevute dai relativi tribunali, ben 78 di queste strutture risultavano non costituite, 7 costituite ma non operative, 3 in via di costituzione e solo 2 si definivano operative. La composizione di queste strutture appare essere riccamente costituita: magistrati, rappresentanti regionali e della città metropolitana, Prefettura, ASL, l’ufficio provinciale del lavoro, sindacati e rappresentanze del mondo del lavoro più altri pubblici e privati qualificati nell’assistenza sociale. I componenti di questi organi prestano la loro opera gratuitamente. Forse quest’ultima caratteristica permette di comprendere perché dopo 47 anni dalla sua istituzione, ad oggi, si contano non più di un paio di tali strutture per 164 tribunali italiani. Dal carcere alle Aule, questa giustizia è da riformare di Gennaro De Falco Il Riformista, 5 ottobre 2022 Occorre ripristinare il principio di parità e indipendenza dei poteri e nei poteri dello Stato ed evitare un doppio sistema processuale, uno per ricchi e uno per poveri. Prima delle feste più grandi tutti i bambini del mondo spediscono la letterina con i loro desideri, e quindi anche io, che sono ormai non troppo lontano per non dire prossimo alla fi ne del mio passaggio in quel luogo orribile che chiamo Tribunale, perché chiamarlo Palazzo di Giustizia non mi riesce proprio, scrivo la mia lettera dei desideri, per non dire dei sogni, al Presidente del Consiglio che verrà. Il primo desiderio che vorrei avanzare è quello di ripristinare l’italiano e quindi La chiamo Presidente e non Presidentessa o peggio ancora Presidenta, perché questa è la lingua che ho studiato tanti anni fa a scuola, perché che Lei è Donna si vede e si capisce, ma, nell’Italiano che conosco e che voglio usare io, si dice così: Presidente. La lingua non è un’ideologia, è un modo per comunicare e per sentirsi uniti e non un mezzo per litigare su questioni prive di ogni senso. Detto ciò inizio con la galleria dei sogni - desideri che io, ormai canuto avvocato napoletano, Le chiedo di realizzare. Il mio primo desiderio sarebbe quello che in ogni luogo di lavoro, e quindi in ogni tribunale, venisse realizzato un asilo per consentire a madri e padri il diritto/dovere di lavorare con serenità e sicurezza portando con sé i propri fi gli. Questo asilo lo vorrei paritario e quindi aperto a tutti, e per tutti intendo magistrati, avvocati, personale amministrativo e di polizia, senza preclusioni e gerarchie. Lo vorrei aperto a tutti e tutte come momento di educazione ed aggregazione per adulti e per bambini, tanto purtroppo ci penserà la vita a separare le persone inventando differenze senza senso. Quando i miei fi gli erano piccoli non ho avuto una famiglia che mi sostenesse e quindi giravo per la città senza avere un posto dove lasciare i bambini prima di andare in udienza, mi prendevano in giro e quando spingevo il passeggino mi chiamavano il mammo e devo dire che di questo neologismo non mi sono mai vergognato. Mi rendo conto che la mia lettera di augurio-benvenuto rischia di essere interminabile e quindi vengo al dunque e scrivo qualche altro desiderio legato al mondo “Giustizia” che a me pare realizzabile e a costo zero ed anche quasi di sinistra perché, come è noto, in questo bizzarro Paese a volte per fare le cose di destra bisogna essere di sinistra e viceversa. Prenda atto che il codice di procedura penale dell’89 era una follia e che comunque ha fallito completamente. Il codice dell’89 si basava principio dell’immediatezza e dell’oralità prevedendo la formazione della prova in dibattimento nel contraddittorio delle parti in condizione di parità tra accusa e difesa, ma già in origine prevedeva dei termini per le notifi che biblici. Come volete che i testimoni, ammesso che siano liberi di poterlo fare ed al Sud questa è una vera chimera, possano ricordare fatti di anni ed anni prima? E questo è solo uno degli esempi per cui, alla fi ne, siamo così arrivati alla interminabilità/inutilità dei processi. In questi giorni si è detto che la nostra Costituzione ormai ha settanta anni e che va rivista, e subito il ceto dominante che governa da sempre senza essere mai eletto da nessuno ha iniziato ad agitarsi trascurando che la Costituzione americana, che è stata la prima al mondo ed è anche molto più breve ed elementare della nostra, ha subìto decine di emendamenti e che ve ne sono tantissimi in decisione. In realtà penso che Italia, prima che di revisione della Costituzione, si debba puntare alla sua attuazione e bisogna dire che in fatto di giustizia oggi la situazione è assolutamente disastrosa. Occorre ripristinare il principio parità ed indipendenza dei poteri e nei poteri dello Stato e rendere effettivo il diritto di difesa che oggi è una mera affermazione di principio perché la difesa di uffi cio resta una formalità come anche il patrocinio a spese dello Stato. Infatti è assolutamente evidente che la pubblica accusa nelle aule di giustizia prevale nettamente non solo sulla difesa ma anche sulla magistratura giudicante, dilagando anche in politica e in ogni settore della vita sociale senza che ne derivino apprezzabili conseguenze in termini di sicurezza e legalità. Si parla tanto di certezza della pena ma nulla si fa per garantire il suo presupposto minimo che è la certezza della norma e della sua interpretazione. Ormai noi, come era del tutto prevedibile, abbiamo un doppio sistema processuale, quello dei poveri che si avvale dei cosiddetti riti alternativi e che si conclude comunque in tempi biblici con la rinuncia a tutte le garanzie, e quello dei ricchi, vale a dire il rito ordinario riservato a coloro che possono permettersi di affrontare i costi e i tempi interminabili del processo, che tanto sanno che non si farà mai. Lo so, sulla carta esiste la legge sulla responsabilità del giudice e un soggetto che si veda negare l’emissione di un provvedimento in tempi ragionevoli ben potrebbe invocarla ma so anche che non esiste nessun avvocato che avanzerebbe mai un’azione di questo tipo perché, nella migliore delle ipotesi, dopo dovrebbe solo cambiare lavoro. Ripristini per cortesia quell’istituto di buon senso del codice Rocco che si chiama Amnistia ed indulto. Non è possibile che un processo per qualche pacchetto di sigarette di contrabbando arrivi a durare 15/18 anni anche perché, in questo modo ed in questo oceano di carte, alla fine non si punisce nessuno o solo gli sfortunatissimi che pure ogni tanto ci sono. E poi, diciamo la verità, ma se alla fi ne dopo decenni e decenni tutte queste condanne venissero eseguite i condannati dove li mettiamo e come li manteniamo? Quando ha detto che il compito è difficilissimo ha detto la verità ma bisogna pur iniziare. Non abbia paura, riferendosi alla giustizia, di usare la parola “controriforma”, del resto lo ha già fatto la chiesa cattolica oltre 500 anni fa e non mi pare che la storia le abbia dato del tutto torto. Quindi ripristini la vecchia disciplina della prescrizione, eliminando il caos che abbiamo oggi in cui la stessa materia viene regolata da ben cinque diverse discipline, una diversa dall’altra. Ripristini anche la vecchia competenza della Corti di Assise che permettevano la partecipazione e il controllo diretto del popolo alla giustizia e questo per due ragioni: la prima è di principio e la seconda perché ho verificato che il lavoro dei giudici di Assise è qualitativamente molto ma molto superiore e penso che questo dipenda proprio dallo stimolo dato loro dalla presenza popolare. Se poi qualcuno dovesse storcere il naso gli ricordi, anzi gli dica che le Corti di Assise vennero introdotte con la rivoluzione francese. Queste sono solo alcune idee ma come lei certamente comprende e sa questo Paese ha soprattutto bisogno di fi ducia in sé stesso e di consapevolezza delle sue potenzialità perché, pur con i suoi problemi, è uno straordinario contenitore di genialità e laboriosità spesso inespresse, ma con alcuni punti neri ed uno di essi è appunto la giustizia cui occorre porre mano con buon senso, misura e determinazione. Ma la giustizia riparativa non è alternativa alla punizione di Marcello Bortolato Il Dubbio, 5 ottobre 2022 Oggi un ambizioso senso di onnipotenza scientifico-tecnologico sembra aver pervaso anche i territori del diritto (efficienza, celerità, processi telematici, giustizia predittiva) ma non dobbiamo dimenticare che il diritto è sempre intriso di eticità sociale e il clima sociale di un’epoca è alimentato dal coinvolgimento culturale ed etico di ciascuno di noi. In questo quadro si colloca l’idea di giustizia riparativa che oggi riprende fiato riaffiorando da un antico passato sempre presente. Ai critici bisogna rispondere che la giustizia riparativa, in forme varie, esiste già, è un fatto sociale e dunque si trattava solo di regolamentarne gli effetti giuridici nel processo anche e soprattutto a garanzia delle parti. L’idea di una giustizia della riparazione, nella sua contrapposizione sostanziale alla tradizionale giustizia punitiva, ha un che di indubitabilmente rivoluzionario in quanto modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. Il punto è delicato e per alcuni ‘ indigesto’: come si può attribuire pari dignità a reo e vittima? Innanzitutto perché lo impone la Costituzione che non distingue (art. 3) i cittadini tra colpevoli e innocenti. Poi perché lo stesso processo, assistito dal garantismo, non attribuisce minore dignità all’imputato, né al condannato, tant’è che esistono il giudice terzo e il ruolo costituzionale del difensore. Sappiamo invece quanto la giustizia tradizionale sia spersonalizzata perché molto lontana da quel groviglio di sentimenti, paure e angosce originate dal reato, si pensi proprio alla vittima marginalizzata nel processo in quanto costretta nel ruolo unico di testimone o di parte civile che richiede un risarcimento economico. La giustizia riparativa non ‘restituisce il colpo’ come la giustizia tradizionale che è sì giusta (quando lo è) ma nel contempo è dura, punitiva (raffigurata, come sappiamo, con la spada), raramente risolve il conflitto anzi lo alimenta col meccanismo del ‘ raddoppio del male’, ma offre uno spazio di dialogo rigorosamente volontario. La norma è chiara: ai programmi di giustizia riparativa si accede solo con il consenso. Si introduce nel sistema una dialettica ‘ tripolare’: non c’è più solo lo Stato che punisce e l’autore che subisce la pena, c’è anche la vittima, sparita dal processo per la tradizione del garantismo che impedisce sì la vendetta privata ma neutralizza la vittima, spettatrice e spesso vittima due volte. Merito della giustizia riparativa è dunque recuperare la vittima e renderla partecipe della possibile riparazione che non si esaurisce nel risarcimento pecuniario. È una giustizia orientata alle vittime pur non una giustizia che abbia solo quelle al centro: non toglie il ‘reo’ dallo sguardo della vittima che lungi da essere ‘pietra di inciampo’ diventa protagonista. La riparazione può anche far ripensare la pena, cioè la risposta punitiva, ma l’Italia ha scelto la complementarietà, una scelta coerente con lo schema bipolare del processo di parti, col garantismo processuale e tutti i suoi corollari (primo fra tutti la presunzione di innocenza) e col fine rieducativo della pena. Un percorso ‘ parallelo’ dunque, volto alla ricomposizione del conflitto: compito dello Stato è anche quello di promuovere la pacificazione sociale richiedendo a tutti (art. 2 Cost.), l’adempimento dei doveri inderogabili di ‘solidarietà politica, economica e sociale’. Non dunque una giustizia alternativa che rinunci alla pretesa sanzionatoria e nemmeno un modello sussidiario (la pena si applica solo se non si raggiunge l’esito riparativo, paradigma peraltro disseminato qua e là già nel codice con gli effetti estintivi di innumerevoli istituti ‘riparatori’, giammai ‘riparativi’, già esistenti). Chi pensa che con questa legge avremo meno carcere e più premi per i colpevoli, peggio ancora il perdono, non è sulla buona strada. Il sistema punitivo tradizionale continuerà a costituire il presupposto dei programmi riparativi che, in quanto facoltativi e peraltro processualmente già poco appetibili, non soppiantano il sistema tradizionale. Cambia il ruolo del giudice? Certamente: egli si mette non sopra il conflitto ma dentro di esso, non si limita ad assolvere o a condannare. E questo dà una speranza nuova anche al suo lavoro quotidiano. La legge non richiede che l’accesso sia spontaneo e solo in questo va letto il potere officioso del giudice di ‘invio’ ai Centri che tanto spaventa i processualisti arroccati ad una difesa ad oltranza del cognitivismo del processo accusatorio. Il giudice non perde la sua neutralità ma anzi la rafforza riconoscendo pari dignità ai protagonisti del conflitto, un conflitto che esiste (il processo lo è già) tra chi è “indicato come autore dell’offesa” (scelta lessicale che contempera il doveroso rispetto della presunzione di innocenza) e la vittima ma la riparazione ‘ interpersonale’ (cioè senza giudice, senza PM, senza difensore), promossa ma non imposta, si svolge fuori dal processo. Nulla che non sia aderente alla libera scelta volontaria degli interessati. Il Giudice all’esito ne raccoglierà gli effetti, solo se positivi. Infine, non è una giustizia di classe: se il risarcimento del danno lo può attuare solo chi ha mezzi economici sufficienti, la riparazione invece la può attuare chiunque. Suicidi in carcere, Bonvissuto: “Prigioni discariche sociali senza riscatto per i detenuti” di Sara Scarafia La Repubblica, 5 ottobre 2022 L’autore di ‘Dentro’ (Einaudi), racconto del disagio di chi è nei penitenziari: “La detenzione è il problema più doloroso del Paese. Sono convinto che se la gente avesse uno straccio di lavoro, un lavoro qualsiasi, la popolazione carceraria si ridurrebbe”. Quando Sandro Bonvissuto lo dice, lì per lì, sembra quasi ovvio. Ma appena le parole si mettono in fila nel cervello, ecco spalancarsi l’abisso. “Il male delle carceri è l’inversione dei quozienti di spazio e tempo: in genere le persone hanno pochissimo tempo e tantissimo spazio. Un detenuto si ritrova all’improvviso con tantissimo tempo e pochissimo spazio”. Bonvissuto parla dell’emergenza suicidi nelle carceri. Scrittore romano cresciuto tra Portuense e Magliana, per Einaudi ha pubblicato un libro duro e straziante, Dentro, che racconta l’inferno delle prigioni attraverso la voce di un detenuto senza nome, senza storia. “Perché, grazie alla forza della letteratura, potesse essere ciascuno di noi”. Bonvissuto, cos’è che non funziona? “Chi ha sbagliato dovrebbe pagare, nel senso di restituire, rifondere. E invece il carcere non serve a niente”. Perché ha deciso di raccontare la vita di un detenuto? “Perché credo che la detenzione sia il problema più doloroso del Paese. Perché sono cresciuto a ridosso di un quartiere dove per ogni famiglia era normale che si entrasse e uscisse di galera. A Roma esistono due mondi e io ero finito in quello sbagliato. Ho usato la scrittura per illuminare un mio incubo, una mia ossessione. È notte, finisci in una gabbia con altri che stanno dormendo, senti i passi del secondino che si allontanano. Resti immobile, paralizzato, finché qualcuno non ti dice “ma perché non ti metti a dormire?”. I dati sui suicidi sono allarmanti: in Sicilia già 10 dall’inizio dell’anno... “Mi stupisco di chi si stupisce: perché stare in una cella in quattro o sei persone, essere costretti a “cagare” mentre uno ti guarda, dormire in materassi bucati, in mezzo ai vermi, perché dovrebbe rendere le persone migliori?”