Scatta l’allarme suicidi in carcere: sono 62 da gennaio. “Quei disagi dei detenuti” di Chiara Daina Il Domani, 3 ottobre 2022 Il tasso di chi si toglie la vita nel 2022 sarà il più alto del ventennio. La causa va cercata nell’enorme disagio delle condizioni detentive. Urgente incentivare le misure alternative e di recupero. Sesantadue. Dietro a questa cifra ci sono le storie delle persone che si sono tolte la vita in carcere dal primo gennaio al 19 settembre di quest’anno. In neanche nove mesi è stata già superata la quota dei suicidi in cella di tutto il 2021. A denunciarlo in un dossier l’associazione Antigone, impegnata nella tutela dei diritti dei detenuti e delle garanzie del sistema penale. “I numeri di quest’anno generano un vero e proprio allarme, non avendo precedenti negli ultimi anni” si legge nel documento. Nel 2018 il tasso di suicidi ogni 10mila persone detenute era di 10,4 casi, sceso a 8,7 nel 2019 per poi risalire a 11 nel 2020 (il decimo più alto del continente secondo l’ultimo rapporto disponibile del Consiglio d’Europa, riferito a quell’anno) e 10,6 nel 2021. Nel 2022, considerato il trend dei decessi in aumento, potrebbe toccare il valore più alto dell’ultimo ventennio. In Italia i detenuti si uccidono 16 volte in più rispetto ai liberi cittadini. Ma “il carcere non è una condanna a morte” ha ricordato Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. Le morti in prigione si possono prevenire. “In presenza di fragilità e segni di allarme - spiega Michele Miravalle, coordinatore dell’Osservatorio di Antigone sulle condizioni di detenzione - occorrono degli interventi mirati di supporto e accompagnamento, per diminuire il senso di abbandono e risvegliare gli stimoli verso la vita. Oggi, invece, le situazioni a rischio vengono gestite in un’ottica di sicurezza, disponendo una sorveglianza a vista continua. Ma la rigida logica del controllo non è la soluzione e va appunto superata con quella flessibile dell’ascolto e dell’accoglienza della persona detenuta da parte degli operatori”. La circolare del Dap - L’impatto dell’arresto e della carcerazione è traumatico. “Avere la possibilità di sentire i familiari nei momenti di maggiore angoscia - sottolinea Miravalle - può essere di vitale importanza, allontanando il detenuto dall’intento suicidario. Per questo in estate abbiamo lanciato la campagna “Una telefonata allunga la vita”, in cui chiediamo di riformare il regolamento del 2000, che stabilisce una telefonata alla settimana di massimo dieci minuti, liberalizzando i colloqui telefonici nei casi in cui la persona possa contare su una rete sociale esterna e in assenza di particolari esigenze di sicurezza”. Vista l’emergenza, il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (dap) Carlo Renoldi ha messo a punto una circolare per adottare la videochiamate come strumento ordinario in aggiunta ai sei colloqui in presenza al mese concessi. I più giovani e di sesso maschile sono la categoria più colpita. L’età media dei suicidi avvenuti finora è di 37 anni. La maggior parte aveva tra i 30 e 39 anni, seguiti dai ragazzi tra i 20 e 29 anni. Solo otto i casi over 50. Quasi la metà erano di origine straniera. Le case circondariali di Foggia e San Vittore a Milano sono gli istituti con più decessi registrati al momento. “Il suicidio nella quasi totalità dei casi - chiarisce Giuseppe Nese, coordinatore della rete regionale di sanità penitenziaria della Campania - non è mai l’espressione di una patologia psichiatria e, pertanto, i comportamenti a rischio non vanno medicalizzati e trattati con psicofarmaci, né la persona che li manifesta va trasferita nella sezione psichiatrica del carcere. Le scelte autolesive e suicidarie sono piuttosto da inquadrare come conseguenza delle condizioni detentive che determinano un disagio intollerabile. La pena non deve essere una punizione ma una rieducazione. Per prevenire i gesti estremi bisogna migliorare la qualità di vita ordinaria dei detenuti, offrendo attività che diano senso alle loro giornate e al loro futuro, dallo sport al lavoro, il teatro e lo studio, e che rispondano il più possibile alle esigenze e inclinazioni personali. Per un padre che ha necessità di far campare i suoi figli e non vuole sentirsi un peso - fa un esempio Nese - sarà utile avere un impiego lavorativo. Come già accade in tanti altri Paesi europei, andrebbero poi allestite le cosiddette “camere dell’amore” per le relazioni sentimentali e sessuali”. Altrettanto prioritario, esorta Nese, è “il monitoraggio dei momenti potenzialmente più stressanti, che potrebbero gettare la persona reclusa in un grave sconforto: dall’ingresso in carcere ai colloqui con i familiari, le reazioni in aula di giustizia e al rientro, la comunicazione di un lutto o di un evento drammatico che coinvolge amici e parenti, la separazione dal coniuge, la tendenza all’autoisolamento in sezione e all’aggressività verso gli altri. Tutti gli operatori, compresi gli agenti, devono e possono cogliere i segnali di pericolo, non spetta soltanto al personale sanitario farlo”. L’attenzione costante per i traumi che si trova a vivere la persona detenuta è raccomandata anche dal piano nazionale di prevenzione al suicidio in carcere del 2017, che in una circolare dell’8 agosto il capo del Dap invita i direttori degli istituti ad applicare. La condizione degli spazi e del tempo all’interno del carcere è determinante dunque. “Il suicidio - ribadisce Miravalle - è legato al malessere della struttura e al sovraffollamento. Su oltre 55mila reclusi, circa 10mila sono sottoposti al regime di 41 bis e di alta sicurezza per reati di criminalità organizzata, il resto è gente che ha alle spalle storie di marginalità sociale e povertà. Per queste persone afflitte da fragilità la risposta doveva essere un welfare più forte e invece sono finite in galera. È fondamentale incentivare le misure alternative alla detenzione. Quelle 62 persone molto probabilmente fuori dal carcere non si sarebbero mai ammazzate”, conclude Miravalle. Suicidi in cella, il carcere deve tornare ad essere l’extrema ratio di Giovanni Varriale Il Riformista, 3 ottobre 2022 Sessantadue suicidi in nove mesi. È questo il dato più sconfortante in merito alle condizioni delle carceri italiani. In un’epoca in cui le istituzioni, i partiti politici, giudici, avvocati, giornalisti, assistenti sociali non fanno altro che sbandierare la necessità del rispetto dei diritti civili, questo dato è inaccettabile. È inaccettabile che i detenuti debbano vivere in nove in una stanza che comprende massimo quattro persone; che venga costantemente violata la privacy; che il bagno ed il cucinino siano a pochi centimetri l’uno dall’altro. A nulla sono serviti gli interventi dei giudici sovranazionali che hanno più volte condannato l’Italia per il trattamento inumano dei detenuti, a nulla è servita la famosa sentenza Torreggiani che prevedeva come meno di tre metri quadrati di cella per detenuto fosse da considerarsi un trattamento inumano e degradante. Infatti, il problema delle carceri in Italia resta irrisolto, sia perché le case circondariali sono vetuste e spesso mal tenute sia per il sovraffollamento delle stesse, spesso dovuto all’eccessivo utilizzo delle misure cautelari in carcere da parte della magistratura. Proprio quest’ultima criticità potrebbe essere risolta applicando alla lettera il codice di procedura penale che prevede l’applicazione della misura cautelare custodiale quale extrema ratio. In questo contesto, ogni giorno più critico, è fondamentale che vi sia una collaborazione tra le istituzioni, magistratura, avvocatura e servizi sociali al fine di arginare il problema carcerario. Infatti, soltanto in questo modo sarà possibile garantire la funzione rieducativa della pena. Va però precisato, per completezza di esposizione, che accanto alla seppur sconcertante situazione fin qui descritta, vi sono, come spesso accade, delle eccezioni. Proprio nella nostra città spicca, come una delle strutture più funzionanti e migliori del Paese, il centro penitenziario Pasquale Mandato di Secondigliano. Una struttura all’avanguardia con le celle spaziose e contengono un massimo di quattro detenuti, che per tale motivo vivono in condizioni rispettose e rispettabili. Chi scrive ha avuto il piacere di costatare con mano l’egregio lavoro svolto presso il CP di Secondigliano, tanto a dimostrazione che con strutture più moderne, personale appassionato ed un giusto numero di detenuti, anche nelle carceri e con i detenuti è possibile ottenere risultati e garantire la funzione rieducativa della pena. Sono proprio i detenuti, nel corso della visita effettuata a Natale 2021, a rimarcare come il CP di Secondigliano fosse il migliore tra quelli dove erano stati ristretti in passato. Infatti c’è chi racconta del carcere di Airola dove le celle erano piene di insetti e chi ricorda che nulla è peggio di Poggioreale. In questo contesto però il CP di Secondigliano, come sottolineato dagli stessi detenuti, è una “mosca bianca”, per tale ragione è necessario in primo luogo una riforma concreta dell’ordinamento penitenziario che metta al centro i diritti e le necessità dei detenuti, così come