Ergastolo ostativo, Meloni sfida la Consulta: niente benefici a chi non collabora di Simona Musco Il Dubbio, 30 ottobre 2022 Al primo Consiglio dei ministri dell’era Meloni si punta alla conferma dell’ergastolo ostativo e al rinvio della riforma Cartabia. Ma per Carlo Nordio, l’articolo 4 bis è “un’eresia”. Riuscirà a convincere la presidente a non smantellare lo Stato di diritto? Sull’ergastolo ostativo Giorgia Meloni sfida la Consulta, con un decreto legge che prevede zero benefici per chi non collabora. La presidente del Consiglio mette così il turbo, portando a Palazzo Chigi un provvedimento che anticipa la decisione della Corte costituzionale, che l’8 novembre deciderà sulla legittimità costituzionale dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario. Secondo quanto appreso dall’Ansa, l’esecutivo starebbe lavorando infatti a un provvedimento urgente che porterebbe a una stretta dei “benefici penitenziari” con il “divieto di concessione” per chi non collabora con la giustizia, oltre a introdurre una proroga (probabilmente a fine anno) dell’entrata in vigore della riforma penale che dovrebbe scattare dal 1 novembre. Il decreto in Consiglio già lunedì - Il decreto, ancora in via di limatura e che sarà al vaglio del pre-consiglio lunedì mattina, potrebbe quindi avere l’ok già lunedì, quando il Cdm dovrebbe riunirsi per la nomina di viceministri e sottosegretari. Una mossa, dunque, che spazzerebbe via la pronuncia della Consulta, che ad aprile dello scorso anno ha stabilito l’illegittimità parziale della disciplina ostativa, in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove fa della collaborazione la sola via, per il condannato, di recuperare la libertà. Il giudice delle leggi aveva concesso oltre un anno di tempo al Parlamento per adeguare le norme, con “interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Ma finita la legislatura, le Camere hanno lasciato il lavoro incompiuto, senza riuscire ad approvare una nuova disciplina e lasciando la palla di nuovo in mano alla Consulta, che nel frattempo, scaduto l’anno concesso al legislatore, ha rinviato ulteriormente la trattazione delle questioni di legittimità dell’articolo 4 bis al prossimo 8 novembre. FdI vuole smantellare l’articolo 27 della Costituzione - Il testo che lunedì verrà sottoposto al Consiglio dei ministri ricalca il disegno di legge n. 2574 già approvato nella passata legislatura dalla Camera dei Deputati e punta a evitare “le scarcerazioni facili dei mafiosi”: per accedere ai benefici penitenziari sarà necessario dimostrare una condotta risarcitoria e la cessazione dei collegamenti con la criminalità organizzata. “Una corsa contro il tempo - è il ragionamento del governo - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”. Il decreto legge pensato da Meloni farebbe così il paio con la proposta di modifica dell’articolo 27 della Costituzione già avanzata da FdI con il deputato Edmondo Cirielli, che lo scorso 13 ottobre ha depositato alla Camera una proposta di modifica costituzionale finalizzata a “limitare la finalità rieducativa” e “salvaguardare e garantire il concetto di “certezza della pena”“. Un tentativo, quello di Cirielli, che parte da lontano, ovvero dal 2013, con lo scopo di smantellare uno degli articoli della Costituzione più importanti dal punto di vista dell’impianto dello Stato di diritto, ma mai pienamente attuato. Sul tema dell’ergastolo ostativo Meloni è sempre stata chiara: modificare la norma, secondo la leader di Fratelli d’Italia, significherebbe fare un favore ai mafiosi. Da qui la strenua difesa di uno strumento, scriveva il 25 luglio ricordando il suo impegno per Paolo Borsellino, che, “impedendo ai condannati per mafia non collaboranti di ottenere qualsiasi beneficio di legge e sconto di pena, permette di perseguire due obiettivi: da una parte incentivare i mafiosi a collaborare con la giustizia; dall’altra impedire a coloro che non recidono i legami con il mondo mafioso di ritornare, seppur parzialmente, in società”. Fratelli d’Italia aveva già presentato due proposte di legge nella scorsa legislatura per ribadire il suo no ai benefici per chi non collabora e “per salvare i principi ispiratori dell’ergastolo ostativo e per impedire che chi non ha dato prova effettiva di aver tagliato i propri ponti con la mafia possa tornare libero. Non possiamo darla vinta a Totò Riina, che aveva messo proprio la cancellazione di questo istituto tra i punti del famoso “papello” di richieste allo Stato per fermare le stragi. Fratelli d’Italia si sta battendo anche per il mantenimento del carcere duro, il 41 bis, che negli anni sta diventando sempre più un colabrodo. La mafia continua a spingere per rendere più morbido il trattamento penitenziario dei detenuti”. Meloni chiede “aiuto” all’opposizione - Nel suo discorso alla Camera, la presidente del Consiglio ha ribadito il concetto, chiedendo “aiuto” anche all’opposizione. “Ci vogliamo lavorare insieme? - ha chiesto Meloni - Spero che si possa lavorare insieme nei prossimi giorni per impedire che venga meno uno degli istituti che sono stati più efficaci contro la mafia che è il carcere ostativo. Spero che su questo ci si voglia dare una mano perché sono d’accordo: la questione della lotta alla mafia non è un tema di retorica, è un tema che si affronta con provvedimenti concreti”. Ma per Nordio si tratta di “un’eresia” - Per Meloni si tratta però di un terreno scivoloso, anche alla luce del dichiarato garantismo del neo ministro della Giustizia Carlo Nordio, che sul tema delle carceri sembra pensarla in maniera nettamente diversa rispetto alla leader che lo ha voluto a via Arenula: per l’ex procuratore aggiunto di Venezia la pena non è, infatti, soltanto carcere. E nell’ultimo libro del direttore del Foglio, Claudio Cerasa, l’ex toga aveva spiegato che “l’ergastolo ostativo, il principio cioe? che al reo non venga concessa la possibilita? di alcun beneficio, sia un’eresia contraria alla Costituzione. Bisogna strutturare la legge in modo che l’ergastolo possa rimanere come principio ma bisogna anche ricordarsi cosa dice l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanita? e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Spiace per chi a destra la pensa cosi?, ma il punto e? evidente: il fine pena mai non e? compatibile, al fondo, con il nostro Stato di diritto”. Riuscirà il ministro della Giustizia a convincere la presidente del Consiglio a non smantellarlo? Gli altri due punti all’ordine del giorno - Sempre sul tema della giustizia, lunedì verrà affrontato il rinvio al 30 dicembre 2022 dell’entrata in vigore di alcune disposizioni della “Riforma Cartabia”, raccogliendo dunque l’appello lanciato dai procuratori generali di tutta Italia con una lettera indirizzata al ministro Nordio. Il provvedimento intende rispettare le scadenze del Pnrr e consentire la necessaria organizzazione degli uffici giudiziari. Il terzo punto, infine, l’anticipo al 1 novembre 2022 della scadenza dell’obbligo vaccinale per chi esercita la professione sanitaria e la conseguente abrogazione delle sanzioni per l’inosservanza dell’obbligo. “L’obiettivo - è il ragionamento - è dare seguito all’indicazione tracciata dal presidente Meloni nelle sue dichiarazioni programmatiche rese in Parlamento e segnare così un primo atto di discontinuità, rispetto ai precedenti esecutivi, nella gestione della pandemia da Covid-19”. Governo, in arrivo la “stretta” dei benefici penitenziari per chi non collabora con la giustizia di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 30 ottobre 2022 Il titolo della bozza del decreto giustizia è “Schema di decreto-legge recante misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia e di entrata in vigore del decreto legislativo 10 ottobre 2022, n. 150”. Il decreto si compone di articolo ed è diviso in due parti. Il primo riguarda l’ordinamento penitenziario, e deve intervenire per ottemperare alla sentenza del 2019 della Corte Costituzionale. La seconda riguarda l’entrata in vigore della riforma Cartabia del processo penale, prevista per il 1° novembre e osteggiata dalla magistratura per l’inadeguatezza del sistema informatico che dovrebbe assisterla e per l’assenza di norme transitorie sui processi in corso. L’ergastolo ostativo - La Consulta aveva dichiarato incostituzionale la norma dell’ordinamento penitenziario (cosiddetto 4 bis) emanata contro i mafiosi, che consentiva l’accesso ai benefici penitenziari solo in caso di collaborazione con la giustizia. La sentenza aveva acceso un dibattito tra giuristi, con il timore dei pm antimafia di veder disincentivato il fenomeno del “pentitismo”. Il nuovo decreto prevede che i benefici possano essere concessi anche in assenza di collaborazione, ma fissa oneri pesanti a carico dei detenuti: “Purché gli stessi dimostrino l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna o l’assoluta impossibilità di tale adempimento e alleghino elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, tenuto conto delle circostanze personali e ambientali, delle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile. Al fine della concessione dei benefìci, il giudice accerta altresì la sussistenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”. Il decreto stabilisce anche una procedura molto rigorosa, per evitare scarcerazioni facili, coinvolgendo le Procure antimafia, sia a livello distrettuale che a livello nazionale: “Il giudice, prima di decidere sull’istanza, chiede altresì il parere del pubblico ministero presso il giudice che ha emesso la sentenza di primo grado o, se si tratta di condanne per i delitti indicati all’articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale, del pubblico ministero presso il tribunale del capoluogo del distretto ove è stata pronunciata la sentenza di primo grado e del Procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo, acquisisce informazioni dalla direzione dell’istituto ove l’istante è detenuto o internato e dispone, nei confronti del medesimo, degli appartenenti al suo nucleo familiare e delle persone ad esso collegate, accertamenti in ordine alle condizioni reddituali e patrimoniali, al tenore di vita, alle attività economiche eventualmente svolte e alla pendenza o definitività di misure di prevenzione personali o patrimoniali. I pareri, le informazioni e gli esiti degli accertamenti di cui al quarto periodo sono trasmessi entro sessanta giorni dalla richiesta. Il termine può essere prorogato di ulteriori trenta giorni in ragione della complessità degli accertamenti. Decorso il termine, il giudice decide anche in assenza dei pareri, delle informazioni e degli esiti degli accertamenti richiesti. Quando dall’istruttoria svolta emergono indizi dell’attuale sussistenza di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva o con il contesto nel quale il reato è stato commesso, ovvero del pericolo di ripristino di tali collegamenti, è onere del condannato fornire, entro un congruo termine, idonei elementi di prova contraria. In ogni caso, nel provvedimento con cui decide sull’istanza di concessione dei benefìci il giudice indica specificamente le ragioni dell’accoglimento o del rigetto dell’istanza medesima, tenuto conto dei pareri acquisiti ai sensi del quarto periodo. I benefìci di cui al comma 1 possono essere concessi al detenuto o internato sottoposto a regime speciale di detenzione previsto dall’articolo 41-bis della presente legge solamente dopo che il provvedimento applicativo di tale regime speciale sia stato revocato o non prorogato”. Le Camere penali hanno già annunciato una mobilitazione contro queste norme. La premier “salva” l’ergastolo l’ostativo. Prima sconfitta di Nordio di Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 30 ottobre 2022 Arriva un dl che ricalca il testo 5S votato dalla Camera: meno benefici a chi non collabora. E il ministro deve ingoiare. Dubbi di FI. Il rischio del “liberi tutti” per i boss mafiosi Giorgia Meloni non poteva sopportarlo. Un rischio che si sarebbe potuto concretizzare l’8 novembre quando, con ogni probabilità, la Consulta si sarebbe riunita per dichiarare definitivamente incostituzionale l’ergastolo ostativo, il principio giuridico secondo cui un condannato per mafia e terrorismo non può avere accesso ai benefici se non collabora con la giustizia. La Corte, insomma, non avrebbe concesso nuove proroghe dopo aver dato al Parlamento - era l’aprile 2021 - un anno per legiferare e una deroga di altri 5 mesi nel maggio scorso. Eppure, nel frattempo, le Camere non sono riuscite a portare in fondo una legge. Ci penserà domani il governo Meloni: il primo decreto che sarà approvato nel Consiglio dei ministri delle 12 servirà proprio a “salvare” l’ergastolo ostativo prima della decisione della Consulta. Strumento che, spiegano fonti di Palazzo Chigi, “è considerato essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata”. “Una corsa contro il tempo - è il ragionamento di fonti di governo - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”. “La lotta alla mafia non prevede buchi normativi - dice Andrea Delmastro (FdI) - il segnale del governo è chiaro: tutto quello che si può fare per mantenere il carcere duro si farà”. Una norma dietro cui si cela una prima spaccatura tra Fratelli d’Italia e il ministro della Giustizia, Carlo Nordio: quest’ultimo ha definito l’ergastolo ostativo “un’eresia costituzionale” mentre Meloni con questo decreto lo vuole salvare e dare un segnale di “discontinuità”. Anche le Camere penali sono sul piede di guerra: hanno convocato oggi una riunione straordinaria. Inoltre, nella stessa norma, il governo Meloni rinvierà l’entrata in vigore della legge Cartabia dal 1° novembre al 1° gennaio 2023 per questioni tecniche. Così il governo Meloni ha deciso di mettere un tampone alle due emergenze. La prima riguarda proprio l’ergastolo ostativo. Il decreto ricalcherà esattamente la legge approvata a marzo alla Camera e ferma al Senato: un testo votato da quasi tutta la maggioranza Draghi con l’astensione di FdI, che è stata considerata da tutti i partiti “un punto di equilibrio”. Ad aprile 2021 la Consulta aveva dichiarato incostituzionale l’ergastolo ostativo perché riteneva in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione l’automatismo tra collaborazione con la giustizia e i benefici. Quello approvato nel marzo 2022 dalla Camera è un testo di compromesso che aveva unificato quelli di Pd, M5S, Lega e FdI. La nuova legge interviene sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario e prevede che la mancata collaborazione coi magistrati non sia più elemento “ostativo” per chiedere i benefici, ma il detenuto, anche se non “pentito”, dovrà dimostrare di aver rotto completamente i legami con i clan mafiosi e di aver risarcito il danno nei confronti delle vittime. Una legge che porta con sé elementi problematici: in primis, il potere enorme e discrezionale del Tribunale di Sorveglianza che dovrà decidere se concedere i benefici al detenuto (con una grossa responsabilità che graverà sui giudici) e su cui restano dubbi sulla mancata uniformità di criterio da Nord a Sud. In secondo luogo, i tempi stretti (60 giorni) con cui i giudici di Sorveglianza dovranno “mappare” i beni dei boss per capire se in grado di risarcire le vittime e ottenere i benefici. M5S e FdI avevano inserito i paletti più severi che non erano piaciuti al mondo garantista. Italia Viva si era astenuta, mentre Lega e FI avevano votato a favore. Ora quella norma sarà trasformata in un decreto. A volerlo fortemente è stata Meloni, che ha fatto asse con il responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia, Andrea Delmastro. Quest’ultimo aveva presentato un testo di legge ancora più stringente, ma alla fine ha accettato il compromesso raggiunto con l’idea di poter modificare il testo in senso ancora più duro in fase di conversione. Posizione in contrasto con quella di Nordio: il ministro della Giustizia, nell’ultimo libro di Claudio Cerasa, ha definito l’ergastolo ostativo “un’eresia contraria alla Costituzione” e poi ha annunciato che il carcere è la sua “priorità” e che la certezza della pena “non significa solo carcere”. Il contrasto col proprio ministro della Giustizia è evidente anche se da FdI specificano che la norma è stata “condivisa” con Nordio. La sua vice capo di gabinetto, Giusi Bartolozzi, era in Parlamento nella scorsa legislatura e si era espressa contrariamente alla norma. Il Guardasigilli ieri non ha risposto al Fatto ma, spiegano fonti di governo, non potrà che dire sì al decreto. Stessa cosa faranno sia Lega che FI: Matteo Salvini ha esultato (“da lunedì si cambia sulla giustizia”), mentre FI voterà sì anche se con qualche dubbio. “Va bene se serve come soluzione temporanea - spiega l’ex capogruppo in commissione Giustizia azzurro Pierantonio Zanettin - poi faremo modifiche in senso più garantista”. Lo scontro in maggioranza è solo rinviato. Il dl rinvia di due mesi l’entrata in vigore della Cartabia: mancano i sistemi informatici e un’interpretazione condivisa. Tant’è che, come ha scritto Il Fatto, le 26 Procure generali hanno inviato a Nordio una lettera per chiedere chiarimenti sull’applicazione della norma. Così il Guardasigilli ha deciso di rinviare tutto di due mesi. Nessuno spiraglio sull’ergastolo ostativo di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 30 ottobre 2022 Confermata la linea dura alla vigilia della pronuncia della Corte costituzionale Sull’ergastolo ostativo il ministero della Giustizia gioca d’anticipo e conferma il regime punitivo per i condannati per gravi reati di mafia che non collaborano. In tutto, numeri relativi a marzo, si tratta di 1.280 persone su 1.822 condannati alla pena a vita. Ampia parte del decreto legge all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri di domani è infatti dedicata alle misure sul riconoscimento dei benefici penitenziari e soprattutto della libertà condizionale a questa particolare categoria di detenuti. Un intervento che arriva a una settimana dalla decisione della Corte costituzionale sul punto. La Consulta (che già ha incrinato la preclusione assoluta sul fronte dei permessi premio), infatti, ha già in calendario nell’udienza dell’8 novembre l’esame della questione di legittimità sul versante, più delicato, della libertà condizionale. Una pronuncia ormai indifferibile dopo che la stessa Corte ha lasciato, nella passata legislatura, ampio spazio al Parlamento per legiferare. Camere che tuttavia non sono arrivate a chiudere l’intervento in tempo utile (come peraltro avvenuto anche negli altri due casi di monito “rafforzato”, il fine vita e il carcere ai giornalisti), neppure nello scorcio finale della legislatura. Il testo del disegno di legge ha infatti ottenuto il 31 marzo l’approvazione della sola Camera, per poi impantanarsi al Senato. Ora il testo del decreto legge riproduce in maniera pressoché integrale i contenuti del provvedimento parlamentare. In particolare, il decreto legge conferma il complesso normativo attuale per il quale la richiesta di accedere alla liberazione condizionale, se presentata da condannati per gravi reati, può essere valutata nel merito solo se hanno collaborato con la giustizia, oppure nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione stessa. In ogni caso, per questa categoria di detenuti la richiesta della liberazione condizionale potrà essere presentata dopo che abbiano scontato 3o anni di pena (per i condannati all’ergastolo per un reato non ostativo, e per i collaboranti, rimane il requisito dei 26 anni); occorreranno io anni dalla data del provvedimento di liberazione condizionale per estinguere la pena dell’ergastolo e revocare le misure di sicurezza personali ordinate dal giudice (per i condannati all’ergastolo per un reato non ostativo, e per i collaboranti, occorrono 5 anni). La libertà vigilata, sempre disposta per i condannati ammessi alla liberazione condizionale, sarà comunque sempre accompagnata dal divieto di incontrare o mantenere contatti con i soggetti condannati per gravi reati (articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del Codice di procedura penale) e con i soggetti sottoposti a misura di prevenzione prevista dal Codice delle leggi antimafia. Quanto a benefici come permessi premio, lavoro all’esterno, semilibertà anche i condannati all’ergastolo ostativo potranno ottenerli, ma dovranno dimostrare di non essere più legati all’associazione criminale di appartenenza. Prova che potrà essere fornita attraverso l’adempimento delle obbligazioni civili e degli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna e la documentazione di specifici elementi che testimonino la propria estraneità alla criminalità organizzata. Giustizia, il governo sfida la Consulta: stretta sui benefici penitenziari di Conchita Sannino La Repubblica, 30 ottobre 2022 Pronto un decreto per il Cdm di domani che rinvia anche la riforma Cartabia e mette a rischio i fondi del Pnrr. Salvini: “Finalmente si cambia”. Blitz del governo Meloni sulla giustizia. Con l’annuncio di un decreto, in agenda già lunedì nel primo Cdm, che rinvia a fine anno l’entrata in vigore della riforma penale di Marta Cartabia, pene sostitutive al carcere comprese proprio mentre incombono i suicidi in cella, e tenta di bloccare la Consulta che sull’ergastolo ostativo si riunirà l’8 novembre. Il pur sempre loquace neo Guardasigilli Carlo Nordio stavolta non parla in prima persona, ma fonti di palazzo Chigi spiegano la “mossa” che piace al vicepremier Matteo Salvini (“finalmente si cambia, avanti così...”). Obiettivo duplice, sempre che il presidente Sergio Mattarella ravvisi l’effettiva esistenza dei requisiti di “necessità e urgenza” per il via libera al decreto. Per la riforma Cartabia vanno “raccolte le criticità già emerse nel dibattito parlamentare” confermate “dagli operatori del diritto”. E cioè le proteste dei magistrati e dei 26 Pg preoccupati però dalle novità sulle indagini preliminari, e non certo dall’intera riforma. Ma chi ha lavorato con Cartabia vede “già a rischio i fondi del Pnrr” che esigono il rispetto inderogabile degli step fissati per fine anno. Ma Chigi non vede il pericolo. Il Pd, con Simona Bonafè, parla della “sciagurata ipotesi” di perdere i fondi del Pnrr. Carcere duro: tanti suicidi in cella - Mentre incombono i suicidi in cella - 72 a tutt’oggi - che spingono lo stesso Nordio a parlare di “drammatica emergenza” con tanto di “cordoglio ai familiari”, il governo Meloni piazza due mosse per ribadire il carcere duro. La prima: rinviando la legge Cartabia si blocca pure la possibilità di sostituire le pene detentive brevi, e cioè fino a 4 anni, con altre soluzioni fuori da carcere. Che giusto ieri il Garante nazionale dei detenuti Mauro Palma salutava con una boccata di ossigeno. La seconda: il blitz sull’ergastolo ostativo che trasforma in decreto il testo approvato dalla Camera lo scorso primo aprile, su cui FdI aveva votato contro, che risponde alla decisione della Consulta di bocciare - un anno prima - l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario nella parte in cui concede la liberazione anticipata dopo 26 anni di detenzione a chi “si pente”, cioè collabora con la giustizia. La Corte aveva dato al Parlamento 12 mesi. Poi una proroga di altri sei. Che scadono l’8 novembre. Il centrodestra, al Senato, ha impedito il via libera. Adesso quel testo diventa un decreto. Perché il governo Meloni considera l’ergastolo ostativo “uno strumento essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata”. Parole che preannunciano l’inasprimento in sede di convalida di una soluzione già durissima che inserisce tanti e tali paletti - la pena scontata passa da 20 a 30 anni e, una volta fuori, la libertà vigilata sale da 5 a 10 - da rendere di fatto impossibile ottenere la liberazione condizionale. Come dice il responsabile Giustizia di FdI, Del Mastro Delle Vedove, “tutto quello che si può fare per mantenere il carcere duro si farà”. Ma che farà la Consulta di fronte al decreto? Forse si troverà con le mani legate. Potrebbe rinviare la decisione al voto definitivo. O soprassedere in vista dell’’inevitabile futuro ricorso. Chiamata a quel punto a pronunciarsi sulla legge Meloni. Intanto, dopo l’annuncio del decreto, la giunta dell’Unione delle Camere penali è stata convocata, in via d’urgenza, per oggi pomeriggio. Giustizia: conferma dell’ergastolo ostativo e rinvio della riforma Cartabia nel Cdm di lunedì di Claudio Del Frate e Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 30 ottobre 2022 Il carcere a vita senza sconti e benefici è stato però giudicato dalla Corte Costituzionale in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Carta. I primi due provvedimenti all’ordine del giorno del Consiglio dei ministri convocato per lunedì riguarderanno la giustizia. In particolare l’intenzione dell’esecutivo guidato da Giorgia Meloni è di confermare il cosiddetto ergastolo ostativo (che impedisce di accedere a sconti e benefici di legge chi non ammette le proprie responsabilità) e il rinvio della riforma Cartabia. E una posizione di rilievo l’avrà anche il comparto della lotta al covid, almeno per quanto attiene l’anticipo all’1 novembre della scadenza dell’obbligo vaccinale per chi esercita la professione sanitaria, e la conseguente abrogazione delle sanzioni per l’inosservanza dell’obbligo. Palazzo Chigi manda dunque un segnale di “discontinuità” rispetto ai precedenti esecutivi. Partiamo dalla giustizia. Al primo punto del primo Consiglio dei ministri “vero”, dopo quello di esordio assorbito, come di prassi, dagli adempimenti formali, ci sarà un decreto legge per mantenere il cosiddetto “ergastolo ostativo”, considerato dal governo - sono sempre fonti di Palazzo Chigi a farlo filtrare - strumento essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata. La norma interessa circa 1.200 detenuti. Ma davanti all’intenzione del governo si pare un ostacolo: con una sentenza dell’aprile 2021 la Corte Costituzionale ha stabilito che il “fine pena mai” (cioè l’ergastolo ostativo), così come è formulato oggi, è i n contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione. Il primo stabilisce che “la legge è uguale per tutti”, l’altro che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. I giudici avevano dato tempo al Parlamento di varare una nuova legge fino al maggio di quest’anno, poi era stata concessa una proroga di sei mesi. L’8 novembre la Corte Costituzionale tornerà a trattare l’argomento e in mancanza di novità dovrebbe dichiarare decaduto l’ergastolo ostativo. Anche per questo il governo è corso ai ripari. La norma era stata introdotta negli anni ‘90, dopo le stragi di Capaci e via D’Amelio come strumento di lotta alla mafia: nessun beneficio di legge poteva essere concesso a mafiosi “non pentiti”. Il nuovo testo che il governo presenterà lunedì tenterà di far convivere le osservazioni della Consulta e la necessità di non allentare il contrasto alla criminalità organizzata. Il Parlamento in carica fino a pochi giorni fa aveva approntato un testo che dava al giudice di sorveglianza la responsabilità di valutare il via libera ai benefici e invertiva l’onere della prova: spettava al detenuto dimostrare di aver rescisso i contatti con le organizzazioni criminali. E aggiungeva paletti: sì ai benefici solo a patto che il parere del pm sia favorevole e il detenuto si sia comportato correttamente, abbia partecipato al percorso rieducativo, abbia provveduto alla riparazione pecuniaria. Un testo votato il 31 marzo da tutti i partiti, ad eccezione di Fratelli d’Italia, che si era astenuta perché “troppo permissivo”. Ora anche il nuovo governo dovrebbe ripartire il disegno di legge già approvato nella passata legislatura dalla Camera dei Deputati e punta a evitare le scarcerazioni facili dei mafiosi, perché permette l’accesso ai benefici penitenziari al condannato che abbia dimostrato una condotta risarcitoria e la cessazione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata. “Una corsa contro il tempo - fa filtrare Palazzo Chigi - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”. Sempre sul tema della giustizia, il Consiglio dei ministri affronterà il rinvio al 30 dicembre 2022 dell’entrata in vigore di alcune disposizioni della “Riforma Cartabia”, raccogliendo le criticità già emerse nel dibattito parlamentare e confermate - proseguono le stesse fonti - in questi giorni dagli operatori del diritto con una lettera al ministro della Giustizia. Il provvedimento intende rispettare le scadenze del Pnrr e consentire la necessaria organizzazione degli uffici giudiziari. In questo caso l’obiettivo è quello di “dare seguito all’indicazione tracciata da Giorgia Meloni nelle dichiarazioni programmatiche in Parlamento e segnare, così, un primo atto di discontinuità, rispetto ai precedenti esecutivi, nella gestione della pandemia da Covid-19”. Matteo Salvini esulta all’insegna della discontinuità: “Bene, anche sulla giustizia finalmente si cambia, avanti così”. Così l’opposizione attacca. Secondo la capogruppo dei deputati Pd, Debora Serracchiani, il “rinvio in blocco dell’entrata in vigore della riforma rischia di buttare a mare due anni di lavoro