Se l’ergastolo è fuorilegge di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 31 ottobre 2022 La questione che vede scontrarsi coloro che usa chiamar garantisti con quanti pensano che almeno per i condannati per certi delitti occorrerebbe incarcerarli e “gettar via la chiave”, pare sia ora oggetto di un intervento urgente del governo, con decreto legge. Si tratta del c.d. ergastolo ostativo e della norma che esclude il detenuto dai benefici penitenziari previsti dalla legge, che il giudice di sorveglianza concede o nega valutandone la condotta e l’evoluzione della sua personalità nel corso della esecuzione della pena. Per i condannati a pena detentiva per una serie di reati di varia portata, la legge ora assoggetta la possibilità di concedere alcuni benefici, tra cui la liberazione condizionale dell’ergastolano, alla condizione della collaborazione che il condannato dia alle autorità per la ricostruzione dei fatti e delle responsabilità. Non si tratta solo dei condannati per fatti di mafia, ma il dibattito si accentra su questi casi per la loro evidente gravità ed anche per la forza del vincolo mafioso, capace di mantenersi anche a lungo nonostante la detenzione. Sia la Corte costituzionale che la Corte europea dei diritti umani hanno già dichiarato che contrasta con la Costituzione e con la Convenzione europea dei diritti umani la normativa che stabilisce una presunzione assoluta di permanenza del vincolo associativo criminale nel caso in cui il detenuto non collabori con le autorità. Non si nega naturalmente che il rifiuto di collaborare sia elemento da tenere in considerazione da parte del giudice, ma si afferma che il suo significato vada valutato in concreto, con tutti gli elementi che riguardano lo specifico detenuto, tra i quali i motivi (ad esempio, il pericolo per sé o per i congiunti) che lo spiegano. La dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’attuale legislazione non comporta - come invece sembra dal dibattito politico - l’automatica applicazione dei benefici e della liberazione condizionale, ma invece rinvia la valutazione ad un giudizio particolarmente rigoroso da parte dei giudici di sorveglianza. La Corte costituzionale ha già dichiarato che “La personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile cambiamento”. All’art. 27 la Costituzione stabilisce che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Tutte le pene, qualunque sia il reato commesso. E, proprio con riguardo ad uno dei benefici previsti dalla legge, quello dei permessi premio, la Corte ha già dichiarato la incostituzionalità della loro esclusione senza eccezione se il detenuto non è collaboratore. Poiché i permessi, come in generale i benefici, contribuiscono alla risocializzazione del detenuto. Ma ora la questione della presunzione assoluta di mantenimento dei vincoli associativi criminali riguarda un altro beneficio. Si tratta della liberazione condizionale che, per gli ergastolani, è possibile dopo ventisei anni di carcere. La Corte costituzionale ha già affermato che la presunzione assoluta non è compatibile con la Costituzione, ma invece che dichiararne la incostituzionalità e quindi eliminarla, con l’ordinanza di rinvio del 2021, ha sospeso il giudizio per dar tempo al Parlamento di provvedere ad un complessivo esame della legislazione riguardante la criminalità associata di tipo mafioso. Ma il Parlamento non è stato in grado di provvedere ed un primo rinvio di un anno è passato invano. Un secondo rinvio viene a scadere il prossimo 8 novembre, quando la Corte ha fissato l’udienza che dovrebbe portarla a pronunciare sentenza. Una sentenza già scritta, poiché la Corte stessa ha già detto che la norma di cui si tratta non è costituzionale e il Parlamento non è stato in grado di modificarla. Per impedire una tale sentenza il governo pare ora intenzionato a modificare la norma oggetto del giudizio di costituzionalità, ciò che toglierebbe di mezzo la norma su cui la Corte costituzionale dovrebbe pronunciarsi con la sentenza. La nuova norma potrebbe naturalmente a sua volta divenire oggetto di una nuova eccezione di costituzionalità, ma i tempi si allungherebbero e l’esito del giudizio sarebbe incerto. L’intervento legislativo governativo sostituirebbe quello fisiologico del Parlamento e potrebbe essere persino apprezzato, come segno di attenzione verso l’esigenza di revisione della legislazione segnalata dalla Corte, con i suoi due rinvii. Ma ciò a condizione che il contenuto della nuova legge rispetti la ragione della incostituzionalità della legge presente: la inaccettabilità di una presunzione assoluta come quella ora stabilita. Se invece, pur modificandone il testo, se ne confermasse la portata concreta, allora saremmo di fronte ad una forzatura governativa e ad un problema di correttezza, non solo nei confronti della Corte, ma prima ancora della Costituzione. Ed è purtroppo quel che parrebbe avvenire, se il decreto legge riprendesse il testo già approvato dalla Camera il 31 marzo di quest’anno. Il testo approvato dopo infinite discussioni, alla ricerca di tali e tanti vincoli da imporre al giudice che deve decidere, fa pensare che la possibilità di superare la presunzione che esclude dai benefici sia teorica, ma non concreta. In questo senso sembra indirizzarsi la portata delle condizioni che il testo della Camera stabilisce, per il caso di non collaborazione. Si tratta tra l’altro della raccolta di elementi che consentano di escludere non solo l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata e “con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, ma anche “il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Ove dalla istruttoria emergano indizi in tal senso, si richiede al condannato di fornire idonei elementi di prova contraria. Ma come si può provare l’insussistenza del pericolo di un futuro evento di tal fatta? Non è questo un modo per rendere impossibile quello che pur si fa mostra di voler ammettere? Con ciò rifiutando in concreto ciò che la Costituzione richiede? Governo al lavoro per il rinvio della riforma Cartabia. Si punta a mantenere l’ergastolo ostativo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 31 ottobre 2022 L’esecutivo guidato da Giorgia Meloni vuole arrivare a un dl prima dell’udienza della Consulta fissata per l’8 novembre. Uffici legislativi al lavoro per confezionare un decreto legge - il primo del governo di Giorgia Meloni - che dilata i tempi di entrata in vigore della riforma Cartabia del processo penale e soprattutto introduce una ‘stretta’ sui benefici penitenziari per chi non collabora. “Per mantenere”, sottolineano fonti di palazzo Chigi, il cosiddetto ‘ergastolo ostativo’ che è per l’esecutivo “uno strumento essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata”. Un giro di vite considerato dunque “prioritario e diventato urgente”, dicono le stesse fonti, anche in vista dell’udienza fissata dalla Consulta per l’8 novembre, quando i giudici della Corte costituzionale hanno in calendario proprio l’ergastolo ostativo e si apprestano a dare l’ennesima spallata se il Parlamento, al quale hanno già dato un anno e mezzo di tempo, non sarà intervenuto. La deadline per la messa a punto del decreto è fissata per oggi pomeriggio, quando è convocata la “riunione preparatoria” del Consiglio dei ministri. In quell’occasione sarà esaminato il provvedimento sia sulle “misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia” sia per quando riguarda “il rinvio dell’entrata in vigore” della riforma Cartabia. Il testo del Dl, sottolinea il governo, “ricalca il disegno di legge n. 2574 già approvato nella passata legislatura” dalla Camera “e punta a evitare le scarcerazioni facili dei mafiosi”. “È una corsa contro il tempo - è il ragionamento dell’esecutivo - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”. L’ampiezza del provvedimento che mira a precludere con una nuova norma la fruizione di permessi a chi non collabora, cosa già prevista attualmente ma messa nel ‘mirino’ dalla Consulta, potrebbe avere una platea composta dai circa 1200 detenuti condannati all’ergastolo - per reati associativi di mafia e terrorismo - e sottoposti al regime ‘ostativo’ in base ai dati di ‘Nessuno tocchi Caino’, ossia senza benefici, dal momento che non hanno collaborato. Una popolazione di ‘dannati’ per i quali la Consulta ritiene la ‘linea dura’ non conforme ai principi della Costituzione sulla funzione rieducativa della pena, e del diritto comunitario. Il ministro della giustizia Carlo Nordio ha detto che “la certezza della pena, che è uno dei caposaldi del garantismo, prevede che la condanna debba essere eseguita, ma questo non significa solo carcere e soprattutto non significa carcere crudele e inumano” e ha indicato più lavoro e sport. Attività che non necessariamente devono svolgersi fuori dalle carceri, specie se il governo intende costruirne di nuove. L’intervento della Consulta potrebbe dunque essere ‘disinnescato’ da norme che le prevedano all’interno delle strutture penitenziarie. Dopo l’ allarme dei 26 procuratori generali delle Corti ‘Appello - e dell’avvocatura - sulle criticità degli uffici giudiziari non pronti a gestire la nuova tempistica delle scadenze processuali della riforma Cartabia, l’esecutivo ha poi deciso di farla slittare al 30 dicembre. Il rinvio, secondo Debora Serracchiani del Pd, “rischia di buttare a mare due anni di lavoro e di mettere a rischio i fondi Pnrr. Ci auguriamo che non sia questa la strada che vuole intraprendere il ministro Nordio. Sarebbe un inizio all’insegna dello scontro frontale con Bruxelles”. Per Palazzo Chigi, invece, il dl “intende rispettare le scadenze del Pnrr e consentire la necessaria organizzazione agli uffici giudiziari”. “Bene - ha invece commentato il vicepremier e ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini - anche sulla giustizia finalmente si cambia, avanti così”. Il garantista Nordio è già stato silenziato su carcere e riforma penale di Giulia Merlo Il Domani, 31 ottobre 2022 Meloni punta ad approvare in Consiglio dei ministri un decreto legge per mantenere l’ergastolo ostativo e il rinvio dell’entrata in vigore della riforma penale, dal 1 novembre al 1 gennaio, per andare incontro alle richieste dei magistrati. Occhi puntati sul guardasigilli, che aveva definito il carcere ostativo una “eresia contraria alla Costituzione”. Il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è già stato scavalcato dal governo di cui fa parte. L’ex magistrato liberale che Giorgia Meloni ha voluto strenuamente sulla poltrona di via Arenula rischia di essere commissariato ancora prima di iniziare a lavorare e su due questioni di grande peso sia mediatico che concreto: l’ergastolo ostativo e la riforma penale. Nel consiglio dei ministri di oggi i punti all’ordine del giorno riguardano proprio due provvedimenti urgenti da assumere in materia di giustizia. L’ergastolo ostativo - Il primo è un decreto legge sull’ergastolo ostativo, approvando un testo già votato durante il governo Draghi con un accordo quasi unanime visto che anche Fratelli d’Italia si era astenuta, ma solo alla Camera. L’ergastolo ostativo, previsto dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e tra le misure di emergenza volute dal giudice Giovanni Falcone nel 1992, prevede che i condannati per alcuni reati gravi, in particolare mafia, terrorismo e associazione per delinquere, non abbiano la possibilità di accedere ad alcun beneficio penitenziario se non decidano di collaborare con la giustizia, dimostrando così il loro ravvedimento. La Consulta, però, ha stabilito che fare “della collaborazione l’unico modo per il condannato di recuperare la libertà, è in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo”. La ragione della fretta del nuovo esecutivo è che la riforma di questo istituto è resa obbligatoria dalla Corte costituzionale, che con ordinanza ne ha stabilito l’incostituzionalità ma ha aspettato a “decapitarla” definitivamente, lasciando il tempo al parlamento per approvare una legge che riordini la materia alla luce delle indicazioni della corte. Il parlamento, però, non ha fatto in tempo ad approvare la riforma in via definitiva e il testo votato alla Camera è stato fortemente criticato dalla galassia garantista, visto che accoglie le indicazioni della corte ma introduce una serie di previsioni che, nei fatti, rischiano di non mutare nei fatti l’accesso ai benefici penitenziari. Il detenuto, infatti, deve dimostrare “elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria” che ne giustifichino l’inserimento nel percorso riabilitativo e l’esclusione “dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti”. A valutare la richiesta sarà il Tribunale di sorveglianza, con il parere del pubblico ministero e del procuratore antimafia e l’acquisizione di informazioni presso il carcere. Proprio questo testo, ora, entrerà nel decreto legge. La nuova udienza della Consulta è fissata per l’8 novembre ed evidentemente il governo ha ritenuto improbabile la possibilità di ottenere un ulteriore rinvio della sentenza. Così, invece di far cancellare completamente l’istituto dai giudici costituzionali, il governo ha deciso di tamponare la situazione con un decreto legge. Poi avrà tempo - i sessanta giorni - di fare eventuali ritocchi in sede di conversione. Con un problema, però: il rischio è che anche la nuova norma possa incorrere in una valutazione critica della Corte costituzionale. La scelta, per altro annunciata indirettamente in aula in Senato da Meloni, quando ha detto che avrebbe difeso l’ergastolo ostativo considerandolo una misura imprescindibile per la lotta alla mafia, suona subito come un commissariamento del ministro Nordio. Il problema di Nordio - Nordio, quarantanni da pubblico ministero e posizioni “eretiche” sul carcere, tra le quali quella di voler abolire l’ergastolo, si è sempre espresso anche contro l’ergastolo ostativo. Nell’ultimo libro di Claudio Cerasa, Le catene della destra, lo definisce “un’eresia contraria alla Costituzione. Spiace per chi a destra la pensa cosi?, ma il punto e? evidente: il fine pena mai non e? compatibile, al fondo, con il nostro Stato di diritto” e il principio di rieducazione della pena. Peccato che a pensarla così sia proprio la sua premier e il partito che lo ha fatto eleggere alla Camera. Dopo la conferma dell’ergastolo ostativo, infatti, FdI ha messo nel mirino anche la finalità rieducativa della pena: il deputato Edmondo Cirielli, infatti, ha depositato una proposta di modifica costituzionale (già presentata nella passata legislatura) per “limitare la finalità rieducativa” e “salvaguardare e garantire il concetto di “certezza della pena”, di fatto comprimendo le garanzie dell’articolo 27 della Costituzione. Per ora via Arenula tace. Anzi, nel giorno in cui è stato annunciato l’ordine del giorno del cdm, l’unico comunicato ufficiale ha riguardato proprio il carcere: “Il carcere è una priorità tra i miei compiti e ho deciso che la mia prima visita esterna non sarà in uffici giudiziari, ma in alcune carceri in particolare difficoltà”. Il governo di cui fa parte rischia però di prenderlo in contropiede. Riforma Cartabia - L’altra questione che arriverà in consiglio dei ministri riguarda invece la riforma penale approvata con la ministra Marta Cartabia, di cui sono stati approvati anche i decreti attuativi e di cui alcune parti entreranno in vigore il 1 novembre. Proprio questa scadenza vuole essere evitata dal governo, che differirà l’entrata in vigore al 1 gennaio 2023, su sollecitazione dei procuratori generali e dell’Associazione nazionale magistrati. La nuova disciplina penale, infatti, introduce una serie di modifiche e di adempimenti procedurali che richiedono dotazioni informatiche adeguate che in questo momento sono carenti. I 26 procuratori generali hanno firmato una lettera al governo, in cui spiegano che gli adempimenti necessari stanno mandando nel caos gli uffici delle procure, non attrezzati in modo sufficiente e quindi non in grado di adempiere senza un tempo “cuscinetto” per adattarsi alle novità e per avere risposte ai dubbi. Uno su tutti: le disposizioni sulle udienze filtro e sul deposito degli atti si applicano ai vecchi fascicoli? Il rischio è che ogni procura adotti la sua interpretazione, con il rischio di una applicazione differente della riforma. In realtà, il sospetto è che anche questa iniziativa sia un modo per dirottare su un binario morto la riforma Cartabia o comunque di sabotarla. Per questo le opposizioni, in particolare il Partito Democratico con Debora Serracchiani, denuncia che “così si rischia di buttare a mare il lavoro di due anni e i fondi del Pnrr”. La riforma penale, infatti, è uno dei pilastri necessari per ottenere i fondi europei e rallentarla potrebbe metterli a rischio. Intanto, il mondo giudiziario è in burrasca: l’Unione camere penali ha convocato una giunta urgente in vista del cdm per far sentire la voce anche dei penalisti. Lo scontro si preannuncia duro e tutti gli occhi sono puntati su Nordio, per vedere se si allineerà alla premier, sconfessando le sue posizioni storiche. Veleni a destra sulla Giustizia. Ergastolo ostativo, il faro del Colle di Liana Milella La Repubblica, 31 ottobre 2022 Oggi la prima riunione operativa del governo, stretta al carcere per i mafiosi. Malumori in FI: “FdI votò contestò la norma ora la Signora Meloni non avalli modifiche giustizialiste”. Il Quirinale vigila sui criteri di necessità e urgenza del decreto. Un debutto segnato dall’esigenza di “discontinuità”, parola d’ordine fatta filtrare da Giorgia Meloni, ma accompagnato dai malumori di Forza Italia. Oggi, alle 13, andrà in scena il primo Consiglio dei ministri del governo di destra. Tre i provvedimenti annunciati da Palazzo Chigi: ergastolo ostativo, rinvio della riforma Cartabia e abolizione dell’obbligo vaccinale per i