Flick: “Ma ora la politica non snobbi la giustizia e il dramma carcere” di Errico Novi Il Dubbio, 4 ottobre 2022 Il presidente emerito della Corte Costituzionale: “Troppo a lungo ci si è affidati alla supplenza della magistratura, precipitata poi in una crisi da cui non sembra riuscire a risollevarsi”. “È stata una stagione da una parte liberatoria, ma che dall’altra richiede ulteriori interventi”. Sabato pomeriggio: Giovanni Maria Flick, presidente emerito della Corte costituzionale, ha appena concluso il proprio applauditissimo intervento al congresso straordinario dell’Unione Camere penali, a Pescara. Ha parlato di riforme possibili e necessarie. Ma non ha stroncato quanto fatto nell’ultimo anno e mezzo abbondante, con Marta Cartabia nelle vesti di guardasigilli. Il suo giudizio sulle riforme della giustizia dettate dalle scadenze europee non è dunque di censura. Spiega alla platea degli avvocati: “Va colto in chiave positiva un aspetto dirimente: con agli interventi prodotti nel periodo in cui Cartabia ha rivestito la carica di guardasigilli, siamo usciti dall’equivoco secondo cui le riforme della giustizia vanno scritte sotto il diritto di veto e di beneplacito della magistratura. Perché è così che è andata negli anni precedenti. Da Mani pulite in poi, abbiamo assistito a paradossi come quello delle norme sull’induzione alla corruzione: anziché semplificare il quadro, chiarire la natura del reato di concussione, l’hanno reso ancora più equivoco. Il tutto sotto la spinta degli orientamenti della magistratura, alla quale la politica ha lasciato quella che è stata definita supplenza, e che di fatto è uno sconfinamento”. Da dove si può ripartire? Il presidente emerito della Consulta ha alcune priorità. Il carcere, innanzitutto. Alcuni interventi ulteriori sulla giustizia penale. Ma prima ancora, il completamento della riforma sull’ordinamento giudiziario. “Assolutamente urgente ma rimasta in sospeso”, spiega al congresso Ucpi. “A differenza di quanto avvenuto con le nuove norme sul penale, sul civile e sull’ufficio del processo, i contenuti della legge su Csm e ordinamento giudiziario restano inefficaci, perché espressi appunto in forma di delega ma non ancora attuati da decreti, com’è invece avvenuto per le altre materie. E a me sembra che quella parte sia assai urgente”. Più urgente di ulteriori interventi sul processo penale. “Naturalmente ci sono molti aspetti della riforma penale che vanno chiariti, eliminati, o almeno migliorati. E resta la grave, incivile situazione delle nostre carceri, indegna perché appunto offende innanzitutto la dignità. Ma se vogliamo un riequilibrio del sistema, è nell’ordinamento della magistratura che vanno compiuti interventi incisivi. Anche per rimediare all’insufficiente risposta che l’ordine giudiziario ha fin qui espresso rispetto ai cosiddetti scandali, agli eccessi del correntismo”. Certo non può ridursi tutto all’espulsione di Palamara. “Non mi piace fare nomi in questo caso. Mi dà persino fastidio. Mi pare che l’autorigenerazione e l’autodisciplina non si siano viste. E qui le riforme servono. E non ci si dovrebbe limitare ad attuare la delega. Servono ulteriori passi avanti. Come andrebbero riconsiderate alcune parti della riforma ordinamentale già entrate in vigore”. Flick si riferisce alle cosiddette porte girevoli. “Lo stop era necessario. Ma intanto, ci sono casi in cui bisogna guardarsi dall’eccesso. Proveniamo da una situazione in cui a lungo, sugli incarichi extragiudiziari, è esistito il solo riferimento della normazione secondaria prodotta dal Csm. Adesso non vorrei si arrivasse a un divieto assoluto di impegno della magistratura in attività extragiurisdizionali”, prospettiva che viene invece auspicata dai penalisti. “Ma in casi come il rapporto fra ordinamenti a livello internazionale, per esempio, quelle attività sono secondo me indispensabili”, dice il presidente emerito della Corte costituzionale. “Dall’altra parte vedo che sì, viene molto limitata la possibilità di rientrare nell’ordine giudiziario dopo la scelta di far politica. Ma io vorrei fosse anche più rigido il meccanismo secondo cui chi per esempio proviene dalla carica di procuratore nazionale Antimafia debba attendere almeno un po’ prima di lanciarsi nell’agone politico, cosa che invece su verifica ormai puntualmente” . Ma al congresso Ucpi di Pescara, Flick accusa innanzitutto la politica di aver lasciato che, sulla giustizia litigassero magistratura e avvocatura, e se n’è lavata le mani. “Il che non vuol dire che magistrati e avvocati siano estranei al processo riformatore. Ne sono protagonisti. Lo ha detto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella nel suo assai severo passaggio sulla giustizia all’interno del discorso alle Camere, lo scorso 22 febbraio, esattamente quattro anni dopo aver rivolto al Parlamento parole assai diverse sui magistrati, a partire dal ricordo delle figure di Falcone e Borsellino. Magistratura e avvocatura devono saper dialogare, trovare la giusta distanza, riscaldarsi senza pungersi, come insegna la metafora di Schopenauer sui porcospini. Ma l’iniziativa spetta innanzitutto alla politica”. E non c’è solo da completare la riforma del Csm. “Meritano sicuramente di essere rafforzate alcune parti della riforma penale. Sui riti alternativi, per esempio. E vanno eliminati aspetti davvero discutibili, come la norma sulla cosiddetta improcedibilità. Una costruzione difficile anche da definire terminologicamente. Devo anche dire però che il metodo, nella nuova legislatura, mi auguro sia quello della ragionevolezza. Mi riferisco alla necessitò di saper anche dare il tempo ad alcune nuove norme appena introdotte d dimostrare la loro efficacia”. Ma è sul carcere che Flick ritiene non si possa più attendere. Lo spiega dopo aver citato l’intervento pronunciato poco prima dal capo del Dap Carlo Renoldi. “Ha usato un’espressione molto efficace: di carcere, in Italia, ce n’è troppo e male. Ecco, va riconsiderato il ricorso alla detenzione intramuraria come forma prevalente di esecuzione della pena. Va tenuto presente che la restrizione in un penitenziario offende la dignità della persona perché nega l’affettività, priva dello spazio e annulla il tempo. Il tempo cessa di esistere nel momento in cui chi è recluso in una cella viene anche privato della prospettiva del riscatto, della speranza. Sul carcere le riforme sono urgenti”. In realtà da quel che si intuisce la giustizia non sarà una priorità della nuova fase politica. Ma per Flick, “la politica non può ripetere gli errori del passato e lavarsene le mani. Non è possibile. Si è per anni rassegnata alla cosiddetta supplenza della magistratura e ora, come detto, è proprio la magistratura che necessita interventi. Non si può lasciare in sospeso il discorso che Cartabia ha sì avviato, ma che va completato, anche nel penale. Mi auguro che si proceda con l’ascolto, anche degli avvocati”. A Pescara Flick non manca di ricordare i fattori che hanno distratto l’ultima campagna elettorale dal discorso sulla giustizia: la guerra, la crisi energetica, e tutto dopo due ani e mezzo di pandemia. Ma non occuparsi di giustizia, e di carcere innanzitutto, è scelta che il presidente emerito della Consulta giudicherebbe come un errore. E suscita così applausi dalla platea dei penalisti, nonostante non addolcisca affatto la sua “perplessità” sull’altra riforma indicata come inderogabile dall’avvocatura, la separazione delle carriere”. “Non credo”, spiega, “rappresenti la strada più efficace per rimettere i poteri del pubblico ministero su un piano di equilibrio, lo si dovrebbe piuttosto vincolare a un maggiore rispetto del precedente e anche dei termini del procedimento”. D’altronde al congresso dei penalisti Flick suscita una vera e propria ovazione quando dice: “Sono stato e sono avvocato” : E aggiunge: “Ho vissuto anche l’esperienza del magistrato. Ritenevo allora di dover cercare le certezze della legge. Ho rafforzato poi, con le mie esperienze successive, la cultura del dubbio, E ho colto l’importanza di coltivarlo, quel dubbio, come spinta costante per il dialogo”. Perché mi preoccupa il “no” di FdI alle pene alternative di Luigi Manconi La Repubblica, 4 ottobre 2022 Non sarà il fascismo, anzi non lo è sicuramente, ma è l’espressione di una concezione anti-garantista dell’amministrazione della giustizia e di una idea autoritaria del sistema penale. Anche a distanza di una decina di giorni dal voto del 25 settembre, si riproduce un sottile e perverso equivoco. Un classico delle strategie di disinformazione e delle spirali di automanipolazione. Ovvero si dà per acclarato che nel corso della campagna elettorale si sia verificata la “criminalizzazione” di Giorgia Meloni e l’evocazione del “pericolo fascista”. Una simile falsa rappresentazione è stata accreditata anche a sinistra (dove, notoriamente, l’autoflagellazione e il luogocomunismo costituiscono altrettanti evergreen). Ora, dal momento che la criminalizzazione è un concetto preciso e terribile, usarlo a capocchia è, se non altro, di cattivo gusto; e ritenere che possa instaurarsi un regime fascista è un’autentica corbelleria che nessuno, a parte qualche esaltato di nessuna credibilità, ha manifestato: dunque le due presunte imputazioni si rovesciano nel loro speculare opposto. La conseguenza è pressoché automatica: a) Giorgia Meloni è una adamantina democratica della quale non ci si deve minimante preoccupare; b) considerato che non ci sarà un golpe di destra, non c’è ragione di allarmarsi. Ma forse che, una volta esclusa una “deriva fascista”, si possono dormire sonni tranquilli? Io, per esempio, non sono affatto tranquillo dopo aver sentito Adolfo Urso, presidente del Comitato parlamentare per la sicurezza della Repubblica, Luca Ceriani, membro della Commissione giustizia al Senato, e Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile per la Giustizia del partito, affermare all’unisono la loro “totale contrarietà” alle misure alternative alla detenzione in carcere. Non sarà il fascismo, anzi non lo è sicuramente, ma è l’espressione di una concezione anti-garantista dell’amministrazione della giustizia e di una idea autoritaria del sistema penale. Ed è la manifestazione, infine, di un grave sprezzo di quella norma costituzionale che esige la “rieducazione del condannato” (art. 27, comma 3). Se mettiamo insieme questa impostazione giustizialista dell’azione penale e tanti altri orientamenti (nell’ambito dell’immigrazione, dei diritti individuali della persona, della questione rom…) viene da chiedere: vi sembra poco? Comunità per minori, il completo dell’autorità garante di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 4 ottobre 2022 Sono più di 23mila i bambini e ragazzi ospitati nelle 3.605 comunità per minorenni dislocate sul territorio italiano. La maggior parte dei minorenni in comunità è di cittadinanza italiana (55% nel 2018, 61% nel 2019 e 60% nel 2020). Gli stranieri a fine 2020 sono il 40%, dei quali il 24% sono minori stranieri non accompagnati. Sono numeri, riferiti al 31 dicembre 2020, resi noti dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in occasione della pubblicazione di una raccolta dati realizzata in collaborazione con le procure presso i tribunali per i minorenni. “La tematica dei bambini e ragazzi privi di un ambiente familiare - scrive la garante Carla Garlatti nel rapporto che raccoglie i dati - è da sempre prioritaria per l’Autorità garante: la stessa legge istitutiva, all’articolo 3, prevede espressamente il compito di promuovere e tutelare il diritto delle persone di minore età a essere accolte ed educate prioritariamente nell’ambito della propria famiglia e, se necessario, in un altro nucleo familiare di appoggio o sostitutivo”. La garante sottolinea che quella delle comunità per minorenni rappresenta uno strumento di tutela residuale, ma interessa ogni anno un numero significativo di bambine e bambini, ragazze e ragazzi, ai quali deve sempre essere garantita la massima attenzione istituzionale, politica e sociale. Per questo, dopo due anni dalla pubblicazione dell’ultima rilevazione avvenuta nel novembre 