. Che cosa sono le carceri oggi? “Sono discariche sociali dove tossici, matti stanno insieme agli altri anche se avrebbero bisogno di cure e strutture adeguate. Le celle sono piene di immigrati, che hanno avuto la sfortuna di nascere dall’altra parte del mare e che sono già nel penale perché “clandestini”. Per tutti c’è un medico che passa e prescrive “le goccette”: del resto che altro ti resta se non buttarti nel letto sfondato? La vita è una punizione”. In molte strutture penitenziarie ci sono corsi scolastici, biblioteche, laboratori per imparare un mestiere: questo può aiutare? “I libri si fanno leggere prima che la gente finisca dentro. I corsi di falegnameria? Bisogna pensare prima a creare un tessuto lavorativo nei quartieri difficili. Prima che ci pensi la malavita a dire ai ragazzini di andare a spacciare “. Il problema è sociale? “Certo che lo è. Il carcere è una cosa brutta, bisogna prevenire. Il degrado genera altro degrado. Non tutti i reati sono uguali. Io sono certo che se la gente avesse uno straccio di lavoro, un lavoro qualsiasi, la popolazione carceraria si ridurrebbe”. Il reddito di cittadinanza è stato una risposta? “Sì, nei quartieri degradati dove i ragazzini vendono droga per comprarsi il motorino, è stato una risposta. Ma tanto adesso toglieranno anche questo sussidio”. La politica non fa abbastanza? “Non se ne occupa. Le carceri nuove sono tutte fuori dalle città, così non le vediamo e non rovinano il selfie scattato col cellulare”. Perché il sovraffollamento, i suicidi dei detenuti, non vengono considerati un’emergenza del Paese? “Perché l’uomo vuole la punizione, perché più la democrazia è evoluta più produce detenzione. Pensiamo al numero impressionante di carcerati che ha il Nord America che noi inseguiamo come modello. Nelle grandi democrazie occidentali c’è solo un indice in aumento: il numero dei detenuti”. Come si potrebbe intervenire? “Provando intanto a ridurre l’inversione dei quozienti spazio e tempo. Eh, poi però diranno “e allora che galera è?”. È facile se vivi ai Parioli dimenticarti che hai avuto solo fortuna. Io lo so che il male abita il mondo e il carcere potrebbe essere una clamorosa occasione per ripagare. Invece non serve a niente”. Dap e Fondazione Severino siglano Protocollo in favore dei detenuti di Loredana Caponio gnewsonline.it, 5 ottobre 2022 Un protocollo, per accompagnare chi esce dal carcere nel reinserimento nella società. Un protocollo che attraverso corsi di formazione, attività di supporto e sostegno a ricerche scientifiche si propone un obiettivo ultimo: incrementare quelle condizioni di esecuzione della pena, che si traducono in un crollo della recidiva. Il Ministero della Giustizia - col Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria - ha siglato con la Fondazione Severino un protocollo che si sviluppa in più direzioni, a partire - in via sperimentale - dagli istituti del Lazio. A firmarlo martedì 4 ottobre, nella sala Livatino del Ministero, la Guardasigilli Marta Cartabia, la Presidente della Fondazione “Severino” Paola Severino e il Capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi. Tra le iniziative previste, corsi di formazione teorico-pratica per detenuti ed ex detenuti, attivazione di sportelli di counseling, che siano un “punto di riferimento” per le persone detenute già durante la fase esecutiva della pena in vista del rientro nella società. Tra i campi d’azione anche la promozione di progetti specifici di ricerca sul lavoro in carcere, sull’efficacia delle misure alternative, sulla formazione del personale dell’amministrazione penitenziaria, oltre ad iniziative culturali per sensibilizzare l’opinione pubblica. “Questo protocollo è ricco di proposte e contenuti che hanno un orientamento chiaro: incontrare il detenuto nella fase dell’esecuzione penale con uno sguardo però già rivolto al dopo, alla fase del reinserimento sociale”, ha commentato la Ministra Cartabia, che ha parlato di un protocollo “che accompagna chi esce dal carcere verso il ritorno nella società. Un’iniziativa così non può che nascere dalla sensibilità umana e professionale della professoressa Severino, che - da ministra della Giustizia - ha vissuto momenti di grave crisi nelle carceri, soprattutto per il sovraffollamento, da cui sono derivate occasioni di riforma a lungo termine. Occasioni come questa ci ricordano come proprio quando la pena raggiunge il suo scopo di reinserimento, si aumenta anche la sicurezza della società”, ha sottolineato la Guardasigilli. “Lo scopo vero di questa iniziativa è la recidiva 0”, conferma Paola Severino, presidente della Fondazione, che aggiunge: “il detenuto che sia educato nel suo percorso carcerario, al suo rientro nel mondo del lavoro non ricadrà nel reato, perché non avrà motivo di farlo. Se si aiuta un detenuto a trovare un lavoro decoroso e dignitoso, quel detenuto non ricadrà nel delitto e questo è un vantaggio per lo Stato”. “Il carcere non può e non deve essere autoreferenziale ma deve aprirsi a contributi che la società è in grado di dare”, ha aggiunto il capo Dap Carlo Renoldi - “ Questo protocollo è una miniera di opportunità per la nostra Amministrazione ed è animato dall’idea di impegnarsi sul fronte dell’accoglienza e della formazione. Non c’è miglior investimento, per evitare la recidiva,che scommettere sulla possibilità di poter cambiare”. Riscopriamo l’umanesimo penale: la lezione di Moro su vittima e colpevole di Gennaro Salzano Il Riformista, 5 ottobre 2022 C’è stato un tempo, in Italia, in cui la politica trattava le questioni della giustizia, del reato, della pena tenendo d’occhio innanzitutto l’umanità: quella della vittima, che erano insieme la società ed il singolo, e quella del reo. É l’Italia di Aldo Moro che era leader politico di livello internazionale, ma anche filosofo di profondissimo pensiero. Formato alla scuola positivista del suo maestro Biagio Petrocelli, ne prende le distanze per aderire e, per certi versi, fondare un pensiero penalistico che assume i connotati del personalismo di Maritain. Per comprendere la “filosofia penalistica” di Moro occorre dare innanzitutto uno sguardo veloce alla sua stessa idea di diritto che era, per lui, strumento etico di unità dell’umanità. Nell’idea di diritto di Moro non vi è nulla di meccanico, di formale: esso è invece lo strumento attraverso il quale lo Stato e, prima ancora, la società, positivizzano i percorsi di normazione che accompagnano l’umanità verso il raggiungimento della sua pienezza che si può dire essere l’unità etica di tutti gli individui-persona nei progressivi stadi di avanzamento dalla comunità familiare, alle formazioni sociali, allo Stato alla comunità internazionale. Il diritto che via via si pone è, quindi, per Moro sempre un diritto giusto, poiché è frutto dello spirito che accompagna questo processo unificante della intera umanità. Non può non essere così, almeno finché esso non si sclerotizza in forme che impediscono l’unità piuttosto che realizzarla. In questa idea di diritto si inserisce la concezione morotea della pena e della coercizione. La funzione primaria della pena, in Moro, va ricercata nel ristabilimento della condizione di equilibrio etico precedente la commissione del fatto illecito. Non è quindi, per Moro, un semplice, quanto spesso impossibile, recupero della precedente realtà materiale, quanto invece il recupero di una condizione della convivenza in cui trionfa la giustizia. In questa dinamica, avverte Moro, il protagonista è l’umanità: quella dell’offeso e quella del reo. La pena è la reazione che la società pone di fronte alla commissione dell’atto illecito. Affinché essa abbia successo e porti al recupero della condizione di giustizia deve essere personale, legale, proporzionale. Fondata sul diritto essa è personale in quanto non può avvenire senza la piena adesione del reo al cui recupero la pena stessa è funzionale. Il soggetto che ha rotto l’equilibrio sociale col comportamento deviante deve cioè essere messo in condizione di comprendere il suo errore e di aderire liberamente alla punizione che la società ha posto verso il suo comportamento. Solo così, per Moro, la pena può veramente avere successo e ristabilire l’equilibrio etico che è stato rotto. È un’idea che sottende praticamente tutto il pensiero di Moro, in ogni campo: non c’è vera stabilità e non c’è successo nell’agire umano, se la soluzione ad un problema non trova l’adesione di tutti coloro che sono chiamati a dare soluzione a quel problema stesso. Va da sé, quindi, che in una tale visione, non solo la pena di morte, ma anche la detenzione perpetua sono ritenute delle pene ingiuste. La prima è, di tutta evidenza, la negazione stessa del diritto e della giustizia poiché sopprime uno degli elementi essenziali alla ricostruzione dell’equilibrio, la seconda perché nega la possibilità di riabilitazione del reo e quindi la sua adesione al ristabilimento della giustizia. “Alla coercizione - sosteneva Moro nelle sue lezioni - non è rimesso il compito della definitiva restaurazione dell’ordine etico giuridico, ma di porre le condizioni che agevolino questo ritrovamento del soggetto (…) che si opera con gli strumenti insostituibili della libertà della persona umana”. L’uso della forza come reazione che individuo e società pongono verso il reo, dunque, è “avviamento ad una libera accettazione. E (…) garanzia del successo è la misura dell’amore che individuo e società pongono nella loro reazione; è la sincerità del desiderio di bene, la effettiva imparzialità, la ponderatezza che animano i soggetti i quali entrano in questa vicenda”. Certo Moro prendeva in considerazione la possibilità che il reo permanesse nell’errore: “in quel punto il diritto è fallito e resta un ineliminabile residuo di male”. Così come può accadere che sia la forza della coercizione ad essere fonte del male. È questo il caso in cui la resistenza del reo, animato dalla volontà di emendare sé stesso, diventa addirittura trionfo della vita morale. Ecco, in un’Italia dove da anni impera un giustizialismo violento, la riscoperta delle radici dell’idea di giustizia sottesa alla Costituzione stessa, cui Moro diede ampio contributo, sarebbe un esercizio utile al recupero della nostra civiltà politica e giuridica. Tre nomi per il ministero della Giustizia. Ma c’è il diktat di Meloni di Simona Musco Il Dubbio, 5 ottobre 2022 Nella corsa a Via Arenula resta favorito Nordio, seguito da Bongiorno: difficile un suo ritorno alla Pa. E rispunta anche l’ipotesi Sisto. Rimane sostanzialmente una corsa a due quella per il ministero della Giustizia, dove a “contendersi” la poltrona di Guardasigilli sono l’ex magistrato Carlo Nordio, eletto tra le file di Fratelli d’Italia, e la responsabile Giustizia della Lega Giulia Bongiorno. Una corsa che vede in pole position l’ex toga, indicata da Giorgia Meloni come ministro ideale ben prima del risultato elettorale, cosa che dirotterebbe l’avvocata leghista alla Pubblica amministrazione. Ma le trattative sono ora “complicate” dal diktat della leader di Fratelli d’Italia: “Nessuno può stare dove già è stato”. Ovvero: nessuno riprenderà possesso di un dicastero che ha già “guidato”. Il che, dunque, escluderebbe un ritorno di Bongiorno alla Pa, posto occupato durante il governo gialloverde. Lo scopo del cosiddetto “lodo Meloni” non è sicuramente quello di far fuori l’ex ministra leghista, ma di evitare che Matteo Salvini rimetta piede al Viminale, posto per il quale il leader della Lega scalpita sin dalla fine del Conte I, che si concluse con un mojito del Papeete. E ciò chiuderebbe la strada anche ad un altro big della Lega, ovvero Giancarlo Giorgetti, che si vedrebbe negare un ritorno al Mise, oltre che un eventuale posto da sottosegretario alla Presidenza del Consiglio. Le richieste del Carroccio, dopo il consiglio federale di ieri, sono però chiare: l’Interno deve tornare al partito di via Bellerio. E tra gli altri dicasteri che interessano alla squadra di Salvini ci sono anche le Infrastrutture, l’Agricoltura, gli Affari regionali e le Riforme per l’autonomia. Insomma, la Giustizia rimane, almeno in apparenza, fuori dall’elenco. Ma pensare di destinare Bongiorno a qualcosa di meno che un ministero appare ai membri della coalizione poco credibile. “Non credo che dopo aver fatto il ministro possa accettare di fare altro”, si lascia sfuggire un deputato. Difficile, dunque, immaginarla nel ruolo di sottosegretario in via Arenula e men che meno alla guida di una delle due Commissioni. Ruolo al quale Nordio, ormai da tempo, si dice invece interessato: “Per la mia preparazione tecnica - ha detto più o meno in tutte le interviste - mi riterrei più adatto in commissione Giustizia, perché è lì che si elaborano le leggi”. Ciò senza però escludere un possibile ruolo da ministro, in quanto “avendo visto la situazione disastrata degli uffici giudiziari soprattutto del mio Veneto, la tentazione di entrare al ministero e di colmare rapidamente gli organici e di implementare le risorse, sarebbe molto forte”. Il tutto mantenendo la cautela del caso: “La nomina - ha sempre chiosato - spetta al Presidente della Repubblica”. L’importante è, dunque, stare nella stanza dei bottoni, qualunque essa sia, per poter cambiare la giustizia, a partire dagli effetti che ha sull’economia del Paese. Uno scopo raggiungibile, ad esempio, imprimendo una accelerazione della durata dei processi - la cui lentezza riduce gli investimenti e incide negativamente sul Pil -, riducendo la mole di leggi e creando un rapporto più facile con la Pubblica amministrazione. Aspetti che stanno molto a cuore a Meloni, intenzionata, in questo momento, a incidere sul versante economico, prima che su altri aspetti. Ma tra gli addetti ai lavori, tutti in attesa che la premier in pectore dia indicazioni sulla squadra di governo, circola anche il nome del forzista Francesco Paolo Sisto, sottosegretario alla Giustizia nel governo Draghi e indicato come altro possibile candidato a raccogliere l’eredità della ministra Marta Cartabia. Un nome che garantirebbe anche un rapporto più tranquillo con la magistratura, dati i trascorsi polemici di Nordio con gli ex colleghi, e che avrebbe il profilo tecnico, oltre che politico, ricercato dalla leader di Fratelli d’Italia. Ma nel caso in cui non dovesse superare i colleghi nella corsa verso il ministero, Sisto rimane in lizza per il ruolo di sottosegretario alla Giustizia, ammesso che il lodo Meloni non riguardi anche questo tipo di posizioni. Sono dunque diversi i nodi da sciogliere. Tra le poltrone da assegnare ci sono quelle delle presidenze delle commissioni Giustizia - oltre ai nomi già indicati c’è anche quello del forzista Pierantonio Zanettin - e a stretto giro bisognerà ragionare sui nomi dei laici da indicare per il Consiglio superiore della magistratura, nonché quello dei sottosegretari. Tra questi ultimi, ieri il Mattino ha inserito anche Catello Maresca, magistrato e consigliere di minoranza a Napoli, che può vantare un rapporto diretto con Meloni, pur avendo rifiutato i simboli del centrodestra durante la campagna elettorale per le comunali. Un profilo distante da quello indicato da Nordio, che al Dubbio ha chiarito la sua idea sui rapporti tra politica e toghe. “Ho sempre detto che un magistrato in servizio non dovrebbe mai candidarsi - aveva evidenziato -, soprattutto se ha indagato su politici, per non suscitare due sospetti: di aver strumentalizzato le sue indagini per far carriera in Parlamento, e di utilizzare in modo improprio le informazioni sensibili di cui potrebbe essere in possesso. In ogni caso chi entra in politica non può poi rivestire la toga”. Nordio alla Giustizia? Le toghe rimangono in attesa: “In fondo è stato uno di noi…” di Valentina Stella Il Dubbio, 5 ottobre 2022 Bocche cucite nelle procure e tra i vertici delle correnti sul futuro guardasiglli: dichiarazioni dialoganti e pacate in attesa che Meloni indichi la sua linea di governo. “Non vogliamo interferire”. Come la prenderebbe la magistratura italiana se l’ex procuratore aggiunto di Venezia Carlo Nordio venisse nominato nelle prossime settimane nuovo ministro della Giustizia? La domanda sorge quasi spontanea: la giustizia sta vivendo un momento di cambiamento e resta ancora un cantiere aperto. Sebbene le riforme del processo civile e penale ormai siano definitive, nulla esclude che si possano apportare delle modifiche, come ha ricordato in una intervista al Dubbio il presidente dell’Unione Camere penali Gian Domenico Caiazza. Inoltre ci saranno da scrivere i decreti attuativi della riforma del Consiglio superiore della magistratura e dell’ordinamento giudiziario, anche se non è detto che il nuovo Governo eserciti la delega. Ma la