accade nel resto d’Europa, nonché un più ragionato ricorso alla misura cautelare custodiale così da permettere a quelle strutture sovraffollate di regolarizzare una volta per tutte i loro ospiti. Questa è l’unica via per far sì che la pena inflitta possa svolgere la funzione costituzionalmente garantita di reinserimento sociale e rieducazione. Con la speranza che il nuovo governo che a giorni si formerà vorrà finalmente intervenire sui temi delicati della giustizia. Il divario tra realtà e percezione di insicurezza di Sonia Stefanizzi Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2022 I dati forniti dal ministero dell’Interno mostrano, a fronte di un drastico calo dei reati nel 2020 a causa delle restrizioni per l’emergenza pandemica, una leggera ripresa nel 2021. La criminalità, in termini statistici, risulta comunque in calo rispetto al 2019. Crescono i reati informatici e le truffe online, mentre gli omicidi sono stati 289 nel 2021, 4 in più rispetto al 2020, ma 25 in meno rispetto al 2019. La metà (144) sono stati commessi in ambito affettivo. E il 40% delle vittime sono state donne (erano il 35% nel 2019), la quasi totalità (100) uccise in ambito familiare. In generale, i dati sembrano confermare un trend in calo nel lungo periodo, cosa che dovrebbe essere tenuta in considerazione al momento dell’adozione di nuove politiche di contrasto alla criminalità. A fronte di una generale contrazione delle attività illegali in termini statistici, però, aumenta nella popolazione il sentimento di insicurezza. Come riportato da diverse ricerche empiriche, l’espressione “sicurezza urbane, non si riferisce solamente alla quantità di reati e fatti devianti commessi, ma si estende a quell’insieme di processi in grado di alterare la percezione sociale, aldilà della presenza più o meno concreta di una minaccia di tipo criminale. La sicurezza e la legalità di una città o di un quartiere si definiscono in larga misura anche sulla base di come e quanto gli abitanti di quella città e di quel quartiere si sentono. Le condizioni oggettive non sempre corrispondono alla percezione dell’opinione pubblica poiché i due dati, seppur correlati, non sempre sono perfettamente sovrapponibili. Minime variazioni nel tasso di criminalità in un contesto tradizionalmente privo di fenomeni di illegalità significativi possono originare un aumento esponenziale della percezione di insicurezza rispetto all’entità del fenomeno criminale. Soprattutto se comparati con contesti tradizionalmente più soggetti a episodi di illegalità. Data la complessità semantica del concetto di sicurezza urbana, la continua riproposizione da parte della classe politica e dei media del nesso tra sicurezza e preoccupazioni derivanti dal verificarsi di fenomeni criminali, unitamente all’invocazione rituale di misure preventivo-repressive più radicali ed efficaci, ha fatto passare in secondo piano altre dimensioni cruciali dell’insicurezza che dovrebbero rappresentare il terreno privilegiato per qualsiasi politica che intenda aggredire alla radice tale problema. La percezione di vivere in un territorio insicuro, infatti, può essere indotta dal rapporto del cittadino con la realtà ambientale circostante, dall’esistenza di segni evidenti di inciviltà odi atteggiamenti che trasgrediscano norme comportamentali socialmente condivise, dal grado di coesione sociale dei quartieri, dall’intreccio di popolazioni diverse che fanno riferimento a un’area urbana (residenti, city users, turisti, migranti), da campagne mediatiche che abbiano a oggetto il degrado e/o la criminalità esistente in un determinato territorio. L’Ocf: “Via Arenula corregga subito la nota capestro sui pignoramenti” Il Dubbio, 3 ottobre 2022 Nel mirino finisce l’interpretazione normativa che preclude agli avvocati difensori la notifica in proprio. “L’Organismo congressuale forense ha ricevuto negli ultimi giorni numerose segnalazioni da Consigli dell’Ordine e importanti associazioni forensi rispetto alla prassi avallata di recente dal Dipartimento Organizzazione giudiziaria e da note predisposte dai dirigenti Unep di vari distretti che considerano, nei pignoramenti presso terzi, l’avviso al terzo e al debitore previsto dall’articolo 543 cpc (recentemente novellato sul punto) come atto dell’esecuzione forzata e come tale di competenza esclusiva dell’Unep, comportando così aggravio notevole di costi e tempi per il creditore procedente, al cui difensore sarebbe quindi preclusa la notifica in proprio (postale o Pec) del medesimo avviso, senza considerare la possibilità (purtroppo ricorrente) di ritardi nelle comunicazioni di iscrizione a ruolo che complicano il quadro”. Così l’Organismo congressuale forense interviene sul nodo sollevato da diverse voci dell’avvocatura negli ultimi giorni: proprio mentre arriva a compimento un percorso riformatore presentato dal governo come una spinta all’efficienza della giustizia, emerge il paradosso relativo ai pignoramenti, che pare muoversi in direzione esattamente contraria. L’Organismo contesta dunque “questa “interpretazione amministrativa” della norma, il cui tenore letterale invece fa propendere per considerare quell’avviso come atto di parte e come tale eseguibile con notifica in proprio ex lege 53/ 1994 da parte del difensore del creditore procedente. La semplificazione e l’esigenza di celerità sottese alle riforme processuali appena varate dal governo” fa notare appunto Ocf, “ci supportano peraltro in questa considerazione, e per questo chiediamo che il ministero della Giustizia voglia procedere ad annullare la nota del Dog del 20 settembre scorso, o comunque a chiarire che gli avvocati hanno in ogni caso facoltà di procedere alla notifica in proprio dell’avviso ex art. 543 c. p. c., restando la notifica tramite Unep una mera facoltà”. Riforma del processo civile? Ha vinto ancora il presunto “potere magico” delle forzature sul codice di Francesco Paolo Perchinunno e Anna Napoli Il Dubbio, 3 ottobre 2022 Una riforma contenente delle previsioni gravemente lesive del diritto di difesa che, da un lato, generano una notevole contrazione dei poteri delle parti e un aggravamento delle responsabilità dei difensori. C’è un falso mito che ha pervaso le menti di chiunque abbia guidato il dicastero di via Arenula. Cambiare il rito, modificare le regole del processo. Così negli ultimi trent’anni il codice di procedura è stato modificato innumerevoli volte. Con risultati pressoché identici. Nessun effetto positivo, ma tanti, tantissimi problemi di interpretazione. L’unica riforma della giustizia degna di nota è rappresentata dall’introduzione delle norme sul processo civile telematico. Una riforma di sistema che ha dato reale efficienza al processo. Quattro giorni fa il governo, con una tempistica assai discutibile, ha approvato il decreto di attuazione sulla riforma del processo civile. L’obiettivo della legge delega era quello di rendere il processo civile efficiente. Ma questa riforma (di mero rito) è del tutto inidonea a garantire celerità e speditezza dei processi, ed ha un solo grande “merito”: quello di comprimere, oltremodo, i diritti di difesa dei cittadini. Non può che essere definita azione di “non” governo, quella portata avanti dagli attuali rappresentanti di Palazzo Chigi che, in spregio alla tutela dei diritti, hanno licenziato in via definitiva un decreto che porterà a zero efficienza. Una riforma contenente delle previsioni gravemente lesive del diritto di difesa che, da un lato, generano una notevole contrazione dei poteri delle parti e un aggravamento delle responsabilità dei difensori, dall’altro lasciano ingiustificatamente impregiudicate le prerogative dei magistrati, ancora una volta esenti dall’obbligo di rispettare termini perentori per l’adozione dei provvedimenti giudiziali. L’Aiga ha sin da subito aspramente criticato le modifiche proposte al processo di cognizione di primo grado, laddove le decadenze e le preclusioni istruttorie sono state collocate nell’intervallo di tempo intercorrente tra gli atti introduttivi del giudizio e la prima udienza di comparizione, assegnando alle parti termini sfalsati sia per la modifica della domanda che per la formulazione delle istanze. Mediazione, punita l’assenza senza giustificato motivo di Fabrizio Plagenza Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2022 Non basta richiamare impedimenti generici: occorre documentarli. Improcedibilità e sanzioni anche per chi manda il legale privo di procura sostanziale. È improcedibile l’appello se le parti non partecipano personalmente, senza giustificato motivo, alla mediazione ordinata dal giudice. E non è sufficiente addurre impedimenti generici, senza sostenerli con documenti di prova, né farsi rappresentare dall’avvocato difensore, munito di una procura alle liti ma non di una procura sostanziale per partecipare alla mediazione. Sono le indicazioni date dalla Corte d’appello di Napoli che, conia sentenza 3843 depositata il 19 settembre 2022 (presidente Magliulo, relatore Marinaro), ha dichiarato improcedibile l’appello dopo che al primo incontro di mediazione si sono presentati solo l’avvocato dell’appellante, senza procura sostanziale per la mediazione