2019, l’autorità garante per l’infanzia ha ritenuto necessario avviare i lavori per l’elaborazione della quarta raccolta sperimentale, rivolgendo ai procuratori minorili numerosi quesiti con un focus relativo ai dati dell’anno 2020. Per la prima volta, infatti, è stato pubblicato il numero dei controlli effettuato dalle procure minorili sulle comunità. Un vero e proprio record in termini assoluti tra ispezioni e sopralluoghi compiuti nel corso 2020 si registra a Bologna (704 su 352 strutture). Altre procure invece hanno registrato maggiori difficoltà. Dai dati raccolti emerge che il 55% degli ospiti ha un’età compresa tra 14 e 17 anni, il 15% tra 6 e 10 e il 14% tra 11 e 13. Sono presenti anche maggiorenni, che su base nazionale risultano 2.745 al 31 dicembre 2020, pari all’ 11,9% del totale. Come già detto, la maggioranza sono italiani. Un rapporto di 6 su dieci. Il 61% è di genere maschile e il 39% femminile. Per quanto il dato relativo al periodo di permanenza sia stato fornito solo nel 67% dei casi, da quanto rilevato emerge che per più di un minore su 4 (26% delle informazioni comunicate) la permanenza in comunità di accoglienza al 31 dicembre 2020 era superiore ai 24 mesi. Il dato non è omogeneo a livello nazionale. Dal grafico pubblicato si nota ce in alcuni distretti (Torino, Genova, Trento) la permanenza superiore ai due anni riguarda più del 30% degli ospiti (1 su 3), mentre in altri distretti (Palermo, Potenza e Campobasso) riguarda meno del 20% degli ospiti (meno di un ospite su 5). La ricerca rileva anche i motivi dell’inserimento in comunità. Il 78% dei bambini e dei ragazzi presenti nelle strutture a fine 2020, secondo i dati forniti da 18 procure su 29, è risultato esservi stato collocato su disposizione dell’Autorità giudiziaria, il 12% per decisione consensuale dei genitori e il 10% per allontanamento d’urgenza ai sensi dell’articolo 403 del codice civile. Quest’ultima rilevazione rappresenta una novità, che consente inoltre di misurarne la percentuale per ciascun distretto: a Salerno vi si è fatto ricorso per il 56,6% dei casi, mentre all’Aquila e Potenza non risultano allontanamenti d’urgenza nel periodo preso in considerazione. Il quadro che emerge dalla presente raccolta conferma, ancora una volta, una notevole difformità fra territori. Il numero di bambini e ragazzi ospitati dalle comunità non ha subito variazioni significative sul piano nazionale, ma sono evidenti le differenze relative al numero di ospiti per distretto. Le motivazioni di tali differenze sono ascrivibili in parte al numero di minori stranieri non accompagnati, in parte a una diversa presenza dei servizi sociali. “Infatti, a un numero maggiore di minorenni allontanati dal nucleo familiare d’origine non corrisponde necessariamente una condizione di maggior disagio del territorio, poiché l’attivazione degli interventi di protezione potrebbe essere riconducibile a una più attenta e diffusa attività di monitoraggio e prevenzione ad opera dei servizi”, evidenzia il rapporto. Boom di minori in comunità: l’infanzia negata tra reati, violenze e degrado di Francesca Sabella Il Riformista, 4 ottobre 2022 Napoli è la quarta città d’Italia per numero di adolescenti in comunità. Un triste primato che il capoluogo campano condivide con Milano, Palermo e Bologna. Il dato rientra nel bilancio diffuso dall’Autorità garante per l’infanzia e l’adolescenza in occasione della pubblicazione di una raccolta dati realizzata in collaborazione con le Procure presso i Tribunali per i minorenni. È un report che accende l’ennesimo faro su uno dei problemi irrisolti della nostra società, e dei nostri territori in particolare. In Italia sono più di 23mila (23.122 per l’esattezza) i bambini e i ragazzi ospiti delle 3.605 comunità per minorenni attive a livello nazionale. Sei su dieci sono italiani, e in prevalenza hanno un’età compresa tra i 14 e i 17 anni. Lo studio dell’Autorità garante per l’infanzia (si tratta del volume “La tutela dei minorenni in comunità”), è un viaggio nel mondo delle fasce più giovani e per certi versi più deboli della società. È giunto quest’anno alla sua quarta edizione e confrontando i dati con quelli emersi nelle precedenti ricerche si scopre che, a differenza di cinque anni fa, i minori in comunità sono diminuiti, seppur di poco, ma si è anche ridotto il numero di comunità (32.185 i ragazzi accolti nel 2017 e 4.027 le strutture). Nel 2020, invece, si è evidenziato un calo di circa 9mila ospiti, riconducibile per lo più alla diminuzione dei minorenni stranieri non accompagnati (Msna) presenti nel nostro Paese. Questi ultimi, secondo gli aggiornamenti diffusi dal Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, sono passati dai 18.303 del 31 dicembre 2017 ai 7.080 del 31 dicembre 2020. Confrontando i periodi di riferimento degli ultimi studi, la garante Carla Garlatti ha spiegato che si registra “una sostanziale stabilità delle presenze: erano 22.613 nel 2018, 21.650 nel 2019 e 23.122 nel 2020, con oscillazioni dipendenti in buona parte dalle variazioni del numero degli Msna”, cioè dei minori stranieri non accompagnati. Il numero medio di ospiti per struttura è stato di recente pari a 6,4, identico al dato del 2018. I distretti con maggior numero di minorenni sono Milano (13,4%), Palermo (11,1%), Bologna (8,9%), Napoli (7,5%), Roma (6,6%) e Venezia (6%). “C’è una notevole difformità tra territori - ha evidenziato Garlatti -. A fronte di una stabilità del dato a livello nazionale nel triennio 2018-2020, risultano invece evidenti le differenze tra i distretti. Ciò non è riconducibile solo al numero degli Msna, ma anche a una diversa presenza dei servizi sociali. Peraltro, a una quantità maggiore di allontanamenti non corrisponde sempre e necessariamente una condizione di più grave disagio del territorio poiché gli interventi a protezione di bambini e ragazzi dipendono da una pluralità di fattori”. Parliamo di giovanissimi: il 55% degli ospiti ha tra 14 e 17 anni, il 15% tra 6 e 10 e il 14% tra 11 e 13. Sono presenti anche maggiorenni, che su base nazionale risultano 2.745 al 31 dicembre 2020, pari all’11,9% del totale. Sbaglia chi pensa che si tratti di una questione che investe soltanto i minori stranieri non accompagnati, perché la maggior parte dei minorenni in comunità è di cittadinanza italiana (si raggiunge il 60%), a fronte di un 40% di ragazzi stranieri, dei quali il 24% Msna. Il 61% è di genere maschile e il 39% femminile ma al dato, che non è uniforme a livello nazionale, fa eccezione proprio il distretto di Napoli insieme a quello di Milano: qui in comunità ci sono soprattutto bambine e ragazze (si supera il 50%). Per quanto riguarda invece i tempi di permanenza in struttura, il 26 % resta in comunità per più di due anni. Vite segnate, infanzia negata. Secondo i dati forniti da 18 Procure su 29, il 78% dei bambini entra in comunità per disposizioni dell’autorità giudiziaria, questo vuol dire che parliamo di bambini e ragazzi che provengono da contesti di particolare degrado sociale. per il resto, il 12% dei ragazzi è in comunità per decisione consensuale dei genitori e il 10% per allontanamento d’urgenza o situazione di grave pericolo per il minore. Quest’ultima rilevazione rappresenta una novità e in Campania risulta collegata a un numero crescente di casi: in particolare a Salerno vi si è fatto ricorso per il 56,6% dei casi. Totoministri, c’è l’ipotesi Maresca sottosegretario alla Giustizia di Valerio Esca Il Mattino, 4 ottobre 2022 Catello Maresca in corsa per un posto da sottosegretario nel prossimo Governo targato Giorgia Meloni. I rumors viaggiano da Napoli a Roma, andata e ritorno, e trovano più di una conferma. L’ex pm, forte del suo rapporto con la leader di Fratelli d’Italia, potrebbe essere dirottato in via Arenula, come sottosegretario alla Giustizia. Mentre si va a comporre - con non poche difficoltà - la squadra dei ministri, nelle stanze di Montecitorio si sta già ragionando sulle cariche di secondo livello, che potrebbero risultare utili se non decisive per il completamento del puzzle negli equilibri della coalizione di centrodestra che ha vinto le elezioni politiche. Il magistrato verrebbe pescato dall’esterno e non tra i membri del Parlamento. I sottosegretari di Stato possono essere infatti scelti tra gli eletti, come di solito avviene, oppure al di fuori delle due Camere. È prerogativa del presidente del Consiglio proporre i sottosegretari, nominati poi con decreto del presidente della Repubblica. Ma non è tutto. Maresca sta ragionando seriamente sulla possibilità di salpare sulla nave di Fdi, ammaliato dalle sirene meloniane. Non è passata inosservata la sua partecipazione, nell’ultimo giorno di campagna elettorale, al dibattito a porte chiuse tra il presidente di Fdi e gli industriali napoletani a Palazzo Partanna. Un incontro al quale hanno preso parte soltanto i fedelissimi di Meloni. Se alla fine decidesse di passare con il partito del premier in pectore - il ragionamento è in fase molto avanzata - indosserebbe i galloni di capogruppo. L’ammiccamento tra Meloni e Maresca parte da lontano. Un rapporto tormentato all’epoca della candidatura del magistrato a sindaco di Napoli per il centrodestra: il “no” ai simboli sulla scheda elettorale teorizzato da Maresca a poche settimane dal voto fece infuriare Meloni, che senza perdersi d’animo propose una candidatura alternativa. Uno strappo alla fine ricucito. “Da allora tra i due c’è un ottimo rapporto basato su stima e fiducia” racconta una persona che conosce bene il magistrato anticamorra. Il capo dell’opposizione vorrebbe tirarsi dietro anche Salvatore Guangi ed eventualmente Iris Savastano, entrambi oggi siedono nell’assise cittadina tra i banchi degli azzurri. Per Guangi è in corso un’interlocuzione serrata con Fdi grazie al legame con l’ex prefetto di Roma Giuseppe Pecoraro, candidato all’uninominale Napoli-San Carlo all’Arena. Al vicepresidente del Consiglio comunale sembra stare stretta la casacca dei forzisti, ma prima di lasciare vuole comprendere le prospettive del prossimo futuro. Intanto durante la campagna elettorale ha partecipato più volte ad iniziative elettorali del candidato alla Camera. Ma sono in tanti dalla Campania ad aspirare ad un posto nell’Esecutivo e in quelli di sottogoverno: ci sono i meloniani di ferro come Edmondo Cirielli, Marta Schifone e Antonio Iannone, lo stesso prefetto Pecoraro, ma anche i leghisti Gianpiero Zinzi, Attilio Pierro e Pina Castiello. In ballo ci sono diverse poltrone e il giro di valzer non è ancora cominciato. Bisognerà chiaramente attendere che si completi il quadro dei titolari dei dicasteri, per passare poi ai viceministri e ai sottosegretari di Stato. Diverso il discorso di Fi che potrebbe puntare su Stefano Caldoro, uscito sconfitto dalla corsa nell’uninominale del Senato. Anche lui vittima dell’ondata gialla dei grillini. L’ex governatore siede oggi tra i banchi del Consiglio regionale e in caso di un incarico di sottogoverno dovrebbe dire addio allo scranno del Centro direzionale. All’ombra del Vesuvio andrà poi risolta in Fdi la questione di Giorgio Longobardi, unico rappresentante del partito in Consiglio comunale, almeno fino ad oggi. Rastrelli decise di sospenderlo in seguito ad un post pubblicato su Facebook il 13 agosto, nel quale comparvero riferimenti al dramma dell’Olocausto, utilizzati come invettiva contro gli avversari politici del centrosinistra. Resta per il momento congelato, ma il purgatorio dovrebbe terminare nel giro di poche settimane. Perché no, magari grazie alla benedizione di un nuovo capogruppo. “Carriere dei magistrati: adesso via alla riforma” di Annarita Digiorgio Il Giornale, 4 ottobre 2022 Al congresso dei penalisti fiducia nella nuova maggioranza: “Sulla giustizia c’è coesione”. Non c’era mai stata una maggioranza cosi ampia in Parlamento a favore della separazione delle carriere. Per questo L’Unione delle Camere Penali in Congresso straordinario a Pescara, ha salutato con grande speranza la legislatura che sta per aprirsi. “Prima delle elezioni - ha raccontato nel suo intervento il Presidente Giandomenico Caiazza - l’Unione delle Camere Penali aveva rivolto alle forze politiche l’invito a esprimersi sui temi che i penalisti ritengono più urgenti, dalla separazione delle carriere all’inappellabilità delle sentenze. Le risposte pubblicamente ottenute ci consentono di dire che, numeri alla mano, esiste nel nuovo Parlamento - ed anche a prescindere dagli assetti di Governo che si definiranno - una maggioranza assoluta a favore della separazione delle carriere”. Lo hanno confermato anche i rappresentanti politici intervenuti al congresso. Tranne Anna Rossomando per il Pd, silente sul tema e fortemente criticata dal palco per aver il suo partito abortito, durante il governo Gentiloni, la riforma penitenziaria “non potete occuparvi di carcere solo quando siete all’opposizione e non quando siete al governo” le ha detto l’ex presidente delle Camere Penali Beniamino Migliucci che presiedeva i lavori. Mentre rilevava fiducioso che Fratelli d’Italia, Forza Italia, Lega, e Azione sono favorevoli alla separazione delle carriere. “Non possiamo che essere compiaciuti di un così largo consenso intorno alla nostra più antica ed identitaria battaglia politica culminata nella proposizione della legge di iniziativa popolare sottoscritta da 72mila cittadini - ha detto Caiazza - sarà nostro compito, sin da subito, mettere in campo ogni più opportuna iniziativa perché alle parole seguano i fatti. E sui fatti occorre intendersi, perché non vorremo, come già accaduto in passato, che la spinta riformatrice per la separazione delle carriere scolorisse nella ben diversa ed illusoria soluzione della separazione delle funzioni”. Proprio su questo punto convergono le Camere Penali con Fratelli d’Italia. Abbiamo sentito Andrea Del Mastro, responsabile giustizia di Fdl che è intervenuto anche al Congresso a Pescara: “É un impegno di mandato della coalizione di centrodestra che ha vinto le elezioni quello di riformare la Costituzione introducendo la separazione delle carriere- ci ha spiegato del Mastro- e non una blanda e altalenante riforma delle funzioni come fatto dal governo precedente e che è stata una delle cose che abbiamo più criticato. Il governo Draghi- secondo Fdi- nella sua composizione proprio sulla giustizia nutriva la sua più dura contraddizione, e noi ora finalmente potremo intervenire”. Ma se Del Mastro ammette che non può essere una riforma immediatamente perseguibile a causa dei tempi necessari per l’accordo su una modifica costituzionale, Enrico Costa, vicesegretario di Azione, annuncia che “come primo atto della prossima legislatura sulla Giustizia depositeremo in Parlamento la proposta di legge costituzionale sulla separazione delle Carriere dei magistrati, nello stesso testo dell’iniziativa popolare promossa dalle Camere Penali”. A favore anche la Lega e Forza Italia. Berlusconi il 19 agosto aveva rilanciato questa storica battaglia, confermata nelle parole del sottosegretario Francesco Paolo Sisto intervenuto al congresso delle Camere penali. Contrari rimarrebbero solo Pd e 5 stelle. Camere penali, Caiazza invoca l’unità. Ma è già corsa al successore di Valentina Stella Il Dubbio, 4 ottobre 2022 Ancora nessun nome per la presidenza, ma diverse le ipotesi: da Petrelli a Placanica, ecco tutti i rumors. Si è concluso ieri il Congresso straordinario dell’Unione Camere penali. Un evento molto partecipato quello di Pescara: oltre 700 i penalisti accreditati riunitisi per fare un bilancio dell’anno e mezzo a guida Marta Cartabia al ministero della Giustizia, ma soprattutto per tracciare la strada da percorrere con un nuovo Parlamento a maggioranza di centrodestra. Tra i vari obiettivi: portare a casa in primis la riforma della separazione delle carriere, rilanciare necessari interventi normativi che restituiscano effettività e concrete garanzie alla libertà del difensore - sistematicamente intercettato durante i colloqui con gli assistiti o indagato secondo la sempre più diffusa e malsana idea che egli sia naturale favoreggiatore del proprio cliente - , confrontarsi con tutte le forze politiche per sanare le gravi malattie che affliggono il carcere. Per questo la Giunta ha fatto propria la mozione della Camera penale di Roma per chiedere al Parlamento di emanare quanto prima provvedimenti di amnistia e indulto. Tuttavia questo è stato anche il Congresso che ha segnato l’inizio degli ultimi dodici mesi di Gian Domenico Caiazza alla presidenza. L’anno prossimo, infatti, a Firenze si eleggerà il nuovo vertice. La questione è stata affrontata sia ufficialmente che ufficiosamente, sia dal palco che fuori dal Teatro Circus del capoluogo abruzzese. I giochi li ha aperti nel suo intervento introduttivo il presidente del Consiglio delle Camere Penali, l’avvocato Roberto d’Errico: “Vorrei invitare tutti i militanti dell’Unione, i presidenti delle Camere penali a fare una scelta: come dobbiamo individuare il futuro presidente dell’Unione e la nuova giunta? Qual è il percorso da intraprendere, quale il metodo, quali i criteri? Prima i nomi o prima i programmi? Io non mi voglio fare paralizzare dai nomi, io voglio farmi paralizzare dalla contesa politica sui programmi se ce ne sono diversi tra di loro, questo è il sale della democrazia”. Giusto aprire francamente la corsa, ma qualcuno dagli spalti obietta: “Dietro ad un programma c’è sempre una figura precisa, non si può prescindere da essa”. È stato lo stesso Caiazza nella chiusura della sua relazione a non nascondere il fatto che si vada “verso il rinnovo delle cariche alla guida dell’Unione, che segna per sua stessa natura un terreno fertile per fibrillazioni del tutto naturali ed anche vitali”. E però il suo è stato un appello all’unità, quella unità persa e ricostruita dal congresso di Sorrento: “Non è stato un percorso facile, perché l’unità non basta invocarla retoricamente, occorre costruirla giorno per giorno con determinazione, impegno, fatica, e sopra ogni altra cosa, con intelligenza politica e con generosità intellettuale. Questo sforzo evidentemente è stato prima apprezzato e compreso, ed infine condiviso da tutti voi”. Su quest’ultimo punto qualcuno non si è detto d’accordo. Comunque Caiazza ha auspicato un confronto “senza preconcetti e senza ipotesi o schieramenti precostituiti, moltiplicando le occasioni di confronto e di riflessione sulle scelte che ci apprestiamo a fare, lavorando nel comune interesse, tutti convintamente impegnati a salvaguardare il bene primario della unità della nostra associazione”. Il senso è chiaro: abbiamo un anno per dibattere internamente ma arriviamo compatti a Firenze, in quanto, ha ammonito il penalista, “smarrire questa unità sarebbe un atto di debolezza insensato ed imperdonabile”. Dunque possibilmente no a candidature contrapposte, evitiamo di ricreare l’arena che ha visti contrapposti nel 2018 lui e Renato Borzone. Ma chi potrebbe essere quella figura intorno alla quale convergere senza troppi malumori generali? Dovrebbe essere una persona che fa la staffetta nella stessa squadra di Caiazza, o potrebbe essere anche qualcun altro per una fase di ricambio? Sono quasi tutti consapevoli che è impossibile trovare un “copia e incolla” di Caiazza. In molti dicono che “non esiste uno con il suo carisma, cerchiamo una figura completamente diversa con altre caratteristiche peculiari”. Il nome che più risuona tra i penalisti che abbiamo ascoltato ufficiosamente è quello di Francesco Petrelli, già segretario dell’Ucpi e direttore della rivista Diritto di difesa. Ovviamente al momento i ragionamenti sono in una fase embrionale, manca ancora un anno appunto e tutto può cambiare. E poi non dimentichiamo che il prossimo presidente dovrà dialogare e confrontarsi con il nuovo ministro della giustizia, che ancora non conosciamo, e con il nuovo Parlamento. Un elemento non da poco per la scelta del successore di Caiazza. Comunque adesso nessuna (auto)candidatura ufficiale. Ci si scambia opinioni, si cominciano a predisporre strategie, si ascolta la base. Se Petrelli non fosse disponibile, potrebbe mettersi a disposizione nuovamente Beniamino Migliucci, già presidente dell’Unione. Sarebbe la prima volta di un bis alla presidenza. Proprio per questo, se è vero che da un lato il penalista di Bolzano può contare sulla stima di molti, dall’altra parte qualcuno ha iniziato a dire che sarebbe eccessivo il suo ritorno a Via del Banco di Santo Spirito 41 e che occorre invece un volto nuovo. E allora potrebbe essere messa sul tavolo la carta Cesare Placanica, past president della Camera Penale capitolina. Apprezzato molto anche lui, avrebbe però per alcuni un difetto: sebbene sia nato a Locri, verrebbe sempre da Roma, mentre invece altri reclamano un presidente fuori dal raccordo anulare. E allora altri due nomi potrebbero entrare in partita: l’avvocato Lorenzo Zilletti, fiorentino e responsabile del Centro studio dell’Ucpi Aldo Marongiu, e Vittorio Manes, Ordinario di diritto penale all’Università di Bologna e Responsabile dell’Osservatorio Corte costituzionale dell’Ucpi. Entrambi figure di rilievo per il dibattito politico e culturale all’interno dell’Unione. Qualcosa si muove pure a Napoli dove si sta lavorando alla candidatura di una figura di spicco. Insomma di alternative a Caiazza in teoria ce ne sarebbero diverse e tutte a loro modo valide. Bisognerà capire nei mesi che verranno se l’appello di Caiazza all’unità dell’Unione sarà preso in seria considerazione o assisteremo ad una anche naturale movimentata corsa a due, che pure sarebbe divertente, almeno per un osservatore esterno. Allarme dell’antimafia: Aiuto, è sparita la mafia! di Tiziana Maiolo Il Riformista, 4 ottobre 2022 La Direzione Investigativa Antimafia (Dia) conduce indagini su Silvio Berlusconi, come mandante di stragi, da oltre trent’anni con grande impiego di forze e di denaro, e nonostante i fallimenti siano già stati tre. Lo si legge a pagina 6 della Relazione del secondo semestre del 2021 depositata due giorni fa al Parlamento. È scritto nelle stesse pagine in cui si spiega che la mafia non esiste più, per lo meno quella che l’articolo 416 bis del codice penale descrive come un’associazione di persone che “si avvalgono della forza di intimidazione”, dell’assoggettamento e del controllo del territorio. E che usavano anche la violenza come forma di intimidazione. Oggi esistono sostanzialmente comitati d’affari che preferiscono fare accordi piuttosto che estorsioni e minacce. E gli uomini della Dia corrono il rischio di restare disoccupati. Ma hanno trovato un nuovo lavoro, che altro non è se non il rafforzamento di quello iniziato da oltre trent’anni, cioè da un periodo di poco successivo ai giorni della nascita, nel 1991, dell’Agenzia investigativa. Non c’è più la mafia. “Tuttavia - si legge nella relazione - malgrado la più attuale linea d’azione di Cosa nostra sia quella di ridimensionare il ricorso alla violenza…la Dia, attraverso le sue articolazioni centrali e territoriali, già da tempo, sta eseguendo mirate attività investigative sulle ‘stragi siciliane’ del 1992 e sulle cd. ‘stragi continentali’ del 1993-1994, su input di specifiche deleghe ricevute dalle competenti Autorità giudiziarie del territorio nazionale”. “Complessivamente - si conclude - da oltre 30 anni, sono impegnate in tali indagini le risorse di ben cinque Centri Operativi e del II Reparto”. Un intero reparto dunque, quello talmente importante da essere segnalato come fondamentale per “l’evasione delle numerosissime deleghe assegnate dalle Procure distrettuali”. E “ben”, come dicono gli autori della relazione, cinque Centri Operativi. Tutti impegnati con grande dispendio di mezzi, uomini e denaro contro un unico obiettivo. Naturalmente non c’è il nome di Berlusconi, e neppure quello di Dell’Utri, nella relazione ufficiale. Tanto ci pensano i giornalisti amici, ad allungare il brodo, nel corso degli anni. Con decine di articoli, che spaziano dal Fatto a Domani. Ma nel documento della Dia non sono neppure menzionati i fallimenti precedenti. C’è da chiedersi se in Parlamento qualcuno le legge, queste relazioni, e se a qualcuno verrà mai in mente di interrogare il Ministro dell’Interno per visionare quanto meno