nostra curiosità si rafforza perché Nordio, pur essendo un ex magistrato, è stato comunque - giusto per ricordare la circostanza più recente - presidente del Comitato per il Sì ai referendum “giustizia giusta”, promossi da Lega e Partito Radicale. Ricordiamo che tra i quesiti c’erano quelli sulla separazione delle funzioni, sponsorizzata per aprire poi alla vera separazione delle carriere, e sui limiti alla custodia cautelare. Ma anche quello sul voto nei Consigli giudiziari degli avvocati in merito alle valutazioni di professionalità dei magistrati: ipotesi invisa a tutte le correnti dell’Anm, tranne a Magistratura democratica, che la considera una fonte in più per una più consapevole analisi della carriera del magistrato. Ottenere una risposta tra i togati è impresa difficile, persino in forma anonima. Per molti “sarebbe una indebita interferenza”. E non hanno forse torto. Altri preferiscono “attendere” prima di pronunciarsi. L’unico a parlare ufficialmente con noi è il segretario di Magistratura Democratica, Stefano Musolino, che sposta la questione dal nome al programma: “Il presidente del Consiglio farà le sue scelte ed esporrà anche sulla Giustizia i suoi programmi, scegliendo chi dovrà interpretarli. Non immagino, perciò, una differenza sostanziale dipendente dalla persona del ministro. Questa “individualizzazione” del ruolo era tipica dei governi tecnici, con programmi vaghi sulla giustizia. Immagino che il nuovo Governo avrà un chiaro e puntuale programma politico la cui interpretazione non dipenderà troppo dal ministro che sarà nominato. Insomma è tempo di tornare alla politica del confronto di idee, frutto di condivise elaborazioni collettive, piuttosto che di solipsismi individuali”. Dall’area centrista nessuna polemica verso il loro ex collega, anzi. C’è chi ci dice che “il fatto che Nordio sia un magistrato significa che almeno ha una visione dall’interno della magistratura, anche se la sua posizione è sempre stata particolare. Lo si giudicherà dai fatti”. Un altro aggiunge: “Sicuramente il dato che sostenga le riforme è visto positivamente. Anche se bisogna capire quali riforme”. Appunto, se fosse quella della separazione delle carriere si troverebbe probabilmente l’Anm pronta a scioperare di nuovo come ha fatto contro la riforma di mediazione Cartabia su Consiglio superiore della magistratura e ordinamento giudiziario. Un altro ancora fa notare: “Anche lui dovrà fare i conti con la coalizione che lo esprime. Il fatto che, dopo aver accennato alla reintroduzione dell’immunità, abbia precisato che non è parte del suo programma, dimostra che le riforme saranno una sintesi fra le sue idee e quelle di Fratelli d’Italia”. Insomma dalla magistratura arrivano, ca va sans dire, sia on che off the record, risposte dialoganti e pacate. Si penserà: come potrebbero fare altrimenti? Però ufficiosamente si sarebbero potuti lanciare dei segnali di preoccupazione e invece abbiamo trovato, nel piccolo bacino in cui abbiamo pescato, una magistratura che al momento non cerca uno scontro con la politica basato al momento solo su propositi, per lo più gridati in campagna elettorale. Forse avranno anche loro colto dei segnali, ad esempio, dalle indiscrezioni lanciate da questo giornale per cui il maggior azionista di Governo non sarebbe pronto subito a mettere mano alle riforme della giustizia, spinto anche dall’esigenza di non andare allo scontro con la magistratura ma mosso soltanto dal migliorare la macchina processuale per i cittadini. Processo Cucchi, il giudice: “Depistaggi per non minare le carriere dei carabinieri” di Andrea Ossino La Repubblica, 5 ottobre 2022 Le motivazioni della sentenza che ha portato alla condanna di otto militari dell’Arma. I depistaggi e le false annotazioni per sviare il processo sulla morte di Stefano Cucchi avevano “la finalità di allontanare l’attenzione dai carabinieri così da evitare qualsiasi coinvolgimento del comandante del gruppo, considerato che già altri militari erano stati coinvolti nei gravi fatti in danno del presidente della regione Lazio, un uomo delle Istituzioni”. Lo scandalo Marrazzo aveva già messo in difficoltà l’Arma. Quindi otto militari hanno tentato di offuscare la verità sulla morte di Stefano Cucchi. Per questo motivo “è stata confezionata la versione ufficiale dell’Arma dei carabinieri”. Una mossa che doveva servire a escludere “ogni possibile coinvolgimento dei militari così che l’immagine e la carriera dei vertici territoriali, in particolare, del comandante del gruppo Roma, Alessandro Casarsa, non fosse minata”. In altre parole: le indagini sulla morte di Cucchi furono falsate, depistate. Lo scrive chiaramente il tribunale di Roma nelle oltre quattrocento pagine che motivano la condanna a carico di un’intera catena di comando dell’Arma. Un generale, un colonnello, quattro comandanti e altri due carabinieri: hanno tutti lavorato nell’ombra per nascondere i fatti accaduti nel 2009, quando due carabinieri hanno pestato a morte il ragazzo mentre era nelle mani dello Stato, all’interno della caserma Casilina. La sentenza - Ma nonostante i depistaggi, i falsi, i favoreggiamenti, le calunnie e le mancate denunce, la verità è venuta a galla e otto militari, nell’aprile scorso, sono stati condannati. C’è il generale Alessandro Casarsa, all’epoca dei fatti comandante del Gruppo Roma, che è stato condannato a 5 anni di carcere per aver spinto i sottoposti a firmare due annotazioni di servizio false. Il colonnello Francesco Cavallo e l’ex comandante della compagnia di Montesacro, Luciano Soligo, dovranno scontare 4 anni di reclusione. Invece il comandante della stazione di Tor Sapienza, Massimiliano Colombo Labriola, e il carabiniere Francesco Di Sano, sono stati condannati rispettivamente a 1 anno e 9 mesi e a 1 anno e 3 mesi di carcere. “Un intero Paese è stato preso in giro per sei anni” attraverso “un’attività di depistaggio ostinata, a tratti ossessiva”, aveva detto il pm Giovanni Musarò riferendosi a quanto accaduto dopo il 2015, quando la procura di Roma aveva riaperto l’inchiesta. L’allora comandante del Reparto Operativo, Lorenzo Sabatino, venuto a conoscenza della false annotazioni di servizio, non aveva informato i pm e per questo è stato condannato a scontare 1 anno e 3 mesi di reclusione. E poi c’è il comandante della IV sezione del Nucleo Investigativo, Tiziano Testarmata, che avrebbe “dimenticato” di informare la procura dell’esistenza del registro generale del fotosegnalamento in cui era stato “cancellato con il bianchetto il passaggio di un soggetto”, ricordano gli atti: è stato condannato a scontare 1 anno e 9 mesi di carcere. Anche nel 2018 è stato gettato fango su Stefano Cucchi: il carabiniere Luca De Cianni, condannato a 2 anni e 6 mesi. Le due relazione di servizio - Il perché delle condanne lo spiegano bene i giudici. Partendo dalle modifiche apportate alle relazioni di servizio, che “non riguardano circostanze irrilevanti…erano essenziali nell’economia della vicenda e per la comprensione di cosa fosse accaduto”. “È un dato pacifico che furono redatte due versioni delle annotazioni datate 26 ottobre 2009 a firma di Gianluca Colicchio e Francesco Di Sano, avente un contenuto divergente in relazione alle condizioni fisiche in cui versava Stefano Cucchi durante la sua permanenza presso la Stazione dei Carabinieri di Tor Sapienza”, si legge negli atti. Colicchio e Di Sano, come da comandi del tenente Colombo Labriola, hanno scritto una prima relazione di servizio, il 26 ottobre 2009, spiegando cosa avevano visto durante il loro turno di lavoro e “i malesseri manifestati da Stefano Cucchi”. Ma “è provato che il contenuto di tali annotazioni fu modificato in data 27 ottobre 2009 secondo le indicazioni del comandante del gruppo Roma, Alessandro Casarsa (condannato a 5 anni di carcere). Le modifiche erano state sollecitate “attraverso il suo braccio destro, tenente colonnello Francesco Cavallo, dal comandante della compagnia dei carabinieri Montesacro, Luciano Soligo, da cui dipendeva la stazione di Tor Sapienza”. Quelle relazioni arrivarono poi “al comando provinciale e, attraverso esso, al comando generale per poi pervenire, come si è visto, al ministero della difesa e infine al gabinetto del ministero della giustizia”. Le versioni “poco convincenti” dei superiori - I falsi avevano uno scopo preciso: “Erano funzionali a comprovare che al detenuto non era successo nulla fino a quando era stato nelle mani dei carabinieri”. Versioni poco convincenti sono andate in scena anche durante il processo. Le testimonianze del colonnello Casarsa e del generale Vittorio Tommasone, “non appaiono convincenti” dice la Corte. Casarsa, nel corso dell’esame, è stato evasivo, ambiguo, ha reso dichiarazioni generiche e vaghe riguardo alle circostanze più rilevanti su cui gli sono stati chiesti chiarimenti….ha in qualche modo minimizzato il rilievo della vicenda Cucchi”, si legge negli atti Proteggersi dopo il caso Marrazzo - “L’immagine dell’Arma capitolina era mediaticamente esposta” ricorda il giudice facendo riferimento al caso Marrazzo, che aveva coinvolto diversi carabinieri. Quindi “le false annotazioni (dopo la morte di Cucchi ndr) avevano dunque la finalità di allontanare l’attenzione dai carabinieri così da evitare qualsiasi coinvolgimento del comandante del gruppo, considerato che già altri militari erano stati coinvolti nei gravi fatti in danno del presidente della regione Lazio, un uomo delle Istituzioni”. “Cucchi era malato” - “Tutti gli imputati avevano la consapevolezza che, attraverso le condotte da ciascuno posta in essere, si giungeva alla modifica e all’alterazione del contenuto delle annotazioni, consentendo cosi di rappresentare uno Stefano Cucchi che stava male di suo, perché molto magro, tossicodipendente, epilettico”, contestualizza il giudice ricordando come “si resero necessarie telefonate, colloqui, persino una ricostruzione della scena vissuta” da uno dei militari imputati. E “le modifiche non furono apportate dagli interessati”. Le ordinarono ai sottoposti: “fu detto ‘leggi, firma e poi vediamo se parti”. La verità è che Cucchi “quando era uscito di casa, la sera in cui fu arrestato, stava bene”, tuona il magistrato. E che sul ragazzo i militari avrebbero infierito anche dopo la morte: “Alle condotte poste in essere dagli autori materiali delle lesioni che hanno determinato la morte di Stefano Cucchi per sviare la ricostruzione dei fatti, evincibili dalle sentenze riguardanti la vicenda Cucchi, si sono aggiunte quelle ….poste in essere” per depistare le indagini. Da qui la condanna. Ilaria Cucchi: “Questa sentenza è la storia della nostra vita” - “Questa sentenza è la storia della nostra vita, in 13 anni ci sono stati momenti difficili ma non ci siamo mai arresi e oggi la verità è scritta nero su bianco”, dice Ilaria Cucchi dopo aver letto le motivazioni della sentenza. “Sono immensamente grata a tutti coloro che sono stati accanto a noi in questi 13 anni - continua - a partire dall’avvocato Fabio Anselmo, dal professor Vittorio Fineschi, il pm Giovanni Musarò, non voglio dimenticare nessuno e ringrazio tutti. Credo che questa sentenza - sottolinea - possa aprire la strada a tanti altri Stefano che rischiano di non avere giustizia. In questo momento il mio pensiero va a lui e voglio dirgli ‘fratello mio, è stata dura ma ce l’abbiamo fatta”‘. “Questa è una sentenza molto importante. Dopo 13 anni, 160 udienze e tutta questa vita vissuta, siamo riusciti a far emergere la verità e le tesi del pm Giovanni Musarò e quelle nostre sono state provate e riconosciute in una sentenza che ora deve mettere a tacere tutti, inclusi quei politici avvoltoi”, commenta invece l’avvocato Fabio Anselmo, legale di parte civile di Ilaria Cucchi. “È un momento emozionante - continua - dopo tanto lavoro e tanti sacrifici fatti dalla famiglia Cucchi, dopo il dolore che hanno vissuto, siamo riusciti a far emerge la verità. L’ ‘anima nera’ è stata riconosciuta dal giudice” conclude riferendosi a Casarsa. Perdi il lavoro per ingiusta detenzione? Nei risarcimenti bisogna tenerne conto di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 ottobre 2022 Per definire la somma risarcitoria per l’ingiusta detenzione, il giudice non può trascurare la perdita di occasioni lavorative a causa di essa. Lo ha chiarito la Corte di cassazione, con la sentenza n. 37206, accogliendo con rinvio il ricorso di un ingegnere, particolarmente affermato nella sua provincia di origine, ingiustamente messo agli arresti domiciliari per circa un mese per turbativa d’asta. La Corte di appello de L’Aquila, considerato il clamore mediatico dell’arresto, aveva aumentato l’importo derivante dal calcolo aritmetico portandolo a 6mila euro. Contro questa decisione il professionista ha proposto ricorso in appello affermando di aver patito altri danni patrimoniali non presi in considerazione dal Collegio territoriale. La corte suprema ricorda che, ferma restando la cifra massima stabilita dalla legge in 516.456,90 euro, il giudice della riparazione può discostarsi dall’ammontare giornaliero di 235,82 euro (117,91 per gli arresti domiciliari), “valorizzando lo specifico pregiudizio, di natura patrimoniale e non patrimoniale derivante dalla restrizione della libertà dimostratasi ingiusta”. La Corte d’appello, infatti, ha ritenuto di accedere alla richiesta di liquidazione in relazione agli ulteriori danni, limitandosi ad esaminare il solo profilo del discredito subito in relazione alla pubblicazione della notizia dell’arresto sui quotidiani. Così facendo però - scrivono i giudici della cassazione - “ha omesso di approfondire la problematica relativa alla perdita degli incarichi in corso e di chances lavorative di analoga natura”. Al contrario, prosegue la decisione, il Giudice della riparazione deve valutare le specificità, positive o negative, di ciascun caso e, quindi, “integrare opportunamente il criterio aritmetico in relazione a tutte le diverse situazioni sottoposte al suo esame e, in particolare, esaminando analiticamente gli ulteriori pregiudizi lamentati dal ricorrente”. ll riferimento al criterio aritmetico, che risponde all’esigenza di garantire un trattamento tendenzialmente uniforme nei diversi contesti territoriali, dunque, “non esime il giudice dall’obbligo di valutare le specificità, positive o negative, di ciascun caso e, quindi, dall’integrare opportunamente tale criterio, innalzando ovvero riducendo il risultato del calcolo aritmetico per rendere la decisione più equa possibile e rispondente alle diverse situazioni sottoposte al suo esame”. In questo senso, conclude la Corte, debbono ritenersi fondate le censure prospettate dal ricorrente con riferimento al “diniego del riconoscimento, di ulteriori danni non patrimoniali, rispetto a quelli liquidati, con specifico riferimento al mancato affidamento di nuovi incarichi professionali”. Estradizione cittadino turco, la Corte d’Appello di Catanzaro rigetta la richiesta ildispaccio.it, 5 ottobre 2022 “Rischio trattamenti inumani e degradanti nelle carceri turche”. La Corte d’Appello di Catanzaro Seconda Sez. Penale, Presidente relatore dott. Antonio Giglio, consiglieri dott.sse Maria Rosaria De Girolamo e Barbara Saccà, con sentenza n.10/2022 del 27 Settembre u.s., ha rigettato la richiesta di estradizione, avanzata dal governo Turchia nei confronti del sig. T.M., cittadino turco, per il rischio concreto che lo stesso possa essere sottoposto a trattamenti inumani e degradanti nelle carceri turche. Con questa importante pronuncia, nonostante la requisitoria favorevole alla richiesta di estradizione, avanzata dalla Procura Generale, la Corte ha inteso accogliere integralmente le conclusioni formulate dall’ Avv. Gianluca De Vito, difensore dell’imputato. La difesa ha evidenziato come sussista la condizione ostativa alla concessione dell’estradizone (art. 698 co. 1. C.p.p.) poiché l’imputato, di etnia curda, avrebbe concretamente rischiato di subire la violazione di diritti fondamentali in virtù del fatto che la Turchia, pur facendo parte della Convenzione Europea dei diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali del 