medici. Ma l’elenco sarà più corposo: sul tavolo del Cdm anche il giro di vite sui mega-raduni e i rave party del ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Ma non cessano i borbottii dei forzisti, soprattutto dei “falchi” dell’ala Ronzulli, che sabato hanno messo nel mirino proprio la norma anti-Covid: “Non credo che sia la pandemia il settore dove esercitare discontinuità”, ha detto la senatrice. Non è escluso che sull’impianto della lotta al virus, anche dopo il monito di Mattarella, la linea del governo possa ammorbidirsi: è probabile che il ministro della Salute Orazio Schillaci, ad esempio, firmi un decreto che non abolisce del tutto - come annunciato - l’obbligo di mascherine in ospedali e Rsa. Mentre è in corso una riflessione sull’obbligo vaccinale per i camici bianchi, che è di competenza dell’intero Cdm. Ma difficilmente questa misura cambierà. Forza Italia nelle ultime ore sfoga nelle chat interne il suo malessere anche nei confronti del provvedimento sull’ergastolo ostativo, che permette ai condannati per mafia che non collaborano con la giustizia di accedere ai benefici penitenziari solo se hanno riparato il danno alle vittime e dimostrano con “elementi specifici” di aver reciso i rapporti con i clan. Il fatto è che, per anticipare l’udienza della Consulta (che ha bacchettato il Parlamento per i ritardi e si appresta a riunirsi), il governo Meloni approverà oggi un decreto che contiene lo stesso testo sul quale FdI si era astenuta alla Camera a fine marzo. In un messaggio che circola fra i forzisti, un eletto si è preso la briga di verificare cosa disse in Aula il deputato meloniano Andrea Delmastro: “Noi non crediamo sia il caso di gargarismi garantistici contro la mafia”. Nello stesso whatsapp, si ricorda che “la presidente del Consiglio e i ministri di FdI si apprestano a votare un dl che contiene una normativa che hanno contestato e non votato in Parlamento. Sarebbe interessante sapere - è scritto - cosa risponderebbe la Signora (così viene definita Meloni) se nella conferenza stampa a Chigi le venisse chiesto se il dl sarà aperto a modifiche in sede parlamentare”. FI rimprovera dunque alla premier una mancanza di coerenza. Ora, la vicenda è più complessa, perché il governo ha intenzione di approvare questo testo solo come base di discussione, non chiudendo a future modifiche. Ma qualora arrivassero in Parlamento correzioni al decreto in senso più rigoroso, ovvero che negassero ogni beneficio per chi non collabora - e Meloni ne ha parlato apertamente - Forza Italia sarebbe pronta a opporsi in ossequio alla sua linea garantista: “Quello trovato alla Camera mi sembra un valido compromesso”, afferma l’azzurro Pietro Pittalis. Querelle politica a parte, ce n’è una tecnica - di rilevantissimo conto - che incombe sulla partita del decreto: il primo del governo Meloni che certo non può andare incontro a un altolà del Quirinale. Sergio Mattarella è da sempre rigoroso nel vagliare i presupposti “di necessità e urgenza” dei decreti legge. In questo caso l’interrogativo sul tavolo del capo dello Stato è semplice: fino a che punto la prossima udienza della Consulta, fissata per l’8 novembre, peraltro nota da sei mesi (come non bastasse una proroga rispetto ai 12 mesi dati in precedenza), può costituire di per sé una causa di effettiva urgenza? O piuttosto il governo, nel ricorrere al decreto, cerca di prevenire, e quindi ostacolare, una decisione in chiave garantista della Corte che andrebbe contro il “Meloni pensiero” sul carcere duro? Certo è che - come tante volte ha messo in chiaro il Quirinale - anche stavolta toccherà al governo motivare con ampiezza le ragioni d’urgenza che lo hanno spinto al decreto legge. Resta il giallo sulla posizione del Guardasigilli Carlo Nordio: non pochi si sono accorti del riserbo, in questa materia, del ministro. Fonti a lui vicine minimizzano: “Nordio commissariato? Non scherziamo. È un deputato di FdI che gode della piena stima di Meloni che lo ha voluto ministro”. Ma l’Unione delle Camere penali boccia i primi provvedimenti sulla giustizia del governo e chiede un incontro a Nordio: “Il giudizio è drasticamente negativo”. Nordio commissariato: stop riforma Cartabia e si all’ergastolo ostativo di Piero Sansonetti Il Dubbio, 31 ottobre 2022 La giustizia al centro del primo, vero, Consiglio dei Ministri del governo Meloni in programma lunedì 31 ottobre. E nonostante la nomina dell’ex magistrato Carlo Nordio alla guida del Dicastero di via Arenula, al primo punto ci sarà un decreto legge per mantenere l’ergastolo ostativo, che esclude dall’applicabilità dei benefici penitenziari (liberazione condizionale, lavoro all’esterno, permessi premio, semilibertà) gli autori di reati particolarmente riprovevoli quali i delitti di criminalità organizzata, terrorismo, eversione, e rinviare a fine anno l’entrata in vigore della Riforma Cartabia. Si tratterebbe un inizio in salita per lo stesso Nordio che nonostante i proclami in campagna elettorale, sembra adeguarsi alla linea di partiti come Fratelli d’Italia e Lega da sempre giustizialisti. Sono sette gli articoli per rinviare al 30 dicembre prossimo l’entrata in vigore della intera riforma Cartabia sulla giustizia penale e soprattutto per mettere in sicurezza l’ergastolo ostativo. Il decreto che porta le firme della premier Giorgia Meloni e del Guardasigilli Carlo Nordio. Oltre alle scarcerazioni “facili”, l’obiettivo sarebbe anche quello di impedire che la riforma Cartabia entri in vigore senza che siano stati risolti le criticità e i problemi organizzativi messi in evidenza dai Procuratori generali di tutte le Corti d’appello in una lettera al governo e dall’Associazione nazionale magistrati. Ergastolo ostativo - Nonostante i pareri della Corte Costituzionale, che nel 2021, ha stabilito l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo, e della Corte europea per i diritti umani (Cedu) che, nel 2019, aveva invitato l’Italia a rivedere la legge, ritenendola in contraddizione con la Convenzione europea dei diritti umani, che proibisce “trattamenti inumani e degradanti”, il nuovo esecutivo continua a considerare l’ergastolo ostativo, regolato dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, uno strumento essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata. Il testo in esame ricalca il disegno di legge n. 2574 già approvato nella passata legislatura dalla Camera dei Deputati e punta a evitare le scarcerazioni facili dei mafiosi, perché permette l’accesso ai benefici penitenziari al condannato che abbia dimostrato una condotta risarcitoria e la cessazione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. “Una corsa contro il tempo - fa filtrare Palazzo Chigi - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”. Nella bozza, visionata dall’Ansa, per accedere ai benefici penitenziari i condannati per reati di mafia che non collaborano con la giustizia dovranno aver riparato il danno alle vittime e dimostrare di aver reciso i rapporti con i clan, allegando “elementi specifici”. Slittamento Riforma Cartabia - Sempre sul tema della giustizia, il Consiglio dei Ministri domani affronterà il rinvio al 30 dicembre 2022 dell’entrata in vigore di alcune disposizioni della ‘Riforma Cartabia’, raccogliendo le criticità già emerse nel dibattito parlamentare e che sono state confermate in questi giorni dagli operatori del diritto con una lettera al Ministro della Giustizia. Il provvedimento intende rispettare le scadenze del PNNR e consentire la necessaria organizzazione degli uffici giudiziari. Dura la posizione dell’Unione Camere Penali: “Non vi è alcuna ragione che giustifichi il differimento dell’entrata in vigore delle parti relative al sistema sanzionatorio e di esecuzione della pena, che non manifestano il benché minimo problema di natura organizzativa posto a fondamento delle ragioni d’urgenza del decreto” afferma la giunta in un documento approvato all’esito di una riunione convocata di urgenza. Per quanto riguarda il secondo intervento l’Ucpi parla di “un inammissibile atto di ribellione del Governo e del Parlamento alle indicazioni del Giudice delle leggi”, facendo notare che il dl “introduce regole addirittura peggiorative del quadro normativo censurato dalla Corte costituzionale oltre che dalla Corte Europa dei Diritti dell’Uomo”. L’Unione sottolinea, infine, “la manipolazione informativa che sta accompagnando l’adozione di questo provvedimento, indicato come relativo al solo tema dell’ergastolo ostativo, quando invece esso riguarda ed aggrava gli effetti delle ostatività relativi ad un ben più ampio catalogo di reati, a cominciare da quelli contro la pubblica amministrazione”. La giunta chiederà di essere ricevuta dal ministro Nordio “per poter rappresentare compiutamente le ragioni di contrarietà al decreto legge, riservandosi ogni ulteriore iniziativa di contrasto e di protesta nei confronti di un provvedimento che giudica di straordinaria gravità” Nessuno Tocchi Caino - “Dopo le incoraggianti e condivisibili dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio per un’esecuzione penale finalmente orientata ai principi costituzionali, esprimiamo la più viva preoccupazione per il possibile rinvio della Riforma Cartabia nella parte in cui prevede l’introduzione delle misure sostitutive del carcere per pene brevi, secondo una visione ormai internazionalmente affermata della giustizia riparativa”. Nessuno Tocchi Caino “spes contra spem” chiede al governo di ripensarci e non rinviare la riforma. “Per noi, che costantemente visitiamo le carceri e vediamo con i nostri occhi la disperazione e l’illegalità che vi regna - dicono Rita Bernardini, Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti - il rinvio costituirebbe non un cambio di registro, ma il proseguimento della prassi consolidata di rimandare all’anno del poi che sempre si tramuta in quello del mai di riforme necessarie e urgenti. I 72 suicidi di detenuti mai verificatisi prima d’ora dovrebbero essere un monito per tutti”. “Altrettanto preoccupante - secondo Nessuno Tocchi Caino - è l’annuncio di varare un decreto in materia di ergastolo ostativo, demolitorio dell’ordinanza della Consulta che ha accertato la violazione di principi costituzionali italiani e convenzionali europei che, con una decisione di portata storica ha sancito il diritto civile e umano alla speranza anche per i condannati al fine pena mai”. Su Twitter il segretario di Più Europa, Benedetto Della Vedova, scrive: “Il Ministro della Giustizia Nordio ha chiarito da subito il suo impegno sulle carceri, cosa che gli fa onore e che condividiamo. Ma cosa ci farebbe un ministro garantista nel Governo che insegue Salvini, rinvia la riforma Cartabia e comincia con il fuoco di sbarramento contro il superamento dell’ergastolo ostativo (fine pena mai), che Meloni per farsi capire meglio chiama direttamente carcere ostativo?”. Esordio del governo: pugno duro con i boss in cella di Anna Maria Greco Il Giornale, 31 ottobre 2022 Nel primo Cdm di oggi norma sull’ergastolo ostativo per impedire i benefici di pena a mafiosi e terroristi. La giustizia torna in primo piano, con due provvedimenti sul tavolo del primo “vero” consiglio dei ministri del governo Meloni: conferma del carcere ostativo e rinvio della riforma penale Cartabia. Il terzo riguarda le misure antiCovid, con la fine anticipata al primo novembre dell’obbligo vaccinale per i sanitari e cancellazione delle relative sanzioni. Tutto, nel segno della “discontinuità” rispetto al governo Draghi. Il decreto legge che vuole mantenere il carcere duro per mafiosi e terroristi, impedendo che accedano ai benefici di legge se non sono pentiti e collaborano con la giustizia, è urgente perché la Corte costituzionale l’8 novembre potrebbe cancellare la norma che riguarda circa 1.200 detenuti, di cui ha segnalato al Parlamento l’incostituzionalità sollecitando le modifiche necessarie. Sull’“ergastolo ostativo”, che Giorgia Meloni considera “uno strumento essenziale” nel contrasto alla criminalità organizzata, il nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio dovrà presentare un testo che recepisca le osservazioni della Consulta sul fatto che il “fine pena mai” contrasta con la Carta e con la funzione rieducativa della pena, ma impedisca scarcerazioni facili di mafiosi. La base dovrebbe essere il provvedimento votato alla Camera da tutti i partiti con l’astensione di Fdi nella scorsa legislatura, che dava al giudice di sorveglianza la responsabilità di valutare il via libera ai benefici, stabilendo che il detenuto dovesse dimostrare di aver tagliato ogni legame con le organizzazioni criminali e che il pm dovesse esprimere parere positivo. Questo, solo se il detenuto si è comportato correttamente, partecipando al percorso rieducativo e provvedendo alla riparazione pecuniaria. Fdi a marzo giudicò il testo (mai arrivato al Senato) “troppo permissivo” e si vedrà quale soluzione il Guardasigilli propone. Nordio, si sa, è un garantista e sul carcere ostativo in passato si è pronunciato negativamente, ma ora la sua posizione è diversa. “Il carcere è una priorità tra i miei compiti - ha detto- e ho deciso che la mia prima visita esterna non sarà in uffici giudiziari, ma in alcune carceri in particolare difficoltà”. L’altro provvedimento rinvierebbe al 30 dicembre 2022 l’entrata in vigore di alcune disposizioni della riforma penale e va incontro alla richiesta di tutti i 26 procuratori generali in una lettera al ministro della Giustizia. Sarebbe un segnale di attenzione alla magistratura, che potrebbe distendere gli animi. Le toghe, infatti, segnalavano l’impreparazione del sistema e il provvedimento intende rispettare le scadenze del Pnrr e consentire la necessaria organizzazione degli uffici giudiziari. Il vicepremier Matteo Salvini commenta soddisfatto: “Bene, anche sulla giustizia finalmente si cambia, avanti così”. E l’opposizione attacca, con la capogruppo dei deputati Pd Debora Serracchiani, che dice: “Il rinvio in blocco dell’entrata in vigore della riforma rischia di buttare a mare 2 anni di lavoro e di mettere a rischio i fondi Pnrr”. Il terzo punto all’ordine del giorno toccherà il tema della salute, con l’anticipo al 1 novembre 2022 della scadenza dell’obbligo vaccinale per chi esercita la professione sanitaria e la conseguente abrogazione delle sanzioni per l’inosservanza dell’obbligo. “L’obiettivo - si spiega a Palazzo Chigi - è dare seguito all’indicazione tracciata dal Presidente Meloni nelle sue dichiarazioni programmatiche rese in Parlamento e segnare così un primo atto di discontinuità, rispetto ai precedenti esecutivi, nella gestione della pandemia da Covid”. Marini: “Anche se il detenuto non collabora impossibile escluderlo dai benefici carcerari” di Liana Milella La Repubblica, 31 ottobre 2022 Figlio d’arte Francesco Saverio Marini, costituzionalista di Tor Vergata, nonché figlio di Annibale Marini, ex presidente della Corte Costituzionale, componente laico del C sm voluto dal Pdl, delle sue idee di destra non ha mai fatto mistero. E lei, come suo padre, è un garantista vero? “Sì certo che lo sono”. Quindi è per il carcere, ma senza persecuzione… “Non c’è dubbio. Una cosa è il garantismo, altra è che le pene non vengano eseguite. Il garantismo c’è fino al momento in cui si accerta che il soggetto ha commesso un reato, ma poi entrano in gioco altri istituti altrettanto importanti: il principio che la pena ha come obiettivo la rieducazione del condannato”. Ù Che ne pensa del primo atto del governo Meloni, un decreto per rendere di fatto impossibile dare la liberazione condizionale a chi ha l’ergastolo ostativo? “Innanzitutto il decreto era lo strumento, unico, necessario e doveroso, perché tra pochi giorni ci sarà l’udienza della Consulta. Ricordo che proprio la Corte ha sollecitato l’intervento del Parlamento e che nella legislatura appena conclusa era già stato elaborato un testo approvato alla Camera”. Quel testo stringe tantissimo i cordoni di una possibile liberazione. La pena scontata deve passare da 26 a 30 anni e la successiva libertà vigilata da 5 a ben 10 anni. A lei garantista non le pare troppo? “La Corte ha escluso che la mancata collaborazione con la giustizia precluda di per sé i benefici, ma ha sollecitato il Parlamento a fissare ulteriori paletti”. E questi paletti non sono eccessivi? “Spetta alla politica fare una valutazione del genere. Da giurista dico che tocca ai magistrati valutare una serie di elementi che consentano di escludere l’attualità del collegamento del condannato con la criminalità organizzata”. Garantista verso chi riceve un avviso di reato, ma iper severo nei confronti di chi ha già scontato 30 anni di carcere e, pure non collaborando, può provare l’effettiva rottura con le mafie? “Sono garantista, tant’è che condivido la regola che, a queste condizioni, il condannato potrà accedere ai benefici”. Nordio, le carceri e un’emergenza da non trascurare di Antonio Mattone Il Mattino, 31 ottobre 2022 La giustizia rappresenta una delle questioni fondanti, e più immediate dell’attività del governo presieduto da Giorgia Meloni. Subito una stretta sui benefici di legge, annunciata già nel consiglio dei ministri di oggi e il rinvio al 30 dicembre prossimo di alcune disposizioni della riforma Cartabia, che sarebbero dovute entrare in vigore già da domani. Intanto le prime dichiarazioni del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, riguardano le carceri. Il Guardasigilli ha affermato che le carceri sono la priorità di cui intende occuparsi, con la necessità di migliorare la condizione dei penitenziari, e quindi di chi ci lavora o ci è costretto a restare perché sconta una condanna o è in attesa di giudizio. “Il carcere - ha continuato Nordio - non può essere crudele e inumano, perché si andrebbe contro la Costituzione e i principi cristiani”. Il settantaduesimo suicidio registrato