i bilanci della Dia. Per non parlare del Csm, sempre pronto a “perdonare” i numerosi flop delle fallimentari inchieste di mafia. Qualcuno ricorda ancora le indagini condotte dalla procura di Palermo su “M” e “MM”? E quelle di Caltanissetta su “Alfa” e “Beta”? E poi a Firenze l’inchiesta su “Autore 1” e “Autore 2”? Le sigle coprivano maldestramente sempre i nomi di Berlusconi e Dell’Utri. Tutte archiviate, spesso su richiesta dello stesso pm. Carta straccia. E io pago! Dobbiamo ripeterlo più spesso, che questi magistrati e questi investigatori con le loro fantasie fanno pagare ai cittadini, anche in senso materiale, il prezzo dei loro errori, delle loro incapacità, dei loro furori politici. Giusto per non ripetere la solita tiritera dei fratelli Graviano, sentite che cosa è successo ieri mattina a Reggio Calabria. Il procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo ha illustrato in un’aula di giustizia un’informativa della Dia (si, la solita Dia) su dichiarazioni di “pentiti” che chiamavano in causa esponenti politici e i loro presunti rapporti con uomini della ‘ndrangheta. Barzellette, cui un imquindi portante uomo dello Stato in toga, pare dare credito: Craxi e Berlusconi a un summit in un agrumeto con la ‘ndrangheta. L’episodio risalirebbe ai giorni successivi all’assassinio di Aldo Moro, quindi nel 1978. I due sarebbero andati a questo vertice di mafia nella piana di Gioia Tauro, “presso l’agrumeto di tale Peppe Piccolo”. Lo racconta il “pentito” Girolamo Bruzzese, che sostiene di aver riconosciuto il personaggio politico e l’imprenditore brianzolo “per averli già visti in televisione”. Un po’ strano, non risulta che Berlusconi, impegnato solo nelle sue attività imprenditoriali, fosse spesso in televisione in quei giorni. Comunque il ragazzo fu subito, all’arrivo dei due, fatto allontanare dal padre su suggerimento nientemeno che di Peppe Piromalli, il boss dei boss. Il racconto prosegue nel ricordo che, anni dopo, il padre di Bruzzese gli avrebbe spiegato che “Craxi e Berlusconi si sarebbero recati al summit perché Craxi voleva lanciare politicamente Berlusconi e per concordare un appoggio anche da parte delle cosche interessate alla spartizione dei soldi che lo Stato avrebbe riversato nel mezzogiorno”. I due avrebbero alloggiato nel miglior albergo di Vibo Valentia, “penso in incognito”. Ricapitolando: il segretario di uno dei principali partiti italiani, che durante il rapimento Moro si era posto in particolare evidenza contro il “partito della fermezza” costituito da democristiani e comunisti, avrebbe avuto la bella pensata di andare a raccomandare a Piromalli un imprenditore brianzolo per farlo entrare in politica e garantirgli un po’ di voti mafiosi con l’impegno di investimenti per il sud. E avrebbe alloggiato nel miglior albergo di Vibo in incognito. Ma dottor Lombardo, lei crede davvero a queste scemenze? Poi lo statista “pentito” Bruzzese spiega al colto e all’inclito che i corleonesi Riina e Provenzano si erano contrapposti alle famiglie mafiose palermitane dei Badalamenti-Inzerillo Bontate, perché “non accettavano più la politica di Craxi e Andreotti di contrapposizione agli Stati Uniti; questa politica era avversata dagli americani, ma soprattutto non andava bene a Licio Gelli, molto amico di Peppe Piromalli”. Ecco il cerchio che si chiude, mancavano solo Gelli e la P2. Se non c’è il fantasma di Aldo Moro, in quell’aula di Reggio Calabria però c’è quello di un ulteriore “pentito”, morto nel 2014, ma che aveva reso dichiarazioni spontanee alla polizia penitenziaria del carcere di Alessandria nel 2009. Ci racconta il procuratore aggiunto, che questo Gerardo D’Urzo aveva parlato di un certo Valensise, che a quanto pare non è stato identificato, che con un altro esponente della ‘ndrangheta della jonica era andato a Roma e aveva avuto “un colloquio a Palazzo Grazioli con l’onorevole Silvio Berlusconi e questi gli disse al Valensise che quello che aveva promesso lo manteneva e dovevano stare tranquilli”. Eccetera. Così sono fatte le inchieste di mafia. Interverrà mai qualcuno in Parlamento o al governo o al Csm per mettere fine a queste vergogne? Intanto gli armamenti pesanti della Dia continuano a indagare con questi metodi, nell’attesa che la procura di Firenze, quella che indaga per strage Berlusconi e Dell’Utri, decida, entro dicembre, se chiedere un processo o procedere all’archiviazione. Sarebbe il quarto flop, dopo trent’anni. Ercole Incalza assolto per la diciassettesima volta: “In Italia chi fa rischia” di Ermes Antonucci Il Foglio, 4 ottobre 2022 Intervista all’ex super dirigente del Ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti dopo l’ennesima assoluzione: “Questa giustizia scoraggia chi gestisce la pubblica amministrazione a rimanerci”. Si è concluso con una raffica di assoluzioni (venti imputati su ventisette) il processo sulle presunte tangenti nell’ambito del cantiere del Terzo Valico. Alla fine, a essere condannati sono stati solo sette imputati, con una pena massima a un anno e tre mesi. Tutti gli altri assolti “perché il fatto non sussiste”. Tra questi, per l’ennesima volta, Ercole Incalza, per quattordici anni super dirigente del ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti (un tempo dei Lavori pubblici), con 7 governi diversi e 5 ministri di ogni schieramento. “Ingegnere, secondo alcuni calcoli per lei si tratta della diciassettesima assoluzione su diciassette processi, è così?”. “Sì, anche se forse sono di più, ho smesso di contarle”, risponde Incalza al Foglio. “Questa collezione di assoluzioni senza dubbio dimostra che la giustizia funziona - aggiunge - ma al tempo stesso scoraggia chi gestisce la pubblica amministrazione a rimanerci. E’ facile che prendano corpo delle denunce, molte volte anche degli attacchi da parte di schieramenti politici, e che quindi si diventi involontariamente martiri. Fortunatamente poi arriva la giustizia, anche se il tempo costituisce un fattore importante. Ci sono casi in cui un processo dura non uno o due anni, ma anche dieci anni. E poi, a dispetto di quanto si dica, cioè che si è innocenti fino a sentenza definitiva, la verità è che in Italia è sufficiente un rinvio a giudizio per essere immediatamente allontanati dal sistema”. “I miei colleghi attuali farebbero bene a essere molto attenti ad assumere decisioni, perché in Italia fare significa rischiare”, afferma Incalza. Le diciassette (o più) assoluzioni sono il risultato di quanto fatto da Incalza nel corso degli anni trascorsi al ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti: “Se lei oggi va in stazione - ricorda Incalza - trova ogni venti minuti un treno ad alta velocità che la porta a Milano, a Roma o a Firenze. Se va nel raccordo anulare di Roma trova tre corsie, non due come era fino al 2004. Le potrei citare anche il passante di Mestre, l’autostrada Palermo-Messina, la Catania-Siracusa, la Salerno-Reggio Calabria. Opere che sono state fatte e che si utilizzano. Poi il blocco, la fine, a causa della riforma del codice degli appalti e delle scelte dei governi”. Qui la riflessione di Incalza si fa più ampia, fino a riguardare i miliardi di finanziamenti provenienti dall’Unione europea per le opere infrastrutturali nell’ambito del Pnrr. “Dopo due anni e mezzo di Pnrr non è ancora partito nessun cantiere”, denuncia Incalza. “Le risorse sono state utilizzate solo per le opere già in corso, cioè quelle previste dalla Legge Obiettivo del 2001. In questi due anni e mezzo abbiamo avuto solo annunci. Nei fatti però, se non ci fosse stato il superbonus del 110 per cento, il mondo delle costruzioni sarebbe rimasto fermo. Negli ultimi otto anni sono fallite 120 mila imprese e abbiamo perso 600 mila posti di lavoro nel settore edile. Sono dati che fanno paura”. Quali i fattori principali di questo immobilismo? “In primo luogo la scelta dei governi di utilizzare le risorse in conto esercizio e non in conto capitale. Lo stato ha preferito sborsare 35 miliardi di euro all’anno per coprire il bonus di 80 euro, quota 100, il reddito di cittadinanza, anziché investire in infrastrutture. Quante volte invece abbiamo sentito parlare di cantieri aperti? Ricordo quando il premier Conte parlò dell’apertura di cantieri per 120 miliardi di euro”. “Il presidente Draghi ha avuto il merito di mettere fine a questo spazio della superficialità”, prosegue Incalza. “Grazie alle riforme del governo Draghi siamo riusciti almeno a ricevere le prime due tranche delle risorse europee. Ora però l’Ue non guarderà più la parte riguardante la programmazione delle riforme, ma quella dell’avanzamento dei lavori”. Vista la situazione, per Incalza sarebbe opportuno apportare modifiche al Pnrr: “Rivederlo significa raccontare la verità e dire che purtroppo alcune delle opere previste non potranno essere realizzate nei tempi previsti. Dobbiamo ammettere lo stato dell’arte in cui siamo e cercare di distinguere ciò che saremo in grado di fare entro il 31 dicembre 2026. Ricordo che disporremo del nuovo codice degli appalti, che si sta scrivendo, solo alla fine del 2023”. Rivedere il Pnrr, dunque, per poi procedere rapidamente alla realizzazione delle opere. Anche perché a vigilare sul rispetto degli impegni non sarà soltanto Bruxelles. “Un fatto molto positivo, di cui va dato atto al ministro dell’Economia e delle Finanze Daniele Franco e alla Ragioneria dello stato, è stata l’istituzione del Regis, un sistema che consente e consentirà il monitoraggio e il controllo sull’avanzamento dei cronoprogrammi previsti”, sottolinea Incalza. Un “cervellone” che sarà lasciato in eredità dal governo Draghi ai futuri esecutivi. Palermo. Detenuto morto in cella al Pagliarelli: disposta l’autopsia di Anthony Maria Bianca libertasicilia.it, 4 ottobre 2022 Una morte sospetta. Trovato privo di vita all’interno della cella nel carcere di Palermo, il giovane di Canicattini Bagni, Paolo Cugno rinchiuso nel penitenziario in quanto condannato a 30 anni, in via definitiva, per l’omicidio della compagna 20enne Laura Petrolito, commesso nel marzo del 2018. In via del tutto eccezionale è stata disposta dal pubblico ministero l’autopsia sul corpo del giovane, una prassi che non è scontata per questo genere di accadimenti nelle carceri. Vi sono dei dubbi sulle modalità e sulle tempistiche della morte di Cugno, che potrebbero anche lasciar supporre non ad un suicidio ma bensì ricondurre l’indagine ad un presunto caso di omicidio che verrà presumibilmente accertato dall’esame autoptico. Paolo Cugno fu condannato a 30 anni di carcere, in via definitiva, per l’omicidio di Laura Petrolito che avvenne in un appezzamento di terreno, in contrada Tradituso nel siracusano, di proprietà della famiglia dell’imputato. Sedici coltellate inferte sul corpo della giovane vittima, poi gettata in un pozzo artesiano. All’epoca dei fatti la Corte di Cassazione ebbe a ritenere inammissibile il ricorso presentato dal legale dell’imputato, Carlo Taormina, con cui si chiedeva di prendere in considerazione l’incapacità di intendere e di volere del proprio assistito. Proprio sulla perizia psichiatrica, condotta durante l’arco del processo, l’avvocato Titta Rizza, difensore dell’omicida, si interroga attualmente affermando che già in quel tempo vi erano delle perplessità sugli esiti delle analisi circa la capacità d’intendere del giovane Cugno. Infatti il 32enne in anni antecedenti all’omicidio era già stato sottoposto ad un Trattamento Sanitario Obbligatorio (Tso) e addirittura gli sarebbe stata diagnostica una forma di schizofrenia. Oltretutto il giovane Paolo Cugno era noto alle forze dell’ordine per vari reati tra cui furto di attrezzi agricoli e addirittura un’aggressione perpetrata nei riguardi di un 19enne ed effettuata tramite l’uso di una motosega. Tale condotta gli valse un’accusa per lesioni aggravate e i successivi immediati arresti domiciliari. Insomma, adesso, un epilogo sospetto e non resta che attendere i risultati della perizia autoptica che farà luce sulla misteriosa morte di Paolo Cugno. Velletri (Rm). Approda in carcere “Seconda Chance”, ponte tra imprenditori e detenuti di Maria Sole Lupi castellinotizie.it, 