e di mettere a rischio i fondi Pnrr” e “sarebbe un inizio all’insegna dello scontro frontale con Bruxelles”. Il duplice stop in tema di giustizia ha subito suscitato anche la reazione degli avvocati: contro l’ipotesi di rinvio della riforma Cartabia e contro il mantenimento del “fine pena mai” la giunta delle Camere Penali ha convocato una riunione d’urgenza per domenica. Governo Meloni, la grana Giustizia: ergastolo ostativo e riforma Cartabia i nodi da sciogliere di Francesco Olivo La Stampa, 30 ottobre 2022 Domani nel Consiglio dei Ministri verrà inoltre anticipata la fine dell’obbligo vaccinale per i medici che hanno rifiutato il vaccino. L’era Meloni comincia con una gran fretta. Ci sono le emergenze, quella delle bollette su tutte, ma anche molte scadenze, a cominciare dalla giustizia. Il primo decreto del nuovo governo punta a blindare il carcere ostativo, il divieto ai benefici carcerari per i detenuti della criminalità organizzata non pentiti, rivendicato dalla premier anche nel suo discorso d’insediamento alla Camera. Con un altro provvedimento poi si rimanda di almeno due mesi l’entrata in vigore della riforma Cartabia, accogliendo le richieste della magistratura. Domani inoltre verrà anticipata la fine dell’obbligo vaccinale per i medici che hanno rifiutato il vaccino. Giorgia Meloni si prepara a presiedere il suo primo Consiglio dei ministri, domani a mezzogiorno. Ieri ha depositato una corona di fiori al monumento del milite ignoto di piazza Venezia e poi si è chiusa a Palazzo Chigi. Nella sede del governo l’hanno raggiunta il ministro degli Esteri Antonio Tajani, quello dell’Interno Matteo Piantedosi e telefonicamente quello della Cultura Gennaro Sangiuliano. L’intervento sulla giustizia è dettato dall’urgenza: sul cosiddetto carcere ostativo pende una sentenza della Corte costituzionale, che aveva dato tempo un anno e mezzo al Parlamento per cambiare una legge giudicata non in linea con i principi della Carta. La scadenza è l’8 novembre, così Giorgia Meloni ha deciso di riproporre una legge, approvata dalla Camera, che nei mesi scorsi Fratelli d’Italia aveva criticato. A Montecitorio, dopo un lungo negoziato, si era giunti a un compromesso, approvando una norma che, pur recependo le obiezioni della Consulta, manteneva gli ostacoli ai benefici per i carcerati che non collaborano con la giustizia. La legge poi si è fermata al Senato, a causa della crisi di governo. Il provvedimento era stato votato dalla vecchia maggioranza (Lega compresa), ma non da Fratelli d’Italia, che si era astenuta: “Per la destra dal carcere esci se non sei più mafioso, se invece rimani mafioso e non collabori in carcere ci rimani e ci muori”, dichiarava allora Andrea Delmastro, responsabile giustizia del partito. Nonostante quelle critiche, domani il testo sarà ripreso interamente dal decreto, ma nel partito si punta a delle modifiche in senso più restrittivo nelle prossime settimane, magari attraverso un maxiemendamento. Matteo Salvini è entusiasta: “Bene, anche sulla giustizia finalmente si cambia”. Ma Forza Italia proverà a cambiare il provvedimento per renderlo più garantista. Il problema principale di Meloni, però, sembra essere con il suo ministro della Giustizia, che a più riprese in passato ha dichiarato la sua contrarietà di principio al carcere ostativo, giudicato “un’eresia” contro la Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Proprio per marcare un ministro che a una settimana dal giuramento appare già isolato, Meloni sta pensando di nominare sottosegretario il fedelissimo Delmastro. La decisione non è ancora presa e potrebbe arrivare nel cdm di domani. Il provvedimento, spiegano fonti di Palazzo Chigi, “è essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata”. “Una corsa contro il tempo - ragionano fonti di governo - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”. Il Pd mette in risalto una contraddizione, la presunta svolta di Meloni sulla certezza della pena, consisterebbe in realtà in una retromarcia: “Sull’ergastolo ostativo si applichi la sentenza della Corte Costituzionale e si riprenda il testo approvato dalla Camera”, dice Anna Rossomando, responsabile giustizia del Pd. L’altro fronte è il rinvio della riforma Cartabia, che sarebbe entrata in vigore martedì prossimo e che non vedrà la luce prima del primo gennaio. La proroga è tecnica e non politica, spiega una fonte di FdI. In sostanza il governo ha raccolto l’appello di gran parte delle procure italiane, che avevano lanciato l’allarme nei giorni scorsi: “Gli uffici giudiziari non sono pronti”. Ma il sospetto delle opposizioni è che dietro a questa proroga si celi la volontà di sabotare la riforma: “Il rinvio rischia di buttare a mare due anni di lavoro e di mettere a rischio i fondi Pnrr”, dice il capogruppo alla Camera, Debora Serracchiani. Si mobilitano anche gli avvocati: l’Unione delle Camere penali ha convocato d’urgenza per oggi la sua giunta. Giustizia, stop alla riforma Cartabia: ergastolo senza sconti e stretta sui permessi di Giulia Prosperetti quotidiano.net, 30 ottobre 2022 Domani in Consiglio dei ministri il rinvio della legge Cartabia. Solo i detenuti che collaborano avranno agevolazioni e sconti. Il Governo Meloni parte dalla Giustizia. Al centro del primo decreto legge del nuovo Esecutivo, oltre al rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, vi è il tema dell’ergastolo ostativo e del divieto di concessione dei benefìci penitenziari nei confronti dei detenuti o internati che non collaborano con la giustizia. Gli uffici legislativi sono al lavoro sul testo del provvedimento che è atteso domani sul tavolo della riunione preparatoria del Consiglio dei ministri. Si tratta - spiegano da Palazzo Chigi - di “un provvedimento prioritario e diventato urgente alla luce dell’udienza della Corte Costituzionale fissata per l’8 novembre 2022. Una corsa contro il tempo - è il ragionamento del governo - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”. Tuttavia la linea dura sbandierata da Meloni quand’era all’opposizione sembra essere scesa a compromessi con la realtà e, soprattutto, con la posizione del ministro della Giustizia Carlo Nordio che ha definito l’ergastolo ostativo “un’eresia contraria alla Costituzione”. Il testo in esame - sottolinea Palazzo Chigi - ricalca, infatti, il disegno di legge numero 2574 già approvato nella passata legislatura dalla Camera dei Deputati. Un provvedimento che era stato definito da Fratelli d’Italia “troppo permissivo” - in quanto permette l’accesso ai benefici penitenziari al condannato che abbia dimostrato una condotta risarcitoria e la cessazione dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata - ma l’unico attualmente in grado di adempiere nei tempi previsti al monito della Corte Costituzionale. “La Corte, seguendo la stessa procedura che aveva adottato, ad esempio, per l’aiuto al suicidio e per i reati in materia di stampa, - spiega Giancarlo Coraggio, magistrato già presidente della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato - ha ritenuto che fosse indispensabile l’intervento del Parlamento. La Corte aveva stabilito con un’ordinanza che vi è una situazione di incostituzionalità dell’ergastolo ostativo laddove prevede che in mancanza di collaborazione non sia possibile alcun beneficio. Questo è in contrasto con la nostra Costituzione, in particolare con l’articolo 27 che - imponendo che la pena sia diretta alla rieducazione del condannato - presuppone che una volta che la rieducazione sia intervenuta la detenzione abbia fine. È inoltre in contrasto con l’articolo tre della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo”. L’intervento di una riorganizzazione dell’intera materia che spetta, ha chiarito però il costituzionalista, in prima battuta al legislatore. “La Corte ha fissato anche dei paletti: ha chiesto - e questo, spiega Coraggio, è un punto fondamentale - che ‘per l’accesso alla liberazione condizionale dell’ergastolano non collaboratore nei delitti legati alla criminalità organizzata e per la valutazione del suo sicuro ravvedimento sarà necessaria l’acquisizione di altri congrui e specifici elementi tali da escludere l’attualità dei suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del suo futuro ripristino”. Non basta però, di per sé, “il rifiuto di collaborare a escludere la possibilità di concessione del beneficio”. Anche se, dall’altra parte, “la concessione del beneficio richiede da parte del giudice di merito la valutazione di elementi che escludano la pericolosità del condannato. E in questi termini dovrebbe intervenire il legislatore. È auspicabile - ha concluso Coraggio - che il legislatore intervenga prima della nuova udienza fissata dalla Corte. Rimane il fatto che alla fine dell’ordinanza la stessa Corte precisa che si riserva la valutazione della costituzionalità della nuova normativa”. Stretta sulla giustizia per il debutto del governo di Andrea Colombo Il Manifesto, 30 ottobre 2022 Lunedì il Consiglio dei ministri. Un decreto per confermare l’ergastolo ostativo. Niente benefici per chi non collabora. Esaurite le formalità di rito il governo si presenterà sul serio lunedì prossimo e lo farà con uno dei peggiori biglietti da visita immaginabili. Il consiglio dei ministri è convocato per le 12 e il primo punto all’ordine del giorno è la conferma dell’ergastolo ostativo, aggirando la Corte costituzionale che altrimenti interverrebbe l’8 novembre prossimo. “È una corsa contro il tempo per impedire che ai detenuti mafiosi possano aprirsi le porte del carcere pur in costanza del vincolo associativo”, fanno sapere fonti di palazzo Chigi e quel che intendono è in realtà che la sola prova della fine di quel vincolo è il pentimento, cioè le denunce. Nell’aprile 2021 la Consulta aveva dato al Parlamento un anno di tempo, poi prolungato di altri sei mesi, per modificare un provvedimento incostituzionale, sentenziando che non si possono negare scarcerazioni e pene alternative “in modo assoluto a chi non abbia utilmente collaborato con la giustizia”. La Camera aveva poi approvato una proposta di legge che sostanzialmente confermava le norme anticostituzionali. La proposta non è stata poi votata dal Senato per lo scioglimento anticipato delle camere. Ora il nuovo governo intende usare come base del decreto quello stresso testo - approvato a Montecitorio con un solo voto contrario e l’astensione di quello che oggi è il Terzo polo - con il quale si precludeva l’accesso del condannato ai benefici penitenziari in caso di “collaborazione con la giustizia inutile o irrilevante”, si portavano da 26 a 30 gli anni scontati dopo i quali gli ergastolani possono chiedere la scarcerazione e si allargava l’area dei reati ostativi anche a quelli contro la Pubblica amministrazione. Il nuovo guardasigilli Carlo Nordio, che passa per un faro di garantismo, ha specificato che la funzione rieducativa della pena impugnata dalla Consulta passa per attività come il lavoro e lo sport che però non devono necessariamente svolgersi fuori dal carcere, tanto più quando il governo intende costruire nuove prigioni. Il ministro ha anche commentato gli ultimi due suicidi in carcere, avvenuti venerdì, che portano a 72 il sinistro record, definendoli “una dolorosa sconfitta per ciascuno di noi e la conferma della necessità di occuparci da vicino del mondo penitenziario”. Tra le cause della strage però il guardasigilli è più vago e ne cita una sola: “La necessità di rinforzare gli organici di tutto il personale”. La formula del governo e del nuovo ministro della Giustizia per affrontare il nodo di un sistema penitenziario incivile sembra essere “più carcere e più carceri”. Così i detenuti in 416bis che non potranno vantare denunce che hanno portato a un congruo numero di arresti potranno rieducarsi fra le mura di cinta della galera. Va da sé che sul tema le richieste dell’opposizione si limitano a sollecitare la piena conferma del testo approvato alla Camera nella scorsa legislatura, anche se con lo spirito della Carta e le indicazioni della Consulta c’entra ben poco. “Si riprenda quel testo, che tiene insieme le esigenze di sicurezza e la certezza della pena con l’art. 27 della Costituzione”, commenta la responsabile Giustizia del Pd Anna Rossomando. Il secondo punto in agenda lunedì in cdm è il rinvio al 30 dicembre prossimo delle disposizioni della riforma Cartabia. Cinque giorni fa 26 procuratori generali delle Corti d’Appello avevano scritto al ministro, al Csm e al procuratore generale di Cassazione chiedendo chiarimenti e interventi sulla riforma, in particolare sull’applicazione o meno delle nuove regole ai vecchi fascicoli. Qui l’opposizione alza un po’ più la voce, ma non perché paventi interventi restrittivi sulla riforma: solo perché teme che si sforino i tempi “buttando a mare a mare due anni di lavoro e mettendo a rischio i fondi del Pnrr”. Fra Nordio e carcere duro, Meloni sceglie quest’ultimo di Federica Olivo huffingtonpost.it, 30 ottobre 2022 Blindare l’ergastolo ostativo, rinviare (dopo l’allarme di magistrati e avvocati) l’entrata in vigore della riforma della giustizia penale di Marta Cartabia e anticipare la fine dell’obbligo vaccinale per i sanitari. Saranno questi - più, molto probabilmente, la nomina della squadra di viceministri e sottosegretari - i primi provvedimenti del governo Meloni. La squadra dell’esecutivo li varerà nel corso del Consiglio dei ministri previsto per il 31 ottobre, alle 12. Partire con l’ergastolo ostativo - il carcere senza sconti e benefici per i condannati per mafia che non collaborano con la giustizia - è al tempo stesso un segnale identitario e una necessità. Un segnale identitario perché è un modo per ribadire che il governo considera il carcere duro “uno strumento essenziale nel contrasto alla criminalità organizzata”, di cui si è discusso anche durante la fiducia alle Camere. Una necessità, perché, la Consulta - che ha affermato che l’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario non è costituzionale ma deve essere il Parlamento a cambiarlo - l’8 novembre deciderà se dare ancora tempo al legislatore di fare il suo dovere o dichiarare incostituzionale l’articolo. Trovandosi però con un decreto legge approvato, che quindi sarà convertito entro la fine dell’anno, non potrà che concedere ancora qualche altre settimana alle Camere. Il testo che Meloni presenterà ai suoi ministri ricalca la proposta di legge che ad aprile scorso era stata approvata alla Camera. Il meccanismo è più o meno il seguente: permettere l’accesso ai benefici penitenziari al condannato che non ha collaborato con la