dall’inizio dell’anno nelle carceri italiane deve aver colpito il ministro della Giustizia, che ha parlato di “drammatica emergenza e di una dolorosa sconfitta per tutti”. Con gli ultimi due gesti estremi avvenuti in Sicilia, è stato eguagliato il tragico record del 2009, la cifra più alta raggiunta nel nuovo millennio. Inoltre ha ricordato che certezza della pena non significa solo carcere, cioè certezza della galera, perché proprio la Costituzione parla di pene al plurale, ricordando così che la detenzione non è l’unico modo per scontare una condanna. La condizione delle carceri italiane resta difficile. La sinistra e il Partito democratico in primis, che si autoproclama paladino dei diritti civili, è rimasto inerte fin da quando aveva la possibilità di attuare la riforma del sistema penitenziario, negli anni in cui Andrea Orlando era ministro della Giustizia. La grande opportunità offerta dopo la discussione degli Stati generali fu sprecata, e le proposte accantonate per paura di perdere le elezioni. Sappiamo come andò: il Pd fu sconfitto alle urne e le carceri rimasero nella stessa condizione. Dopodiché, alle dichiarazioni di principio, è seguito il nulla. La riforma Cartabia, che non appartiene a nessun partito politico, contiene solo il tema della giustizia riparativa, il poco tempo a disposizione non consentiva di modificare normative primarie. Bisognerà poi vedere quanto inciderà la circolare sulla media sicurezza del Dap che regolamenta la vita all’interno dei reparti detentivi. Ad oggi in Italia ci sono 55.835 detenuti, quasi 5.000 in più di quelli consentiti dalla capienza regolamentare. Di questi poco meno di 4.000 scontano una condanna inferiore ai due anni. Se a questi venissero concesse pene alternative raggiungeremmo quasi la regolarità dei posti disponibili. Passare dal carcere a pene alternative prima di raggiungere la libertà non vuol dire evitare di scontare la pena, ma rappresenta l’opportunità di inserirsi gradualmente nel tessuto sociale senza un brusco passaggio dalla galera alla libertà, con meno probabilità di produrre recidiva. In particolare per i condannati a pene detentive brevi, l’ingresso in carcere è tutt’altro che rieducativo. Si tratta spesso di senza dimora o di persone disagiate. Ricordo prima dell’estate di aver incontrato un clochard condannato a tre mesi per un reato commesso dieci anni prima. In questo caso si può effettivamente dire che si è fatto “la villeggiatura” a Poggioreale. In questo contesto la Campania è tra le regioni dove il sovraffollamento resta una grande criticità. Nei 15 istituti presenti sono recluse 6.658 persone, circa 500 in più del dovuto. Un terzo sono tossicodipendenti, tanti soffrono di disagio psichiatrico, in parte conseguenza della difficile condizione della detenzione, ma diversi già con diagnosi prima dell’ingresso in carcere. E poi c’è sempre la grande questione di Poggioreale, che si tiene sempre al di sopra dei 2mila detenuti, pur potendone contenere poco più di 1.500. Il Ministro Nordio, che si trova a dover affrontare diverse emergenze, ha dichiarato di voler visitare al più presto gli istituti più in difficoltà e di voler potenziare lavoro e sport. Per fare questo c’è bisogno di più personale (non solo agenti penitenziari) e più risorse. E tra le risorse disponibili ci sono il mondo del volontariato e della società esterna più in generale. Ma tanto spesso l’autoreferenzialità degli operatori penitenziari rende difficoltosa quella sinergia e quelle buone pratiche che invece potrebbero aiutare i detenuti che vogliono mettersi in gioco e cambiare vita. E’ un’impresa sicuramente complessa e piena di ostacoli quella del guardasigilli. Ma vuoi vedere che dove ha fallito la sinistra sarà il governo di centrodestra a questo governo riesca a rendere la vita delle carceri più umana e vivibile? Vuoi vedere, ad esempio, che riesca a eliminare quella vergognosa ingiustizia che condanna 28 bambini a trascorrere la loro infanzia in strutture detentive? Sarà il tempo a dare le risposte a questi interrogativi. Svuota-carceri: Meloni fa a pezzi la riforma Cartabia e FI sale sulle barricate di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2022 Oggi in Cdm il rinvio al 2023: l’obiettivo è modificare le norme “libera-ladri”. Gli azzurri: “Così no”. Non sarà solo un rinvio tecnico della riforma Cartabia quello che arriverà nel Consiglio dei ministri di oggi. Certo, c’è scritto questo, nero su bianco, nel primo decreto legge del governo Meloni: l’esigenza principale è quella di rinviare di due mesi, dal 1° novembre al 1° gennaio 2023, l’entrata in vigore della riforma dopo la richiesta di chiarimenti delle 26 procure generali sull’applicazione della norma. Ma non è il solo l’obiettivo della deroga. Il decreto di oggi servirà come grimaldello per una modifica non solo temporale, ma anche sostanziale della riforma Cartabia: evitare un nuovo “svuota-carceri”. Quando si tratterà di convertire il decreto in Parlamento, infatti, Fratelli d’Italia è intenzionata a modificare la riforma che, se fosse entrata in vigore domani, avrebbe portato gli autori di molti reati (dal furto alla truffa fino al sequestro di persona) fuori dal carcere. Insomma, spiegano due dirigenti del partito di Giorgia Meloni, “non ci saranno colpi di spugna per i delinquenti”. Una posizione che tra qualche settimana rischia di creare uno scontro politico nella maggioranza: se la Lega sul tema è allineata alle posizioni di Fratelli d’Italia, Forza Italia invece fa sapere di essere contraria. Con possibili tensioni tra i meloniani e il suo ministro della Giustizia, Carlo Nordio: quest’ultimo ha posizioni iper-garantiste sul carcere e negli ultimi giorni ha più volte ribadito l’importanza del concetto della “rieducazione della pena”. Per arrivare alla questione politica però dobbiamo partire dall’inizio. Domani, come previsto dal decreto legislativo approvato la scorsa estate, sarebbe entrata in vigore la riforma del processo penale voluta dall’ex ministro della Giustizia del governo Draghi Marta Cartabia. Nelle pieghe della norma c’è anche un meccanismo studiato per ridurre il numero dei processi: una serie di reati perseguibili d’ufficio sarebbero diventati perseguibili soltanto a querela, cioè solo se la persona offesa avesse chiesto all’autorità giudiziaria di indagare. In questo modo, però, da domani centinaia o forse migliaia di autori di reati come furti (di ogni genere), truffe, sequestri di persona, lesioni personali e danneggiamenti sarebbero potuti uscire di carcere in assenza di una querela della persona offesa. Un risultato paradossale per un partito, Fratelli d’Italia, che ha fatto della lotta alla micro-criminalità un cavallo di battaglia. Per questo il governo ha deciso di rinviare la riforma e interverrà per modificare la legge e non trovarsi nella stessa situazione dal prossimo anno. L’obiettivo, dunque, è studiare una norma - sotto forma di emendamento al decreto legge che sarà approvato oggi - con cui il Parlamento modifichi il decreto legislativo iniziale. L’idea, spiega una fonte di governo, è quella di cancellare con un tratto di penna quella parte del decreto evitando quindi il rischio di uno “svuota-carceri”. Proposta che potrebbe spaccare la maggioranza: un dirigente di Forza Italia spiega che “riaprire il dossier della riforma Cartabia è un rischio; inoltre vogliamo vedere come avverrà: noi siamo per la rieducazione della pena e non per il carcere come unica soluzione”. Gli azzurri, poi, potrebbero chiedere anche modifiche all’altra norma del decreto che sarà approvato oggi sull’ergastolo ostativo che ricalca la legge approvata alla Camera. Se il Pd chiede garanzie perché non venga rivista la riforma Cartabia per non “perdere i fondi del Pnrr”, anche il Terzo Polo sarebbe contrario alla norma studiata da FdI: “Se si tratta di un rinvio tecnico della riforma Cartabia ci può stare, ma se la maggioranza la modifica in senso giustizialista, noi ci opporremo”, dice il responsabile Giustizia, Enrico Costa. Che aggiunge: “Cosa ci fa Nordio in un governo che rinvia la Cartabia?”. Il rinvio di due mesi servirà anche per rispondere alla richiesta di chiarimenti di 26 Procuratori Generali sull’applicazione della riforma Cartabia e per evitare il caos negli uffici giudiziari di mezza Italia, come denunciato da molti pm. Per questo, ieri l’Associazione Nazionale Magistrati ha esultato per la deroga: “Bene, il governo ha mostrato attenzione al nostro allarme”, ha detto all’Ansa il presidente Giuseppe Santalucia. Contrari invece gli avvocati: ieri le Camere Penali si sono riunite per un ufficio di presidenza straordinario e il presidente Alexandro Maria Tirelli si è detto “preoccupato per il rinvio della Cartabia” perché “bisogna evitare che si passi da un giustizialismo di sinistra a uno di destra”. Lo scrittore Sandro Bonvissuto: “Le diseguaglianze riempiono le celle” di Ludovico Collo La Repubblica, 31 ottobre 2022 “Il vero tema delle carceri è quello che attraversa tutto il Paese: le diseguaglianze tra Nord e Sud. In un sistema che non funziona a nessun livello, le strutture del Meridione sono sicuramente molto più indietro di quelle del resto d’Italia”. Sandro Bonvissuto, autore del romanzo “Dentro” (Einaudi), ragiona sulla lettera che il detenuto ha inviato a Repubblica dopo aver letto l’intervista con la quale lo scrittore romano denunciava l’incubo delle carceri italiane. E quello che Bonvissuto raccoglie, è l’ennesima conferma di un sistema “disumano” che penalizza ancora di più i territori, e le persone, fragili. Bonvissuto, è ancora una “questione meridionale”? “Non c’è ombra di dubbio, le strutture penitenziarie del Nord sono diverse da quelle del Sud. Il Pagliarelli di Palermo non è Bollate, dove le celle sono aperte e i detenuti usufruiscono di possibilità negate altrove. Ma non per questo le strutture modello sono meglio, perché è l’intero sistema che è disumano. Mi ha molto colpito un passaggio della lettera all’apparenza banale”. Quale? “Quando il detenuto scrive che un gin tonic a Palermo si paga 4 euro e a Milano 14. Sembra una cosa di poco conto ma in realtà il carcere nasce dalle diseguaglianze. Ed è sulle diseguaglianze che bisognerebbe lavorare, ma prima che la gente finisca dentro”. E invece? “E invece in galera, specie al Sud, c’è un esercito di ragazzini che non hanno alternative: il lavoro non c’è ma l’ossessione per il denaro è ormai dominante. Perché i detenuti crescono sempre? Perché oggi vivere è complicato. E allora che fai per avere il motorino? Rubi, spacci, finisci nelle mani sbagliate”. E poi in carcere. “Esatto. Solo che lì, invece di rieducare, non fanno altro che mettere i più fragili in contatto con altro tessuto criminale che continuerà a manipolarli e che li scrittura mentre stanno ancora scontando la pena. Il carcere non serve a niente. Dovrebbe essere il primo problema del Paese”. In cella si azzerano le differenze di classe? L’autore della lettera è un commercialista... “Macché. Se sei un professionista hai un buon avvocato, se non sei nessuno ti tocca quello d’ufficio. Il carcere alimenta le diseguaglianze. Le strutture penitenziarie non sono tutte uguali, ma nemmeno i detenuti. Analfabeta, ignorante: eccolo il cliente ideale del carcere. Sono le persone che si azzerano, non le differenze di ceto che invece resistono e segnano la differenza”. La persona che ci ha scritto dice che si aggrappa alla scrittura per andare avanti... “Quando sei detenuto il tempo è la pena. Non c’è niente lì dentro che renda le persone migliori”. Chi ci scrive vuole studiare un sistema che aiuti i detenuti a trovare case in affitto per la pena alternativa... “Il vero tema è che la gente non deve finire dentro le carceri. Se ci sono così tanti detenuti è perché non c’è prevenzione. E quando tornano fuori, la maggior parte degli ex detenuti viene risucchiata dal crimine. Non hai potuto studiare, non hai potuto trovare un lavoro, sei dentro a un sistema capitalistico incentrato sul danaro. Non hai scampo. Si poteva fare prima. Si doveva fare prima. E invece per avere un’assistente sociale devi finire in cella”. Cosa bisognerebbe fare? “Lavorare nei territori, rispondere ai bisogni della gente, creare un mercato del lavoro. Questo si dovrebbe fare. Prima”. E la politica? “Il neo ministro della giustizia Nordio ha detto che comincerà il mandato proprio dalla visita a due o tre istituti penitenziari. Nelle sue dichiarazioni ha ricordato come la pena non deve coincidere con il carcere ma debba essere orientata alla rieducazione. Posizioni lungimiranti che mi hanno davvero colpito, ci auguriamo per questo che possa lavorare con la necessaria indipendenza. È un uomo di destra, ma proviene dalla cultura liberale, e si insedia in questo momento dove, al vertice del Dap, trova una figura di alto profilo, ossia Carlo Renoldi, ex magistrato di sorveglianza e profondo conoscitore della realtà carceraria”. Giustizia da fare. Cosa chiedere a Nordio di Annalisa Chirico Il Foglio Tutti d’accordo sui tempi da sveltire. Punti di vista diversi sul Csm. Carenza di magistrati e personale, emergenza carceri, separazione delle carriere gli altri nodi da affrontare. Parlano Bruti Liberati, Ancilotto, Caiazza, Tarfusser. Se una premier donna a Palazzo Chigi rappresenta un inedito assoluto, è invece assai noto il copione delle riforme giudiziarie attese e poi vanificate. Il Guardasigilli Carlo Nordio, già toga blu della magistratura, ha davanti a sé un’impresa ardua. Senza la pretesa di fornire consigli, abbiamo consultato alcune personalità, espertissime della materia, in grado di indicare una direzione di marcia. Ecco che cosa ne è venuto fuori. “Attuare gli impegni del Piano nazionale di ripresa e resilienza è centrale per l’Italia sistema paese e sistema giustizia”, dice al Foglio Edmondo Bruti Liberati, già procuratore della Repubblica di Milano e padre nobile della corporazione togata. “Riforme che restano sulla carta sono peggio che cattive riforme: non è mai vero che ‘l’intendance suivra’. I dati forniti dal ministero della Giustizia per il primo semestre 2022 su riduzione dei tempi di definizione e dell’arretrato sono incoraggianti, ma molto resta da fare”. Su quali proposte dovrebbe puntare il prossimo governo? “In primo luogo, io consiglio di sospendere iniziative di riforma, come si fa ogni estate per il fermo biologico della pesca in Adriatico. E’ meglio rinviare a settembre 2023 le cosiddette ‘riforme epocali’, nell’attesa dobbiamo attuare le riforme Cartabia e monitorarne l’applicazione in vista di eventuali correttivi. C’è poi il tema della carenza di magistrati e personale amministrativo. E’ stato bandito un concorso per 400 magistrati. Occorre ridurre la durata del tirocinio dei vincitori dell’ultimo concorso; ma si organizzi subito una struttura autonoma per il tirocinio dei neo-magistrati presso la Scuola superiore della Magistratura, sull’esempio della struttura di Bordeaux della Ecole nationale de la Magistrature francese. Quanto ai magistrati onorari, una volta risolta in qualche modo la situazione di quelli già in servizio, bisognerà aprire un nuovo reclutamento, con misure che evitino i problemi del passato precariato. Personale ammnistrativo: le carenze al Nord sono tornate al 30 per cento, i concorsi per figure professionali specializzate (statistici, informatici) sono andati deserti. Le retribuzioni offerte sono insufficienti, occorre proporre incentivi”. Resta poi il tema delle circoscrizioni giudiziarie. “Serve una revisione. Le Corti di appello dovrebbero essere una per regione. Se due Corti sono sufficienti per Lombardia e Campania, altrettante dovrebbero bastarne per Sicilia e Puglia. Su 159 tribunali, 58 hanno meno di 20 magistrati, di questi 12 meno di 10 magistrati. Questi tribunali non sono in grado di garantire efficienza. Accorpamenti di Tribunali e Corti consentirebbero un utilizzo migliore di 300 magistrati e la soppressione di 50 posti direttivi. Il ministero della Giustizia dispone di tutti i dati. I magistrati rinuncino a qualche posto direttivo. L’avvocatura superi anacronistiche chiusure corporative. Politici e amministratori locali assumano la responsabilità di scontentare le reazioni localistiche, spiegando che è meglio avere un Tribunale un po’ più distante, ma che funzioni; l’attività di certificazione, che costituisce per molti il principale motivo di accesso ai Tribunali, può essere mantenuta in strutture di prossimità. E poi, sul piano organizzativo, occorre prepararsi in anticipo e governare l’impatto sulla giustizia di Intelligenza Artificiale e giustizia predittiva. Servono banche dati con le decisioni della Cassazione ma anche di Tribunale e Corti di appello. La conoscenza dei precedenti non è incentivo al piatto conformismo, ma impegno per la prevedibilità delle decisioni, che insieme contiene la domanda evitando iniziative infondate e rassicura la collettività contro le oscillazioni patologiche della giurisprudenza”. Non abbiamo parlato del Consiglio superiore della magistratura. “Nessun intervento sul sistema elettorale del Csm può ignorare l’esistenza delle correnti dell’Anm, libere, trasparenti associazioni di magistrati che si formano sulla condivisione di una concezione del sistema di giustizia e delle riforme da proporre. In tutti i paesi europei esistono associazioni di magistrati e, quasi sempre, più di una. L’Hotel Champagne esiste e pesa come un macigno da superare, ma non si può sottovalutare, in un paese in cui le dimissioni sono pressoché ignote, che cinque componenti togati del Csm si sono dimessi, prima e indipendentemente da procedure disciplinari o penali. Proprio il modello costituzionale di una magistratura come potere diffuso e di un Csm elettivo, calato nel contesto ben presente ai costituenti di una radicata tradizione italiana di associazionismo giudiziario, è stato quello che ha ‘creato’ le associazioni di magistrati. La virtù non si impone per decreto e tanto meno con sistemi elettorali che spesso producono risultati opposti a quelli che il malaccorto legislatore si proponeva. Spetta all’Anm, ai magistrati tutti, ai componenti togati eletti nel Csm operare affinché il pluralismo associativo, grazie al confronto con i componenti laici, professori e avvocati, operi come rottura dell’ottica corporativa”. A Venezia, dove il ministro Carlo Nordio, nel precedente ruolo, ha a lungo indossato la toga della pubblica accusa, il procuratore aggiunto del capoluogo lagunare Stefano Ancilotto spiega al Foglio che “l’emergenza è una sola: i tempi. Una sentenza inappuntabile, stramotivata, scritta in maniera encomiabile ma che arriva troppo tardi, è una sentenza ingiusta. Con il Recovery Fund, l’Europa ci assegna una mole di fondi ma, in cambio, chiede di migliorare la giustizia, non perché mossa da pietismo o altruismo gratuito. L’interesse dell’Europa è che le imprese straniere possano investire in Italia, attratte anche da un sistema giudiziario in grado di fornire risposte celeri, in tempi certi. Qualunque cittadino che subisca un processo deve poter contare sul rispetto degli standard minimi di efficienza garantiti in tutto il mondo occidentale. Che sia indagato o persona offesa, non fa differenza. Anche perché se l’obiettivo della condanna è rieducativo, non si può applicare una pena a distanza di vent’anni dal fatto, quando ormai la persona che all’epoca commise il fatto è un’altra persona. Se il lasso di tempo che intercorre tra il reato e l’esito del processo è eccessivamente lungo, mi troverò davanti non più il giovane appena maggiorenne ma un uomo adulto, con un’occupazione e una famiglia, che magari ha anche meditato sulla cattiva condotta. I tempi vanno drammaticamente accorciati, costi quello che costi”. È il “whatever it takes” della giustizia? “È anche l’unico modo per noi magistrati di recuperare credibilità agli occhi dei cittadini. Spesso con i colleghi ci confrontiamo sulla caduta di fiducia che ha investito la categoria. La risposta migliore è l’accorciamento dei tempi. Dobbiamo garantire che nessuna domanda di giustizia rimanga inevasa, dobbiamo arrivare prima della prescrizione o prima che il debitore sia fallito”. Quali consigli darebbe alla premier in pectore Meloni? “Mi lasci ricordare che con Nordio, oggi ministro, abbiamo lavorato al caso Mose, uno dei processi di corruzione più imponenti celebrati negli ultimi anni in Italia. Nordio che coordinava l’indagine. Contrariamente al cattivo costume delle ‘soffiate’ e del circo mediatico, nel nostro caso hanno parlato solo le sentenze, non sono fuoriuscite intercettazioni né informazioni di carattere privato sulle persone coinvolte. Ciò dimostra che se si vuole, si può. Questo è il frutto di una adeguata ponderazione degli uffici. Ho l’impressione che negli ultimi tempi i magistrati si siano autodisciplinati e ci sia una inversione di tendenza rispetto a quanto capitava una decina di anni fa. Parla solo il procuratore capo”. Ma come si può velocizzare un sistema che sembra impantanato? “Si dovrebbe partire con una depenalizzazione seria: non si può scaricare ogni questione sulle spalle del magistrato inquirente. A volte anche il legislatore dovrebbe scrivere le norme con una maggiore attenzione: le procure sono sommerse di notizie di reato concernenti frodi comunitarie, malversazioni, truffe ai danni dello stato. Lei pensi al reddito di cittadinanza: il legislatore, dopo averlo introdotto, prevede anche un apposito reato per chi è colpevole di riscuoterlo in assenza dei requisiti richiesti. Anche questo è un modo per scaricare una serie di controlli nel settore penale a carico della procura della Repubblica”. Con il governo di centrodestra, però, non tira aria di depenalizzazioni… “Se non vogliamo depenalizzare, dobbiamo smettere di introdurre nuove fattispecie di reato o di allargare quelle esistenti. Innumerevoli vicende, dal piccolo abuso edilizio alla guida senza patente per due volte costituiscono reato penale quando potrebbero essere meglio affrontate in sede amministrativa. E poi nel nostro sistema si va troppo facilmente a dibattimento. All’estero, nei paesi che pure hanno il rito accusatorio, le percentuali di assoluzione dibattimentale sono bassissime perché il dibattimento è riservato a un numero ristretto di casi, e il filtro dei magistrati è assai rigoroso. Non è accettabile un esercizio dell’azione penale condotto com’è accaduto fino ad oggi, con una percentuale di assoluzioni che supera, davanti al monocratico, il quaranta per cento. La riforma Cartabia ha introdotto ulteriori filtri e delle ‘finestre di giurisdizione’ nella fase delle indagini, inoltre ha valorizzato la giustizia conciliativa e riparativa. Spetterà adesso a noi magistrati applicare in maniera rigorosa questi strumenti. Attendiamo i decreti attuativi. Per accelerare, esistono prassi virtuose. La specializzazione del magistrato inquirente è importante. Esistono reati, come quelli bancari, che solitamente coinvolgono un numero elevato di persone: se rimangono a carico delle piccole procure circondariali, rischiano di appesantire oltremisura il lavoro dei colleghi. Viceversa, un ufficio centralizzato su base distrettuale che si occupi delle fattispecie più gravi può garantire una maggiore specializzazione del pm”. Ci sono i magistrati e ci sono gli avvocati. Un filo di ottimismo viene dal presidente dell’Unione delle camere penali, Giandomenico Caiazza: “Durante la campagna elettorale abbiamo indicato a tutti i partiti quelle che riteniamo le priorità per una autentica riforma liberale della giustizia. Le risposte che abbiamo ottenuto ci dicono che in Parlamento, a prescindere dagli assetti di governo, vi è già una maggioranza assoluta sulla separazione delle carriere, sul divieto di impugnazione delle sentenze di assoluzione, sul ritorno alla prescrizione pre-Bonafede secondo lo schema proposto dalla Commissione Lattanzi. Vedremo se alle parole seguiranno i fatti. Naturalmente bisogna intendersi: la separazione delle carriere si fa solo riformando la Costituzione, qualsiasi altra soluzione è fuffa. La strada è quella indicata dalla legge costituzionale di iniziativa popolare promossa dalle Camere Penali e sottoscritta da 72 mila cittadini. Abbiamo ricevuto invece reazioni più fredde - tranne che in FdI, e va a loro merito - sulla nostra richiesta di bloccare il fenomeno dei magistrati fuori ruolo distaccati ‘manu militari’ in Via Arenula. Basta con questa commistione fisica tra potere giudiziario e potere esecutivo, è un unicum in tutte le democrazie moderne. Ha dell’incredibile la condizione di sudditanza ancillare di tutte le forze politiche verso la magistratura, come se senza di essa non fosse possibile amministrare la politica giudiziaria. Perché il capo di gabinetto del ministro della Giustizia deve essere necessariamente un magistrato, e non un funzionario di carriera? Perché il capo del legislativo non può farlo un professore universitario, o un avvocato? Perché la politica decide a ogni governo, di qualsiasi colore, di consegnare le chiavi di Via Arenula alla magistratura associata? È una gigantesca e inspiegabile sindrome di Stoccolma di una politica prigioniera della magistratura, e rassegnata a esserlo. Si guardi ai decreti delegati della riforma Cartabia che hanno svuotato di senso le cose buone (e non gradite alla magistratura) presenti nella delega. Chiedetevi chi scrive i decreti attuativi, e datevi una risposta”. Sul piano delle cose da fare? “La prima: è urgente rimettere mano a quei decreti attuativi, che in sostanza non sono piaciuti quasi a nessuno dei partiti della maggioranza Draghi. La legge lo consente, e noi stiamo preparando le proposte di modifica di maggiore rilevanza. Infine, c’è l’emergenza carcere. Qui le parole d’ordine che sentiamo sono allarmanti. Assistiamo a una evocazione del principio di certezza della pena declinato in modo davvero sgrammaticato. Si tratta di un principio di derivazione illuministico-liberale che non ha nulla a che fare con il ‘gettiamo la chiave’. Se invece si tratta di ragionare su interventi che rendano le pene alternative al carcere più effettive, sorvegliate ed efficaci di quanto lo siano adesso, siamo prontissimi al dialogo. Ma cento suicidi l’anno in carcere non consentono a nessuno di voltare lo sguardo da un’altra parte”. Cuno Tarfusser, oggi sostituto procuratore generale presso la Corte d’appello di Milano, con una carriera ultradecennale alla Corte penale internazionale dell’Aja, confida al Foglio di sognare un “paese dove il ministro della Giustizia, con i numeri in Parlamento e la prospettiva di cinque anni di lavoro, affronti l’emergenza giustizia nel suo insieme e non si accontenti di affrontare alcune poche emergenze. Serve un Guardasigilli che abbia conoscenza dei problemi reali e sia persona libera da condizionamenti. Serve un ministro che pensi in grande, non parli di riforma della giustizia ma la realizzi, che non si lasci condizionare, né dalla magistratura, né dall’avvocatura. Fatti salvi i princìpi in materia di giustizia dettati dalla Costituzione, il ministro della Giustizia dovrebbe avviare una stagione di riforma - nel senso di formare di nuovo, non semplicemente rattoppare - dei codici. E’ surreale la discussione sulla foto di Mussolini, appesa in una sala del ministero dello Sviluppo economico, insieme ad altri cinquanta ministri, quando ogni giorno migliaia di magistrati e avvocati tengono Mussolini tra le mani, lo portano in giro, lo consultano sotto forma di codice civile, codice di procedura civile, codice penale; quando ogni giorno centinaia di professori insegnano a migliaia di studenti le leggi firmate da Mussolini. L’unica riforma degna di questo nome, repubblicana, è quella del processo penale del 1988 che ancora oggi viene chiamato il ‘nuovo’ processo penale”. Tasto dolente resta il Csm. Dopo il suo rientro dall’Aja, dottor Tarfusser, lei si è candidato a ricoprire uffici direttivi ma il Csm non ha accolto neanche una delle nove proposte da lei avanzate. “La mia colpa è di non far parte del sistema; e sono orgoglioso di non farne parte. Il Consiglio della magistratura - che non definirei ‘superiore’ perché di ‘superiore’ non ha nulla - non mi ha ritenuto degno nemmeno di un voto in ben nove concorsi per uffici direttivi cui ho partecipato. Troppo autonomo, troppo indipendente e quindi incontrollabile. Sogno un ministro che promuova una riforma del Consiglio in modo da renderlo un organo tecnico-amministrativo davvero ‘superiore’, nel senso inteso dai padri costituenti, liberandolo dal perverso sistema correntizio. Nel Csm andrebbe ridotta la quota di componenti togati per sostituirli con esperti in materia di organizzazione, gestione di risorse, management. Sogno un ministro che, consapevole di essere, per dettato costituzionale, responsabile dell’organizzazione e del funzionamento della giustizia, si dedichi davvero alla sua organizzazione e al suo funzionamento. Quindi, preso atto della mancanza di capacità manageriali, dell’irresponsabilità nella gestione economica e organizzativa dei vertici degli uffici giudiziari, della sempre più diffusa disaffezione professionale del personale amministrativo e della crescente burocratizzazione del sistema, si dedichi a elaborare e a sviluppare strategie e modelli di cambiamento e modernizzazione amministrativa; un ministro che attivi progetti di semplificazione e riorganizzazione dei processi amministrativi interni ed esterni in un’ottica di omogeneizzazione e recupero di risorse, tempo e persone. E’ necessario sviluppare i sistemi informatici per garantire capacità di monitoraggio e controllo dei processi di lavoro e dei risultati, dobbiamo automatizzare le procedure di tipo seriale e semplificare l’accesso degli utenti alle informazioni e ai servizi della giustizia. Il ministro della Giustizia dovrebbe rivedere le politiche del personale e le relazioni sindacali per premiare impegno e risultati, e per riqualificare il personale amministrativo”. “Parte della riforma Cartabia entri in vigore subito” di Davide Varì Il Dubbio, 31 ottobre 2022 L’intervento del già consigliere della ministra Cartabia Gian Luigi Gatta, del garante dei detenuti Mauro Palma e dell’Accademia dei penalisti. Fa discutere la volontà del governo di posticipare l’entrata in vigore della legge Cartabia e di proseguire sulla linea dell’ergastolo ostativo. Sulla questione è intervenuto il Garante nazionale dei detenuti, Mauro Palma. “Il Garante nazionale esprime grave preoccupazione per gli eventi di suicidio che continuano a verificarsi nelle carceri italiane - si legge in un comunicato - Non è solo il numero delle vite interrotte a destare allarme - mai così alto, con 72 decessi per suicidio in dieci mesi, di cui due nella giornata di ieri - ma anche il fatto che questi eventi spesso riguardano persone ristrette per reati di lieve entità e quindi con pene brevi o brevissime: persone spesso fragili sulle quali il carcere può avere un impatto ancora più duro”. È anche alla luce di tale situazione, continua la nota, “che il Garante nazionale ha salutato con particolare favore l’introduzione nella recente riforma della giustizia di sanzioni sostitutive alla detenzione in carcere per i reati minori, riforma la cui entrata in vigore è prevista per il prossimo primo novembre: questo sarà il vero segnale che il mondo della detenzione - incluso chi in esso lavora - attende”. Per questo “il Garante nazionale è consapevole delle difficoltà nell’avvio di altri aspetti della complessiva riforma ma è certo che l’urgenza del tema, di cui i suicidi sono un segnale, e le parole condivisibili del Ministro indurranno una particolare attenzione a che proprio la parte relativa alle sanzioni sia attuata senza alcun rinvio”. Da notare anche l’intervento del Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale, che esprime piena adesione al comunicato del Garante nazionale dei detenuti. Secondo il Consiglio “desta preoccupazione il persistere delle condizioni critiche di molti degli istituti penitenziari, gravati dal sovraffollamento”. In questo contesto, spiega un comunicato, “un eventuale differimento dell’entrata in vigore deld. lgs.10 ottobre 2022, n. 150, anche in relazione alle disposizioni di diritto penale sostanziale, pregiudicherebbe la funzione deflattiva che la riforma avvia a realizzare in termini del tutto ragionevoli nelle parti che interessano il sistema sanzionatorio”. Interviene al Dubbio Gian Luigi Gatta, ordinario di diritto penale, già consigliere giuridico della ministra Marta Cartabia e tra i principali estensori della riforma dell’ex Guardasigilli. “Né l’Associazione Nazionale Magistrati né l’Assemblea dei procuratori generali hanno chiesto il differimento dell’entrata in vigore dell’intera riforma Cartabia - spiega Gatta - Hanno piuttosto rappresentato l’opportunità di prevedere disposizioni relative, in particolare, alla fase delle indagini preliminari”. E prosegue. “Disposizioni che, se ritenute necessarie o opportune, ben possono essere introdotte, per evitare dubbi interpretativi e agevolare l’attuazione della riforma in vista degli obiettivi del PNRR - spiega - Se questo è il problema, l’auspicio è che il Ministro Nordio e il Governo Meloni intervengano in modo puntuale, senza cioè rinviare l’intera riforma, la cui entrata in vigore è attesa per martedì”. Cosa significherebbe il rinvio? Su questo Gatta è puntuale. “Un rinvio in blocco della riforma Cartabia impedirebbe l’applicazione di nuove norme che possono da subito contribuire a ridurre i tempi dei processi penali, incidendo nei due ultimi mesi dell’anno sui dati sul disposition time 2022 che dovranno essere tra non molto esibiti a Bruxelles (l’obiettivo è di ridurre del 25 per cento i tempi medi dei processi tra il 2021e il 2026) - ragiona il giurista - Si pensi ad esempio alla regola di giudizio per l’archiviazione e l’udienza preliminare, ai filtri in dibattimento e in appello, alla nuova disciplina sul processo in assenza, a quella relativa ai riti alternativi (patteggiamento esteso alle pene accessorie e alla confisca; decreto penale di condanna a pena pecuniaria sostitutiva di pena detentiva inflitta fino a un anno; sconto di pena ulteriore per abbreviato con rinuncia all’appello), all’ampliamento della causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto e dei casi in cui è possibile la sospensione del procedimento con messa alla prova dell’imputato, alla possibilità di sostituire la pena detentiva fino a 4 anni con una pena sostitutiva, anche nell’ambito di riti alternativi”. Non solo. “L’esito di un differimento a fine anno dell’entrata in vigore di simili norme comporterebbe un ritardo nei tempi processuali - sottolinea Gatta - I difensori, infatti, chiederebbero il rinvio delle udienze a dopo dicembre o impugnerebbero la decisione in attesa dello ius novum”. E ancora. “Quanto in particolare alle pene sostitutive delle pene detentive brevi, del tutto condivisibili sono le preoccupazioni e gli auspici espressi dal Garante dei detenuti, Mauro Palma, e dall’Associazione dei Professori di Diritto Penale: si pensi a chi attende per martedì l’ultima udienza del processo, che si concluda con una condanna a due anni e mezzo di reclusione - insiste - Senza il rinvio della riforma potrà vedersi sostituita la pena detentiva con il lavoro di pubblica utilità e la condanna non sarà appellabile. Con il rinvio della riforma questa possibilità sarà preclusa e avremo un appello penale in più”. Ma ci sono altre questioni per le quali, secondo Gatta, il rinvio no è auspicabile. “Anche per altre parti della riforma non si giustificherebbe d’altra parte un rinvio, essendo già previste disposizioni transitorie: la nuova disciplina dell’esecuzione e della conversione delle pene