Riparativa, Cartabia: “Giustizia mite sì, ma non debole” di Fiorenza Elisabetta Aini gnewsonline.it, 2 ottobre 2022 È la diffusione di una nuova cultura della giustizia, l’impegno che Marta Cartabia assume su di sé per il futuro: far conoscere la giustizia riparativa. “Una giustizia mite, ma niente affatto debole”, chiarisce parlando a Milano al Festival della missione, alla Colonne di San Lorenzo, dialogando con Ferruccio de Bortoli, editorialista del Corriere della Sera, e Adolfo Ceretti, criminologo, con esperienza ventennale di mediazione, che ha guidato il gruppo ministeriale di lavoro sulla giustizia riparativa. La Ministra sottolinea come di fronte al reato “il carcere è necessario, per mettere al riparo i cittadini da minacce e fermare la pericolosità di alcuni soggetti”. Ma può esserci una pluralità di risposte penali, come la messa alla prova, i lavori di pubblica utilità, tutte forme di ristoro per la società e per le vittime. E poi può esserci la strada parallela della giustizia riparativa, possibile solo con il consenso di entrambe le parti coinvolte, la vittima e il responsabile del reato. “L’autore di un reato guarda negli occhi la vittima e la vittima accetta di incontrarlo: si genera così una capacità ricostruttiva”. La Ministra, mentre passano le immagini di due brevi video dedicati al racconto di Alby Griffith, una donna irlandese che ha incontrato l’uomo che le ha usato violenza, e a Manlio Milani, il presidente dell’associane familiari delle vittime di piazza della Loggia, ha ricordato che è proprio grazie ad Adolfo Ceretto, se ha potuto conoscere il percorso parallelo che compie la giustizia riparativa rispetto alla giustizia penale. E ha ricordato il “Libro dell’incontro”, sull’esperienza di dialogo tra vittime degli Anni di piombo - “un pezzo della nostra storia ancora sanguinante per tanti motivi”, ha detto la Guardasigilli - e protagonisti della lotta armata. Quello della giustizia riparativa è un percorso che può restituire “forza ed energia” come ha spiegato Griffith, che riconosce il ruolo di protagonista alla vittima, “perché nel nostro processo penale tutto è teso a punire l’autore del reato” ha ricordato la ministra Cartabia. Un’assunzione di responsabilità che il colpevole si assume guardando negli occhi chi ha subito gli effetti della violenza. Totoministri, per la Giustizia in lizza anche Nordio. Il no di Meloni all’ipotesi Moratti di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 2 ottobre 2022 Tra i papabili per le Infrastrutture spunta il forzista Cattaneo. La Lega concentrata sull’Agricoltura, cresce Centinaio. Giorgia Meloni ha sempre detto di non credere alle quote rosa. Nella storia dei governi repubblicani solo il primo governo Renzi è riuscito a centrare l’obiettivo della parità di genere, con otto donne su sedici ministri. Poi la rappresentanza femminile è ripresa a scendere: anche l’esecutivo di Mario Draghi è rimasto lontano dall’obiettivo, con otto dicasteri guidati da una ministra, otto su 23. La leader di Fratelli d’Italia, nonostante le riserve ideologiche, vorrebbe invece tornare ad alzare la media. Le ultime notizie sulle elezioni in attesa del nuovo governo - Forse anche per questo al ministero degli Esteri tutte le indiscrezioni continuano a scommettere su un ritorno di Elisabetta Belloni alla Farnesina: l’attuale capo del Dis, il dipartimento che coordina l’attività dei nostri servizi segreti, è ormai da alcuni anni considerata una riserva della Repubblica, con un lunga e apprezzata carriera diplomatica alle spalle, culminata nella guida istituzionale, come Segretario generale, del ministero degli Esteri. Ma in un ministero chiave, almeno fra quelli che andranno condivisi con il capo dello Stato, secondo una prassi che ha fondamenti costituzionali consolidati, andranno anche esponenti di Forza Italia: Antonio Tajani potrebbe aspirare anche lui a guidare la politica estera, o in alternativa approdare alla prima poltrona del Viminale. La Lega, con Giulia Bongiorno, potrebbe prendere la Giustizia, che ha al vertice dell’organo di controllo, il Csm, proprio il presidente della Repubblica. Come del resto la Difesa, essendo Mattarella anche capo delle forze armate, che al momento viene data in quota Fratelli d’Italia, forse con Adolfo Urso, attuale presidente del Copasir. Sono ipotesi di un gioco di incastri in cui le fonti, almeno quello prevalenti, cercano più che altro di intuire, o provare a influenzare, i passi di queste ore di Giorgia Meloni. Lei a tutti i suoi interlocutori ha chiesto il massimo della riservatezza. Fra i ministri di Forza Italia sono sempre in pole position, almeno nei desideri di Berlusconi, sia Anna Maria Bernini che Licia Ronzulli. In pista ci sarebbero anche Alessandro Cattaneo, per le Infrastrutture e Gian Marco Centinaio, per l’Agricoltura: una curiosità, l’azzurro e il leghista sono stati sindaco e vicesindaco di Pavia dal 2009 al 2014. Ma sui nomi circola di tutto e molto dipende anche dalla scelta o meno di fare due vicepremier, e dall’equilibrio che verrà trovato per le due presidenze del Parlamento. Salvini, se fosse numero due del governo, potrebbe aggiungere le deleghe del ministero del Lavoro. Mentre per il posto più delicato, quello dell’Economia, continuano a essere accreditati sia Fabio Panetta, oggi nel board della Bce, sia Domenico Siniscalco, già ministro nei governi Berlusconi. Anche Carlo Nordio sarebbe in corsa con la Bongiorno per guidare la Giustizia. Lambisce la formazione del governo anche lo scontro politico in corso fra Letizia Moratti e Attilio Fontana, fra il governatore della Lombardia e la sua vice. Entrambi vogliono correre alle elezioni dell’anno prossimo per la Regione, il rapporto fiduciario fra i due si è ormai spezzato, l’ultimo tentativo in extremis di una ricomposizione sarebbe una richiesta della Moratti. Andare al governo, alla Salute. Ipotesi che Meloni ha già escluso. Inizia la stagione dei congressi per l’avvocatura e la magistratura di Giulia Merlo Il Domani, 2 ottobre 2022 Concluse le due tornate elettorali quasi parallele - quella del Csm e quella politica - e in attesa di capire che cosa succederà e chi sarà il nuovo ministro di via Arenula, riprende l’ordinaria attività del mondo della giustizia. Ottobre è il mese dei congressi: quello dell’avvocatura, dal 6 all’8 ottobre a Lecce, e quello dell’Associazione nazionale magistrati, dal 14 al 16 ottobre a Roma. Sul fronte dei contenuti e dopo molte newsletter dedicate quasi interamente alla magistratura, trova spazio il dibattito interno all’avvocatura. Il primo contributo è quello dell’avvocato Giulio Micioni, presidente del Consiglio distrettuale di disciplina forense di Roma, che analizza l’esperienza di questo organo che esercita l’azione disciplinare per l’avvocatura e, con i dati, presenta il quadro di una avvocatura “sana” e di Cdd all’altezza del ruolo che la legge professionale gli ha affidato. A seguire, il presidente dell’Unione camere civili, Antonio De Notaristefani, tira le somme della riforma civile della ministra Marta Cartabia, di cui sono stati approvati anche i decreti attuativi. Infine, i giuristi Gatt, Viola, Caggiano e D’Aietti propongono un esame della cosiddetta “polizia predittiva” e di questo strumento di intelligenza artificiale sconosciuto ai più ma nel cui utilizzo l’Italia è molto avanti. Chiusi i decreti attuativi della riforma Cartabia - Il Consiglio dei ministri ha definitivamente approvato i tre decreti legislativi di attuazione della riforma della giustizia civile e penale e dell’ufficio per il processo. “Ora le riforme della giustizia, fondamentali per il Pnrr, sono state approvate in via definitiva. Sono riforme importanti e di sistema, che agiscono in profondità e che nel tempo restituiranno al Paese una giustizia più vicina ai bisogni dei cittadini”, è stato il commento della ministra Marta Cartabia, che ha espresso soddisfazione per la chiusura di questo difficile capitolo per il governo uscente. A non trovare attuazione con decreto è la riforma dell’ordinamento giudiziario, su cui il centrodestra vincitore delle elezioni ha già annunciato la volontà di modifiche sostanziali. L’unica parte immediatamente attuativa è stata quella della legge elettorale del Csm, utilizzata nella tornata elettorale appena conclusa. Stabilizzate le videochiamate per i detenuti - Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria guidato da Carlo Renoldi ha trasmesso due circolari che hanno reso stabile e regolamentato l’uso di videochiamate da parte dei detenuti e nuovi percorsi per il sostegno psicologico alla Polizia penitenziaria. Si intende “favorire il ricorso alle videochiamate, particolarmente idonee ad agevolare il mantenimento delle relazioni familiari e soddisfare le imprescindibili esigenze di sicurezza”, nel rispetto del diritto costituzionale del mantenimento delle relazioni familiari. Così, lo strumento è stato esteso a tutti i circuiti penitenziari, ad eccezione del regime speciale previsto dall’art. 41bis. Congresso nazionale forense - È in programma a Lecce dal 6 all’8 ottobre il XXXV Congresso Nazionale Forense. I temi saranno: un nuovo ordinamento per un’Avvocatura protagonista della tutela dei diritti nel tempo dei cambiamenti globali; l’attuazione delle riforme e gli effetti, anche economici, sull’esercizio della professione; il ruolo e le nuove competenze degli avvocati nell’automazione dell’organizzazione e della decisione giudiziaria. “Per l’Avvocatura è il momento del cambiamento: sia rispetto al nostro ruolo all’interno del processo, che alcuni interventi tendono a limitare, sia fuori del processo - ha detto la presidente del CNF, Maria Masi -. Gli effetti delle riforme approvate in taluni casi sono penalizzanti perché comprimono il diritto di difesa”. “Questo Congresso si apre a distanza di 10 giorni dalle ultime elezioni, per la prima volta non avremo un ministro in carica ospite e per la prima volta l’Avvocatura rinnoverà tutte le sue rappresentanze”, ha detto il coordinatore dell’OCF Sergio Paparo. Il congresso dell’Associazione nazionale magistrati - Dal 14 al 16 ottobre is svolgerà a Roma il XXXV congresso nazionale dell’Associazione nazionale magistrati, dal titolo: diritti e giurisdizione al tempo della ripresa. “Il Congresso - XXXV - che interviene dopo una prolungata stasi imposta dalle misure sanitarie di prevenzione del contagio pandemico, è una straordinaria occasione di approfondimento sui compiti che la giurisdizione, come indefettibile e qualificante aspetto dello Stato democratico, assume nei momenti in cui le comunità, nazionali ed europee, sono messe a dura prova. La prospettiva è quella della costruzione o ri-costruzione di assetti capaci di restituire o arricchire l’efficienza della risposta ai bisogni di tutela dei diritti. Occorre infatti guardare alle crisi senza lasciarsi prendere dal senso di scoramento che pure si avverte, e focalizzare sforzi ed energie alle opportunità che offrono”. Palermo. Situazione esplosiva nelle carceri, “Sindaco nomini il Garante comunale dei detenuti” di Veronica Femminino blogsicilia.it, 2 ottobre 2022 “È necessario più che mai che il sindaco Lagalla nomini con urgenza il Garante comunale dei diritti dei detenuti”. È l’appello rivolto dal comitato “Esistono i diritti” trans-partito al primo cittadino di Palermo. Il comitato è nato 10 anni fa su iniziativa dell’attivista Gaetano D’Amico, che spiega a BlogSicilia le ragioni della richiesta: “È una battaglia umanitaria e di civiltà iniziata oltre quattro anni fa e portata avanti anche con sit-in e scioperi della fame. La situazione delle carceri in Italia, in generale, è gravissima, e a Palermo, nello specifico, è esplosiva. Durante la sindacatura di Leoluca Orlando è stato finalmente approvato il Regolamento comunale per i diritti dei detenuti. Poi si sono svolte le elezioni amministrative, e sono arrivati nuovo sindaco, giunta e consiglio comunale. Il Regolamento dice che il garante comunale deve essere nominato dal sindaco. Chiediamo a Roberto Lagalla un incontro urgente, e di procedere alla nomina del garante comunale”. Il ruolo del Garante comunale - Aggiunge D’Amico: “In merito ai diritti dei detenuti, esistono il Garante nazionale e quello regionale ma, nonostante il loro impegno, necessitano altre figure. Il garante comunale servirebbe