1950, in data 21.07.2016 abbia comunicato di sospendere la sua applicazione e quella del Patto Internazionale dell’ONU sui Diritti Civili e Politici del 1966. Inoltre secondo i recenti rapporti di Amnesty International, Human Rights Watch nonché del Dipartimento di Stato Americano, vi sarebbero ancora molteplici falle nel sistema giudiziario e nel tessuto politico-sociale della Turchia, concernenti soprattutto l’abuso dei diritti umani, la repressione del dissenso, l’abuso di potere statale, la libertà di espressione e di riunione nonché abuso di maltrattamenti e condizioni di carcerazione inumane e degradanti sotto la custodia della polizia. In questo contesto, si inseriscono, appunto, innumerevoli condanne alla Turchia da parte della Corte europea per i diritti dell’uomo tra cui la più recente risale al settembre 2021, con la condanna nei confronti della Turchia per la detenzione provvisoria dell’ex sindaco curdo di Siirti, Tuncer Bakirhan, incarcerato perché accusato di appartenere al PKK. Proprio per tali motivi la Corte d’Appello di Catanzaro, richiamando le pronunce della Corte di Cassazione n. 32685/201, n. 54467/2016 e 26742/2021, ha negato l’estradizione in Turchia dell’imputato. Sicilia. L’inferno delle carceri siciliane: già 10 suicidi da inizio anno di Alessia Candito La Repubblica, 5 ottobre 2022 I penitenziari dell’Isola ai vertici della classifica italiana dei gesti estremi in cella, senza contare le morti sospette. Pesano sovraffollamento, strutture fatiscenti e carenza di mediatori culturali. Il garante dei detenuti: “Manca progettualità”. Ci sono i familiari di Simone, con il suo volto sulle magliette. Quelli di Francesco, che srotolano uno striscione. Di fronte al palazzo di giustizia di Palermo, al sit-in dell’associazione Antigone, chiedono verità sulla sorte di due ragazzi finiti in carcere in anni e circostanze diverse, ma usciti entrambi solo da morti. Pur di lasciare la cella, si sono tolti la vita. Non sono un’eccezione. E il 2022 rischia di essere anno nero. Dieci dei sessantacinque suicidi registrati da gennaio ad oggi sono avvenuti in Sicilia. Due - ed è anomalia rispetto alle statistiche - sono donne. E questo senza considerare i presunti decessi naturali o i cosiddetti “casi da accertare” - l’ultimo è di due giorni fa all’Ucciardone - che farebbero balzare le vittime a quota diciotto. “Per capire davvero cosa stia succedendo, basta fare i conti - dice il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma - in Sicilia c’è una popolazione carceraria che non supera i seimila detenuti, ma contiamo già dieci suicidi. Se rapportiamo queste cifre al numero di siciliani che nello stesso periodo si è tolto la vita fuori, ci rendiamo conto che dietro le sbarre il tasso di suicidi aumenta almeno di venti volte”. Numeri da capogiro, che in filigrana, se possibile, fanno ancor più impressione. In tutta Italia, la Sicilia è la seconda regione per numero di detenuti che si tolgono la vita, seconda solo alla Lombardia che ne conta quattordici. Peccato però che lì ci siano almeno duemila persone in più dietro le sbarre. “C’è un problema generale Italia - spiega Palma - e c’è un problema aggiuntivo Sicilia”. Da Nord a Sud, sovraffollamento, mancanza di servizi, strutture spesso fatiscenti, sono una costante. Così come costante è lo stigma sociale per chi esce di cella e prova a reinserirsi in società. “Ma fatte salve alcune fortunate eccezioni - sottolinea Palma - in Sicilia il principale problema è la totale mancanza di progettualità”. Non che il sovraffollamento non ci sia. Sui 23 istituti siciliani, almeno quattro - Augusta e Castelvetrano con il 140 per cento, Gela con il 141,6 per cento, Catania Bicocca con il 142,6 percento - superano la capienza massima prevista dalla legge. Ma ovunque, dice sempre il garante nazionale, da poco reduce da un’ispezione a Marsala, “per la maggior parte dei detenuti il tempo passato in carcere è tempo vuoto, inutile”. Ed è parentesi pericolosa: è lì che le dinamiche criminali si riproducono e il carcere diventa luogo di reclutamento. Ma soprattutto è lì che i fragili lo diventano ancora di più. Dietro le sbarre sono la maggioranza. “Perché è un inferno povero. Personalmente, di rado dentro ho incontrato gente che si possa permettere un buon avvocato. La popolazione carceraria più è fatta per lo più da soggetti socialmente vulnerabili e sono quelli maggiormente a rischio suicidio”, commenta Pino Apprendi, ex consigliere regionale e volto dell’associazione Antigone in Sicilia. Per lui il problema non è semplicemente di condizioni di detenzione, ma di sistema. Rita Barbera, per 35 anni direttrice di istituti di pena, conosce le falle dall’interno. Ed è convinta: “Non ci potrà mai essere una soluzione, fin quando in carcere continuerà a finire anche chi commette reati “bagatellari”, magari perché tossicodipendente, affetto da disturbi psichici o socialmente emarginato. Servirebbero altri percorsi, in cella queste persone non ci dovrebbero neanche entrare”. Eppure sono la maggioranza. Al pari degli stranieri, spesso ancora più marginalizzati in un sistema “costruito attorno alla famiglia. Da mesi - dice Richard Braude del circolo Arci Porco Rosso - proviamo a far visita ad un ragazzo del Ciad e uno del Senegal che come associazione conosciamo benissimo, ma non possiamo. Non siamo familiari”. E in assenza di mediatori culturali - solo di recente ne sono stati assunti alcuni - anche manifestare un disagio, chiedere una visita medica, contattare la famiglia lontana è un problema. Ma fondi non ce ne sono. Così come mancano per gli psicologi, a carico delle Asp territoriali e fra le prime voci di budget ad essere tagliate. Chi può rimedia con i precari, pagati a prestazione e con contratti di un anno o poco più. Risultato, per i soggetti a rischio la continuità assistenziale non esiste. E peggio va a chi ha necessità di cure psichiatriche. In Sicilia ci sono 140 detenuti in lista per le Rems, le strutture sanitarie per chi soffre di turbe psichiche. Ma nell’Isola sono solo due, tutte nella parte orientale, e in media per entrarci ci vogliono 458 giorni. Un’eternità. E sono tanti, troppi - con un lenzuolo trasformato in cappio, o una lametta nascosta bene - ad abbandonare la coda e la vita, stanchi di attendere una risposta dallo Stato. Che spesso dietro le sbarre non c’è. Palermo. Detenuto morto al Pagliarelli, interrogato il compagno di cella livesicilia.it, 5 ottobre 2022 La procura di Palermo sta ricostruendo le ultime ore di vita di Paolo Cugno, 32enne originario di Canicattini Bagni. È stato interrogato il compagno di cella di Cugno, trovato senza vita nel carcere Pagliarelli di Palermo dove stava scontando una condanna a 30 anni per l’omicidio della sua compagna, Laura Petrolito, prima accoltellata e poi gettata in fondo ad un pozzo. La Procura di Palermo sta provando a ricostruire le ultime ore di vita del giovane ed è ha disposto l’autopsia per accertare le cause del suo decesso. La famiglia di Cugno, assistita dall’avvocato Antonino Campisi, ha nominato un proprio consulente, il medico legale Francesco Coco che parteciperà all’esame autoptico. Stando alle prime ricostruzioni, il 32enne, dopo essersi alzato dalla sua branda, avrebbe avvertito uno stato di malessere e poi sarebbe morto. “Non sappiamo ancora che tipo di malore abbia avuto” dice l’avvocato Campisi, che confida, come i genitori dell’uomo, nell’esito dell’autopsia. Nel corso del processo, il collegio difensivo aveva insistito sull’infermità mentale del 32enne che, sulla scorta di una perizia psichiatrica di parte, avrebbe sofferto di una grave patologia, una schizofrenia paranoide. Per i giudici Cugno, invece, era in grado di sostenere un processo. Palermo. Sit-in di Antigone Sicilia davanti al Tribunale: “Basta morti in carcere, istituzioni intervengano” lecodelsud.it, 5 ottobre 2022 Antigone Sicilia ha tenuto ieri, martedì 4 ottobre, un sit-in davanti al Tribunale di Palermo in cui si è levato un grido di protesta contro i decessi nelle prigioni: “Basta morti in carcere, le istituzioni intervengano per fermare questo fenomeno drammatico che dal 2000 ad oggi conta a livello nazionale 1.240 morti per suicidio e 3.500 morti per altre cause”. Pino Apprendi dell’Osservatorio ha detto: “È inaccettabile assistere al continuo stillicidio di detenuti che decidono di togliersi la vita o che muoiono in circostanze poco chiare. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di giovani tra i 20 e i 40, detenuti per reati lievi e in condizioni di fragilità psicofisica. Quest’ultimi, in particolare, si trovano spesso in carcere solo temporaneamente, perché in attesa che il giudice valuti la loro condizione di salute. In questo lasso di tempo, tuttavia, alcuni di loro non reggono all’inferno della prigione e decidono di togliersi la vita”. Al sit-in hanno partecipato la madre di Samuele Bua e il padre di Roberto Pasquale Vitale, i cui figli sono morti suicidi nel carcere Pagliarelli di Palermo, e la madre di Francesco Paolo Chiofalo, l’uomo detenuto sempre nel penitenziario palermitano e deceduto per cause da accertare. Palermo. Cgil: “Diffondere tra detenuti cultura del lavoro per il reinserimento nella società” blogsicilia.it, 5 ottobre 2022 La Cgil Palermo ha aderito al sit-in di ieri pomeriggio davanti al Tribunale di Palermo, indetto dall’associazione Antigone Sicilia, per richiamare l’attenzione sul drammatico fenomeno dei suicidi e delle morti in carcere. La pena sia rieducativa come dice la Costituzione - “La nostra organizzazione è impegnata ad avere uno sguardo attento sulle condizioni di vita nelle carceri, sul rispetto dei diritti e della dignità umana delle persone ristrette, convinti che la pena non è mai vendetta, ma deve sempre avere il senso rieducativo che la nostra Costituzione le ha assegnato”, dichiarano Mario Ridulfo, segretario generale Cgil Palermo e Laura Di Martino, componente in rappresentanza della Cgil Palermo del comitato per l’occupazione degli assistiti dal consiglio di aiuto sociale. Diffondere la cultura del lavoro per il reinserimento nella società - “Siamo convinti - proseguono Ridulfo e Di Martino - che diffondere la cultura del lavoro all’interno delle carceri, il diritto alla salute, all’istruzione e all’affettività, oltre ad abbattere le recidive e comportamenti autolesionistici facilita il reinserimento nella società”. Il carcere non sia entità estranea alla società - “Serve un grande lavoro culturale - aggiungono Mario Ridulfo e Laura Di Martino - che dimostri come i percorsi che garantiscono dignità e diritti alle persone recluse siano un valore non solo per la persona che è stata reclusa ma per tutta la collettività, perché il carcere è, e deve essere, parte della società civile, e non un’entità estranea”. Rivedere e aggiornare il piano regionale - Secondo la Cgil Palermo occorre rivedere e aggiornare il piano regionale per la prevenzione delle condotte suicidarie nel sistema penitenziario per adulti. “Come Cgil - concludono Ridulfo e Di Martino - stiamo portando il nostro impegno e le nostre proposte, nel comitato per l’occupazione degli assistiti, per la diffusione della cultura della legalità e del riconoscimento dei diritti, in un lavoro di rete volto a individuare gli interventi sul piano sociale necessari e alternativi al welfare mafioso”. Viterbo. Confartigianato apre le porte a Seconda Chance: ai detenuti opportunità di riscatto grazie al lavoro di Federica Lupino Il Messaggero, 5 ottobre 2022 Confartigianato apre una breccia nel mondo imprenditoriale locale per dare una seconda occasione ai detenuti. L’associazione è pronta a collaborare con Seconda Chance per creare un dialogo tra le carceri e le imprese disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei reclusi a fine pena, usufruendo dei benefici concessi dalla legge Smuraglia. A illustrare nel dettaglio il progetto è stata l’ideatrice, Flavia Filippi, che nei giorni scorsi ha incontrato il segretario provinciale di Confartigianato Viterbo, Andrea De Simone, e dal consulente del lavoro del sistema Confartigianato Viterbo, Angelo Mosca. Un passo indietro, per capire la valenza dell’iniziativa. Nel concreto, Filippi, che è una giornalista di La7, insieme alla documentarista Alessandra Ventimiglia, e a Beatrice Busi Deriu, titolare di Ethicatering, da due anni gira l’Italia per trovare imprenditori disposti a scommettere su detenuti ritenuti idonei dal magistrato di sorveglianza, facendoli lavorare e corrispondendo loro il relativo compenso. A Viterbo Mammagialla è già coinvolto da alcuni mesi: sono sei i carcerati coinvolti nella sartoria interna che stanno realizzando sacchi per vele e borse, commissionati dalla Milleniumtech di Prato, veleria nata nel 1981. “Siamo lieti di collaborare a questa iniziativa insieme a Seconda Chance - ha affermato De Simone -offrendo al mondo dell’impresa la possibilità di dare una mano a persone in cerca di una seconda occasione, e di assumere al tempo stesso personale che permetta di risparmiare sul costo del lavoro. Si tratta di un rapporto diretto: le carceri selezionano i detenuti a fine pena che possono lavorare fuori dalle strutture, gli imprenditori bisognosi di personale li incontrano e se ci sono le condizioni scelgono loro se e chi assumere. In questo modo si risponde ad un’esigenza sociale e solidale, e si attenua anche la difficoltà che oggi hanno le aziende di trovare lavoratori”. Sinora 108 i posti di lavoro procurati da Seconda Chanche: le aziende, anche multinazionali, dopo aver incontrato in carcere (Monza, Opera, Bollate, Pescara, Viterbo, Civitavecchia, Rebibbia, Velletri, Frosinone) gruppi di detenuti preventivamente selezionati dalle direzioni degli istituti, offrono periodi di prova e poi contratti di lavoro (anche part time o a tempo determinato) a pasticcieri, cuochi, camerieri, lavapiatti, addetti alle pulizie, giardinieri, elettricisti, fabbri, falegnami, meccanici, magazzinieri, braccianti, manovali, operai, ragionieri, periti elettronici. Ora Confartigianato è disponibile a fornire tutte le informazioni per aderire al progetto (076133791, info@confartigianato.vt.it). Milano. InGalera, un ristorante da premio di Roberta Rampini Il Giorno, 5 ottobre 2022 Allo chef del carcere di Bollate e alla presidente di Abc il riconoscimento internazionale “Giuseppe Sciacca”. “Ci hanno beccato”, commenta ironicamente Silvia Polleri, presidente della cooperativa Abc La Sapienza in tavola, che dal 2004 da lavoro ai detenuti del carcere di Bollate. La cooperativa ha ricevuto il premio Internazionale “Giuseppe Sciacca” istituito dall’omonima fondazione e assegnato ogni anno a chi ha saputo distinguersi nel proprio campo di lavoro o di studio. La cerimonia, giunta alla XX edizione, si è svolta nell’aula magna della Pontificia università urbaniana, in Vaticano. A ritirare il premio insieme alla presidente c’erano Davide Sobacchi, chef del ristorante InGalera, il primo e unico ristorante in Italia dentro un carcere, e Mario Pala, entrambi detenuti-dipendenti della cooperativa. “Il premio arriva a coronamento di quasi vent’anni di attività. Siamo andati in tre a ritirarlo, ma questo riconoscimento è di tutta la cooperativa e quindi entrerà nella casa di reclusione Milano Bollate, nella cucina centrale, come forte segno del lavoro di tutti coloro che negli anni si sono succeduti - commenta Silvia Polleri - è un premio che ci incoraggia e stimola ad andare avanti, nonostante le difficoltà degli ultimi due anni. È stato molto emozionante essere lì in mezzo a tanti giovani e lo dedico a tutti i ‘complici’, tantissime persone che hanno creduto e continuano a credere nel progetto”. La cooperativa svolge servizi di catering e offre un percorso concreto di riabilitazione per i detenuti, un centinaio quelli che hanno lavorato in questi anni, tutti regolarmente assunti e retribuiti. Nell’ottobre 2015 ha aperto il ristorante “InGalera” dove sono passati oltre 50mila clienti. Oggi ai tavoli e in cucina ci sono 8 detenuti e un non-detenuto, tutti professionisti. “Da qualche mese abbiamo ripreso anche i catering all’esterno con molte richieste anche