4 ottobre 2022 Già coinvolte imprese di Frascati e Monte Porzio video. Ha fatto parlare giornali, dagli online alla carta stampata, ha messo in contatto decine di aziende da tutta Italia con numerosi Istituti detentivi del Lazio e oltre, ha creato ponti nei territori, stretto legami tra centinaia di imprenditori e imprenditrici con detenuti ed ex detenuti e concesso loro opportunità di riscatto attraverso il lavoro sulla base dei benefici della Legge Smuraglia, che premia le aziende disposte ad agevolare il reinserimento lavorativo dei detenuti a fine pena e incamminati lungo un sentiero virtuoso, con risparmi sulla tassazione e sui contributi previdenziali delle imprese. E’ questo “Seconda Chance” , il progetto ideato e gestito da Flavia Filippi (giornalista Tg La7) assieme a Alessandra Ventimiglia Pieri (documentarista) e Beatrice Busi Deriu (imprenditrice delegata per il territorio dei Castelli romani) che da Roma- nel giro di un anno- si è esteso a macchia d’olio coinvolgendo prettamente diverse realtà laziali fino ad altre regioni comprese le Isole ed ha concesso opportunità di lavoro a decine di detenuti in strutture ricettive, ristorative, alberghiere ma anche centri sportivi e centri stampa-grafica, nel settore edile e della logistica e movimentazione merci. Per chi non la conoscesse, la legge Smuraglia (Legge n. 193/2000) favorisce le attività lavorative dei detenuti all’esterno offrendo alle imprese notevoli sgravi fiscali e contributivi, come l’incentivo sul credito di imposta pari a oltre 500 euro. In pratica, è una legge che da un lato aiuta gli imprenditori e le imprenditrici abbattendo il costo del lavoro e dall’altro lato incentiva il reinserimento sociale dei detenuti “in articolo 21”, ossia coloro che - secondo l’Ordinamento Penitenziario - rientrano nei requisiti del lavoro all’esterno, avviandosi al fine pena, distintisi per buona condotta e per attività formative e lavorative interne, che secondo l’area educativa e della direzione carceraria sono perfettamente reinseribili nella società e, dunque, degni di fiducia per lasciare le celle e farvi rientro al termine della giornata lavorativa, previa autorizzazione della competente autorità giudiziaria. Martedì 27 settembre il progetto ha fatto tappa alla Casa Circondariale Velletri, dopo esservi approdato già da mesi in altre occasioni. Nella mattinata l’attivazione di 5 colloqui con due imprenditori dell’area del Sud Pontino titolari di un’azienda di Sabaudia - il vivaio Agricirce - e con un’imprenditrice dei Castelli Romani titolare dell’azienda agricola di Frascati Erba Regina, la quale è famosa nella zona per la sua coltivazione di erbe aromatiche ed erbe spontanee con cui fornisce i migliori chef stellati. È proprio quest’ultima che sembrerebbe orientata ad assumere un detenuto che ha già esperienza come manutentore e cura del verde nel suo passato lavorativo all’esterno e all’interno delle mura carcerarie, manifestando prontamente di procedere con la documentazione per la richiesta di assunzione con tutte le specifiche riguardanti la tipologia di lavoro, gli orari e la durata, tramite contratto nazionale agricolo per un massimo di 38 ore settimanali. I contratti iniziali di prestazione lavorativa sono in genere superiori ai tre mesi, sotto i quali non possono scendere. La nostra intervistata Beatrice Busi Deriu - anch’essa imprenditrice, titolare dell’azienda di Monte Porzio Ethicatering- e ambasciatrice di Seconda Chance nei Castelli Romani, ci racconta l’ impressione che raccoglie dai detenuti in questo progetto: “ad ogni colloquio percepisco un enorme ringraziamento da parte loro a prescindere dagli esiti del colloquio nonché una grande volontà di reinserirsi “ e, a sua volta, tiene a ringraziare la responsabile dell’area socio pedagogica del carcere di Velletri, Sabrina Falcone, per l’impegno profuso nel progetto selezionando i detenuti in possesso dei requisiti di legge per il lavoro all’esterno. Infine, la dott.ssa Deriu annuncia il suo ultimo progetto portato avanti nella sua azienda di organizzazione di eventi etici, in particolare matrimoni. Il titolo: “Piantarla… si può” mira ad aggiungere un altro elemento etico negli addobbi di Ethicatering per gli eventi e matrimoni: le piante aromatiche provenienti dalle serre coltivate dai detenuti del carcere di Velletri. Grandissima soddisfazione espressa da Beatrice Busi Deriu durante la nostra video-intervista per l’attività di volontariato che svolge al seguito della giornalista Flavia Filippi e Alessandra Ventimiglia Pieri, che così dichiara: “Ogni volta ti accorgi che stai sostenendo un progetto virtuoso mettendo in contatto imprenditori che hanno bisogno di personale, facendo il bene di entrambe le parti. È questo lo sprono principale che ci motiva ad essere volontarie”. Un appello dunque per le imprese dell’area Castelli Romani e del Lazio a conoscere i benefici della Legge Smuraglia dal punto di vista dell’abbattimento del costo del dipendente e, al tempo stesso, contribuire al reinserimento sociale di chi si appresta ad uscire da un periodo di detenzione. Teramo. “Linguaggi della creatività”, gli studenti incontrano i detenuti di Castrogno ilmartino.it, 4 ottobre 2022 Gli studenti delle classi quinte dell’IIS “Alessandrini-Marino” di Teramo lo scorso venerdì 23 settembre hanno partecipato alla premiazione del concorso letterario dedicato all’ “Incontro con l’altro”, presso la sala teatro della Casa Circondariale di Castrogno, dove hanno dialogato con i detenuti. Venerdì 23 settembre 2022, presso la sala teatro della Casa Circondariale di Castrogno, si è svolta la premiazione della Seconda Edizione del Concorso letterario “Linguaggi della creatività” dal titolo “Incontro con l’altro” riservato ai detenuti ristretti presso la struttura, che hanno dialogato con gli studenti. Sono stati presenti alla cerimonia, oltre alla Direzione del carcere, l’Assessore comunale Antonio Filipponi (in rappresentanza del Comune di Teramo), Gino Mecca (per la Fondazione Tercas), Teresa Mazzarulli (in rappresentanza del Garante dei detenuti d’Abruzzo Gianmarco Cifaldi), Mustapha Batzami (in rappresentanza della Comunità islamica) e la Commissione esaminatrice degli elaborati. All’evento hanno partecipato anche circa trenta studenti delle Scuole superiori, di cui quindici delle classi 5B e 5C - Indirizzo Informatica dell’I.I.S. “Alessandrini-Marino” di Teramo, accompagnati dal Prof. Settimio Acciaio. La premiazione, dai risvolti semplici ma intensi, ha visto inizialmente la consegna dei premi alle sezioni maschili con la lettura/illustrazione degli elaborati (prosa, poesia arti figurative) e della relativa valutazione. Molto forte e coinvolgente è stata l’attenzione degli studenti che hanno poi posto domande ai detenuti, creando così le condizioni di una commossa e reciproca condivisione. Successivamente la Commissione ed alcuni allievi si sono recati presso la Sezione femminile che è staccata rispetto alla struttura principale. L’esperienza è stata molto forte per tutti i partecipanti, in modo particolare per gli studenti, che hanno avuto la possibilità di entrare a contatto con una realtà spesso ignorata dalla Società. Il Garante dei detenuti d’Abruzzo Gianmarco Cifaldi, che ha seguito tutte le varie fasi organizzative dell’iniziativa, ha espresso grande apprezzamento sia per la partecipazione degli studenti, come momento di Educazione alla legalità, sia per i detenuti come apertura al mondo esterno per un attivo reinserimento sociale. Pavia. “Un povero gabbiano” il podcast che dà voce ai detenuti di Maria Grazia Piccaluga La Provincia Pavese, 4 ottobre 2022 “Poveri Gabbiani e altri Podcast” è un progetto europeo radiofonico che cerca di dare voce a chi non ce l’ha. Racconta il percorso di una serie di trasmissioni presenti sulle piattaforme audio più note, tra cui Spotify, e sul sito Sharad. Se ne parlerà mercoledì, alle 17, nel salone Teresiano della Biblioteca Universitaria di Pavia. Vanna Jahier, fondatrice e anima dell’associazione Amici della Mongolfiera presenterà Un povero Gabbiano, testo teatrale che Marco Bianciardi ha riadattato da un racconto di Kazuo Ishiguro. Un radiodramma che ha come protagonisti una decina di detenuti della casa circondariale di Torre del Gallo di Pavia. Nel 2021 gli Amici della Mongolfiera hanno aderito al progetto europeo Sharad (che gode del sostegno del programma Erasmus plus) in collaborazione con altri partner europei: Istituto Cossa, Share Radio Milano, Almada Mundo dal Portogallo, Théâtre de l’Opprimé dalla Francia e Sigma dalla Romania. Gli Amici della Mongolfiera hanno pensato di dare vita a uno spettacolo teatrale che, gioco forza, utilizzasse solo la voce, dopo aver ottenuto l’autorizzazione della direttrice della casa circondariale Stefania D’Agostino. Mercoledì Vanna Jahier, Vincenzo Cammarata (regia tecnica), Marco Bianciardi e Lisa Lanfranchi (già volontaria dell’associazione, poi impegnata nel servizio civile) racconteranno la costruzione del progetto. Al termine sarà mandato “in onda” un frammento di quanto realizzato e i saluti gli attori che, essendo detenuti, non potrebbero altrimenti partecipare. Lidia Acquaotta, docente di lettere dell’Istituto Cossa, capofila del progetto, racconterà la sua esperienza facendo intervenire anche gli studenti che hanno contribuito, e i docenti, sia quelli impegnati in carcere sia quelli delle scuole serali. Un altro partner del progetto è Share Radio: attraverso le parole dell’autrice radiofonica Anais Poirot Gorse, spiegherà cosa vuol dire fare un podcast negli anni Duemila e perché se ne fanno tanti. Interverranno, inoltre Eleonora Salvadori, esperta della costruzione e gestione di progetti europei nell’ambito umanistico, linguistico e sociale, e Letizia Prestia, funzionario pedagogico alla Casa Circondariale di Pavia per sottolineare quanto queste iniziative siano utili per i detenuti e per il loro reintegro nella società, rimarcando le difficoltà che comporta realizzare simili progetti e come si possano inserire in una cooperazione internazionale. Como. Nel carcere e sulle strade: il quarto episodio del podcast su don Roberto Malgesini di Martina Toppi laprovinciadicomo.it, 4 ottobre 2022 Le tre puntate precedenti, con le voci di chi ha conosciuto da vicino il prete di tutti, ucciso a coltellate in San Rocco, hanno raccolto 34 mila ascolti. Nel nuovo episodio seguiamo il filo della speranza che questo prete donava a chi era senza. Nel carcere di Como scrivere un libro è impossibile, ma Zef Caraci, anno 1983, in cella dall’età di 22 anni, ce l’ha fatta. La sua forza è stata la speranza, un filo sottile e luminoso teso tra lui e don Roberto Malgesini, che oltre quelle sbarre ha saputo tendergli la mano e dirgli: “Io non ti abbandono”. La stessa speranza di chi dorme per la strada e ancora stringe tra le mani una sua fotografia, perché l’omicidio del prete che sapeva scrivere fuori dai margini non è stata una fine, semmai l’inizio di una storia che continua tuttora. Seguendo questo filo il nuovo episodio di “Scriveva fuori dai margini”, un podcast esclusivo de La Provincia, ci addentriamo nella Como che soffre, dietro le sbarre e sul freddo asfalto. Lì dove la disperazione rischia di dilagare è bastato un uomo solo per portare speranza. “Uno in carcere ti racconta la sua vita - racconta Zef Caraci - e quindi non è facile ascoltare, ma da don Roberto Malgesini ho imparato l’arte di stare in silenzio, che non vuol dire stare zitti, ma abbracciare l’altro, farsi carico del suo male e delle sue sofferenze. Don Roberto mi ha reso libero, mentre ero in cella”. La storia di questo prete straordinario che ha segnato la città di Como non finisce con la sua morte, violenta, ingiusta, capace di lasciare chiunque senza parole, ma continua lungo quel filo luminoso che ha saputo srotolare in ogni luogo. “Per strada si sente ancora parlare di lui - testimoniano Filippo De Rosa e Mattia Molteni del gruppo Legami, che scende in strada per assistere i più poveri - spesso mi è capitato di vedere persone con la sua foto nel taschino: sono fiere di aver conosciuto quest’uomo”. E che abbiate