a coadiuvare quello regionale nel suo lavoro, ad aiutarlo. Compito del garante comunale sarebbe visitare le carceri e capire le criticità, rendersi conto della realtà detentiva, segnalare necessità e interventi da attuare per rendere le carceri luoghi più ‘umani’“. La situazione a Palermo - Il fondatore del comitato ribadisce che a Palermo la situazione delle carceri è davvero grave. “Sono posti invivibili - precisa -. Noi sappiamo che mancano psicologi e assistenti sociali, talvolta anche i farmaci che devono assumere i detenuti tossicodipendenti. A trovarsi in una situazione di grande difficoltà anche gli agenti penitenziari, che soffrono per carenza di personale e turni massacranti, e spesso subiscono aggressioni. La tensione nelle carceri palermitane è una realtà tristemente nota. Ecco, il garante comunale potrebbe intervenire per aiutarli, mettendo in atto provvedimenti che possano far diventare gli istituti penitenziari luoghi realmente rieducativi”. I suicidi nelle carceri - Dilagante poi il tristissimo fenomeno dei suicidi nelle carceri, e la città di Palermo ne sa qualcosa. Basta citare gli ultimi casi, relativi all’anno in corso. D’Amico fornisce i dati: L’8 febbraio scorso un detenuto di 25 anni si è suicidato al carcere Ucciardone. Stessa fine per un detenuto tunisino, recluso sempre all’Ucciardone, il 6 aprile. Il 15 settembre è morto nel reparto di rianimazione dell’ospedale Civico di Palermo Roberto Pasquale Vitale, il 29enne che aveva tentato di impiccarsi nel penitenziario Pagliarelli. Il giovane era stato trovato con un lenzuolo attorno al collo e soccorso dagli agenti della polizia penitenziaria. Le sue condizioni appena giunto in ospedale furono ritenute da subito molto gravi dai medici. Poi il coma e infine la morte dopo giorni di agonia. Il 19 settembre un altro detenuto straniero ha cercato di togliersi la vita legandosi le lenzuola attorno al collo nella nona sezione del carcere Ucciardone. È stato soccorso dagli agenti penitenziari in servizio. “Suicidi e tentati suicidi - commenta D’Amico - ci danno la misura del fatto che le carceri sono luoghi di sofferenza e non dovrebbe essere così. In Italia è scarsamente applicato l’articolo 27 della Costituzione, il quale dice che la pena deve essere rieducativa e non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità. Considerato quanto avviene nelle nostre carceri - conclude D’Amico - crediamo sia prioritario intervenire, ed in tempi brevi. Noi ci battiamo per i diritti di tutti, e quelli dei detenuti non sono da considerare diritti di serie B”. Firenze. Si impicca in cella a Sollicciano: morto in ospedale di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 2 ottobre 2022 Una storia drammatica, quella del giovane che ha tentato il suicidio impiccandosi con un lenzuolo. Martedì un momento di preghiera per lui. È morto sabato mattina all’ospedale di Careggi il detenuto marocchino che nei giorni scorsi aveva tentato di togliersi la vita impiccandosi all’interno della sua cella nel carcere di Sollicciano. Si chiamava D.A., aveva 26 anni. Una storia drammatica, quella del giovane che ha tentato il suicidio impiccandosi con un lenzuolo. Aveva lasciato il Marocco circa dieci anni fa per tentare la fortuna in Italia, ma si era ritrovato senza documenti e senza lavoro, così aveva iniziato a guadagnarsi da vivere con attività criminali come lo spaccio di droga. Era stato arrestato a Prato ne 2015, poi fu liberato ma era finito di nuovo nel giro dello spaccio. Viveva tra Livorno e Firenze ed è stato arrestato mentre trasportava sostanze stupefacenti a bordo di un motorino. Negli ultimi tempi aveva dato segni di squilibrio mentale. “Chiamava tutti i giorni i genitori rimasti in Marocco - racconta Fatima Benhijji, volontaria a Sollicciano per conto dell’associazione Pantagruel - Non appena è stato arrestato, la sua prima richiesta è stata quella di chiamare la madre che non aveva notizie di lui da parecchi giorni”. Poi, a metà settembre, il gesto estremo dentro il bagno della sua cella. È stato soccorso dal compagno di cella, poi da un agente penitenziario, quindi è stato trasportato con urgenza all’ospedale, dove è rimasto in coma farmacologico per diversi giorni, prima dell’epilogo finale. In patria vivono anche due sorelle, mentre una terza abita in Sicilia e nei giorni scorsi si è precipitata a Firenze per andare a trovare il fratello in ospedale. Per non dimenticare, il cappellano di Sollicciano don Vincenzo Russo e l’imam di Firenze Izzeddin Elzir promuoveranno un momento di preghiera. Insieme a loro ci sarà anche l’imam del penitenziario fiorentino Hamdan Al-Zeqri. L’appuntamento è per martedì alle 19 a Casa Caciolle, in via di Caciolle 5. “Con questo momento commemorativo - ha detto don Russo - vogliamo esprimere vicinanza alla famiglia di questo ragazzo che sta lottando tra la vita e la morte in ospedale. Vogliamo lottare per chi non ha più forza e far giungere a tutti la voce di chi è vittima di inumano trattamento all’interno del carcere”. Sarà una serata di preghiera e riflessione, è stato spiegato dai promotori, oltre ogni confine culturale e religioso, con la quale riaffermare l’inviolabilità di diritti umani che quotidianamente sono calpestati nelle vite dei detenuti e per condividere l’imperativo, umano ed universale, del rispetto della dignità di ogni persona. Sarà una preghiera, ha aggiunto don Russo, “per elevare una voce di protesta e cambiamento contro questa inaccettabile piaga che affligge il carcere di Sollicciano e tanti altri istituti detentivi italiani”. Bologna. Suicida mentre è agli arresti domiciliari: nessuno ha evitato un gesto prevedibile di Vito Totire* labottegadelbarbieri.org, 2 ottobre 2022 Apprendiamo la terribile notizia di un “suicidio” a Casalecchio avvenuto il 28 settembre. Conosciamo molti particolari del triste evento che ci sono stati riferiti da amiche della persona che ha compiuto quello che la letteratura definisce “insano gesto”. In verità insano è il contesto e insani sono i determinanti sociali. In tutta Italia la politica di prevenzione del suicidio è a zero; ogni tanto un convegno, qualche pubblicazione scientifica, in generale chiacchiere e pure poche. Abbiamo visto una campagna elettorale in cui la parola carcere quasi mai è stata pronunciata … oppure per aumentare il peso del carcere nel nostro Paese. La persona di Casalecchio di Reno (evitiamo di dire il nome e diversi altri particolari che abbiamo appreso) era agli arresti domiciliari e gravata del ruolo di caregiver nei confronti di un parente di primo grado che, da quanto possiamo sapere, oggi rimane ancora più solo. Ci viene riferito di una sua ricerca di lavoro; ricerca difficile evidentemente da far coincidere con i carichi familiari ma evidente segno di una condizione di grave bisogno economico. Il gesto era prevedibile? Era prevenibile? Dalle poche informazioni che abbiamo ricevuto a noi pare che si potrebbe rispondere positivamente a fronte di segnali evidenti di vulnerabilità. Ma chi poteva o doveva coglierli? Qui è il buco nero della prevenzione del suicidio in Italia (e nel mondo): l’esperienza di come si potrebbe realizzare una rete di prevenzione dalla quale non ci si può attendere miracoli o l’azzeramento totale delle condotte suicidarie ma ci si può aspettare una concreta riduzione degli eventi. Una rete che oggi non esiste e nella quale dovrebbero entrare in sinergia: servizi sociosanitari, sistema educativo (per i giovani), medico di base, volontariato, vicinato e infine i famosi “Consigli di Aiuto Sociale” previsti dalla legge di riforma penitenziaria del 1975 e mai costituiti in Italia con l’eccezione del tribunale di Palermo. Si tratta di una struttura che deve occuparsi del reinserimento socio-lavorativo delle persone che transitano dalle carceri verso la libertà. Esiste questo consiglio a Bologna? A noi risulta di no. Non vogliamo usare l’occasione per accusare altri. Siamo tutti responsabili del cosiddetto “insano gesto” visto che, ancora una volta nessuno è riuscito ad arrivare il giorno prima. Cresce dunque l’orribile sequenza di morti correlati al funzionamento del sistema giudiziario-carcerario (i freddi dati sui suicidi in crescita dal 2021 al 2022 sono noti a tutti anche grazie a Radio carcere, che trasmette martedì-giovedì dalle 21 su Radio radicale. Fino a quando? Speriamo che il sentimento di lutto non induca solo sconforto e disperazione ma possa trasformarsi in lotta per il cambiamento e per una società più giusta. Che il comune di Casalecchio proclami una giornata di lutto cittadino e in quella giornata fermiamoci a pensare. Per ora abbiamo fallito tutti. *Psichiatra e portavoce della “Rete Europea per l’Ecologia Sociale” Genova. Al carcere di Marassi riprende la protesta delle pentole contro sovraffollamento genovaquotidiana.com, 2 ottobre 2022 Stoviglie e pentole contro le grate, ieri sera e questa mattina. I detenuti denunciano condizioni di invivibilità. I posti previsti nella casa circondariale sono 456, ma le persone ristrette sono ben 710, 254 in più. Nel quartiere risuona da ieri sera il rumore delle pentole e delle stoviglie sbattute contro le grate del carcere dai detenuti. La situazione viene denunciata da tempo non solo dalle organizzazioni che tutelano la dignità delle persone che stanno scontando pene nell’istituto carcerario genovese, mentre i sindacati dei lavoratori che operano nella casa circondariale genovese criticano le condizioni in cui essi sono costretti a fare il loro lavoro. L’ultima protesta è arrivata dalla Fp Cgil che ha stigmatizzato “Insalubri e indecorose condizioni di servizio”. Oggi i detenuti, con la loro rumorosa protesta, chiedono anche più telefonate e videochiamate, sostenendo che gli erano state promesse. Roma. A Rebibbia tra i detenuti in cerca di lavoro. “Ero uno chef, non sbaglierò più” di Alessandro Trocino Corriere della Sera, 2 ottobre 2022 Nella stanza dei colloqui con gli imprenditori che offrono un impiego fuori dal carcere. Oreste: “Ho due figli, ma non sono dove sono. Vorrei ricominciare”. La città dei reclusi è un labirinto a quattro blocchi, davanti a un lungo viale d’asfalto, una sbarra per le auto e il gabbiotto che segna la fine del mondo libero. Da una parte Rebibbia, il quartiere che Zerocalcare ha sganciato dall’immaginario carcerario, dall’altra il luogo di punizione o di “espiazione”, come se dentro ci fossero peccatori e non criminali o magari innocenti in attesa che la giustizia muova i suoi pesanti ingranaggi. Arriviamo al Nuovo complesso, una palazzina grigia dai muri scrostati, un martedì mattina, in taxi, senza aver commesso reati. Sono insieme a un gruppo di chef e proprietari di ristoranti. Lasciamo cellulare e dubbi all’ingresso, in cassette di sicurezza di cemento. Due ore dopo esco da solo, scortato da un agente dal basco azzurro. Un uomo di mezz’età, che non ha gli occhi mobili e guizzanti di certi ragazzetti freschi di cella che abbiamo incontrato qui, occhi che rimbalzano sui muri della stanza senza trovare pace. Non ha neanche l’espressione vuota di altri reclusi, fissa su un punto immaginario. L’uomo in divisa non mostra particolari emozioni. Ne ha viste troppe, probabilmente, o non prova nulla. Ma probabilmente è solo la rassegnazione di chi ha vissuto buona parte della sua vita là dentro. “Sono rinchiuso qui da 20 anni. Quasi un ergastolo”. Sia pure dalla parte dei “buoni”. Tra i “buoni”, ma con sensibilità e idee completamente diverse, c’è un’ispettrice (lei dice “ispettore”), che è l’incarnazione della Costituzione, la migliore depositaria del verbo dell’articolo 27, quello che recita solennemente che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Cinzia Silvano è sui 40 anni, capelli nerissimi raccolti in un codino, modi spicci e sbrigativi avvolti da una patina di ironia. Ci accoglie in uno stanzino dove c’è un ritratto di Eva Kant, identico a lei, un regalo dei detenuti. C’è anche Flavia Filippi, che di lavoro fa la cronista di giudiziaria a La7, ma che da qualche mese offre tempo, anima e corpo a un progetto che ha chiamato “Seconda chance”. Chi non merita una seconda chance? I detenuti, per esempio. Sbagli, ti acchiappano, finisci dentro. Giustizia è fatta. La società si deve proteggere dal pericolo. La pena è retribuzione, è catarsi: hai fatto del male, devi essere