da enti importanti come l’università Bicocca”, conclude la presidente. Roma. La biblioteca dell’Ipm di Casal del Marmo “Una stanza tutta per loro” osservatoreromano.va, 5 ottobre 2022 Identità e idee: il potere creativo della lettura. La biblioteca dell’Istituto penale minorile di Casal del Marmo a Roma. Un silenzio preoccupante. “Preoccupante per gli agenti, gli operatori e i volontari del carcere che hanno realmente creduto che quella ragazza, sempre litigiosa, stesse architettando qualcosa di grosso. Alla fine, però, s’è scoperto che il motivo per cui la giovane ristretta non attaccasse più le compagne fosse proprio la lettura: la calma e la tranquillità regnava nelle celle grazie al fatto che la reclusa avesse trovato in biblioteca tutta la saga di Twilight”. Francesca Columbano è la presidente dell’associazione di volontariato “FuoriRiga” che, dal 2014, opera, attraverso una serie di iniziative culturali sostenute dall’8x1000 della Tavola Valdese, nell’istituto penale minorile di Casal del Marmo, a Roma. A questo giornale racconta un particolare aneddoto, assai significativo in riferimento a quello che è il potere - inesauribile - della lettura, capace, da sempre e per sempre, di costruire identità, sensi critici, idee. “L’intreccio tra “FuoriRiga” e la biblioteca dell’Ipm di Casal del Marmo - spiega la presidente - risale al 2012. All’epoca avevo ventott’anni, stavo svolgendo il servizio civile all’interno delle biblioteche per adulti delle carceri romane. Nell’attività, ma a margine, vi rientrava anche quella di Casal del Marmo, e dico a margine perché la biblioteca dell’istituto minorile non rientrava nel Protocollo stipulato nel 1999 tra Dap e Comune di Roma. Nonostante ciò la biblioteca di Casal del Marmo venne riammodernata e poi con la nascita di “FuoriRiga” è diventata un vero e proprio luogo di cultura per i giovani ristretti”. A oggi questo spazio, del resto, conta oltre settemila volumi: è una biblioteca nel vero senso della parola. “Tutti gli Ipm - aggiunge Columbano -, in base a quanto prescrivono le norme dell’Ordinamento penitenziario, quello della riforma del 1975, che si riferisce alle carceri per adulti ma viene applicato anche a quelle minorili nell’attesa che, per esse, si rediga una legge ad hoc, devono avere uno spazio bibliotecario. Naturalmente una stanza dove siano accatastati volumi che non interessano a nessuno svaluta il senso della biblioteca che, al contrario, esiste quando incontra quantitativamente e qualitativamente i desiderata dei suoi fruitori”. La biblioteca dell’istituto penale minorile di Casal del Marmo, pertanto, nel corso del tempo s’è letteralmente trasformata. “Abbiamo riammodernato - spiega ancora la presidente dell’associazione - il suo patrimonio librario, adeguandolo ai lettori, ai loro gusti, alla possibilità che il recluso s’avvicini realmente allo scaffale e che, quell’oggetto misterioso che è il libro, venga preso in mano, iniziato a sfogliare”. Missione - si può dire - compiuta. I ristretti, la cui età è compresa tra i quattordici e i venticinque anni, attualmente possono prendere in prestito libri che a loro direttamente si rivolgono: libri, cioè, per teenager, per giovani adulti. “Se ci rendiamo conto che molti dei ragazzi hanno il desiderio di prendere la patente, forniamo loro i manuali per studiare la teoria della guida; se qualcun altro ha una passione precisa, e non abbiamo a disposizione il libro in biblioteca, facciamo di tutto per procurarlo, prima di tutto scrivendo un post sui social che stimoli le donazioni da parte di chi ci segue e sostiene. Poi ci poggiamo pure su un’altra associazione amica, “Bookcycle”, che si basa sulla circolazione dei libri e della cultura anche in posti come le carceri; se proprio non riusciamo a rintracciare il libro, cerchiamo di acquistarlo grazie sempre ai progetti finanziati dall’8x1000 della Tavola Valdese”, dichiara Columbano. “In tutti questi anni - aggiunge - ho conosciuto ragazzi che non avevano continuato gli studi superiori e che, contro qualsiasi aspettativa, hanno letto libri profondissimi. C’è anche chi, pur non sapendo né leggere né scrivere, si avvicina comunque alla biblioteca, prende un volume, e lo sfoglia: è, già, questa, una cosa importantissima”. Tra l’altro, sempre per mezzo dell’8x1000 della Tavola Valdese, alcuni dei giovani reclusi hanno ottenuto delle borse lavoro: sono loro i gestori della biblioteca all’interno del carcere minorile di Casal del Marmo. “Hanno dapprima - dice la presidente dell’associazione di volontariato - seguito dei corsi di biblioteconomia e catalogazione, ottenendo anche dei permessi premio per mettere a frutto nelle varie biblioteche romane con cui collaboriamo le nozioni e gli strumenti acquisiti. Ci rendiamo, inoltre, sempre più conto, di quanto i ragazzi “gestori”, svolgendo tale attività all’interno della biblioteca, imparino il valore delle cose comuni e condivise; valore che è doppio, perché implica il concetto di rispetto, del prendersi cura”. Una storia, pertanto, bella: di riscatto, di inclusione, integrazione. Una storia basata sul principio sacrosanto secondo il quale la cultura debba essere accessibile a tutti. “I nostri progetti sono complessi - sottolinea Columbano -. Noi entriamo nell’Ipm perché crediamo in ciò che facciamo, non è un gioco; abbiamo costruito una biblioteca per far svegliare le coscienze e per abbattere le disuguaglianze, non per far passare il tempo o “contenere” i ragazzi: in questo caso avremmo soltanto sminuito il valore dei libri e della lettura. Se è facile che uno studente universitario trovi un libro nella biblioteca dell’università che frequenta, non lo è affatto per un ragazzo che vive in un quartiere periferico o, peggio, in un carcere: noi, questa stortura, vogliamo cancellarla per dare a tutti la possibilità di guardare in modo critico il mondo”. Il riscontro, come può facilmente comprendersi, è assai positivo all’interno dell’istituto. “Come fa ogni biblioteca, sulla base di precisi parametri nazionali, stiliamo - dice la presidente - dei report per capire quello che è il numero delle richieste e dei prestiti, ma pure per renderci conto dei desiderata dei nostri lettori. Solo così la biblioteca non è un mero contenitore, una mera stanza, ma, al contrario, un luogo ricco di contenuti. Purtroppo nella nostra società servizi essenziali come questi dovrebbero essere gestiti dagli enti pubblici e non demandati esclusivamente all’associazionismo o ai privati: la cultura non può essere rimessa alla benevolenza degli altri, dei comuni cittadini”. A ogni modo, all’interno della biblioteca dell’Ipm di Casal del Marmo, “FuoriRiga” tiene anche corsi di scrittura creativa, cineforum, restauro del libro, attività di lettura dei giornali e di arte-terapia. “Quello che facciamo in questa realtà è tanto, invitiamo anche scrittori, registi, poeti (i ragazzi d’altronde amano scrivere poesie da inviare a chi hanno lasciato fuori) con lo scopo, non di riempire di contenuti nozionistici i giovani reclusi, ma, come si accennava, di dargli la possibilità di farsi un’idea propria, personale, della realtà”. Ulteriore battaglia intrapresa da “FuoriRiga” è quella di dotare anche la sezione femminile dell’istituto penale minorile di una sorta di succursale della biblioteca. “La biblioteca di cui parliamo - dice la presidente - è accessibile soltanto ai ragazzi che, naturalmente, sono separati dalle donne. Per cui, nel tempo, abbiamo dato vita a questa “seconda sede”, in modo che anche le recluse potessero e possano godere della lettura: sfortunatamente questa è un’altra stortura che ruota attorno all’aspetto meramente economico del sistema tutto. Un “sistema carcere” che, oltre che sulle misure alternative, potrebbe puntare anche e principalmente su quelle di prevenzione: abbattere le disuguaglianze che, di certo, non saranno alla base di tutta la criminalità, ma ne rappresentano un fattore determinante”. Un libro, insomma, può colmare le differenze, i vuoti delle vite di questi ragazzi? Probabilmente, nel suo piccolo, sì. Può, almeno, dare la possibilità a chi legge - e che mai avrebbe pensato di poterlo fare - di riconoscersi, di scoprire un sé diverso dal passato. Senza stereotipi, senza pregiudizi. “Le pene e il carcere”, di Stefano Anastasìa. Alle origini della carcerazione di massa garantedetenutilazio.it, 5 ottobre 2022 Nel libro “Le pene e il carcere” di Anastasìa, recensito su Il Foglio, gli eventi che hanno portato negli ultimi decenni all’esplosione del ricorso alla privazione della libertà personale. È da alcuni giorni nelle librerie “Le pene e il carcere”, di Stefano Anastasìa, edito da Mondadori, per la collana “Lessico democratico”. A darne notizia ai lettori del quotidiano Il Foglio è Francesco d’Errico, presidente di Extrema ratio, associazione culturale no-profit di Bologna, “per un diritto penale liberale, costituzionale e quindi minimo”. “Nella seconda metà del ‘900 - scrive D’Errico sul Foglio di sabato 1 ottobre - gli studiosi scommettevano sulla decarcerizzazione e auspicavano una significativa umanizzazione dell’esecuzione penale. Le statistiche sugli odierni sistemi penitenziari e l’analisi della loro realtà materiale, tuttavia, conducono oggi a una conclusione opposta, quella della diffusa e tragicamente attuale mass incarceration. Le ragioni ed i fattori che hanno prodotto l’esplosione del ricorso alla privazione della libertà personale sono molteplici e, proprio per questo, vanno letti nella loro complessità, non limitandosi a una lettura giuridico-formale, che pur rappresenta un imprescindibile punto di partenza, ma ampliando la prospettiva d’indagine grazie a un approccio storico e sociologico. Questo è il metodo sposato da Stefano Anastasìa (ricercatore di filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia, nonché Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio e colonna portante dell’associazione Antigone) nel suo ‘Le pene e il carcere’ (Mondadori, 200 pp, 15 €), saggio in cui, tra le altre cose, l’autore riflette sul fenomeno dell’internamento di massa”. “Per quali ragioni, dunque - prosegue D’Errico sul Foglio - dai primi anni 90, si è assistito a un aumento esponenziale delle persone recluse nel nostro paese? Quali passaggi ci hanno condotto alla quadruplicazione della domanda di controllo e di sanzione penale nell’ultimo trentennio? Due momenti chiave, due eventi fondamentali, uno di ‘importazione’, l’altro prettamente nostrano: le politiche della zero tolerance sbarcata da Oltreoceano e il portato nefasto di Mani pulite. Da un lato, infatti, l’ondata securitaria ha prodotto ‘scelte politico-normative ispirate al principio della massima severità penale’ che, accompagnate ‘all’aggravamento delle pene di reati già esistenti’ e ‘all’ampliamento degli illeciti penali produttrici di incarcerazione’, hanno rappresentato ‘un pilastro della crescita della popolazione detenuta’. Dall’altro, non a caso, Tangentopoli ha mutato profondamente la percezione comune degli istituti di clemenza: da ‘strumenti ordinari di governo del sistema penitenziario’, utilizzati con continuità dal legislatore e fin li assolutamente tollerati dal corpo elettorale, amnistia e indulto si sono trasformati in misure inaccettabili. D’altronde, è in quella fase che si sono affermate le ‘categorie della colpa e della pena come catalizzatrici delle domande di cambiamento a livello di massa’”. “E se il diritto penale è diventato lo strumento per combattere ogni male sociale - conclude D’Errico -, e il carcere la sua lugubre valvola di sfogo, solo un rigoroso rispetto dei principi garantisti può svolgere una ‘funzione di ecologia della politica’, per liberarla dal ‘fardello dell’individuazione della responsabilità penale per qualsivoglia insoddisfazione sociale diffusa’”. Il sole anche di notte osservatoreromano.va, 5 ottobre 2022 L’incontro tra Dostoevskij e il giovane Alej nella prigione siberiana di Omsk. Uscito a puntate tra il 1861 e il 1862 sulla rivista “Vremja”, le Memorie da una casa di morti di Dostoevskij si presentano come la descrizione romanzata dei quattro anni di lavori forzati, trascorsi in Siberia dallo scrittore (1849-1854) in seguito alla condanna per l’affaire Petraševskij (il sospetto era quello di una congiura antizarista). La critica contemporanea fece presto ad accostare le cupe atmosfere della prigione a quelle dell’Inferno dantesco (Herzen). Solo Turgenev, nel ringraziare l’autore per l’invio di alcune puntate delle Memorie, ci tenne a sottolineare “la fine e sicura psicologia” dei personaggi che vi erano rappresentati (lettera del 7 gennaio 1862; in Letopis’ žizni i tvor?estva F.M.D., t. 1, p. 329; tutte le traduzioni sono di chi scrive). Nelle Memorie c’è il degrado, l’orrore, tutto un campionario umano degno delle Malebolge, con la differenza non da poco, come notava Meljukov, che “qui è tutto vero” (Letopis’, cit., t. 1, p. 366). Eppure fin dal primo mese di permanenza, già dalle impressioni iniziali, Dostoevskij non manca di segnalare anche quello che di buono vi aveva trovato e che probabilmente gli aveva permesso di sopravvivere a quegli anni durissimi: “Credo sia possibile immaginare - racconta lo scrittore - che abili ladri ci fossero là. A me un carcerato, un uomo che mi era sinceramente affezionato (lo dico senza alcuna forzatura), rubò la Bibbia, l’unico libro che era permesso avere in galera; egli stesso me lo confessò quello stesso giorno, non per pentimento, ma per compassione verso di me, perché a lungo l’avevo cercata” (PSS 4,18). Il lato umano (quello che notava Turgenev) è sempre anche quello che Dostoevskij va cercando ed è anche ciò che lo salva dallo squallore. Nel suo ultimo romanzo, I fratelli Karamazov, avrebbe fatto dire allo starec Zosima, rivolto ad Aleša, queste parole lapidarie: “Eccoti il mio testamento: nel dolore cerca la felicità” (PSS 14,72). Una frase in cui è concentrata tutta l’esperienza di vita di Dostoevskij, una sapienza maturata negli anni, nelle difficoltà, nel dolore, una educazione lenta che gli aveva insegnato a intravedere nel buio un raggio di luce, nella notte l’avvisaglia dell’alba. Da questi chiarori sono continuamente attraversate Le memorie da una casa di morti. Esse sono una testimonianza della grazia che viene e che salva. Non della grazia concessa dalla legge, di cui egli non avrebbe goduto neanche un po’, ma della grazia sovrannaturale che insegna a vedere il sole anche di notte. Un’altra prova di ciò Dostoevskij la offre nel tratteggiare la figura del giovane Alej. Come ci fosse capitato questo ragazzo, un tartaro del Daghestan, insieme a due suoi fratelli più grandi nella prigione siberiana di Omsk, non era chiaro neppure al narratore. Il più giovane aveva risposto di sì all’appello dei congiunti ad andare con loro “a un certa spedizione”, senza neppure chiedere di cosa si trattasse: “Il rispetto verso i maggiori nelle famiglie dei montanari è così grande che egli non solo non ardì, ma neanche pensò di chiedere dove fossero diretti” (PSS 4,51). La verità era che stavano andando a fare una rapina, in cui restò ucciso, insieme a tutta la sua scorta, anche il depredato, un ricco mercante armeno. Tuttavia i colpevoli furono presto scoperti e affidati alla giustizia penale e tra di loro c’era anche l’ignaro Alej che senza sapere come si era trovato nel reclusorio insieme ad altri due fratelli “i quali lo amavano molto e più di un amore paterno che fraterno” (ib.). Il carattere del giovane aveva qualcosa di straordinario in quella prigione dove c’erano bruttissimi ceffi e criminali di ogni sorta. Ricorda infatti lo scrittore che sarebbe “difficile immaginarsi come questo ragazzo per tutto il tempo dei lavori forzati avesse potuto serbare in sé una tale dolcezza di cuore, nutrire una tale severa onestà, una tale cordialità e simpatia, senza abbrutirsi e depravarsi” (PSS 4,52). Tutta la figura di Alej è costruita in modo tale da rappresentare un modello di vita anche per chi teneva quel diario. Si tratta di una consapevolezza espressa chiaramente in un passaggio delle Memorie: “Mi si mostrò come un giovane di un’intelligenza non comune, estremamente