pecuniarie, che riguarda i reati commessi dopo l’entrata in vigore della legge, e la giustizia riparativa, che richiede alcuni DM attuativi - aggiunge - Non vi è davvero ragione, insomma, per un rinvio in blocco. La riforma prevede già diverse disposizioni transitorie, nella sua ultima parte. Possono estendersi o rivedersi quelle disposizioni senza rinviare tutto, quando ormai il periodo di vacatio legis è compiuto e gli uffici giudiziari sono pronti ad applicare le nuove norme, dopo le riunioni organizzative che hanno svolto in queste settimane. Penso che sia un auspicio condiviso anche dall’avvocatura e della magistratura e sono certo che sarà tenuto in considerazione anche dal Ministro Nordio”. Reati e processi, la riforma della giustizia e le 12 proposte degli avvocati di Viviana Lanza Il Riformista, 31 ottobre 2022 La riforma Cartabia, la sua entrata in vigore, il futuro della giustizia, le iniziative del nuovo governo. Sono tanti i temi sul tavolo del dibattito giudiziario. La Camera penale di Napoli, presieduta dall’avvocato Marco Campora, ha preso posizione rispetto a tali temi con un documento in cui si analizzano nel dettaglio le criticità della giustizia penale e si elencano proposte, sintetizzabili in dodici punti: 1) Seria e profonda depenalizzazione; 2) Amnistia e indulto; 3) Revisione del catalogo dei reati previsti dal codice penale e dalle leggi penali e delle relative pene; 4) Abrogazione della improcedibilità e ritorno alla prescrizione sostanziale ante-riforma; 5) Sancire con chiarezza, impedendo interpretazioni distorsive, la necessità che vi sia identità tra il giudice che ha assunto le prove e il giudice che emette la sentenza; 6) Abolizione della norma che impone, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, il rilascio di una nuova nomina al fine di proporre appello in caso di imputato dichiarato assente nel corso del giudizio di primo grado; 7) Abolizione della norma che impone, a pena di inammissibilità dell’impugnazione, di allegare all’atto una nuova dichiarazione/elezione di domicilio dell’imputato; 8) Rivedere la norma in materia di intercettazioni nel rispetto dei principi sanciti dalla Corte Costituzionale; 9) Ampliamento dei casi in cui è possibile accedere al patteggiamento; 10) Reintroduzione della possibilità di accedere al rito abbreviato per i delitti punibili con la pena dell’ergastolo; 11) Modifica delle disposizioni in tema di custodia cautelare sulla base della proposta contenuta nel recente quesito referendario; 12) Riforma dell’ordinamento accogliendo ed approvando le proposte della “Commissione Giostra”. “La riforma Cartabia è divenuta legge e tra pochi giorni comincerà ad essere applicata nei Tribunali italiani - si legge nel documento firmato dal presidente Marco Campora e dal segretario Angelo Mastrocola -. Dopo l’incubo del triennio Bonafede, che ha rappresentato senz’altro il punto più basso della giustizia italiana in cui il mix esplosivo tra il più feroce populismo penale e la più grossolana insipienza ha prodotto guasti difficilmente emendabili, le attese erano alte e si auspicava un reale cambio di passo rispetto al nefasto recente passato”. La riforma, per i penalisti napoletani, non è tutta da cassare ma non convince affatto. “In questa riforma - dicono i vertici dei penalisti napoletani - c’è sicuramente del buono e sarebbe sciocco non riconoscerlo. Il totem della pena detentiva e del carcere inizia ad essere scalfito dalla possibilità di applicare, già in fase di cognizione, le sanzioni sostitutive che da decenni noi penalisti indicavano quale strada maestra da seguire per assicurare la reale risocializzazione dei condannati, per ridurre i pericoli di recidiva e per dare respiro agli istituti penitenziari ridotti a luoghi crudeli, criminogeni e tecnicamente illegali”. Fiducia, poi, nella giustizia riparativa (sperando che però nei fatti venga realmente messa in atto); ok all’ampliamento del catalogo dei delitti procedibili a querela (anche se sarebbe meglio metterci più coraggio) e delle categorie di reato per le quali può applicarsi la causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto. Ok anche alle modifiche del codice di rito che ampliano la democrazia all’interno del processo e potenzialmente attenuano il rischio di arbitrii nella fase investigativa. Ma i veri nodi della giustizia penale, quelli seri, non sono risolti. Un esempio. “La riforma, senza neppure intervenire in modo deciso sul patteggiamento, e cioè sul più laico dei riti alternativi, lungi dall’affrontare i nodi essenziali che ingabbiano e paralizzano la giustizia si limita (oltre ad auspicare che l’udienza preliminare e la nuova udienza pre-dibattimentale sfoltiscano sensibilmente il numero dei processi) a “sponsorizzare” come rito principe del nostro ordinamento il giudizio abbreviato (storicamente la tipologia di giudizio meno adeguata a far emergere una verità processuale che quantomeno tenda ad una verità sostanziale, fondandosi lo stesso su atti strictu sensu polizieschi); arrivando addirittura a prevedere - in aperta distonia con il principio in forza del quale l’imputato ha diritto ad un secondo grado di giudizio nel merito senza subire qualsiasi tipo di condizionamento - lo sconto di pena di un sesto per l’imputato che, condannato in primo grado a seguito di giudizio abbreviato, rinunzi a proporre impugnazione”, dicono Campora e Mastrocola. “La realtà è che la riforma mira a raggiungere un obiettivo (minor numero di processi, maggiore efficienza e più celerità) servendosi di mezzi a nostro parere inadeguati allo scopo. Si limita in gran parte, infatti, ad intervenire sul codice di rito, sulla procedura (che ha esclusivamente funzioni di garanzia e detta le regole del gioco) lasciando per lo più inalterato il codice penale e le migliaia di leggi in materia penale disseminate nelle più disparate disposizioni normative. Di contro, è evidente che l’unico mezzo per ridurre i processi senza diminuire le garanzie dei cittadini (imputati e parti offese) è quello di ridurre in modo significativo il catalogo dei reati attraverso una massiccia depenalizzazione. Vi sono, invero, nel nostro codice e soprattutto nelle cd. leggi speciali centinaia di fattispecie che ben potrebbero essere regolate e demandate ad altre branche dell’ordinamento. Così come - ed al netto dell’ovvia considerazione che per fare qualsiasi tipo di riforma è necessario il consenso della maggioranza parlamentare - sarebbe stato del tutto logico (come di regola è sempre avvenuto di fronte a riforme di una certa rilevanza), al fine di ridurre il cd. arretrato e per consentire alle nuove norme di esplicare i loro effetti, varare un provvedimento di amnistia e di indulto che avrebbe altresì consentito di porre un argine allo sfacelo che registriamo da decenni (ed in modo particolare nell’ultimo anno) negli istituti penitenziari”. Il ragionamento è: se l’intento della riforma è quello di modernizzare il diritto (e il processo) penale e renderlo più mite e meno terribile occorreva intervenire sulla tipologia delle pene e sui limiti edittali previsti dalle varie fattispecie del codice penale, “ancor oggi incentrato esclusivamente sulla pena detentiva in linea con l’ideologia imperante negli anni ‘30”, osservano i vertici dei penalisti di Napoli, “limiti che continuano ad essere esorbitanti e che gioco-forza, considerata l’enorme posta in palio, impongono l’aumento progressivo delle garanzie e non già la loro progressiva erosione”. “Banalizzando - aggiungono - per ridurre il numero dei processi, e dunque per migliorare l’efficienza e favorire una maggiore celerità, è necessario ridurre l’ambito di intervento del diritto penale a monte, apparendo una mera chimera il raggiungimento dell’obiettivo attraverso vie traverse (il sistema che si auto-regola e che blocca la trasformazione in processi delle centinaia di migliaia di notizie di reato) o peggio attraverso l’erosione delle garanzie e degli spazi di intervento del singolo imputato”. “Riforma Cartabia mai”. Il cieco giustizialismo del governo Meloni, la sinistra e i miserabili di Cataldo Intrieri linkiesta.it, 31 ottobre 2022 Bloccare il consolidamento della giustizia ripararativa, impedire il ricorso a misure alternative al carcere e reintrodurre l’ergastolo ostativo non sono solo i risultati di una cattiva ideologia giuridica, ma potrebbero anche compromettere la ricezione dei fondi del Pnrr. E con il sedicente liberale Nordio torna il fantasma dì Fofò Bonafede. Non è una pura coincidenza il fatto che tra i primi provvedimenti che vengono varati dal governo Meloni vi sia un decreto che blocchi la più importante riforma del processo penale degli ultimi tempi e contemporaneamente reintroduca l’ergastolo ostativo. E lo fa proprio alla vigilia di una nuova pronuncia della Corte Costituzionale in materia, che già aveva bocciato il sistema che vietava ogni accesso alle misure alternative al carcere per i condannati per reati più gravi. Quanto alla riforma Cartabia, il pretesto ufficiale è la richiesta dei 26 procuratori generali preoccupati dell’assenza di alcune norme transitorie in relazione a novità procedurali e organizzative che bloccherebbero la già asfittica macchina della giustizia. In realtà, il blocco non investe solo la carenza di qualche computer ma colpisce tutto l’impianto della riforma, molto vasto, anche in punti incontroversi: tra essi la significativa riforma della giustizia riparativa, l’allargamento delle procedure di mediazione anche nel settore penale e di ricorso a misure alternative al carcere per l’esecuzione delle pene al di sotto dei quattro anni. Va ricordato che la riforma fa parte del Programma di Resilienza e Rinascita per cui il paese sta ricevendo finanziamenti dall’Unione Europea e il professor Gianluigi Gatta, coordinatore dei gruppi di lavoro nominati dal ministro Cartabia per la redazione dei decreti attuativi, ha già espresso sul Corriere la sua forte preoccupazione che il rinvio “organizzativo” celi la malcelata volontà di modificare più profondamente l’impianto normativo. Non v’è dubbio che proprio gli articoli sul carcere siano una parte qualificante e innovativa in quanto stravolgono la prospettiva di stretta finalità repressiva e punitiva cui il processo è stato inchiodato da una sottocultura giuridica ben presente nella storia e nell’evoluzione del diritto italiano. La riforma costituisce un disperato tentativo di evitare la definitiva bancarotta della giustizia, trovando dei modi per svuotare tribunali e carceri. La riforma introduce la giustizia riparativa che è un istituto di derivazione americana nato negli anni ‘70 e che persegue una finalità utopistica quanto nobile nel confronto su base volontaristica tra vittime e colpevoli. In Italia è stato adoperato con fruttuosi risultati per quanto riguarda le vicende di terrorismo, ma è fin troppo agevole intuirne l’utilità ove si pensi a vicende di sinistri accidentali, reati infra familiari e di genere e si voglia intravedere nella giustizia scopi che non siano di pura realizzazione della vendetta dell’offeso. Nessun vantaggio concreto in termini di riduzione di pena se non nell’obbligo per il giudice di tenere conto del favorevole esito del contatto in sede di pena. Il che è rimesso anche alla volontà positiva della vittima. Accanto a essa vi sono alcune norme che rendono un percorso privilegiato quello di istituti come la detenzione domiciliare e lavori socialmente utili per scontare la pena. Sono entrambi indirizzi espressivi di valori non puramente utopistici e cattolici, ma anche (e forse soprattutto) di principi sanciti dalla Costituzione italiana e dai trattati internazionali, come la Convenzione dei diritti umani e la Convenzione internazionale contro la tortura del 1984 che vieta espressamente “qualsiasi atto mediante il quale viene intenzionalmente inflitto, a una persona, un dolore o una sofferenza acuta, fisica o mentale, al fine di ottenere, da lui o da una terza persona, informazioni o una confessione, per punirlo per un atto che lui o una terza persona hanno commesso o sono sospettati di aver commesso”. In Italia, secondo le statistiche fornite dal Garante dei detenuti, sono circa sessanta i suicidi in carcere così come più volte il nostro Paese è stato sanzionato dalla Corte europea per le condizioni in cui vivono. Ci volle la famosa sentenza Cedu Torregiani per garantire ai reclusi condizioni di vita minimamente decenti come uno spazio pro-capite di tre metri quadri! Su di un altro versante si muove il movimento di opinione favorevole all’abrogazione dell’ergastolo che alcune fonti di stampa vorrebbero condiviso addirittura dal guardasigilli Carlo Nordio, sparito insolitamente dai radar dell’informazione negli ultimi giorni. Il fine pena mai è di per se stesso un trattamento contrario alla dignità umana e in alcuni paesi europei come la Spagna addirittura non previsto. Basterebbe chiedersi quanti innocenti abbiano finito la loro vita in galera per capirne l’iniquità ma in Italia la gravità del fenomeno mafioso ha sempre funto da deterrente a ogni seria rivalutazione del problema. Negli ultimi tempi tuttavia la Corte costituzionale con due pronunce in tema di permessi e liberazione condizionale ha dato segni di apertura perché i benefici delle misure alternative al carcere venissero concesse anche i condannati per reati di mafia e altri crimini efferati. A oggi la possibilità di ritornare alla vita è legata solo alla collaborazione con la giustizia, ma la Consulta nel suo ultimo intervento ha denunciato come incompatibile con la Costituzione “la presunzione che fa della collaborazione con la giustizia l’unica strada per l’ergastolano” ed ha lasciato al Parlamento italiano una finestra di tempo fino al prossimo 8 novembre per adeguare la legge a tale principio. La risposta sta in un disegno di legge già varato a dire il vero dal governo Draghi con l’astensione di Fratelli d’Italia che è uno schiaffo in faccia alle ragioni umanitarie: esso nega ogni rilievo alla buona condotta in carcere per chiedere al detenuto ristretto da decenni di fornire lui la prova (impossibile e diabolica) di non essere più in contatto con le organizzazioni criminali. Viene negato ogni rilievo e discrezionalità alla giurisdizione dei magistrati di sorveglianza ridotti al rango di meri burocrati sorveglianti. Ma siccome siamo alle prese con dilettanti del diritto, Meloni e compagnia non si sono accorti che il decreto, in puro stile grillino, applica le stesse restrizioni per i condannati per i reati di corruzione, concussione peculato che vengono equiparati ai mafiosi. Il fantasma di Fofò Bonafede non più ministro ma sempre vivo a via Arenula che si sostituisce con uno sberleffo al liberale illuminato Nordio. È la perfetta espressione di una “nazione” incarognita e rancorosa che sfoga sui mostri (immigrati, detenuti, meridionali sul divano) il proprio rancore sociale. La sinistra sembra incapace di muovere contro di essa le ragioni del solidarismo e dell’utopia, del riscatto dei miserabili che popolano le galere, nel nome di un’utopia che non siano i soliti pistolotti ecclesiastici della domenica mattina. La battaglia contro una società autoritaria e che nega la speranza dovrebbe essere un punto di partenza invece di fare il verso al peggior giustizialismo. Erano battaglie di principio anche l’aborto e il divorzio non a caso oggi bersaglio della destra pro-vita e famiglia: può esserlo pure la speranza per i miserabili. Sotto processo a vita. Storie di ordinario “sequestro” di Valentina Stella Il Dubbio, 31 ottobre 2022 La ragionevole durata, prevista dalla Costituzione e dalla Cedu, e regolata dalla Legge Pinto, è spesso disattesa. Vittime illustri e semplici cittadini accomunati da una stessa sorte. Il caso record di Giuseppe Gulotta: in carcere per 22 anni. Il tema della ragionevole durata del processo è oggetto di due importanti precetti sovraordinati: l’art. 111, comma 2, Costituzione secondo cui la “La legge assicura la ragionevole durata “ e l’art. 6, par. 1, Cedu in base al quale “Ogni persona ha diritto ad un’equa e pubblica udienza entro un termine ragionevole, davanti ad un Tribunale indipendente e imparziale costituito per legge”. Inoltre secondo la Legge Pinto il termine di durata ragionevole del processo si considera rispettato se il processo non eccede la durata di: tre anni in primo grado, due anni in secondo grado, un anno nel giudizio di legittimità. O comunque se il giudizio viene definito in modo irrevocabile in un tempo non superiore a sei anni. Eppure nel nostro Paese esistono diverse storie di persone che per veder concluso l’iter giudiziario che le coinvolgeva hanno dovuto aspettare anni ed anni, trasformandole in dei veri e propri “sequestrati dalla giustizia”. Tanto è vero che la Corte europea dei Diritti dell’Uomo si è ripetutamente pronunciata nei confronti dell’Italia sul rispetto del diritto alla ragionevole durata del processo. Una delle più note e recenti sentenze riguarda la “Causa Verrascina e altri c. Italia” del 28 aprile di quest’anno. Il signor Antonio Verrascina è stato sottoposto a giudizio per 18 anni e 8 mesi. L’inizio del procedimento fu al Tribunale di Modena nel 1997. Si concluse in Cassazione nel luglio 2017. La sua causa era stata riunita ad altre: pensate che per il signor Salvatore Giardina primo grado e appello sono durati 24 anni e 2 mesi. Il processo era iniziato al Tribunale di Mistretta nel 1991 e si era concluso alla Corte di Appello di Messina nel maggio 2016. Ma di casi ce ne sono molti altri, pur senza essere arrivati all’attenzione della Cedu. A gennaio di quest’anno la Corte d’Appello di Catania ha assolto l’ex presidente della Regione Siciliana, Raffaele Lombardo, dalle accuse di concorso esterno in associazione mafiosa e corruzione elettorale. Alla lettura della sentenza l’ex Fondatore e leader del Movimento