Più carceri non servono, caro ministro Nordio spiegalo tu alla Meloni di Riccardo Polidoro Il Riformista, 29 ottobre 2022 “La pena non coincide necessariamente con il carcere. L’esecuzione della pena, che deve essere certa, deve essere proporzionata, deve essere soprattutto equa, perché il primo giudice del giudice è l’imputato o il condannato”. Questa una delle prime dichiarazioni del nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che ha aggiunto: “La pena deve essere orientata alla rieducazione del condannato. Questo non significa essere buonisti, ma applicare la Costituzione”. Un pensiero che ci riporta indietro di venti anni, quando la Commissione ministeriale, presieduta da Nordio, anticipò la riforma Cartabia, dando al giudice della cognizione la possibilità di applicare al condannato una misura alternativa. Oggi il neo-ministro vuole riorganizzare il sistema penitenziario e ha affermato che questa è certamente una priorità. La notizia, tenuto conto dei valori che hanno accompagnato la vita professionale del ministro, è incoraggiante ma contrasta con l’idea di esecuzione penale fino ad ora proclamata da Fratelli d’Italia, il partito del presidente del Consiglio. Certezza della pena uguale certezza del carcere. Non esiste altro modo di espiare la pena se non da detenuti. Garantisti nel processo, giustizialisti nell’esecuzione delle condanne. Si è giunti anche a presentare un disegno di riforma costituzionale dell’articolo 27, in quanto la pena non deve solo rieducare. Nel suo discorso alla Camera, tenuto martedì scorso, Giorgia Meloni ha fatto riferimento al drammatico dato dei suicidi in carcere, giunto a quota settantuno. Ha detto che è un dato indegno per una nazione civile, come indegne sono le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria. Non una parola su misure alternative e sulla dignità dei detenuti che quotidianamente vedono calpestati i loro diritti. Ha poi rilanciato il cosiddetto “piano carceri”, cioè la costruzione di nuovi istituti di pena. Una minestra riscaldata che si ripropone ogni tanto ma che, come è facilmente comprensibile, non è idonea a risolvere alcun problema. E seppure fosse la strada giusta da seguire - e non lo è - quanto tempo ci vorrebbe per portare a termine il progetto? Bando di gara europeo, progettazione ed esecuzione, minimo quattro anni. Una volta ottenuto il manufatto, lo stesso va riempito con personale idoneo: dirigenti, impiegati, polizia penitenziaria, educatori, psicologi. Tutte figure, oggi, carenti, perché i vuoti di organico riguardano tutti gli istituti esistenti. Moltissimo tempo, dunque, ed enormi risorse economiche. La scelta sarebbe fallimentare perché aprire nuovi spazi detentivi è un rimedio peggiore del male. L’istituzione carcere va circoscritta in un ambito minore e deve rappresentare la soluzione solo in quei casi in cui altre scelte non sarebbero possibili, per palesi e comprovate ragioni di sicurezza. Da un sistema carcerocentrico è necessario giungere ad un diritto penale che veda ridotte le fattispecie di sua competenza e ad un’esecuzione che sfrutti al massimo pene alternative, effettivamente votate al recupero sociale del condannato. Questo l’ha chiesto, ormai nel lontano 2013, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, ma l’Italia ha solo finto di voler rimediare, lasciando di fatto tutto come prima ed oggi peggio di prima. Il Nordio-pensiero, dunque, non è quello del presidente del Consiglio, ma il ministro ha un alleato nel capo dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi che, mentre Giorgia Meloni teneva il suo discorso alla Camera, ha ribadito, ancora una volta, intervenendo al Salone della Giustizia, che “in tutti i sistemi penitenziari esiste un catalogo di sanzioni che va ben oltre il carcere e che anzi vede, in misura maggiore, il ricorso a misure meno costose , in termini economici e sociali, rispetto al carcere. Dunque se anche il problema della pena si affrontasse prevalentemente costruendo nuove carceri, ciò non significherebbe abbandonare la prospettiva delle misure alternative come strumento essenziale. Inoltre, se di nuove carceri bisogna parlare - e a mio avviso è anche giusto farlo - lo si deve fare, intanto, per chiudere quelle vecchie ed impresentabili, per costruirne di nuove, maggiormente idonee a realizzare, attraverso il trattamento, l’obiettivo del recupero”. Nordio e Renoldi mangeranno la minestra riscaldata proposta dal presidente del Consiglio o, rischiando l’autorevole incarico, imporranno il loro pensiero, magari prendendo spunto da quella riforma dell’ordinamento penitenziario già scritta e immediatamente attuabile, frutto del lavoro della Commissione ministeriale presieduta dal professor Glauco Giostra? Suicidi e sovraffollamento. Antigone: “Bene conoscere il problema, ma non basta” di Luca Cereda vita.it, 29 ottobre 2022 Nella sua relazione a Montecitorio, la premier ha parlato di giustizia solo per rapidi accenni, e lo ha fatto ricordando il dramma dei 72 suicidi nell’anno in corso, “ma in chiave poco rassicurante quando dice che il rimedio al sovraffollamento e ai suicidi in cella è costruire nuovi penitenziari”, secondo il giurista e presidente dell’Associazione Antigone Patrizio Gonnella. La presidente del Consiglio Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento ha parlato di giustizia, di suicidi in carcere e Polizia Penitenziaria: “Dall’inizio di quest’anno sono stati 71 [72 oggi, venerdì 28 ottobre. Un 24enne si è tolto la vita a Torino dopo pochi giorni di carcere] i suicidi in carcere. È indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”, ha aggiunto Meloni, ricordando che “legalità vuol dire anche una giustizia che funzioni, con una effettiva parità tra accusa e difesa e una durata ragionevole dei processi, che non è solo una questione di civiltà giuridica e di rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, ma anche di crescita economica. Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri” Ogni vita persa è una tragedia, “ma 72 suicidi sono più di questo, perché significa che c’è qualcosa di sistemico e sistematico. Queste parole della presidente Giorgia Meloni però sono una presa di coscienza del fenomeno. Bisogna però capire da che parte si orienta la risposta”, sostiene il giurista e presidente dell’Associazione Antigone Patrizio Gonnella. Non c’era, come prevedibile per i tantissimi temi toccati, molto spazio per la giustizia, certo. E il poco che Giorgia Meloni ha trovato nel suo discorso è stato corredato da accenni come sul carcere. La premier parte dalla “certezza della pena”, dicendo che è un “principio basilare”. E traduce il concetto così: “È indegno di un paese civile che dall’inizio dell’anno vi siano stati 71 [72 oggi] suicidi in cella”, scempio che secondo Meloni va stroncato con un “nuovo piano carceri”. Vecchia idea della cultura “preventiva”, per non dire giustizialista: all’indecenza delle condizioni disumane dei reclusi si risponde con più spazi per rinchiuderli, non con le misure alternative. E Meloni si associa a quel filone pochi minuti prima che, da via Arenula, il suo guardasigilli Carlo Nordio diffonda una nota in cui ribadisce più volte che “la pena non è solo carcere”. Il neo ministro della giustizia, appena nominato ha subito aggiustato il tiro del nuovo governo passando dalla certezza della pena alla certezza del diritto: “Non si combatte il sovraffollamento delle carceri depenalizzando - ha detto -. Io credo nel valore e nel principio della certezza del diritto. Liliana Segre ha detto che noi dobbiamo sapere scegliere il giusto. Ma come si fa ad aiutare chi sceglie il giusto, se chi sceglie ciò che è sbagliato non paga mai? Credo che la certezza del diritto dipenda anche dalla certezza della pena”. “Crediamo sia antiquata ed errata la reazione alla mancanza di spazi in carcere, che portano come concausa ai tantissimi suicidi di quest’anno e degli anni scorsi, con la costruzione di nuove carceri. È anche una risposta antieconomica, con tempi lunghi e molto superata. Non vale né socialmente né economicamente. Inoltre i 7-8 mila detenuti in più risposto ai posti disponibili negli istituti di pena, richiederebbero almeno trenta nuove carceri da 250 posti circa con nuovi dirigenti, nuove figure amministrative e agenti. Un costo che sarebbe da sostenere con nuove tasse che oggi francamente ci sembra improbabile vengano introdotte per questo”, spiega Gonnella. La neopresidente del Consiglio insomma dà l’impressione di essere inchiodata, in materia di giustizia, su un programma e un orizzonte da “legge e ordine”, non dissimile dalla piattaforma di opposizione appena archiviata. Non è un dato definitivo, tenuto conto che in un discorso di un’ora e dieci, lo spazio dedicato ai temi del processo, della magistratura, dei tribunali sovraccarichi e spopolati di personale è stato limitatissimo, quasi marginale. E che, insomma, è mancata un’articolazione in grado di far capire cosa davvero la premier intenda fare in quell’ambito. Da Antigone però, insistono su un punto: “Per superare il sovraffollamento riteniamo che si debba superare l’idea che l’unica pena sia il carcere: Servono pene di tipo intedittivo, di tipo ablativo - ovvero sanzioni amministrative, alternative, ricorrendo ai lavori di pubblica utilità e alle messe alla prova. Carlo Nordio aveva elaborato una bozza di riforma del codice penale che andava in questa direzione. Speriamo che si diversifichino le pene”, aggiunge il presidente dell’associazione penitenziaria. Questa strada secondo patrizio Gonnella porterà ad un numero di persone in carcere che consenta una gestione trattamentale efficace per gli spazi esistenti e il personale in servizio dentro gli istituti di pena: “È allora - conclude Gonnella - che riteniamo si possa rendere umana e proficua la pena. E qui c’è un lavoro già fatto, quello della commissione Ruotolo che dava indicazioni su come modernizzare e umanizzare la situazione in carcere. Tenendo conto anche degli operatori e degli agenti di polizia, non in modo ideologico come fatto dal leader della Lega Matteo Salvini andando fuori del carcere di San Gimignano a dare solidarietà a chi era accusato di violenza, ma occupandosi dei turni di lavoro, della formazione e delle condizioni della loro salute mentale, assumendo persone con percorsi universitari sia tra gli agenti che tra gli educatori, e riconoscendo anche economicamente il loro lavoro”. Giovane suicida in carcere a Torino: Meloni promette nuove strutture, ma è questa la soluzione? di Susanna Marietti* Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2022 Un altro suicidio in carcere, il settantaduesimo dall’inizio dell’anno. Facendo le proporzioni, è come se in Italia nella società libera quasi 80.000 persone avessero scelto di togliersi la vita (i suicidi nel nostro Paese sono meno di 4.000 l’anno). Sarebbe considerata un’emergenza nazionale e non si parlerebbe di altro. Il ragazzo che si è impiccato nel carcere di Torino era dentro per aver rubato un paio di cuffiette bluetooth. Era stato arrestato due giorni fa. Molti tra coloro che si sono suicidati in carcere negli ultimi mesi erano giovani arrestati per piccoli o piccolissimi reati. La nuova premier Giorgia Meloni nel rispondere all’intervento di Ilaria Cucchi durante il voto di fiducia al Senato ha riconosciuto il problema dei suicidi in carcere e ha sostenuto che bisogna costruire nuove strutture per evitare il sovraffollamento e che ci vuole la certezza della pena. Prendiamo atto della sua presa di coscienza rispetto alla drammaticità del tema. Ma è davvero quella la soluzione? A questo deve servire il carcere? Le nuove strutture dovrebbero rinchiudere altri pericolosi criminali che rubano una cuffietta bluetooth e che al secondo giorno non reggono la galera e si mettono un cappio al collo? Il carcere dovrebbe costituire la risposta estrema del sistema penale, da riservarsi alle situazioni più gravi. Chi conosce le galere sa invece che esse sono piene di disperati, di persone senza reti sociali, di emarginati, di poveri, di senzatetto, di tossicodipendenti, di immigrati, di malati psichiatrici: di tutti coloro alle cui vite un welfare sempre più dismesso ha rinunciato. Ma anche guardando più prosaicamente alla real politik, la premier Meloni sa bene che ogni piano di edilizia penitenziaria è una promessa ben difficile da mantenere. Oggi mancano quasi 9.000 posti letto affinché in carcere non ci sia sovraffollamento. Le carceri che funzionano non devono mai avere più di 250 posti. Quindi avremmo bisogno (per ora: il numero dei detenuti varia rapidamente) di 35 carceri. Per costruirne una di tali dimensioni ci vogliono circa 25 milioni di euro. Quindi servirebbero quasi 900 milioni di euro sull’unghia. Poi il carcere va riempito: agenti, direttori, educatori, bollette, brandine. Migliaia di persone e servizi per milioni e milioni di euro. Non credo che il governo ne potrà spendere. Con maggiore lungimiranza il ministro Carlo Nordio ha parlato dell’importanza di usare pene alternative. Non si tratta di incertezza della pena, ma di certezza di un altro tipo di pena. Il carcere non è la sola pena possibile. La strada da prendere è quella della depenalizzazione e della decarcerizzazione. Magari un ragazzo che ha rubato un paio di cuffiette e non ha sopportato due giorni di galera adesso sarebbe ancora vivo. *Coordinatrice associazione Antigone Ennesimo suicidio, ma sulle