modesto e delicato, e anche già molto giudizioso. Anzi dirò in anticipo: io considero Alej come un essere assolutamente non comune e ricordo l’incontro con lui come uno dei migliori incontri della mia vita” (ib.). È inutile dire che molti dei tratti morali del giovane Alej è possibile ritrovarli più tardi nel profilo umano del principe Myškin, il protagonista de L’idiota (1869). Tuttavia a rendere ancora più verità a questa figura è il ricordo che Dostoevskij ne conserva in una lettera spedita al fratello Michail il 22 febbraio 1854, poco prima di lasciare definitivamente Omsk alla volta di Semipalatinsk dove lo attendevano altri cinque anni di castigo come soldato semplice al servizio dell’esercito dello zar. In questa missiva egli, oltre a ricordarne le doti, riprende anche un altro dettaglio contenuto nelle Memorie e cioè che gli aveva insegnato “a leggere e a scrivere” (PSS 28/1,172). Il libro su cui apprende a leggere è proprio quel Vangelo della Siberia, ricevuto in dono a Tobol’sk dalle mogli dei decabristi, che lo avrebbe accompagnato fino alle sue ultime ore di vita. “Cominciammo - racconta lo scrittore - già la sera seguente. Io avevo una traduzione russa del Nuovo testamento, un libro non proibito in carcere. Senza abbecedario, su un unico libro, Alej in alcune settimane imparò a leggere ottimamente. Dopo circa tre mesi già capiva completamente la lingua letteraria. Studiava con fervore, con passione” (PSS 4,53). In questo passaggio oltre a notare il riaffiorare del testo sacro, cosa che sarà una costante nell’opera dostoevskijana, è anche il caso di sottolineare l’alternativa che egli propone al modo con cui veniva intesa all’epoca la correzione penale. Poco prima infatti aveva detto che “le carceri e il sistema dei lavori forzati non correggono il delinquente; essi lo puniscono soltanto”. E anche i risultati che si ottengono sono assai discutibili. Una carcerazione concepita così “succhia all’uomo la linfa vitale, gli fiacca l’anima, la impaurisce per poi presentare una mummia inaridita moralmente, un mezzo pazzo, come campione di correzione e di pentimento” (PSS 4,15). Ecco nel 1850 il “forzato” Dostoevskij pensava a un’alternativa “pedagogica” al tradizionale sistema penale, insegnando a leggere al detenuto Alej, e giocando così d’anticipo anche rispetto ai bisogni di una società in cui l’analfabetismo era un problema molto serio. Non a caso non appena tornato a San Pietroburgo nel 1860 pubblicherà un saggio, poco noto al grande pubblico, intitolato Cultura del libro e alfabetizzazione [Knižnost’ i gramotnost’; PSS 19,5-57], il cui tema sarà quello di sviluppare la diffusione del libro attraverso la scoperta del piacere della lettura. Proprio come accade ad Alej quando in carcere legge il Vangelo della Siberia. Spazi di libertà osservatoreromano.va, 5 ottobre 2022 Per oltrepassare i confini che separano. In dialogo con Amir Issaa che usa il rap per educare i giovani detenuti. Una Shangai di orticelli, strade, reti metalliche, villaggetti di tuguri, spiazzi, cantieri, gruppi di palazzoni, marane”. Così, in “Ragazzi di vita” (1955), Pier Paolo Pasolini descriveva Tor Pignattara, una delle periferie storiche di Roma, che dagli anni Novanta ha visto cambiare radicalmente la sua geografia umana, trasformandosi da borgata rurale della prima migrazione italiana in un quartiere con una forte presenza straniera. Parte proprio da queste strade brulicanti di vita, da questo concentrato multiculturale, la storia del rapper e scrittore italo-egiziano Amir Issaa, il quale del connubio tra parola e musica ha fatto la sua cifra distintiva e la sua missione. La stessa “missione di educazione, di civiltà nei confronti dell’Italia”, della quale scriveva un giovane Pasolini nella lettera a un amico: era il 1943 quando lo scrittore e poeta già svelava il desiderio d’impegno civile e la passione pedagogica che ritroviamo anche in Amir, volto di una nuova Italia che sta cambiando rapidamente. Passando dai graffiti alla street art, dallo hip hop al rap e dalla scrittura ai laboratori educativi musicali nelle scuole e nei penitenziari minorili, Amir - compositore anche della colonna sonora del pluripremiato film Scialla! - ha messo la propria creatività al servizio dei più giovani, in particolare di quanti devono scontare una pena in una struttura detentiva. Parlando con il nostro giornale va dritto al sodo, definendosi “un rapper, una persona che usa le parole per esprimersi, uno scrittore”. In lui memoria del passato, consapevolezza del presente e aspirazioni future s’intrecciano in cerca di un equilibrio, ricercato sin da piccolo, anche tra più mondi, che diventa armonia in versi e in musica. Finito in carcere il padre, a tre anni rimase solo con la madre, mentre nella sua vita in bilico il rap diventava l’àncora di salvezza. “Da bambino i problemi familiari mi avevano portato a chiudermi. Non era facile accettare che mio padre fosse detenuto”. Poi è arrivato il rap. “Ho capito da subito che poteva essere un mezzo per esprimermi e da lì ho iniziato a scrivere, a sprigionare le emozioni”. Con la catarsi il rap di Amir si è fatto poesia e la parola poetica un’esperienza culturale condivisa. Con gli anni ha iniziato a usare questo genere musicale come strumento di rieducazione, pubblicando “Educazione rap” (Add editore, 2021), per offrire occasioni di riscatto ai giovani detenuti. L’invito a oltrepassare i confini che separano e isolano è arrivato per la prima volta dalla comunità di Sant’Egidio, con cui nel 2010 ha realizzato un laboratorio nel penitenziario minorile di Casal del Marmo a Roma. “Il rap è associato, spesso in maniera superficiale, alla delinquenza, alla vita di strada, alla periferia; io invece negli ultimi anni ho portato il rap anche in altri luoghi. Ho collaborato con tante realtà cattoliche, tra cui Caritas e Centro Astalli, facendo alfabetizzazione per stranieri proprio con il rap. Se non ci fossero queste organizzazioni che si occupano dei più fragili, delle persone lasciate indietro, tante attività non si farebbero. Se non ci fosse la Caritas a fare un pranzo di Natale a Rebibbia, per i detenuti sarebbe un giorno come un altro”. L’esigenza è sempre la stessa: “Portare uno strumento, il rap, che mi ha aiutato tanto, a dei ragazzi che stanno vivendo, come me in passato, un momento difficile. Esprimersi, plasmare la rabbia e farla diventare qualcosa di positivo per sé e per gli altri è davvero possibile”. La creatività serve anche a questo. Amir definisce il rap “una musica rudimentale”, che richiede semplicemente una fonte audio, carta e penna. “Non servono una band o strumenti musicali. Basta avere qualcosa da raccontare”. In alcune strutture carcerarie - spiega con rammarico - ti danno il minimo e il minimo è una stanza con i ragazzi. Ma non importa, perché il rap serve innanzitutto a catturare la loro attenzione e a farli lavorare sulle emozioni, per esorcizzare le paure, in modo da riuscire a vivere spazi di “libertà”. “La mia filosofia è aprire le celle e fare entrare chi vuole entrare in questo spazio”. Ci sono anche quelli che decidono di non fare niente. Ciò che conta però è trascorrere un po’ di tempo assieme, da amici, da fratelli. Proprio la fratellanza, “che nasce tra quelle persone, che fuori da quelle mura sarebbero invece distanti anche per status sociale, mi ha molto colpito”. Amir ci tiene a specificare che il suo non è un corso né una scuola di rap, e addirittura fatica a chiamarlo laboratorio. “A loro dico “ragazzi siete arrabbiati, vi capisco, pure io lo sono stato. Proviamo insieme a fare qualcosa, a scrivere”. Per me è importante condividere la mia esperienza: porto la mia testimonianza da figlio di un detenuto e di un immigrato. Secondo me questo fa la differenza sia per i ragazzi sia per gli adulti detenuti, che in me vedono il figlio che non ha seguito il loro esempio negativo. La mia storia penso sia per loro fonte di speranza”. “Dietro le sbarre” ci è finito non per aver commesso un crimine, bensì perché lì “ho portato il mio libro, ho portato parole”, sottolinea Amir. Il suo primo libro, Vivo per questo (Chiarelettere, 2017), è stato presentato proprio alla biblioteca di Regina Coeli, dove per tanti anni andava a trovare suo padre. “Questa è stata la mia esperienza più significativa”. Però, confida, non si tratta di fare semplicemente il volontario. “La prigione è un luogo che mi appartiene, in quanto simbolicamente vado a trovare anche gli amici di mio padre, che non c’è più”. L’impatto emotivo è dunque sempre molto forte, perché ogni volta si riapre una ferita, ma allo stesso tempo - spiega - è una necessità, una terapia e un’esperienza formativa. “Malgrado i ragazzi detenuti siano vittime di pregiudizi, hanno tante cose da dire, ma devono trovare il modo per raccontarle. Hanno voglia di riscatto. Il rap e la scrittura in questo caso diventano un “media”. Tra l’altro per loro è un genere divertente, che già conoscono. Spesso ammirano i rapper, ma non si sentono all’altezza di provare. Quindi uso il loro linguaggio. Secondo me questa è la forza. Io, ad esempio, ho iniziato prima con il rap e dopo sono arrivato a scrivere liberamente, senza una base musicale, facendo narrativa”. Per alcuni adolescenti di origine straniera si pone però anche il problema della lingua, perché sono arrivati in Italia da poco. Ma Amir è riuscito a coinvolgerli, facendoli rappare nelle loro lingue. “Mi è capitato anche che qualcuno non sapesse scrivere; in quel caso l’ho fatto ballare all’interno del gruppo. Bisogna comunque dare a tutti la possibilità di esprimersi, farli sentire importanti. Ricordo un ragazzo si vergognava di saper parlare ancora solo l’arabo, lingua nella quale l’ho incentivato a raccontarsi. A quel punto non ha scritto un testo, ma ben dieci in soli due giorni. Ho capito così che aveva solo bisogno di trovare il modo per far fluire le emozioni. Tuttavia “mi è capitato di leggere testi di ragazzi che sono pessimisti, che vedono il buio quando stanno là dentro. Sono arrabbiati, non vedono una via d’uscita”. In carcere si viene azzerati e si è “quasi tutti” uguali. La speranza di avere una seconda possibilità dipende dal sostegno familiare: il divario è fra chi riceve visite e affetto da parte di parenti e amici e chi, non avendo nessuno, avverte l’abbandono, come i tanti minori non accompagnati, partiti dall’altra sponda del Mediterraneo. In questi giorni Amir ha visitato insieme alla Fondazione Treccani Cultura il penitenziario minorile di Airola (Benevento), con il progetto Ti Leggo. Le frontiere della lettura negli istituti penitenziari minorili, che unisce rap, musica e lettura. L’intento è avvicinare i giovani detenuti alle arti e alla cultura. “I ragazzi hanno letto miei libri, ascoltato i miei brani e scritto dei testi che sono la base di un percorso che facciamo insieme”. In questi anni di attività nelle carceri Amir ha incontrato tanti ragazzi arrivati in Italia con i barconi. Ad Airola ha conosciuto diversi adolescenti di origine nord-africana, che si sono trovati a delinquere, semplicemente perché nessuno li ha accolti. “Io non mi sento di giudicare nessuno, bensì provo a mettermi nei loro panni”. Da queste esperienze questo artista poliedrico riferisce di aver ricevuto comunque tanto. “Ho imparato soprattutto ad apprezzare la libertà e non è ovvio. Quando esco dai cancelli, mi sento una persona libera di scegliere. Dentro non è così, ti privano di tutto anche degli affetti. È un tempo sospeso, è una punizione, mentre dovremmo interrogarci di più, se realmente il carcere abbia una funzione riabilitativa. Io non ho la risposta, però me lo chiedo. La riabilitazione dovrebbe passare dalla cultura. Bisognerebbe uscire di prigione come persone migliori, non più arrabbiati. Io sono testimone che invece non sempre è così”. Amir sa bene che le parole possono essere armi, ma si può essere anche “armati di parole” soprattutto quando “l’odio chiama odio”, come recita il brano Cinque del mattino, in cui racconta per la prima volta l’esperienza del carcere vissuta dal padre. E quando la rabbia esplode dentro solo le parole sono capaci di vergare quel tanto temuto e precluso foglio bianco, che allude a una vita tutta da scrivere. Legge truffa, Parlamento illegittimo di Franco Corleone Il Manifesto, 5 ottobre 2022 La democrazia italiana è malata, forse in maniera irrecuperabile e gli sforzi per farla rivivere, se non indirizzati correttamente, potrebbero risolversi in un puro esercizio di accanimento terapeutico. Le elezioni del 25 settembre hanno dato un colpo definitivo alla credibilità delle Istituzioni: il calo di nove punti della partecipazione è un segno del distacco crescente dalla politica di una quota imponente di cittadini, consapevoli di non contare nelle scelte importanti per il paese. La decisione della Corte Costituzionale di non ammettere i referendum sulla cannabis, l’eutanasia e la responsabilità civile dei magistrati ha aggravato la sfiducia. Con grande probabilità, alla consultazione del 12 giugno scorso, una valanga di sì contro per la criminalizzazione delle droghe leggere, per l’eliminazione di una norma paternalista del Codice Rocco e per la cancellazione di un privilegio dei togati avrebbe reso protagonista la società civile e in particolare i giovani, contribuendo a una diversa agenda politica per il parlamento: con ogni probabilità, lo ius scholae e la legge sul fine vita sarebbero divenute una priorità, assieme al diritto alla affettività per le persone detenute. E’ vero che la storia non si fa con i se, ma Giuliano Amato, impedendo il voto popolare, si è assunto una responsabilità storica che si è riverberata fino alla crisi del governo Draghi. Torniamo al 25 settembre. Si è avuta la conferma degli effetti di una legge elettorale criminale per cui la coalizione di destra vincente (con 300.000 voti in meno del 2018 e con il 26% dei voti sul totale degli aventi diritto) si è aggiudicata 235 deputati su 400 e 112 senatori su 200. Felice Besostri, avvocato e già senatore (protagonista della battaglia vincente sulla incostituzionalità del Porcellum e dell’Italicum), su L’Avvenire del lavoratori (29 settembre) ha pubblicato una Lettera aperta al Popolo italiano: in attesa che qualcuno chieda scusa per l’approvazione del Rosatellum, la legge con cui si è votato, Besostri fa notare che con le leggi incostituzionali la destra avrebbe ottenuto alla camera 220 seggi e non 235 e commenta: “Non potevo immaginare che la terza legge sarebbe stata peggiore delle due annullate”. Da notare: il Rosatellum fu approvato con otto voti di fiducia (3 alla Camera e 5 al Senato) concessi dai Presidenti delle Camere in violazione dell’art. 72.4 della Costituzione. Lo stesso Besostri promette che lotterà contro una legge che limita i diritti costituzionali con il voto congiunto obbligatorio, le candidature multiple, la discriminazione delle minoranze linguistiche. Siamo di fronte a una questione di capitale importanza e stupisce che il Presidente della Repubblica sia stato spettatore passivo. I commentatori imputano a Letta errori più o meno fondati, ma l’errore imperdonabile (di Zingaretti) è stato di consentire il demagogico “taglio” dei parlamentari senza contestualmente cambiare almeno la legge elettorale. Doveva essere allora la madre di tutte le battaglie, e perfino oggi non è all’ordine del giorno, tantomeno si riconosce l’errore. A confermare la gravità del quadro è la clamorosa difficoltà nei conteggi, che rende incerta l’attribuzione dei seggi: lungi dall’essere un semplice fatto tecnico, è da addebitarsi alla legge stessa, cervellotica e non trasparente. Nel seminario sulla crisi della democrazia (promosso una settimana prima del voto dalla Società della Ragione, insieme al CRS e Associazione Luca Coscioni), fra le priorità di impegno politico già erano emersi il rilancio dell’istituto referendario e la riforma della legge elettorale, per riannodare il legame fra i cittadini e le cittadine e le istituzioni democratiche https://www.societadellaragione.it/primo-piano/krisis-i-video-del-seminario/. L’esito delle elezioni ha confermato quanto su tale crisi sia importante ancora ragionare e quanto sia urgente mobilitarsi. “Madre costituente”? Le proposte di Meloni violano la Carta di Andrea Pugiotto Il Riformista, 5 ottobre 2022 La Costituzione non è intoccabile, i suoi principi supremi sì. Le revisioni depositate da FdI nella scorsa legislatura sulla funzione della pena (art. 27) e sul rapporto tra ordinamento italiano e Ue sono anti-costituzionali. Come lo sparo per i centometristi, così il trionfo elettorale ha fatto scattare in Fratelli d’Italia la vocazione al ruolo di nuovi Costituenti. Non subito, perché le crisi in corso impongono altre priorità. Eppure, tutto ciò che potrebbe accadere accadrà, perché le riforme costituzionali hanno un’irresistibile carica simbolica, disarticolano le opposizioni, assicurano gli equilibri di governo (ad esempio, con il tandem presidenzialismo-autonomia differenziata). È solo questione di tempo. Sperando non sia retrotopia, che cosa hanno in mente Meloni e i suoi colonnelli? Invece di almanaccare attorno a quanto detto sulla Costituzione âgée, più utile è guardare ai loro progetti di legge costituzionale: è il giusto modo per farsi un’idea esatta di cosa e come i Fratelli d’Italia intendano modificare la Costituzione. Verba volant scripta manent: diventa così possibile testare l’attendibilità delle rassicuranti dichiarazioni secondo cui “nessuno vuole stravolgere la Costituzione, non intendiamo toccare i valori fondanti contenuti nella sua prima parte” (on. Lollobrigida, la Repubblica, 28 settembre). 