incrociato la sua strada o meno, quando camminava per le vie di Como, una possibilità vi rimane: conoscere la sua storia attraverso le voci di chi ancora porta con sé quel filo prezioso. E poi raccontarla, perché solo ascoltandoci a vicenda, come lui ha insegnato, possiamo riuscire a sentirci meno soli. Per ascoltare il podcast: https://www./stories/como-citta/nel-carcere-e-sulle-strade-il-quarto-episodio-del-podcast-su-don-roberto-a_1440620_11/ Non serve più carcere, ma fare meglio nel carcere che c’è di Massimo Ferrarini glistatigenerali.com, 4 ottobre 2022 “Il carcere è un luogo che non ha appartenenza. Che non ha riconoscibilità. Esiste ma rimane fuori dalla nostra percezione. Se dovessimo disegnare la mappa di una città, pochissimi si ricorderebbero del carcere. Ci metteremmo magari l’ospedale, il tribunale, la scuola, il parco giochi, ma difficilmente ci ricorderemmo del carcere”. Con queste parole Cosima Buccoliero cerca di farci riflettere sulla condizione del sistema penitenziario nel nostro Paese. È stata a lungo vice direttrice e poi direttrice del Carcere di Milano Bollate, vice direttrice della Casa di reclusione di Opera a Milano, mantenendo anche la guida dell’Istituto penale minorile di Milano Cesare Beccaria. Il suo libro “Senza sbarre” storia di un carcere aperto, scritto con la collaborazione di Serena Uccello, giornalista de Il Sole24Ore, ci racconta la storia del carcere di Bollate, il carcere “modello” che nel 2021 ha compiuto 20 anni. Un carcere dove la recidiva delle persone che ne escono è pari al 17% rispetto al 70% della media nazionale. L’obbiettivo principale rimane il recupero, perché il recupero equivale a una bassa recidiva e una bassa recidiva equivale a una società più sicura. Secondo Buccoliero, non servono più carceri, né più carcere, ma bisogna occuparsi meglio del carcere che c’è. Il libro, è ricco di testimonianze e di aneddoti, situazioni critiche, episodi violenti, le malattie, la popolazione carceraria che invecchia, gli amori nati in carcere, la questione migratoria, giovani donne che devono affrontare il percorso trattamentale di detenute e di madri, solo per citarne alcune. Ti fa entrare in un mondo sconosciuto, verso il quale si nutrono molti pregiudizi, leggerlo fa riflettere, non ha la presunzione di distruggere luoghi comuni, ma ci porta a conoscere una realtà oscura, lontana, che nemmeno immaginiamo; ecco già conoscerla è un risultato. Ho avuto la fortuna di conoscere Cosima Buccoliero molti anni fa e di avviare insieme ad una cooperativa un’attività lavorativa all’interno del carcere. Ci siamo persi di vista per molto tempo, l’attività ha continuato a funzionare, un successivo incontro molti anni dopo per un’intervista su questo stesso giornale, trovo una persona ancora più motivata che subito dopo ha dovuto gestire il carcere con il Covid, dirigere un carcere in una situazione di emergenza fa esplodere difficoltà che sono intuibili. C’è la paura del contagio quindi l’angoscia di un focolaio. Torna alla ribalta il problema del sovraffollamento carcerario, significa che una camera, una cella che è stata costruita per ospitare cinque persone, in realtà ne ospita dieci. Lo stesso Covid le ha impedito di ritirare materialmente l’Ambrogio d’oro, un riconoscimento da lei stessa considerato un premio collettivo, perché la candidatura giungeva dal mondo penitenziario. Un solo appunto: il libro è troppo corto, dura poco, ma se si legge con trasporto e attenzione è un libro breve, ma lungo. Con il caro cibo, salute a rischio di Giorgio Calabrese La Stampa, 4 ottobre 2022 Se è vero che l’uomo è ciò che mangia è altrettanto vero che diventa cagionevole di salute fino ad ammalarsi, anche a causa di quello che non mangia. Ebbene sì, la crisi energetica ha impattato drammaticamente anche sul prezzo del cibo al punto tale che, a causa dei prezzi esorbitanti, in massa si negano l’acquisto di frutta, verdura ma anche altro. Insalate vendute a cespo e non a chilo, pomodori a 12 euro, finanche a 17 euro, fagiolini a 8 euro, ecc., per un reddito medio, proibitivo comprarli quotidianamente. Per conseguenza la gente che non guadagna abbastanza è costretta a nutrirsi con cibo low cost con minore qualità e pochi nutrienti. Tutto ciò sfocerà in una maggiore probabilità, se non in una certezza, di ammalarsi. Le spese sanitarie sono già cresciute a causa della pandemia e in questo modo l’esborso può lievitare fino all’insostenibilità. Per prevenire l’insorgenza di malattie, occorre una giusta alimentazione a prezzi equi, almeno per i cibi essenziali alla buona salute. Nel luglio del 2020 è stato pubblicato il report annuale della Fao, Lo stato della sicurezza alimentare e della nutrizione nel mondo, nel quale si legge che, se la popolazione mondiale adottasse una dieta meno ricca in grassi e zuccheri in 10 anni la spesa globale nella sanità crollerebbe del 95%. Secondo i dati Fao, tre miliardi di persone nel mondo non possono permettersi un’alimentazione sana e nutriente. Un sistema alimentare equilibrato e globale dovrebbe proteggere i prodotti alimentari, come frutta e verdura, rendendoli più disponibili. La richiesta di prodotti vegetali è molto cresciuta a causa di mode alimentari come il crudismo, il vegetarismo, il veganismo che portano al quasi esclusivo o comunque preponderante consumo di vegetali ciò li rendere costosi come carni, pesci e formaggi. L’alta deperibilità degli ortaggi pone numerosi problemi di conservazione e trasporto, che per la loro inefficienza possono generare enormi sprechi, contribuendo all’aumento di prezzo. La Coldiretti sottolinea che il costo di frutta e verdura aumenta anche a causa degli eventi climatici estremi, che stanno rendendo sempre più difficoltoso il lavoro degli agricoltori, i cui raccolti vengono sempre più spesso distrutti da piogge intense o minacciati dalla siccità, come è successo questa estate in Italia. Giusto quindi sostenere il settore ma monitorando l’intera filiera e individuare i “trigger point” per capire dove i prezzi si impennano e porre le corrette misure. A tutto ciò va ancora aggiunto il costo nascosto, relativo alla perdita di salute. Delle verdure e della frutta non possiamo fare a meno per l’introduzione corretta di vitamine e Sali minerali, ma a prezzi etici. Nello studio, l’attuale dieta mondiale è sintetizzata sulla base di una media dei consumi alimentari di 157 paesi e comprende un consumo pro capite giornaliero di 100 grammi di carne (tra pollo, manzo, agnello e maiale), 243 grammi di uova e latticini, 297 grammi di cereali, 354 grammi di frutta e verdura, 50 grammi di zucchero, 28 grammi di olio e 134 grammi di radici e legumi. Ciò che mangiamo è in diretto rapporto con i costi ambientali e sanitari del Paese. L’attuale alimentazione poco salutare mediamente diffusa a livello globale è anche “la principale causa delle malattie non trasmissibili” come diabete, patologie cardiovascolari, cancro, obesità e ictus, che rappresentano il 71% delle cause di morte nel mondo. Se poi si aggiunge questo ulteriore elemento del caro frutta, verdura, ma anche di carni ed altro, ci accorgiamo di quanto allarmante sia la prospettiva futura della salute sociale. Sicuramente il danno emergente sarà a carico dei fragili ma poi a cascata su tutti coloro che ridurranno o si priveranno dei giusti alimenti, cadendo nella malnutrizione. Un termine usato un tempo per il terzo mondo ma che ora, a malincuore, comincia ad appartenerci. Le politiche mirate a ridurre o calmierare il prezzo degli alimenti sani sono di primaria importanza e non più procrastinabili. Gli interventi possono essere di diverso tipo: incoraggiare la diversificazione delle coltivazioni e sostenerle, evitare o abbassare la tassazione sui cibi necessari, migliorare l’efficienza delle infrastrutture di irrigazione e delle tecnologie per ridurre gli sprechi. L’etica deve permeare la produzione, la qualità e la commercializzazione degli alimenti, per salvare la salute degli italiani e i conti dello Stato. Ucraina. Il cardinale Zuppi: “Dialogo a tutti i costi per avere la pace” di Ilaria Venturi La Repubblica, 4 ottobre 2022 L’intervista al presidente della Cei: “Trent’anni fa, a Sant’Egidio, fu firmata la pace in Mozambico dopo 17 anni di guerra civile. È un esempio da seguire”. Sembrava letteralmente impossibile dopo 17 anni di guerra civile, migliaia di morti, 4 milioni di profughi. Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, ricorda la difficilissima trattativa per arrivare alla pace in Mozambico, 30 anni fa. Cade oggi l’anniversario della storica firma per il cessate il fuoco tra l’allora presidente del Mozambico, Joaquim Chissano, e il leader della guerriglia, Afonso Dhlakama. Inevitabile il richiamo al conflitto in Ucraina dove il muro che impedisce la pace è sempre più alto, mentre Zuppi continua a crederla possibile: “L’unica vittoria è la pace”. Eminenza, il 4 ottobre del 1992 lei fu protagonista, da sacerdote, di quell’accordo siglato nei locali di Sant’Egidio a Trastevere. È la dimostrazione che la strada verso la pace è percorribile e può essere realistica anche nel conflitto in Ucraina? “Nel caso del Mozambico le negoziazioni durarono circa due anni. Entrambe le parti vollero realmente affrontare il problema e la Comunità di Sant’Egidio mediò il dialogo, perché è fondamentale un luogo neutrale. Non c’è una formula, però, ogni situazione è diversa. Bisogna disinquinare dall’odio, dalle speculazioni, dalla logica dei torti e delle ragioni, per trovare una grammatica comune, magari con le garanzie internazionali necessarie. Ma quella firma ha comunque rappresentato la fine della pandemia che aveva sconvolto il Paese per troppi anni, e ha il valore oggi di una grande indicazione. Ricordarlo ci fa accorgere della violenza che colpisce tanti Paesi e ci fa credere che la pace è sempre necessaria, ma anche sempre possibile”. Non ha mai vissuto in quella negoziazione momenti bui, come quelli attuali nell’escalation Russia-Ucraina? “Ci sono stati momenti di grandi difficoltà dovuti a logiche totalmente divergenti, la pace più volte è sembrata impossibile perché la logica era soltanto quella delle armi, una logica che non portava a nessuna vittoria e a nessuna sconfitta, ma alla paralisi del paese. A differenza dell’Ucraina dove si può pensare, erroneamente, che la pace sia data dal vincere la guerra con le armi, in Mozambico non c’era l’ipotesi di una vittoria militare: la pace era l’unica via possibile. Non è stato facile comunque tessere la via del dialogo, che richiede tempo e attenzione. Però è sempre possibile, bisogna crederci con forza. Noi fin dall’inizio abbiamo creduto che il denominatore comune fosse l’appartenenza all’unica famiglia mozambicana”. Il cardinale Piero Parolin all’Onu ha avuto un incontro deludente col ministro degli esteri russo Sergey Lavrov. Ogni proposta per individuare una via d’uscita viene respinta... “Non ho avuto ancora occasione di parlare con il cardinale Parolin. L’importante è capire che il primo passo per la pace può sembrare il più rischioso, ma è quello che porterà alla vera vittoria: la pace nella giustizia. Il Papa ha chiesto a Putin di fermare la spirale di violenza e di morte e a Zelensky di prendere in considerazione serie proposte di pace. Si tratterà di trovare la via giusta di composizione. Lo ha ricordato l’ex segretario di Stato americano Henry Kissinger: un dialogo, anche solo esplorativo, è essenziale in quest’atmosfera di guerra e nucleare. Ecco. oggi in Ucraina c’è bisogno di avviare il dialogo: fosse anche solo esplorativo, ma va avviato”. Il grido di Papa Francesco contro la minaccia nucleare è appena risuonato potente... “La grande domanda è che cosa dobbiamo aspettare, forse un’altra tragedia delle dimensioni dell’atomica per fermarci? La guerra ha una logica geometrica terribile, impone l’idea che la verità non esiste più e che non puoi tornare indietro. Questo è l’inganno del male che ti irretisce e ti trascina in un disegno di morte. Urgente è bloccare l’escalation, non possiamo permettere che l’uso di armi nucleari diventi convenzionale, che si normalizzi. In questo devono