giustizia solo ad alcune condizioni. “Una corsa contro il tempo - è il ragionamento del governo - per garantire sicurezza sociale e impedire che ai detenuti mafiosi possano essere concessi benefici pur in costanza del vincolo associativo”. Sulla questione è intervenuto anche Matteo Salvini: “Bene, anche sulla Giustizia finalmente si cambia. Avanti così”. La prospettiva non piace alle Camere penali, che hanno convocato una giunta d’urgenza: sarebbero d’accordo con un rinvio (parziale) della riforma Cartabia, ma sono in allarme per l’ergastolo ostativo. Il paradosso è che la proposta sul carcere duro potrebbe piacere all’opposizione - il testo da cui trae ispirazione è frutto dell’unificazione di tre proposte firmate Lega, M5s e Pd - ma non essere particolarmente apprezzata, oltre dagli esperti che già l’hanno abbondantemente criticata, dalle parti di via Arenula. Carlo Nordio, infatti, non ha mai fatto mistero di non essere un fan del carcere a vita: “Non ho mai detto di esser contrario all’ergastolo. Ho detto che l’ergastolo è come l’inferno: esiste, ma può essere svuotato dall’Onnipotente”, ha detto, in maniera sibillina, solo pochi giorni fa. Era stato molto più esplicito parlando con Claudio Cerasa nell’ultimo libro del direttore del Foglio. In quell’occasione aveva definito l’ergastolo ostativo “un’eresia contraria alla Costituzione” e aggiunto “il fine pena mai non e? compatibile, al fondo, con il nostro Stato di diritto”. Al momento da via Arenula non trapela nulla. Non si rivendica la partecipazione alla stesura del decreto, nè si palesa disappunto. Il ministro Nordio, però, nell’unica dichiarazione della giornata parla dell’emergenza dei suicidi in carcere: “In queste ore, nell’esprimere il mio cordoglio ai familiari di chi è arrivato a scelte così estreme, confermo la mia decisione di visitare al più presto più istituti tra quelli maggiormente in difficoltà. Il carcere è per me una priorità assoluta: riconosco il grande impegno di chi mi ha preceduto e dell’amministrazione penitenziaria, che ha diffuso anche una circolare specifica sul tema dei suicidi”. Quest’ultimo passaggio è significativo, dal momento che Lega e FdI hanno invece sempre molto criticato il capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi. Ma cosa prevede il decreto? Come si evince dalla relazione introduttiva, al condannato all’ergastolo ostativo che vuole accedere ai benefici penitenziari non basterà dimostrare la pur necessaria buona condotta in carcere e di aver partecipato a un percorso di rieducazione. Né basterà una “mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza”, perché le evidenze dovranno essere più, per dirla come la direbbe chi ha pensato il provvedimento, forti. Il magistrato di sorveglianza, ad esempio, dovrà accertare che il condannato ha fatto iniziative “a favore delle vittime, sia nelle forme risarcitorie che in quelle della giustizia riparativa”, dovrà tener conto dei motivi per cui ha scelto di non collaborare e dovrà valutare se il detenuto ha fatto una “revisione critica” dei reati commessi. Bisognerà inoltre dimostrare, con l’acquisizione di “congrui e specifici elementi”, che il condannato non abbia più collegamenti con la criminalità organizzata. E che non ci siano rischi sul ripristino di rapporti futuri. Nel fare ciò, il magistrato di sorveglianza dovrà fare accertamenti anche sulla famiglia del detenuto. Riguardo a cosa? Alla situazione patrimoniale, ad esempio, al tenore di vita, al lavoro e alla situazione giudiziaria. Questa indicazione potrebbe risultare scivolosa, perché un giudice potrebbe decidere di non concedere il beneficio penitenziario a un detenuto anche se un parente con cui non ha rapporti da molti anni (data la sua condizione di detenuto all’ergastolo ostativo) commette un reato connesso con la mafia. A meno che, punto altrettanto interessante, non sia il condannato in prima persona a “fornire idonei elementi di prova contraria”. Di solito le prove le cercano le toghe, in questo caso si chiede al detenuto di portarle. Tutto questo iter di analisi della richiesta deve finire entro un mese, ma può esserci una proroga per un altro mese. Quanto ai reati punibili con l’ergastolo, mentre negli altri casi la liberazione condizionale si può chiedere dopo 26 anni, il decreto dispone che i condannati all’ergastolo ostativo che non hanno collaborato con la giustizia dovranno aspettare 30 anni. Queste regole varranno per i condannati per reati di mafia, ma anche per chi ha commesso atti terroristici, reati relativi alla tratta di esseri umani e al traffico internazionale di droga. Non solo: come conseguenza della legge “Spazzacorrotti”, entrano nella sfera dei reati per cui i benefici penitenziari in caso di mancata collaborazione sono banditi anche i reati - che non prevedono l’ergastolo - come la corruzione e la concussione. Se il decreto sull’ergastolo ostativo è una prerogativa di Palazzo Chigi, gli uffici di via Arenula in questi giorni stanno lavorando alacremente per rinviare l’entrata in vigore della riforma del processo penale. Che, secondo i piani iniziali, avrebbe dovuto essere operativa dall’1 novembre. Il ministero ha accolto l’appello dell’Anm e degli organi dell’avvocatura, che temevano il caos. Come hanno spiegato all’HuffPost più fonti dell’Anm, infatti, il sistema giustizia non è pronto per far funzionare una riforma che è una piccola rivoluzione del processo penale. Ad esempio: ci sono delle questioni interpretative non ancora risolte, c’è bisogno di adeguare l’ufficio del giudice per le indagini preliminari, che avrà più incombenze, di trovare dotare gli uffici dei mezzi informatici che con la riforma serviranno e che ancora non hanno, e di capire se le nuove norme - come l’udienza filtro, che dovrebbe servire a velocizzare il rito monocratico - si applicano anche ai processi in corso o a quelli che arriveranno. C’è poi la questione di alcuni reati, come i furti, che non saranno più perseguiti direttamente dallo stato, ma solo in seguito alla querela della parte lesa. Questa abbatterà significativamente il numero dei processi per reati minori, ma necessità di un minimo di un tempo minimo di adeguamento. “Il provvedimento intende rispettare le scadenze del Pnnr e consentire la necessaria organizzazione degli uffici giudiziari”, spiega palazzo Chigi. La legge - tutta e non una parte come era stato prospettato in precedenza - entrerà in vigore il 30 dicembre. Nordio, quindi, parte con un atto di apertura nei confronti della magistratura - che guardava con diffidenza l’arrivo dell’ex collega in via Arenula - ma dovrà digerire la norma sull’ergastolo ostativo. Contribuendo, magari, a qualche limatura, ma con ben poco margine di manovra. In linea con una gestione molto meno restrittiva del Covid, il governo anticiperà quindi lo stop alla vaccinazione obbligatoria per i sanitari. È altamente probabile, infine, che durante la riunione dei ministri si chiuda la partita dei sottosegretari. Le caselle sono quasi tutte riempite, anche se la premier ha posto l’attenzione sulla necessità di una maggiore presenza di donne. Per la Giustizia viene fatto il nome di Francesco Paolo Sisto come viceministro di Nordio e di un leghista - nelle ultime ore sono salite le quotazioni di Giulia Bongiorno - come sottosegretario. Al Viminale dovrebbe essere confermato Nicola Molteni della Lega, che molto probabilmente sarà affiancato da Paolo Barelli di Forza Italia. All’Editoria, a grande richiesta di Silvio Berlusconi, dovrebbe andare il forzista Alberto Barachini. Claudio Durigon, invece, dovrebbe andare al Lavoro, Edoardo Rixi alle Infrastrutture. A Fratelli d’Italia, azionista di maggioranza, andranno più caselle rispetto agli alleati. Giorgia Meloni, che oggi è andata a Palazzo Chigi subito dopo l’omaggio al Milite ignoto, è al lavoro per le ultime limature. Con il rischio, non ancora del tutto scongiurato, di scontentare gli alleati. Forza Italia, infatti, dopo il braccio di ferro per il governo, ha già fatto capire che non accetterà altri veti. Ma le figure da piazzare sono di più dei posti disponibili. La partita è meno difficile rispetto a quella giocata per i vertici dell’esecutivo, ma non meno delicata. Carcere, l’anno record dei suicidi. Nordio: “Emergenza drammatica” di Andrea Bulleri Il Messaggero, 30 ottobre 2022 Un tema su cui l’ex procuratore aggiunto ha intenzione di mettere mano al più presto. L’allarme arriva dal Garante nazionale dei detenuti. E viene rilanciato anche dal ministro della Giustizia Carlo Nordio, che parla di “drammatica emergenza” e inquadra il problema come “una sconfitta per ciascuno di noi”. Dall’inizio dell’anno, il bilancio dei suicidi nelle carceri italiane è già salito a quota 72. Soltanto venerdì, infatti, sono state due le persone che si sono tolte la vita dietro le sbarre. Per dare un’idea dell’entità del fenomeno, in tutti e dodici i mesi del 2021 erano state 57. È anche per questo che ieri il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, ha scelto di prendere la parola. Esprimendo “grave preoccupazione” per l’impennata dei gesti di autolesionismo nei penitenziari e chiedendo di non rinviare l’entrata in vigore della riforma Cartabia, nella parte in cui introduce sanzioni sostitutive alla detenzione in carcere per i reati minori. “Non è solo il numero delle vite interrotte a destare allarme: mai così alto, con 72 decessi per suicidio in dieci mesi”, osserva Palma. “Ma anche il fatto che questi eventi spesso riguardano persone ristrette per reati di lieve entità e quindi con pene brevi o brevissime. Persone spesso fragili, sulle quali il carcere può avere un impatto ancora più duro”, sottolinea il Garante. Anche per questo, aggiunge, “saluto con particolare favore l’introduzione nella recente riforma della Giustizia di sanzioni sostitutive alla detenzione carceraria per i reati più lievi. È questo osserva Palma il vero segnale che il mondo della detenzione attende, incluso chi nei penitenziari lavora”. Il Garante si dice poi “consapevole” del fatto che esistano “difficoltà” legate ad altri aspetti della riforma. Ma confida che “l’urgenza del tema, di cui i suicidi sono un segnale”, oltre alle “parole condivisibili del ministro” Nordio, “indurranno una particolare attenzione a che proprio la parte relativa alle sanzioni sia attuata senza alcun rinvio”. Cordoglio ai familiari delle vittime esprime intanto anche il Guardasigilli Nordio. “Due suicidi in un solo giorno”, interviene il ministro, secondo cui la questione delle morti negli istituti di detenzione rappresenta una “drammatica emergenza, una dolorosa sconfitta per ciascuno di noi e la conferma della necessità di occuparci da vicino del mondo penitenziario”. Un tema su cui l’ex procuratore aggiunto ha intenzione di mettere mano al più presto. “In queste ore annuncia il Guardasigilli nell’esprimere il mio cordoglio ai familiari di chi è arrivato a scelte così estreme, confermo la mia decisione di visitare al più presto più istituti tra quelli maggiormente in difficoltà. Il carcere è per me una priorità assoluta”, aggiunge, sottolineando di riconoscere “il grande impegno di chi mi ha preceduto e dell’amministrazione penitenziaria, che ha diffuso anche una circolare specifica sul tema dei suicidi. Molteplici conclude Nordio possono essere le cause e i problemi dietro questo drammatico record: le urgenze del carcere, compresa la necessità di rinforzare gli organici di tutto il personale, saranno una delle mie priorità”. Suicidi in carcere, il Garante: “Si attui subito la riforma” di Davide Varì Il Dubbio, 30 ottobre 2022 L’appello di Rossomando a Nordio: “Le misure devono essere attuate”. “Grave preoccupazione” per gli eventi di suicidio che continuano a verificarsi nelle carceri italiane. A esprimerla è il Garante nazionale delle persone private della libertà sottolineando, in una nota, che “non è solo il numero delle vite interrotte a destare allarme, mai così alto, con 72 decessi per suicidio in dieci mesi, di cui due nella giornata di ieri, ma anche il fatto che questi eventi spesso riguardano persone ristrette per reati di lieve entità e quindi con pene brevi o brevissime. Persone spesso fragili sulle quali il carcere può avere un impatto ancora più duro”. Proprio alla luce di tale situazione, il Garante ricorda di aver salutato “con particolare favore” l’introduzione nella recente riforma della giustizia di sanzioni sostitutive alla detenzione in carcere per i reati minori, “riforma - sottolinea - la cui entrata in vigore è prevista per il prossimo 1 novembre: questo sarà il vero segnale che il mondo della detenzione, incluso chi in esso lavora, attende”. Il Garante, quindi, si dice “consapevole delle difficoltà nell’avvio di altri aspetti della complessiva riforma”, ma, aggiunge “è certo che l’urgenza del tema, di cui i suicidi sono un segnale, e le parole condivisibili del ministro indurranno una particolare attenzione a che proprio la parte relativa alle sanzioni sia attuata senza alcun rinvio”. Rossomando a Nordio: “No al rinvio delle riforme” - “Come era prevedibile l’approccio del governo di destra al tema carcere è quello di una stretta sul percorso trattamentale e sui benefici. Una visione sbagliata e che cozza contro la situazione critica delle carceri italiane”. A dirlo è la vicepresidente del Senato e responsabile Giustizia del Pd, Anna Rossomando. “Per quanto riguarda poi le fondamentali riforme della giustizia approvate nella scorsa legislatura, si tratta di misure che devono essere attuate e non possono assolutamente essere rinviate. Chiediamo anzi al ministro Nordio di convocare nella prima data utile i capigruppo di tutte le forze politiche per concordare corsie preferenziali per una migliore attuazione delle riforme a partire dall’implementazione di risorse organizzative e di personale”. Bilotti annuncia un’interrogazione - “È dall’inizio della mia attività professionale di avvocato e ancor di più di quella parlamentare che seguo le problematiche legate agli istituti di detenzione. Per questo, tra i primi atti della nuova legislatura indirizzerò ai ministri della Giustizia e della Salute un’altra interrogazione sulla gestione dei percorsi sanitari per i detenuti bisognosi di cure”. È quanto fa sapere la senatrice del M5S, Anna Bilotti, che ha annunciato la presentazione di una interrogazione. “La stessa relazione presentata dal garante dei detenuti Samuele Ciambriello presso il Consiglio Regionale il 24 ottobre 2022 conferma ancora una volta uno scenario preoccupante sulle condizioni in cui versa la popolazione carceraria. In particolare - continua Bilotti -, le