ma solo conia normale procura alle liti, e uno degli appellati con il proprio avvocato. Tra gli assenti, un’appellata si era giustificata dichiarando una generica invalidità e l’appellante aveva affermato, in una lettera indirizzata al suo avvocato, con data del giorno dell’incontro di mediazione, di non poter partecipare perché impegnato in sala operatoria. Motivi insufficienti a giustificare l’assenza, secondo la Corte d’appello, che, riprendendo le pronunce della Cassazione (8473/2019 e 18068/2019), afferma che “il successo dell’attività di mediazione è riposto nel contatto diretto tra le parti e il mediatore professionale”. Quest’ultimo, in particolare, “grazie alla interlocuzione diretta e informale” con le parti, può aiutarle a trovare una soluzione. È per questo che “il legislatore ha previsto e voluto la comparizione personale delle parti davanti al mediatore”. I giudici ricordano però che le parti che non possono o non vogliono partecipare alla procedura possono farsi sostituire da un terzo, anche il loro avvocato. È necessaria però una procura “sostanziale” che, a differenza della procura alle liti, non può essere autenticata direttamente dal difensore, anche se l’incarico è conferito allo stesso avvocato. La procura sostanziale è diversa dalla procura alle liti anche perché “l’attivazione della mediazione delegata non costituisce attività giurisdizionale”, trattandosi di una “parentesi non giurisdizionale all’interno del processo” (Cassazione, 40035/2021). Inoltre, tale procura, si legge nella sentenza, deve esserci al momento in cui si svolge la mediazione, essendo priva di significato una eventuale successiva “sanatoria”, a procedimento concluso. Si tratta di aspetti, scrivono i giudici, affrontati anche dalla riforma del processo civile e della mediazione, che peraltro dà indicazioni ancora più restrittive. Infatti, secondo la legge delega 206 del 2021, attuata dal decreto legislativo approvato in via definitiva dal Consiglio dei ministri mercoledì scorso, le parti del procedimento in mediazione possono delegare, se ricorrono giustificati motivi, un proprio rappresentante, che sia a conoscenza dei fatti e munito dei poteri necessari per la soluzione della controversia. Inoltre, ragionano i giudici, la sanzione dell’improcedibilità non consente alcun meccanismo di sanatoria, una volta verificatasi la decadenza dalla possibilità di proporre la mediazione. Di qui la decisione della Corte d’appello di non ritenere esperita la condizione di procedibilità e dichiarare quindi improcedibile l’appello. Non solo: i giudici applicano anche le sanzioni pecuniarie, condannandole parti che non hanno partecipato personalmente alla mediazione a versare una somma pari al contributo unificato dovuto per il giudizio. Processo tributario, stop al principio di vicinanza della prova di Dario Deotto e Luigi Lovecchio Il Sole 24 Ore, 3 ottobre 2022 Non sembra (più) possibile - con il nuovo principio dell’onere probatorio stabilito dalla riforma del processo tributario - applicare in materia fiscale il criterio della “vicinanza o prossimità della prova”. Con la legge 1302022 (nuovo articolo 7, comma 5-bis, del Dlgs 546/1992) è stata scolpita una regola propria dell’onere della prova nella materia tributaria, affrancandola così dal disposto di cui all’articolo 2697 del Codice civile. Va compreso, quindi, se può (ancora) trovare applicazione il principio giurisprudenziale di vicinanza della prova, assunto in più occasioni dalla Cassazione, anche in materia tributaria. Si tratta di un criterio che risulta sussidiario rispetto a quello stabilito dall’articolo 2697 ma che, in pratica, ne determina la deroga, perché comporta il trasferimento dell’onere probatorio dalla parte onerata secondo l’articolo 2697 a quella che non lo sarebbe ma che si trova più “vicina” alla prova. Sostanzialmente il contribuente, nelle vicende tributarie. Occorre tuttavia rilevare che il principio (giurisprudenziale) della vicinanza della prova anche dal punto di vista civilistico (anzi, “soprattutto” dal campo del diritto civile, visto che da lì promana) non risulta un criterio “normale” - seppure sussidiario - di ripartizione dell’onere della prova, ma si tratta di un criterio eccezionale e di chiusura che può essere utilizzato solo quando strettamente necessario a evitare un abuso dell’articolo 2697 del Codice civile. Difatti, “la prossimità/vicinanza della prova trae le conseguenze dalla peculiare natura di fattispecie in cui di una ordinariamente agevole possibilità di fornire la prova fruisce una parte soltanto” sicché si realizza “una disparità tra i litigatores che conduca lo strumento processuale a fuoriuscire dalla necessaria parità funzionale” (ex multis, Cassazione, sez. III, 13851/2020). In sostanza, il principio di vicinanza della prova, secondo la giurisprudenza di legittimità (civilistica) che nel tempo ne ha affinato la “latitudine”, è un istituto eccezionale e che si giustifica soltanto in casi estremi: quando, per lo più, si realizza un abuso dell’articolo 2697 a scapito di una delle parti, così da rendere impossibile o troppo difficile l’esercizio dell’azione in giudizio, in quanto si verifica “l’impossibilità dell’acquisizione simmetrica” dei mezzi di prova (Cassazione, sez. I, 13853/2019). Muovendo da questa ricostruzione, appare evidente che la giurisprudenza tributaria di legittimità ha il più delle volte impropriamente fatto ricorso al principio di vicinanza della prova (ad esempio, in materia di transfer pricing). Un conto infatti è l’ambito civilistico, nel quale la limitatezza degli strumenti di acquisizione delle prove che risultano nella disponibilità dei privati - perlomeno in relazione a fatti estranei alla sfera giuridica e/o materiale delle parti - può giustificare l’“eccezionale deroga” all’articolo 2697 del Codice civile. Altro è l’ambito della materia tributaria, dove non si riscontra, oggi, quell’inferiorità conoscitiva dell’Amministrazione rispetto al contribuente, che potrebbe, in taluni casi, giustificarla. Attualmente, infatti, l’Agenzia dispone di mezzi conoscitivi che consentono di ricostruire - anche presuntivamente - la quasi totalità dei fatti rilevanti attribuibili al contribuente sotto il profilo tributario. Se poi questi poteri conoscitivi l’Amministrazione non li utilizza, ciò non può portare a derogare (comunque, come criterio eccezionale, come si è visto) il disposto dell’articolo 2697. A maggior ragione si è dell’avviso che - oggi che viene fissata una regola “propria” nel diritto tributario dell’onere probatorio attraverso il nuovo comma 5-bis dell’articolo 7 del Dlgs 546/1992 - non possa essere recepito (automaticamente) dal diritto civile un criterio “sussidiario e comunque eccezionale” rispetto al dettato dell’articolo 2697 del Codice civile, dal quale (dettato) la materia tributaria, come si è riportato, ora si è distaccata. Fermo restando che già precedentemente, a nostro avviso, non si realizzavano quasi mai quelle condizioni di inferiorità conoscitiva di una delle parti in causa (l’agenzia delle Entrate in questo caso) che ne legittimavano l’adozione. Napoli. Aiutare gli “orfani speciali”, firmato il protocollo d’intesa con il garante dei detenuti Il Mattino, 3 ottobre 2022 Aiutare bambini e ragazzi figli di vittime di crimini domestici a recuperare la serenità e una vita quanto più possibile normale. Sono queste le intenzioni alla base del protocollo d’intesa firmato dal Garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello, e la Cooperativa Sociale Irene 95, ente capofila del progetto Respiro che si occupa proprio dei cosiddetti “orfani speciali”. La realtà dei cosiddetti orfani speciali, figli di vittime di crimini domestici, è complessa ma sommersa visto che non esistono stime ufficiali sull’effettivo numero di casi. Si tratta di ragazzi che hanno perso in qualche modo entrambi i genitori, con uno dei due ammazzato in maniera violenta dal partner e l’altro in carcere o suicida. Gli studi dimostrano che queste situazioni hanno sugli orfani un impatto psicologico devastante, a cui si aggiungono le questioni giuridiche e gli aspetti legali, tra cui la decadenza della responsabilità genitoriale, l’affidamento del minore e la designazione del tutore. “In questo contesto - spiega Fedele Salvatore, presidente della cooperativa Irene 95 - quando un ragazzo chiede e ottiene il permesso di incontrare il genitore in carcere, è necessario che questi sia adeguatamente preparato attraverso un percorso trattamentale, che è quello che ci proponiamo con la firma di questo protocollo. È difficile occuparsi degli uomini maltrattanti che stanno scontando la loro pena, noi vorremmo sfondare questa porta introducendo il dibattito, aiutandoli ad elaborare il fatto, nel rispetto dei figli che rappresentano sempre il nostro interesse primario. Si tratta d’altra parte di una delle azioni previste dal progetto “Respiro”, programmare percorsi di formazione di base per sia per operatori del sistema carcerario che per tutti quei soggetti che in qualche modo impattano sul fenomeno degli orfani speciali. Per questo, dopo questo primo accordo, nelle prossime settimane ci muoveremo per