giocare un ruolo gli organismi internazionali. Bisogna ricreare nuova fiducia nella composizione pacifica e nel controllo internazionale su eventuali accordi, fiducia che ora non c’è”. Zuppi: “Non mettiamo a tacere il grido delle vittime” Lei ha appena celebrato il 78esimo anniversario dell’eccidio nazifascista a Monte Sole e ha detto che la guerra in Ucraina è la Marzabotto di oggi. Eppure la storia si ripete nella violenza... “Il grido di vita e di pace delle vittime non viene ascoltato dagli uomini, perché si abituano, lo mettono a tacere, pensano che riguardi altri. Le vittime ci ricordano, invece, che quello che è successo a loro può accadere anche a noi, perché non succede sempre agli altri. Il fratello di uno dei martiri di Marzabotto, don Ubaldo Marchioni, ha sempre parlato di perdono: altrimenti, diceva, si diventa uguali a quei tedeschi che ammazzavano per odio, pregiudizio, intossicazione ideologica. Non dobbiamo mai diventare così, altrimenti cominceremo a odiare pure noi”. L’accordo che serve tra culture e popoli di Dacia Maraini Corriere della Sera, 4 ottobre 2022 I capelli delle donne suscitano voglie peccaminose che portano disordine e caos. Con queste idee insensate che esprimono un primitivo totalitarismo patriarcale sono state uccise Mahsa Amini e Hadith Najafi. Nessuno si chiede il perché del velo obbligatorio per le donne. I relativisti pensano che sia una questione religiosa, una tradizione antichissima. La risposta è semplice: la copertura del corpo e della testa delle donne viene richiesta per non suscitare il desiderio maschile. Il che è abbastanza grottesco. È come ammettere che gli uomini sono incapaci di governare il proprio eros. Ma perché è considerato tanto pericoloso l’eros maschile suscitato dal corpo femminile? Forse il fatto che il sesso suggerisce libertà eversive? Agli uomini, che si presuppongono debolissimi e irresponsabili, è concessa una certa libertà sessuale, ma che avvenga nel campo dell’amore mercenario o predatorio. Fuori da quel campo lo si considera pericoloso perché il desiderio può trasformarsi in amore e l’amore è un sentimento ingovernabile e quindi da tenere strettamente sotto controllo. Le donne iraniane lo sanno bene e per questo si tagliano i capelli che, come scriveva san Paolo, sono un oggetto di seduzione rovinosa per il mondo maschile. I capelli delle donne suscitano voglie peccaminose che portano disordine e caos. Con queste idee insensate che esprimono un primitivo totalitarismo patriarcale sono state uccise Mahsa Amini e Hadith Najafi. La sola consolazione sta nelle immagini che in questi giorni riempiono i nostri teleschermi: donne che si tagliano i capelli in strada, che si strappano il velo e urlano la loro indignazione. Per tutti coloro che hanno sempre sostenuto il rispetto verso le usanze dei popoli, anche quando smentiscono ogni diritto umano; per tutti coloro che accusano di volere imporre i valori occidentali a chi non li capisce, queste sacrosante manifestazioni sono un monito. Certo, se pretendiamo che i nostri valori siano quelli cristiani che riguardano solo i Paesi occidentali, ci troveremo a fare la guerra culturale con le altre religioni, ma se partiamo dall’idea che esistono dei valori universali che nessuno può ignorare, possiamo trovare l’accordo fra le culture e i popoli. Esiste già una carta dei diritti universali, ma sembra che non valga la pena di battersi per difenderli. Ricordiamo che i diritti fondamentali partono da una idea sacrale della persona umana, che non può essere uccisa, abusata, torturata, umiliata e maltrattata. E in senso positivo che abbia il diritto alla vita, alla libertà individuale, all’autodeterminazione, a una esistenza dignitosa, alla libertà religiosa, alla libertà di pensiero, di parola e di movimento. Admir, Anna, Roya e i talenti che non sappiamo accogliere di Riccardo Luna La Repubblica, 4 ottobre 2022 Sul palco della Italian Tech Week in molti hanno spiegato che dovremmo rendere più facile la vita ai talenti, che vogliono venire da noi. Non ha potuto dirlo Roya Mahoboob, la prima e unica amministratrice delegata di una startup in Afghanistan. Quando negli anni ‘90 scoppiò la guerra in quella che era la Jugoslavia, Admir Masic aveva 14 anni e con la famiglia scappò in Italia. Aveva un talento per la chimica e la sua preoccupazione era: lì potrò studiare? Andò a vivere a Torino, finì la scuola e poi anche l’università. Era il migliore. Lanciò anche una startup, che applicava una tecnologia che aveva individuato con i suoi studi. Ma per l’Italia restava un profugo, uno straniero. Allora andò in Germania, dove lo accolsero a braccia aperte nel più importante istituto di ricerca, e da lì al MIT di Boston, dove oggi non solo insegna chimica ai migliori studenti del mondo, ma ha lanciato un progetto per far sì che anche in un campo profughi chi ha talento possa prendere la laurea del MIT gratis e così riscattarsi, garantendo un futuro migliore non solo a sé stesso ma alla sua comunità. Come ha fatto lui. Anna Petrova invece nel 2011 a Kiev ha fondato l’associazione delle startup ucraine: e quando è scoppiata la guerra in Danimarca ha lanciato un progetto per insegnare alle donne fuggite dalla guerra a fare impresa, perché, dice, quello è il modo migliore per assicurarsi un futuro. Da sette mesi aspetta che l’Italia le dia un visto. Sul palco della Italian Tech Week prima di loro in molti hanno spiegato che dovremmo rendere più facile la vita ai talenti, i cervelli avremmo detto una volta, che vogliono venire da noi. Non ha potuto dirlo Roya Mahoboob, la prima e unica amministratrice delegata di una startup in Afghanistan, che nel suo paese aveva lanciato un progetto per far sì che le donne potessero studiare informatica e diventare artefici del proprio futuro. Non ha potuto farlo perché non le abbiamo dato un visto e non glielo abbiamo dato perché volevamo il suo certificato di nascita, che lei, che sta a New York, non può produrre essendo scappata dal suo paese quando i talebani hanno preso il potere. In Italia non abbiamo un problema di invasione degli stranieri, abbiamo un problema di incapacità di accoglienza del talento. Il coraggio delle iraniane di Linda Laura Sabbadini La Repubblica, 4 ottobre 2022 La rivolta dell’hijab, da sostenere in tutto il mondo. “Donna, vita, libertà”, un bellissimo messaggio, forte e denso di significati. È lo slogan scandito dalle donne iraniane nelle manifestazioni in tante città italiane e del mondo. E anche dagli uomini. Ha un significato profondo, perché ricorda che non c’è vita senza libertà femminile. Narra più di ogni altro slogan quello che sta succedendo in Iran. La volontà di autodeterminazione delle donne che prorompe, che trascina tutti in un movimento di popolo per la difesa della vita e della libertà. Con alla testa le donne che non si piegano. È questa la caratteristica fondamentale dei movimenti delle donne e anche delle iraniane. Sono irresistibili, partendo da sé pongono al centro questioni vitali per la società intera, che riguardano la vita di tutti. Questa volta, i cosiddetti guardiani della religione e della moralità non hanno trovato sguardi di uomini compiaciuti o semplicemente inerti, ma la loro rabbia e le loro pietre. Perché gli stessi iraniani e in particolare i giovani hanno capito che se progredisce la libertà delle donne saranno liberi tutti. Ricordiamocelo. La lotta delle iraniane è una battaglia globale. Si estende. Le donne sono sempre le ultime ad ottenere diritti e le prime a vederseli soppressi, basta pensare agli Stati Uniti. Vogliono decidere del corpo delle donne. Le donne iraniane che affrontano senza paura il regime sono commoventi e ci pongono di fronte al dovere della solidarietà attiva. Loro ce lo chiedono con forza. “Italia dacci voce” urlavano nel corteo. Sì, dobbiamo dare loro voce in tutti i modi possibili. Con atti simbolici, come il taglio dei capelli, lanciato dalla Triennale di Milano e dal Maxxi di Roma. Con una mobilitazione permanente. Noi donne, con tutti i democratici e le persone libere di questo Paese. E dobbiamo essere solerti. Non possiamo lasciarle sole. Devono sentire il nostro sostegno, darà loro più forza nel combattere un regime teocratico crudele e senza scrupoli che ha quali sole armi la violenza e la morte. Dobbiamo anche essere coscienti di assistere ad un fatto storico di assoluta rilevanza. Le donne sono alla testa di una grande mobilitazione popolare per la loro libertà, come tassello fondamentale per la libertà di tutti. Liberi dall’imposizione dei precetti di crudeli integralisti che fanno della loro lettura della religione legge dello Stato. Se solo la rivoluzione delle donne andasse avanti in Iran ci sarebbero conseguenze incalcolabili sull’intero Medio Oriente, sull’intero mondo musulmano, sulle donne e sugli uomini del mondo. E sullo stesso Occidente. Anche su quegli strati di popolazione occidentale, che hanno dimenticato quanto siano fondamentali le conquiste di libertà, di laicità, di diritti che, a costo di immani sacrifici, di guerre e stragi di uomini e di donne, abbiamo conquistato, di come queste siano la prospettiva futura dell’umanità, non il suo passato. Quegli stessi che, impauriti dall’aggressività dell’integralismo islamista, figlio anch’esso della paura del contagio virale della libertà, hanno ceduto alla tentazione di rifugiarsi in un integralismo, nella sua essenza, più simile, che contrario, a quello degli integralisti religiosi. Solo affrontando a viso aperto, con empatia, mai volgendo indietro lo sguardo, l’umanità è riuscita a conquistare stadi più avanzati di democrazia. Ce lo dicono oggi le donne e gli uomini iraniani che è nelle società libere, laddove tutti hanno riconosciuti i loro diritti, che vogliono vivere e progredire, non in enclave in cui il tempo è fermo al medioevo. Ci dicono che tornare indietro non si può, che le donne, la cui sofferenza muta è durata per millenni, in tutto il mondo, lo impediranno. L’ultimo velo è caduto. Iran. Liberiamo il coraggio di Alessia, non si ripetano i casi Regeni e Zaki di Elena Stancanelli La Stampa, 4 ottobre 2022 Tiriamola fuori dal carcere dov’è rinchiusa senza alcuna ragione, lo Stato ottenga giustizia. “Sono fortunata a essere nata in Italia”, ha scritto sui social: dimostriamole che ha ragione. Tiriamola fuori da lì, da quel carcere di Teheran dove è stata rinchiusa senza nessuna ragione. Alessia Piperno, trent’anni, nessun reato tranne la libertà. È partita da Roma sette anni fa con uno zaino in spalla per raggiungere l’Australia. Da allora non si è mai fermata, ha girato il mondo e si è anche inventata una professione: travel planner e personal concierge. Chissà cosa significa esattamente. Immagino si faccia pagare per organizzarci delle piccole avventure e risolvere eventuali problemi, a noi imbranati, disabituati ad andare in giro senza sicurezze, fuori dai circuiti programmati. È una bella idea. Quando Alessia Piperno tornerà avrà imparato milioni di cose che potrà raccontarci, ne farà di sicuro qualcosa di utile a tutti noi. Tiriamola fuori di lì, da quel posto orrorifico dal quale è riuscita a chiamare i genitori, chiedendo loro di aiutarla. Dicendo che sta bene, ma ha paura perché là dentro c’è gente imprigionata da anni, con nessuna prospettiva di essere liberata, vittime della follia criminale di un regime che si regge attraverso la violenza. Ci sono le donne, e gli uomini, che in questi giorni hanno manifestato contro l’omicidio di Masha Amini, 22 anni, giustiziata a bastonate dalla polizia perché indossava il velo in un modo che nel loro universo isterico, irrazionale, brutale e arbitrario avevano ritenuto non corretto. Quella ragazza avrei potuto essere io, aveva scritto Alessia Piperno sulla sua pagina Instagram, avrebbe potuto essere una qualsiasi delle donne che camminano per strada, sorvegliate dall’occhio di una Grande Fratello psicopatico, che ritiene la morte un condanna giusta per un ciuffo di capelli che sventola sul viso. Qualche giorno dopo aver scritto quel post, per nessuna ragione, Alessia Piperno è stata arrestata. Stava per festeggiare il suo trentesimo