ataviche carenze infrastrutturali e quelle di Personale determinano in Regione Campania l’impossibilità di garantire in modo compiuto il diritto alla salute dei detenuti, spesso impedendo loro un tempestivo accesso sia ai percorsi diagnostici che ai conseguenti trattamenti medici necessari”. “In questo scenario preoccupante si inseriscono anche gli istituti della provincia di Salerno di Fuorni e Vallo della Lucania come puntualmente evidenziato nel documento - continua la senatrice. Il diritto alla salute dei detenuti dovrebbe essere garantito oltre che dalla Costituzione dalla corretta applicazione su tutto il territorio nazionale di quanto sancito dall’accordo del 22 gennaio 2015 tra Governo e Conferenza Unificata Stato Regioni e Province Autonome e in particolare dalle “Linee guida in materia di modalità di erogazione dell’assistenza sanitaria negli Istituti penitenziari per adulti”. “Mi auguro che il nuovo ministro della Giustizia - in particolare - si faccia carico di questo problema - aggiunge - anche alla luce delle sue preoccupazioni manifestate in occasione della presentazione del calendario della polizia penitenziaria all’Università Roma Tre. Garantire l’uguaglianza nel diritto alla salute tra detenuti e cittadini liberi ma anche la sicurezza sul lavoro di quanti operano all’interno degli istituti penitenziari è un obiettivo che in uno stato civile non deve essere messo in secondo piano”. Carceri, altri due suicidi in 48 ore. Nordio: “Sarà una mia priorità” Avvenire, 30 ottobre 2022 Due suicidi in meno di 48 ore, un bracciante di 34 anni trovato impiccato a Siracusa e un catanese 44enne morto a Caltagirone, ripropongono prepotentemente il problema delle condizioni in carcere. Ieri è stato il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a tornare sul tema: “Una drammatica emergenza, una dolorosa sconfitta per ciascuno di noi e la conferma della necessità di occuparci da vicino del mondo penitenziario - ha detto il guardasigilli In queste ore, nell’esprimere il mio cordoglio ai familiari di chi è arrivato a scelte così estreme, confermo la mia decisione di visitare al più presto più istituti tra quelli maggiormente in difficoltà. Il carcere è per me una priorità assoluta: riconosco il grande impegno di chi mi ha preceduto e dell’amministrazione penitenziaria, che ha diffuso anche una circolare specifica sul tema dei suicidi. Molteplici possono essere le cause e i problemi dietro questo drammatico record: le urgenze del carcere - compresa la necessità di rinforzare gli organici di tutto il personale - saranno una delle mie priorità”. “Grave preoccupazione” per quanto accaduto è stata espressa anche dal garante nazionale delle persone private della propria libertà, Mauro Palma, secondo il quale la questione “non è solo il numero delle vite interrotte - mai così alto, con 72 decessi per suicidio in dieci mesi, di cui due nella giornata di ieri - ma anche il fatto che questi eventi spesso riguardano persone ristrette per reati di lieve entità e quindi con pene brevi o brevissime. Persone spesso fragili sulle quali il carcere può avere un impatto ancora più duro”. Giustizia, ecco gli sprechi che fanno lievitare i costi: indagini sbagliate, burocrazia e negligenze di Andrea Bulleri Il Messaggero, 30 ottobre 2022 Ecco dove si possono recuperare risorse per rilanciare gli uffici giudiziari. Ridurre drasticamente i costi, ottimizzare i tempi e restituire in questo modo ai cittadini - e anche a chi ci guarda dall’estero - fiducia. La sfida del nuovo governo riguarda anche e soprattutto il settore della Giustizia, da sempre uno dei più delicati, tra riforme tentate e riuscite, sprechi macroscopici e organico di magistratura e uffici gravemente sottostimato. Il risultato sono faldoni accatastati negli uffici dei magistrati, costretti spesso a condurre superficialmente le indagini considerate meno delicate, ma anche processi infiniti che, oltre a non rispettare i diritti delle parti in causa, mettono lo Stato a rischio di dovere pagare risarcimenti per la durata irragionevole dei dibattimenti. Poi ci sono i costi delle perizie, oppure le spese di cancelleria, riducibili grazie al processo di digitalizzazione di procure e tribunali, che riguarda deposito, notificazione e comunicazione degli atti, con un significativo abbattimento di costi e tempi. Le intercettazioni, che costano circa 200 milioni di euro all’anno, spesso non producono i risultati sperati, oppure vengono utilizzate in modo eccessivo. E gli errori commessi durante la fase delle indagini preliminari possono costare caro: solo nel 2021 lo Stato è stato condannato a pagare 24.506.190 euro di risarcimento a 565 persone finite in carcere ingiustamente, per sbaglio, e che hanno avuto la vita stravolta. L’Italia deve anche fare i conti con le condanne che arrivano dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, o le procedure di infrazione aperte dalla Commissione europea. E al saldo negativo si aggiunge anche il sistema della riscossione delle pene pecuniarie, che non funziona e che per anni è costato al nostro Paese miliardi. Basta guardare i dati del ministero della Giustizia: nel 2018, le condanne a pene pecuniarie sono state 66.949, per un totale di 973 milioni di euro. Lo Stato è riuscito a incassare solo 14,5 milioni. Dal 2012 al 2019, su 6,9 miliardi, i soldi recuperati sono stati solo il 3%: circa 196 milioni di euro. Intercettazioni - Le intercettazioni costano annualmente allo Stato circa 200 milioni di euro. In media, ogni anno vengono controllate 110mila utenze per 57 giorni. Piazzare un trojan in computer o cellulari costa 120 euro ogni 24 ore. Una spesa enorme, a cui non sempre corrisponde un aiuto nei processi. Lo sa bene Carlo Salti, commerciante di automobili di Piombino finito in carcere per sei mesi e poi sul banco degli imputati per dieci anni a causa di una conversazione captata e interpretata nel modo sbagliato. Era stato accusato di associazione a delinquere e usura e tutto era iniziato proprio con un’intercettazione. Era il 2005, la procura di Livorno aveva ascoltato un dialogo con il capo di una banda di estorsori - poi condannato per un solo episodio - su cui stava indagando: interpretando male la conversazione gli inquirenti si erano convinti che Salti stesse parlando con l’indagato di interessi usurari chiesti a un cliente dell’autosalone. A scagionarlo, durante le indagini, non era servita nemmeno la dichiarazione della presunta vittima, che negava di avere subito richieste o minacce. Salti era rimasto in cella per sei mesi. L’assoluzione era arrivata dal primo grado, nel 2015. Processi futili - Il costo medio per arrivare alla definizione di un processo penale varia dai 300 ai 2.000 euro, a seconda del tipo di giudizio, del Tribunale e, ovviamente, della durata del dibattimento, secondo una stima fatta da Questione Giustizia. In alcuni casi, però, le aule sono affollate da procedimenti quantomeno singolari, che si risolvono con assoluzioni per tenuità del fatto. Nel 2018, per esempio, un uomo è stato assolto dall’accusa di tentato furto di una melanzana, rubata in un campo, dopo un processo che, considerando tutti i gradi di giudizio, è durato nove anni. Valore del bottino? Circa venti centesimi. È successo nel 2019 a Carmiano, in provincia di Lecce: l’uomo era stato sorpreso mentre cercava di rubare un carico di ortaggi, secondo l’accusa. Quando è stato scoperto, ne aveva afferrato solamente uno. In primo e secondo grado era stato condannato: aveva già rubato in passato. Per la Cassazione, però, aveva agito per stato di necessità, per cercare di sfamare la famiglia. Bacchettando i giudici di primo e secondo grado, gli ermellini avevano sottolineato la “particolare tenuità del fatto”: l’imputato aveva cercato di rubare un solo ortaggio. Ingiusta detenzione - Nel 2021 i casi di ingiusta detenzione sono stati 565, per una spesa complessiva per lo Stato pari a 24.506.190 euro. Il dato è riportato dal portale Errorigiudiziari.com, quotidianamente aggiornato nei numeri e nelle storie raccontate, curato dai giornalisti Benedetto Lattanzi e Valentino Maimone. Una delle tantissime storie di ingiusta detenzione è quella di Massimiliano Prosperi, romano: ha passato 132 giorni di carcere per un omicidio che non aveva commesso e in suo favore è stato disposto un risarcimento da 39.598 euro. Il 5 marzo del 2015 Prosperi viene arrestato mentre è in casa con la moglie e i due figli. È accusato di essere uno dei mandanti dell’omicidio di Sesto Corvini, ucciso a colpi di pistola il 9 ottobre 2013, nel quartiere residenziale di Casal Palocco, a Roma. Il 27 aprile del 2016, Prosperi viene condannato in primo grado: 30 anni di carcere. Ma nei gradi di giudizio successivi viene assolto. La sentenza definitiva è del 19 giugno del 2018. Prima dell’arresto l’uomo era un imprenditore affermato, ma l’inchiesta gli rovina la vita: deve reinventarsi e inizia a lavorare come muratore. Condanne dall’Europa - Nel 2021 ci sono state 38 sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo, con condanne a carico dell’Italia. Nel 2022, per ora, quelle pubblicate sono 16. Una delle ultime è quella sul caso di Silvia De Giorgi, padovana e madre di tre figli, che si era rivolta alla Corte accusando le autorità italiane di non aver fatto il necessario per proteggerla dal marito violento, nonostante le ripetute denunce: ne aveva presentate sette, dal 2015 al 2019. La De Giorgi e il marito si sono separati nel 2013. Nel 2015, la prima denuncia: la donna racconta di essere stata molestata e minacciata. Spiega che l’uomo la pedina, la minaccia con armi, le controlla il telefono, è violento con i figli e “afferma di voler uccidere tutta la famiglia”, si legge nella sentenza. Pochi giorni dopo la De Giorgi viene aggredita. Si susseguono molte altre denunce e la donna chiede anche di venire sottoposta a una misura di protezione, oppure che per l’ex venga disposto il divieto di avvicinamento. La richiesta della vittima viene respinta e per diverse denunce viene chiesta l’archiviazione. Nella sentenza si legge che Silvia è stata sottoposta a un “trattamento inumano e degradante”. È stata risarcita con 10mila euro, oltre alle spese processuali. La procura generale: “Niente risarcimento per Stefano Binda” di Davide Varì Il Dubbio, 30 ottobre 2022 L’uomo ha passato 1268 giorni in galera da innocente per l’omicidio di Lidia Macchi, ma per le toghe non andrebbe risarcito, in quanto si è avvalso della facoltà di non rispondere. La procura generale ha fatto ricorso contro il risarcimento di 300mila euro per ingiusta detenzione stabilito per Stefano Binda, 54 anni, accusato e assolto di essere l’omicida di Lidia Macchi, la 21enne trovata morta nel gennaio 1987, violentata e accoltellata, a Cittiglio (Varese). Secondo la pg, infatti, “con i suoi silenzi” Binda avrebbe “contribuito all’errore sulla sua carcerazione”, come riporta oggi il Corriere della Sera. Una questione giurisprudenziale di rilievo, dato che “il fatto che Binda si fosse avvalso più volte della facoltà di non rispondere è un diritto dell’indagato” e perché la “recente normativa sulla presunzione d’innocenza ha ribadito che tale condotta non incide sulla riparazione per ingiusta detenzione”. Ma la Procura generale, sulla base di un verdetto di quest’anno della IV Sezione della Cassazione, ritiene che “la condotta mendace” negli interrogatori costituisca “condotta fortemente equivoca” tale, evidentemente, da creare concorso nell’errore. Binda è stato condannato all’ergastolo in primo grado nel 2018 a Varese, poi sia in Appello sa in Cassazione è stato assolto nel merito. In carcere ha trascorso circa tre anni e mezzo. Il caso Lidia Macchi - L’omicidio di Lidia Macchi fu commesso il 5 gennaio 1987 vicino a Cittiglio. Lidia, che aveva 20 anni, era stata a trovare un’amica in ospedale. Il suo corpo, martoriato da numerose coltellate, venne ritrovato in un boschetto della zona due giorni dopo. Dopo quasi 30 anni di stallo, l’inchiesta sull’omicidio arriva a un punto di svolta il 15 gennaio 2016. Binda, 49enne, di ambienti vicini a Comunione e Liberazione, viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Alla base dell’arresto, un confronto calligrafico tra la scrittura dell’indagato e quella di una lettera anonima recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia. L’ergastolo, poi l’assoluzione - Il 24 aprile del 2018, il processo di primo grado a Varese si conclude con la condanna all’ergastolo di Binda: secondo i giudici della Corte d’assise l’imputato uccise Lidia Macchi “per procurarsi l’impunità dal reato di violenza sessuale su di lei commesso”. Un verdetto, questo, che viene ribaltato dalla Corte d’assise d’appello di Milano il 24 luglio 2019, quando Binda viene assolto e, quindi, scarcerato. I giudici di secondo grado, nelle motivazioni della loro sentenza, parlano di “vero e proprio deserto probatorio”. “Un incubo ad occhi aperti” - “È un incubo che ho vissuto ad occhi aperti. Altri forse hanno dormito, quel sonno della ragione che produce mostri”, ha dichiarato Binda al nostro giornale dopo la decisione della Cassazione. L’uomo ha attraversato l’inferno. E ne è uscito, cinque anni dopo un arresto che più ingiusto non si può. Dal 2016 al 2021, mezza Italia è stata convinta che fosse lui l’assassino di Lidia Macchi. Ma il delitto è rimasto senza colpevole. Torino. Suicida in cella dopo furto di cuffie. La negoziante: “Terribile, avessi saputo non avrei chiamato la polizia” di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 30 ottobre 2022 Il suicidio di Tecca Gambe, il 36enne originario del Gambia che si è tolto la vita venerdì mattina è il terzo dall’inizio dell’anno all’interno del carcere di Torino. Una drammatica sequenza cominciata a fine luglio quando Nuammad Khan, 38enne cittadino pachistano si era impiccato all’interno del padiglione C. Tre settimane più tardi, nel giorno di Ferragosto, anche Alessandro Gaffoglio, 24 anni, passaporto italiano e origini brasiliane, aveva deciso di uccidersi nella cella dove si trovava da solo, proprio come Tecca. Alessandro, incensurato, aveva già tentato il suicidio cinque giorni prima, ma inspiegabilmente nella sua cella era stato lasciato il sacchetto di plastica con il quale si è soffocato. Era stato arrestato il 2 agosto per due rapine a San Salvario e all’udienza di convalida il suo legale aveva chiesto la concessione degli arresti domiciliari, ma l’istanza era stata respinta. Tecca Gambe, invece, sembra non avesse manifestato alcun segnale di disagio. Era stato arrestato il 25 ottobre, dopo un furtarello nel negozio di