2. Un’onda d’urto: è questa l’impressione che si ricava dalle diciannove revisioni costituzionali a firma Meloni (e altri) depositate nella scorsa legislatura: nove investono i principi fondamentali e i diritti e doveri dei cittadini; nove riguardano l’ordinamento della Repubblica; una - su cui tornerò - attiene al metodo da seguire per cambiare la Costituzione. Le prime mirano a ridisegnare le coordinate costituzionali del diritto punitivo, agendo sulla responsabilità penale (AC 116), sul finalismo rieducativo della pena (AC 3154), introducendo il diritto alla sicurezza (AC 2954) e la tutela delle vittime dei reati (AC 117). In chiave simbolica e identitaria riconoscono in Costituzione, accanto al tricolore, l’inno nazionale e l’italiano come lingua ufficiale (AC 677). Inseriscono nel suo testo la tutela dell’ambiente (AC 2150), l’accesso alla pratica sportiva (AC 731), “il diritto alla felicità” come “limite al potere dello Stato di guidare i nostri destini” (AC 2321). Tra le seconde, alcune ridisegnano la forma di governo con l’elezione diretta del Capo dello Stato (AC 716), l’abolizione dei senatori a vita (AC 1914), la modifica dei requisiti d’età per l’elezione al Quirinale e alle Camere (AC 295 e 1873), l’introduzione del giuramento per i parlamentari (AC 2304), l’obbligo di lealtà elettorale nelle alleanze di Governo e il mandato imperativo (AC 2366). Altre incidono sulla forma di Stato, riconoscendo lo statuto peculiare di Roma Capitale (AC 3188), introducendo un limite costituzionale alla pressione fiscale complessiva (AC 299) e rovesciando i rapporti tra ordinamento interno e UE in nome del principio di sovranità nazionale (AC 291 e 298). Dunque, sono revisioni che riguardano tutta la Costituzione. Dire, oggi, che s’intende modificarne solo la parte organizzativa è mero camouflage costituzionale. Inevitabilmente, perché la Costituzione non si lascia spaccare a metà con un colpo d’ascia. Lo sanno anche i Fratelli d’Italia e lo scrivono pure: a causa della “profonda connessione” tra le due parti, “ogni modifica dell’assetto istituzionale [...] finisce, inevitabilmente e funzionalmente, per incidere sulla forma e sulla sostanza dei diritti sanciti nella parte I” (AC 3541). 3. Ciò detto, è legittima tale smania riformatrice? Intendiamoci: “modificare la Costituzione non è un attentato alla Costituzione” (Sabino Cassese, Corriere della Sera, 29 settembre). È previsto nel suo art. 138. Ed è accaduto spesso: sono una trentina le leggi di revisione e le altre leggi costituzionali approvate in deroga o ad integrazione della Carta fondamentale. Ed è proprio dell’ultima legislatura il record di modifiche costituzionali deliberate: riduzione dei parlamentari (n. 1 del 2020), voto ai diciottenni per il Senato (n. 1 del 2021), tutela dell’ambiente (n. 1 del 2022), riconoscimento dell’insularità e superamento dei relativi svantaggi (AC 3353-B, approvata a maggioranza assoluta il 28 luglio scorso, a camere sciolte). Il tormentone della Costituzione intoccabile perché “la più bella del mondo”, oltre che falso, è pericoloso: come una sveglia dalle lancette ferme, indurrebbe a metterla da parte e - prima o poi - a sostituirla. La rigidità della Costituzione, infatti, è una garanzia innanzitutto procedurale: non ne assicura l’intangibilità, semmai un prudente aggiornamento attraverso un iter legislativo aggravato, finalizzato al più ampio consenso parlamentare possibile. Non è superfluo ribadirne la ratio: evitare che i diritti e le libertà dei vinti (e di tutti i cittadini) siano alla mercè dei vincitori. Detto meno brutalmente: sottrarre la Costituzione alla maggioranza parlamentare del momento, perché i suoi princìpi e le sue regole appartengono a tutti e non sono nella disponibilità di nessuno in particolare. 4. Fin qui, il fusibile dell’art. 138 ha funzionato. Preponderanti sono state le leggi costituzionali approvate a maggioranza qualificata (i due terzi di Camera e Senato). Delle quattordici approvate invece a maggioranza assoluta, solo quattro sono state oggetto di referendum, caduto come una ghigliottina su due di esse: la c.d. devolution voluta dal centrodestra (25-26 giugno 2006) e la riforma Renzi-Boschi (4 dicembre 2016). Oggi, però, quel fusibile potrebbe saltare: “la destra può farcela da sola, avendo superato la maggioranza assoluta dei componenti delle due camere. E se qualche voltagabbana o utile sciocco si rendesse disponibile, potrebbe persino prevenire il referendum ex art. 138” (Massimo Villone, Il manifesto, 29 settembre). Oppure - come ha fatto irresponsabilmente in passato il centrosinistra - potrebbe usarlo in chiave plebiscitaria, trasformandolo in una ola capace di raccogliere curve e tribune di tifosi, a prescindere dal merito del quesito referendario. Sul punto, le intenzioni dichiarate sono concilianti: auspicano un confronto con gli altri partiti, “evitando fino alla fine i voti a maggioranza” (on. La Russa, Il Sole 24 Ore, 28 settembre). E così dovrà essere, e non per generosa concessione ma per rispetto al principio di realtà: maggioranza in Parlamento, le destre rappresentano percentualmente la minoranza del corpo elettorale. A fortiori se si considera l’affluenza alle urne (pari al 63,9%), la più bassa di sempre per una consultazione politica generale segnata da quasi 18 milioni di elettori non votanti. Dati questi dati, una revisione costituzionale unilaterale rappresenterebbe un colpo di mano: legittimo de iure, eversivo de facto. 5. Decisivo, per capire le reali intenzioni delle destre, sarà il metodo prescelto per le revisioni costituzionali che verranno. Lo strumento indicato da Fratelli d’Italia è l’”istituzione di un’Assemblea per la riforma della parte II della Costituzione” (AC 3541, presentato il 28 marzo 2022): cento componenti, eletta con legge d’impianto proporzionale, preclusa a chi è già parlamentare o membro di assemblea o giunta politica (regionale, provinciale, comunale), in carica per un anno, non prorogabile, chiamata ad approvare a maggioranza qualificata un’unica legge di revisione complessiva “in deroga alle procedure previste dall’art. 138 della Costituzione”. L’implicito sovrasta l’esplicito: la generica litote di “assemblea” tace la sua natura costituente. Che sia tale, però, lo rivela la sua finalità: rappresentare simbolicamente “il momento in assoluto più alto immaginabile” dove “istituire un consesso di puro spirito costituente”. Costituente è pure il compito assegnatole: prefigurare l’organizzazione della Repubblica e decidere “in quale modo tale nuovo assetto possa informare, in senso e contesto, i diritti che, pur formalmente intoccati, appare chiaro assumeranno una differente fisionomia nella rinnovata architettura istituzionale”. Testuale. Così la proposta tracima in qualcosa che non è più una revisione costituzionale, la quale è semmai esercizio di potere costituito: vincolato, cioè, a regole e principi che ne limitano mezzi e fini. Ci sono cose che non si possono fare. Ecco perché se ne cela il nome proprio, come in questo caso. 6. Qui il tema si fa incandescente. La Costituzione, infatti, non è un esoscheletro senza corpo. Ha un suo corredo genetico fatto di “princìpi supremi” che - come insegna la Consulta - “non possono essere sovvertiti o modificati nel loro contenuto essenziale neppure da leggi di revisione costituzionale o da altre leggi costituzionali” (sent. n. 1146/1988). Principi supremi che non si esauriscono - come sbrigativamente è scritto in AC 3541 - nella forma repubblicana (art. 139 Cost.) e in una generica “coerenza” con la parte I della Carta costituzionale. Invocarli come cavalli di Frisia a possibili revisioni costituzionali non è un espediente esorcistico, né prefigura futuri appelli pubblici, elegantemente redatti e autorevolmente firmati ma inesorabilmente innocui. La vera sostanza è nel loro statuto giuridico: se i princìpi supremi definiscono una soglia impossibile da valicare, quella soglia va custodita dal Presidente della Repubblica a monte, e dalla Corte costituzionale a valle. Entrambi i custodi della Costituzione sono tenuti ad agire per neutralizzare l’apparente paradosso di una legge formalmente costituzionale ma, in realtà, anticostituzionale. Tale appare la prospettata revisione dell’art. 27 Cost., in materia di funzione della pena (AC 3154), come qui ha già scritto Salvatore Curreri (Il Riformista, 16 settembre). Tali sono certamente le modifiche proposte agli articoli della Costituzione concernenti il rapporto tra ordinamento italiano e UE (AC 291 e 298), come ben argomentato altrove da Andrea Manzella (Corriere della Sera, 26 settembre), Andrea Morrone (Domani, 30 settembre) e Gustavo Zagrebelsky (la Repubblica, 2 ottobre). La Costituzione, regola e limite al potere, è quasi tutta modificabile. La differenza sta tutta in quel quasi. Ma è una differenza enorme. Droghe. Pronte le nuove linee guida, ma Fratelli d’Italia già impone il niet di Eleonora Martini Il Manifesto, 5 ottobre 2022 Piano di azione nazionale dipendenze 2022-2025. Dadone difende il lavoro di un anno ma potrebbe dover ricorrere ad un decreto ministeriale Droghe, pronte le nuove linee guida ma Fratelli d’Italia già impone il niet. Risalgono al 2009 le ultime linee guida delle politiche sulle droghe. Le aveva scritte Giovanni Serpelloni, il mai (abbastanza) dimenticato allora capo del Dipartimento delle politiche antidroga. Ora, dopo un lungo lavoro che la ministra Fabiana Dadone (M5S) ha avviato un anno fa con la Conferenza nazionale di Genova (dopo 12 anni di latitanza governativa), il nuovo Piano di Azione Nazionale dipendenze (Pand) 2022-2025 è pronto per essere presentato alla Conferenza unificata dei servizi che si terrà il 12 ottobre prossimo. Nulla di particolarmente rivoluzionario, quello che le Regioni dovrebbero approvare poco prima che si insedi il nuovo governo, anzi. Secondo molti tra i 271 esperti che hanno partecipato ai tavoli di confronto, il nuovo Pand presenta molte zone d’ombra, alcune contraddizioni ma soprattutto nessun vincolo per le Regioni che dovrebbero applicarle. Eppure, c’è voluto poco al partito della premier in pectore per gridare allo scandalo: è bastato leggere tra le 220 pagine del Pand alcune novità sostanziali - sia pur in linea con la legislazione vigente - come l’atteso riconoscimento delle politiche di Riduzione del danno che dal 2017 sono entrate nei Lea (Livelli essenziali di assistenza), o la sperimentazione in tre città italiane delle stanze del consumo sicuro, o ancora il cosiddetto drug checking, tutte realtà consolidate in Paesi quali la Germania, la Spagna, la Francia, i Paesi Bassi e la Norvegia. Infatti, secondo la deputata Maria Teresa Bellucci, responsabile del Dipartimento dipendenze e Terzo Settore di Fd’I, il nuovo Pand è “un lavoro fatto male di un governo dimissionario” che si basa su un concetto di “normalizzazione dell’uso delle droghe”, come la sperimentazione dei “servizi di drug checking e le stanze del buco, che sono l’espressione di quell’idea che drogarsi è una scelta”. “La riduzione del danno - afferma la sorella d’Italia - è fine a se stessa: io ti aiuto a drogarti in maniera tale che tu non muoia”. Motivi per i quali, Bellucci pretende che il nuovo Pand “non debba proprio essere trattato in Conferenza Unificata in questo momento”. In realtà, anche se venisse portato in sede Stato-Regioni, il nuovo Piano d’azione ha ben poche possibilità di essere approvato, data la predominanza di centrodestra nel colore politico delle regioni d’Italia. “Molti assessori regionali infatti hanno già chiesto la revisione del testo in senso peggiorativo”, riferisce Stefano Vecchio, presidente di Forum Droghe che ha partecipato ai tavoli di studio e oggi spera ancora che “il prossimo governo mantenga un dialogo aperto con la “Rete delle Città italiane per una politica innovativa sulle droghe” (costituitasi nel giugno scorso, ndr) e con le Regioni progressiste”. Potrebbe perciò delinearsi una via d’uscita per la ministra Dadone, in modo da non concludere la legislatura buttando nel cestino il lavoro di molti mesi. Fabiana Dadone potrebbe ricorrere ad un decreto ministeriale per depositare le nuove linee guida, ben sapendo che anche così potrebbero diventare presto carta straccia. Come è noto, infatti, il feticcio della “droga” è uno dei capisaldi più duraturi dell’ideologia di destra. Eppure, come sostiene la stessa esponente di Fd’I, dal 1990, anno della legge 309, ad oggi (sorvolando sulla riforma targata Fini-Giovanardi, che venne poi smantellata dalla Consulta), “in 30 anni è cambiato tutto”. Proprio tutto. Basta solo mettersi d’accordo su cosa, prima di riscrivere il testo unico 309 che, come dice Bellucci, ha “un approccio assolutamente anacronistico”. Il suicidio della salute mentale di Gemma Brandi* quotidianosanita.it, 5 ottobre 2022 Qualche giorno fa avevo promesso al familiare disperato e sconosciuto di un malato di mente che avrei risposto al suo quesito circa il perché si sia a tal punto liso il tessuto della Salute Mentale. La endiadi pericolosità e responsabilità e dunque la necessità di fronteggiare responsabilmente il pericolo dell’incontro con il trasgressore di cui prevenire condotte pericolose a sé e agli altri, tenute in ragione di una sofferenza psichica profonda e difficile da trattare, rinviano alle grandi riforme nel settore: Legge 180 e chiusura dei vecchi istituti di internamento giudiziario. Una Salute Mentale adulta e autorevole avrebbe potuto/dovuto mettere a disposizione dei rei folli -dalla stessa Legge 180 chiusi strategicamente fuori della porta di una cura composita, non più basata cioè unicamente su farmaci e chiavistelli- una risposta alta ai loro problemi. E invece si è immiserita persino la rete in precedenza gettata. Cosa ha impedito la naturale evoluzione di competenze acquisite e consolidate? Due fattori confluenti e anchilosanti. Da una parte, l’irrigidimento biologistico della psicopatologia, sempre meno interessata al divenire dinamico e sempre più irretita da una fede talebana in incertezze passate per certezze scientifiche. Sua alleata in questa evoluzione atrofica è stata la politochiatria al potere, con l’arte della cura sopraffatta dalla ideologia e il reclutamento dominato da appartenenze più che da competenze e buone prassi. E poiché chi va con lo zoppo zoppicar fa le viste, gli psichiatri hanno appreso, da una politica in media scadente, che si poteva essere di banda per giustificare tutto, anche l’abbandono del malato al suo tragico destino, anche la stolta teorizzazione della imprevedibilità/imprevenibilità di ogni agito. Una vera