compleanno. Sappiamo poco di quello che accade davvero in questi giorni a Teheran, perché le dittature hanno bisogno di silenzio, di nascondersi agli occhi del mondo per poter perpetuare i loro abomini. Spengono le connessioni a internet, cacciano i testimoni, i giornalisti, gli stranieri. Creano un tempo sospeso e incomprensibile, la cui percezione deve somigliare a quell’attesa che sta tra un colpo e l’altro per chi viene torturato. Un buio dove chiunque può trovarsi in balìa della violenza senza poter immaginare cosa accadrà e quando finirà. Proprio il contrario di quello che di solito facciamo noi, quando partecipiamo alle guerre con un post, o un tweet, o un like. Cioè con un gesto minuscolo, che inizia a finisce in un attimo. Da qualche giorno gira su WhatsApp il video di una ragazza iraniana, un paio di minuti del suo volto bello e sofferente la voce che racconta la rivolta e la repressione, la richiesta di far girare per evitare quel silenzio che dicevamo. Noi lo abbiamo fatto girare. Forse servirà a poco, ma noi lo abbiamo fatto girare perché siamo qui, lontani da quell’inferno, e perché possiamo farlo. Nessuno ci censura, o ci viene a rapire a casa, o ci stupra, o ci bastona se dimostriamo, sia pure in modo millimetrico, che siamo dalla stessa parte di quelli che manifestavano per Masha Amini. Alessia Piperno, che era invece a Teheran, è stata arrestata. Sulla sua pagina Instagram scriveva “sono fortunata a essere donna e a essere nata in Italia”. Sono fortunata a “poter cantare a squarciagola quando sono in macchina, a ballare come una matta quando ascolto musica, a guidare una moto, a lasciare i miei capelli svolazzanti al cielo, fortunata di poter camminare per strada stringevo la mano alla persona che amo senza dovermi nascondere, perché se sei donna, in Iran, tutto questo non ti è consentito”. Tiriamola fuori da lì perché noi possiamo farlo, se vogliamo. Non perché ci sia qualche democrazia da esportare o perché dobbiamo dare lezioni di civiltà a qualcuno. Ma perché possiamo farlo, se vogliamo. E non sempre vogliamo. In questi anni è capitato più di una volta che il nostro Paese si sia trovato a dover scegliere tra ragion di Stato e vite umane, intrecciando scuse ridicole, tergiversando fin quando non è stato troppo tardi. Neanche giustizia siamo, talvolta, stati capaci di ottenere, quando dovevamo trattare con dittature. Alessia Piperno è in galera e noi dobbiamo tirarla fuori, prima possibile. Perché in questo modo, da lontano, possiamo schierarci al fianco di chi combatte contro un regime psicotico, maschilista e sanguinario. Facendo girare dei video, malgrado questo ci faccia sentire un po’ ridicoli, ma soprattutto facendo pressione perché venga liberata Alessia Piperno come avremmo dovuto fare per Giulio Regeni e come dovremmo fare perché Patrick Zaki non venga condannato per “diffusione di false notizie dentro e fuori il Paese”. Francia. Vincenzo Vecchi: chi è l’attivista che rischia 12 anni di carcere per il G8 di Genova di Eleonora Mureddu europa.today.it, 4 ottobre 2022 Condannato sulla base del codice Rocco e fuggito in Bretagna, l’Italia ne chiede l’estradizione. Mobilitazione di cittadini e intellettuali francesi: “Arrestate anche noi”. Intellettuali, docenti universitari e gli abitanti di un piccolo borgo nel nord della Francia si stanno battendo perché Vincenzo Vecchi, uno dei “dieci di Genova”, gli attivisti condannati per gli scontri durante la manifestazione anti-G8 del 2001, non finisca in carcere. Secondo una sentenza del 2009, Vecchi dovrebbe scontare a dodici anni e mezzo di carcere per “devastazione e saccheggio” sulla base di quanto previsto dal codice Rocco, adottato sotto il regime di Mussolini. Il capo d’accusa prevede che per essere condannati sia sufficiente trovarsi in un luogo dove ci sono dei disordini, venire fotografati o riconosciuti, sorridere o dimostrare “empatia” nei confronti di quello che accade. Dunque, essere presenti alla manifestazione, è sufficiente per essere arrestati. Le peripezie giudiziarie - Vecchi, in seguito al verdetto del tribunale italiano, si era rifugiato in Francia. L’Italia ne aveva chiesto l’estradizione. Era stato arrestato lì nell’agosto 2019 in base a un mandato di arresto europeo. Poi, su decisione della Corte d’appello di Rennes, che ha ritenuto che ci fosse un errore procedurale, è stato rilasciato. Dopo un ricorso in Cassazione, il caso è tornato davanti alla Corte d’appello di Angers, che ha ritenuto troppo vaghe le motivazioni della condanna. L’attivista è stato accusato di aver danneggiato una banca e un veicolo. Ma i giudici hanno sottolineato che per questi due atti Vecchi era “nelle vicinanze” e che questo non poteva costituire una complicità. Inoltre, poiché l’accusa di “devastazione e saccheggio” non esiste in Francia, i giudici hanno anche ritenuto che la pena inflitta in Italia non potesse essere eseguita nel Paese. Nonostante, per ben due volte, la giustizia francese si sia pronunciata in difesa dell’attivista, le cose potrebbero mettersi di nuovo molto male per il genovese. La Corte di giustizia dell’Unione europea ha ritenuto che la Francia non possa opporsi all’esecuzione del mandato d’arresto europeo e ha nuovamente rinviato il caso alla Corte di cassazione francese, che si pronuncerà l’11 ottobre. “Siamo tutti colpevoli” - La vicenda sta ottenendo una forte eco mediatica in Francia, dove attivisti, intellettuali e gli abitanti di Rochefort-en-Terre, paesino bretone di 650 anime dove Vecchi vive dal lontano 2011, si stanno battendo contro l’estradizione del genovese. In Bretagna, l’ex attivista aveva stretto amicizie preziose. Dopo il suo arresto, i suoi compaesani hanno costituito d’urgenza un comitato di sostegno di circa sessanta persone. In una dichiarazione, il comitato ha affermato che la corte di Giustizia “esprime la volontà politica di reprimere e spegnere qualsiasi forma di protesta nella sua forma più elementare, il diritto di manifestare. Questo tipo di legge che distrugge la libertà permette anche di nascondere la violenza di Stato che si è verificata durante la sanguinosa repressione del contro-vertice di Genova nel 2001”. Nelle ultime settimane sono state organizzate una serie di manifestazioni in difesa dell’uomo e sono state scritte varie lettere da parte della società civile. “Questa legge di origine mussoliniana minaccia direttamente il diritto di manifestare e costituisce un attacco decisivo ai principi più elementari”, recita una lettera inviata a Le Monde da alcuni intellettuali francesi. Questa norma, continua la lettera, aveva come unico scopo “quello di impedire qualsiasi opposizione alla dittatura, consentendo la repressione indiscriminata delle manifestazioni”. “La caratteristica di questa incriminazione, devastazione e saccheggio, il cui nome stesso ha lo scopo di spaventare, è l’istituzione del reato di complicità passiva, che permette di condannare a pene molto pesanti, tra gli otto e i quindici anni, i manifestanti che si sono trovati in prossimità della commissione di un reato, senza che la loro partecipazione debba essere provata. La loro semplice presenza sulla scena è considerata “supporto morale”, recita il testo. “Una sentenza basata su una legge di Mussolini non può essere applicata nel 2022”, recita una lettera aperta firmata da oltre un centinaio di avvocati, accademici, artisti, sindacalisti belgi e francesi. “Dobbiamo dirlo forte e chiaro: abbiamo commesso tutti lo stesso reato di Vincenzo. Se deve passare dodici anni e mezzo in prigione per questo, dovremmo andare in prigione anche noi. Rischiamo anche questa condanna”, conclude la lettera. Un pesante bilancio - Seicento feriti, 360 arresti, 25 milioni di euro di danni, la morte di Carlo Giuliani. Secondo le parole di Amnesty International, quanto accaduto durante il G8 di Genova del 2001 è stata la “più grande violazione dei diritti umani e democratici in un Paese occidentale dalla Seconda guerra mondiale”. La Corte europea dei diritti dell’uomo ha condannato tre volte l’Italia per le torture e i trattamenti inumani e degradanti nei confronti dei manifestanti, e per non aver perseguito gli autori di questa violenta repressione, ossia gli agenti delle forze dell’ordine e i loro superiori. Sono passati più di 20 anni dai violenti scontri del G8 di Genova. Sono passati più di 20 anni, ma tra i manifestanti c’è chi ancora sta pagando le conseguenze di quelle tragiche giornate. L’Italia ha impiegato più di quindici anni per mettere in discussione l’azione delle sue forze di polizia, ma è stata rapida nel perseguire i “dieci di Genova”, attivisti che hanno ricevuto condanne fino a quindici anni di carcere. India. Arrestati 4 writers italiani: hanno scritto “tagliatelle alla salsa” sulla metropolitana La Repubblica, 4 ottobre 2022 Quattro writers italiani sono stati arrestati nella città indiana di Ahmedabad, per avere disegnato graffiti su due carrozze della metropolitana. I quattro sono il 24enne Gianluca Cudini di Tortoreto (Teramo), il 29enne Baldo Sacha di Monte San Vito (Ancona), il 21enne Daniele Stranieri di Spoltore (Pescara) e il 27enne Paolo Capecci di Grottammare (Ascoli Piceno). I quattro italiani sono accusati di avere disegnato su due carrozze della metro della capitale del Gujarat, nella notte di sabato, poche ore prima dell’inaugurazione di un nuovo ramo della metropolitana da parte del premier indiano Narendra Modi. I media indiani pubblicano la foto dei quattro italiani all’interno di una stazione di polizia. L’accusa per loro è di avere danneggiato una pubblica proprietà, per un danno di 50 mila rupie (circa 600 euro), e di essersi introdotti in aree vietate al pubblico. I writers sono in India con un visto turistico di un mese e sono arrivati a Mumbai da Dubai lo scorso mercoledì. La polizia ha dichiarato ai media che nell’appartamento affittato dal gruppo, e dove sono stati rintracciati dagli agenti, sono state trovate numerose bombolette spray di vari colori. Secondo quanto raccontato ai media da un agente, i writer affermano di avere disegnato i murales e le tag “per gioco” e che la scritta “Tas” significherebbe “tagliatelle alla salsa”. Molto probabilmente i quattro verranno trasferiti a Mumbai dove, secondo, quanto documentato dalle videocamere di sicurezza della metropolitana, avevano tentato di compiere gesti analoghi, senza riuscirci. La famiglia di Sacha Baldo, il writer di Monte San Vito (Ancona) è in costante contatto con l’ambasciata italiana in India. I familiari non vogliono rilasciare dichiarazioni e si sono affidati al sindaco Thomas Cillo per far sapere che l’ambasciata ha fornito “rassicurazioni sul trattamento riservato ai ragazzi”. “È in corso un processo - spiega il sindaco - di cui non si conosce l’esito. Se ho capito sono due gli episodi contestati e quindi dovrebbe esserci un altro processo in seguito”. Al momento non risulta che la famiglia abbia nominato un avvocato in Italia, “perché sta seguendo tutto l’ambasciata italiana”. Sacha (questo il nome di battesimo), è residente a Monte San Vito, ma “non vive qui da almeno 6-7 anni - prosegue Cillo - e non è in contatto con i writers che operano su questo territorio”. I familiari sono stati “immediatamente avvisati dall’ambasciata” dell’arresto del 29enne. Ecuador. Rivolta al carcere di Latacunga, morti 15 detenuti ansa.it, 4 ottobre 2022 Ennesima protesta in una delle prigioni più grandi del Paese. Sono ore di grande tensione in Ecuador per la rivolta scoppiata in una delle più grandi prigioni del Paese, quella di Latacunga, che ospita circa 4.300 detenuti. Nel corso della rivolta sono morti almeno 15 prigionieri, altri 20 sono rimasti feriti. Nella stessa struttura già in passato si sono registrati episodi di violenza: dal febbraio 2021 ci sono stati sette massacri tra prigionieri, che hanno visto la morte di oltre 400 persone, uccise con coltelli, decapitate, o vittime di altre barbarie. Fra i tanti motivi che animano le proteste c’è la questione del sovraffollamento. Di recente il governo del presidente Guillermo Lasso ha avviato un censimento dei detenuti per migliorare le condizioni di vita dei ristretti.