sanzionato. Solo la punizione ristabilisce l’ordine morale, rammenda il tessuto strappato della società. La pena è anche deterrenza: impedisco a te di fare altro male e do l’esempio. Ed è rieducazione, anzi reinserimento, per non usare il linguaggio etico del passato: ti aiuto a diventare una persona diversa, spezzo il circolo vizioso, abbasso il tasso di recidiva. Belle teorie, da confrontare con la realtà. A marzo un detenuto di Rebibbia ha colpito un agente in faccia, con un estintore. A giugno, un altro è stato ferito da un punteruolo. Ricordarselo, quando si ripensa all’uomo stanco che ci accompagna fuori. Ma allora, l’ispettore Cinzia Silvano? Come si spiega il suo entusiasmo ruvido, pragmatico, diretto? Nel corridoio di fronte alla cella colloqui c’è una bacheca. Gli scrivani F. e P. (laureati in Giurisprudenza) affiggono le offerte di lavoro degli imprenditori, stampate con tre macchine regalate dalla Prink. Seconda Chance si propone una cosa semplice: mettere in contatto con i potenziali datori di lavoro i detenuti che avrebbero diritto a uscire dal carcere per lavorare all’esterno. Finora ha trovato lavoro a 110 persone. C’è una legge, che prende il nome dall’ex partigiano e parlamentare dem Carlo Smuraglia, che consente, a certe condizioni, il lavoro all’esterno, con sgravi per chi si prende l’onere di assumere, anche a tempo determinato, un detenuto. Siamo qui per questo, in questa stanzetta di Rebibbia, uguale alle altre ma con la porta aperta. Dietro il tavolo ci sono Silvano e Filippi, come maestre in cattedra. Di fianco, un’educatrice e il datore di lavoro. Oggi ci sono chef e proprietari di ristoranti, ma ad assumere sono anche enti pubblici, grandi aziende private, associazioni. A turno entrano i detenuti. Si siedono di fronte allo chef e riassumono la loro vita in due minuti. “Mi chiamo Oreste, sono nato nel 1982, vivevo a Ponte di Nona. Ho due figli ma non so più dove sono. Avevo un banco di frutta con mio padre. Mia madre è morta che avevo cinque anni. Chef, voglio solo lavora’”. Lo chef è il barbuto Romano Luzzi, dell’omonima trattoria vista Colosseo, un uomo spiccio, con quella simpatia brutale tipica dei romani: “Non so’ chef, so’ cuoco de ‘na trattoria. Amico mio, ricordati che quanno esci te devi dimentica’ tutta ‘a monnezza che c’è sta qua dentro”. Oreste fa sì con la testa. Il ristoratore non sa nulla di lui: solo a colloquio finito avrà la sua scheda e saprà che è in carcere per reati di droga. Entra Daniele, terzo di dieci fratelli, di Taurianova, in Calabria. Prima avevano due locali, poi la madre ha affittato ai cinesi ed è finita in carcere. Sa fare il pizzaiolo e il muratore, ha una figlia di 20 anni. Ha l’occhio perso nel vuoto, si riscuote solo quando viene chiamato. Entra Shegow, nato a Torbellamonaca da genitori somali, sembra un rapper: capelli biondi ossigenati, camicia bianca, orologio di marca. Ha due fratelli, anche loro qui. A Rebibbia ha lavorato due anni in cucina e tre come portavitto: “Solo il Signore mi può aiutare”, dice con posa teatrale. “Ma quale Signore, ti aiutiamo noi”. Antonello, 57 anni, di Nettuno, tentata rapina, fine pena 2031: “Certo che so cucinare, avevo una tavola calda ad Aprilia. Preparavo ravioli, gnocchi, pizze. Qui mi son costruito da solo un fornetto, so fare tre tipi di carbonara”. Lo chef ha un sussulto: “Nun di’ eresie, la carbonara è una”. Ex benzinaio, ex macellaio da Italcarni a Nettuno, giocava in serie D con l’Anziolavinio. Porta una collana di perle, i calzoncini corti, le Asics. Fuori dalla cella c’è una piccola fila di detenuti, in attesa. Provano a darsi un contegno, a mostrarsi degni di un lavoro. C’è chi non ha dormito, chi aspetta questo appuntamento da mesi. Entra Alessio, classe 1984, di Ottavia, due bambine di 5 e 6 anni. Faceva il cameriere sulla Giustiniana e in via Fani, ha gestito il ristorante del Circolo di tennis Casetta bianca. Era libero, poi quando i suoi reati di droga del 2009 sono diventati definitivi, dieci anni dopo, è andato a costituirsi. “Dottoressa, se sbaglio mandami pure al G9”. I reparti sono sette, disposti su tre piani. Il G8 è il migliore, ospita i definitivi, di lungo corso. Qui c’è la cosiddetta “sorveglianza dinamica”: le porte sono aperte per 12 ore, c’è una sala musica, un’area bricolage. Il patto è ferreo: chi sgarra viene trasferito. Arriva al colloquio Giulio, condannato per narcotraffico, la faccia seria: verrà assunto da un noto bistrot di Roma Nord e il personale farà una colletta per comprargli una tessera Atac. Da fuori si sentono le urla, è una detenuta trans. Entra, è simpatica, fa battute strampalate, tutti ridono. Poi ci spiegano: “Passa da un Opg all’altro”. Gli Opg erano gli ospedali psichiatrici giudiziari, ora Rems. L’ultimo della fila è un altro Alessio, classe 1998, di Monterotondo, ex carrozziere, in carcere da 3 anni, con l’accusa di tentato omicidio: “Ma no, quale omicidio, era uno straniero ubriaco che mi ha aggredito. Mi sono solo difeso”. La chef di un ristorante di Trastevere lo sceglie per la sala. Il giorno fatidico arriverà un paio di mesi dopo il colloquio, con la decisione del Tribunale di sorveglianza. Carlo - che non usciva dal carcere da 3 anni e mezzo - da allora segue un percorso obbligato, agli stessi orari: una metro e un autobus, da Rebibbia a piazza San Cosimato. Ha un cellulare per la reperibilità, che riconsegna ogni sera, di ritorno al padiglione Venere del reparto G8. Il primo giorno di lavoro, Filippi lo ha accompagnato all’Oviesse, di fianco al ristorante, per comprare i pantaloni neri e la camicia bianca: “Lo shopping è stato velocissimo. Poi gli ho proposto di chiamare la mamma per avvisarla che tutto sta ricominciando. Ho fatto il numero con il mio telefono. Mi sono presentata, le ho passato il figlio.Lui ha detto:”Pronto ma’?”. E mi sono commossa”. Nella cella continuano i colloqui. Ci sono detenuti che già lavorano in carcere, ma fanno gli scopini, gli spesini, gli scrivani per le domandine. Non è un lavoro, è un’altra punizione. All’uscita gli chef hanno lo sguardo contento e turbato di chi sa di aver fatto la cosa giusta, con un retropensiero inevitabile: “E se ci ricasca?”. Può succedere, è un rischio calcolato. Ma non succede quasi mai: sono uomini che rinascono, non avranno una terza chance. L’agente mi guida lungo il corridoio infinito, i passi rimbombano. Provo a scherzare. “Ci vorrebbero i monopattini elettrici”. Sono lunghi canyon con le pareti bianche e azzurre. Nessun quadro, solo una finestra che dà su un campo da tennis vuoto. L’unica prospettiva ottica è una grande cancellata chiusa in fondo, porta dell’inferno o del paradiso, a seconda della direzione. L’agente mi legge nel pensiero: “Questo non è niente, vedesse gli altri corridoi. Un collega aveva preso l’abitudine di venirci in bicicletta”. Poi fa una pausa e si aggiusta il basco: “È sbagliata ‘sta cosa”. Cosa, dico sorpreso. Mentre apro bocca, ho già capito: “Questa storia che girano liberi, che vanno a lavorare, che fanno teatro, che giocano a tennis. Che ridono e scherzano. Ma cosa crede che facciano questi, quando escono? Tornano a delinquere, rubano, ammazzano. Perché sono fatti così. Non cambiano. Qui sono in vacanza”. Ma non è detto che ci ricaschino, provo a obiettare. Mi guarda negli occhi, per la prima volta: “Questi non cambiano. Fosse per me, starebbero chiusi dentro. Devono soffrire per quello che hanno fatto”. La porta di metallo si apre. L’agente mi dà le chiavi, recupero il cellulare nella cassetta di sicurezza. “Fa’ passare il giornalista”. Il cancello si apre con uno scatto. Fuori c’è il deserto, l’aria è ancora calda, ma ora si respira. Roma. A Rebibbia la scuola in carcere per crescere ed imparare un mestiere di Giovanna Pasqualin Traversa agensir.it, 2 ottobre 2022 Un Istituto tecnico con tre indirizzi: è la scuola ospitata a Rebibbia, con i suoi 550 studenti la più grande scuola in carcere d’Italia, “bellissima ma con molti problemi”, spiega al Sir Giovanni Cogliandro che la ha diretta l’anno scorso. “Si lavora in condizioni limite” perché “il tema dell’istruzione carceraria non è abbastanza considerato nel nostro Paese”, afferma auspicando una maggiore attenzione ma anche l’ampliamento dell’offerta formativa ai licei. Nell’anno scolastico 2021-2022 è stato alla guida dell’Istituto superiore John Von Neumann , istituto tecnico romano con una sede all’interno del carcere di Rebibbia; lo scorso primo settembre ha passato la mano ad un collega ma continua a seguire con passione il tema dell’istruzione carceraria, convinto che la detenzione “non abbia solo scopo punitivo”, ma debba servire a “formare persone più mature e consapevoli del loro essere cittadini”. Peculiarità del Von Neumann, ci spiega il dirigente scolastico Giovanni Cogliandro, “è l’avere in gestione la scuola superiore nelle quattro istituzioni carcerarie di Rebibbia: il Nuovo complesso, la più affollata con oltre mille detenuti dall’alta sicurezza ai reati comuni; il Carcere femminile; la Casa di reclusione che accoglie condannati in via definitiva per gravi reati a pene anche molto lunghe; la Terza Casa, realtà innovativa, dedicata alla custodia attenuata di chi ha scelto di partecipare a iniziative formative organizzate dalla direzione”. All’interno del penitenziario vi sono anche un Istituto artistico e un agrario, ma il Von Neumann - tre indirizzi: tecnico industriale, professionale servizi commerciali, perito informatico - è l’unico ad essere presente nelle quattro realtà carcerarie, e con i suoi 550 studenti (260 solo al Nuovo complesso) è la scuola in carcere grande d’Italia, attiva dagli anni 70. Tra i suoi docenti, da oltre 25 anni lo scrittore Edoardo Albinati. “La scuola in carcere è bellissima, ma ha molti problemi, si lavora in condizioni limite con carenza di mezzi e di spazi perché il tema dell’istruzione carceraria non è abbastanza considerato nel nostro Paese”, afferma senza giri di parole Cogliandro, raccontando di difficoltà con l’amministrazione penitenziaria, pur essendo un dirigente scolastico e quindi avendone diritto, ad entrare nelle quattro realtà detentive. “Chi ha commesso un reato è giusto stia in carcere, ma se riteniamo che la scuola sia la più importante delle attività educative dovrebbe essere messa in condizioni di operare”, sostiene, raccontando invece di “aule anguste, buie, inospitali” e di motivi, “a volte incomprensibili, per i quali non si consente ai reclusi di andare a lezione”. Durante il picco pandemico, osserva, “si sarebbe potuto organizzare un sistema di didattica a circuito chiuso, invece i detenuti sono stati fermi un anno, totalmente descolarizzati”. Eppure, insiste, “la funzione del carcere non è solo punitiva: l’obiettivo dovrebbe essere quello del reinserimento sociale formando persone più mature e consapevoli del loro essere cittadini. Se siamo convinti di questo, un’Amministrazione penitenziaria non dovrebbe maltrattare l’istituzione scolastica”. Come funziona concretamente la scuola? “L’orario rispecchia quello degli studenti esterni, ma le lezioni iniziano a metà ottobre e finiscono a fine maggio”. Un ostacolo alla continuità didattica, sottolinea ancora il dirigente, è costituito dai trasferimenti da un carcere all’altro, “per le più svariate esigenze, una o anche due volte l’anno. Una prassi che mina la qualità e la continuità della formazione, oltre a destabilizzare i detenuti dal punto di vista psicologico e mentale”. Forse non tutti immaginano che anche in carcere si possano incontrare persone con menti brillanti e desiderose di approfondire e crescere culturalmente. Perché, si chiede Cogliandro, ai reclusi viene offerta solo un’istruzione tecnico-professionale e nessuno pensa all’istituzione di un liceo, classico e scientifico? “Lo scorso ottobre sono state avviate interlocuzioni con i ministeri della Giustizia e dell’Istruzione per inserire anche i licei nell’offerta formativa - ci racconta -. Ne ho parlato anche con il nostro direttore generale e mi ha detto che se l’Amministrazione penitenziaria lo richiedesse, se ci fossero almeno 15-20 studenti si potrebbe partire”. Sì, perché gli ergastolani, spiega, non hanno bisogno di una formazione tecnica: “studiano per il piacere di studiare”. “Chi deve scontare lunghe pene uscirà in età anziana e quindi non mira al reinserimento sociale e