per le Autonomie si era detto “molto felice e sollevato per l’assoluzione. Sono stati 12 anni da incubo, la sentenza mi ripaga di tante sofferenze. La mia è una vicenda umana e giudiziaria incredibile”. Per uno dei politici più influenti della Sicilia è stata una vera e propria odissea giudiziaria: una condanna, un’assoluzione, un annullamento dell’assoluzione con rinvio. Tre sentenze, tutte diverse l’una dall’altra. E quest’anno la quarta sentenza: ancora una assoluzione. Nel dicembre 2020 la Corte di Cassazione aveva confermato l’assoluzione dell’ex ministro Calogero Mannino nel processo stralcio sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia. L’uomo era accusato di violenza o minaccia a Corpo politico dello Stato. L’indagine era partita nel 2012. Nel 2015 viene assolto, sentenza confermata in appello. Nonostante una “doppia assolutoria” i procuratori generale di Palermo andarono in Cassazione, la quale diede loro torto. L’uomo per 8 anni è stato prigioniero di una accanita (in)giustizia. Come non dimenticare il calvario di Pierdomenico Garrone, ex presidente di Enoteca del Piemonte e di Enoteca d’Italia, la cui vita è rimasta sospesa per 16 anni. Lo scorso anno si è visto confermare l’assoluzione già rimediata in primo grado quattro anni prima. Un processo e un’inchiesta lunghissimi, senza esser mai stato sentito dai pm che lo accusavano di aver fatto carte false sfruttando il suo ruolo. Tutto era partito nel 2005 con un blitz della Guardia di Finanza nelle sue proprietà. Da quel momento la sua vita cambiò radicalmente, a partire dalle dimissioni da presidente di Enoteca Piemonte ed Enoteca d’Italia. Invece Rocco Femia, di professione professore, ex sindaco di Marina di Gioiosa, è rimasto ostaggio della giustizia per 11 anni. Undici anni trascorsi tra carceri e tribunali. Ma era innocente, non faceva parte di una cosca di ‘ndrangheta. Lo ha definitivamente deciso quest’anno la Cassazione. “Sono passati 11 anni per avere giustizia, anni in cui ho gridato la mia innocenza, dopo una vita distrutta, una famiglia che ha sofferto come non auguro a nessuno e una comunità che ha dovuto subire tutto questo. Ho dovuto aspettare tanto per vedere nei fatti che ciò che dicevo era vero. Erano gli altri, quelli che rappresentavano la giustizia, ad infangarmi. Ma c’è sempre un giudice a Berlino” aveva detto alla collega Simona Musco. Ma poi c’è la storia di Ciccio Addeo, riportata alla luce dalla nostra firma Alessandro Barbano ma in questo caso sull’Huffington post: “La mattina del 23 marzo 2001, in cui entrò a Poggioreale, era ancora un luminare all’apice della sua carriera. Cinquantotto anni, capo del Cnr di Avellino, ordinario di agraria alla Federico II, presidente del consorzio per la mozzarella di bufala, direttore di centri di ricerca sperimentale a Lodi e in Corsica, Addeo era considerato uno de massimi esperti in Europa in materia lattiero-casearia”. Le accuse? Associazione per delinquere, falso in atto pubblico, truffa aggravata. Il chimico veniva accusato di aver falsamente garantito la genuinità del burro sofisticato, che dall’Italia si immetteva nel mercato francese. Rimase in carcere quattro mesi, altri quattro ai domiciliari. Dopo sette anni la sentenza di primo grado che lo assolse da quasi tutti i reati. Rinunciò alla prescrizione, altri sette anni per la sentenza di secondo grado, che ricopiò integralmente quella del primo, e altri due per quella di Cassazione, che annullò i due giudizi, “dimostrando il gravissimo travisamento delle prove di cui si erano macchiati, rinviando gli atti alla Corte d’appello per un definitivo pronunciamento di assoluzione”. Che arrivò a febbraio 2021, a venti anni esatti di distanza dall’inizio della vicenda. Un’altra storia drammatica è quella che vi abbiamo raccontato qualche giorno fa e che riguarda Vincenzo Nespoli, ex sindaco di Afragola e senatore del Pdl dal 2008 al 2013. Ad inizio ottobre la Cassazione ha annullato con rinvio per la seconda volta la sentenza di condanna della Corte d’Appello di Napoli nei confronti dell’ex sindaco, accusato di bancarotta in relazione al fallimento di una società di vigilanza di Afragola. Processo da rifare, dunque, mentre la carriera politica di Nespoli, nel frattempo, è naufragata. “Un processo di 15 anni confisca il bene più importante per un uomo, la progettualità - ha commentato il suo avvocato Vittorio Manes -. Travolge destini politici, fortune imprenditoriali, rapporti familiari e sociali”. Prima assolto, poi condannato, poi un nuovo processo d’appello con condanna e infine l’assoluzione in Cassazione. Si è concluso quest’anno un incubo per un pensionato residente nella Bassa Reggiana, accusato oltre 11 anni fa di violenza sessuale per presunte molestie alla nipotina, che all’epoca aveva 7-8 anni. L’anziano aveva scontato anche dei periodi in carcere e agli arresti domiciliari. Sempre quest’anno e sempre dopo 11 anni l’ex sindaco di Pagani, Alberico Gambino, è stato assolto pienamente nel processo “Criniera”, il cui impianto accusatorio si fondava su intrecci tra imprenditori, classe politica - l’amministrazione retta dall’allora sindaco - e il clan a Pagani. “Credo che vada fatta una riflessione precisa, visto questo processo così lungo e due anni - tra domiciliari e carcere - di custodia cautelare, quando Gambino non era responsabile di niente. La necessità di un’indagine è una necessità istituzionale, però la vita di un politico è stata fortemente danneggiata e certe verità obbligano dopo 11 anni una persona a urlare al mondo la propria innocenza”, aveva detto il suo legale Giovanni Annunziata. Invece ci sono voluti 9 anni per vedere confermata in appello l’assoluzione di primo grado per l’ex ministro delle politiche agricole Nunzia De Girolamo e per altri cinque imputati. L’ipotesi accusatoria era quella di concussione, consumata e tentata, nell’ambito di una inchiesta partita nel 2013 e relativa all’esistenza di quello che gli inquirenti all’epoca definirono “un direttorio politico-partitico”che avrebbe influenzato la gestione dell’Asl sannita. Un mese fa un cinquantenne è stato assolto dopo 10 anni e quattro gradi di giudizio dalla Corte di appello di Perugia “perché il fatto non sussiste” dalla pesantissima accusa di aver violentato le figlie. A questi casi possiamo aggiungere altri ancora più sconvolgenti, ossia quando la giustizia arriva dopo la revisione del processo. Ricordate Hashi Omar Hassan, condannato e poi assolto per l’omicidio Alpi - Hrovatin e ucciso da una bomba lo scorso luglio a Mogadiscio? Hassan fu assolto in primo grado, condannato in secondo grado e in Cassazione per aver fatto parte del commando che uccise i giornalisti italiani, ma un successivo ricorso portò all’assoluzione dopo oltre 16 anni di reclusione. Lo Stato Italiano lo ha risarcito con 3 milioni. E cosa vogliamo dire nel caso di Angelo Massaro? Ha trascorso in carcere da innocente 21 dei suoi 54 anni, dal 1996 al 2017, accusato dell’omicidio del suo miglior amico. Tutto a causa di un’intercettazione telefonica trascritta male e interpretata peggio. Ma a battere ogni record Giuseppe Gulotta che ha trascorso 22 anni, ossia 8030 giorni, in carcere da innocente. Il suo è forse il più grande errore giudiziario della storia italiana. Sicurezza, la linea dura del Viminale: in Cdm le misure di restrizione contro i rave illegali di Grazia Longo e Francesco Olivo La Stampa, 31 ottobre 2022 Oggi il ministro dell’Interno porterà in Cdm misure di prevenzione e di restrizione. Quella “discontinuità” che non si potrà vedere nei temi economici, Giorgia Meloni vuole mostrarla altrove. Dopo l’allentamento sulle misure anti Covid, a cominciare dal reintegro dei medici non vaccinati e la stretta sul carcere ostativo, l’altra mossa è quella di un giro di vite sulle feste illegali. Il rave, il raduno illegale in un capannone in provincia di Modena, dove si sono riunite migliaia di persone provenienti anche dall’estero, è stata un’occasione per la premier di mostrare la mano dura verso questi assembramenti già al primo vero Consiglio dei ministri, in programma oggi alle 13. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si presenterà a Palazzo Chigi con la proposta di un pacchetto di misure restrittive sui “rave”. L’obiettivo è quello di approvare un decreto nel più breve tempo possibile per procedere al sequestro immediato e alla confisca di camion, furgoni, amplificatori e altre apparecchiature musicali usate dagli organizzatori dei raduni, a carico dei quali scatterebbe anche l’obbligo del ripristino dei luoghi danneggiati. Nel futuro provvedimento si punterà sulle prevenzione, perché gli sgomberi si rivelano molto complessi per la gestione della sicurezza. Così, l’obiettivo è sapere in anticipo luogo e data dei concerti per presidiare gli accessi all’area. Per poterlo fare è necessario un controllo su chat e sui canali social coperti utilizzati da chi li organizza: serve, cioè, la possibilità di fare intercettazioni come per reati di particolare gravità. Quello delle feste illegali è uno dei cavalli di battaglia di Meloni, che nell’estate del 2021, durante un raduno in provincia di Viterbo, attaccò con parole durissime l’allora ministra Luciana Lamorgese. Ora che al potere c’è lei, un segnale andava dato. Il tentativo, in realtà non è nuovo: la stessa Lamorgese tentò di varare un provvedimento dissuasivo, che il governo però non portò avanti. Difficilmente si potrà procedere alla pubblicazione del provvedimento sulla Gazzetta ufficiale entro un paio di giorni e quindi per ora, come trapela dal Viminale, “si procederà con mezzi ordinari tipo il sequestro preventivo dell’area dove si svolge il rave party”. Decisioni che saranno valutata questa mattina insieme alle forze dell’ordine per essere sicuri di non incorrere nel rischio di esasperare gli animi e creare momenti di tensione. In ogni caso quello di stamani sarà solo un dispositivo tampone nell’attesa di mettere appunto in atto “nuovi e più efficaci strumenti di prevenzione e intervento” attraverso un decreto legge da approvare in pochi giorni. L’ex ministro del Lavoro, Andrea Orlando, Pd, nota una contraddizione: “Segnalo al ministro dell’Interno il rave che si è tenuto a Predappio è di gran lunga più inquietante. Era conforme alle norme vigenti?”. “Ci vuole responsabilità - dicono i parlamentari del Pd, Vincenza Rando e Stefano Vaccari - senza dare fuoco alle polveri salviniane con risultato finale di ricorrere a manganelli, maniere forti inutili e dannose”. Una reazione che stupisce Matteo Salvini: “Parlamentari Pd difendono i rave party illegali e si preoccupano per il ritorno alla legalità. Siamo su Scherzi a parte?”. Sul tavolo del Consiglio dei ministri di oggi, al di là della nomina dei sottosegretari, ci saranno anche interventi sulla giustizia. Un decreto salverà il cosiddetto “ergastolo ostativo”, smontato dalla Consulta, e rinvierà al 30 dicembre 2022 l’entrata in vigore di alcune disposizioni della riforma Cartabia. Aspetti che hanno suscitato la preoccupazione dell’Unione delle camere penali, che hanno chiesto un incontro al ministro Carlo Nordio, annunciando di essere pronti alla protesta. Altra questione è la lotta al Covid. Sarà confermato il reintegro per i medici non vaccinati, ma potrebbe esserci una frenata sulla decisione di togliere l’obbligo di utilizzare le mascherine negli ospedali e nelle residenze per anziani. Una scelta avventata secondo medici e scienziati. Cagliari. Carcere di Uta, Caddeo lancia l’appello: “Non si riduca il servizio sanitario” cagliaripad.it, 31 ottobre 2022 Nel carcere di Uta sono presenti quasi mille persone. A fronte di questo gran numero, il servizio sanitario del carcere risulterebbe già sottodimensionato. La Regione chiarisca la situazione del servizio sanitario all’interno della Casa circondariale di Uta. Lo chiede un’interrogazione rivolta al presidente della Regione Christian Solinas e all’assessore della Sanità Mario Nieddu dal gruppo Liberi e Uguali Sardigna - Articolo 1 - Demos - Possibile. “Giungono segnalazioni di una possibile riduzione o addirittura soppressione del servizio dei medici e operatori del 118, garantito finora per l’intera giornata” spiega la consigliera e prima firmataria Laura Caddeo, “una circostanza che metterebbe a rischio la salute e la sicurezza dei detenuti e degli operatori penitenziari, in una struttura dove aumentano tentativi di suicidio e autolesionismo oltre che le patologie anche gravi, soprattutto psichiatriche”. La casa circondariale di Uta ospita 600 detenuti e circa 350 tra agenti di polizia penitenziaria, amministrativi e educatori. A fronte di questo gran numero di persone presenti nella struttura, il servizio sanitario del carcere risulterebbe sottodimensionato. Infatti, sono in servizio 12 medici di medicina di base che svolgono l’attività con un orario proporzionale all’attività svolta all’esterno e 15 medici di medicina d’urgenza che fanno capo all’Areus e operano fuori dall’orario di servizio per 10 ore, alternandosi nell’arco delle 24 ore. Roma. Calci in faccia al senzatetto, l’ultima follia della movida romana La Repubblica, 31 ottobre 2022 Un 55enne massacrato da un gruppo di ragazzini in piazza Trilussa, nel cuore di Roma. “Dava spettacolo da due giorni”. Dopo il pestaggio ripreso da un cellulare dai passanti, scoppia la rissa con un altro gruppo. “Daje de tacco”, grida uno dei picchiatori all’amico. La vittima è un uomo di mezza età sdraiato in terra con indosso solo un paio di scarpe da tennis, pantaloncini rossi e la camicia completamente aperta, che scopre le spalle, il petto nudo. Così il primo adolescente, vestito in jeans, il cappuccio bianco di una felpa che spunta dal giubbino nero, assesta un calcio in testa alla vittima. Subito dopo un altro ragazzo lo imita. Arriva il terzo calcio, ancora più potente, in sequenza. La violenza del branco è micidiale. Sembra la replica, più arrabbiata ancora, della maxi-rissa tra baby gang andata in scena nel dicembre del 2020 sulla terrazza del Pincio. Il video di cui Repubblica è entrata in possesso, documenta il pestaggio avvenuto sabato sera, ai piedi della fontana dell’Acqua Paola in piazza Trilussa a Trastevere. L’uomo nudo in terra sembra ubriaco, è semi-incosciente. “Erano due giorni che dava “spettacolo” per i vicoli del rione”, racconta un residente. La vittima forse è un senza dimora. Non è un volto conosciuto dalle forze dell’ordine, abituate a monitorare le tante persone senza casa che orbitano abitualmente nel rione. Sono le 22 quando l’uomo viene ripreso la prima volta da uno dei tanti adolescenti che il sabato si radunano nella piazza simbolo del rione caro al Belli per trascorrere la notte di movida. Il bersaglio dei baby picchiatori si tiene dritto in piedi a stento, si avvicina a un gruppo di ragazzi seduti a bere sulla scalinata. Il video adesso si interrompe. Pochi giri di lancette e riprende. La vittima adesso è sdraiata sui sampietrini, circondata da quasi cento adolescenti. Due giovanissimi, coperti da un piumino nero che sembra una divisa, gli assestano almeno quattro calci potentissimi in testa e sul viso. Le ragazze che assistono alla scena gridano sconvolte: “Regà, che fate: fermi oh”. La folla ha un sussulto di disapprovazione a ogni colpo. Per circa 40 lunghissimi secondi non interviene nessuno. Finché un ragazzo, con la felpa bianca, non si stacca dal gruppo degli spettatori e si scaglia contro uno degli aggressori. Altri cinque ragazzi, tutti con il giubbino o la felpa bianca, lo seguono. Scoppia la maxi rissa: bianchi contro neri. Mentre la vittima resta in terra, rintronata dalle botte. L’ultimo ragazzo che aveva gli sferrato un calcio scappa sulla scalinata, inseguito dal gruppo in felpa bianca. Volano altri pugni, la folla ondeggia. La tensione in piazza è palpabile. La persona che sta riprendendo la scena è costretta a rimettere il cellulare in tasca. L’uomo in terra, nonostante la potenza dei calci subiti, non perde sangue. Nessuno chiama i soccorsi. La polizia di Trastevere a quell’ora è impegnata nei controlli sull’altro versante del rione, in via di San Francesco a Ripa. Gli aggressori vanno via come se nulla fosse accaduto. Il pestaggio in stile in Fight club si è consumato senza che nessuno sia intervenuto per interromperlo. “Purtroppo - ragiona la presidente del comitato Vivere Trastevere Dina Nascetti - succede anche questo. Sembra che siamo condannati ad assistere a scene del genere, di risse ne scoppiano ogni sera”. L’unica consolazione, aggiunge Nascetti, “è che almeno in questo caso altri ragazzi siano intervenuti per difendere quell’uomo a terra”. Gli investigatori del commissariato di Trastevere acquisiranno le immagini delle telecamere di videosorveglianza puntate sulla piazza per risalire agli autori del pestaggio. Non è il primo e non sarà l’ultimo che accade, al centro del triangolo delle bevute stretto tra piazza della Malva, piazza Trilussa e piazza Santa Maria in Trastevere. “Questo rione è una polveriera dove il cerino acceso sono i ragazzini ubriachi”, aveva spiegato lo scorso fine settimana a Repubblica un residente che ha messo in vendita la casa. Due giorni fa il questore Mario della Cioppa aveva disposto la sospensione della licenza e la chiusura per cinque giorni di un locale che somministrava alcol ai minorenni. È l’ennesimo locale chiuso dal questore. Dopo poche ore il pestaggio, di una violenza cieca. Napoli. Dal 41 bis a primo laureato in carcere: “Con studio e volontà sono uscito dall’abisso” di Pierluigi Frattasi fanpage.it, 31 ottobre 2022 Pierdonato Zito, oggi 63enne, ha trascorso in carcere quasi metà della sua vita. Il 14 ottobre si è laureato in Scienze Sociali con 110 e lode grazie al Polo universitario penitenziario di Secondigliano dell’Università Federico II di Napoli. “Ho vissuto in carcere quasi metà della mia vita e sono stato 8 anni in isolamento