articoli elettronici sotto i portici di via Nizza, quasi all’angolo con corso Vittorio Emanuele II. Era quasi l’ora di chiusura e lui avrebbe fatto il “palo” sul marciapiede, mentre il complice, 22 anni, è entrato nel locale con una maglietta sporca di sangue. “Era ubriaco - racconta la titolare, una donna cinese che ogni giorno fronteggia episodi del genere -. Erano già entrati prima e quando li ho visti tornare ho chiamato subito la polizia”. Davanti al bancone c’è un telo di plastica che va dal soffitto al pavimento: “Lo abbiamo messo per il Covid, ma anche per evitare i furti. La merce la passiamo attraverso un’apertura e poco prima un cliente aveva lasciato sul banco una confezione di auricolari bluetooth. Lui li ha afferrati, ma non sono scappati, hanno fatto il giro dell’isolato e sono tornati in via Nizza”. Quando è arrivata la polizia la coppia è stata identificata anche grazie alla testimonianza di un cliente e Tecca avrebbe spintonato l’agente facendo scattare l’accusa di resistenza che ha portato all’arresto. Ha passato la notte in una camera di sicurezza prima di essere trasferito al Lorusso e Cutugno. Non aveva documenti, non ha indicato familiari da contattare e alla “matricola” lo hanno registrato come “sconosciuto”. All’udienza di convalida ha rivelato la sua identità, sperava di uscire subito, ma il giudice si è riservato la decisione. Quando è tornato in carcere ha scoperto che il suo compagno di cella aveva chiesto di essere trasferito e il mattino dopo, assediato dai suoi “fantasmi” si è soffocato con un lenzuolo. “Se potessi tornare indietro non chiamerei la polizia - si dispera la negoziante cinese -. Non si può morire per delle cuffiette che costano 24 euro”. Torino. Carcere Lorusso e Cutugno: la direttrice e la garante, due donne sul fronte di Massimo Massenzio Corriere di Torino, 30 ottobre 2022 “A Torino si arresta tanto, la Casa circondariale è sovraffollata e il personale è in grande difficoltà”. Monica Cristina Gallo, garante delle persone private della libertà, lo ripete da tempo e, dopo il terzo suicidio dall’inizio dell’anno, invoca un intervento ministeriale che “spinga” verso un massiccio ricorso a misure alternative alla detenzione. “Penso che nella situazione drammatica in cui si trova il Lo Russo e Cutugno ci sia una grossa responsabilità dell’amministrazione penitenziaria nazionale che lascia direttori, agenti e funzionari giuridico-pedagogici a operare in condizioni di assoluta emergenza - continua Gallo -. Il sistema così com’è non funziona e i risultati sono ben visibili anche dai dati degli ingressi”. Su richiesta del personale penitenziario è stata effettuata un’analisi mirata su un periodo di 90 giorni (dal 1 marzo al 31 maggio del 2022). I dati sono stati elaborati per offrire un quadro preciso della tendenza ed è emerso che in tre mesi sono entrati in cella 144 detenuti, di cui solo 33 sono stati successivamente sottoposti a misura detentiva, mentre 4 sono stati liberati e 107 scarcerati nelle 48 ore successive all’ingresso. “I numeri parlano chiaro ma è anche necessario mettere in evidenza che ogni arresto prevede un iter complesso. Dall’immatricolazione al tampone, passando per perquisizione, fornitura materiali e rilievo impronte digitali. Operazioni che comportano un grosso carico di lavoro e un costo di 350 euro a persona solo per le prime due giornate. In questo modo il carcere sostituisce le camere di sicurezza, che andrebbero usate di più, visto che la stragrande maggioranza degli arrestati torna in libertà al massimo dopo due giorni”. Ogni volta che la garante entra in carcere per un colloquio si immerge in storie di disperazione, povertà e mancanza di legami: “Quello che si vive in carcere è lo specchio di una situazione drammatica che c’è anche fuori. È un fenomeno sociale che non si può ignorare e va studiato a fondo. Ma purtroppo cambiano i ministri e il disagio continua a crescere di pari passo agli arresti. A questo punto si decida di trasformare la casa circondariale in casa di reclusione e si investa almeno sui peer supporter, detenuti che possano instradare i nuovi giunti guidandoli nella vita carceraria. Spesso mi capita di incontrare persone, soprattutto straniere, ormai vicine al fine pena che non hanno mai presentato richiesta di misure alternative perché non conoscevano l’esistenza di questa possibilità”. Il problema del carcere è anche l’interruzione del legame con il mondo esterno, spesso già molto fragile: “L’ingresso è un momento molto delicato”, conferma la direttrice Cosima Buccoliero. Arrivata a Torino in un periodo particolarmente difficile per il Lo Russo Cutugno, che ospita 1400 detenuti a fronte di una capienza di 1098 posti: “Si cerca di offrire il massimo supporto psicologico ai nuovi arrivati, ma quell’uomo che si è tolto la vita non aveva dato alcun segnale di disagio. Si tratta di una tragedia che ha duramente colpito tutto il personale che opera in questa struttura”. Prato. Torturato e violentato dai compagni di cella: due detenuti a processo notiziediprato.it, 30 ottobre 2022 La Dogaia teatro dei fatti denunciati da un italiano a gennaio del 2020. Il giudice delle udienze preliminari ha disposto il rinvio a giudizio. Le accuse: tortura aggravata, violenza sessuale di gruppo e lesioni. L’avvocato che assiste la vittima: “Gravissimo e inaccettabile che tutto ciò sia avvenuto in una struttura carceraria”. Torturato, picchiato, vessato, violentato dai compagni di cella, due uomini con un curriculum criminale di primo piano. Doveva scontare poco più di un anno di detenzione per un piccolo reato ma i suoi primi giorni dietro le sbarre, nel carcere della Dogaia, si trasformarono in un inferno. La vittima, un pratese che all’epoca dei fatti - gennaio 2020 - aveva 31 anni ed era alla sua prima esperienza di reclusione, trovò il coraggio di sottrarsi ai suoi aguzzini denunciandoli. Per i due, entrambi italiani, uno coetaneo della vittima e l’altro più grande di qualche anno, a gennaio si aprirà il processo: il giudice delle udienze preliminari, Marco Malbera, accogliendo la richiesta del pubblico ministero, Valentina Cosci, li ha rinviato a giudizio con le accuse di tortura aggravata (il reato solitamente viene contestato alle forze dell’ordine ma il fatto che la vittima fosse ‘affidata’ al controllo della polizia penitenziaria e il fatto che non fosse nella disponibilità della propria libertà personale, sono condizioni sufficienti a integrare tale illecito anche nei confronti di chi lo commette senza appartenere ad un corpo di polizia), violenza sessuale di gruppo e lesioni. Una vicenda dai contorni molto crudi quella che ha coinvolto il detenuto pratese, rinchiuso alla Dogaia all’inizio del 2020 con una previsione di pochi giorni, in attesa di essere sottoposto ad una misura alternativa, fuori dal sistema carcerario. L’uomo, già destinatario di una sistemazione diversa concordata con il tribunale dal suo avvocato, Olivia Nati, fu portato in carcere perché la norma prevede obbligatoriamente questo passaggio. Sistemato in una cella occupata già da altri due detenuti, uno dei quali con più di una condanna definitiva, il giovane fu immediatamente preso di mira: costretto a subire rapporti sessuali di gruppo, preso a bastonate, colpito con le sedie, ferito alla testa con una padella rovente. Sevizie particolarmente brutali quelle messe in atto dai compagni di cella interessati a far sì che la loro vittima non parlasse, non raccontasse, non denunciasse e anzi, continuasse a subire. Pur in uno stato di fragilità, di paura, di sottomissione, il detenuto trovò il coraggio di chiedere aiuto agli agenti della polizia penitenziaria. Lo fece dopo che per una settimana era stato picchiato e violentato almeno 3-4 volte. I fatti finirono immediatamente al centro di un’inchiesta della procura. L’avvocato Nati si attivò immediatamente affinché venisse dato seguito alla misura alternativa già concordata ancor prima dell’ingresso alla Dogaia. Il giovane fu collocato in una struttura alternativa, mentre i due indagati vennero separati e spostati in altre carceri. Numerose le intercettazioni e i racconti di altri detenuti che hanno consentito all’accusa di mettere insieme gli elementi utili a contestare tutti gli episodi; elementi utili rappresentati anche dall’esito di una perizia che ha evidenziato i danni psicologici patiti dalla vittima, e da una consulenza genetica sul materiale biologico che ha attribuito la ‘paternità’ delle violenze. I racconti rilasciati dal detenuto già nelle primissime fasi dell’indagine preliminare, sono stati poi ribaditi e confermati nel corso dell’incidente probatorio che si è svolto a novembre dello scorso anno. “È gravissimo e inaccettabile che un fatto così sia avvenuto dentro una struttura carceraria”, il commento dell’avvocato Olivia Nati. Palermo. Scuola e formazione, il fallimento del dopo-carcere. E il 60% dei pregiudicati torna a delinquere di Ludovico Collo La Repubblica, 30 ottobre 2022 “In qualche modo dovrò pur mangiare, no?”. Palermo, una delle tante periferie esistenziali della città. Lì è nato Luca e lì è tornato quando ha finito di scontare una condanna per furto. Tutta, fino all’ultimo, perché casa non ne ha e un luogo in cui scontare i domiciliari non l’ha trovato. Appena uscito, neanche un lavoro. Sussidi come il reddito di cittadinanza, zero. Quando può rimedia una giornata, a nero ovviamente, per lo più si arrangia. “In galera non voglio tornare, ma chi lo prende uno come me?”. Con buona pace della funzione rieducativa della pena sancita persino in Costituzione, per molti di quelli che il carcere se lo lasciano alle spalle, la porta della società rimane chiusa. E ci ricascano. “Per gli ex detenuti c’è una percentuale di recidiva entro i cinque anni dal fine pena che ruota attorno al 60 per cento”, spiega Daniela De Robert, del collegio del Garante nazionale per i detenuti. “I casi di reinserimento positivo sono pochissimi - dice fra sconforto e rabbia Pino Apprendi, presidente della sezione siciliana di Antigone - anche perché in carcere mancano quasi totalmente i percorsi qualificanti”. E il più delle volte, chi finisce dentro e ci rimane non ha neanche gli strumenti per percorrere quelli di base. Secondo gli ultimi dati disponibili, fra i detenuti di cui è stato rilevato il titolo di studio il 5% è analfabeta, il 17% ha la licenza elementare, il 57% quella media inferiore, il 16% quella media superiore. Soltanto il 2% ha un diploma professionale e un altro 2% una laurea. Percentuali che in Sicilia si traducono in 57 laureati appena, 450 diplomati, più 49 con diploma professionale, 2364 persone che a stento hanno finito le medie, 765 andati solo alle elementari, 76 senza titolo di studio, 94 dichiaratamente analfabeti, neanche in grado di scrivere il proprio nome. E non sono tutti stranieri. “In carcere finisce spesso chi fuori non ha avuto opportunità e dentro - sintetizza Apprendi - continua a non averne”. Perché la scuola (spesso) c’è, ma i percorsi sono accidentati, la scelta limitata, le risorse e il personale nelle sovraffollate carceri italiane pure. E lo stesso - se non di più - vale per la formazione lavoro. Dei 222 corsi professionali attivati in Italia, solo 19 sono in Sicilia e a stento coinvolgono circa duecento detenuti. In corsi di cucina e ristorazione per lo più. “Quanti pizzaioli dobbiamo formare? - sbuffa De Robert - E poi, possibile che per le donne l’unico percorso previsto sia quello “beauty”, che forma estetiste e parrucchiere? È impensabile immaginare uno sbocco lavorativo oggi senza passare da un’alfabetizzazione informatica”. Ma in tutta Italia sono solo sei i corsi al riguardo. Traduzione, il mondo reale alle porte del carcere non bussa. Soprattutto per quel che riguarda il lavoro. Dei 19.935 detenuti impiegati, solo 440 sono in Sicilia. E di questi solo dodici lo fanno all’esterno. Eppure serve. Non solo per garantire un reddito. “Una persona che non ha mai lavorato o frequentato la scuola con continuità - spiega De Robert - quando viene impiegata per soggetti estranei all’amministrazione penitenziaria non solo ha l’occasione di formarsi, ma anche di imparare che ci sono non solo diritti ma anche doveri, che ci si presenta a orario e si rispettano i turni. Il tempo è quello del mondo reale, non del carcere”. La stragrande maggioranza dei detenuti però anche per lavorare dall’istituto non esce. Viene impiegata in cucina, nella manutenzione ordinaria, come porta-vitto o addetto alla persona. Percorsi non professionalizzanti, che quando la detenzione finisce e la porta dell’istituto di pena si chiude alle loro spalle, in mano lasciano a stento - e neanche sempre - qualche risparmio. “Gli esempi positivi ci sono, certo. Ma dopo più di trentacinque anni di professione -sottolinea Rita Barbera, per anni direttrice delle carceri palermitane Pagliarelli e Ucciardone, - devo ammettere che ma la funzione rieducativa della pena in Italia non esiste”. E il problema è di sistema. “Il carcere - spiega - ha senso solo per reati gravissimi, per altri sono necessarie misure alternative che abbiano valore pedagogico”. Sempre che ci sia il tempo di costruirlo: oltre 1500 persone sono dentro per pene inferiori a un anno. “E per loro, il tempo della detenzione è solo tempo sottratto alla vita”. Palermo. La lettera del detenuto: “La nostra dignità sfregiata da ferite invisibili” di Ludovico Collo La Repubblica, 30 ottobre 2022 “Qui si crea il contrario dello spirito rieducativo. La detenzione è sempre più vicina alla vendetta”. Ho letto l’intervista di Repubblica allo scrittore Sandro Bonvissuto autore del libro “ Dentro”. Oggi vi scrivo proprio da “Dentro”! Sono infatti forzatamente ospite del carcere Pagliarelli dal 22 giugno scorso. Sto scontando una pena di 5 anni per reati fallimentari. Ho 56 anni, svolgo da oltre 30 la professione di ragioniere commercialista e revisore legale, ho 2 figli. Nel 1987 (avevo 21 anni) ho frequentato il primo corso in SDA Bocconi a Milano: è da allora che faccio il pendolare usando come base Milano. Soltanto avendo la visione “dall’interno”, anche se da poco più di 3 mesi, si riescono a cogliere i veri problemi dei detenuti, le loro ansie epaure. I media si occupano delle carceri solo in occasione dei suicidi in cella. Si parla della punta dell’iceberg, estrema ratio di sofferenza e disagi che colpiscono i più deboli. Disagi causati da violenze subite e neanche percepite: i detenuti, normalmente, non hanno gli strumenti per rilevarle. Si tratta di violenze invisibili che non provocano ferite o lividi, ma solchi nel cuore e nella dignità di uomini. Tutto