carceri ambiguità anche nel governo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 ottobre 2022 Era da appena due giorni in carcere alle Vallette di Torino per aver tentato di rubare un paio di cuffie. E ieri si è tolto la vita impiccandosi il giovane detenuto di origine africana. Con la sua morte sono 72 i suicidi in carcere dall’inizio dell’anno, ai quali, come sottolinea il segretario generale della Uilpa polizia penitenziaria, Gennarino De Fazio, vanno “aggiunti quattro appartenenti al Corpo di polizia penitenziaria che si sono tolti la vita”. Ma “costruire nuove carceri non risolve i problemi del sistema penitenziario e non contribuisce alla sicurezza”, come scrive l’associazione Antigone in un tweet, nel quale riferisce che “solo il 38% dei detenuti è alla prima condanna, mentre il 62% di chi è in carcere c’è stato almeno un’altra volta. Il 18%, invece, in carcere c’è stato almeno altre 5 volte”. E il tema carcere con le diverse posizioni da giorni sta interessando il dibattito politico a partire dalle dichiarazioni in Senato, il giorno della votazione di fiducia al governo Meloni. Ilaria Cucchi, senatrice di Sinistra italiana - Verdi, ha fatto un intervento molto sentito, misurato, rispettoso che facciamo anche nostro. Parliamo delle aberrazioni del carcere, delle morti, del sovraffollamento e della visione carcerocentrica della società. La risposta della presidente del Consiglio Giorgia Meloni, seppur con altrettanta misura e rispetto, è la vecchia narrazione ribadita in precedenza anche dai grillini Conte e Bonafede. Stesso slogan: “costruire nuove carceri” e “certezza della pena”. Per quanto riguarda la costruzione di nuove carceri, già è stato collaudato nel passato (e nel presente) ed è risultato fallimentare. Più ne costruisci, più si riempiono. Scenari quindi già visti e rivisti: si costruisce un nuovo contenitore, nel giro di poco si sovraffolla o si lascia inattivo per mancanza di fondi. È successo negli anni 80, poi ripetuto nel 2008, poi nel 2010, nel 2018 e anche ora con i fondi del Pnrr. Di fronte all’emergenza, la politica, vecchia e nuova, risponde con la costruzione di nuove carceri che puntualmente non bastano mai. Motivo per il quale, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura (Cpt) disse all’Italia che costruire nuove carceri per risolvere il problema del sovraffollamento non è la strada giusta, perché “gli Stati europei che hanno lanciato ampi programmi di costruzione di nuovi istituti hanno infatti scoperto che la loro popolazione detenuta aumentava di concerto con la crescita della capienza penitenziaria”. Viceversa, “gli Stati che riescono a contenere il sovraffollamento sono quelli che hanno dato avvio a politiche che limitano drasticamente il ricorso alla detenzione”. In carcere le persone ci vanno eccome, numerosi detenuti muoiono nonostante l’incompatibilità con le strutture penitenziarie. Senza calcolare che vi sono rinchiusi anche quelli con pene brevissime e che, in mancanza di alternative, sono esclusi dalla misura alternativa. Poi c’è la “certezza della pena”. Una definizione snaturata e declinata in altro. In realtà ha un significato ben preciso e viene contemplata dall’articolo 25 della Costituzione. La ‘certezza della pena’ consiste nel fatto che se un cittadino tiene una certa condotta, deve sapere se essa costituisca reato oppure no, e in caso positivo deve sapere quali siano le sanzioni previste. La pena è ‘certa’ quando né il reato né la misura sono frutto dell’improvvisazione del potente di turno. La ‘ certezza della pena’ non c’entra nulla con la visione carcerocentrica che ha ribaltato il suo alto significato costituzionale. Il neoministro della Giustizia Carlo Nordio, alla sua prima uscita pubblica, ha detto esplicitamente che la pena non è esclusivamente quella carceraria. Riuscirà a conciliarsi con la visione, e anche la maggior parte dei mezzi di informazione non aiutano in questo, del tutto errata che ha la presidente del consiglio Meloni? La senatrice Cucchi è stata chiara: “(…) Presidente, riconosco in lei la prima donna presidente del Consiglio, madre e - sì - anche italiana. Io le chiedo di andare a visitare, appena avrà modo, il mondo che ho avuto la fortuna di conoscere: quello del volontariato. La prego di farlo, Presidente, e sono convinta che cambierà idea su tante realtà e sulle grandi possibilità di riscatto che hanno gli ultimi, cittadini comuni, di organizzarsi spontaneamente e pacificamente tra loro per offrire ad essi stessi e ad altri una vita più sostenibile. Ultimo, ma non ultimo ovviamente, è il tema del mondo delle carceri, dove lo Stato è fin troppo spesso ‘assente’ ed uso un eufemismo. Sono luoghi di vita e di lavoro, piegati dalla sofferenza per le condizioni disumane in cui sono costretti a sopravvivere agenti e detenuti abbandonati dallo Stato, che preferisce di fatto metterli in guerra gli uni contro gli altri piuttosto che operare riforme serie per una giusta e doverosa riqualificazione dei diritti e delle vite di tutti coloro che sono costretti a starci insieme. Sarebbe fin troppo semplice intervenire per lo Stato, che viceversa pare preferire il concetto delle carceri come discarica sociale, piuttosto che come luogo di rieducazione e offerta di nuove possibilità. Così si innescano vere e proprie situazioni esplosive, alle quali lo Stato risponde solo ed esclusivamente con l’unico mezzo che pare conoscere: la repressione. I settantuno suicidi dall’inizio dell’anno sono una tragedia, segno di un modello penitenziario in crisi. Parlando di carcere non si può non partire dall’articolo 27 della Costituzione, scritto da chi aveva subito la prigionia durante il fascismo. Quell’articolo non va cambiato, signor Presidente, ma va pienamente applicato. Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di più carceri, signor Presidente, ma di carcere migliori e di meno detenuti. Ben venga ogni riforma del codice penale che depenalizzi e riduca il carcere ad estrema ratio. Presidente Meloni, questo sistema non lo ha certo creato lei, ma nel suo programma non vedo una sola parola tesa in tal senso. Anche per questo non voterà la fiducia, ma vi invito a tenere in considerazione le mie parole. Concludo, signor Presidente. Voglio entrare in quest’Aula con le parole di una donna a cui dobbiamo molto e che onora il Senato, le parole della senatrice Liliana Segre: “L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di che si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo”. Devo ringraziarla, senatrice Segre, perché in questo passo c’è la forza di un messaggio che può cambiare il mondo e che a me ha cambiato la vita: non voltarsi mai dall’altra parte; affrontare le ingiustizie anche a rischio di pagare un prezzo carissimo - come è accaduto a me - come quello della propria vita e serenità; scegliere il giusto e il bene comune, come ha fatto lei e come abbiamo il compito, colleghi, di fare oggi tutti noi. Buon lavoro”. Un ragazzino s’è ucciso in cella. Aveva rubato delle cuffiette. Chi è il responsabile di quell’arresto folle? di Piero Sansonetti Il Riformista, 29 ottobre 2022 È un ragazzino di 22 anni, africano, beccato all’uscita di un supermercato con delle cuffiette in tasca che non aveva pagato. Si è impiccato. Non c’entrano niente le carceri sovraffollate, il carcere comunque è barbarie. Un ragazzino di 22 anni, africano, si è ucciso nel carcere Lorusso e Cutugno di Torino. Impiccato. Non conosciamo il suo nome e neppure il modo nel quale è riuscito a suicidarsi. Sappiamo solo un paio di cose. La prima è che è il suicidio numero 72 nel corso di quest’anno. È un numero record. Pazzesco. Una media di circa un suicidio ogni 4 giorni. Quasi due a settimana. È un’emergenza assoluta. La seconda cosa che sappiamo è il motivo per il quale questo ragazzo era stato chiuso in carcere: aveva rubato al supermercato delle cuffiette per lo smartphone. Lo hanno beccato e trascinato il prigione. La polizia ha proceduto all’arresto che deve essere stato autorizzato da un magistrato. A quanto si è saputo, ieri si è tenuta l’udienza di convalida dell’arresto e il giudice si è riservato di prendere una decisione nei prossimi giorni. Noi non sappiamo se il Pm che aveva disposto l’arresto, in sede di udienza di convalida abbia o no chiesto che il ragazzino restasse in prigione. È abbastanza probabile, altrimenti il giudice di fronte a una richiesta unanime di scarcerazione da parte del Pm e dell’avvocato d’ufficio, avrebbe sicuramente disposto la scarcerazione. Se le cose non fossero andate così, e cioè se il Pm che aveva disposto l’arresto ha poi chiesto la scarcerazione, capendo, seppure con qualche ora di ritardo, la follia della sua decisione, ci troveremo di fronte a una situazione ancora più paradossale: un giudice che di fronte a delle cuffiette rubate, a un ragazzino arrivato dall’Africa e a due richieste convergenti di scarcerazione, dovesse riservarsi, incerto, la decisione, sarebbe un giudice dai criteri di giudizio molto singolari. Avete letto fin qui che toni soft stiamo tenendo? Beh, sono un errore i toni soft. La morte di questo ragazzo grida vendetta al cielo. Chi è stato responsabile del suo arresto per il furto di cuffiette in un supermercato è certamente una persona poco equilibrata. Esiste tra i lettori nostri o di qualunque altro giornale, qualcuno disposto a dire che se un ragazzino ruba delle cuffiette va messo in prigione? Perché allora a un magistrato è permesso compiere un gesto così assurdo di violenza e di sopraffazione? Aveva ragione Berlusconi quando chiedeva una visita psichiatrica periodica per i magistrati che hanno nelle loro mani un potere così sconfinato e assurdo? Si, aveva ragione. Stavolta, se dio vuole, la notizia ha provocato qualche reazione. Innanzitutto nei giornali, che in genere non sono molto interessati ai suicidi in carcere. Ieri invece le informazioni su questo delitto, seppure molto frammentarie, erano nelle home page di molti giornali on line, a partire dai due principali, Repubblica e il Corriere. E questo ha spinto anche i politici a reagire. Il commento fondamentale riguarda la condizione di sovraffollamento e di fatiscenza in moltissime carceri italiane. Denuncia giusta. Ripetuta nei giorni scorsi dal nuovo ministro e anche dalla nuova premier. In questo caso però sovraffollamento e fatiscenza non c’entrano niente. I commenti sono sbagliati. Il ragazzo era in prigione solo da due giorni e non si è ucciso per via del sovraffollamento ma perché la sua mente e il suo orgoglio non hanno resistito alla violenza inaudita che una prigione esercita per sua natura sui detenuti. La prigione è un luogo estraneo a ogni idea di civiltà, è una istituzione che demolisce le persone, privandole della libertà, sottoponendole a un potere incontrastabile, annientandone il morale e la reputazione, radendone al suolo il morale e la dignità. Bisogna avere una forza morale eccezionale per resistere a questa infamia, della quale, misteriosamente, la modernità e la civiltà non sono ancora riuscite a liberarsi. Le prigioni sono un insulto al buonsenso e all’umanità. Sono inutili, dannose, sadiche, servono soltanto ad esagerare il potere di alcune piccole categorie di persone, in particolare i magistrati. Vanno abolite. Ha un senso mantenerne un piccolissimo numero, con pochissimi detenuti, solo per ragioni di sicurezza della comunità. Essenzialmente per assicurarsi che gli assassini, o i violentatori, siano messi in condizioni di non nuocere e di raggiungere dei traguardi di ripensamento e di rieducazione. Basta. L’idea che costruire nuove carceri - come ha detto tra gli appalusi Giorgia Meloni alla Camera - serva a rendere civili le carceri, è fuori dal mondo. Costruire nuove carceri serve solo a moltiplicare i luoghi di tortura e di affossamento del diritto. Se Italia ci fossero state cento carceri in più, il ragazzo africano che si è ucciso ieri si sarebbe ucciso lo stesso. E se le nuove carceri fossero servite ad aumentare il numero dei detenuti, sarebbe proporzionalmente aumentato il numero dei suicidi. Dopodiché si pongono due problemi ineludibili. Il primo riguarda la politica. Senza una formidabile depenalizzazione i problemi della giustizia sono irrisolvibili. Perché? Perché questo codice penale è profondamente ingiusto e repressivo, e con un codice penale ingiusto la giustizia è condannata. Depenalizzazione vuol dire cancellazione di moltissimi reati e riduzione drastica delle pene. Ci sono reati non violenti, e che non prevedono vittime individuali, puniti con dieci o quindici o vent’anni di prigione. È da pazzi. Il secondo problema riguarda la magistratura. Se vuole riconquistare il prestigio perduto deve fare moltissime cose. Ma la cosa principale che deve fare è smetterla di arrestare la gente senza ragione. Ricchi e poveri. C’è in giro un magistrato che giurerebbe sul fatto che è stato giusto sbattere in cella quel ragazzo? Non credo. Se c’è si alzi in piedi e lo dica a voce alta. Voglio vederlo in faccia. In carcere per un paio di cuffiette, si suicida. È il 72esimo di Eleonora Martini Il Manifesto, 29 ottobre 2022 Settantadue. È un numero e allo stesso tempo una moltitudine. In entrambi i casi, una tragedia. Nel freddo ragionamento aritmetico e statistico, ieri con il 72esimo suicidio nelle carceri italiane è stato raggiunto un record non più relativo ma assoluto: mai toccato, almeno dal 1980 ad oggi, secondo i dati ministeriali elaborati