lavorativo. Alcuni nostri ex allievi, che io chiamo ‘gli accademici’, si sono laureati in filosofia, lettere, giurisprudenza, economia, matematica, alcuni sono plurilaureati. Quando la mente umana si adegua ad una situazione di isolamento e solitudine, o si abbrutisce, o assume un atteggiamento di profondità interiore curiosamente simile a quello dei monaci certosini, pur nella fondamentale differenza tra reclusione imposta per l’aver commesso un reato, o liberamente scelta”. Ed è proprio la forte motivazione allo studio ad avere spinto “gli accademici” a condividere la propria esperienza in un volume collettivo per il quale hanno scelto il titolo di “Naufraghi in cerca di una stella”, perché “così si sentono”, spiega Cogliandro; sottotitolo “Un esperimento di pratica filosofica in carcere” perché si tratta del “primo esito della scuola di filosofia in carcere avviata da Emilio Baccarini, docente emerito di filosofia all’Università di Tor Vergata e curatore del volume”. Un libro nel quale si raccontano come persone ed esprimono il desiderio di insegnare; “ambizione che, con l’autorizzazione della Direzione carceraria, potrebbe realizzarsi all’interno del penitenziario a favore dei compagni”. A Rebibbia esiste anche un “giornale di Istituto”. Si tratta di “Newsmann”, curato dai docenti della scuola che hanno coinvolto anche i detenuti che, con il solo nome o uno pseudonimo, firmano da un terzo a metà dei contributi pubblicati: “Testi di riflessione e poesie che esprimono l’anelito ad una vita diversa, belli e profondi”. Altri si esprimono attraverso la pittura o organizzano tra loro gruppi di lettura. “Ogni attività formativa costituisce uno stimolo per cambiare, per crescere, in qualche caso anche per aprirsi alla spiritualità”, conclude Cogliandro sottolineando che oltre alla presenza del cappellano cattolico, su sua iniziativa sono stati avviati, per chi ne fa richiesta, corsi guidati da due autorevoli maestri di meditazione individuati tramite la Pontificia Università Gregoriana presso la quale il dirigente scolastico si è occupato di mondo buddhista. Modena. Il concorso letterario “Sognalib(e)ro” si è concluso con una serata nel carcere modenatoday.it, 2 ottobre 2022 La quarta edizione dell’iniziativa per le Carceri ha premiato lo scrittore Massimo Carlotto, per la sezione Narrativa, con il romanzo “E verrà un altro inverno” (Rizzoli ed.) e tre opere sul tema “Ho fatto una promessa a me stessa/o”, inviate da Milano Opera, Napoli Poggioreale e Brindisi, per la sezione Inediti. Venerdì 30 settembre presso la Casa Circondariale di Modena si è tenuta la serata di premiazione di Sognalib(e)ro, il concorso letterario che contribuisce a diffondere la lettura e la scrittura nelle Carceri italiane, promosso dal Comune di Modena in collaborazione con il Ministero della Giustizia - Dipartimento Amministrazione Penitenziaria, con il contributo di BPER Banca. Dopo un rinvio la scorsa estate, la premiazione si è svolta in presenza nella Sala Teatro del Carcere di Modena, in collegamento streaming con gli altri Istituti Penitenziari coinvolti. L’evento è stato condotto da Bruno Ventavoli, responsabile di Tutto Libri - La Stampa, ideatore del premio e presidente della giuria, e da Massimo Don, attore e formatore per i progetti teatrali permanenti curati da Teatro dei Venti nelle Carceri di Modena e Castelfranco Emilia. Nella Sezione Narrativa italiana, Premio BPER Banca, la giuria popolare, composta dai detenuti dei gruppi di lettura di 16 Istituti, ha attribuito il premio allo scrittore Massimo Carlotto, con 224 voti, per il romanzo “E verrà un altro inverno” (Rizzoli ed.). Carlotto, che non è riuscito a essere presente alla serata, ha inviato un messaggio audio nel quale ha manifestato il suo orgoglio per il riconoscimento attribuito, sottolineando l’importanza della lettura “in un mondo dalle relazioni complesse e difficili com’è quello Penitenziario”, citando Pavese ha ricordato che “la letteratura è una difesa contro le offese della vita”. Secondo classificato Paolo Cangelosi, con 174 voti per “L’uomo e il maestro” (e/o ed.); terzo Roberto Venturini, con 158 voti per “L’anno che a Roma fu due volte Natale” (SEM ed.). Nella Sezione Inediti, una giuria composta da Barbara Baraldi, Andrea Marcolongo, Simona Sparaco, ha attribuito il premio a opere originali, non pubblicate, prodotte dai detenuti sul tema “Ho fatto una promessa a me stessa/o”. Tre i testi vincitori: “Ho fatto una promessa a me stesso” proveniente dalla Casa di reclusione Opera di Milano, “Mai più! Mai più!” dalla Casa circondariale di Napoli Poggioreale, e tre poesie “Il cambiamento - Il cammino - Raggio di sole” dalla Casa circondariale di Brindisi. Il premio - Il Premio Sognalib(e)ro per le Carceri consiste nell’acquisto e nell’invio di titoli scelti dall’autore vincitore agli Istituti partecipanti. In questo modo il progetto va ad accrescere il patrimonio librario degli Istituti di detenzione. Massimo Carlotto ha scelto di destinare alle biblioteche degli Istituti: “Per chi suona la campana” di Ernest Hemingway, “Marinai perduti” di Jean Claude Izzo, “Soldi bruciati” di Ricardo Piglia e “Il giocatore” di Fedor Dostoevskij. Coinvolte la Casa Circondariale di Brindisi, Casa di Reclusione di Milano “Opera”, Casa Circondariale di Modena “Sant’Anna”, Casa Circondariale di Napoli “Poggioreale”, Casa Circondariale di Pescara “S. Donato”, Casa Circondariale di Pisa, Casa Circondariale Femminile di Pozzuoli, Casa Circondariale di Ravenna, Casa Circondariale Femminile “Germana Stefanini” di Roma, Casa di Reclusione di Asti, Casa Circondariale “Lorusso e Cutugno” di Torino, Casa di Reclusione di Castelfranco Emilia, Casa Circondariale di Paola, Casa Circondariale “Pietro Cerulli” di Trapani, Casa Circondariale di Sassari, Casa Circondariale “Sergio Cosmai” di Cos “Il premio letterario, è per l’Istituto una graditissima occasione di esperienza “comunitaria” - ha dichiarato la Direttrice del Carcere di Modena, Anna Albano - in cui il mondo penitenziario e la comunità esterna, nelle sue articolate componenti, convergono in modo sinergico nella realizzazione di un evento che premia I’impegno, il lavoro e I’aspirazione al rinnovamento. Il Teatro del Sant’Anna, che ha ospitato l’evento, è stato oggetto di un importante intervento di riqualificazione, non ancora ultimato, perché questo spazio possa diventare stabile luogo di espressività artistica - culturale per le persone detenute e di incontri con la comunità esterna, in grado di lasciare il segno di possibilità di vita e di esperienze differenti; in questa direzione resta fondamentale la collaborazione con il Teatro dei Venti con cui stiamo condividendo un’importante progettualità. Con questo evento abbiamo scelto anche di rendere visibile la “rete” di connessioni con il mondo del volontariato, della formazione professionale, della scuola, con gesti simbolici: agli ospiti della serata è stato donato un “segnalibro” contrassegnato con il nome delI’evento e realizzato nell’ambito di un laboratorio “LegalArt” ; è stato offerto un piccolo rinfresco realizzato dai detenuti partecipanti al corso di formazione professionale per addetti alla ristorazione, con i prodotti agricoli coltivati nell’azienda agricola deIl’Istituto; i detenuti spettatori dell’evento sono persone ristrette che, attraverso la scelta di seguire i corsi scolastici presenti in Istituto, stanno comprendendo il valore possibile del tempo recluso; i detenuti “artisti” impegnati nel laboratorio teatrale magistralmente condotto dal Teatro dei Venti stanno conducendo un percorso di ri-scoperta emozionale.” Per il Comune di Modena hanno partecipato il Vice-Sindaco Gianpietro Cavazza, l’Assessora alle Politiche Sociali Roberta Pinelli, l’Assessore alla Cultura Andrea Bortolamasi, che ha dichiarato: “Sono sempre più convinto che il Sognalib(e)ro sia un progetto culturale necessario: per la città, per la nostra intera comunità. È l’esempio di come la cultura e i suoi linguaggi siano strumenti di partecipazione, inclusione e democrazia. Un ponte, che permette di superare distanze: la lettura, la promozione della scrittura sono i tratti distintivi del progetto, che rientra in un disegno più complessivo, che vede la cultura come infrastruttura fondamentale per la nostra idea di città”. Gilberto Borghi, responsabile dell’Ufficio Relazioni Esterne di BPER Banca ha dichiarato: “La scelta di BPER Banca di sostenere il premio Sognalib(e)ro non è episodica, ma è il frutto di una scelta consapevole di responsabilità sociale e culturale. I nostri investimenti in cultura e più in generale in progetti di sostenibilità devono sempre tenere in considerazione le ricadute sociali che generano e stimolare il senso civico, specialmente nei più giovani che rappresentano il nostro futuro. BPER considera la lettura e la scrittura due importanti strumenti di educazione, crescita e sensibilizzazione ed è convinta che l’inclusione e la riduzione delle disuguaglianze passino attraverso la diffusione di eventi culturali fruibili da tutti, di cui si fa spesso promotrice”. Gli estratti dei testi vincitori e le schede di lettura dei romanzi in concorso sono stati letti dagli attori detenuti che seguono il percorso di formazione e professionalizzazione curato dal Teatro dei Venti. “Il Premio Sognalib(e)ro è diventato un appuntamento sempre più importante nel percorso di Teatro in Carcere” - dichiara Stefano Tè, direttore artistico della compagnia. “Anche quest’anno gli attori del Sant’Anna hanno prestato la voce ai testi letterari in concorso, si sono fatti portavoce dei detenuti di tutta Italia per portare al pubblico, e agli altri detenuti presenti in sala e in streaming, le parole scritte e forgiate su carta dai penitenziari coinvolti. È stata un’occasione per lavorare sulla parola, per leggere, selezionare, estrapolare i testi da leggere in pubblico, le schede di lettura dei romanzi in concorso, attraverso un laboratorio preparatorio di lettura espressiva”. Alla serata hanno preso parte Gian Domenico Tomei, Presidente della Provincia di Modena, che ha portato il suo saluto introduttivo, Roberto Cavalieri, Garante Regionale dei detenuti, Marco Bonfiglioli e Maria Lucia Faggiano, in rappresentanza del Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria Emilia-Romagna e Marche, volontari e volontarie del Carcere di Modena. L’antologia - I testi della Sezione Inediti sono stati raccolti in e-book, a cura del Dondolo, la Casa Editrice digitale del Comune di Modena (https://www.comune.modena.it/ildondolo/la-casa-editrice). La V edizione di Sognalib(e)ro è in fase di organizzazione, a breve verrà pubblicato il nuovo bando di concorso rivolto ai detenuti dei 16 Istituti Penitenziari aderenti. Catania. Pena e inserimento sociale: esperienze dei detenuti e degli operatori livesicilia.it, 2 ottobre 2022 Convegno della Camera Minorile di Catania a Palazzo degli Elefanti. Avvocati, giuristi, operatori istituzionali e psicologi si sono dati appuntamento nella Sala consiliare del Comune di Catania, in occasione del convegno dal titolo “Dentro il domani - La pena come un’opportunità di crescita e reinserimento sociale”, tenutosi ieri 30 settembre 2022 e organizzato dalla Camera Minorile di Catania con il patrocinio dell’Unione nazionale Camere minorili (Uncm), del Consiglio dell’Ordine degli avvocati di Catania, dell’Università e del Comune di Catania. Al centro dell’evento c’è stata la proiezione del docufilm “Dentro il domani, quando per il minore la pena diventa un’opportunità”, realizzato e prodotto dall’Unione nazionale Camere minorili - settore penale. “Sono le testimonianze di chi è riuscito a intraprendere un percorso rieducativo e a reinserirsi in società a ricordarci quale deve essere la funzione della pena. Abbiamo ascoltato i racconti di vita, le esperienze e le aspirazioni di chi ha trovato, grazie anche al supporto e al sostegno delle istituzioni e in generale di tutti gli attori coinvolti nel sistema penale minorile, la forza per ripartire e lasciarsi alle spalle gli errori commessi”. Renata Saitta, avvocata e presidente della Camera Minorile di Catania ha presentato l’iniziativa e ha aperto i lavori del convegno. “Con l’evento di oggi abbiamo tentato di puntare i riflettori su tutti gli aspetti legati alla detenzione minorile e anche sulle criticità