ciò è radicato nelle modalità di funzionamento del sistema carcerario. Occorre tenere a mente sempre - che buona parte dei detenuti è analfabeta. Quei pochi che sanno leggere hanno una capacità di comprensione del testo vicino allo zero; chi sa scrivere (stampatello) ha difficoltà a costruire una frase di senso compiuto. Ciò premesso, l’intero sistema della (dis)organizzazione carceraria è basato su comunicazioni tra detenuti e carcerieri in forma scritta: atti notificati e avvisi affissi nella bacheca del reparto; ogni esigenza del detenuto deve essere richiesta attraverso la formulazione di una “domandina”. Tutto ciò genera sensi di abbandono, frustrazione, impotenza e sfiducia nelle istituzioni. Si crea il contrario dello spirito rieducativo che il carcere dovrebbe avere. È sempre più vicino alla vendetta! L’accumulo silenzioso di tutto ciò provoca disagi fino alle estreme conseguenze: autolesionismo, risse tra detenuti, aggressioni agli agenti di polizia penitenziaria, suicidi. Esiste il continuo tentativo di annullamento della personalità attraverso azioni utilizzate nelle peggiori amministrazioni pubbliche: pratiche dilatorie in ogni comparto, divieti incomprensibili, differimenti e indifferenza anche a problematiche sanitarie. Spesso la risposta verbale ad una richiesta scritta è: sei in galera! Purtroppo anche gli operatori che lavorano all’interno del carcere sono incastrati in un sistema arcaico. Una violenza subita da me? Il divieto di acquistare da fuori la carta carbone. Risposta, ovviamente verbale: per motivi di sicurezza! Nella vita libera il tempo è la risorsa più preziosa. In carcere il tempo è la pena! Non avevo mai avuto tanto tempo “libero” nella mia vita. Oltre alla lettura intrattengo rapporti epistolari con familiari, amici e clienti. Utilizzo penna (bic), carta, busta e francobollo. Ritengo un vero lusso, nel 2022, leggere e scrivere sulla carta. Scrivo quasi quotidianamente “pensierini” belli e brutti spesi nell’osservazione e nell’ascolto dei miei compagni di sventura. Ormai si fidano di me e si fanno guidare per l’ottenimento di quei pochi diritti di cui possono godere. Elaboro, per loro conto, “domandine” e istanze: una sorta di CAF carcerario. Nell’ambito dell’ascolto dei vari vissuti, ho rilevato un problema molto diffuso: i detenuti già beneficiari di “misure alternative” (detenzione domiciliare o affidamento ai servizi sociali), non possono usufruirne per la mancanza di una casa con regolare contratto di locazione. È facilmente comprensibile il pregiudizio e la paura di un padrone di casa che deve concedere in affitto ad un detenuto l’immobile per scontare la pena. Ho elaborato un progetto mutuando modelli contrattuali utilizzati correntemente nel mondo imprenditoriale. Il vantaggio per tutti è evidente: il detenuto va a casa sua; il carcere si svuota; le guardie e gli altri operatori hanno meno “utenti”; il “padrone di casa” incasserebbe regolarmente il suo affitto. Sassari. Manifestazione contro il 41 bis: “Per un mondo senza galera. Libertà per tutti e tutte” sardegnalive.net, 30 ottobre 2022 Ieri pomeriggio a Sassari si è svolta la manifestazione degli anarchici in segno di solidarietà ad Alfredo Cospito, attualmente detenuto nel carcere di Bancali perché accusato di “strage contro la sicurezza dello Stato”. “Contro il 41 bis. Per un mondo senza galera. Libertà per tutti e tutte”, recita uno degli striscioni portato alla marcia di protesta, a cui hanno aderito un centinaio di persone tenute d’occhio dalle forze dell’ordine. “Scendiamo in piazza in solidarietà con Alfredo Cospito e contro la tortura legalizzata del 41 bis che prevede: cella singola 2x3 con arredi essenziali; limitazione strettissima delle foto e oggetti personali (come la biancheria); 2 ore d’aria in isolamento; divieto di tenere più di 4 libri in cella; 1 colloquio mensile di 1h con vetro divisorio; censura della corrispondenza; partecipazione ai processi solo in videoconferenza; in alcuni casi è effettuata la schermatura delle finestre con plexiglass. Inoltre, ad Alfredo viene negata qualsiasi tipo di corrispondenza con l’esterno, esclusi i familiari”, hanno spiegato dall’associazione “La casa di tutti - sa Domo de tottus”. Chi è Alfredo Cospito. Un anarchico insurrezionalista detenuto dal 2013 e attualmente rinchiuso nel carcere di Bancali, a Sassari, dove dal 20 ottobre scorso ha iniziato uno sciopero della fame contro il regime di detenzione 41-bis a cui è sottoposto, e contro la prospettiva di essere condannato all’ergastolo ostativo. Cospito è condannato a venti anni di reclusione per terrorismo nel maxi processo Scripta Manent, che ha riguardato una serie di azioni delle sigle anarchiche della Fai-Fri, con cui furono rivendicate una quantità di azioni compiute fra il 2003 e il 2016, tra le quali le bombe esplose a Torino nella zona pedonale della Crocetta e le due bombe fatte esplodere nel 2006 nei pressi dell’ex scuola allievi carabinieri a Fossano che fortunatamente non causò né morti né feriti. Cospito per quest’ultimo attentato fu condannato in primo e secondo grado, mentre la Corte di Cassazione ha stabilito a maggio che il reato per cui doveva essere giudicato non era strage comune ma strage politica e ha quindi indicato che la pena venga rivalutata. Cosenza. I detenuti della Casa circondariale “Cosmai” sul palcoscenico del Rendano quicosenza.it, 30 ottobre 2022 La direttrice Maria Luisa Mendicino: “Non è la prima volta che gli ospiti di questa struttura si cimentano con il teatro”. In data 03 novembre 2022 alle ore 18:00, presso il Teatro “A. Rendano” di Cosenza” si terrà la prima rappresentazione dell’opera teatrale dal titolo “Hic et Nunc”, realizzato dal regista Adolfo Adamo con la partecipazione, in qualità di attori, di alcuni detenuti ospiti di questa Casa Circondariale. “Questa Direzione - si legge in una nota a firma di Maria Luisa Mendicino, direttrice del carcere - vanta una acclarata tradizione rispetto alla realizzazione di “laboratori teatrali”. Già da qualche anno, grazie anche alla collaborazione con gli Enti Locali e le Associazioni di Volontariato, sono stati realizzati vari progetti, che hanno sempre visto i detenuti come protagonisti delle varie pièce teatrali, oltre che fruitori delle stesse. ln particolare, negli anni 2014,2015 e 2019 sono stati realizzati i prescelti: Amore Sbarrato I, Amore Sbarrato II “il Sogno Continua” e Amore Sbarrato III “Redemption Day”. I vari spettacoli hanno avuto recensioni e critiche positive anche con risonanza nazionale; tanto che l’ultimo lavoro realizzato, già portato in scena presso il Teatro “A. Rendano” di Cosenza il 19.7.2019, è stato successivamente selezionato per partecipare alla rassegna nazionale finale Destini Incrociati - Teatro in Carcere”. Assange è un maestro di giornalismo, non un nemico pubblico di Vincenzo Vita Il Manifesto, 30 ottobre 2022 Il dibattito si è svolto nella cornice del Premio Morrione per il giornalismo investigativo. Venerdì, 28 ottobre, a Torino, nell’ambito del Premio intitolato a Roberto Morrione, si è svolto un emozionante dibattito sulla vicenda di Julian Assange. Com’è noto, il giornalista di origine australiana rischia di essere estradato dalla Gran Bretagna negli Stati Uniti dove incombe su di lui una condanna a 175 anni di carcere. È stato costruito a tavolino un “mostro”, reo di avere messo il naso negli arcani e negli omissis delle guerre di Irak e Afghanistan, nonché nei cabli riservati delle cancellerie o nello scandalo di Guantanamo. Chi l’ha accusato -ricorda sempre il presidente della Federazione della stampa Giulietti- va in giro a tenere conferenze ben remunerate, chi ha permesso di conoscere la verità viene di fatto condannato a morte. Per di più, dopo tredici anni di via crucis, le condizioni psicofisiche del fondatore di WikiLeaks sono assai preoccupanti. Proprio in questi giorni il collegio di difesa, di cui è parte la moglie avvocata di Assange Stella Moris, sta attendendo il giudizio delle corti inglesi sulla possibilità di appellare le decisioni finora favorevoli all’estradizione. Anche se rimane sempre aperta la strada del ricorso alla Corte europea dei diritti umani. Ha ben spiegato la situazione la giornalista e scrittrice Stefania Maurizi, il cui volume “Il potere segreto” (in uscita l’edizione aggiornata in lingua inglese) è stato il punto di riferimento della contro narrazione. Si è rotto un lungo colpevole silenzio, mentre si va chiarendo che Assange è il capro espiatorio di una vera e propria tendenza repressiva: oggi lui, domani tutte e tutti coloro che non piegano la schiena. Sulla stessa lunghezza d’onda è intervenuto Gian Giacomo Migone, ex presidente in tre legislature della Commissione Esteri del Senato, che ha aggiunto una netta critica al completamente della Svezia, dove avvenne l’innesco della parabola giudiziaria. L’evento centrale della serata è stato la consegna da parte del Presidente Carlo Bartoli della tessera ad honorem dell’Ordine dei giornalisti per il figlio al padre di Assange John Shipton. Si è trattato di un momento commovente, con il folto pubblico in piedi ad applaudire: un piccolo risarcimento simbolica a fronte di una plateale ingiustizia. Bartoli ha sottolineato come la paventata sconfitta di Assange costituirebbe un precedente gravissimo per il diritto di cronaca e la libertà di informazione. Tra l’altro, come ribadito in numerose sentenze italiane ed europee, è un dovere del giornalista pubblicare senza remore le notizie di evidenza pubblica, per rispondere al diritto dei cittadini ad essere informati. Ne ha parlato anche, in conclusione, Mara Filippi Morrione, anima della manifestazione intitolata a chi insegnò ad intere generazioni a considerare il giornalismo non solo una professione, bensì pure e soprattutto un’etica civile. Assange è stato, tra l’altro, nominato Garante dall’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, come ha annunciato chi scrive. Hanno dato l’adesione all’iniziativa la “Rete NoBabaglio” e il “Coordinamento per la democrazia costituzionale”. Sono stati, infine, proiettati alcuni degli oltre 80 video di testimonianza per la libertà del fondatore di WikiLeaks raccolti dal Comitato “La mia voce per Assange”, coordinato dalla docente della Sapienza Grazia Tuzi assenta per indisposizione. “Articolo21” continuerà con incessante determinazione la campagna, passaggio cruciale in questa stagione di prove tecniche di sovranismi autoritari. Sempre più bambini e ragazzi con depressione da social di Tina Simoniello La Stampa, 30 ottobre 2022 Sempre più bambini e ragazzi con depressione da social. Uno studio della Società italiana di pediatria ha preso in esame 68 ricerche condotte in 18 anni, mettendo in luce la fragilità dei giovani in un mondo sempre più digitale. L’allarme anche sul rischio obesità. Si deprimono perché vivono isolati nelle loro stanze senza vedere i ragazzi della loro età. Ma c’è un altro problema nel problema: a forza di stare seduti davanti al cellulare o al Pc molti di loro diventano obesi. Parliamo dei rischi maggiori correlati di più all’uso dei social media di bambini e adolescenti, ma ce ne sono molti altri. E vanno dal consumo di cibo spazzature all’anoressia, dalla distorsione della percezione del proprio corpo al cyberbullismo alle carie dentarie. Per indagarli tutti la Società Italiana di Pediatria ha realizzato una revisione della letteratura scientifica su 68 pubblicazioni sugli under18 condotte dal 2004 al 2022, quindi nel pre e nel post Covid. I risultati sono pubblicati su International Journal of environmental research of public health. Depressione - In 19 studi, pari al 27% di tutti quelli esaminati dagli autori è stata riscontrata una significativa associazione tra depressione e uso dei social: più tempo i ragazzi trascorrono su instagram, tik-tok e youtube (sono questi o più utilizzati dai teenager), più alto è il rischio di sviluppare sintomi depressivi. Il fenomeno, che vista la sua diffusione ha un nome proprio: depressione da social, è preesistente alla pandemia, ma con l’isolamento, che ha generato un boom di utilizzo del web, è esploso. Dire con chiarezza se l’uso dei social media porti a una maggiore depressione o se i sintomi depressivi inducano le persone a cercare di più i social media, il che potrebbe tra l’altro alimentare un circolo vizioso è difficile “ma quello che però emerge in maniera inequivocabile dalla letteratura è che più tempo bambini e adolescenti trascorrono sui dispositivi digitali, più alti livelli di depressione vengono segnalati. E questo avviene senza grandi distinzioni geografiche: dalla Svezia all’Egitto”, dice Rino Agostiniani, consigliere nazionale Sip e coautore dello studio. Il bullismo corre sui social - “La depressione è collegata a un rapido aumento della comunicazione digitale e degli spazi virtuali che sostituiscono il contatto faccia a faccia - aggiunge Elena Bozzola, anche lei consigliere nazionale Sip e primo autore del lavoro appena pubblicato - Noi pediatri abbiamo chiaramente visto negli anni recenti un calo degli accessi al pronto soccorso per problemi fisici e un aumento degli accessi per patologie neuropsichiatriche, anche del 120-140% a seconda delle regioni, soprattutto per ideazione suicidaria. Dall’analisi letteratura emerge anche che chi è a rischio di depressione da social e anche più a rischio cyberbullismo”. L’uso problematico dei social media è stato ormai riconosciuto dalla letteratura come un importante fattore di rischio di cyberbullismo, soprattutto nei ragazzi di età compresa tra i 13 e i 15 anni. Il cyberbullismo è stato rilevato in 15 studi, cioè nel 22% di quelli esaminati dalla revisione. Così come i disturbi alimentari. La pubblicità - “I disturbi del comportamento alimentare legati all’uso di internet sono tra i rischi che preoccupano di più - riprende Bozzola -. I social media più utilizzati dai bambini e dagli adolescenti sono Instagram, tik-tok e Youtube, e tutti, quale più quale meno, veicolano pubblicità di cibo spazzatura di e messaggi pro-anoressia”. “Il marketing digitale sul cibo spazzatura è molto persuasivo per i giovanissimi e ne circola tanto sui social, si tratta di una minaccia da non sottovalutare perché - dice la pediatra - Studi soprattutto americani hanno dimostrato che l’esposizione di più di due ore al giorno ai social media sono un fattore di rischio di aumento ponderale che passa per l’utilizzo di prodotti non adeguati: parliamo di junk food, ma anche di bevande molto zuccherate. Che per altro oltre che sul peso impattano negativamente anche sulla salute dei denti”. Un paio di studi tra