dalla redazione di Ristretti orizzonti. Solo nel 2009, a fine anno però, si è raggiunto un pari numero di detenuti suicida. Ma allora, come ha fatto notare il Garante nazionale delle persone private di libertà personale, Mauro Palma, gli istituti penitenziari italiani stipavano 61 mila carcerati (oggi sono 55.300), tanto che nel 2013 la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia (sentenza Torreggiani) per il sovraffollamento come “trattamento inumano e degradante”. Ma 72 sono anche le storie di vita, di giovani o vecchi, quasi sempre uomini, soprattutto stranieri, sicuramente fragili. Settantadue storie che trascinano nell’abisso della disperazione altre vite, quelle di familiari, amici o anche solo compagni di cella. Il Settantaduesimo non è un numero, anche se non ne conosciamo ancora il nome. Era nato nel 1986 in Gambia, si è impiccato ieri mattina alle 8 in una cella della sezione “Nuovi giunti” del carcere “le Vallette” di Torino. Era stato arrestato due giorni prima per aver rubato un paio di cuffie bluetooth. Non sappiamo se era solo in Italia, se lascia qualcuno che pianga la sua morte. Sappiamo solo che voleva ascoltare della musica. E non poteva permettersi di comprarle, quelle cuffiette. Sappiamo però anche che è il terzo detenuto suicida dall’inizio dell’anno nella casa circondariale Lorusso e Cutugno. L’ultimo, Alessandro Gaffoglio, 24 anni, con gravi problemi psichici, si è tolto la vita il 15 agosto. Anche lui era al primo ingresso in carcere, in uno che dovrebbe contenere solo detenuti con condanna passata in giudicato e che invece al momento contiene più di 1400 detenuti su 1039 posti letto, di cui solo 800 con sentenza definitiva. Tre settimane prima si era suicidato Nuammad Khan, pakistano di 38 anni, accusato di aver molestato un gruppo di ragazzine su un treno della tratta Torino-Pinerolo. “Una volta per il furto di una maglia, questa volta di un paio di cuffiette: questo tipo di arresti da un paio di anni sono diventati un’abitudine molto torinese”, riferisce la Garante dei detenuti di Torino, Monica Gallo. Negli ultimi anni, secondo l’organizzazione di magistrati italiani ed europei “Area Democratica per la Giustizia”, a Torino si è registrato “un significativo incremento del numero degli arresti”. Tendenza che “si è protratta anche nel corso del 2020”, nonostante le limitazioni per il lockdown. Mentre secondo un’analisi effettuata dall’ufficio del Garante territoriale su richiesta del personale penitenziario, dato il “protrarsi della condizione di sovraffollamento ormai divenuto cronico”, dal 1° marzo al 31 maggio di quest’anno hanno fatto ingresso alle Vallette 144 persone: 94 stranieri e 50 italiani, solo 12 erano donne. La stragrande maggioranza sono giovani tra i 20 e i 39 anni. Sui 144 arrestati, 4 sono stati liberati dallo stesso Pm, 107 sono stati scarcerati e solo per 33 il giudice ha convalidato nelle successive 48 ore l’arresto in carcere. Anche per il povero ragazzo gambiano che si è impiccato ieri in pieno giorno, in una cella singola - chissà perché - del reparto “Nuovi giunti”, giovedì c’era stata l’udienza davanti al Gip ma il giudice si era riservato di decidere sul da farsi. “Si tenga presente che ogni arresto prevede una lunga serie di azioni - spiega Gallo - l’immatricolazione, la perquisizione e la catalogazione degli oggetti personali dell’arrestato, il rilievo delle impronte digitali, la fotosegnaletica, la visita medica con tampone Covid e psicologica, il colloquio con il funzionario giuridico pedagogico, la registrazione nel sistema informatico Afis, la consegna del kit di primo ingresso… È un notevole carico di lavoro per gli uffici preposti e allo Stato le prime due giornate in carcere costano circa 350 euro a persona. E per la maggior parte dei casi, la convalida dell’arresto non arriva. Tanto tempo e tante risorse laddove, come alle Vallette, ci sono solo 14 educatori. È chiaro - conclude Monica Gallo - che c’è un’insufficienza e un malfunzionamento delle camere di sicurezza”. E soprattutto, aggiungiamo noi, un mal interpretato concetto di sicurezza. “Il Dap non ha saputo gestire la diffusione del virus nelle carceri”: la relazione dell’Antimafia Il Fatto Quotidiano, 29 ottobre 2022 Palazzo San Macuto ha esaminato il fenomeno delle scarcerazioni dei detenuti durante l’emergenza Covid, che creò scalpore anche perché alcuni esponenti di organizzazioni mafiose - come Pasquale Zagaria e Francesco Bonura - vennero liberati direttamente dal regime di 41 bis. Sulle rivolte la commissione scrive: “Una regia mafiosa? Ipotesi fondata ma da verificare”. “Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, nonostante le diverse circolari emanate dal capo pro tempore all’inizio della pandemia non ha dimostrato di saper gestire l’impatto della diffusione del virus sul sistema carcerario, già ‘provato’ dal persistente fenomeno dell’affollamento. È infatti emerso che è mancata una programmazione, una lungimiranza nel prevedere le inevitabili ricadute dell’epidemia sulle condizioni di salute delle persone detenute”. È quanto si legge in un passaggio della bozza di relazione su ‘Profili di contrasto alla criminalità organizzata nel corso dell’emergenza sanitaria con particolare riferimento all’esecuzione penale’, approvata al termine della scorsa legislatura dalla Commissione parlamentare Antimafia. La relazione è stata resa pubblica solo ora. Palazzo San Macuto ha infatti esaminato il fenomeno delle scarcerazioni dei detenuti durante l’emergenza Covid, che creò scalpore anche perché alcuni esponenti di organizzazioni mafiose -come Pasquale Zagaria e Francesco Bonura - vennero liberati direttamente dal regime di 41 bis. “Occorreva elaborare un piano” - La Commissione osserva che “la diffusione del Covid-19 è cominciata in un momento di sovraffollamento imperante” nelle carceri e inoltre le condizioni in cui versavano gli istituti di pena “non favorivano certo le misure sanitarie di prevenzione del contagio e della diffusione del virus diffuse dal governo a livello nazionale”. L’Antimafia spiega che dunque occorreva “elaborare un piano, condiviso a più livelli tra tutti gli attori, per garantire, in condizioni di sicurezza, il massimo dell’erogazione dei servizi sanitari, anche al fine di evitare che detenuti di spicco, strumentalmente, approfittando della pandemia, si sottraessero all’esecuzione della pena. In un momento particolare di emergenza sanitaria si sarebbe dovuto considerare il pericolo che il virus potesse entrare all’interno delle carceri e quindi la conseguente gravità della sua diffusione tra i ristretti, e fare in modo che ciò non avvenisse”. Al contrario, secondo quanto si sottolinea nella relazione, la gestione dell’emergenza sanitaria da parte dell’amministrazione penitenziaria “si è basata sulla mera adesione alle generali linee guida fornite dal Ministero della salute, che non erano destinate ad affrontare le peculiari esigenze della realtà penitenziaria”. La circolare - Il riferimento è alla nota circolare del Dap che elencava una lista delle patologie che esponevano al rischio contagio Covid i detenuti. Solo che in quell’elenco era finita anche una determinata condizione che patologia non è: avere più di 70 anni. Solo che non si faceva alcuna differenza tra le situazioni dei detenuti: i carcerati comuni e i boss mafiosi erano considerati allo stesso livello di pericolosità. Quella nota sarà citata più volte nei provvedimenti dei giudici di Sorveglianza con i quali saranno concessi i domiciliari a decine di appartenenti alla ‘ndrangheta, a Cosa nostra e alla Camorra. Boss che erano reclusi al 41 bis e soprattutto in regime di Alta sicurezza. “Si è quindi avuta una valutazione della situazione non del tutto adeguata, inidonea a consentire un’azione efficace all’interno degli istituti penitenziari”, osserva la Commissione convinta che sia “mancata una preventiva, autonoma azione di programmazione strategica”. C’è stato quindi, secondo la commissione che era presieduta da Nicola Morra, “un graduale passaggio da una prospettiva per cui bisognava lavorare soprattutto in concorso, in sinergia con i centri ospedalieri e le residenze sanitarie protette, ad un’altra, per la quale, invece, era necessario ampliare il novero delle misure alternative alla detenzione perché evidentemente di più facile gestione”. “E ciò - conclude - nonostante il governo avesse già cercato di risolvere il problema dell’affollamento carcerario attraverso il decreto ‘Cura Italià per favorire la concessione della detenzione domiciliare per le pene inferiori ai 18 mesi. Se è mancata programmazione a livello generale ancor più evidente appare carente la dovuta attenzione ai detenuti condannati per delitti di criminalità organizzata”. “Regia mafiosa dietro le rivolte? Ipotesi fondata ma da verificare” - Nella relazione si ragiona anche sulle rivolte avvenute nei penitenziari nei primi giorni della pandemia. “L’ipotesi fondata, ma ancora da verificare sul piano processuale - si legge - è che dietro le proteste, le sommosse, i tumulti e le violenze, ma anche dietro le manifestazioni esterne di appoggio, ci possa essere stata una regìa o un sostegno di matrice mafiosa, rende ancora più urgente l’adozione di metodiche e tecnologie tese ad impedire che i detenuti, anche di elevata pericolosità, possano comunicare con l’esterno. Sul punto, la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo ha informato la Commissione che i Procuratori distrettuali più direttamente interessati al controllo dei detenuti sottoposti al regime differenziato ex art. 41-bis O.P., per l’elevato numero di detenuti sottoposti a tale regime, hanno condiviso l’esigenza di una schermatura degli istituti penitenziari per bloccare il fenomeno dell’uso dei telefoni cellulari”. A questo proposito la commissione sottolinea come “nelle sezioni detentive sempre più frequentemente vengono rinvenuti telefonini, smartphone, sim card, in uso ai detenuti. Questa situazione, oltre a consentire le comunicazioni con l’esterno anche per programmare o decidere l’esecuzione delle attività criminali, ha verosimilmente agevolato la concertazione delle rivolte dei primi di marzo del 2020”. Quindi Palazzo San Macuto fa un paragone tra “la concomitanza delle proteste avvenute nelle carceri su tutto il territorio nazionale e dalla presenza di presidi dei familiari e di manifestazioni a sostegno all’esterno degli istituti stessi. Non a caso alle rivolte non hanno partecipato i vertici delle organizzazioni mafiose e i soggetti ristretti all’art. 41-bis O.P., né può, d’altronde, ritenersi che i detenuti sottoposti a questo regime differenziato siano in ambienti assolutamente impermeabili alle comunicazioni con l’esterno o che non possano sapere cosa succede nel proprio carcere o che non riescano, ipoteticamente, a dirigere o fornire il placet all’avvio e all’esecuzione di iniziative anche concertate o complesse, come gli eventi del marzo 2020. A riprova, si ricorda il rinvenimento, quattro mesi prima delle rivolte, di tre telefoni cellulari nel reparto 41-bis O.P. di Parma”. Perché gli ospedali psichiatrici giudiziari non devono riaprire di Raffaella Tallarico rollingstone.it, 29 ottobre 2022 La proposta di un sindacato di polizia penitenziaria vorrebbe proteggere gli agenti, che non riescono a gestire i detenuti con disturbi psichiatrici, perché pochi e non supportati da personale adeguato. Ma la chiusura degli opg rimane una conquista giuridica e sociale, nonostante i fronti ancora aperti e le difficoltà applicative del nuovo sistema. Venerdì scorso, un detenuto ricoverato nel reparto di psichiatria dell’ospedale Martini di Torino rifiuta la terapia e inizia a opporre resistenza, minacciando con la gamba di un tavolo i medici, gli infermieri e gli agenti che lo stavano sorvegliando. La situazione rientra con l’intervento delle forze dell’ordine, ma l’episodio mette in allarme il Sappe, uno dei sindacati di polizia penitenziaria più rappresentativi. Per il segretario generale, Donato Capece, “Gli ospedali psichiatrici giudiziari devono riaprire, meglio strutturati e meglio organizzati, per contenere questa fascia particolare di detenuti”, evidenziando che il disagio mentale, dopo la chiusura di queste strutture, “è stato riversato nelle carceri, dove non ci sono persone preparate per gestire queste problematiche, mancano strutture adeguate e protocolli operativi”. Capece rincara la dose, paventando lo stato di agitazione dei poliziotti penitenziari che, in grave carenza di organico, “devono affrontare da soli questi squilibrati senza alcuna preparazione e senza alcun aiuto”. La dichiarazione è forte e, per certi aspetti, anacronistica, visto che il percorso di chiusura degli opg rappresenta una conquista giuridica e sociale. “Praticamente si auspica un ritorno al medioevo - commenta Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone - si dovrebbe dire la stessa cosa per tante persone con disturbi psichiatrici che vanno in escandescenza, senza commettere reati. Che facciamo, riapriamo i manicomi chiusi con la legge Basaglia?”