che spesso i minori ristretti, gli avvocati e gli operatori degli istituti penitenziari si trovano ad affrontare”. Sono intervenuti per i saluti istituzionali: il prefetto di Catania, dott.ssa Maria Carmela Librizzi, il procuratore aggiunto presso il Tribunale di Catania, dott.ssa Marisa Scavo; il direttore del Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Catania, prof. Salvatore Zappalà; Serena Lombardo, avvocata del direttivo dell’Unione nazionale Camere minorili e ancora Renata Saitta che ha portato i saluti del presidente del Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania Rosario Pizzino. Al tavolo dei relatori si sono alternati gli avvocati Ilaria Summa e Christian Serpelloni, co-responsabili del settore penale dell’Uncm, con gli interventi del presidente del Tribunale di Catania Roberto Di Bella che ha illustrato il progetto “Liberi di scegliere”; Roberta Montalto, direttrice dell’Ufficio di Servizio Sociale per i Minorenni di Catania (Ussmm) con la relazione “Il nuovo ordinamento penitenziario minorile tra aspetti teorici e prassi applicative per costruire una continuità degli interventi delle istituzioni a fine pena”. Ancora con il prof. di Legislazione Minorile Angelo Zappulla, con la relazione “Il Sistema penitenziario minorile: dalla montagna ancora un topolino”; Giuseppe Biagi, psicologo presso la casa di reclusione di Augusta, il quale ha portato al convegno la testimonianza molto toccante di un detenuto. A conclusione dell’evento è intervenuto il rapper catanese Jack DJ con un contributo musicale. Palermo. Bambini in overdose, il dramma. Dall’inizio dell’anno 16 ricoverati di Salvo Palazzolo La Repubblica, 2 ottobre 2022 Dopo l’allarme lanciato dalla procuratrice per i minorenni Claudia Caramanna al via un protocollo per gestire le tante emergenze. I piccoli hanno ingerito pezzi di hashish e cocaina trovati in casa, genitori sotto osservazione del tribunale per le disattenzioni fatali. L’ultimo drammatico episodio è avvenuto pochi giorni fa: una bambina di un anno e mezzo è stata ricoverata in gravi condizioni all’ospedale Di Cristina dopo aver assunto hashish. L’ennesimo episodio. Repubblica ha accertato che sono 16 i bambini finiti in overdose dall’inizio dell’anno. Una statistica che non ha precedenti in città, e neanche nel resto d’Italia. Alcuni mesi fa, era stata la procuratrice per i minorenni di Palermo Claudia Caramanna a lanciare l’allarme: “Siamo preoccupati per questi episodi che riscontriamo sempre più spesso - disse - la disattenzione dei genitori assuntori di droghe può comportare danni gravissimi per i più piccoli”. Le analisi hanno rilevato che i piccoli avevano assunto hashish e cocaina, magari trovata sul tavolo o per terra. Un allarme che ha portato subito all’adozione di un protocollo, per far fronte all’emergenza. La procuratrice per i minorenni ha sensibilizzato i vertici degli ospedali, ma anche le forze dell’ordine. Obiettivo, la tutela massima per i bambini vittime di questi episodi. Mentre i medici apprestano le cure, la procura fa scattare subito le perquisizioni nelle abitazioni dove si sono verificati i casi. E, intanto, i piccoli vengono affidati ai direttori sanitari degli ospedali, in attesa di ulteriori accertamenti sul contesto familiare. Di recente, un bambino e la sua mamma sono stati poi trasferiti in una comunità. In altre situazioni, la procura ha sollecitato un intervento più deciso del tribunale, per far decadere la responsabilità genitoriale. Ma non sempre è facile ricostruire cosa è accaduto per davvero. Di sicuro, non sono episodi relegati solo alle periferie degradate o al centro storico. “In alcuni casi ci siamo trovati davanti anche a famiglie del centro città”, spiegano dall’ospedale Di Cristina. E ogni volta, si mette in moto una rete ormai consolidata, che vede operare insieme assistenti sociali, psicologi, magistratura e forze dell’ordine. Ma questi sono gli interventi per far fronte alle emergenze che si verificano di volta in volta. Al fondo di questa storia c’è il problema droga, a Palermo l’età degli assuntori di stupefacenti si è abbassata a 12 anni, come rilevato dalle ultime statistiche della prefettura. E il numero complessivo di tossicodipendenti è in crescita: siamo passati dai 2524 del 2019 ai 2628 del 2020, questo dicono i dati dell’Unità Dipendenze patologiche dell’Asp. È il crack la grande emergenza: sono stati registrati 824 consumatori nel 2020, 20 in più dell’anno precedente: 11 hanno un’età compresa fra 15 e 19 anni, 92 fra 20 e 24 anni, 137 fra 25 e 29 anni. Dati che offrono spunti di riflessione: sono tutti giovani i genitori dei bambini che arrivano al pronto soccorso in overdose. Le indagini parlano sempre di disattenzioni fatali. Qualche tempo fa, un padre diede alla figlia di tre anni il metadone al posto dello sciroppo per la tosse. Una bambina di nove mesi finì invece in coma per avere ingerito alcune dosi di hashish in casa di amici dei genitori. La cronaca ha registrato anche la storia di un bambino entrato in overdose per aver mangiato la cocaina lasciata sul tavolo dal compagno della madre. Storie amare, che richiamano le immagini arrivate di recente dallo Sperone: le telecamere dei carabinieri, piazzate nelle abitazioni dei pusher, hanno ripreso bambini che assistono al taglio e al confezionamento della droga. Come fosse la cosa più normale. E poi anche loro contano i soldi dello spaccio. I bambini sono i testimoni dell’emergenza droga di cui Palermo non si accorge. E sono le vittime. L’ha ribadito con toni accorati il prefetto di Palermo Giuseppe Forlani, da ieri in pensione: “La droga è tornata ad essere il grande affare della mafia - ha detto - ma il fenomeno è cambiato. All’inizio degli anni Ottanta, l’eroina era la principale sostanza di abuso e i morti tenevano alto l’allarme sociale e ne testimoniavano la negatività. Le sostanze più usate oggi, in particolare cocaina e droghe sintetiche, sono molto pericolose per la salute ma gli effetti sono più differiti e i consumatori riescono a mantenere nell’immediato normali relazioni sociali”. Un’emergenza in apparenza invisibile. Roma. L’arte che libera. Opere dei detenuti esposte nella Scuola della Polizia Penitenziaria L’Osservatore Romano, 2 ottobre 2022 Opere dei detenuti esposte nella Scuola della Polizia Penitenziaria intitolata a Giovanni Falcone. L’arte come strumento per liberare la mente, ma anche come occasione per riflettere: è questo l’obiettivo del progetto “Liberi Art” attivo nella casa circondariale di Reggio Emilia, grazie al quale una selezione di opere di detenuti sono state esposte nella Scuola di Formazione e aggiornamento per il personale del Corpo e dell’amministrazione Penitenziaria di Roma “Giovanni Falcone”. A ideare il progetto, poco più di un anno fa, l’artista Anna Protopapa, da tempo volontaria nelle carceri della città. “La prima opera che abbiamo realizzato era ispirata all’Enciclica “Fratelli Tutti” di Papa Francesco - racconta - in questo modo abbiamo fatto sentire ai ristretti che un messaggio universale era rivolto anche a loro, che lo hanno fatto proprio impegnandosi a viverlo ogni giorno”. Da allora il laboratorio ha affrontato tematiche quali il contrasto al bullismo, la violenza sulle donne e la lotta alla mafia, difficili da trattare fuori da un percorso artistico, ma anche ideali quali la giustizia, la libertà e la legalità. Nell’occasione, una delegazione di detenuti ha donato alla Polizia penitenziaria un quadro con lo stemma araldico del Corpo, mentre un altro raffigurante l’emblema della Repubblica italiana è stato donato alla ministra della Giustizia, Marta Cartabia, rappresentata all’evento dal Capo dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, il quale ha sottolineato che iniziative come questa interpretano correttamente la Costituzione italiana secondo cui il carcere non è solo come luogo di punizione, ma anche di cambiamento, e riempiono il tempo vuoto della detenzione di riflessioni sulla propria condotta e sulla possibilità di riscatto. Una terza tela, opera della maestra d’arte Protopapa che ha voluto rendere omaggio ai magistrati vittime di mafia Falcone e Morvillo, è stata donata alla Scuola di Polizia Penitenziaria intitolata proprio al giudice ucciso nella strage di Capaci. “Il carcere è parte del territorio - ha proseguito Renoldi -, può cambiare solo con gli stimoli, i suggerimenti e le esperienze che vengono dalla comunità, perché come ci insegna Papa Francesco “Nessuno si salva da solo”, perciò anche noi dobbiamo agire e lavorare come comunità”. Dalle tele intarsiate di pezzi di stoffa ai modellini delle invenzioni di Leonardo riprodotte con gli stuzzicadenti, le opere in mostra sono realizzate con tecniche e materiali diversi, spesso di riciclo o frutto di donazioni, e hanno come denominatore comune l’idea che cambiare è possibile: “Con l’arte riesco a esprimere cose che prima non riuscivo a dire”, è la testimonianza di Siljan, ex ristretto, oggi in detenzione domiciliare che ha preso parte al laboratorio Liberi Art. Hanno partecipato all’evento anche Anna Angeletti, direttrice della casa di reclusione di Paliano, in provincia di Frosinone, unica in Italia a ospitare esclusivamente collaboratori di giustizia, i quali hanno realizzato i cavalletti in legno su cui sono state esposte le opere, e Alessandro Gisotti, vicedirettore editoriale del Dicastero per la Comunicazione della Santa Sede, il quale ha sottolineato l’attenzione sempre viva di Papa Francesco per il mondo del carcere e l’impegno a farsi prossimi delle persone private della libertà, ricordando come la visita del Santo Padre a un istituto di pena minorile a Panama durante il viaggio nel gennaio 2019 abbia consentito idealmente ai giovani reclusi di essere parte della XXXIV Giornata mondiale della Gioventù. In Italia più di 4 milioni di persone soffrono di disturbi mentali di Chiara Sgreccia L’Espresso, 2 ottobre 2022 La società contemporanea è largamente pervasa dalla sofferenza psichica. Ma il budget sanitario è ridotto all’osso, dimentica giovani e scuole e ti costringe verso l’aiuto privato. I risultati del report nazionale dell’Asl Roma 2. Non c’è un abisso tra la salute psicologica e chi soffre di disturbi mentali. Ma una linea retta che unisce due poli che sono opposti solo alle estremità. “Parliamo di un continuum, indicare dove finisce lo stato di benessere e inizia il malessere non è semplice e dipende dalla storia di ogni persona”, spiega lo psichiatra Massimo Cozza, direttore del dipartimento di salute mentale dell’Asl Roma 2, il più grande di Italia per bacino di utenza, circa un milione e 300mila persone. “Perché il disturbo mentale è bio-psico-sociale. Cioè determinato da più fattori: le problematiche di natura biologica, in particolare genetica e biochimica, si combinano con il percorso psicologico dell’individuo e con la componente sociale che ha una funzione fondamentale. Dall’istruzione all’inclusione, alle relazioni che la persona instaura con il contesto e con gli altri. Questi fattori messi insieme sono la causa dei disturbi mentali a cui noi dobbiamo rispondere. Come specialisti abbiamo il compito di avviare i percorsi psicoterapici e psico-farmacologici di riabilitazione. Ma tanto sta anche alla capacità di inclusione della società. Servirebbero maggiori risorse per i servizi pubblici per la salute mentale”. Anche perché l’Italia da oltre vent’anni non investe una quota adeguata del suo budget sanitario per tutelare la salute mentale dei cittadini. Nel 2001 i presidenti delle Regioni si erano impegnati a destinarle il 5 per cento dei fondi sanitari regionali ma quell’obiettivo non è mai stato raggiunto: la media nazionale è intorno al 3 per cento. Eppure, ancora di più dopo la pandemia di Covid-19, sarebbe necessario. Come chiarisce Cozza si stimano 4 milioni di persone nel Paese che soffrono di disturbi psichici ma sono soltanto tra 800 e 900 mila quelle assistite nei dipartimenti di salute mentale pubblici. Questo non significa che le altre rimangano con certezza senza cura. “Una parte viene seguita dai medici di base, per i disturbi più lievi, e un’altra si rivolge direttamente al privato. Ma di questi non abbiamo dati. Anche il bonus psicologo si muove nella stessa direzione privatistica: uno strumento sbagliato che risponde a un’esigenza reale dei