realizzare altri protocolli con l’amministrazione penitenziaria per poter lavorare anche con i soggetti che operano nelle carceri”. “Sono fiducioso per l’avvio di questa iniziativa nelle carceri per i maltrattanti che hanno offeso, ucciso la propria partner lasciando questi bambini orfani speciali - commenta Samuele Ciambriello - Questo avvio di sperimentazione, almeno in alcune carceri della regione, deve essere vissuto anche come applicazione di un dettato costituzionale. Se un detenuto vuole una mano deve essere aiutato a reinserirsi, altrimenti la funzione della pena è una funzione vuota”. Palermo. Suicidi in carcere, domani manifestazione davanti al tribunale palermotoday.it, 3 ottobre 2022 Al sit in organizzato da Antigone parteciperanno anche la madre di Samuele Bua e il padre di Roberto Pasquale Vitale, i cui figli sono morti suicidi al Pagliarelli, e la madre di Francesco Paolo Chiofalo, l’uomo detenuto sempre nel penitenziario palermitano e deceduto per cause da accertare. Richiamare l’attenzione delle istituzioni sul drammatico fenomeno dei suicidi e delle morti in carcere. E’ l’obiettivo del sit-in di Antigone Sicilia che si terrà a Palermo davanti al Tribunale, domani - martedì 4 ottobre - alle ore 16. “Scendiamo in piazza - spiega Pino Apprendi dell’osservatorio Antigone - perché la politica è indifferente rispetto al gesto estremo compiuto da decine di detenuti ogni anno e a circa un migliaio di atti di autolesionismo. Si tratta nella stragrande maggioranza dei casi di giovani in carcere per reati minori e perlopiù in condizioni di fragilità psicofisica. A chi è stato condannato è giusto far scontare le pene inflitte per i reati commessi, ma queste non possono e non devono trasformarsi in condanne a morte, bensì in una speranza di cambiamento, come peraltro è previsto dal nostro ordinamento”. Al sit in parteciperanno anche la madre di Samuele Bua e il padre di Roberto Pasquale Vitale, i cui figli sono morti suicidi nel carcere Pagliarelli di Palermo, e la madre di Francesco Paolo Chiofalo, l’uomo detenuto sempre nel penitenziario palermitano e deceduto per cause da accertare. Frosinone. Nuovi imprenditori pronti ad assumere detenuti con il progetto “Seconda chance” Il Messaggero, 3 ottobre 2022 Il progetto Seconda chance non si ferma. Si tratta della possibilità per le aziende di assumere detenuti che hanno la possibilità di lavorare all’esterno e utilizzare gli sgravi fiscali della Legge Smuraglia. All’iniziativa di Legambiente “Puliamo il mondo” ieri erano presenti anche Flavia Filippi - che sta facendo il giro del Lazio per proporre questa possibilità - e Benedetta Miozzi, referente per Frosinone e Cassino dell’associazione. “Abbiamo incontrato diversi imprenditori, sentito le associazioni datoriali, spiegato in cosa consiste Seconda chance e quali possibilità possono avere le aziende - hanno spiegato - abbiamo trovato disponibilità e contiamo di dare risposte presto ai detenuti che possono lavorare all’esterno. Ci sono state chieste le capacità che hanno, di fornire una scheda in modo che le imprese possano rendersi conto ed eventualmente impiegare chi ha le competenze necessarie”. Dalla casa circondariale di Frosinone massima disponibilità. La direttrice, assente all’evento causa Covid, ha mandato un videomessaggio e si è ripromessa di organizzare altre iniziative del genere. Intanto per le imprese che volessero utilizzare gli sgravi della Legge Smuraglia e fare del bene a chi ha commesso un errore e ne sta pagando le conseguenze, ma vuole tornare a inserirsi nella società, informazioni alla mail info@secondachance.net. Frosinone. Puliamo il mondo fa rima con inclusione, giornata con i detenuti e i disabili di Matteo Ferazzoli Il Messaggero, 3 ottobre 2022 I lineamenti dei Monti Lepini sullo sfondo, buste ricolme di rifiuti appena raccolti poggiate sul lungo marciapiede. La veduta è quella da Largo Turriziani, Frosinone alta. Poco sopra, il campanile, oltre l’orario, indica un cielo limpido. È questa una delle scene più rappresentative della mattinata di ieri, in cui, nell’iniziativa Puliamo il mondo, organizzata dal circolo Il Cigno di Legambiente Frosinone, circa 60 persone hanno ripulito diversi punti della città alta. I volontari sono partiti, divisi in gruppi, alle 9 e 30 da Largo Turriziani e lì sono tornati alla spicciolata, verso le 12. Con loro, portavano buste piene di immondizia, posizionate poi vicino il gazebo montato da Legambiente proprio a Largo Turriziani e smaltite dai lavoratori della De Vizia. A pochi metri, anche 2 furgoni della polizia penitenziaria. Perché la mattinata di ieri, non è stata solamente dedicata all’ambiente. Forse, se non soprattutto, all’inclusione. Tra i cittadini che hanno partecipato all’evento, una quindicina erano detenuti del carcere di Frosinone, con accompagnatori ed educatori. Per farci capire l’importanza che una giornata così può assumere per chi è recluso, ci prova uno di loro: “Le persone che sono dentro, quando escono e vengono a fare queste cose, sono utili per tutta la società ci racconta - e, soprattutto, sono iniziative che gratificano noi stessi”. Continua: “Per noi detenuti, giornate di questo tipo sono importantissime, perché usciamo da un ambiente dove, purtroppo, quasi non c’è speranza. Così, invece, riusciamo ad avere momenti di condivisione con tutta la società, di cui facciamo parte. Oggi siamo stati accolti benissimo e con Legambiente abbiamo fatto amicizia, sperando di proseguirla”. Gli chiediamo: iniziative come queste vi donano speranza? “Assolutamente sì”, risponde. A partecipare alla mattina, poi, anche alcuni ragazzi diversamente abili della Casa dell’Amicizia di Ceccano, con i loro accompagnatori, insieme alla Caritas diocesana, esponenti della Croce Rossa di Frosinone e rappresentanti dell’Abb. Oltre, ovviamente, ai cittadini e ai volontari di Legambiente. In totale, l’immondizia raccolta è quantificabile in bustoni ricolmi: ne sono stati riempiti oltre 30. Sul volto di Stefano Ceccarelli, presidente di Legambiente Frosinone, c’è soddisfazione: “Come al solito, Puliamo il Mondo è un’iniziativa molto partecipata. Ci sforziamo di darle un significato che va al di là della raccolta dei rifiuti. È l’occasione per riproporre i nostri valori. Il titolo dell’iniziativa, Per un clima di Pace, è significativo. Siamo per la pace, per la giustizia climatica e sociale, la diversità e l’accoglienza di tutti. Come oggi, con la presenza dei detenuti”. Su questa, spiega: “Oggi è nata una bella amicizia tra noi e il carcere di Frosinone che mira a svolgere ulteriori attività assieme”. Intanto, nell’arco della mattinata, diversi i punti ripuliti. “Alcune zone racconta Ceccarelli- sono il parcheggio sotto la Provincia, via San Gerardo, alcuni punti di via Fosse Ardeatine, il parco sotto il liceo Classico, il Parco delle Colline e il Viadotto Biondi. Il centro storico conclude- generalmente è in buone condizioni anche se vive il problema della desertificazione”. L’evento è stato patrocinato dal Comune di Frosinone. A fare un saluto, durante l’iniziativa, Miriam Diurni, presidente di Unindustria Frosinone e il sindaco del capoluogo, Riccardo Mastrangeli: “Un plauso a quest’iniziativa- commenta il primo cittadino - alla quale l’amministrazione guarda con attenzione. La mia presenza è testimonianza della vicinanza a Legambiente e a questa giornata che raccoglie sia molti volontari che detenuti”. Infine, al termine dell’evento ambientalista, è stato anche organizzato un pranzo, nella Chiesa dei Santi Giuseppe e Ambrogio a Ferentino, con la presenza dell’associazione Casa dell’Amicizia e dei detenuti, con la partecipazione del Vescovo di Frosinone- Veroli- Ferentino, Ambrogio Spreafico. A fare gli onori di casa don Guido, cappellano del carcere. Pavia. Chiede (e ottiene) l’espulsione ma da tre mesi è ancora in cella: la denuncia del suo legale di Maria Fiore La Provincia Pavese, 3 ottobre 2022 Un recluso aveva ottenuto di tornare in Albania come alternativa al carcere in Italia: ok del giudice, ma la questura non ne sa nulla. Il suo legale: “Lui soffre e la collettività spende di più”. A giugno aveva chiesto, come consente la legge, di essere espulso e poter tornare così in Albania da uomo libero. Una richiesta che il magistrato ha accolto, firmando il decreto di espulsione l’11 luglio. Ma O. K., 38 anni, dopo due mesi e mezzo è ancora in carcere a Torre del Gallo. “Un ritardo che ha due effetti, entrambi dannosi - denuncia l’avvocato Daniele Sussman Steinberg di Milano -. Intanto un uomo che dovrebbe essere ormai libero si trova ancora detenuto ma ci sono anche i costi per la collettività da considerare, visto che ogni giorno di mantenimento in carcere costa 147 euro”. Le ragioni del ritardo nell’eseguire il provvedimento non sono chiare. La giudice Mariateresa Gandini, nel decreto, specifica che l’unico termine da rispettare è quello dei dieci giorni necessari per un eventuale ricorso (che in questo caso non ci sarà, visto che è stato il detenuto a chiedere di essere espulso), mentre per l’esecuzione dispone che “questa avvenga il prima possibile, a cura del questore, con le modalità dell’accompagnamento alla frontiera a