. Gli opg hanno effettivamente chiuso i battenti nel maggio 2017, dopo una lunga fase di transizione - durata circa 9 anni - e su spinta dei lavori di una Commissione parlamentare d’inchiesta del Senato che, visitando nel 2011 i 6 ospedali attivi in Italia, aveva riscontrato in 4 di questi condizioni igienico-sanitarie precarie e l’uso perdurante della contenzione: in caso di crisi conseguenti al disturbo psichiatrico, il detenuto veniva trattenuto con lacci e cinture alla barella, incapace di muoversi. Una pratica che, giustificata in passato dal timore per l’incolumità propria e altrui, pone evidenti problemi di tutela della dignità umana. “Dobbiamo essere orgogliosi delle riforme che in questo paese hanno ricondotto la questione della follia all’interno del trattamento terapeutico e medico, e non delle chiusure manicomiali: il malato va curato, non va rinchiuso come se fosse un pacco”, sottolinea ancora Gonnella. E l’auspicio del ritorno agli ospedali psichiatrici giudiziari non fa nemmeno il bene degli agenti penitenziari: “Quei luoghi erano patogeni e indecenti anche per chi era investito di compiti di custodia. E, d’altro canto, non ci sono evidenze che gli episodi di aggressività siano aumentati, da quando sono stati chiusi”. Gli Opg sono stati progressivamente sostituiti dalle Rems (Residenze per l’applicazione delle misure di sicurezza). Il processo di riforma, culminato con una legge del 2014, ha segnato un nuovo approccio al trattamento dei detenuti affetti da disturbi mentali: non più portatori dello stigma della “pericolosità sociale” perché folli e rei, ma persone che devono ricevere cure adeguate - come i comuni cittadini - anche se in luoghi specifici, dentro o fuori dal carcere. Le Rems sono gestite dalle Regioni: le Asl prendono in carico i detenuti che, dopo le valutazioni dell’autorità giudiziaria sull’applicazione della misura di sicurezza, possono scontare la pena detentiva in queste strutture anziché nelle carceri comuni. Ma ci sono diverse difficoltà. Le Rems - 32 in tutto a dicembre 2021 - sono a numero chiuso per legge, per evitare sovraffollamenti. Di conseguenza si è sviluppato il fenomeno delle liste d’attesa, per cui una persona autorizzata a entrare in queste strutture attende mesi in carcere prima di accedervi. Non sono mancati gesti estremi, come quello di un ragazzo di 21 anni recluso a San Vittore che, lo scorso agosto, si è tolto la vita. Otto mesi prima, era stato autorizzato a scontare la pena in una Rems, dopo che gli era stato diagnosticato un disturbo borderline di personalità. “Bisognerebbe investire di più nel trattamento residenziale”, sostiene Gonnella. “E i casi di persone che in quanto socialmente pericolose che devono essere accolte in una Rems non sono esponenziali: il punto è selezionare quelle giuste, e a volte questo può essere difficile”. Ad esempio, si entra nelle Residenze per ordine cronologico (di invio della richiesta) e non per ordine di priorità (di gravità del disturbo), il che ostacola qualsiasi intervento tempestivo di cura dei detenuti. Inoltre, come ha evidenziato anche la Corte costituzionale, la dipendenza delle strutture dai servizi sanitari regionali le rende disomogenee, quanto a servizi offerti e stato attuativo: la gestione è affidata ad accordi tra lo Stato, le regioni e le Asl. La stessa Consulta ha invitato il Parlamento a intervenire con legge per una “complessiva riforma di sistema” e auspicato un maggiore coinvolgimento del ministero della Giustizia nelle attività di coordinamento e monitoraggio delle strutture. In sintesi, la salute mentale è un tema complesso e necessita di risposte urgenti, sia dentro che fuori le carceri. Ma la soluzione non è la riapertura degli ospedali psichiatrici giudiziari: un ritorno al passato, frutto di concezioni ormai ampiamente (e auspicabilmente) superate. Il garantismo di Nordio preoccupa Meloni. Pronte le contromosse di Errico Novi Il Dubbio, 29 ottobre 2022 Un fedelissimo come vice del guardasigilli e un accordo su carcere e prescrizione. Si chiama guerra civile a bassa intensità. È una categoria della politica. La si usa per descrivere ad esempio il clima degli anni di piombo, in particolare lo scontro fra destra e sinistra extraparlamentari. Bene, potrebbe essere rispolverato, il concetto, per spiegare cosa accade sulla giustizia. E per intendersi meglio, basta partire dai fatti: ad affiancare Carlo Nordio, pur sempre un parlamentare eletto con Fratelli d’Italia, non saranno, come pure ci si potrebbe aspettare, due sottosegretari espressi dai partiti alleati di Giorgia Meloni, cioè Lega e Forza Italia. Nel senso che la Lega non ci sarà, e la premier, considerato che è ormai certo l’incarico di viceministro per l’azzurro Francesco Paolo Sisto, ha spiegato a Matteo Salvini di voler schierare a via Arenula, come numero due, un proprio fedelissimo, il responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia Andrea Delmastro. In realtà il riequilibrio non riguarda solo Sisto, ma la linea garantista che innanzitutto Nordio, e anche il futuro vice espresso da Forza Italia, incarnano. Meloni ha una propria impostazione, diversa da quella del guardasigilli soprattutto sulle carceri, e ha bisogno di chi se ne faccia interprete. Un quadro di tensione. Se non da “guerra civile a bassa intensità”, da guerra fredda, verrebbe da dire. E come si farà con la Lega? Con un altro riequilibrio: il sempre più probabile incarico di presidente della commissione Giustizia di Montecitorio da assegnare al salviniano che, fino a poche ore fa, era dato per favorito come sottosegretario alla Giustizia, Jacopo Morrone. Tutto normale? Magari sì. Dipende dai punti di vista. Certo un assetto simile sembra preludere, almeno a un primo sguardo, alla guerra fredda, appunto: via Arenula come Berlino. Un’unica città ma divisa in due da un muro. Da una parte Nordio, e Sisto, dall’altra Delmastro. Una frattura innaturale. Sarà proprio così? Intanto, sull’idea di Delmastro sottosegretario, ci sono poche incertezze. Da Palazzo Chigi fanno intendere che, sul punto, la volontà di Giorgia Meloni è chiara. L’incarico al responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia è “una precisa richiesta della presidente del Consiglio”, punto. Ma sul fatto che ci troveremo di fronte all’Alexanderplatz della giustizia, le stessi fonti presidenziali offrono un altro tipo di lettura: “Non è così. Non c’è alcun commissariamento nei confronti di Nordio. C’è un incontro fra obiettivi in gran parte identici e solo marginalmente diversi. Certo, su alcuni punti specifici, ad esempio la depenalizzazione, non tutti i punti di vista coincidono”. Tradotto: Nordio la pensa in un modo, cioè vuole depenalizzare e “decarcerizzare”, la premier non intende procedere né sull’una né sull’altra ipotesi. “Ma è chiaro che se in un governo si deve prendere una decisione, ha un certo peso quella di chi lo guida. Il che non vuol dire che le istanze garantiste scompariranno. Perché”, spiega ancora chi conosce il pensiero di Meloni, “tutto quanto si potrà fare per garantire i diritti dell’indagato e dell’imputato, andrà fatto. Il garantismo nella fase dell’accertamento delle responsabilità, finché non c’è condanna definitiva, sarà perseguito in tutte le forme possibili. Anche con il ripristino della prescrizione, che la precedente maggioranza ha sostituito con una soluzione senza senso. Su questo Nordio troverà sostegno da parte della maggioranza, a cominciare da Fratelli d’Italia”. E insomma, archiviamo pure la categoria della “guerra fredda”: siamo al compromesso storico della giustizia. Clamoroso, in parte. Ma, a quanto risulta, condiviso da tutti. Anche dalla Lega. Che ha già fatto sapere di non stracciarsi le vesti se, come detto, Morrone non farà il bis da sottosegretario a via Arenula ma si fregerà dell’altrettanto prestigioso incarico di presidente della commissione Giustizia di Montecitorio. All’analogo organismo di Palazzo Madama dovrebbe invece esserci un berlusconiano. E certamente, si può aggiungere per tornare al puzzle di via Arenula, nel caso di Sisto è in arrivo una nomina da viceministro. Upgrade tutt’altro che posticcio. Intanto, diversamente dal sottosegretario, il “vice” non viene nominato dal Consiglio dei ministri: alla riunione già in calendario a Palazzo Chigi per lunedì prossimo, ci dovrebbe essere, tra le altre, la nomina di Delmastro, mentre la richiesta formale su Sisto sarà pronta ma non potrà essere deliberata in quella sede: andrà sottoposta al presidente della Repubblica. In questo caso, la nomina spetta al Colle, come per i ministri. L’attesa, nel caso di Sisto, sarà ampiamente compensata dall’onore di poter sostituire Nordio nelle riunioni del Consiglio dei ministri in cui, per qualsivoglia ragione, il guardasigilli “titolare” non dovesse intervenire. In tutto questo, sui nomi ancora bilico, come l’azzurro che presiederà la commissione Giustizia di Palazzo Madama, sono in corso negoziati che mettono in gioco pure la vicepresidenza del Csm o quanto meno i nomi che il centrodestra esprimerà per la componente laica di Palazzo dei Marescialli. Da ieri è ufficiale la data in cui si voterà per i consiglieri di nomina parlamentare: il 13 dicembre. Altra novità in arrivo: l’entrata in vigore della riforma penale dovrebbe slittare. È prevista per il 1° novembre. Si ipotizza un rinvio al 31 dicembre, come chiesto da tutti i procuratori generali e i presidenti di Tribunale italiani. In qualche caso, la richiesta è stata trasmessa a Nordio d’intesa con l’Ordine territoriale degli avvocati. È il caso di Palermo, dove il presidente del Coa Antonello Armetta ha firmato l’istanza di rinvio insieme con il presidente del Tribunale Antonio Balsamo. Anche qui un accordo. I muri che cadono. Pare che a via Arenula non ne saranno innalzati. Ma servirà un compromesso degno del disgelo Reagan-Gorbaciov. E forse la fine del comodo derby garantisti- giustizialisti val bene anche qualche patto fuori programma. L’agenda garantista di Nordio nel segno della Costituzione di Alessandro Parrotta Il Dubbio, 29 ottobre 2022 Discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale da parte delle Procure e separazione delle carriere: i primi temi sui quali il ministro ha dichiarato di voler intervenire. Carlo Nordio ha da subito definito le proprie linee d’azione che intende portare avanti durante la guida del ministero di Giustizia, in parte in continuità con quelle della Presidente Marta Cartabia, dall’altra introducendo significative novità, comunque già auspicate da tempo immemore. Il faro che sembra guidare quello che sarà l’operato del nuovo Guardasigilli, già Procuratore aggiunto di Venezia nonché presidente della Commissione di riforma del Codice penale (2002 - 2006) è contenuto in una recente intervista rilasciata dallo stesso e trae la sua genesi nell’attuazione, vera, profonda e senza correttivi, del Codice di procedura penale del 1989: modalità garantista e ispirata ai principi del diritto penale liberale, a salvaguardia delle prerogative dell’indagato/ imputato e di un giusto processo. Due, tra gli altri, i temi sui quali Nordio vorrebbe sin da ora intervenire, temi non certo nuovi allo scrivente che già in tempi non sospetti prefigurava l’importanza e la decisività per il futuro della Giustizia italiana di tali riforme, ma che sempre hanno incontrato e tutt’ora incontrano forti dissensi: la discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale da parte degli Uffici di Procura e l’indimenticata separazione delle carriere. Ha dichiarato il ministro: “In Italia il Pm e il Gip si sentono quasi obbligati a portare avanti il procedimento fino al rinvio a giudizio o all’archiviazione. Introducendo il potere per il Pm di filtrare a monte i casi di cui viene investito e di non procedere per quelli che ritiene insufficienti, ci sarebbe un gran carico di lavoro in meno”. Grande verità, condivisa soprattutto dai processualisti. Si badi bene, quello che propone il ministro non pare essere una mera discrezionalità dell’azione penale, all’americana per intenderci, subordinata cioè a valutazioni politiche e dell’Esecutivo, ma discrezionalità ponderata e ancorata a criteri obiettivi, relativi ai carichi giudiziari dei singoli Tribunali; nessuna denegata giustizia, dunque, ma solo una razionalizzazione e concentrazione delle - già scarse - risorse di cui è attualmente destinatario il Sistema giudiziario, penale e non solo. Si tratterebbe nient’altro che della formalizzazione di uno stato di fatto che già l’esistente ci consegna: la stessa Riforma Cartabia, il cui decreto legislativo di attuazione è di imminente entrata in vigore, già prevede l’introduzione di criteri di priorità “finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza”; criteri che - come indicato nella relazione illustrativa alla Riforma - non hanno valenza puramente organizzativa, ma sono destinati a incidere sulle scelte del Pm, sin dall’attività successiva all’iscrizione della notizia di reato. Da qui alla discrezionalità, intesa nei termini di cui si è detto, il passo è brevissimo. E anche sulla separazione delle carriere e il - paventato - rischio di una politicizzazione della figura del Pm, il neo ministro è risoluto nell’assicurare che “Mai, mai e poi mai, ho pensato alla separazione delle carriere come primo passo verso un controllo del governo sul pubblico ministero. Mi fa inorridire solo l’idea. L’indipendenza della magistratura per me è un idolo. Se non ne avessi un rispetto sacrale non avrei fatto il magistrato ma l’impiegato”. Più chiaro di così non è possibile esprimere questo irrinunciabile ed incomprimibile principio. L’agenda è fitta ma il già Procuratore aggiunto di Venezia si è dimostrato un uomo di governo, capace di mettere a disposizione della collettività la sua