cittadini. Ai primi di settembre erano arrivate più di 210 mila richieste. Che continueranno a aumentare fino alla scadenza del prossimo 24 ottobre”. Come emerge, infatti, dall’indagine nazionale sulla salute mentale, promossa da Massimo Cozza e realizzata dalla società Bva Doxa, in occasione del Festival Ro.Mens per l’inclusione sociale e il pregiudizio, che si terrà a Roma dal 26 settembre al 2 ottobre 2022, la società contemporanea è largamente pervasa dalla sofferenza psichica. L’80 per cento degli intervistati afferma di essersi relazionato con persone che hanno disturbi mentali, più o meno gravi. Secondo la maggior parte della popolazione, questi non hanno un’intelligenza meno brillante o desideri, obiettivi, aspirazioni diversi da quelli di chiunque altro. Per circa tre quarti degli intervistati, infatti, andare dallo psicologo o dallo psichiatra non è più un tabù, sebbene chi soffre di disturbi psichici abbia scarsa propensione a parlarne: il 78 per cento si confiderebbe solo con la famiglia. Il 22 per cento dice che non ne parlerebbe con nessuno per la vergogna. Secondo la ricerca che sarà presentata al Campidoglio martedì 27 settembre, non è, invece, molto alta la fiducia nella possibilità di guarire dal disturbo mentale, solo il 66 per cento degli intervistati ritiene sia possibile. La maggior parte crede che la cura debba avvenire nella collettività, non in luoghi isolati o privi del contatto con le persone. “È interessare rilevare che circa la metà della popolazione pensa che chi soffre di disturbi psichici sia pericoloso per gli altri, con la possibilità di diventare facilmente aggressivo e violento, non rispettoso delle regole sociali condivise, non in grado di lavorare con un buon livello di autonomia. Ma secondo le evidenze scientifiche non è vero che chi ha disturbi mentali è più pericoloso degli altri. La probabilità di comportamenti violenti è identica, con diversi determinanti legati alle storie personali. Una maggiore incidenza statisticamente significativa è stata rilevata solo in associazione all’abuso di sostanze. Chi soffre di disturbi mentali è più probabile che sia vittima e non attore di violenza. Questo vale, ad esempio, per le donne che hanno subito abusi sessuali”, chiarisce Cozza. Alla domanda: “Secondo te quale categoria di persone è più incline ad avere disturbi mentali in questo periodo storico?” Gli uomini pensano che siano gli uomini, le donne che siano loro i soggetti che ne soffrono di più. “Un dato contrastante che può nascere dalla convinzione per entrambi di svolgere una vita più stressante rispetto all’altro, con conseguente aumento della probabilità di soffrire di disturbi mentali, nonostante nei casi ci sia un sostanziale equilibrio”, commenta Cozza. Ma la percezione degli intervistati converge con la realtà dei fatti quando affermano che sono i giovani tra i 18 e i 24 anni i più inclini allo sviluppo dei disturbi mentali. Soprattutto dopo il Covid-19, come certificano il grido di allarme dei pronto soccorso e tante altre ricerche redatte negli ultimi mesi. Tra cui il Rapporto sul benessere equo e sostenibile di Istat, di aprile 2022, secondo cui è raddoppiata la percentuale di adolescenti insoddisfatti e con un basso punteggio di salute mentale. O l’indagine “Chiedimi come sto? Gli studenti al tempo della pandemia”, condotta da Rete degli studenti medi, Unione degli universitari e Spi-Cgil, elaborata da Ires, l’Istituto ricerche economiche e sociali dell’Emilia Romagna. Un’indagine a cui hanno partecipato oltre 30 mila studenti, evidenziando la volontà dei giovani di essere coinvolti e raccontare il proprio vissuto, da cui emerge il ritratto di una generazione che per prima ha sperimentato la didattica a distanza. “Spoiler: stiamo male”, dicono gli studenti. Il 60,3 per cento è molto preoccupato della propria salute mentale. Il 28 per cento ha disturbi del comportamento alimentare, il 14,5 di autolesionismo, il 24 per cento ha pensato di lasciare gli studi. Il 60 vede il futuro come precario e critico. Il 90 per cento vorrebbe un supporto psicologico a scuola. Che, anche quando c’è, non è detto che sia efficace. Come spiega, infatti, Luca Ianniello, rappresentante nazionale della Rete degli studenti medi: “il primo passo è l’acquisizione della consapevolezza di avere un disturbo psichico. Subito dopo dovrebbe arrivare il supporto ma manca uno spazio dentro la scuola in cui gli studenti possano chiedere aiuto. O se esiste non funziona. Ad esempio resta aperto solo per due ore un giorno a settimana diventando di fatto inutilizzabile visto l’alto numero di studenti. Oppure succede che chi lo gestisce non sia abbastanza formato e competente. A volte sono gli stessi insegnanti della scuola. E questo causa un evidente problema di coinvolgimento. Anche perché capita che gli studenti vogliano parlare proprio del loro rapporto con i docenti. Il punto è che manca una strutturazione a livello nazionale e un piano di investimenti. Non c’è una normativa uniforme che garantisca a uno studente di Caltanissetta e a una studentessa di Udine di avere accesso allo stesso sistema di ascolto e di aiuto. L’unico riferimento è il Dpr n. 309 del 1990 che istituisce i centri di formazione e consulenza, i Cic, in seno al testo sulla tossicodipendenza. Ma non li norma. E nessuno si è più impegnato nel loro sviluppo”. Mentre, come scrivono gli studenti nel manifesto “Cento idee per il futuro del Paese” che raccoglie le proposte per il governo che verrà, andrebbero aboliti Cic e istituiti degli Sportelli di assistenza psicologica e counseling nelle scuole. Oltre che dei veri e propri percorsi di educazione all’emotività e all’affettività. Concorda anche Camilla Piredda, dell’Unione degli universitari: “Tra le università ci sono casi virtuosi. Gli atenei di Bari, Bologna e Padova hanno dei veri e propri sportelli di assistenza psicologica, sebbene anche altri abbiano costruito dei propri sistemi di supporto. Il problema, però, sta nella mancanza di fondi che compromette il servizio. Ci sono attese che vanno dai 6 ai 9 mesi solo per il primo colloquio conoscitivo. Altrettanto lunghi i tempi per l’inizio del percorso. Con la pandemia le richieste sono aumentate esponenzialmente. Fondamentale sarebbe una collaborazione con le Asl, sia per abbattere i costi e i tempi, sia per il supporto di specialisti”. Come per gli studenti anche per Cozza è fondamentale rafforzare la rete dei servizi pubblici. Magari investendo quei due miliardi di euro che dal 2001 invalidano la promessa dei presidenti delle Regioni di impiegare il 5 per cento dei fondi sanitari per la tutela della salute mentale. Migranti, pugno duro della Regione Piemonte: “Più repressione e meno assistenza” di Maurizio Tropeano La Stampa, 2 ottobre 2022 La giunta Cirio taglierà i fondi per gli stranieri che cercano lavoro e finanzierà gli straordinari della polizia locale. Più repressione, meno assistenzialismo. Si può riassumere così il pugno duro che la regione Piemonte ha deciso di mettere in atto per contrastare il fenomeno del caporalato e dello sfruttamento del lavoro agricolo. Per l’applicazione delle nuove linee guida, che il Piemonte ha elaborato come capofila nazionale del progetto Common Ground a cui partecipano anche Liguria, Emilia Romagna, Veneto e Friuli Venezia Giulia, ci sono a disposizione le risorse del Fondo Sociale dell’Unione Europea, quattro milioni e mezzo solo per il territorio subalpino. Metà di quei fondi, per la prima volta, saranno destinati a finanziare gli straordinari della polizia locale invece di essere messi a disposizione dei piani di assistenza che, dunque, riceveranno meno risorse. “Il nostro obiettivo - spiega Fabrizio Ricca, assessore regionale alla sicurezza e all’immigrazione - non è di farci carico dei costi sociali connessi ai fenomeni illegali che arricchiscono alcuni a scapito della comunità ma di colpire il fenomeno nella sua interezza, favorendo con tutti gli strumenti possibili il fiorire di dinamiche di lavoro legali e non portatrici di concorrenze intrinsecamente sleali”. Per raggiungere questo risultato la Regione utilizzerà, dunque, più di 2,2 milioni di euro per aumentare i controlli delle forze dell’ordine in quelle aree e in quelle comunità storicamente interessate dal caporalato. Gli uffici stanno mettendo a punto la delibera ma le indicazioni politiche dell’assessore sono chiare: “Finanzieremo gli straordinari della polizia locale che così potrà fare più controlli e anche avviare indagini per cercare di stroncare all’origine irregolarità e casi di sfruttamento”. La scommessa di Ricca è che una maggior repressione possa servire ad eliminare il “dumping salariale contro i lavoratori in regola” e anche “prevenire tensioni sociali per via dell’arrivo di enormi flussi di migranti attirati dai caporali”. Il contrasto al caporalato non rientra tra le competenze della polizia locale che però può sicuramente intervenire in materia di controlli. Resta da capire se basterà pagare gli straordinari per mettere in moto una macchina organizzativa che deve fare i conti con la mancanza di organici e anche di dotazioni, non solo nelle grandi città, ma anche nella provincia. La Regione punta molto sul coinvolgimento dei sindaci e “dopo l’estate - spiega Ricca - la Regione farà un monitoraggio sui dati relativi a sanzioni e aumenti di controlli rispetto agli anni precedenti per verificare l’andamento complessivo della nuova strategia”. Dal suo punto di vista “i fondi comunitari, o pubblici, non devono essere destinati esclusivamente a fornire un welfare che di fatto diventa complemento per un sistema di sfruttamento e di importazione di lavoratori immigrati e sottopagati che ogni anno vengono chiamati a prestare servizio in aree non attrezzate creando situazioni problematiche anche per le comunità locali”. Con i fondi dimezzati per l’assistenza saranno avviati “percorsi di sensibilizzazione contro il caporalato da rivolgere alle comunità di migranti che spesso sono vittime del fenomeno e anche per la creazione di percorsi di assistenza abitativa o creazione di servizi rivolti ai braccianti”. I dati nazionali dell’Ispettorato al lavoro confermano il dilagare dei fenomeni di sfruttamento: irregolarità sono state scoperte ovunque, in tutti i settori produttivi, a partire dal quasi 58% di abusi registrati in agricoltura, fino ad arrivare al 67,28% in edilizia. Il progetto punta a contrastare soprattutto il caporalato in ambito agricolo. In Piemonte le aree più a rischio sono il distretto ortofrutticolo saluzzese, uno dei più importanti del Nord Italia che ha bisogno di manodopera stagionale e che negli ultimi anni ha dovuto fare i conti con insediamenti informali, insicuri e malsani dove vivevamo soprattutto lavoratori provenienti dall’Africa sub sahariana. E lo scorso aprile è stata pronunciata la prima condanna per caporalato del Nord Ovest per un sistema di sfruttamento di manodopera organizzato a Saluzzo. Anche a Canelli, in provincia di Asti, sono state registrate diverse vittime di sfruttamento lavorativo. La Regione, però, punta ad allargare l’intervento anche per combattere il “caporalato urbano che si annida nei cantieri edili, nella ristorazione, nella logistica e nel food delivery”. Limiti, rischi, convenienza: la giusta idea di Europa di Antonio Polito Corriere della Sera, 2 ottobre 2022 Il fatto che la Germania provi oggi a giocare da sola rende ancora più necessario per noi continuare a stare in quel campo, l’unico in cui possiamo spuntarla. Diciamoci le cose come stanno. Il cancelliere Scholz si è comportato sul gas più o meno come avrebbe fatto Salvini in Italia. Ha preso duecento miliardi a debito e li ha destinati ad aiutare imprese e famiglie tedesche: pagherà lo Stato la differenza tra il prezzo ideale e quello reale delle bollette, e lo finanzierà con uno scostamento di bilancio, in deroga alla sua tradizionale disciplina fiscale. Ma, a meno di non essere afflitti da una perniciosa forma di esterofilia, il fatto che Scholz lo faccia non vuol dire che abbia ragione Salvini. Anzi. Se proviamo a capire il perché, ci spieghiamo anche meglio come dovrà muoversi in Europa il prossimo governo italiano. Gli sbalzi del prezzo del gas in questo momento non sono determinati da scarsità del bene. Abbiamo ridotto sostanzialmente e rapidamente la nostra