al 41 bis. Quando stai tanto tempo rinchiuso, perdi il tuo ruolo di genitore, marito, padre, amico. Diventi un oggetto umano, diventi un numero. Io ho vissuto per anni con due numeri: il numero di matricola e quello del fine pena 31/12/9999. Nel computer non c’è fine pena mai. Lo studio mi ha aiutato come persona ad uscire dall’abisso, ma da solo non basta. La prima cosa è fare un atto di volontà. Oggi sono parzialmente fuori dal carcere. Ho tagliato i ponti col mio passato”. Non ha dubbi Pierdonato Zito, oggi 63enne e con più di 30 anni trascorsi all’interno di istituti penitenziari, dei quali 8 in isolamento. Zito è il primo laureato del Polo universitario penitenziario di Secondigliano dell’Università Federico II di Napoli. Lunedì 14 ottobre 2022, ha discusso la tesi e conseguito la Laurea in Scienze Sociali con 110 e lode e il 20 ottobre c’è stata la proclamazione. Oggi Pierdonato vive a Succivo, in provincia di Caserta, impiegato come volontario nel settore politiche sociali del Comune, in esecuzione penale esterna in regime di semilibertà. “Se sono soddisfatto di tanto studio?” Sì - dice a Fanpage.it - Poter rivedere il sorriso sui volti dei miei figli dopo 30 anni non ha prezzo. Vorrei che la mia storia potesse aiutare anche altri”. Perché ha deciso di studiare e prendere la laurea a 63 anni? Io ho vissuto molto tempo in carcere, quasi un quarto di secolo. Dopo tanto tempo chiuso, ho iniziato a chiedermi le ragioni del mio agire. Ho fatto uno scavo interiore, un po’ l’archeologo della mia anima. La sociologia mi ha dato le risposte e gli strumenti mentre ero in carcere per analizzare la società esterna e le mie azioni. Sono andato a studiare il mio agire, per capire me stesso. Ma ci sono anche altre motivazioni. Quali? C’è una responsabilità morale e etica. Io ho trascorso circa 30 anni in carcere. Ho una conoscenza personale della prigione. Attraverso lo studio ho capito che non si deve abbandonare una persona in carcere, così come prevede il dettame Costituzionale, perché quasi certamente si rimette sul territorio una persona recidiva. Bisogna aiutare i detenuti all’interno ad intraprendere un percorso di crescita. Questo è anche il senso della mia tesi di laurea: il carcere non come luogo di abbrutimento, ma di formazione. Mi sono fatto delle domande: lo studio può influire sui processi individuali? Tra coloro che in carcere decidono di frequentare corsi e tutto quello che le istituzioni offrono, rispetto a coloro che non lo fanno, in quanti rientrano? Quali sono le conclusioni? Ho usato l’auto-etnografia e il metodo comparativo tra 200 istituti di pena circa in tutt’Italia, dove la recidiva è intorno al 70%. Ma nel caso del carcere di Bollate nel milanese, invece, dove ci sono corsi per i detenuti e la pena è responsabilizzante, non infantilizzante, c’è un calo drastico della recidiva del 16%. Il motivo? Li si applicano alcune norme costituzionali. Conviene alla società non abbandonare i detenuti, perché la ricaduta è individuale, ma anche familiare e sociale, perché la società non viene ferita. Da ragazzo quale era il suo rapporto con lo studio? Io ho frequentato l’Ipsia, ho un diploma triennale di qualifica professionale. Lo studio mi è sempre piaciuto. Ma ho smesso, ho fatto vari lavori. I miei genitori volevano che studiassi e che mi laureassi. Per questo ho esaudito anche un po’ il loro desiderio. Otto anni in isolamento, si rischia di impazzire? Non è facile gestire una condizione del genere. Quando ti alzi la mattina e fino a sera devi inventarti la vita mentre sta passando. Io faccio parte di quella piccola percentuale che è riuscita a uscire dal labirinto. Lo studio è uno dei motivi, ma da solo non basta. Altrimenti non ci sarebbero i reati dei colletti bianchi, che sono quasi tutti laureati. Ci vuole anche altro. Cosa? La prima cosa è la forza di volontà. Io ho deciso di chiudere una parentesi della mia vita. Di alzarmi dove sono caduto. Ci deve essere una forte motivazione. Il secondo è l’auto-scrittura. Io ho scritto due libri, uno si chiama I colori nel buio, che sono la speranza. Il talento è restare nell’abisso e non perdersi lì dentro. L’ho scritto mentre vivevo quella condizione. Scrivendo, ho dato ordine alla mia vita. Che altro? Il terzo punto sono le relazioni umane. La famiglia che ti sta vicino, i volontari, ma anche i sacerdoti in carcere. All’interno dell’istituto di Secondigliano ho incontrato il professor Antonio Belardo, che insegna con una succursale di un istituto Isis Caruso. Mi dava lezioni anche di biologia e chimica. Ed è il volontario che mi segue tutt’ora. Io ero nella sezione T1 riservata agli ex 41 bis e all’isolamento. Grazie alla dottoressa Giulia Russo, direttrice del carcere, sono stato autorizzato a usare una cella per lo studio. Quando ho frequentato i corsi di Scienze Umane la mia aula è stata una cella. Abbiamo trasformato un luogo detentivo in un luogo formativo di crescita e apprendimento di conoscenza. Lei ha tre figli, come vi siete ritrovati dopo 30 anni di carcere? La famiglia è fondamentale. Ho rivisto il sorriso sui miei figli. Oggi lavorano tutti. Consiglierebbe il suo percorso di studio al Pup della Federico II anche ad altri? Dopo di me, anche nella sezione T1, ci sono altri detenuti che si sono iscritti a sociologia. Per molte persone si è accesa una speranza. Si può uscire dal labirinto. E poi c’è la speranza che tanti ragazzi possano seguire il mio esempio. Quando mi hanno chiamato in qualche liceo per raccontare la mia esperienza, autorizzato dal magistrato, ho parlato con i ragazzi delle quinte. Io porto una testimonianza di chi è uscito da un percorso. Una prova che si può e si deve cambiare. Massa. La ludoteca adesso entra anche in carcere con Telefono azzurro di Camilla Di Maria Il Tirreno, 31 ottobre 2022 Un progetto per i bambini in visita ai genitori. È stato inaugurato nella mattinata di ieri, alla presenza del sindaco di Massa Persiani, del consigliere comunale Cofrancesco, del consigliere regionale, Giacomo Bugliani e dell’assessore provinciale, Giovanni Longinotti, l’ampliamento della ludoteca di Telefono Azzurro, “Progetto Bambini e Carcere” -Ludoteca in carcere - nell’area verde della Casa di Reclusione di Massa. Una iniziativa destinata ai bambini e agli adolescenti (0-16 anni) che entrano negli istituti di prevenzione e pena a far visita a un genitore detenuto. Il bambino che entra in carcere viene coinvolto in una situazione che non sempre è in grado di comprendere o preparato a gestire; d’altra parte, però, la continuità e la qualità del rapporto con il proprio genitore rappresenta un bisogno fondamentale che non può essere ignorato o negato, ma che deve essere il più possibile favorito e talvolta anche migliorato. Il progetto “Bambini e Carcere” è presente nella Casa di Reclusione di Massa dal 2003 ed è portato avanti dai volontari apuani di Telefono Azzurro; la ludoteca è il luogo dove si svolge “il colloquio”: una sala allestita con giochi e arredi adatti ai bambini / ragazzi e dove la famiglia ha a disposizione attività che gli forniscono la possibilità di relazionarsi in modo positivo. “Dopo due anni di pandemia ripartiamo con questo progetto bellissimo. -ha dichiarato Maria Giovanna Guerra del Telefono Azzurro - Il Comune di Massa e la Provincia hanno contribuito a questo nostro progetto della ludoteca che negli anni ha avuto alcuni ampliamenti; adesso, però, grazie al finanziamento chiesto dalla Chiesa Cristiana Evangelica al fondo 8x1000 dell’ UCEBI la struttura offre più spazi e servizi igienici a misura di bambino”. Il Pastore Santarini, infatti, da anni sostiene i progetti del carcere: nel 2018 ha finanziato un progetto musicale e per il prossimo anno sosterrà un corso di “Comunicazione Non Violenta” a favore dei detenuti. Alla donazione della chiesa Cristiana Evangelica, si è unita anche l’Associazione “Per Valentina Onlus”, in ricordo di Valentina Giumelli la ragazza massese di 26 anni rimasta vittima nella tragedia dell’aeroporto di Linate l’8 ottobre 2001. L’Associazione ha donato alla nuova Ludoteca “gli arredi a misura di bambino” che hanno abbellito la parte ampliata e fatto sì che le postazioni dei colloqui aumentassero da 5 a 8, permettendo ad un numero maggiore di minori la possibilità di incontrare il proprio papà detenuto. Durante la mattinata, dopo aver scoperto due targhe di ringraziamento per la Chiesa Evangelica e “Per Valentina Onlus”, si sono svolte attività per coinvolgere i bambini e le famiglie dei detenuti. Forlì. Donazione di prodotti paramedicali al carcere firmata dal Leo Club forlitoday.it, 31 ottobre 2022 I giovani dei Leo Club del Multidistretto 108 Italy sono impegnati nella prosecuzione del progetto triennale (2019/2022) dal titolo “Leo for Safety & Security”, nato dalla volontà e dall’esigenza di portare un aiuto concreto agli Enti di primo soccorso e alle strutture pubbliche di tutto il territorio nazionale. Nel corso del triennio, a causa della pandemia da Coronavirus, il progetto ha assunto rilevanza anche oltre l’associazione leonistica, grazie alla sottoscrizione del protocollo d’intesa con la Protezione Civile Nazionale, che consente ai vari Leo Club di donare attrezzature paramedicali ai volontari e ai professionisti sanitari. Nell’ambito di tale progetto il Leo Club Forlì ha donato materiali di primo soccorso, come prodotti disinfettanti, guanti, coperte termiche ed altro alla Casa Circondariale di Forlì per il valore di mille euro. Al momento della donazione erano presenti Palma Mercurio, direttrice del carcere forlivese, Arianna Suozzo, presidente Leo Club Forlì, Vera Roberti, socia del Lions Club Forlì Host, i medici Maria Pia Garavini e Vito Melucci e Rita Locatelli, agente della Polizia Penitenziaria. Bologna. Progetto europeo “Sport in Prison” uisp.it, 31 ottobre 2022 L’incontro ha raccolto le esperienze dei partner europei sulle buone pratiche nel campo dell’inclusione dei detenuti attraverso lo sport. Venerdì 28 ottobre l’Uisp ha presentato a Bologna i risultati di Spff-Sport in Prison, a plan for the future (Sport in carcere, un piano per il futuro), progetto che mira a sviluppare buone pratiche, utilizzando lo sport in carcere come ponte di collegamento con altri settori della società. Cominciata a gennaio 2020 e ormai prossima al termine, l’iniziativa è finanziata dal programma europeo Erasmus Plus e coordinata dall’associazione De Rode Antraciet (Belgio), coinvolgendo Italia, Belgio, Bulgaria, Croazia e Olanda. L’incontro è stato aperto dai saluti dell’assessora allo Sport e al Bilancio del Comune di Bologna, Roberta Li Calzi: “Non esiste un fuori carcere e un dentro carcere ma si tratta di una collettività unica. Questi progetti aiutano a superare i momenti di difficoltà poiché lo sport ha una valenza umana primaria”. A seguire, Tiziano Pesce, Presidente Nazionale UISP APS, ringraziando i partner del progetto e le istituzioni coinvolte “Il Comune di Bologna ha manifestato quanto sia importante investire nel Terzo Settore e non l’ha fatto solo a parole, ma anche con i fatti.” La conferenza è stata coordinata da Loredana Barra, responsabile politiche educative e inclusione Uisp, che ha ricordato come lo sport sia un diritto fondamentale per il benessere psicofisico di tutti ma anche un modo per rialzarsi. “Il ponte che questo progetto ha creato, è segno di speranza e può ci renderci tutti alleati nell’ errore, per riuscire ad uscire dall’errore - ha detto Loredana Barra - Io sono un insegnante e a noi insegnanti, soprattutto dopo le ultime scoperte delle neuroscienze, ci insegnano che il modello giudicante innesca quella paura di sbagliare che porta alla negazione dell’errore e non alla sua comprensione. La consapevolezza dell’ errore invece è parte integrante della crescita personale. Se l’errore è solo “colpa” produce un dolore psichico, e mica sparisce, ma rimane nascosto nella nostra mente e random, ritorna”. Daniela Conti, responsabile Politiche per l’Interculturalità e la Cooperazione Uisp, ha illustrato lo spirito del progetto: “I detenuti acquisiscono dalla società uno stigma, SPPF vuole dare una seconda possibilità alle persone, confrontandosi e prendendo spunto da altri progetti analoghi internazionali”. Conti ha condivido il video “I palleggi della vita (la storia di Fabrizio Maiello)”, che racconta la storia di Fabrizio, ex detenuto che nel manicomio criminale di Reggio Emilia ha incontrato gli operatori Uisp, che sono stati capaci di riaccendere in lui una fiammella di speranza, portandogli un po’ di umanità. A seguire sono intervenuti i partner di progetto: Gino Campanaerts, belga, coordinatore europeo del progetto SPPF, si occupa della partecipazione attiva dei detenuti e ha raccontato la loro esperienza in un carcere maschile, in cui hanno coinvolto detenuti con condanna breve o alla fine della propria condanna. L’idea era quella di far partecipare persone con la possibilità di uscire fuori, infatti, il progetto ha formato allenatori di calcio, una prima parte si è svolta dentro al carcere e una seconda fuori. Le società calcistiche che hanno partecipato alle azioni hanno poi assunto i detenuti divenuti allenatori. Emilia Crushcov lavora per una ong bulgara “UPSDA” che si occupa, tra gli altri, di giovani a rischio: “Il nostro progetto coinvolge nelle carceri vari operatori e professionisti che aiutano i detenuti in diversi ambiti, culturali e sportivi. Al momento il progetto coinvolge tre carceri. Bisogna inserire nuove esperienze per i detenuti e trovare soluzioni ad hoc per ciascuno in modo che quando escano dalle carceri possano accedere al mercato del lavoro. Attualmente nelle nostri carceri gli sport principali sono fitness, football, volley, ping pong, badminton e box. Una delle azioni ha previsto la costruzione di un campo da badminton su cui giocare, valorizzando una funzione lavorativa oltre che sportiva”. Il lavoro svolto dall’associazione croata ACSW, è stato descritto da Lucjia Zivkovic: “La nostra associazione si occupa di programmi di lavoro sociale, coinvolgimento detenuti e prevenzione droghe. In Croazia esiste una legge che garantisce ai detenuti attività di coinvolgimento come quelle sportive, tuttavia la situazione è cambiata molto con la pandemia: purtroppo le attività sono calate in numero e frequenza”. Dall’Olanda era presente Gerko Brink, dell’associazione DJI, che ha raccontato lo staff delle carceri preveda la presenza di vere e proprie figure che si occupano di sport. Dopo la panoramica sulla situazione in vari Paesi europei si è passati a quella italiana con l’intervento dell’avvocato dell’associazione Antigone, Elia De Caro: “In Italia ci sono tante carceri senza attività sportiva e la pandemia ha causato un’ulteriore blocco. Solo il 44% dei detenuti in Italia ha accesso a campi sportivi. L’Uisp ci ricorda che lo sport è un diritto fondamentale e va fornito a tutti gli esseri umani, così come ai carcerati, poiché lo sport insegna i valori più importanti come il rispetto, il gioco di squadra, la collaborazione e il fair play. Antigone e Uisp collaborano in più carceri tra cui l’IPM Pratello di Bologna che prevede un grosso programma sportivo. Tuttavia il programma non si limita al mero sport ma anche alla promozione di tutti i valori e i diritti legati allo sport”. I lavori sono proseguiti con la presentazione delle attività fiorentine, presentate da Eros Cruccolini, garante dei detenuti Firenze; Emilio Lastrucci, Uisp Firenze ed Eva Paoli, Società della Salute Firenze. Il progetto a Firenze ha portato un programma di Attività Fisica Adattata ai detenuti anziani o con difficoltà mediche delle carceri di Sollicciano e Gozzini. “Uisp Firenze è molto impegnata negli istituti carcerari fiorentini. L’obiettivo è quello di arrivare a più detenuti possibili con tre diversi corsi in varie carceri. Il quarto corso è stato recentemente inserito e si focalizza sulla salute mentale, aspetto quanto mai importante”, ha detto Emilio Lastrucci. Eva Paoli ha analizzato l’impattio sul benessere psicofisico prima di lasciare la parola a Eros Cruccolini: “Antigone e Uisp collaborano da diversi anni e l’obiettivo è portare attenzione allo stato dei detenuti e non vivere il carcere come situazione di marginalità. Oltre al gesto sportivo in sè è fondamentale l’aspetto sociale di quest’ultimo, ad esempio nel rugby viviamo con emozione il momento del terzo tempo, che è l’emblema della condivisione e della socialità”. Si è quindi parlato delle attività bolognesi, con gli interventi di Antonio Ianniello, garante dei detenuti Bologna; Romina Frati, funzionaria della professionalità pedagogica IPM Bologna e Cristina Angioni, Uisp Bologna e ASD Sempre Avanti. Il progetto di Bologna si è concentrato sull’inclusione di ragazzi dell’area penale esterna all’interno di una società sportiva di base insieme ad altri coetanei. “Il problema del sovraffollamento delle carceri è una questione annosa. In Italia, rispetto agli scenari descritti dai nostri partner europei, siamo ad un livello decisamente inferiore in termini di inserimento dei detenuti nel mondo del lavoro - ha detto Antonio Ianniello - L’amministrazione penitenziaria da sola non può favorire l’apertura del territorio alla comunità penitenziaria: in questo ci soccorrono le associazioni esterne”. Romina Frati ha proseguito: “Abbiamo fatto tante iniziative aperte all’esterno per i nostri ragazzi per non farli vedere come detenuti ma come veri e propri giocatori: ad esempio la squadra di calcio dell’IPM ha la possibilità di giocare partite fuori dalle mura e questo è molto importante. Allo stesso modo vogliamo renderli partecipi a 360 gradi dell’attività sportiva: essi stessi costruiscono i campi in cui poi giocheranno. Dobbiamo ringraziare l’Uisp per essere riusciti a fare tutto ciò a livello organizzativo, tutti i suoi addetti ai lavori e in particolar modo i volontari”. “Da diversi