cultura giuridica sì da arrivare dove nessuno - prima d’oggi - è mai arrivato. Può sembrare una dicitura mutuata da qualche romanzo di fantascienza ma, ad onor del vero, rileggendo la storia dalla nascita della Repubblica ad oggi, nessuno è mai stato così risoluto, chiaro e garantista nel dettare l’agenda dei propri lavori. Che sia la volta buona per restituire al popolo italiano, come la Costituzione insegna, quella piena fiducia che la Magistratura deve avere e che permette alla stessa di essere amministrata nel suo nome. Questo significa applicare la Costituzione! Giustizia, riforma Cartabia e carceri: i temi caldi per il nuovo ministro di Henry John Woodcock Corriere del Mezzogiorno, 29 ottobre 2022 Sono ancora troppi i processi che si celebrano e i rimedi individuati non li snelliranno. Dopo aver partecipato all’agone elettorale per l’elezione dei membri togati del nuovo Csm e, soprattutto, dopo aver personalmente contribuito all’agognato raggiungimento dell’obbiettivo dell’immunità di gregge per il Covid - 19 (e come avrei mai potuto sottrarmi...), è tempo di fare qualche riflessione su quello che è stato, e soprattutto, su quello che sarà. Per quel che è stato, e per quanto riguarda la mia esperienza elettorale, mi ritengo senz’altro soddisfatto per il mio risultato personale. Nel contempo, devo altresì prendere atto di come la magistratura, ancora una volta, abbia optato per l’offerta elettorale proposta dalle così dette “correnti”, preferita evidentemente alle candidature (come la mia) volontarie ma indipendenti - e cioè proposte (almeno per quanto mi riguarda) al di fuori ma non contro le correnti - ma anche alle candidature dei colleghi individuati attraverso il sorteggio effettuato con le modalità statuite dalla recente riforma Cartabia. Su tale aspetto, peraltro, non va neppure trascurato il dato politico più che significativo rappresentato dall’altissima percentuale di schede bianche registrato in occasione delle ultime consultazioni. Da parte mia, ho sempre sostenuto e affermato apertamente che l’idea stessa di sorteggiare un candidato rappresenti un “non senso”. A parte infatti le possibili, quanto evidenti, censure di incostituzionalità, se in astratto sorteggiare direttamente il Consigliere potrebbe avere una sua logica ed una valenza politica, ne ha certamente molto meno rimettere al sorteggio la scelta del candidato, il cui impegno dovrebbe ispirarsi ad una libera, e soprattutto volontaria e motivata, scelta personale. Peraltro, non si può non prendere atto che anche i “movimenti di pensiero”, strenui sostenitori della soluzione del sorteggio del candidato Consigliere, si sono nei fatti comportati in campagna elettorale, secondo le stesse logiche dei così detti gruppi associativi “tradizionali”. Almeno questa è stata la mia sensazione. Per venire a quello che sarà, non v’è dubbio che il nuovo Ministro, in particolare per ciò che riguarda il settore penale, da una parte si dovrà misurare con i non pochi problemi e con le delicate questioni legate alla così detta riforma Cartabia che - per la verità un po’ frettolosamente - entrerà in vigore tra qualche giorno, e dall’altra dovrà approntare nuove, ulteriori e altrettanto necessarie riforme del medesimo sistema penale. Ebbene, per ciò che riguarda la recentissima riforma Cartabia, devo dire che, ad una prima lettura, non sono pochi gli aspetti che non mi convincono e che, addirittura, non mi sono chiari, nel senso che non sono proprio riuscito a comprenderli fino in fondo. Credo che, ad una prima analisi del testo, si possano trarre due conclusioni. La prima è che non credo che la riforma favorirà la celerità dei processi, ammesso e non concesso che sia la “celerità” fine a se stessa a dover connotare il processo penale, piuttosto che l’equità e la giustizia della decisione. In secondo luogo, non mi sembra affatto che la riforma sia ispirata a quella spending review di cui tanto si parla, nel senso che la concreta attuazione di molte delle nuove prescrizioni esigerà ingentissimi investimenti (soprattutto in termini di modernizzazione degli apparati tecnici). Dunque, in questo momento e in questa fase, l’auspicio è quello che venga differita l’entrata in vigore della riforma e/o che comunque venga urgentemente approntata una disciplina transitoria che consenta di non rallentare (ulteriormente) la macchina della giustizia penale. Per venire, invece, al futuro, e cioè agli auspicabili nuovi interventi afferenti il settore penale, credo personalmente che la questione centrale, e il vero problema del funzionamento del sistema, non sia tanto, e comunque non solo, legato ai tempi di celebrazione dei processi, ma piuttosto al fatto che si celebrino troppi processi (o meglio troppi dibattimenti). Sono troppi infatti i dibattimenti che hanno ad oggetto fatti di modestissima rilevanza penale, e sono anche tanti quelli che si celebrano - bisogna autocriticamente ammetterlo - anche per fatti in ordine ai quali il pubblico ministero non avrebbe dovuto a monte promuovere l’azione penale, o per i quali il Giudice dell’udienza preliminare, a valle, non avrebbe dovuto disporre il rinvio a giudizio. E ciò perché - appare sacrosanto riconoscerlo onestamente - spesso per il pubblico ministero è più facile e meno impegnativo chiedere il rinvio a giudizio dell’indagato, piuttosto che articolare una ben argomentata richiesta di archiviazione, e per il giudice è altrettanto meno impegnativo disporre il rinvio a giudizio, piuttosto che redigere una sentenza di non luogo a procedere. In altri termini, a mio avviso, solo l’effettivo e concreto recupero del principio di residualità della sanzione penale (attraverso una drastica depenalizzazione), unito alla acquisizione da parte del Giudice dell’udienza preliminare della piena consapevolezza della propria funzione di “sbarramento” rispetto a processi inutili, consentirà al nostro sistema penale di fare davvero un passo avanti. Credo poi che un’altra questione fondamentale di cui il nuovo Ministro dovrà occuparsi (forse ancor prima di ogni altra) sia quella legata alle Carceri; parlo delle condizioni in cui si trovano attualmente i detenuti, condizioni che, in molti casi, non esiterei a definire “disumane”, o comunque assai lontane da quegli obbiettivi che la stessa Costituzione assegna alla sanzione penale. Invero, a tale riguardo se da una parte non v’è dubbio che esista obbiettivamente un problema serio e concreto legato all’edilizia carceraria, è inutile nascondere, d’altra parte, che vi è un drammatico problema di sovraffollamento, legato ad un eccessivo tasso di carcerazione, che interessa tradizionalmente soprattutto soggetti provenienti, tanto per usare un eufemismo, dalle fasce sociali più sfavorite. Ebbene, anche (e soprattutto) a tale proposito, l’auspicio è che il nuovo Ministro voglia inserire nella sua agenda il tema delle carceri immediatamente, conferendo a tale tema assoluta priorità, cercando a tale riguardo di resistere il più possibile alle pur prevedibili controspinte che su tale argomento verranno da quella parte dell’elettorato di centro - destra che ritiene che basti “buttar le chiavi” per risolvere qualunque problema. Riforma della Giustizia. Nordio e la speranza di una vera svolta di Alessandro Parrotta La Discussione, 29 ottobre 2022 Linee chiare, comunicate in modo semplice ed efficace. Così inizia il ministero del nuovo Guardasigilli, già Procuratore Aggiunto di Venezia nonché Presidente della Commissione di riforma del Codice Penale (2002 - 2006). La materia sulla quale intende intervenire Nordio è contenuta nelle sue stesse recenti dichiarazioni: la discrezionalità dell’esercizio dell’azione penale da parte degli Uffici di Procura e l’indimenticata separazione delle carriere. Sgombriamo il campo da retropensieri: quello che propone il Ministro non è una copia del sistema americano, ma una discrezionalità ancorata a criteri obiettivi, relativi ai carichi giudiziari dei singoli Tribunali; in altri termini una razionalizzazione e concentrazione delle - già risicate - risorse di cui è attualmente destinatario il Sistema giudiziario, penale e non solo. Si tratterebbe nient’altro che della formalizzazione di uno stato di fatto che già la Riforma Cartabia attua dall’1 novembre: criteri di priorità “finalizzati a selezionare le notizie di reato da trattare con precedenza”. Da qui alla discrezionalità, intesa nei termini di cui si è detto, il passo è brevissimo. E anche sulla separazione delle carriere, il Ministro della Giustizia ha idee molto nitide e cultura giuridica per giungere alla soluzione di quel cubo di Rubik troppo spesso preso ed adagiato sul comodino (a più riprese da almeno un ventennio) dal Legislatore. Divisione però che ha nulla col latino “divide et impera”, perché nel progetto Nordio la Procura non sarà mai sottoposta all’esecutivo o al potere politico. Carriere diverse e PM liberi, vieppiù dall’obbligatorietà dell’azione penale. Il post Cartabia parte sotto la più illuminata stella, quella della Giustizia e delle garanzie irrinunciabili delle parti processuali, nel proseguo dell’ottimo lavoro già svolto col Governo precedente. E che sia proprio un ex PM a regolare il sistema, restituendo al popolo italiano, come la Costituzione insegna, quella piena fiducia che la Magistratura deve avere e che permette alla stessa di essere amministrata nel suo nome. Riforma Cartabia, Santalucia chiede a Nordio di posticipare l’entrata in vigore di Davide Varì Il Dubbio, 29 ottobre 2022 Il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati chiede un rinvio dell’applicazione delle nuove norme: “Ci saranno forti difficoltà organizzative e disorientamenti interpretativi”. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio “dovrebbe farsi promotore di un decreto-legge per regolare l’applicazione delle nuove norme” contenute nella riforma varata dall’ex Guardasigilli Cartabia “nella fase transitoria e appunto per sospendere almeno di qualche mese l’entrata in vigore della riforma”, ovvero varare “un provvedimento normativo di urgenza per una compiuta disciplina transitoria per un più ampio periodo di “vacatio legis”, di sospensione dell’entrata in vigore della riforma, per consentire agli uffici giudiziari di adattarsi organizzativamente al nuovo”. Lo dice in una intervista a La Notizia il presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati Giuseppe Santalucia. “Ci saranno forti difficoltà organizzative e disorientamenti interpretativi, ma non credo che potranno avere immediato effetto sul versante cautelare”, spiega Santalucia, per il quale il progetto di depenalizzazioni annunciato da Nordio “sarebbe un’ottima cosa. Ridarebbe fiato al sistema penale, ingolfato da molti, troppi reati”. L’abolizione del reato di abuso d’ufficio, conclude il presidente Anm, “non mi sembrerebbe saggio”, tenendo anche conto che “appena qualche mese fa il reato è stato fortemente ridimensionato nella sua portata”. Pessima “sorpresa”: dopo la riforma Cartabia giustizia penale nel caos di Paolo Ferrari Libero, 29 ottobre 2022 Marta Cartabia ha lasciato questa settimana il ministero di via Arenula e la giustizia precipita (ancora di più) nel caos. Il motivo? La riforma “epocale” del processo penale approvata in fretta e furia dal governo la scorsa estate per poter prendere i tanto agognati fondi del Pnrr. Fra i tanti diktat di Bruxelles, infatti, vi era anche quello di modificare il codice di rito per “migliorare i tempi di definizioni dei processi” e “abbattere l’arretrato”. La riforma Cartabia, in vigore dal prossimo primo novembre, potrebbe invece determinare l’esatto contrario: tempi di definizioni dei processi ancora più lunghi e crescita esponenziale dell’arretrato. L’allarme, va detto, era stato lanciato all’indomani dell’approvazione del testo sia dagli avvocati che dai magistrati, tutti consapevoli che sarebbe stato quanto mai difficile applicare molte delle nuove disposizioni. Ad aggravare la situazione, poi, ci sarebbe anche una “dimenticanza”. Per la fretta di fare presto e presentarsi a Bruxelles con la riforma approvata nei tempi indicati, gli uffici legislativi del Ministero della giustizia che hanno elaborato il testo, poi approvato a scatola chiusa dal Parlamento, si sarebbero dimenticati di scrivere un “disciplina transitoria” relativa ai procedimenti in corso. Un problema di non poco conto visto che sono milioni i processi attualmente incardinati presso i tribunali italiani con le vecchie regole. In assenza di disposizioni chiare, ogni decisione viene lasciata all’arbitrio del singolo giudice, con effetti facilmente immaginabili. Il rischio, insomma, è l’effetto Far west dove ogni magistrato decide, in barba alla certezza del diritto, come meglio crede. In altri termini, si temono nullità a cascata in materia di proroga delle indagini, citazioni a giudizio, utilizzo delle fonti di prova e tanto altro ancora. Come se non bastasse, le norme sono state scritte male con problemi di interpretazione anche per gli addetti ai lavori. L’intero impianto, poi, è caratterizzato da un eccesso di burocrazia senza precedenti. I primi a prendere una posizione ufficiale sono stati l’altro giorno i 26 procuratori generali, in rappresentanza dei 140 procuratori del Paese, che hanno scritto al neo ministro della Giustizia Carlo Nordio rappresentandogli le varie criticità che potrebbero portare i tribunali al definitivo collasso. La riforma va studiata, vanno