quelli esaminati hanno messo in evidenza anche un aumento delle carie e una maggiore compromissione della salute orale tra i bambini e i teenager forti frequentatori dei social e dei loro messaggi pubblicitari. I messaggi anoressanti - Ma quello dell’industria non è l’unico messaggio insano che circola sui social. Ce ne sono di più nefasti. “Ci preoccupa molto l’alterazione della condotta alimentare che è associata alla frequentazione di social”. I messaggi di cui parliamo, come sottolinea lo studio Sip, non sono più limitati come in passato a siti web che possono essere facilmente monitorati, ma si sono trasferiti su Snapchat, Twitter, Facebook, Pinterest. Di conseguenza i contenuti favorenti i disturbi alimentari sono più facilmente accessibili. “Come per l’eccesso ponderale, la letteratura è piuttosto concorde nel dire che più tempo si passa sui social media maggiore è il rischio di sviluppare comportamenti anoressici: in persone che sono predisposte, certo, ma l’adolescenza è un periodo sempre molto delicato”. La dispercezione di sé - Applicazioni ad hoc, e i social stessi danno la possibilità di ritoccare le foto da postare. Da uno studio di quelli analizzati dai pediatri Sip, pubblicato nel 2019, prima del covid, su Current opinion in pediatric risulta che il 28% delle bambine e delle teenager tra gli 8 e i 18 anni ritocca le proprie foto prima di postarle, “è così - conferma Bozzola - e questo significa non sol che molte si sentono poco attraenti, ma anche che chi non lo fa, che chi non si ritocca, finisce spesso per vedersi meno attraente, e quindi per avere una percezione distorta del proprio corpo. Ma la dispercezione di sé influenza l’autostima, e può peggiorare il rapporto col cibo”. La dispercezione della sessualità - Le piattaforme social possono alterare la percezione della sfera sessuale degli adolescenti. L’esposizione a materiale sessuale online anche attraverso finestre pop-up o pubblicità è un rischio reale della rete e può predisporre a sviluppo di depressione, suicidio e abuso di sostanze. “La diffusione dei social media, soprattutto tra i più giovani, richiede un’attenzione particolare perché un uso non responsabile può creare problemi rilevanti nella vita quotidiana dei ragazzi e delle loro famiglie, sia dal punto di vista della gestione delle emozioni che delle difficoltà relazionali e scolastiche. L’età preadolescenziale e adolescenziale rappresenta una fase cruciale per lo sviluppo dell’individuo - afferma la presidente Sip Annamaria Staiano - la conoscenza e l’analisi dei comportamenti a rischio, frequenti in questa fascia d’età, può contribuire alla definizione di politiche e interventi in grado di promuovere l’elaborazione di valori positivi e facilitare l’adozione di stili di vita salutari”. Lo sport può essere soluzione - “Il dialogo, quello diretto e faccia a faccia, con gli amici e con i familiari nonché l’attività fisica sono i migliori antidoti contro l’overdose da social media. Per esempio, un’attività sportiva regolare, anche se lieve/moderata - conclude Bozzola- non solo allontana fisicamente dalla rete e riduce il rischio di obesità ma può addirittura alleviare la depressione in 6-12 settimane in chi ne è già colpito”. Migranti. Vergogna continua: il Memorandum Italia-Libia verso il rinnovo per inerzia di Silvia Andreozzi L’Espresso, 30 ottobre 2022 Se non verrà revocato entro il 2 novembre sarà prorogato in automatico a febbraio per altri tre anni. Le associazioni chiedono che si interrompa l’accordo promosso da Marco Minniti nel governo Gentiloni. “Non un memorandum, ma un atto di terrorismo internazionale”. L’accordo siglato tra Italia e Libia nel 2017 viene così definito da Yambio David Oliver, attivista che ha guidato la protesta che si è tenuta tra ottobre 2021 e gennaio 2022 a Tripoli. Venticinque anni, da quattro mesi in Italia, la voce fiera di Yambio si somma a quella di 40 associazioni, tra cui Arci, Amnesty International, Open Arms, che chiedono al governo di annullare il Memorandum tra Italia e Libia promosso cinque anni fa da Marco Minniti, ministro dell’Interno del governo Gentiloni. C’è tempo fino al 2 novembre. Se entro quella data l’esecutivo non dovesse prendere iniziative, l’accordo, per la seconda volta, si rinnoverà automaticamente il 2 febbraio 2023 e sarà effettivo per altri tre anni. Tre anni durante i quali l’Italia continuerà a finanziare la guardia costiera libica, le fornirà materiali e provvederà alla formazione dei suoi componenti. Come non ha mai smesso di fare. Solo pochi giorni fa sono state inviate 14 imbarcazioni veloci per intercettare migranti, una commessa aggiudicata per 6 milioni e mezzo di euro. Sempre in virtù del Memorandum, una nave italiana continuerà a stazionare nel porto di Tripoli e a dirigere quelle che la versione ufficiale definisce come “operazioni di salvataggio”. Dal 2017 a oggi sono oltre 85mila le persone - donne, uomini, bambini - che, intercettate in mare dalla guardia costiera libica, sono state riportate a Tripoli. Respinti “per conto dell’Italia ma non in suo nome”, dice Matteo De Bellis di Amnesty International intervenendo alla conferenza stampa indetta dalle associazioni che chiedono l’interruzione del Memorandum. Un modo per raggirare la sentenza Hirsi con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo dichiarò illegittimi i respingimenti operati dall’Italia nel Mediterraneo durante il 2009. C’è un elemento, infatti, che nel diritto internazionale definisce un salvataggio in mare, ed è il fatto che questo si concluda con l’approdo in un porto sicuro. Difficile, però, poter considerare tale la Libia. De Bellis spiega che gli “ultimi rapporti di Amnesty International mostrano come le persone riportate in Libia con l’aiuto dell’Italia vengano sottoposte a violazioni e abusi di ogni tipo, tra cui uccisioni, torture e altri maltrattamenti. Detenzioni arbitrarie a tempo indefinito, lavori forzati, estorsioni e sfruttamento. La lista di violazioni è documentata sistematicamente. In Libia, poi, le persone non hanno possibilità di chiedere protezione internazionale. Ci troviamo di fronte a una situazione nella quale nonostante gli abusi, Stati e istituzioni europee continuano a supportare economicamente Tripoli. Sono politiche per le quali non deve sfuggire la responsabilità dell’Italia”. Non è solo nelle persone che vengono riportate in Libia il segno delle conseguenze del Memorandum firmato da Gentiloni e mai messo in discussione dai successivi governi. Contemporaneamente alla definizione di un’area di intervento della guardia costiera libica si è assistito a una sempre maggiore difficoltà di operare da parte delle organizzazioni umanitarie di salvataggio. Chiara Denaro di Alarm Phone, un gruppo di volontari che gestisce un contatto di emergenza di supporto per le operazioni di recupero, racconta della prima volta in cui, nel 2017, la guardia costiera italiana rispose a una loro segnalazione dicendo di rivolgersi agli omologhi libici. Negli anni i volontari hanno potuto documentare una “serie di manovre pericolose” effettuate da parte della guardia costiera libica, “dall’uso di armi da fuoco alla violenza fisica sulle persone, a manovre in mare per intercettare barche che mettevano a rischio quelle barche. Tutta una serie di operazioni che non mostrano alcun riguardo per la tutela della vita umana. A noi le persone al telefono raccontano il loro timore di essere riportate in Libia, ci dicono di preferire la morte”. Anche Valentina Brinisi di Open Arms riporta la stessa difficoltà da un altro punto di vista, quello di chi sta in prima linea in mezzo al mare e si trova ad essere spesso esposto al pericolo di avere a che fare con un corpo “di cui non si conosce la composizione. Quando sei di fronte la guardia costiera libica non sai davvero con chi hai a che fare”. Il rinnovo del Memorandum Italia-Libia significa il perpetrarsi di questo meccanismo ipocrita per cui l’Italia formalmente non si macchia di atti contrari al diritto internazionale, ma finanzia chi lo fa per lei. Un’ipocrisia la cui banalità si manifesta chiara nelle emozioni che Yambio David Oliver dice di provare nei confronti dell’Italia. parole che Yambio David Oliver. “Dolore” e “vergogna”. Di fronte a un “Paese che dice di avere un grande riguardo per i diritti umani e allo stesso tempo causa terrorismo”. Pur sapendo cosa succede in Libia perché “tutto è stato documentato e presentato ai governi italiani ed europei, le violenze che sono state commesse contro di noi, in Libia”. Stati Uniti. Guantánamo, rilasciato il detenuto più anziano del super carcere La Repubblica, 30 ottobre 2022 A 75 anni Saifullah Paracha è libero dopo quasi 20 anni di detenzione. Non è mai stato incriminato. Il suo trasferimento, annunciato dal governo pachistano, è arrivato dopo mesi di negoziati. Dopo vent’anni rinchiuso a Guantánamo, è stato liberato il più vecchio prigioniero del carcere militare della base navale americana a Cuba. Con tre attacchi di cuore, il diabete, l’alta pressione, eppure considerato per anni “troppo pericoloso” per essere rilasciato, ma alla fine, a 75 anni, Saifullah Paracha è uscito. Il suo trasferimento, annunciato dal governo pachistano, è arrivato dopo mesi di negoziati. Il Pentagono non ha voluto fornire dettagli, ma la storia di Paracha è conosciuta dai media americani. Adesso c’è anche una foto: si vede l’ex prigioniero seduto da solo a un tavolo di un McDonald’s a Karachi, Pakistan. L’aria appare pensierosa. Paracha era stato tra i primi ad arrivare nella prigione di Guantánamo, voluta dal presidente degli Stati Uniti George W. Bush, all’indomani della Guerra al terrorismo dichiarata dopo l’attacco dell’11 settembre 2001. Residente legalmente a New York, uomo d’affari prima nel Queens poi in Pakistan, dove esportava vestiti per le grandi catene americane, Paracha era stato arrestato nel 2003, a 56 anni, in un’operazione dell’Fbi in Thailandia. Era accusato di aver aiutato Khalid Shaykh Muhammad, un terrorista pachistano famoso per avere almeno cinquanta pseudonimi e le mani in pasta in una serie di stragi di civili, tra cui l’attacco alle Torri gemelle. Uomini d’affari si erano spacciati per rappresentanti di una corporation americana con l’obiettivo di attirare Paracha a lasciare la sua città, Karachi, per andare a Bangkok e discutere di affari. Una volta arrivato all’incontro, il pakistano aveva trovato gli agenti dell’Fbi che lo avevano incappucciato, legato e trasferito segretamente in Afghanistan. Qui, nella prigione di Bagram, aveva avuto un infarto. Invece di mandarlo in una delle prigioni segrete gestite dalla Cia per torturare i prigionieri, l’amministrazione Bush aveva deciso di trasferirlo a Guantanamo, facendo di lui già allora uno dei più anziani a essere rinchiuso nella base navale. “Saifullah non sarebbe mai dovuto finire a Guantanamo - ha commentato al New York Times un avvocato impegnato nella difesa dei diritti umani, Clive Stafford Smith - perché era già il più anziano. Io ho sempre temuto che potesse avere un quarto attacco di cuore e morire. Sono felice che sia riuscito a tornare a casa”. Nei primi anni della prigionia, Paracha aveva ricevuto solo un’assistenza cardiaca di base, anche se lui aveva chiesto più volte di essere sottoposto a intervento chirurgico, che fosse stato negli Stati Uniti o in Pakistan. Per anni aveva presentato ricorsi in tribunale, sostenendo la sua innocenza: quando aveva incontrato il terrorista Khalid Shaykh Muhammad, disse più volte, non conosceva la sua vera identità e tanto meno il suo coinvolgimento nell’attacco dell’11 settembre. Mesi dopo l’arresto, la stessa sorte era toccata al figlio maggiore, Uzair, catturato a New York, dove viveva, incriminato a 23 anni e condannato a trent’anni di carcere per aver fatto entrare in Usa un membro di Al Qaeda. Nel 2018 le accuse cadute, e nel 2020 i procuratori hanno prosciolto il figlio di Paracha. Uzair, 42 anni, ha ottenuto di tornare in Pakistan a patto di rinunciare alla green card che aveva ottenuto come residente permanente negli Stati Uniti. Adesso è libero anche il capo famiglia, ma di una famiglia stravolta dalle lunghe detenzioni. La moglie di Paracha aveva chiesto il divorzio anni fa. Saifullah, ormai calvo con una lunga barba bianca, ha confidato ai familiari che vuole provare a riprendersi la sua vita, ma prima deve sottoporsi a un intervento chirurgico al cuore, operazione che per anni gli Stati Uniti gli hanno negato. Stati Uniti. In carcere 38 anni da innocente: detenuto afroamericano scagionato dal test del Dna di Davide Falcioni fanpage.it, 30 ottobre 2022 Maurice Hastings, 69 anni, è stato scarcerato: dopo 38 anni è riuscito a dimostrare la sua innocenza nell’omicidio di Roberta Wydermyer, avvenuto nel 1983. Dopo aver trascorso 38 anni in carcere nonostante fosse innocente un detenuto 69enne afroamericano, Maurice Hastings, nove giorni fa è stato rilasciato perché è stata finalmente provata la sua innocenza. L’uomo era stato condannato nel 1988 con l’accusa di ave commesso l’omicidio di Roberta Wydermyer, avvenuto nel 1983, e di aver tentato di uccidere altre due persone. Dopo l’esame del Dna, che l’ha definitivamente scagionato, il giudice distrettuale della contea di Los Angeles, George Gascon, ha annullato la condanna. “Quello che è accaduto ad Hastings è una ingiustizia terribile - ha affermato Gascon - Il sistema giudiziario non è perfetto. Quando veniamo a conoscenza di nuove prove che ci fanno perdere fiducia in una convinzione, è nostro obbligo agire rapidamente”. Nel corso di una conferenza stampa Hastings ha commentato: “Non voglio accusare nessuno, non voglio essere un uomo rancoroso, adesso voglio godermi la vita. Ho pregato per molti anni che questo giorno arrivasse”. Il 69enne aveva richiesto il test del Dna nel 2000, ma inizialmente tale richiesta non era stata accolta. Lo scorso giugno, è emerso che il Dna recuperato sulla scena del delitto combacia con quello di un uomo morto nel 2020 mentre scontava una condanna per rapimento e stupro. Roberta Wydermyer venne violentata e poi uccisa con un solo colpo di pistola alla testa. Il suo corpo venne trovato nel 1983 nel bagagliaio della sua auto in un sobborgo di Los Angeles. Per l’omicidio era stato accusato Hastings, che però si è sempre dichiarato innocente. L’accusa aveva chiesto per lui la pena di morte, ma poi era stato condannato all’ergastolo. Al momento dell’autopsia, sul corpo erano state rinvenute tracce di sperma: Hastings aveva chiesto che venissero sottoposte a un test del Dna nel 2000, ma solo di recente la sua richiesta è stata accettata.