mezzo della forza pubblica”. Dal suo canto la questura fa sapere di avere ricevuto una comunicazione sul caso solo il 27 settembre. In questa data, scrivono dalla questura, “l’Istituto penitenziario comunicava al locale Ufficio immigrazione l’intervenuta irrevocabilità in data 1 settembre del decreto di espulsione dallo Stato italiano”. Dalla questura aggiungono che “in occasione della programmazione dei servizi” di questa settimana “verrà individuato il giorno in cui verrà effettuata l’espulsione”. La decisione del detenuto rientra nella possibilità offerta dalla legge Bossi-Fini. In sostanza un recluso ha l’opportunità, a particolari condizioni (il residuo della pena deve essere inferiore ai due anni), di usufruire dell’espulsione come alternativa al carcere. Nel caso specifico il 38enne deve scontare una pena di quattro anni per reati in materia di droga e per uscire gli manca un anno e due mesi. Il suo avvocato si è attivato a giugno. Il detenuto si trovava, in quel momento, ai domiciliari, che gli erano stati concessi mesi prima. La procedura prevede però il passaggio in carcere, così l’uomo ritorna in cella. L’11 luglio la giudice accoglie la richiesta di espulsione e firma il decreto. In base al provvedimento, l’uomo può tornare in Albania in libertà, ma non potrà rientrare in Italia per almeno cinque anni. Il detenuto ha dato anche la sua disponibilità a pagarsi il biglietto aereo, “ma nonostante i vari solleciti all’ufficio stranieri della questura, tutti ignorati, ancora non abbiamo avuto una risposta - lamenta l’avvocato Sussman. Non è tollerabile che la libertà di un individuo possa subire un simile pregiudizio in ragione di una scelta del tutto discrezionale dell’amministrazione penitenziaria. Questo senza dimenticare il danno erariale, visto che ogni giorno di detenzione costa più di un biglietto aereo per Tirana”. Roma. A Rebibbia la scuola in carcere per crescere ed imparare un mestiere di Simone Incicco ancoraonline.it, 3 ottobre 2022 Nell’anno scolastico 2021-2022 è stato alla guida dell’Istituto superiore John Von Neumann, istituto tecnico romano con una sede all’interno del carcere di Rebibbia; lo scorso primo settembre ha passato la mano ad un collega ma continua a seguire con passione il tema dell’istruzione carceraria, convinto che la detenzione “non abbia solo scopo punitivo”, ma debba servire a “formare persone più mature e consapevoli del loro essere cittadini”. Peculiarità del Von Neumann, ci spiega il dirigente scolastico Giovanni Cogliandro, “è l’avere in gestione la scuola superiore nelle quattro istituzioni carcerarie di Rebibbia: il Nuovo complesso, la più affollata con oltre mille detenuti dall’alta sicurezza ai reati comuni; il Carcere femminile; la Casa di reclusione che accoglie condannati in via definitiva per gravi reati a pene anche molto lunghe; la Terza Casa, realtà innovativa, dedicata alla custodia attenuata di chi ha scelto di partecipare a iniziative formative organizzate dalla direzione”. All’interno del penitenziario vi sono anche un Istituto artistico e un agrario, ma il Von Neumann - tre indirizzi: tecnico industriale, professionale servizi commerciali, perito informatico - è l’unico ad essere presente nelle quattro realtà carcerarie, e con i suoi 550 studenti (260 solo al Nuovo complesso) è la scuola in carcere grande d’Italia, attiva dagli anni 70. Tra i suoi docenti, da oltre 25 anni lo scrittore Edoardo Albinati. “La scuola in carcere è bellissima, ma ha molti problemi, si lavora in condizioni limite con carenza di mezzi e di spazi perché il tema dell’istruzione carceraria non è abbastanza considerato nel nostro Paese”, afferma senza giri di parole Cogliandro, raccontando di difficoltà con l’amministrazione penitenziaria, pur essendo un dirigente scolastico e quindi avendone diritto, ad entrare nelle quattro realtà detentive. “Chi ha commesso un reato è giusto stia in carcere, ma se riteniamo che la scuola sia la più importante delle attività educative dovrebbe essere messa in condizioni di operare”, sostiene, raccontando invece di “aule anguste, buie, inospitali” e di motivi, “a volte incomprensibili, per i quali non si consente ai reclusi di andare a lezione”. Durante il picco pandemico, osserva, “si sarebbe potuto organizzare un sistema di didattica a circuito chiuso, invece i detenuti sono stati fermi un anno, totalmente descolarizzati”. Eppure, insiste, “la funzione del carcere non è solo punitiva: l’obiettivo dovrebbe essere quello del reinserimento sociale formando persone più mature e consapevoli del loro essere cittadini. Se siamo convinti di questo, un’Amministrazione penitenziaria non dovrebbe maltrattare l’istituzione scolastica”. Come funziona concretamente la scuola? “L’orario rispecchia quello degli studenti esterni, ma le lezioni iniziano a metà ottobre e finiscono a fine maggio”. Un ostacolo alla continuità didattica, sottolinea ancora il dirigente, è costituito dai trasferimenti da un carcere all’altro, “per le più svariate esigenze, una o anche due volte l’anno. Una prassi che mina la qualità e la continuità della formazione, oltre a destabilizzare i detenuti dal punto di vista psicologico e mentale”. Forse non tutti immaginano che anche in carcere si possano incontrare persone con menti brillanti e desiderose di approfondire e crescere culturalmente. Perché, si chiede Cogliandro, ai reclusi viene offerta solo un’istruzione tecnico-professionale e nessuno pensa all’istituzione di un liceo, classico e scientifico? “Lo scorso ottobre sono state avviate interlocuzioni con i ministeri della Giustizia e dell’Istruzione per inserire anche i licei nell’offerta formativa - ci racconta -. Ne ho parlato anche con il nostro direttore generale e mi ha detto che se l’Amministrazione penitenziaria lo richiedesse, se ci fossero almeno 15-20 studenti si potrebbe partire”. Sì, perché gli ergastolani, spiega, non hanno bisogno di una formazione tecnica: “studiano per il piacere di studiare”. “Chi deve scontare lunghe pene uscirà in età anziana e quindi non mira al reinserimento sociale e lavorativo. Alcuni nostri ex allievi, che io chiamo ‘gli accademici’, si sono laureati in filosofia, lettere, giurisprudenza, economia, matematica, alcuni sono plurilaureati. Quando la mente umana si adegua ad una situazione di isolamento e solitudine, o si abbrutisce, o assume un atteggiamento di profondità interiore curiosamente simile a quello dei monaci certosini, pur nella fondamentale differenza tra reclusione imposta per l’aver commesso un reato, o liberamente scelta”. Ed è proprio la forte motivazione allo studio ad avere spinto “gli accademici” a condividere la propria esperienza in un volume collettivo per il quale hanno scelto il titolo di “Naufraghi in cerca di una stella”, perché “così si sentono”, spiega Cogliandro; sottotitolo “Un esperimento di pratica filosofica in carcere” perché si tratta del “primo esito della scuola di filosofia in carcere avviata da Emilio Baccarini, docente emerito di filosofia all’Università di Tor Vergata e curatore del volume”. Un libro nel quale si raccontano come persone ed esprimono il desiderio di insegnare; “ambizione che, con l’autorizzazione della Direzione carceraria, potrebbe realizzarsi all’interno del penitenziario a favore dei compagni”. A Rebibbia esiste anche un “giornale di Istituto”. Si tratta di “Newsmann”, curato dai docenti della scuola che hanno coinvolto anche i detenuti che, con il solo nome o uno pseudonimo, firmano da un terzo a metà dei contributi pubblicati: “Testi di riflessione e poesie che esprimono l’anelito ad una vita diversa, belli e profondi”. Altri si esprimono attraverso la pittura o organizzano tra loro gruppi di lettura. “Ogni attività formativa costituisce uno stimolo per cambiare, per crescere, in qualche caso anche per aprirsi alla spiritualità”, conclude Cogliandro sottolineando che oltre alla presenza del cappellano cattolico, su sua iniziativa sono stati avviati, per chi ne fa richiesta, corsi guidati da due autorevoli maestri di meditazione individuati tramite la Pontificia Università Gregoriana presso la quale il dirigente scolastico si è occupato di mondo buddhista. Ivrea (To). La giustizia “spettacolare” e le regole da seguire, convegno con Bruti Liberati La Sentinella del Canavese, 3 ottobre 2022 Nuovo incontro-dibattito, in presenza, nell’Aula Magna del Polo formativo Officine H, e su piattaforma Zoom, (info e iscrizioni: www.forumdemocraticodelcanavese.it), organizzato dal Forum democratico del Canavese Tullio Lembo, giovedì 6, alle 21, ospite Edmondo Bruti Liberati che presenterà il libro Delitti in prima pagina-La giustizia nella società dell’informazione, pubblicato da Cortina Edizioni. Introduce e modera l’avvocato Maurizio Rossi. “Alla giustizia si chiede trasparenza, -spiegano le note di presentazione- ma la comunicazione non si improvvisa e i magistrati hanno ancora da imparare. Alla stampa si chiedono notizie ma anche rispetto della dignità delle persone e della funzione giudiziaria. Spettacolarizzazione dei processi, magistrati affetti da protagonismo: le insidie non sono poche. Edmondo Bruti Liberati ripercorre nel suo libro le regole che andrebbero seguite