predisposti gli opportuni adattamenti organizzativi, realizzati adeguamenti informatici”, fanno sapere le toghe di Articolo 101, un gruppo di magistrati che ha sempre criticato le riforme messe in campo dalla Guardasigilli. Alcune disposizioni, ed è un paradosso, sembrano essere state scritte da persone che non hanno mai messo in vita loro un piede in un tribunale, affidando compiti ad uffici che già adesso sono congestionati dai carichi di lavoro. Sembra allora la cronaca di un disastro annunciato. Sarebbe stato molto meglio, dunque, non fare nulla invece che peggiorare ancora di più il sistema. Fra le riforme approvate in queste mesi nel settore giustizia e già entrata in vigore non si può non segnalare quella del Consiglio superiore della magistratura. Dominato dai vari gruppi associativi delle toghe, concentrati nella spartizione degli incarichi, la riforma del Csm avrebbe dovuto mettere la parola fine al “mercato delle nomine” disvelato nei libri scritti dal direttore di Libero Alessandro Sallusti e dall’ex presidente dell’Associazione nazionale magistrati Luca Palamara. Il risultato, invece, è stata una riforma che, oltre ad aver moltiplicato le poltrone, ha aumentato a dismisura il potere delle correnti: su 20 posti destinati ai togati in Plenum, ben 19 sono andati ad esponenti dei gruppi associativi. Una débacle su tutta la linea a cui dovrà ora mettere mano il governo di centrodestra ed il neo ministro della Giustizia Carlo Nordio. L’appello da parte di tutti è per un “differimento” dell’entrata in vigore della riforma per consentire così al Parlamento di scrivere gli opportuni correttivi. È quanto mai fondamentale, fanno sapere i giudici, un intervento legislativo chiaro ed esaustivo. Nell’attesa molte Procure stanno emanando delle “circolari interpretative”. Una grana per Nordio appena insediatosi e già al lavoro per rinnovare i vertici del Ministero con il fine di cercare di mettere la classica toppa a questo disastro. Il caso Ocse terremota l’Anm. Santalucia a rischio sfiducia di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 29 ottobre 2022 Il parlamentino del sindacato delle toghe non ha gradito il report dell’Organizzazione che bacchettava l’Italia per le troppe assoluzioni. Voci interne smentiscono qualsiasi attrito, ma si fa largo l’ipotesi di un cambio ai vertici. Non vi sarebbe alcun “attrito” fra i vari gruppi all’interno dell’Associazione nazionale magistrati a proposito delle critiche, rivolte la scorsa settimana dal Gruppo di lavoro anticorruzione dell’Ocse, ai giudici italiani che hanno gestito in questi anni i processi per corruzione internazionale e finti con delle assoluzioni. Vedasi Eni-Nigeria a Milano. Le considerazioni contenute nel rapporto Phase 4 dell’Ocse sono state stigmatizzate dalla giunta esecutiva centrale dell’Anm con un duro comunicato. Differentemente da quanto fatto dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia che, interpellato sul punto dal Foglio, aveva escluso qualsiasi intervento a tutela delle toghe italiane. “Per noi non si pone il problema di lesione dell’indipendenza dei giudici”, erano state le parole di Santalucia in risposta al rapporto dell’Ocse. Di fatto un “fraintendimento” giornalistico in quanto la lesione dell’indipendenza del giudice ci sarebbe solo quando il processo è “in corso” e non con una sentenza definitiva. Tecnicismi a parte, tornado invece, alla nota della giunta esecutiva centrale dell’Anm, dopo aver premesso che qualsiasi analisi “non può, evidentemente, giovarsi della conoscenza di ponderosi, e spesso assai complessi, fascicoli processuali”, non sarebbe corretto imputare “il numero, ritenuto eccessivo, di giudizi conclusi da pronunce assolutorie, e di imputare tale risultato anche ad una asserita incapacità di Tribunali e Corti”. Nel report, in particolare, si invitava l’Italia a fornire “formazione e sensibilizzazione alle autorità giudiziarie sul trattamento delle prove circostanziali nei casi di corruzione all’estero”. “Un giudizio - seppur formulato in un quadro di utili rilevazioni che confermano, ove mai ce ne fosse bisogno, quanto sia importante l’attività di monitoraggio svolta dai Gruppi di lavoro dell’Ocse - ingeneroso”, aveva allora puntualizzato l’Anm, in quanto “appare come il frutto di una considerazione non approfondita della realtà giudiziaria italiana, che si qualifica nel contesto europeo per la spiccata professionalità di una magistratura formatasi a livelli molto alti nella acquisizione e nella valutazione della prova indiziaria, anche in forza del contrasto ai fenomeni di criminalità organizzata”. Sempre per l’Anm, “gli approdi giurisprudenziali in tema di prova indiziaria sono il precipitato di decenni di esperienza applicativa, ispirata da principi di garanzia che appartengono alla nozione di giusto processo di derivazione sia costituzionale che convenzionale”. In altre parole, “la capacità professionale dei magistrati, è appena il caso di ricordarlo, non si misura sui risultati di condanna ma sulla corretta e rigorosa applicazione delle regole dell’accertamento penale”. Come sempre riportato dal Foglio, sarebbe stata la corrente di Magistratura indipendente ad ispirare una presa di posizione così netta. Circostanza anche questa smentita da ambienti della giunta esecutiva che descrivono un clima di fattiva collaborazione fra tutti i gruppi su queste tematiche. Al netto delle dichiarazioni “ufficiose”, il dato che emerge è quello di una Anm in grande affanno. Una prova di ciò è stata la presa di posizione di 26 procuratori generali che hanno deciso, senza consultare la propria associazione, di prendere carta e penna e scrivere al ministro della Giustizia Carlo Nordio affinché blocchi l’entrata in vigore della riforma Cartabia, evidentemente non ritenendo sufficiente l’attività posta in essere a tal proposito dall’Anm. Le numerose interviste che descrivono scenari a tinte fosche, ultima in ordine di tempo quella del procuratore di Bari Roberto Rossi ieri al Fatto, secondo cui la riforma Cartabia sarebbe una “tragedia” per le indagini in corso, soprattutto per mafia e terrorismo, “stridono” infatti con l’approccio avuto in questi mesi dall’Anm. Dietro le quinte ci sarebbe allora un riposizionamento interno all’Anm alla luce dei mutati equilibri, anche in considerazione del fatto che alcuni gruppi ora presenti nella giunta esecutiva per i prossimi quattro anni non saranno rappresentati all’interno del Csm. Lo scenario più probabile è quello di un rassemblement “moderato” con Magistratura indipendente a fare da apripista dopo aver cercato una sponda nelle toghe di Articolo 101, ora all’opposizione della giunta. Ovviamente una ipotesi, come quella di un cambio del vertice dell’associazione. Sicilia. Il tour per denunciare le condizioni di vita in carcere meridionews.it, 29 ottobre 2022 “La prigione e la piazza”. È questo il titolo dell’iniziativa itinerante organizzata dall’associazione Yairaiha, attiva sulla difesa dei diritti dei detenuti, e l’organizzazione regionale Antudo. Il tour parte oggi davanti alla casa circondariale di piazza Lanza a Catania con un incontro e una manifestazione sulle condizioni di vita dentro le carceri. Nel fine settimana iniziative simili si terranno anche a Palermo e a Lentini, in provincia di Siracusa. “L’evento - spiegano gli organizzatori - vuole portare la discussione sul carcere fuori dalle mura degli istituti, per fare luce sui vari problemi che il sistema di detenzione possiede”. Il primo appuntamento del tour è in programma per oggi pomeriggio a partire dalle 18 a piazza Lanza. Il focus dell’incontro sarà Carcere e salute: diversi autori di libri e ricerche parleranno di suicidi, mala gestione dei problemi psico-fisici e anche delle condizioni dovute alla pandemia da Covid-19. A seguire ci sarà una manifestazione “a suon di pentole e cuppini (mestoli, ndr)” insieme ai familiari dei detenuti. “Un modo per fare sentire e trasmettere vicinanza a chi sta dietro le sbarre”, commentano gli organizzatori. “L’impressione è che ciò che accade all’interno delle carceri, rimanga lì dentro - denuncia Francesco di Antudo - Ci accorgiamo dei problemi solo quando emergono casi eclatanti o il numero dei suicidi si alza vertiginosamente. Ma tutti questi episodi sono la punta di un iceberg molto più grande che va indagato e discusso, se si vuole intervenire seriamente. Sulla situazione che si vive all’interno delle carceri - aggiunge - vige un clima di disinformazione e disinteresse. Vogliamo raccontare ciò che normalmente non è trattato: racconti di vite umane, troppo spesso dimenticate”. Il tour di Yairaiha continua la mattina di sabato 29 ottobre a partire dalle 11 in piazza Umberto a Lentini e il pomeriggio di domenica 30 ottobre dalle 17 in piazza Ingastone a Palermo. Milano. Sala: “A San Vittore condizioni indegne per i detenuti, nel 2022 è inaccettabile” di Sara Bernacchia La Repubblica, 29 ottobre 2022 Il Sindaco in visita in piazza Filangieri per il progetto OffCampus: “Nelle celle delle donne ci sono ancora le turche, serve ridare dignità”. “San Vittore sta in piedi grazie alla buona volontà di chi ci lavora e dei volontari, ma non è un carcere degno di Milano. O viene rimesso a norma a costo anche, se necessario, di ridurre il numero di ospiti, o non si può andare avanti”. Il sindaco Beppe Sala, in visita nella struttura detentiva di piazza Filangieri per inaugurare lo spazio Off Campus del Politecnico, è netto nell’affermare che si è “superato il limite” e porta l’esempio di quanto visto poco prima nel reparto femminile: “È inammissibile che a Milano nel 2022 una stanza in cui vivono più detenute abbia un bagno con la turca. Nelle altre carceri milanesi sono stati fatti passi avanti, qui quasi nessuno”. Così, premesso che “sono convinto che San Vittore debba rimanere dove è, poiché è una parte del tessuto cittadino, una parte della nostra storia”, Sala lancia l’affondo: “O si investe, si cambia e lo si mette a norma o è meglio trasferirlo”. Intanto chiederà “al nuovo ministro della Giustizia di farsi carico della questione” e gli offrirà “tutto il supporto possibile”. I problemi di San Vittore, spiega Francesco Maisto, garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Milano, sono il sopraffollamento - “i detenuti sono circa 900, dovrebbero essere la metà con due reparti chiusi - e, soprattutto, la struttura: “Bisognerebbe riuscire a operare, come fatto in altre occasioni, creando una situazione di sfollamento parziale di mese in mese per ristrutturare almeno le celle non a norma”. La risposta a questi problemi deve arrivare dalle istituzioni, ma nel frattempo si può lavorare affinché San Vittore sia realmente al centro della città. Per questo il Politecnico ha realizzato il terzo spazio (dopo quelli di San Siro e Nolo e in attesa di quello di Cascina Nosedo), del progetto Off campus - Il cantiere per le periferie proprio nella struttura. “Con Off Campus portiamo ricercatori e studenti a lavorare nelle aree più difficili della città - spiega Francesca Cognetti, delegata del Rettore alla responsabilità sociale per il territorio - In questo caso entriamo nel carcere per costruirne una nuova narrazione e portarvi le migliori competenze per capire come San Vittore possa essere messo al centro della città”. Lo spazio Off Campus è costituito da due stanze, la più piccola, di 9 metri quadri, ha le dimensioni medie di una cella per due o tre detenuti ed è arredato con le scrivanie realizzate dai detenuti del carcere di Monza. Lo frequenteranno i ricercatori del Politenico, ma anche della Bocconi e della Bicocca, che vi realizzano una clinica legale. “Saremo qui almeno due giorni a settimana. Inizieremo con l’ascolto degli operatori per capire come rapportarci con gli ospiti” spiega Andrea Di Franco, docente del dipartimento di Architettura e studi urbani e responsabile della ricerca sullo spazio detentivo, che presenta il primo impegno: “Interverremo sulla ‘zona ad alto rischio suicidi’ cercando di migliorare l’ambiente per far sì che persone anche con disagi psichici possano vivere meglio questa condizione”. Tra gli obiettivi di Off Campus - che realizzerà laboratori didattici, tirocini e tesi di laurea e attività di ricerca sulla relazione tra carcere e città - ci sono infatti il miglioramento della qualità degli spazi di reclusione, la costruzione di un archivio storico per raccontare il tema della detenzione e la raccolta di storie di vita per narrare all’esterno la realtà del carcere. In questo senso, aggiunge Di Franco, c’è “l’idea si recuperare l’ampio spazio sotto il carcere, ora inutilizzato, affinché possa ospitare opere di artisti, in collaborazione con il Pac - Padiglione di arte contemporanea (alle pareti di Off Campus ci sono alcune foto della mostra Ri-scatti, dedicata alla vita nelle carceri, ndr) e opere realizzate dai detenuti”. Tutto nell’ottica, sottolineata da Giacinto Siciliano, direttore di San Vittore, di “aprire il carcere al confronto con la città. San vittore è vivo, pieno di persone e storie. È in difficoltà, ma ha bisogno di vivere e non di piangersi addosso”. Con una consapevolezza: “Il carcere è il pezzo di città che ospita chi ha fatto qualcosa di sbagliato per poi restituirlo alla città, se dimostra si dimostra un luogo di rispetto delle regole può dirsi al servizio della comunità, altrimenti diventa un qualcosa da nascondere. Solo con la consapevolezza di cosa c’è dentro il carcere