anni organizziamo attività sportive all’interno dell’IPM Pratello, ma è altrettanto importante organizzare i rapporti con l’esterno. In questo senso vogliamo estendere i programmi sportivi dei ragazzi detenuti al periodo successivo alla detenzione”, ha detto Cristina Angioni. Camilla De Concini, coordinatrice Uisp del progetto e delle attività italiane, ha presentato gli strumenti e le buone sviluppati grazie al progetto. E’ stato sviluppato un kit di strumenti per facilitare la collaborazione tra carceri, detenuti e tutti gli organismi, enti e associazioni che desiderano iniziare o già lavorano nelle carceri, utilizzando lo sport come ponte fra il dentro e il fuori. “I programmi sportivi descritti da questa guida hanno l’obiettivo di creare un’esperienza corporea per i detenuti parallelamente alla formazione della persona. I contenuti della guida partono da un quadro legislativo europeo in cui bisogna inserire i programmi e proseguono con la definizione degli obiettivi e degli attori da coinvolgere, tra cui le organizzazioni esterne alle mura”. “Le attività Uisp nelle carceri e negli Ipm sono momenti fondamentali per la nostra associazione da più di trent’anni e questo dimostra quanto siano importanti i diritti di tutte le persone all’interno della società e quanto sia necessario salvaguardarli”, ha concluso Tiziano Pesce. “Garantismo. I nemici, i falsi amici, le avventure” di Vincenzo Roppo* Il Dubbio, 31 ottobre 2022 Garantismo: quanto se ne parla. Ne parlano filosofi (in primis Luigi Ferrajoli, massimo costruttore della categoria), ne parlano giuristi, ne parlano giornalisti. Ne parlano politologi, politici e politicanti. L’uomo della strada non ne parla spesso: ma anche senza usare la parola è coinvolto fino al collo nelle vicende e nei problemi che la parola indica. E chi usa la parola - non solo fra gli uomini della strada, anche fra i savants o pretesi tali - non sempre sa bene di cosa parla. Perché di garantismo si parla spesso in modo serio, ma talora anche in modo cialtrone. Ecco il senso di questo libro: un modesto contributo per restituire al discorso pubblico una nozione di garantismo più consapevole, meno lacunosa confusa unilaterale (ma oso aggiungere meno truffaldina) di quella che oggi lo frequenta. Ovvero, un piccolo esercizio di ecologia del linguaggio e dei concetti. Ma anche, necessariamente, un piccolo esercizio di storia: perché nell’arco della sua pur breve vita il garantismo ha corso complicate “avventure” - trionfi e disgrazie, splendori e miserie - che vanno conosciute se si vuole cogliere di cosa parliamo quando parliamo di garantismo. I possibili significati del termine sono più d’uno, e diversi fra loro. Domina in posizione eminente il garantismo penale, che è il garantismo per antonomasia, il padre di tutti i garantismi: lo scudo dell’individuo contro il potere punitivo dello Stato, che Montesquieu chiama “terribile”. Ma il termine corre anche in altri campi semantici. A parte il garantismo sociale (che reclama azioni pubbliche per promuovere il benessere delle persone e ridurre le disuguaglianze della società), c’è soprattutto un garantismo istituzionale: quello che fa tutt’uno col rispetto dei giusti confini ed equilibri fra i poteri statali, ed è offeso quando un potere invade il territorio di un altro - in definitiva una questione di buon funzionamento della democrazia. Basta questo per capire che sulla scena del garantismo il posto centrale è occupato dalla magistratura. Protagonista assoluta del garantismo penale, perché sono magistrati - pubblici ministeri e giudici - quelli che manovrano la macchina dei delitti e delle pene. Ma protagonista anche del garantismo istituzionale, tutte le volte (non poche) che si crea qualche interferenza fra l’azione giudiziaria e l’azione del governo, del parlamento, dei partiti: per dirla spiccia, tutte le volte che vengono in gioco i rapporti fra magistratura e politica, dove i rapporti non di rado sono scontri. Se si cerca nella storia dell’Italia repubblicana una fase in cui l’azione della magistratura si espone in modo esemplare al doppio scrutinio del garantismo penale e del garantismo istituzionale, questa è la fase di Tangentopoli e Mani pulite. Inevitabile allora ripercorrere questa fase seguendo la bussola di due domande: Mani pulite viola il garantismo penale, calpestando i diritti degli imputati sotto processo per corruzione? Viola il garantismo istituzionale, operando come la forza d’urto che dissolve la prima Repubblica e così invade pesantemente il campo della politica? In altre parole: a Mani pulite può rimproverarsi un peccato di “giustizialismo” (come per radicata convenzione si chiama il vizio antitetico alla virtù del garantismo)? Con Mani pulite la magistratura gioca senza dubbio un ruolo protagonista, che impatta su importanti dimensioni del garantismo. Ma non è l’unico caso in cui il protagonismo della magistratura è messo in stato d’accusa davanti al tribunale dei principi garantisti. Anche qui però c’è il rischio di fare d’ogni erba un fascio, sicché conviene esercitarsi nell’arte della distinzione: perché una cosa è il protagonismo dei pretori d’assalto negli anni sessanta/settanta del Novecento, altra cosa quello dei magistrati impegnati nei processi di mafia e di terrorismo (e talora vittime dirette di queste forme di criminalità). Una cosa il protagonismo dei magistrati autori di arresti eccellenti quanto pretestuosi, altra cosa quello dello scontro frontale con esponenti massimi della politica. Per la sua rilevanza, quest’ultimo aspetto merita un discorso a parte. Ed è un discorso che rinvia a nomi e cognomi della storia politica italiana: Bettino Craxi e Silvio Berlusconi. Impegnati - soprattutto il secondo - in conflitti con la magistratura di lunga durata e di singolare asprezza, in relazione a vicende giudiziarie che variamente li toccano. Anche qui il garantismo c’entra eccome: l’accusa di giustizialismo anti-garantista è infatti la principale arma polemica usata contro quelle iniziative giudiziarie. Se l’accusa abbia fondamento o meno (e possa magari ritorcersi contro chi la muove) è questione che merita di essere esplorata, e aiuta a mettere a fuoco cosa sia coerente e cosa contrario a una bene intesa idea di garantismo. Avventure molto impegnative sono quelle che il garantismo vive nelle situazioni di emergenza: quando per difendere la società da nemici che la minacciano sembrano indispensabili azioni di lotta molto energiche, anche a costo di sacrificare diritti e garanzie degli individui. Vale per l’emergenza mafia: dove il dilemma fra contrasto efficace alla criminalità mafiosa e garanzie penali da riconoscere perfino agli uomini di Cosa nostra s’incarna emblematicamente nella figura di Leonardo Sciascia. Vale per l’emergenza terrorismo (anni settanta del Novecento): e qui il confronto sul garantismo trova un luogo privilegiato nelle polemiche che si accendono intorno al processo padovano del 7 aprile, e all’interno delle quali s’inscrive un teso “duello a sinistra” fra Pci e Psi. Vale infine per l’emergenza Covid-19, straordinario campo in cui si aggrovigliano molti nodi cruciali del garantismo: dal conflitto fra libertà personali e restrizioni in nome della salute pubblica (lockdown, green pass, obblighi vaccinali) all’attivismo frenetico di qualche pm ansioso di esorcizzare il demone della pandemia con esorbitanti iniziative penali per la ricerca di un colpevole ad ogni costo. Ma il garantismo corre avventure pericolose anche fuori dalle emergenze, in situazioni di ordinaria fisiologia della vita sociale. Qui incontra oggi un nemico insidioso: il populismo penale, proiezione e specificazione di quel populismo politico che nel nostro tempo marca la sua presenza nociva sulla scena nazionale (ma anche fuori d’Italia). Si deve in larga misura al populismo penale - praticato da significativi settori del sistema politico come facile mezzo di conquista del consenso popolare - se il nostro ordinamento dei delitti e delle pene segue da tempo una linea di sviluppo poco compatibile coi principi del garantismo. E la deriva anti-garantista si manifesta con fenomeni e problemi che negli anni più recenti affollano il discorso pubblico e alimentano la polemica politica quotidiana. Come dimenticare che sul tema garantista della prescrizione penale si rischia agli inizi del 2020, per iniziativa di un indiavolato Matteo Renzi, una crisi della maggioranza e del governo di recentissima formazione, scongiurata soltanto dall’irrompere della pandemia? Il garantismo rivela così una marcatissima valenza politica, proponendosi come segno identitario di partiti e movimenti che in suo nome si contrappongono ad altri partiti e movimenti, identificati sotto l’antagonista bandiera del giustizialismo. Esplorare quali forze politiche sono davvero garantiste e quali no - o meglio, in che senso e in che misura lo sono o non lo sono - introduce una mappatura che per essere realistica deve risultare più complessa e frastagliata di quanto abitualmente si immagina. Nella scena della cosa pubblica c’è la politica che fa le leggi, e c’è la magistratura che le applica. La combinazione dei due fattori genera il sistema della giustizia penale: che da tempo, come si è detto, appare seriamente in debito col garantismo. Si apre allora un campo d’indagine e di valutazione molto rilevante: l’attuale assetto ipo-garantista della nostra giustizia penale è colpa della politica o della magistratura? O di entrambe? E in quale misura rispettivamente? Ma al di là di cercare colpe, conviene pensare positivo. Registrando che il nostro sistema conosce sì una complessiva deriva anti-garantista, ma che questa è fronteggiata da importanti sacche di resistenza culturale. E soprattutto apprezzando i segnali positivi che la politica e i suoi prodotti legislativi vanno manifestando, nella fase più recente, in direzione di un recupero di garantismo del nostro ordinamento penale: primo fra tutti la riforma che porta il nome della ministra della giustizia Marta Cartabia. A questi segnali bisogna guardare con fiducia. Ma anche con pazienza: perché il recupero dovrà seguire un itinerario non breve. Il compimento di questo itinerario implica che si sconfiggano i nemici conclamati del garantismo: nella politica, nella giurisdizione, nella cultura, nei sentimenti annidati dentro il corpo sociale. Ma oltre che contrastare i nemici, conviene guardarsi dai falsi amici: quelli che fanno a gran voce professione di garantismo e ne sventolano la bandiera, ma poi lo deformano in declinazioni discutibili e talora impresentabili, o lo tradiscono nei fatti. Smascherare i falsi amici, correggendone eccessi e distorsioni, è una operazione di ecologia del garantismo necessaria per il successo dell’idea: perché non qualunque garantismo, ma solo un garantismo ben temperato può avere il successo che merita. *Dall’introduzione di “Garantismo. I nemici, i falsi amici, le avventure”, di Vincenzo Roppo con prefazione di Luciano Violante Migranti. Lampedusa, 200 arrivi. E davanti alla camera mortuaria, la veglia dei ragazzi dell’isola La Repubblica, 31 ottobre 2022 Sei diversi barchini sono stati intercettati al largo delle coste dell’isola. Dal Mediterraneo continuano ad arrivare richieste di soccorso. Dall’orizzonte al molo, il via vai di motovedette è incessante. Perché il mare è calmo, le condizioni meteo favorevoli, mentre sul lato Sud del Mediterraneo la Libia è un inferno conteso fra due governi in Tunisia la crisi divora qualsiasi stipendio. E allora si parte. Barchini e carrette del mare di ogni dimensione e condizione prendono il largo, sfidano il Mediterraneo, provano a sopravvivere. Lampedusa è il primo approdo, sul molo Favaloro si incolonnano i sopravvissuti a guerre, colpi di stato e miserie di tutta l’Africa, vittima di una colonizzazione finita solo sulla carta. Dalla mezzanotte di ieri sono arrivate oltre 211 persone su sei diversi barchini, altre 120 invece hanno lasciato l’hotspot, che a dispetto dei trasferimenti rimane sovraffollato. In una struttura che può ospitare non più di 350 persone adesso si pigiano oltre 900. Uomini, donne, bambini costretti a dividere i medesimi spazi, gli stessi insufficienti servizi. Ma sulla più grande delle Pelagie orma anche la sala mortuaria è sovraffollata. Non tutte le vittime degli ultimi naufragi sono state recuperate, i corpi di molte di loro - incluso quello di una neonata - sono stati inghiottiti dal Mediterraneo. Eppure le bare stanno già accatastate una sull’altra in attesa di essere trasferite o inumate. Le più piccole sono quelle bianche dei quattro bimbi morti ancora prima di vedere la terraferma. Due li ha uccisi l’esplosione che ha distrutto il barchino su cui viaggiavano, gli altri se li sono portati via il freddo e gli stenti durante la traversata. Hanno letto per loro la fiaba “Il pesciolino d’oro” i ragazzi di Lampedusa che ieri sera si sono riuniti di fronte alla porta chiusa della camera mortuaria del cimitero di Cala Pisana. I ragazzi di Lampedusa, per non dimenticare, hanno anche realizzato un video. “Quattro bambini riposano soli nella camera mortuaria, in attesa di sepoltura - dice - Molti altri sono trattenuti, privati dei diritti, in un luogo di detenzione irregolare”. Il video si chiude con una voce che sussurra: “Buonanotte cielo, buonanotte stelle”. Dal Mediterraneo continuano ad arrivare richieste di aiuto. L’ultimo sos, rilanciato da Alarm phone questa mattina, arriva da cinquanta persone alla deriva al largo delle coste siciliane. Molte sarebbero in cattive condizioni mediche, a bordo non ci sarebbero più né cibo, né acqua. Ma con il motore rotto non sarebbero in grado di avanzare. Il salvataggio è necessario ora”, dicono dall’ong. Migranti. Le urla di Abdul, torturato in quel lager chiamato Libia di Domenico Quirico La Stampa, 31 ottobre 2022 In un video gli orrori di Tripoli: il giovane etiope sottoposto a scosse elettriche. I carcerieri l’hanno inviato alla famiglia e chiesto un riscatto di 10 mila dollari. Cerco un ragazzo di 17 anni, con i capelli crespi e scuri, gli occhi sono dilatati dal dolore. Si può guardare attraverso quegli occhi come se non finissero mai. È magro e sottile come la sua gente. Conosco il luogo in cui è nato, i luoghi della sua infanzia e adolescenza: il Tigrai con le ambe e le valli dove il verde si rannicchia succhiando la vita. So anche il suo nome: Abdul Razaq. Lo immagino camminare attraverso montagne e deserti, lo vedo coperto di polvere su pick up che corrono su piste segnate dall’usura dell’uomo. È uno di coloro per cui non c’è nulla che li aspetti, in nessun luogo, che devono portare tutto con sé, che sono dispersi come le perline di una catenella che si sia sfilata. Migranti. La distanza tra il Tigrai un piccolo pezzo di mondo calpestato dall’odio e dalla fame, è di alcune migliaia di chilometri. Non so quanto tempo un ragazzo di 17 anni impieghi a percorrere questo abisso. Mesi? Forse anni? Vogliano concedergli mesi per cercare i soldi con cui pagare le tappe successive del viaggio o soltanto per riposare un po’. Non so quanto arrivare in Libia gli sia costato. I prezzi della tratta variano dipende alla domanda e dalla offerta. È il capitalismo signori, il libero mercato: droga uomini merci che differenza fa? Forse mille euro, forse di più. Non lo so. So che il suo cammino è terminato, in un posto che si chiama Janzur, Libia. No. Abdul Razaq non ha compiuto l’ultimo balzo con il gommone o la barca, il dettaglio che lo fa diventare per noi qualcosa. Da respingere o da salvare. In questo caso lo avrei trovato a Lampedusa o sulla nave di qualche organizzazione umanitaria che incrocia sulla rotta della morte. Bandiere scolorite dei diritti dell’uomo, la svendita di un continente, marea montante del fango, da dieci anni, popoli respinti lentamente al macello. Un burocratico, mediocre avvilente crepuscolo degli dei. In fondo Abdul non è nemmeno un migrante, si è fermato prima, è niente. È finito nel setaccio che abbiamo preparato per quelli come lui, oggetti senza valore in sé ma che si possono far fruttare. Sta sperimentando la soluzione che abbiamo inventata dall’altra parte del mare per risolvere il problema della migrazione, quella che ci dà fastidio, perché arriva da quell’insopportabile, puzzolente Sud del mondo. Mi piacerebbe parlare con lui: che cosa pensa, che cosa sente, che cosa sa, cosa confessa a se stesso e cosa non vuole rivelare per pudore e per dolore a sé e agli altri. Invece mi devo accontentare di un video: disumano o semplicemente troppo umano? Vi compare solo un ragazzo tigrino che viene torturato lungamente, implacabilmente in una luce pallida, malata, gialliccia da mani senza volto con scariche elettriche al collo al petto in tutto il corpo. Vogliono soldi dalla sua famiglia, da chiunque, diecimila dollari per liberarlo o forse solo per non torturarlo più. Non so se basteranno per far sì che salga su un barcone diretto in Italia. Speri febbrilmente che il video finisca e ti prende la paura, aspra, inspiegabile, come se quando la sequenza si chiude dovessi trovare sfasciato il mondo. Conosco i luoghi, le prigioni per i migranti, gli uomini feroci a cui noi, noi persone civili che amiamo la pace e odiamo l’ingiustizia diamine!, li abbiamo consegnati da anni. Avrei molte cose da raccontare, posso immaginare molte cose ma non voglio ricordi. Da anni ho deciso di non scriver più di migranti perché per raccontare gli esseri umani, le loro tragedie e non fare letteratura bisogna meritarselo: e io, noi che abbiamo fatto per meritarcelo? Violo la mia promessa per Abdul Razaq: voglio guardarlo negli occhi, sentire la sua voce che non sia quel lamento di bestia torturata. Ma so che la pietà è una cosa da tempi tranquilli. Guarderemo il video. Si farà il possibile, se si può... seppelliamo i morti e divoriamo la vita. Ne avremo, noi, ancora bisogno.