da entrambe le parti e le prassi che invece sono diffuse, con richiami alle vicende che più hanno appassionato l’opinione pubblica”. “Nelle odierne società democratiche - continuano - percorse da differenti fattori di crisi, la magistratura ha un ruolo fondamentale. È dunque necessario che il “quarto potere” eserciti un controllo critico sul “terzo potere”. Nonostante le possibili deviazioni e strumentalizzazioni, un’informazione non asservita alla logica del profitto o a potentati economici è garanzia di libertà e di giustizia”. Bruti Liberati, in magistratura dal 1970, ha svolto a Milano le funzioni di giudice, di magistrato di sorveglianza e di pubblico ministero. È stato dal 2010 al 2015 procuratore della Repubblica di Milano, componente nel 1981 del Consiglio superiore della magistratura, presidente di Magistratura democratica e della Associazione nazionale magistrati. Autore di numerosi testi in materia di diritto penale e penitenziario e organizzazione giudiziaria, ha pubblicato, tra l’altro, Autogoverno o controllo della magistratura? (con Livio Pepino, Feltrinelli 1998) e Giustizia e referendum. Separazione delle carriere, Csm, incarichi extragiudiziari (con Livio Pepino, Donzelli 2000). Dalla sua fondazione, nel 2001, il Forum ha organizzato oltre 170 incontri, con l’intervento di relatori di competenza e autorevolezza, creando occasioni di dialogo e dibattito di alto livello culturale e generando conoscenza e consapevolezza. La giustizia ingiusta, uno sguardo femminista sulla cultura punitiva di Valerio Calzolaio strisciarossa.it, 3 ottobre 2022 Istituzioni della giustizia. Ovunque. Legalità e onestà sono state e ancora sono le parole d’ordine di molte forze politiche negli ultimi decenni. Insieme hanno contribuito a costruire un senso comune, diciamo così giustizialista, o meglio forcaiolo, secondo cui deve marcire in galera chiunque sia sospettato di violare qualche legge, magari a fin di bene, per esempio quando la legge violata viene ritenuta ingiusta. La giustizia penale è selettiva per definizione (dipende dal tipo di azioni e comportamenti definiti reati e dal percorso istituzionale attraverso cui solo alcuni dei relativi colpevoli vengono condannati e detenuti), eppure viene invocata come la soluzione di tutti i problemi, oltre a concretizzarsi praticamente come classista e razzista. La “deriva punitivista” risulta abbastanza recente e non solo italiana. Sicurezza sociale, sicurezza privata - Nel primo dopoguerra della ricostruzione, per sicurezza si intendeva soprattutto la “sicurezza sociale”, ossia la titolarità e l’effettivo godimento di garanzie rispetto alla salute, all’istruzione, alla vecchiaia, al lavoro e alla casa, assicurate in via di principio (generale e pubblico) attraverso l’erogazione di risorse e servizi verso tutti, pagate da tutti con le tasse e le imposte. Nel successivo lungo perdurante periodo della crisi economico e finanziaria vi è stato un progressivo slittamento di attenzione dai “criminali” alle loro “vittime”, la sicurezza come diritto individuale e privato, contro le nuove ansie e incertezze del precario atomizzato vivere urbano. Ecco i progetti di urban safety nel Regno Unito, in Francia, negli Stati Uniti, in Italia e in tutta l’Unione, differenti fra loro ma accomunati dalla paura della criminalità metropolitana e dall’idea pervasiva di una sicurezza privata come fine (non mezzo) di vita umana associata, un tessuto di atomi da ripulire sterilizzare sorvegliare, mettendo in ombra la questione del legame sociale fra diversi, in parte tali anche per tante diffuse ingiustizie e crescenti diseguaglianze (compresi molti poveri e immigrati). Quale giustizia - L’illustre giurista, filosofa e sociologa Tamar Pitch (Siena, 1947) da quasi un cinquantennio si occupa di criminalità nelle università di tutto il mondo, con occhio sempre attento ai diritti fondamentali e alle discriminanti di genere. Riassume e aggiorna qui (con ricche citazioni, note e spunti bliliografici) i “malintesi” attorno ai termini legalità e giustizia, per cui ci si divide solo fra colpevoli e vittime (da cui il titolo). Probabilmente la definizione di legalità (almeno da Hobbes in poi) è chiara e assodata ma oggi rischia di essere fuorviata da due fenomeni: la feticizzazione dei suoi aspetti penali da una parte, l’iperproduzione di regole diverse dalle norme generali e astratte, invece amministrative, quantitative e tecniche, dall’altra, con la conseguenza che ciascuno e ciascuna siamo percepiti come individui assoluti e isolati. Anche la giustizia non dovrebbe divenire sinonimo di giustizia solo penale concependo la pena come retribuzione (“hai fatto del male, devi essere punito”). Altre forme di giustizia vengono prodotte e praticate da tanti e tante che, incuranti della repressione, si prodigano per salvare i migranti in mare e sui nostri confini, si oppongono a opere che distruggono l’ambiente, manifestano per la sicurezza del lavoro. L’agile lucido testo è strutturato in sei parti: lo scenario (gli ultimi trent’anni in Occidente); siamo tutti vittime (e quindi dobbiamo fare comunità solo per prevenire attentati alla nostra identità o, comunque, reprimere i rei, potenziali e reali)?; la criminalizzazione della marginalità sociale (fenomeno antico); l’uso politico del potenziale simbolico del penale; la criminalizzazione del dissenso sociale e politico (fenomeno almeno altrettanto antico, praticato anche con l’esilio); legalità e giustizia (appunto complessive). Lungo tutto lo scritto ricorrono opportunamente nessi e spunti relativi al movimento femminista, un centrato (indispensabile) punto di vista (da cui il sottotitolo). “Il malinteso della vittima. Una lettura femminista della cultura punitiva”, di Tamar Pitch, Edizioni Gruppo Abele, 2022, Pag. 111, euro 14. L’Italia e l’abiura mai fatta di Ernesto Galli della Loggia Corriere della Sera, 3 ottobre 2022 Perfino nelle disposizioni transitorie finali della Costituzione c’è una prova di cautela nel giudizio sul regime. Nel perenne revival del fascismo a scopo etico-ammonitorio che si celebra sui banchi delle nostre librerie (da non confondere con i veri libri di storia che sono tutta un’altra cosa) quest’anno si è portato molto il tema “Ma perché siamo ancora fascisti” declinato anche come “Non abbiamo fatto i conti col fascismo”, “Perché l’Italia è ancora ferma a Mussolini” e così via moraleggiando e biasimando. Col fine, per l’appunto, di deprecare il fatto che noi italiani saremmo ancora e sempre innamorati del duce, non ci vergogniamo abbastanza di lui e del suo regime, insomma non avremmo compiuto, a differenza dei virtuosi tedeschi, quell’abiura collettiva della dittatura e delle sue malefatte, necessaria per poter essere dei veri democratici. Come del resto starebbero a dimostrare i risultati delle elezioni che si sono appena svolte. Il fatto è che agli italiani, in realtà, quell’abiura nessuno l’ha mai chiesta. Tanto meno quando era più urgente e giusto farlo, e cioè all’indomani del crollo del fascismo e della catastrofe bellica. In questo senso ha un valore paradigmatico la dichiarazione che il 22 giugno 1944 fece il governo italiano (si trattava del governo presieduto da Ivanoe Bonomi: il primo, sottolineo, formato da tutti partiti del Comitato di liberazione nazionale) con parole che meritano di essere ricordate. E che saranno in seguito, in un modo o nell’altro, ripetute per centinaia di volte nelle cronache e nei discorsi degli esponenti politici dell’epoca. Diceva quel testo: “Il Consiglio dei ministri nella sua prima ordinanza constata che esso, per la sua origine politica, rappresenta quella grande maggioranza del Paese che già nel 1940 era schierata contro la dominazione fascista e contraria all’ingresso in guerra dell’Italia accanto alla Germania hitleriana. Perciò come suo primo atto il Consiglio afferma che soltanto il fascismo è responsabile dell’adesione dell’Italia al patto tripartito e dell’ingresso nella guerra (...). La nazione, non più sottoposta al più oppressivo dei sistemi di polizia ha saputo riprendere in mano le sue sorti e decidere liberamente del proprio destino”. Ma come ho detto di citazioni analoghe c’è solo l’imbarazzo della scelta. Mi limiterò ad un’altra soltanto, per la particolarità della sua sede e della data. È tratta dall’editoriale dell’organo del Partito d’Azione, L’Italia libera, del 2 giugno 1946, intitolato “Perché devi votare per la Repubblica”. La risposta del giornale è: “perché votando la monarchia fascista assumeresti la responsabilità di una politica passata e futura di guerra e di rovina. Solo la Repubblica è capace di liberarti della responsabilità della guerra monarchico-fascista”. Come si vede l’esempio dei mancati conti con il fascismo venne agli italiani dall’alto e venne proprio dai partiti antifascisti. I quali a mio giudizio avevano peraltro ottime ragioni per scegliere questa via e non quella dell’invito all’esame di coscienza e all’autodafé collettivo. Due ragioni in particolare. Innanzitutto i partiti antifascisti erano convinti giustamente che, per quanto fragilissima, la dissociazione di responsabilità degli italiani dal fascismo (peraltro convalidata