diventa parte della città”. Milano. Trasloco del carcere di San Vittore. Sala favorevole: “Condizioni indegne per i detenuti” di Massimiliano Mingoia Il Giorno, 29 ottobre 2022 “Il carcere di San Vittore? O si investe e si cambia oppure è meglio trasferirlo”. Il sindaco Giuseppe Sala pronuncia per la prima volta dall’inizio del suo doppio mandato in Comune iniziato nel 2016 la parola “trasferimento”. È una svolta, probabilmente dovuta alla visita del primo cittadino al reparto femminile di San Vittore: “Non esiste che una detenuta, magari incinta, condivida con tre detenute uno spazio di pochissimi metri quadrati e dovendo fare i suoi bisogni debba utilizzare un bagno alla turca. Le condizioni di vita dei detenuti sono indegne”. Il problema dell’inadeguatezza del vecchio carcere - fu inaugurato il 24 giugno del 1879 - non è nuovo. Più di vent’anni fa, nel 2001, l’allora sindaco Gabriele Albertini puntava sul trasloco della casa circondariale per realizzare nell’area di San Vittore un grattacielo con un grande parco intorno e aveva strappato la promessa all’allora ministro della Giustizia Roberto Castelli che lo Stato avrebbe costruito un nuovo carcere nella periferia di Milano. Alla fine non se ne fece nulla, anche perché la Sovrintendenza sentenziò che il nucleo storico del carcere non può essere abbattuto. Vent’anni dopo, Sala - che ha iniziato a occuparsi del carcere nel 2009, quando era direttore generale del Comune durante il mandato del sindaco Letizia Moratti - ci vuole riprovare: “O questo carcere viene riqualificato e rimesso a norma - la mia ipotesi preferita - a costo di rinunciare a ospitare parte dei reclusi oppure così non si può andare avanti. Abbiamo superato il limite. Chiederò al nuovo ministro della Giustizia (Carlo Nordio, ndr) di farsi carico della questione e gli offrirò tutto il supporto possibile”. Il sindaco fissa anche un orizzonte temporale per realizzare il restyling o il trasferimento: “Non oso immaginare che nel 2030 chi sia detenuto in un carcere milanese debba ancora vivere in queste condizioni. Le altre carceri milanesi (Opera e Bollate, ndr) hanno fatto dei passi avanti, anche perché sono più nuove e hanno ospiti stabili. San Vittore quasi nessuno”. Le reazioni alle parole di Sala non si fanno attendere. Ma prima di darne conto va ricordato che la prima a sollevare il problema del carcere nell’amministrazione targata centrosinistra, dopo le elezioni comunali dell’ottobre 2021, è stata l’assessore allo Sport Martina Riva, di cultura politica radicale, lo scorso 18 febbraio (“San Vittore non è un carcere vivibile, meglio utilizzarlo come spazio per i giovani e la cultura”). Il consigliere del Pd Alessandro Giungi, intanto, dà ragione a Sala quando parla di condizioni “indecorose” e “sovraffollamento” ma aggiunge: “Sono contrario alla chiusura di San Vittore, la sua posizione centrale costringe tutti a interrogarsi su cosa succede dietro quelle mura, ma bisogna investire sulla manutenzione”. Favorevole al trasloco del carcere, invece, il capogruppo di FI Alessandro De Chirico: “È una proposta che da anni riproponiamo anche con emendamenti e odg collegati al bilancio. San Vittore potrà essere rifunzionalizzato con spazi per la città, preservando la memoria architettonica di pregio”. Il trasferimento di San Vittore era uno dei punti del programma del candidato sindaco del centrodestra Luca Bernardo, l’anti-Sala nel 2021. Napoli. Giustizia di comunità: tra Tribunale, Uiepe e CSV percorso di condivisione e confronto Il Riformista, 29 ottobre 2022 “Giustizia di comunità, esigenza di condivisione e percorsi di responsabilità”. È il titolo di un convegno che si terrà il prossimo 8 novembre, con inizio alle 14, nella sala Arengario presso il Tribunale di Napoli, organizzato da Tribunale Civile e Penale di Napoli, UIEPE (Ufficio interdistrettuale esecuzione penale esterna) e CSV Napoli ETS (Centro di Servizio per il Volontariato della città metropolitana di Napoli). Si tratta di un’iniziativa per riflettere sulle prospettive dei percorsi di giustizia e per offrire un’occasione di dialogo e confronto interdisciplinare tra tutti gli attori coinvolti nelle attività per l’esecuzione di provvedimenti orientati alla giustizia di comunità. I saluti introduttivi saranno affidati a Elisabetta Garzo - Presidente del Tribunale di Napoli, Rosa Volpe - Procuratore Repubblica di Napoli f.f., Claudia Nannola - Direttore dell’UIEPE Campania, Nicola Caprio - Presidente CSV Napoli, Lucia Castellano - Dirigente Provveditorato Regionale Amministrazione Penitenziaria Campania, Giuseppe Centomani - Dirigente Centro Giustizia Minorile Campania, Gaetano Manfredi - Sindaco di Napoli, Antonio Tafuri - Presidente COA di Napoli, Marco Campora - Presidente Camera Penale Napoli, Samuele Ciambriello - Garante Regionale per le persone private della libertà, Barbara Modesta Grasso - Magistrato Componente Formazione Decentrata. Successivamente interverranno Paola Valeria Scandone - Magistrato del Tribunale di Napoli (“La messa alla prova - fondamenti giuridici - il nuovo ruolo della magistratura”), Sabina Coppola - Associazione Piero Calamandrei Napoli (“Le fasi della messa alla prova anche alla luce della riforma Cartabia”), Simona Di Monte - Procuratore Aggiunto Procura di Napoli (“Giustizia riparativa in fase esecutiva”), Giuseppina Forte - Funzionario di Servizio Sociale Ufficio Esecuzione Penale Esterna Napoli Ref. LPU e Dora Guastella - Funzionario di Servizio Sociale Ufficio Esecuzione Penale Esterna Napoli Ref. Riparativa (“Cardini della Messa alla Prova: il lavoro di pubblica utilità e l’attività riparativa e/o mediazione penale”), Maria Fragliasso - Associazione Diesis (“Lo sguardo alla persona offesa”), Luca Trapanese - Assessore al Welfare del Comune di Napoli (“Gli Enti pubblici e il Terzo settore nella giustizia di prossimità”), Luigi Merola - Presidente Fondazione A Voce De Creature (“La comunità e la responsabilità condivisa della giustizia). Concluderà S. Ecc. Mons. Gaetano Castello - Vescovo Ausiliario dell’Arcidiocesi di Napoli, modererà Giovanna De Rosa - Direttore CSV Napoli. Per il convegno è stato richiesto l’accreditamento per i magistrati e per gli assistenti sociali. Le iscrizioni per partecipare potranno essere effettuate online sul sito www.csvnapoli.it entro il 6 novembre p.v. Qui il link per formalizzare l’iscrizione: https://gestionale.csvnapoli.it/Frontend/Questionario/Questionario.aspx?ID=-1&IDQ=588&IDR=22180&IDRT=21 Questo convegno è stato fortemente voluto dal Tribunale Civile e Penale di Napoli, dall’Ufficio Interdistrettuale di Esecuzione Penale Esterna Campania e dal CSV Napoli che hanno stipulato un protocollo di intesa tra i cui obiettivi c’è quello della informazione e dell’accompagnamento degli Enti e del Terzo Settore alla partecipazione alle azioni di giustizia, consolidando un percorso di collaborazione in cui si prefigurano molte altre iniziative da attivare in una sinergia operativa. A tal proposito, il presidente di CSV Napoli, Nicola Caprio dichiara: “Il supporto del mondo del volontariato può e deve essere importantissimo. Ci impegneremo ad avviare azioni condivise di informazione, comunicazione e formazione ma anche di coinvolgimento attivo degli Enti di Terzo settore, in un percorso virtuoso di co-programmazione e co-progettazione per rendere le nostre comunità più coese e accoglienti possibili”. Claudia Nannola, direttore reggente dell’UIEPE Campania: “Il convegno e il protocollo di intesa ci offrono l’occasione per parlare ma anche agire rispetto ad una giustizia senza sbarre, capace di guardare all’uomo dietro il reato e di vedere la persona offesa cui restituire il diritto, una giustizia che ripara con l’aiuto della comunità tutta. Dobbiamo tutti lavorare per una giustizia che accolga le persone in area penale”. Elisabetta Garzo, presidente del Tribunale di Napoli: “La sinergia e la condivisione tra Istituzioni, Enti territoriali e Terzo settore migliora i percorsi di giustizia ma soprattutto contribuisce a trasformare i territori in vere comunità: le Istituzioni devono promuovere azioni sistemiche tese a costruire comunità aggreganti e capaci di fare inclusione”. Porto Azzurro (Li). Un progetto di inclusione per i detenuti quinewselba.it, 29 ottobre 2022 Ieri mattina presso la sala della Gran Guardia, a Portoferraio, si è tenuto l’evento di presentazione del progetto “Next”, finanziato dalla Regione Toscana attraverso il Fondo perlo Sviluppo e alla Coesione. Il progetto, come si legge in una nota degli organizzatori, mira a sostenere le persone detenute nell’accesso ai servizi territoriali, favorendo la creazione e il mantenimento di un collegamento con la società e facilitando il loro rientro nella comunità. Next, nato dall’eredità del precedente progetto Spes, vedrà la realizzazione delle sue attività nei territori dell’isola d’Elba e di Livorno (inclusa Gorgona), grazie ad un partenariato che include enti afferenti ai due territori: Fondazione Caritas Livorno Onlus, Linc scs Onlus, Altamarea scs Onlus, Arci Livorno e Cesdi Onlus. Nel dettaglio, il progetto prevede la realizzazione di uno Sportello per le tutele sociali volto all’ascolto e l’accompagnamento nel disbrigo delle pratiche amministrative presso gli uffici competenti, e di un servizio ponte con funzione di orientamento, presa in carico e accompagnamento delle persone detenute alla fine della pena o all’uscita in misura alternativa. Lo sportello sarà realizzato all’interno della Casa di Reclusione “P. De Santis” di Porto Azzurro con cadenza settimanale mentre il servizio ponte prevederà alcuni momenti di ascolto e orientamento da realizzarsi all’interno dell’istituto e una fase di tutoraggio esterno. L’evento, organizzato dalla Cooperativa Linc, coordinatore territoriale del progetto, e dalla Cooperativa Altamarea, con il patrocinio del Comune di Portoferraio, ha visto l’intervento della dottoressa sa Giuseppina Canu, responsabile dell’area trattamentale presso la Casa di reclusione di Porto Azzurro e di Manuel Anselmi, rappresentante della Cgil provincia di Livorno. Inoltre, all’evento hanno partecipato il Comune di Marciana Marina, il Centro per l’impiego di Portoferraio, l’associazione Dialogo, la Misericordia di Portoferraio e la Diocesi. Il lavoro di rafforzamento e promozione della sinergia tra la rete territoriale, rappresentata in parte dalle Istituzioni e dagli enti ospiti dell’evento, è uno degli elementi essenziali del progetto, concludono gli organizzatori. Verona. “Mai più una/uno di meno, quando il carcere è donna in un mondo di uomini” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 29 ottobre 2022 Convegno organizzato da “Sbarre di zucchero”. Sono settantadue le persone che si sono tolte la vita in carcere dall’inizio dell’anno. Di fronte a questo impressionante numero, nel tentativo di sensibilizzare Istituzioni e opinione pubblica e per mettere in atto azioni concrete perché sia messa fine a questa strage, “Sbarre di zucchero”, gruppo Fb messo in piedi dalle amiche e compagne di Donatella Hodo, suicida a Montorio il primo agosto, terrà oggi alle 14,30 un convegno dal titolo “Mai più una/ uno di meno” presso la chiesa di San Luca Evangelista, in Corso Porta Nuova, 12 Verona. Sarà presentato il video del fotografo Giampiero Corelli girato in alcune carceri femminili con interviste e racconti di donne in carcere. Dopo i saluti di don Carlo Vinco, garante comunale dei diritti delle persone private della libertà personale, il convegno prevede gli interventi di: Enrico Marignani, presidente dell’Unione Giuristi Cattolici - Treviso; Valentina Cafaro, avvocato; Camillo Smacchia, direttore SER.D Verona, Giampaolo Zampieri, Sportello di Comunità CSV Verona; Simone Bergamini, avvocato dell’Osservatorio Nazionale Carcere; Otello Lupacchini, magistrato in pensione, già Procuratore generale di Catanzaro; Francesco Lo Piccolo, giornalista, direttore di “Voci di dentro”; Ornella Favero, presidente CNVG, direttore di “Ristretti Orizzonti”; Ilaria Cucchi neo eletta al Senato della Repubblica; Rita Bernardini, Presidente di Nessuno tocchi Caino; Marinella Maioli, psicologa e criminologa, presidente de “Il Coraggio”; Simonetta Matone, deputato, già magistrato di Sorveglianza e vice capo del Dap. All’incontro, moderato da Elisa Torresin e Umberto Baccolo (Nessuno Tocchi Caino) sarà possibile ascoltare anche le testimonianze delle compagne di Donatela Hodo, accompagnate dalle canzoni di Marco Chiavistrelli. Napoli. Dal buio del 41 bis alla laurea in carcere con 110 e lode di Claudio Mazzone Corriere del Mezzogiorno, 29 ottobre 2022 “Grazie allo studio non sono impazzito”. Pierdonato Zito, 63 anni, è il primo laureato del Polo universitario penitenziario di Secondigliano dell’Università “Federico II”. Dopo 25 anni in carcere ora è in regime di semilibertà e lavora al Comune di Succivo come volontario. “Sono stato chiuso in carcere un quarto di secolo. Lo studio mi ha dato gli strumenti per cambiare”. Pierdonato Zito è un uomo di 63 anni, 30 li ha passati in carcere, 8 al 41-bis. Alle spalle ha una vita complessa e una carriera criminale pesante. La sua è una storia difficile che è diventata un esempio di risocializzazione, di chi paga i suoi errori provando a restare umano. Pierdonato è il primo laureato del Polo universitario penitenziario di Secondigliano della Federico II, è dottore in Scienze sociali con 110 e lode. Lo incontriamo appena rientrato