dipendenza dalla Russia. È un mercato con sede ad Amsterdam a fissare infatti il prezzo, su basi largamente speculative (scommesse su “future”). Se dunque i Paesi europei lasciano in piedi quel casinò, e versano anzi soldi pubblici sul tavolo da gioco, non fanno altro che finanziare chi ci sta strangolando. Se mettono invece un tetto alle puntate di quel tavolo, cosicché non sia più conveniente alzare la posta, riducono stabilmente il prezzo dell’energia. E, naturalmente, lo possono fare solo insieme. Credo che Giorgia Meloni abbia espresso nel migliore dei modi questa realtà dicendo: “Il tema non è come compensare la speculazione sul gas, ma come fermarla”. Parole in sostanziale accordo con la posizione del premier Draghi. E questo è già un bene in sé: un’intesa tra governo uscente e governo in attesa è prova di robustezza della transizione democratica, e anche la migliore garanzia che i nostri interessi vengano ascoltati e rispettati in Europa. Con la sua scelta la Germania ha infatti invertito la rotta che l’Europa aveva preso durante la pandemia. Anche allora Berlino aveva cominciato così: usando la sua potenza economica e gli ampi spazi di bilancio, garantiti da anni di surplus commerciali e di rigore finanziario, per investire grandi cifre nel sostegno alle proprie aziende. Si trattava, allora come adesso, di una distorsione del mercato: una competizione sleale con i sistemi economici di Paesi che non potevano permettersi la stessa generosità. Alla fine l’Unione Europea, anche grazie alla pressione del governo italiano del tempo guidato da Giuseppe Conte, fece il grande passo: un piano di investimenti di 750 milioni di euro garantiti collettivamente da tutti. Una prima e storica forma di condivisione del debito. Ma, a quanto pare, anche unica. Perché ora (con un governo socialdemocratico al posto della Merkel) siamo tornati alle solite: invece di un’azione comune, ognuno per sé. È evidente infatti che la mossa tedesca può indurre altri in analoghe tentazioni. Ma, e qui è il problema, non tutti ce la possono fare. Anzi, quasi nessuno. L’Italia ha del resto già percorso questa stessa strada: 66 miliardi di euro spesi a sostegno del caro bollette. Ossigeno dovuto a chi sta soffocando. Ma se ora entrassimo nella logica di “ognuno fa per sé”, quante altre risorse saremmo in grado di mobilitare? E per quanto tempo ancora, se il prezzo resta così alto? La Germania pensa di poter vincere la guerra dell’energia ingaggiata dalla Russia affidandosi alla sua potenza economica. Noi ne abbiamo la forza? Se ricorressimo così massicciamente al debito, offrendo titoli di Stato che non sono certo il gold-standard come quelli tedeschi, quanto ci costerebbe? Questa domanda dovrebbe essere al cuore di ogni ragionamento su come far valere al meglio il nostro interesse nazionale nel mondo di oggi. È indubbio che quell’interesse vada difeso, con le unghie e con i denti; ed è davvero ingenuo scoprire oggi con scandalo che la Germania, come del resto ogni altro Paese europeo, lo fa regolarmente a Bruxelles. L’Europa è innanzitutto convenienza. Ma se agissimo da soli, competeremmo meglio con la Germania? Si è fatta, anche per colpa dei media, una gran confusione sull’Unione Europea: non è la pace perpetua nella competizione tra Stati, ma ne è il campo di gioco unico, il sistema di regole comuni. Il fatto che la Germania provi oggi a giocare da sola rende se possibile anche più necessario per noi continuare a stare in quel campo, l’unico in cui possiamo spuntarla. Magari perché altri quattordici giocatori su 27 (Francia compresa) sono con noi, e hanno firmato una richiesta comune di un tetto sul gas. Come sempre in Europa, una trattativa è in corso. E l’esito non è affatto scontato. Ciò che sta accadendo è dunque un’efficace prova del fuoco per il futuro governo di destra. Può trarne la conclusione che avevano ragione i “sovranisti”, e che ci conviene fare da soli; magari seguendo la disastrosa lezione fiscale del governo “fratello” britannico di Liz Truss. Oppure cercare un modo nuovo, e se ci riesce anche più assertivo del passato, di stare in Europa sfruttandone le regole comuni a nostro vantaggio. Le sorti dell’Italia sono infatti ormai inscindibili da ciò che l’Unione riuscirà a fare, nel campo dell’economia come in quello dell’energia come in quello dell’ambiente. È un destino che talvolta ci sembra ingrato, e invece è la nostra migliore chance. Se gli interessi ci dividono, i valori delle società aperte ci uniscono, creando una sfera pubblica paneuropea. Possiamo sperare di essere ascoltati perché in Germania come altrove c’è un’opinione libera, un sistema dei media indipendenti e una dialettica politica che consentono alle idee di circolare e affermarsi. Per questo Stato di diritto e libertà sono beni preziosi che dobbiamo difendere anche all’interno dell’Unione (in Ungheria per esempio). Chi sottovaluta questa ricchezza, o addirittura la disprezza, dovrebbe dare un’occhiata alle file di giovani russi in fuga dalla coscrizione obbligatoria; oppure alle scene delle giovani iraniane che rischiano la vita per una ciocca di capelli. Chiunque sia al governo, questa consapevolezza dovrebbe essere patrimonio comune di destra e sinistra. L’Europa, per parafrasare Renan, è un plebiscito che si rinnova ogni giorno, e che si fonda sulla dimensione dei sacrifici compiuti. I siti segreti della Cia non erano così segreti. E le conseguenze sono state tragiche di Massimo Basile La Repubblica, 2 ottobre 2022 Il Citizen Lab dell’Università di Toronto ha facilmente smascherato 885 indirizzi web legati agli 007 americani. Ma lo stesso hanno fatto in passato Cina e Iran: così informatori e agenti sono stati catturati a giustiziati. I siti clandestini della Cia disseminati in tutto il mondo erano così segreti che avrebbe potuto scoprirli anche un internauta amatoriale. È la conclusione a cui sono arrivati i ricercatori di Citizen Lab, il dipartimento di sicurezza dell’Università di Toronto, che, dopo aver ricevuto una imbeccata da un giornalista della Reuters, Joel Schectman, hanno smascherato 885 siti web riconducibili agli 007 americani. Per riuscirci non hanno dovuto attingere a sistemi ultra sofisticati: hanno utilizzato materiale a disposizione su internet. Un sistema gruviera - La falla al sistema ha avuto probabilmente conseguenze tragiche: secondo l’università canadese, nel 2011 e 2012 i governi di Iran e Cina hanno scoperto questi siti e li hanno utilizzati per catturare e giustiziare decine di informatori e agenti al servizio della Cia. Citizen Lab non ha indicato i dettagli della ricerca o i nomi dei siti, per tutelare i cosiddetti “asset”, persone di riferimento che lavorano per gli Stati Uniti in Paesi ostili e che potrebbero essere ancora a rischio, per aver comunicato con il Pentagono attraverso il sistema gruviera messo in piedi dalla Cia. L’Intelligence aveva dotato i siti di sistema di scrittura Java, JavaScript e Adobe Flash per tradurre messaggi criptati e sequenze di indirizzi IP legati ad aziende inesistenti ma che, secondo i ricercatori, erano facilmente smascherabili. Già nel 2018 due giornalisti di Yahoo News, Jenna McLaughlin e Zach Dorfman, avevano rivelato come il sistema usato dalla Cia su internet per comunicare con i suoi informatori fosse stato scoperto da Iran e Cina e avesse portato alla morte di oltre una ventina di persone. Il caso Hosseini - Il reporter della Reuters, oltre a dare ai ricercatori nuove informazioni, ha raccontato la storia di un “asset” arrestato dalla polizia iraniana e messo in carcere per sette anni, vittima di quel network sulla rete che per Citizen Lab era “insicuro in modo letale”. Era il 2010: l’ingegnere Gholamreza Hosseini stava per imbarcarsi su un volo per Bangkok, quando venne fermato da un addetto alla sicurezza dell’aeroporto internazionale Khomeini di Teheran. Portato nella sala Vip, venne messo contro il muro. Hosseini fece appena in tempo a estrarre dalla tasca alcuni fogli che lo avrebbero portato alla condanna a morte e li ingoiò. Scoprì di essere stato scoperto attraverso i suoi contatti su un sito civetta della Cia. Si è fatto nove anni di carcere. È uscito nel 2019. Con la Cia non ha avuto più nessun rapporto, ma quei nove anni resteranno per sempre nella sua vita. Il network dei siti della Cia - Ad altri è andata peggio. I nomi non verranno probabilmente mai fuori, ma la “gola profonda” che li ha incastrati era sulla rete: i siti clandestini della Cia e il suo sistema maldestro. “Abbiamo condotto le ricerche - hanno spiegato i ricercatori canadesi - quando erano ancora online, così come hanno fatto probabilmente Iran e Cina. Conoscendo il nome di un sito anche un maneggione amatoriale avrebbe potuto mappare tutta la rete Cia”. Il network online degli 007 comprendeva centinaia di siti che offrivano, in apparenza, notizie, informazioni sulla salute, il tempo, lo sport, l’intrattenimento, in 29 lingue e 36 Paesi. Tra questi ce n’era uno che si presentava come una pagina tributo al conduttore tv e comico Johnny Carson, storico anchorman di The Tonight Show, trasmesso sulla Nbc. La maggior parte dei siti è rimasta in funzione per nove anni, dal 2004 al 2013. “La nostra speranza - dicono i ricercatori - è che chiunque fosse legato a quei siti non sia più in pericolo, ma vogliamo che la nostra ricerca porti i responsabili di questo comportamento sconsiderato a rispondere dei loro errori”. Da Teheran a Mosca per chi soffia il vento della libertà di Maurizio Molinari La Repubblica, 2 ottobre 2022 Da Teheran a Mosca per chi soffia il vento della libertà. Se Vladimir Putin diffonde la paura atomica per continuare la guerra contro l’Ucraina e l’Europa è palcoscenico dell’incertezza a causa di prezzi energetici in aumento e recessione in arrivo, c’è un terzo evento globale che tiene banco davanti ai nostri occhi, in queste turbolente settimane di inizio autunno: il coraggio di chi in Iran e Russia sfida i despoti, rischiando la propria vita per amore della libertà. In Iran la “rivoluzione dell’hijab” è iniziata con l’uccisione della giovane donna Mahsa Amini da parte di “Gasht-e Ershad”, la “polizia della moralità” creata dal Grande Ayatollah Khomeini dopo la caduta dello Shah nel 1979 per imporre ad ogni donna iraniana di vestire e comportarsi secondo i dettami di una teocrazia oscurantista che considera l’immagine femminile come il più pericoloso dei nemici. Nessuno sa quali e quante violenze Amini ha subito dopo l’arresto ma la sua morte per “infarto” è stata percepita da una moltitudine di iraniane come la più evidente e brutale conferma che la Repubblica Islamica non consente il diritto alla vita a chi contesta l’obbligo all’“hijab”, il velo islamico. Chiunque è stato in Iran sa quanto gli scontri fra donne e “pattuglie della moralità” siano frequenti. I poliziotti strattonano, insultano, fermano, arrestano e percuotono senza remore le “donne immonde” e queste rispondono, reagiscono, non cedono, urlando ancora più forte dei loro aguzzini. E quando le pattuglie della “moralità islamica” si allontanano, sono innumerevoli che donne che - dentro case, caffè, ristoranti, negozi, hotel - rimuovono l’hijab e tornano ad avere una loro dignità. Ricordo come se fosse ieri l’arrivo a Teheran da Istanbul su un volo della Turkish Airlines con le donne iraniane a bordo che si coprivano in fretta e furia con il velo obbligatorio: alcune imprecavano, altre piangevano. Così come ricordo, come se fosse ieri, il coraggio di una giovane reporter iraniana molestata in pubblico a Teheran solo perché aveva il rossetto sulle labbra: reagì urlando con tutto il fiato che aveva in corpo, e mise in fuga la pattuglia “della moralità”. Questi atti isolati, personali di resistenza non sono mai cessati ma dopo la morte di Mahsa sono diventati un movimento popolare. Questa è la dirompente novità che ha preso di sorpresa i “poliziotti della moralità”, i pasdaran che li proteggono, il regime islamico che li adopera ed anche la Guida della Rivoluzione, Ali Khamenei. È la prima volta che una rivolta di popolo in Iran non ha motivazioni politiche, come avvenne nel 2009 dopo la rielezione del presidente Ahmadinejad viziata da brogli, nè economiche, come fu nel 2019 con i moti del pane. Questa volta lo slogan “donna, vita, libertà” nasce dalla rivendicazione delle donne di non