dall’esistenza della lotta armata delle formazioni partigiane) era comunque un argomento indispensabile per cercare di ottenere dai nostri vincitori le migliori condizioni di pace possibili. In secondo luogo - e forse innanzitutto - essi si rendevano conto che una strada diversa - cioè ammonire il Paese all’abiura e al pentimento - non avrebbe fatto altro che sancire la loro estraneità rispetto ad esso, accrescere la già ampia diffidenza che in molti suscitava il loro ruolo di oggettivi alleati dei nemici di ieri, di gente salita al potere solo grazie alla sconfitta italiana. (Ciò che, detto tra parentesi fu anche il motivo per cui non fu estradato nei vari Paesi stranieri che ne avevano fatto richiesta neppure uno delle decine di criminali di guerra del Regio Esercito). A differenza di molti orecchianti che scrivono oggi di queste cose, gli antifascisti, a cominciare da Togliatti, sapevano bene che il fascismo non era stato “l’invasione degli Hyksos”. Ma ben altro. Era stato il prodotto della crisi politica del primo dopoguerra, in cui tutti gli attori compresi loro stessi avevano le loro più o meno pesanti responsabilità, e insieme era stato anche l’esito di una lunga storia italiana. L’esito di una storia italiana in cui erano confluiti moti profondi della vicenda nazionale risalente al Risorgimento, in cui avevano avuto modo di esprimersi anche cose molto degne ed esigenze ampiamente condivise, e al quale avevano collaborato con fecondità di risultati non poche personalità di indiscusso prestigio. Anche se, beninteso, era stato un esito tragico dal momento che tutto ciò non aveva potuto farsi che in un regime di violenza, di disprezzo per la libertà e di un nazionalismo ciecamente aggressivo e alla fine antisemita che aveva portato il Paese alla rovina. C’è nella nostra Costituzione - cioè nel fondamento stesso della nuova Italia democratica - una prova nascosta ma evidentissima della cautela nel giudizio circa il fascismo che l’antifascismo si sentì spinto a fare proprio. È la dodicesima delle disposizioni transitorie finali. Se ne cita sempre il primo comma, quello che vieta “la riorganizzazione sotto qualsiasi forma del disciolto partito fascista”. C’è però un secondo comma che non viene mai ricordato. In esso si dice che una legge apposita dovrà stabilire “limitazioni al diritto di voto e all’eleggibilità per i capi responsabili del regime fascista”. Ma attenzione: queste limitazioni, si aggiunge, dovranno essere temporanee e comunque in vigore per “non oltre un quinquennio dall’entrata in vigore della Costituzione”. Insomma, i “capi responsabili del regime fascista” - tanto per fare qualche nome di quelli allora ancora in vita, Federzoni, Scorza, Grandi, Bottai, Vidussoni e compagnia bella - dal 1953 in poi avrebbero potuto tranquillamente sedere e dire la loro nel Parlamento della Repubblica. Mi chiedo: si può immaginare qualcosa di analogo nel caso della Germania? Si può immaginare che nella Repubblica federale si consentisse ai “capi responsabili del regime nazista”, di prendere parte dopo qualche anno dalla fine del Terzo Reich ai lavori del Bundestag? E come mai è impossibile solo immaginarlo? Forse perché anche i nostri padri costituenti - come oggi non si stancano rimproverarci gli attuali moralisti politici travestiti da storici - preferivano pure loro non ricordarsi di che cosa era stato il fascismo, erano segretamente condiscendenti verso la dittatura mussoliniana, ed erano privi di una sufficiente coscienza etica? Un mondo in fiamme e la nostra triste aiuola di Massimo Cacciari La Stampa, 3 ottobre 2022 Temo che ben poche siano le “certezze” che emergono dal voto del 25 settembre, malgrado questa volta sia molto chiaro chi ha vinto e chi ha perso. Certo, alcune tendenze di lungo periodo appaiono confermate, tendenze ben più che elettorali, riguardanti la struttura economica, sociale e, direi, culturale del Paese. Anzitutto la spaccatura Nord-Sud. L’aumento drammatico dell’astensionismo al Sud strettamente correlato al reddito pro-capite. Dove la inflazione e la recessione pesano di più, lì aumenta vertiginosamente l’astensione rispetto alle aree più forti (ma ormai si dovrebbe dire meno deboli). Altro che serena indifferenza verso la partecipazione politica! L’astensione è diventata da noi misura del disagio e della protesta. A riprova, anche la grande maggioranza del voto va nel Sud alle forze politiche che sono state o appaiono essere state all’opposizione, o di quelle che negli ultimi mesi, contrastando il governo Draghi, hanno con più insistenza ripreso (lasciamo perdere come) i problemi dell’occupazione e del reddito di cittadinanza (piuttosto che baloccarsi sul pericolo fascista). Se la competizione elettorale si fosse svolta soltanto tra PD e 5Stelle, il PD avrebbe vinto in tutte le aree del Centro-Nord e i 5Stelle in tutto il Mezzogiorno e le Isole. Ciò che rende evidente le difficoltà materiali che minavano alle fondamenta il “campo largo” di Letta e quelle ancora più forti per pensare di costituirlo nel prossimo futuro. Eppure è evidente che se queste due forze non si ripensano da cima a fondo anche al fine di trovare un’intesa, neppure l’opposizione al governo Meloni potrà avere la minima efficacia. Prospettiva resa ancora più impervia dall’altro dato di fondo, strutturale, che il voto conferma: lo sgretolarsi della base sociale del PD, il suo progressivo indebolirsi nelle stesse “zone rosse”. Si è evitata la “catastrofe”, come già avvenuto nel recente passato (per l’elezione di Bonaccini), ma la tendenza è quella, aritmeticamente indiscutibile. Un ex partito di massa, e che come tale era nato o voleva nascere, non può sopravvivere soltanto come rappresentante dei ceti urbani medio-alti, più scolarizzati, con prospettive di vita più “serene”. Non sono né un sociologo, né mi intendo di statistica, ma fossi il PD commissionerei delle indagini scientifiche a conferma di ciò che appare evidente a una osservazione politica disincantata: per un verso il PD è diventato una sorta di Partito d’Azione-Radicale, e per l’altro un puro garante di stabilità, di governabilità, perdendo ogni vivacità riformatrice. Da qui il formarsi di una classe dirigente ministeriale, auto-referenziale, sradicata da ogni forte rappresentatività territoriale. Come può un simile partito corrispondere ai problemi che tormentano le nuove generazioni? E infatti se avessero votato solo i giovani non avrebbe superato neppure il 15%, mentre avrebbe conquistato oltre il 25% dei consensi se fossero stati chiamati alle urne solo i veteres (ultra sessantacinquenni). Anche su questo, attendiamo pure che i dati statistici confermino l’evidenza politica. Se tra gli pseudo-partiti formanti l’area di centro, centro-sinistra più 5Stelle tutto resta per aria, gli equilibri interni della Destra non risultano meno in tempesta. Il complesso della coalizione è rimasto sostanzialmente al palo del 2018. La Meloni ha prosciugato la Lega nel Mezzogiorno, non ha attinto a forze nuove, dall’astensione (il cui aumento è in grandissima misura formata da ex elettori dei 5Stelle). Anche al Nord essa prende soltanto dagli alleati. È una competizione in famiglia, a somma quasi zero. Foriera di grandi dissidi? Presto per dirlo - e molto dipenderà anche da ciò che riescono a combinare gli avversari. Certo è che il voto a Fratelli d’Italia al Nord, nelle aree più forti del Paese e a maggiore presenza, ormai storica, della Lega, non presenta nulla al momento di strutturale. Per verificarlo, basterebbe andare domani stesso a un voto per le Regionali e, forse con l’eccezione della Lombardia (a meno che non si presentasse la Moratti), si confermerebbero sostanzialmente i risultati della precedente consultazione. In queste Regioni il voto è stato un duro avvertimento alla Lega di Salvini: a noi nulla interessa di demagogie nazional-popolari, di ideologie identitarie e ansiogene sui temi della sicurezza. A noi interessa immigrazione ordinata (o chiudiamo le nostre imprese), cuneo fiscale, riduzione delle imposte, la bolletta dell’energia, semplificazione amministrativa. Questo ha dichiarato a voce alta l’elettorato leghista. Ma - e qui sta la contraddizione - una Lega che si ricicla esclusivamente su questi temi, mai potrà arrivare ai livelli del 2019 e neppure sfiorarli. E se ora decidesse di riproporre con forza il problema del federalismo fiscale, così come sostenuto dai suoi governatori, da Roma in giù non avrebbe più un solo voto. La vittoria della Meloni può perciò risultare analoga a tante altre del recente passato. Al momento è un boom che non rappresenta se non delusioni, frustrazioni, affannata e sempre più disperata ricerca di una decente rappresentanza politica. Potrà formarsi in questa situazione un decente governo? Si governa non solo con una maggioranza stabile e un esecutivo in grado perciò di svolgere un’azione di peso strategico, quale imposta dalle condizioni critiche del Paese - e non sembra proprio che la Destra sia oggi in grado di garantirlo. Si governa anche grazie a una opposizione capace di intesa, capace di proposte concrete e alternative a quelle del governo sui problemi fondamentali dell’agenda politica