tragedia in termini di dissipazione di un sapere onesto costruito laboriosamente da operatori persuasi della necessità di muoversi in maniera interdisciplinare e organizzata per opporsi ai problemi della sofferenza psichica. L’organizzazione, data in mano a chi ha scelto di esser di banda, si è sfilacciata e il suicidio della Salute Mentale è diventato sempre meno ipotetico. Non più propensa a valorizzare la interdisciplinarità della eziopatogenesi e della cura, in quanto preda di un furore biologistico; nella impossibilità di darsi una organizzazione preparata, convinta e convincente, la Salute Mentale, che si era messa da sola nell’angolo, è stata da più parti avvertita come inutile, illanguidendo. Ecco la risposta a quel familiare disperato: una convergenza diabolica tra l’imporsi della visione semplificata di un problema complesso e la contaminazione corruttiva del sistema da parte della politica, che ha contribuito ovviamente a fornire coperture di comodo, diventate coperture vicendevoli: ti tolgo risorse e tu taci; scegli l’accidia istituzionale e io taccio. Niente che gli addetti ai lavori non sappiano e non abbiano sperimentato sulla propria pelle. *Psichiatra psicoanalista. Esperta di Salute Mentale applicata al Diritto Sacerdote si esprime in pubblico a favore di aborto, eutanasia e unioni gay: sospeso a divinis di Alessio Ribaudo Corriere della Sera, 5 ottobre 2022 Don Giulio Mignani, parroco di Bonassola, non potrà più celebrare messa. Il sacerdote, difensore dei diritti delle famiglie arcobaleno e dell’eutanasia, replica: “Gran parte dei parrocchiani ha apprezzato, traendone motivo di crescita e rimotivazione spirituale”. La frase del suo status di WhatsApp non lascia dubbi: “Il coraggio di essere liberi”. Un coraggio pagato a caro prezzo perché ieri a don Giulio Mignani è stata notificata la sospensione a divinis dalla celebrazione pubblica dei sacramenti. In buona sostanza il parroco di Bonassola, centro di 800 anime nello Spezzino, che da tempo si batte a favore delle famiglie arcobaleno e si è esposto nel dibattito pubblico, anche sull’eutanasia e sull’aborto, rimarrà sacerdote ma non potrà più confessare i fedeli, celebrare messa o predicare in pubblico. “Nel corso degli anni - si legge nella provvedimento del tribunale ecclesiastico della diocesi di La Spezia a firma del vescovo, monsignor Luigi Ernesto Palletti - più volte ha rilasciato esternazioni pubbliche, apparse anche su vari quotidiani e interviste televisive, nelle quali ha ripetutamente sostenuto posizioni non conformi all’insegnamento della Chiesa Cattolica”. A Don Giulio, si legge nel procedimento amministrativo penale canonico, “gli è stato imposto di astenersi da esternazioni pubbliche contrarie al magistero della Chiesa, stabilendo che se ciò non venisse osservato sarebbe incorso nella sospensione dalla celebrazione pubblica dei sacramenti e sacramentali e dalla predicazione”. Lui però ha continuato a ribadire le sue opinioni su temi come matrimoni e adozioni per coppie omosessuali, eutanasia e aborto nel corso di alcune interviste alla stampa. Per questo motivo nel decreto si evidenzia come “il tenore sereno e consapevole con il quale sono state rilasciate porta ad escludere la presenza di fattori che possano avere influenzato la capacitando libera espressione del chierico, lui stesso ha riconosciuto sue le affermazioni”. Infine la stoccata: “ogni volta è stato ammonito e richiamato all’osservanza degli impegni pastorali e canonici” ma “gli episodi però hanno continuato a ripetersi nel tempo, suscitando sempre più grave scandalo tra i fedeli”. Don Mignani, lo scorso anno, aveva deciso di non benedire palme e ramoscelli d’olivo per protesta. Nella sua omelia, durante la messa della domenica delle Palme, spiegò di essere contro il documento della Congregazione per la dottrina della fede che vieta la benedizione delle unioni di coppie omosessuali. “Nella Chiesa si benedice di tutto, ma non l’amore vero tra omosessuali”, disse. Il reverendo Mignani non ci sta e si difende. “Le posizioni che ho assunto non hanno mai voluto essere offensive né polemiche nei confronti della Chiesa - spiega don Giulio al Corriere - e ciò che mi ha sempre mosso è la preoccupazione che la Chiesa possa essere considerata sempre più marginale e sempre meno credibile nella società contemporanea: eventualità molto reale qualora non maturi la capacità di mettere in discussione quegli aspetti che in passato possono anche aver assolto una funzione storica, ma che nel presente, cambiate le conoscenze e le sensibilità, rischiano di essere causa di allontanamento quando non addirittura di rifiuto.Per ovviare il pericolo che la Chiesa si chiuda in una sterile autoreferenzialità mi sembra che la via sia quella di permettere a tutti i suoi membri, clero compreso, di poter esprimere liberamente il proprio desiderio di cambiamento”. Secondo l’ex parroco “solo alcuni dei fedeli sono rimasti in qualche modo turbati a seguito delle mie affermazioni o posizioni da me assunte non conformi all’insegnamento della Chiesa; certo, mi dispiace” ma poi rimarca come “una gran parte di fedeli ha apprezzato quanto da me condiviso traendone motivo di crescita e rimotivazione spirituale” perché quello che ha “cercato di attuare è un serio esercizio di ascolto delle persone che ho incontrato nel mio ministero pastorale (in conformità fra l’altro anche con le indicazioni del Papa relative al Sinodo attualmente in corso nella Chiesa Cattolica)”. Racconta, infine, un aneddoto che risale a pochi giorni prima della sua ordinazione nel 1999 quando fu ammonito dall’allora cancelliere vescovile a non confondere l’obbedienza al vescovo con un’obbedienza cieca. “Quell’anziano prete mi aveva cioè ricordato ciò che, anche nella mia vita sacerdotale, avrei sempre dovuto mettere al primo posto: la mia coscienza”. La notizia si è diffusa rapidamente nel comune spezzino e sui social la notizia è diventata virale. Molti parrocchiani vicini a don Giulio non ci stanno e si sono schierati a difesa del sacerdote. Scrive Mariateresa: “Don Giulio ha tutto il mio appoggio”. Maria propone: “Cosa possiamo fare? Scrivere al Papa e fare una dimostrazione? Io ci sono”. Camilla chiosa: “Un prete avanguardista che evidentemente ha dato fastidio a una chiesa retrogada”. Di parere opposto c’è Paola “Sono felicissima della scelta del Vescovo, se non le sta bene può sempre fare il pro abortista o il pro Lgbt nelle opportune sedi”. Nel corso degli ultimi 50 anni ci sono stati casi celebri di sospensioni a divinis. Nel 1976 Papa Paolo VI emanò questo provvedimento disciplinare per il vescovo Marcel Lefebvre, che si rifiutava di applicare alcune disposizioni del Concilio Vaticano II. Poi Lefebvre si distaccò dalla Chiesa Cattolica e, per questo, fu scomunicato. Solo nel 2009 ottene la remissione. Nel 1985 il cardinale Siri, arcivescovo di Genova - lo stesso che lo aveva ordinato sacerdote nel 1967 - sospese, invece, don Gianni Baget Bozzo “reo” di essere stato eletto l’anno precedente all’Europarlamento nelle fila del Partito Socialista Italiano. La sospensione cessò al terminare del secondo mandato elettorale dello stesso, nel 1994. Infine il vescovo Fernando Lugo fu sospeso a divinis dalla Santa Sede, nel gennaio 2007, perché si candidò alle elezioni Presidenziali in Paraguay. Fu eletto presidente nell’aprile 2008 e nello stesso anno ottenne la riduzione allo stato laicale. Iran. Alessia nel carcere del dissenso. E anche nelle scuole è rivolta di Farian Sabahi Il Manifesto, 5 ottobre 2022 Costruito nel 1972 e gestito dalla Savak, oggi è prigione per i detenuti politici e gli iraniani con doppia cittadinanza accusati di spionaggio. La trentenne italiana avrebbe chiamato i suoi da Evin. Farnesina al lavoro. Dopo gli atenei, via il chador per protesta nei licei. È soprannominato “Hotel Evin” il famigerato carcere situato nella parte settentrionale della capitale iraniana, in un’area residenziale ai piedi dei monti Alborz. Terra gialla e alberi brulli. Se abiti a Teheran nord, capita di passarci in taxi. È qui che si troverebbe Alessia Piperno. La trentenne romana vi sarebbe stata portata subito dopo il fermo, scattato secondo il padre il giorno del suo compleanno, il 28 settembre. E dalla prigione di Evin avrebbe telefonato in Italia per chiedere aiuto. In questo stesso carcere sono tuttora rinchiuse - tra gli altri - la ricercatrice dell’università parigina Sciences Po, Fariba Adelkhah, e l’ex deputata Faezeh Hashemi Rafsanjani. La prigione di Evin è stata costruita nel 1972. Qui la Savak, la polizia dello scià, torturava gli oppositori con strumenti acquistati dagli Stati uniti e da Israele. Oggi vi sono rinchiusi i prigionieri politici, oltre ai delinquenti comuni. Qui sono stati detenuti l’avvocata Shirin Ebadi (Nobel per la Pace 2003), la sua collaboratrice Nasrin Sotoudeh, la loro collega Mehrangiz Kar, il filosofo Ramin Jahanbegloo, i giornalisti Akbar Ganji e Roxana Saberi, la dipendente di Reuters Zananin Zaghari-Ratcliffe, il blogger Hussein Derakhshan, l’accademica australiana Kylie Moore-Gilbert. Cittadini iraniani. Cittadini iraniani e al tempo stesso di un paese occidentale. Stranieri. Poco importa. Se l’imputazione è spionaggio, oppure propaganda contro lo Stato”, si finisce qui. L’Italia è in ottimi rapporti con l’Iran ma non fa parte dei 5+1, i negoziatori dell’accordo nucleare - in fase di rinegoziazione - firmato dal presidente statunitense Obama nel 2015 e mandato a monte dal suo successore Trump nel 2018. Di conseguenza, l’Italia non ha granché da offrire in cambio del rilascio dell’ostaggio nelle mani dei pasdaran. L’unica soluzione sarebbe agire con l’aiuto dell’Ue ma, in risposta alla repressione contro i manifestanti, la diplomazia francese ha proposto a Bruxelles di “congelare i beni e vietare gli spostamenti dei responsabili della repressione in Iran”. Mentre la Farnesina si adopera per far ritornare la nostra connazionale in Italia, in Iran continuano le proteste innescate dalla morte di Mahsa Amini, la ventiduenne arrestata dalla polizia morale per aver trasgredito al codice di abbigliamento. Dopo quasi tre settimane, non tutti sono però contenti delle manifestazioni che animano le città dopo le cinque del pomeriggio. Nel quartiere settentrionale Tajrish, non lontano dal carcere di Evin, i mercanti del bazar si lamentano perché il loro fatturato si è dimezzato: quando i manifestanti danno fuoco ai copertoni e ai cassonetti, la gente non va più per negozi, nemmeno i credenti che tornano dalla preghiera. Dopo aver coinvolto 111 università tra cui il Politecnico Sharif di Teheran, ieri le proteste hanno contagiato anche gli istituti superiori: in varie città le liceali si sono tolte il chador in pubblico protestando per la morte di Mahsa Amini. Lo rende noto l’emittente britannica Bbc sul suo sito pubblicando alcuni video in cui si vedono decine di studentesse senza velo bloccare una strada a Shiraz gridando “morte al dittatore”, in riferimento alla Guida Suprema Alì Khamenei. Non solo Teheran, dimostrazioni con studentesse che hanno sfidato la legge togliendosi il velo si sono tenute tra negli ultimi due giorni anche a Saqez, Sanandaj e Karaj. Intanto, il regime persevera nel reprimere il dissenso. Da Teheran il capo della magistratura Hojjatoleslam Mohseni Ejei ha dichiarato che protestare è legale in Iran ma, nel descrivere le proteste in corso, ha menzionato incendi a edifici e attacchi ad agenti di polizia che “non possono essere considerati modi di manifestare”. “Incidenti di questo tipo non sono qualcosa di nuovo in Iran dal momento che i nemici della Repubblica islamica hanno fatto tutto quello che potevano, nei passati quarant’anni, per impedire a questo sistema di fare progressi”, ha affermato il funzionario. Il capo della magistratura ha poi aggiunto che “il vandalismo non è considerato un modo per protestare” e sarà affrontato “in modo deciso e legale”. In Iran Internet alla gogna di Vincenzo Vita Il Manifesto, 5 ottobre 2022 In Iran, dove è in corso una sacrosanta mobilitazione civile contro l’efferatezza del regime perpetrata in particolare verso le donne, Internet ha cessato di funzionare. La morte di Mahsa Amini, arrestata e malmenata selvaggiamente dalla cosiddetta polizia religiosa per non aver indossato correttamente il velo, ha moltiplicato le proteste come non accadeva da molto tempo. Centinaia di studenti sono ostaggio nella Sharif Univesity e tra gli arrestati c’è l’italiana Alessia Piperno. Finalmente, le iniziative stanno toccando anche l’Ovest del mondo, spesso sordo rispetto a ciò che avviene al di là della sua stretta visuale. Tuttavia, non sembrano levarsi voci critiche e polemiche contro gli attacchi a giornaliste e giornalisti che cercano di documentare ciò che accade, e neppure sulla medioevale repressione dei social. Ogni volta che in un regime, sia l’Iran o la Russia o l’Ucraina (dove sono arrivati in soccorso i satelliti di Elon Musk), prende piede il conflitto, ecco che si spegne la comunicazione. Insomma, il lato bello della rete fa paura e le tenebre devono tutelare il potere segreto. La rete sembrò nella sua giovinezza l’espressione autentica della democrazia partecipata e un’occasione straordinaria per trasformare la vecchia liturgia analogica unidirezionale e autoritaria in una convergenza orizzontale. Ma di quell’opportunità poco rimase. Gli oligarchi chiamati Over The Top (da Facebook, a Google, ad Apple, a Twitter, ad Amazon) hanno conquistato la preziosa infrastruttura virtuale, trasformandola in luogo di dominio e di mercimonio lucroso dei dati delle persone. Ci sono due Internet, a farla breve: sopra gli stati o - al contrario- al di sotto dei più elementari diritti di libertà. Si pone una questione molto seria, allora. Che cos’è davvero Internet? Esiste qualche istituzione sovranazionale in grado di frenare gli oligarchi e, nel contempo, di impedire le soluzioni autoritarie? Ci sarebbe, pure, un’entità appartenente alla famiglia delle Nazioni unite, ma non si avverte proprio. Si chiama Internet Governance Forum (IGF). Nacque nel 2006 ad Atene per impulso di Stefano Rodotà, dopo il varo avvenuto l’anno prima a Tunisi durante il World Summit on the Information Society (WSIS), che dell’Onu è un braccio formale. Non è possibile che permanga simile silenzio davanti allo scempio in atto, decretando in tal modo la fine di fatto di un riferimento cui si è guardato con interesse e fiducia. Il mondo, come ricorda sempre Papa Francesco, ha intrapreso una terza guerra mondiale a pezzi. Ora vi è persino la minaccia delle armi atomiche. In tale contesto, la democrazia della e nella informazione è a rischio: cronisti imbavagliati e uccisi, chiusura di testate scomode e minacce costanti ci raccontano la verità tragica della situazione. L’informazione è parte della guerra ed è in corso una prova di forza per ridurre al silenzio la parte buona di Internet. La federazione nazionale della stampa, l’associazione Articolo21 e Amnesty International sono impegnate e promuovono numerose iniziative. Non basta, però. Servirebbe il risveglio del popolo della rete, che in passato ha avuto una funzione importante e che adesso deve tornare in scena. Va immaginata una giornata mondiale dedicata al riscatto della rete e alla riconquista di una funzione originaria rimossa o emarginata. Il tema tocca da vicino la sorte del fondatore di WikiLeaks Julian Assange, che ci raccontò i misfatti dell’Iraq e dell’Afghanistan proprio attraverso un’informazione alternativa, capace di utilizzare la rete per ampliare consapevolezza e conoscenza. Tutto si tiene e la lotta è una sola. Nei previsti appuntamenti contro l’estradizione del giornalista australiano sarà fondamentale sottolineare il contesto delle crisi in atto, cogliendone il filo conduttore. PS. È stato sbloccato, finalmente, il decreto per la ripartizione del Fondo straordinario per l’editoria. Si tratta di 90 milioni di euro destinati - tra l’altro- alle edicole, agli investimenti in tecnologie e all’assunzione di giovani giornalisti. Un plauso, dopo averlo criticato per i ritardi, al sottosegretario con delega Moles.