essere più oppresse da un regime medioevale che ne annulla diritti e identità. Da qui il simbolo che incarna e racchiude la rivolta: tagliarsi i capelli ripetendo il gesto che indica il lutto, durante un funerale, sin dalla Persia dell’antichità. Il poema epico di Shahnameh (Il Libro dei Re), scritto da Adul-Qasem Ferdowsi oltre mille anni fa, racconta in quasi 60 mila versi le gesta dei sovrani dell’Antica Persia e, in più occasioni, vi si legge dei “capelli tagliati con un atto di lutto”. Se dunque la teocrazia sciita iraniana opprime le donne con l’hijab, loro rispondono con un gesto che somma la rabbia della rivolta, l’identificazione con la vittima curda 22enne e l’orgoglio delle radici persiane che gli ayatollah hanno cancellato da libri di storia e carte geografiche per imporre su tutto l’ideologia della Jihad sciita. A fare il resto sono i social network che, nonostante la censura totale del web, trasmettono dentro e fuori l’Iran la forza dirompente di una sollevazione fatta di hijab dati alle fiamme, chiome al vento in segno di sfida ed un crescente numero di mariti, fidanzati, padri, fratelli e parenti maschi che scende in strada a fianco di figlie, madri, mogli, fidanzate e sorelle sfidando la repressione. Impossibile conoscere l’esatto numero delle vittime ma i canti notturni sui tetti di Teheran, la tattica dei piccoli gruppi di manifestanti, le cittadine curde assediate nel Nord e il domino della solidarietà - dai giocatori di calcio in giubba nera alle dichiarazioni pubbliche di stelle dell’intrattenimento come Mahmud Shahriari, Mona Borzouei, Katayoun Riahi e Mehran Modiri - ci dicono che la rivoluzione dell’hijab assedia il potere degli ayatollah. Anche se i portavoce di Teheran continuano ad affermare che la rivolta “che minaccia 400 mila posti di lavoro” è già finita, anzi non è mai stata tale. Per Ali Khamenei, successore di Khomeini, da molti a Teheran considerato gravemente malato, è lo scenario peggiore per gestire il passaggio delle redini del regime al figlio Mojtaba. Perché il risveglio dei diritti delle donne in una nazione antica, coraggiosa e multietnica come la Persia - dove ogni nucleo famigliare ha per tradizione nelle donne i suoi pilastri - pone anche il più brutale dei regimi davanti ad una sfida che, nel lungo termine, non può vincere. Facendo dilagare, su ogni tipo di piattaforma, una realtà destinata a scuotere l’intero Islam: l’avvento delle riforme e della modernità passa attraverso il riscatto delle donne. Ma non è tutto perché il coraggio dei russi che fuggono dal reclutamento obbligatorio di Putin non è certo da meno. Da quando lo zar indebolito dagli smacchi militari in Ucraina ha ordinato di mandare al fronte con la forza un numero di russi stimato fra 300 mila e un milione, un torrente umano si è messo in marcia per fuggire il più presto possibile, con ogni mezzo disponibile, dai monopattini agli aerei commerciali. Le lunghe code di uomini che tentano di superare via terra i confini con Finlandia, Georgia, Kazakhstan e Mongolia descrivono meglio di ogni commento non solo la sfiducia dei russi nel Cremlino e l’impopolarità della guerra ucraina, ma anche il loro coraggio. Per il semplice fatto che, dalle notizie che rimbalzano da piccole e grandi città della Federazione, gli uomini “in età militare” che scappano all’estero, o più in generale evitano la leva, vengono identificati, bollati come disertori e le loro famiglie arrestate per obbligarli a tornare. Il tam tam di racconti personali che si riversa nei Paesi confinanti è martellante e, nelle testimonianze raccolte, evoca la violenza con cui gli ufficiali dei Romanov, negli ultimi anni dell’Impero dello Zar, piombavano nelle case dei villaggi ed arruolavano con la forza i russi per opprimere altri russi. Ecco perché dobbiamo avere rispetto per le donne iraniane che si tolgono l’hijab e per i russi che fuggono. Le une e gli altri con questi gesti e decisioni rischiano quanto hanno di più caro: la vita, la famiglia, la sicurezza, il lavoro. Lo fanno perché gli autocrati di Teheran e Mosca hanno gettato la maschera e per salvare ciò resta del loro potere assoluto non esitano ad esercitare la violenza più cieca contro i propri abitanti. Per le democrazie euro-atlantiche e per i loro cittadini è un dovere morale e politico essere a fianco di chi rischia la vita per difendere le proprie libertà. Se l’Occidente ha compiuto la decisione più giusta nell’unirsi a difesa dell’Ucraina aggredita, si macchierebbe dell’errore più grave scegliendo di non alzare la voce a fianco di iraniani e russi in lotta contro i tiranni del XXI secolo. Che minacciano anche noi. Iran. Rabbia globale: cortei in 158 città. C’è anche l’Italia di Chiara Cruciati Il Manifesto, 2 ottobre 2022 The time has come, ieri la mobilitazione di centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo, dall’Australia all’Europa. Coinvolte Roma, Bologna, Piacenza, Venezia, Milano. Ci sono le iraniane e gli iraniani della diaspora dietro la rete di mobilitazione globale che ieri ha portato centinaia di migliaia di persone in 158 città, in solidarietà con la rivolta che sta attraversando il paese e guidata da donne e giovani. Reykjavik, Bucarest, Melbourne, New Orleans, Barcellona, Liverpool, Oslo, Monaco, Tokyo, Quito, Cracovia, Smirne. E in Italia Roma, Bologna, Milano, Piacenza, Venezia, Padova. La lista potrebbe continuare. Lo slogan è lo stesso, “The time has come”, il poster anche: l’iconica immagine di una donna iraniana con il pugno alzato in piedi sopra un cassonetto bruciato. Una rete costruita in questi giorni soprattutto dalle associazioni degli studenti iraniani nel mondo, come nel caso italiano. Qui è stata preceduta dai due sit-in di Non una di meno di fronte all’ambasciata di Teheran nella capitale, a cui ha fatto seguito ieri quella dei Radicali. Ieri mattina il corteo romano è partito da Piazza della Repubblica per raggiungere Madonna di Loreto, a fianco del Vittoriale. Un migliaio le persone in un corteo rumoroso e colorato, tra le note di Bella ciao e lo slogan che ha accompagnato fin dal principio la rivolta in corso in Iran, “Donne vita libertà”. Tante le donne che si sono tagliate ciocche di capelli in piazza in solidarietà con le iraniane, altre quelle con il volto di Jhina Mahsa Amini sulla maglietta, la 22enne curda la cui uccisione per mano della polizia morale ha fatto da scintilla alla mobilitazione. Scene simili nelle altre città coinvolte. E in rete cresce la mobilitazione dei lavoratori tech iraniani in diaspora che disattivano gli account social degli arrestati in Iran per impedire che le autorità trovino prove della dissidenza, costringendoli ad anni di carcere. Brasile. “Un’ondata di speranza contro la strategia dell’odio” di Paolo Vittoria Il Manifesto, 2 ottobre 2022 Ritorno al futuro. Intervista a Marcia Tiburi, scrittrice e filosofa in esilio dopo la persecuzione del Movimento Brasil Livre. “L’attuale governo ha usato la pandemia come arma biologica contro i poveri, in particolare gli indigeni”. Marcia Tiburi, scrittrice, filosofa femminista brasiliana si trova in esilio a Parigi per i continui attacchi da parte di gruppi violenti come il Movimento Brasil Livre. Oggi guarda alle elezioni del suo Paese con fiducia, ma una possibile vittoria di Lula non sarà sufficiente a sconfiggere il clima di odio e disinformazione innescato dal “bolsonarismo”… Come vivi questa vigilia delle elezioni in Brasile? Con molta ansia ed aspettativa di cambiamento. Sono stati quattro anni terribili, anche per me che sto fuori dal Brasile da quell’epoca. Negli ultimi giorni un’ondata di speranza, di gioia ed amore ha preso il sopravvento nelle strade e sui social contro l’odio che alimenta l’estrema destra. Molti credono nella vittoria al primo turno. Spero di sbagliarmi, ma penso che avremo un secondo round e la competizione sarà agguerrita. La campagna di Lula è basata sull’amore contro l’odio; la verità contro la menzogna: cosa c’è al di là di queste semplificazioni? Il sentimento di odio ha favorito il potere di soggetti come Bolsonaro. Hanno bisogno di creare un nemico da colpire, dal Partido dos Trabalhadores, all’anticomunismo delirante, all’antifemminismo o antiecologismo. La campagna di odio attacca intellettuali e professori, attivisti o persone pensanti, ma è anche un odio generico. Il Movimento Brasil Livre - ad esempio - ha come tattica la violenza: nel mio caso ha creato una campagna di diffamazione, invadeva luoghi in cui ero invitata, aggrediva le persone, faceva attività di disturbo usando maschere del loro leader Kim Kataguiri. Hanno prodotto video e immagini diffamatorie, fake news, ho ricevuto minacce di morte per telefono e nelle reti sociali fino a dover lasciare il Paese. Usano la mia immagine anche perché sono una donna, professoressa di filosofia, impegnata nella vita pubblica. La campagna basata sull’amore e la verità ha il merito di non incitare questo sistema. Sconfiggere Bolsonaro non significa sradicare questa tendenza al fascismo … Il bolsonarismo è ampio: dalle élite-oligarchie a un fascismo alla brasiliana che attinge le masse popolari ed è mosso da questo discorso di odio, ripetendolo e spargendolo all’infinito. Bolsonaro sembra essere un ipnotizzatore in un gioco di comunicazione per manipolare la mente e la sensibilità. Credo che vada letto come problema lacaniano, nel senso che è un processo del linguaggio che ha effetto nell’inconscio delle masse ed è pericoloso perché attinge anche persone comuni che non aderiscono ideologicamente al fascismo. Nel 2013-14 parlavo della fascistizzazione del Brasile nel libro Como conversar com um facista ma non tutti capivano. Il fascismo è cresciuto con le manifestazioni del 2013 con il Movimento Brasil Livre patrocinato dall’estrema destra internazionale. Agitatori fascisti, come nell’epoca di Mussolini, creano i primi fuochi di tensione e di odio che portano alla fascistizzazione per muovere le masse. Ci sono in Brasile 500 cellule nazifasciste che devono essere processate, ma siamo diventati uno Stato di eccezione che non rispetta la Costituzione. Le manifestazioni in Brasile del 2013-14 erano iniziate contro l’aumento del prezzo dei trasporti pubblici, contro le speculazioni sui Mondiali e le Olimpiadi. Come mai hanno preso una piega di destra eversiva? Perché la sinistra non fa populismo né manipolazione di massa, ha ancora un parametro morale mentre il gioco dei fascisti è la menzogna, la fake news senza scrupolo, l’orchestrazione del discorso di odio. La sinistra ha tardato a diagnosticare quello che stava accadendo su teorie che si fingono razionali, ma hanno la codardia dell’inganno. Adesso c’è un vasto materiale mediatico, antropologico, giuridico, come quello di Deisy de Freitas de Lima Ventura, professoressa della Universidade de São Paulo, che con gli atti dimostra come il governo Bolsonaro abbia usato la pandemia e il virus come arma di guerra biologica contro i popoli più poveri, in particolare gli indigeni: materiale che può essere utilizzato dal tribunale internazionale. Cosa dovrà fare Lula, se eletto? Nel caso di vittoria, Lula dovrà affrontare oligarchie che non hanno un minimo di etica né rispetto per il Paese, per le leggi o istituzioni, che continueranno a minare lo Stato e la società brasiliana. Sarà molto difficile governare e neutralizzare i settori vampireschi della società. La loro tattica viene da un progetto pubblicitario che Steve Bannon ha venduto all’estrema destra, anche quella italiana: esporre preconcetti, attaccare, minacciare con urla, insulti, usando una manipolazione psichica molto forte, lavaggio cerebrale, psicopotere come tecnologia politica. Usano la disinformazione con molto denaro proveniente da grandi settori finanziari. Continueranno a incitare alla guerra civile come fa Bolsonaro dal 2016 che parla da leader di una setta e ha liberato le armi, l’agrotossico, l’esplorazione dell’oro in Amazzonia, la deforestazione, fa elogio e difesa della morte. Queste manifestazioni di violenza dovranno essere punite secondo la legge e bisognerà costruire un progetto di Paese che passi per l’educazione e la cultura, un programma interdisciplinare di politiche pubbliche in grado di smontare queste scene di brutalità, di regolamentare i mezzi di comunicazione e disinnescare l’odio nelle reti sociali.