e amministrativa. E questo sembra possibile ancora meno. Intanto, urge alle frontiere della nostra micro-politica, ma con ricadute drammatiche al loro interno, la metamorfosi in atto degli equilibri geo-politici. Da qui in ogni istante potrebbe venire il terremoto che sconvolge, per dirla col Poeta, la nostra “triste aiuola”. È già capitato oltre trent’anni fa. Meglio restare vigili e pronti. Tutto ciò che ora vediamo a analizziamo potrebbe rivelarsi il sogno di un’ombra Iran. Alessia Piperno, 30 anni, arrestata da 4 giorni: “Aiutatemi a uscire” di Paolo Foschi Corriere della Sera, 3 ottobre 2022 La ragazza romana domenica mattina, dopo giorni di silenzio assoluto, è riuscita a chiamare i genitori. “Mi hanno arrestato a Teheran. Vi prego, aiutatemi”: è l’appello disperato di Alessia Piperno, 30 anni, di Roma, che domenica mattina, dopo quattro giorni di silenzio assoluto - come rivelato da Il Messaggero - è riuscita a chiamare i genitori Alberto e Miriam. La giovane ha raccontato di aver fatto “il diavolo a quattro” per ottenere il permesso di fare una telefonata. “Sto bene, ma qui ci sono persone che dicono di essere dentro da mesi e senza un motivo, temo di non uscire più, aiutatemi”. I genitori si sono rivolti alla Farnesina che sta seguendo il caso. Ancora, però, non è nemmeno chiaro in quale carcere la ragazza sia trattenuta. “Siamo molto preoccupati” ha poi dichiarato all’Ansa il padre, “la situazione purtroppo non va bene. Dopo la telefonata dal carcere di ieri da parte di Alessia non abbiamo più avuto altre notizie, non l’abbiamo più sentita”. Alessia Piperno e i tre post sulle proteste in Iran - Una situazione molto allarmante, considerato il drammatico momento dell’Iran, con le proteste in piazza per l’uccisione di Masha Amin sfociate in una terribile repressione feroce. Tre giorni fa Amnesty International aveva denunciato l’arresto di 9 stranieri considerati “complici” dei manifestanti e aveva anche rivelato che fra loro c’è un italiano. Le autorità dell’Iran avevano poi confermato l’arresto di un cittadino italiano. Su Instagram nei giorni scorsi Alessia aveva pubblicato diversi post solidarizzando con le proteste delle donne iraniane. “Qui la gente è stufa di essere un burattino, ecco perché migliaia di persone stanno scendendo nelle piazze a protestare. Stanno manifestando per la loro libertà”: questa una parte dell’ultimo messaggio, intitolato Bella Ciao. Secondo quanto riferito dai genitori, Alessia Piperno sarebbe stata arrestata mercoledì, giorno del suo compleanno. In mattinata era stata chiamata dal padre per gli auguri. Nell’ultimo post pubblicato su Instagram prima dell’arresto, aveva scritto che “aveva paura” per quello che stava succedendo in Iran, “ma non riesco ad andarmene”. In precedenti post aveva espresso solidarietà alle donne iraniane. In ogni caso, secondo il padre mercoledì scorso “era contenta, stava aspettando che i suoi amici uscissero dalle loro camere in ostello per andare tutti insieme a festeggiare con un pic nic, dove avrebbe passato la giornata con un amico francese, un polacco e una ragazza iraniana” ha raccontato il padre, titolare della libreria Di Libro in Libro, nel quartiere di Colli Albani. Dalle 12 però il cellulare di Alessia è risultato staccato. In un primo momento, pur preoccupati, i genitori hanno pensato a un problema di connessione. “Se non avesse chiamato lei, oggi (ieri ndr) saremmo comunque andati alla Farnesina perché in sei anni di viaggi per il mondo non era mai passato tanto tempo senza sentirci”. I genitori, disperati, hanno anche lanciato un appello sui social (il post pubblicato su Facebook è stato rimosso su invito della Farnesina, dopo essere però già stato condiviso da molti utenti), riassumendo la vicenda. “Questa ragazza è Alessia Piperno, ed è mia figlia. È una viaggiatrice solitaria, gira il mondo per conoscere usi e costumi dei popoli. Si è sempre adeguata e rispettato le tradizioni e, in certi casi, gli obblighi, di ogni paese che ha visitato. Erano 4 giorni che non avevamo sue notizie, dal giorno del suo 30 compleanno, il 28 settembre. Anche il suo ultimo accesso al cellulare riporta quella data. Stamattina arriva una chiamata. Era lei che piangendo ci avvisava che era in prigione. A Teheran. In Iran. Era stata arrestata dalla polizia insieme a dei suoi amici mentre si accingeva a festeggiare il suo compleanno. Sono state solo poche parole ma disperate. Chiedeva aiuto. Ci siamo subito mossi con la Farnesina, abbiamo chiamato l’Ambasciata italiana a Teheran. Ma ancora non sappiamo niente, neanche il motivo della reclusione. Ci dicono che si stanno muovendo…. E noi genitori, e il fratello David, non riusciamo a stare con le mani in mano. Non si può stare fermi quando un figlio ti dice “ vi prego, aiutatemi “Non sono un postatore di foto e non uso quasi mai social ma oggi non ho potuto farne a meno…. Voglio che si sappia e che questa notizia raggiunga più persone possibili, magari arrivare a quella giusta che può aiutarci”. Alessia è in Iran da due mesi, in attesa del visto per rientrare in Pakistan, dove aveva già trascorso diverse settimane. Diplomata al liceo scientifico, fece il quarto anno negli Stati Uniti, è grande appassionata di viaggi. Da sei anni è in giro per il mondo, di tanto in tanto torna a casa. E’ stata fra l’altro in Islanda, Australia, Honduras, Nicaragua e Panama, mantenendosi lavorando come organizzatrice di viaggi e come segretaria a distanza attraverso una piattaforma online. “Nostra figlia - ha detto ancora al Messaggero il padre - è una ragazza spinta dall’amore per la conoscenza delle culture e dei popoli. La sua felicità è nel viaggiare. Se la sa cavare in tutte le situazioni, ma non è una spericolata. Anzi è sempre molto attenta e animata da un grande rigore morale. Non tocca alcolici o, peggio, droghe. Per questo, a maggior ragione, non sappiamo spiegarci che cosa possa essere successo”. Scambio di prigionieri fra Venezuela e Usa: liberato il nipote di Maduro, a casa sette americani di Alberto Simoni La Stampa, 3 ottobre 2022 Biden: “Decisione dolorosa ma necessaria”. Lo scambio avvenuto in un aeroporto di un Paese terzo che non è stato specificato: i negoziati sono durati mesi, tenuti rigorosamente segreti. Scambio di prigionieri fra il Venezuela e gli Stati Uniti. Caracas sabato ha liberato sette americani - fra cui cinque dirigenti di aziende petrolifere - e Washington ha risposto rimandando in patria due detenuti eccellenti: i nipoti acquisiti del presidente Nicolas Maduro. Fra gli americani rilasciati c’è anche un veterano dei Marines Matthews Heath. Biden ha parlato con le famiglie prima di comunicare l’avvenuto scambio e ha definito la loro detenzione “profondamente ingiustificata”. Lo scambio dei prigionieri - ha riferito un funzionario dell’Amministrazione americana - è avvenuto in un aeroporto di un Paese terzo che non è stato specificato. I negoziati sono durati mesi e tenuti rigorosamente segreti. Gli ex detenuti americani sono tutti in discrete condizioni di salute e sono già tornati nelle loro abitazioni. E così anche per i due venezuelani. Il loro rilascio - ha precisato la Casa Bianca - è stata “una decisione dolorosa e difficile”, ma il presidente era consapevole che quella mossa era essenziale per riportare a casa i sette statunitensi. Ai due nipoti di Maduro, gli Stati Uniti hanno garantito la “clemenza”. Il governo di Maduro ha detto che i negoziati sono stati avviati in marzo e che i due venezuelani erano “ingiustamente” nelle mani degli Stati Uniti. Biden dal canto suo ha voluto precisare che la posizione e la politica statunitense verso il Venezuela - che resta sotto sanzioni americane anche per quanto riguarda l’export di petrolio - non muta. L’Amministrazione democratica ha mantenuto il regime di sanzioni che era stato introdotto da Trump. Biden ha detto che considererà l’allentamento delle misure coercitive solo quando Maduro tornerà ai negoziati con l’opposizione, sospesi dall’anno scorso. I cinque americani sono impiegati dalla Citgo ed erano detenuti in Venezuela dal 2017. Gli altri due sono il marine Matthew Heath e Osman Khan, della Florida e preso lo scorso gennaio. Gli Usa hanno invece restituito ai venezuealini due nipoti della first lady, Cilia Flores: Franqui Flores ed Efrain Antonio Campo Flores. Erano stati condannati nel 2016 negli Usa con l’accusa di aver cercato di concludere un affare multimilionario di traffico di cocaina, per questo erano stati condannati a 18 anni di reclusione nel 2018. La liberazione dei due venezuelani riporterà inevitabilmente i riflettori sulla vicenda di Brittney Griner e Paul Whelan, gli americani detenuti in Russia e per i quali gli Usa hanno proposto uno scambio di prigionieri con Mosca. Ieri poi si è conclusa anche la prigionia in Iran di Siamak Namazi, 50 anni, iraniano-americano. È il figlio di un ex alto diplomatico dell’Onu, Baquer Namazi, 85 anni, che era stato anch’egli fermato in Iran dopo essere andato nel 2016 nel Paese per cercare di ottenere la liberazione del figlio. Ora l’uomo potrà lasciare Teheran (era ai domiciliari dal 2018) e potrà “ricevere cure mediche anche all’estero”. Il figlio è stato liberato.