dal lavoro. Dove lavora? “Al settore politiche sociali del Comune di Succivo come volontario. Sono in esecuzione penale esterna in regime di semilibertà”. Quanti anni ha trascorso in carcere? “Un quarto di secolo. Con le carcerazioni pregresse supero trent’anni. È tanto lo so, ma non è la lunghezza della detenzione a cambiarti, ma come utilizzi il tempo. Ho tre figli, li ho lasciati bambini e sono diventati uomini. Hanno sofferto tanto. Prima, nel periodo in cui mi ero reso irreperibile, mi hanno seguito nei vari appartamenti che cambiavo spesso. Poi mio figlio si è ammalato di leucemia ed è arrivato anche il mio arresto. Per loro è iniziato un calvario, tra ospedali e istituti penitenziari. Li ho visti crescere durante i colloqui. Il periodo del 41-bis è stato ancora più duro: gli incontri dietro il vetro, l’impossibilità di toccarli, lo stress che vedevo nei loro occhi”. Ci racconti dell’esperienza del 41-bis. “Se stai otto anni in isolamento ti svesti da ogni ruolo, non sei più genitore, marito o figlio. Il riflesso delle pareti nei miei occhi era l’unica cosa che avevo. La piccola finestra a soffitto non bastava per vedere il cielo, per respirare l’aria, per ascoltare i rumori e sentire gli odori del mondo. In quegli anni ho visto sicari sanguinari, criminali notissimi e personaggi di spicco della criminalità organizzata suicidarsi o impazzire. Era limitata anche la lettura, mi spettavano tre libri: uno religioso, il codice penale e uno a scelta da riconsegnare appena finito. Chi sta in carcere usa sempre le metafore e io penso alla mia la detenzione come al deserto dove la mia oasi era la lettura e mi veniva negata”. Come ha iniziato a studiare? “Ho girato tanti istituti penitenziari, poi sono tornato al carcere di Secondigliano dove ero entrato per la prima volta nel 1995. Qui ho incontrato il professor Antonio Belardo. La nostra è la storia di due umanità che si incrociano in carcere e cambiano il corso degli eventi. La direttrice ci ha dato l’opportunità di utilizzare una cella e noi abbiamo trasformato uno spazio detentivo in uno spazio formativo. Poi sono maturati i tempi di un permesso e Belardo mi ha invitato a casa sua. Ora in questa casa ci vivo”. E l’università? “Avevano aperto il Pup (Polo universitario penitenziari, ndr) della Federico II e lì mi hanno fornito gli strumenti per essere un cittadino. Non capita spesso, ma io in carcere ho ricevuto le coordinate per comprendere la società. Poi ho avuto la fortuna di incontrare un magistrato, la dottoressa Di Giglio, che mi ha creduto e ha investito su di me concedendomi i benefici”. E così è arrivata la sua laurea in Scienze Sociali, con 110 e lode. Di cosa si è occupato nella sua tesi? “Attraverso il metodo dell’auto-etnografia, ho ripensato alla mia esperienza detentiva chiedendomi: lo studio, in ambito penitenziario, può incidere sui processi decisionali degli individui? La mia storia è diventata materia di analisi sociologica. La sociologia mi ha aiutato a capire le mie azioni, facendomi studiare la criminalità come fenomeno sociale e quindi io non ho fatto altro che analizzare me stesso e il mio passato. Questa tesi la devo a tante persone, ma in primis ai volontari che mi hanno fatto restare umano in carcere. Senza di loro mi sarei inaridito, come tanti altri avrei serbato rancore nei confronti della società. Ero senza strumenti e lo studio me li ha forniti”. Cosa consiglia ai giovani? “La prima volta che sono uscito dal carcere, sono stato ospitato in un liceo per raccontare a 120 ragazzi la mia esperienza. Questo ha un valore preventivo enorme. Se a 17 anni avessi avuto l’occasione di parlare con un ergastolano, non avrei mai commesso alcuni errori. Sono originario di Montescaglioso, in provincia di Matera, e lì un’associazione culturale pubblicherà la mia tesi per divulgarla ai giovani. Sono orgoglioso che, in un luogo dove il mio nome è legato a fatti tutt’altro che piacevoli, le mie parole oggi possano aiutare i ragazzi”. Cosa si sente di dire invece alla società? “Sono entrato in carcere a 35 anni e ne sono parzialmente uscito a 62 grazie allo studio. Per vivere rinchiuso senza impazzire ho inventato la vita mentre la vita passava, ho lottato per non diventare buio nel buio, fango nel fango, ho studiato. L’università trasforma la detenzione in un percorso di crescita e questo significa applicare la Costituzione che prevede la rieducazione. Il carcere non può essere infantilizzante ma deve essere responsabilizzante, perché se vieni trattato come uno sciocco scolaretto e non valorizzato resti bloccato nello stesso circuito per anni, per sempre”. Verona. Rinascita e riscatto, quando il mondo dei cavalli regala una seconda occasione di Luca Fraioli La Repubblica, 29 ottobre 2022 Una storia tutta italiana, veronese per l’esattezza: un gruppo di detenuti che si ravvedono e si reinseriscono nel mondo del lavoro grazie ai cavalli.La cerimonia si svolgerà giovedì 3 novembre, contestualmente all’apertura della 124sima edizione di Fieracavalli. “Prima i cavalli li avevo visti solo in tv. Ho sempre fatto il commerciante di vestiti, poi improvvisamente mi sono ritrovato in carcere con un forcone a pulire i box”, racconta Antonio Del Prete, 54 anni, fine pena nel 2029. “All’inizio ho provato un po’ disagio, non era il mio ambiente. Ma ora ho trovato un lavoro fuori proprio grazie a quell’esperienza”. Sembra una storia made in the Usa. E invece è tutta italiana, veronese per l’esattezza: un gruppo di detenuti che si ravvedono e si reinseriscono nel mondo del lavoro grazie ai cavalli. Proprio mentre anche gli spettatori italiani possono finalmente vedere The Mustang (film del 2019 diretto da Laure de Clermont-Tonnerre, con protagonisti Matthias Schoenaerts e Bruce Dern, che racconta una vicenda analoga in un penitenziario del Nevada e che solo a due anni dall’uscita approda su Netflix), nella città veneta la finzione diventa realtà: dopo anni di sperimentazione nella Casa Circondariale di Montorio, a nove detenuti, tra cui Del Prete, sarà consegnato il diploma di “tecnico di scuderia”. La cerimonia si svolgerà giovedì 3 novembre, contestualmente all’apertura della 124sima edizione di Fieracavalli. E non è un caso: la più importante kermesse equestre d’Italia è partner, insieme alla Federazione italiana sport equestri e alla Asd Horse Valley, del progetto che negli ultimi anni ha visto nascere all’interno della casa circondariale veronese un piccolo maneggio e l’istituzione di corsi ad hoc per detenuti che mostravano interesse e attitudine. Finito lo stage, i detenuti hanno sostenuto un esame e quindi ottenuto l’attestato di “tecnico di scuderia”, il primo - quest’anno - riconosciuto dal portale nazionale AICS (Associazione Italiana Cultura e Sport). Una preziosa occasione di reinserimento attraverso il lavoro. E non è solo un auspicio: c’è già chi un lavoro l’ha trovato. Del Prete, per esempio, ogni giorno si occupa dei cavalli del Circolo Ippico Il muretto a Buttapietra, provincia di Verona. E dei cinque detenuti di Montorio che a Fieracavalli 2021 misero in scena uno spettacolo equestre, due oggi hanno trovato lavoro nel settore. Di questa straordinaria esperienza si parlerà giovedì 3 novembre alle 15,30 in Fieracavalli, nell’area talk del Padiglione 4. Parteciperanno la direttrice della Casa circondariale di Montorio Mariagrazia Bregoli, l’assessore del Comune di Verona per le politiche giovanili Jacopo Buffolo, Federica Collato di Reverse e Linda Fabrello di Horse Valley. Assenti purtroppo (per l’indisponibilità delle autorizzazioni necessarie) i veri protagonisti della storia: i nove detenuti diplomati. A loro l’attestato sarà stato consegnato dalla direttrice Bregoli la mattina stessa con una cerimonia ufficiale nella Casa circondariale. Ed è proprio merito di Mariagrazia Bregoli se questa storia di riscatto si è materializzata. Animata dalla passione per cavalli che nutre fin da bambina, ha deciso qualche anno fa di collaborare con la Fise e Fieracavalli per creare una scuderia dentro il carcere, istituire dei corsi da tecnico di scuderia per detenuti ed ex detenuti e sessioni di ippoterapia mirate al reinserimento sociale. Ora, con la consegna dei diplomi e i primi detenuti che lavorano all’esterno del carcere, si raccolgono i primi frutti. L’auspicio è che, quello della Casa circondariale di Montorio, non rimanga un caso isolato e legato all’iniziativa e alla passione di una singola persona. Ma che anzi l’esempio del carcere veronese possa contagiare altri istituti di pena. Soprattutto dopo che l’anno scorso sono stati sfrattati dal carcere milanese di Bollate i cavalli che per un quindicennio avevano alleggerito la pena di molti dei detenuti lì rinchiusi. Montorio è ancor più una eccezione, mentre dovrebbe essere forse la regola. “Per due anni ho frequentato la scuderia interna al carcere tutti i giorni”, racconta Del Prete. “Una sensazione completamente diversa rispetto allo stare chiuso in ‘sezionè. E devo ringraziare un amico. Io non volevo provare, ma lui insisteva: vedrai che i cavalli ti faranno stare meglio”. Migranti. Nel silenzio si rinnova l’accordo tra Italia e Libia di Nicola Bracci Il Domani, 29 ottobre 2022 Manifestazione a Roma per chiedere di annullare l’intesa che regola le politiche migratorie tra i due paesi Il 2 novembre scatta il rinnovo per tre anni. Quaranta organizzazioni non governative si sono riunite il 26 ottobre in piazza Esquilino, a Roma, per chiedere al nuovo governo di non prorogare il memorandum d’intesa Italia-Libia, documento che regola i rapporti tra i due paesi in tema di politiche migratorie. Firmato nel 2017 dall’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, del Partito democratico, l’accordo è il frutto di lunghe trattative tra l’allora ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti (Pd), e il primo ministro del governo di riconciliazione nazionale libico, Fayez al-Sarraj. Il patto si rinnova tacitamente ogni tre anni, come già accaduto nel 2020. Se decidesse di abrogarlo il governo italiano dovrebbe agire entro il 2 novembre prossimo. Giorgia Meloni, neoeletta presidente del Consiglio, in passato ha più volte parlato di “pessima gestione” dei rapporti con la Libia da parte del governo italiano. Oggi guida una coalizione di partiti che, almeno in campagna elettorale, ha spesso sostenuto la necessità per l’Italia di riconquistare un ruolo da protagonista nel Mediterraneo. Ma lo scenario più probabile è che sul dossier libico l’esecutivo di centrodestra scelga la linea della continuità con i governi che l’hanno preceduto, sia per ragioni di equilibrio politico interno, sia per gli stretti rapporti commerciali che legano i due paesi. Il trattato - Il memorandum Minniti è da anni criticato sia nel merito sia nella forma. Concluso con procedura semplificata, senza cioè richiedere l’intervento del parlamento, l’accordo ha sollevato non pochi dubbi di costituzionalità. L’articolo 80 della Carta impone, infatti, la ratifica delle Camere per i trattati internazionali di natura politica o, in altra ipotesi, per trattati che comportano oneri finanziari per lo stato italiano. E su quest’ultimo punto il dato è incontestabile. A oggi il finanziamento del decreto Missioni, misura che ogni anno garantisce i fondi necessari per l’applicazione del memorandum, è costato oltre 44 milioni di euro, prelevati dai fondi pubblici. In Libia l’intervento italiano non si limita all’ambito della sicurezza, ma prevede ampi finanziamenti a beneficio di infrastrutture, sanità, trasporti, energie rinnovabili, insegnamento, formazione del personale e ricerca scientifica. Ma il centro focale del documento resta la questione migratoria, ago della bilancia nei rapporti con la Libia e tema dirimente nell’equilibrio politico interno italiano. Dal 2017 Roma è impegnata nella formazione e nel finanziamento delle istituzioni di sicurezza e militari libiche. Delle sovvenzioni beneficiano, poi, anche i cosiddetti “centri di accoglienza”, più volte citati dalla comunità internazionale come veri e propri luoghi di detenzione. La comunità internazionale - Tra le rotte migratorie verso e all’interno dell’Europa, quella del Mediterraneo centrale si rivela da anni la più letale. I recenti dati (24 ottobre) dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), parlano di almeno 2.836 tra morti e dispersi nel 2021. E chi riesce a sopravvivere finisce a ingrossare le fila dei rimpatriati detenuti nei lager. Oltre 100mila, nella sola Libia, nei primi quattro anni di accordi tra Roma e Tripoli. Qui i prigionieri vivono in condizioni disumane, subendo regolarmente torture e trattamenti degradanti. Anche l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu ha recentemente riconosciuto che dietro le pratiche di rimpatrio “assistito”, supportate anche dall’Unione europea, si nascondono violenze sistematiche. Di questo parlano, da anni, le innumerevoli indagini di ong come Amnesty International, Medici senza frontiere, Oxfam: tutte presenti alla manifestazione di Roma, per chiedere al nuovo governo italiano un cambio di direzione che appare, però, estremamente improbabile. In continuità - Il sostegno della politica italiana all’attuale gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo ha dimostrato, negli anni, di non scontentare quasi nessuno. Da chi rivendica con orgoglio la riduzione degli sbarchi sulle coste italiane, a chi ne fa un discorso di Realpolitik e di contingenza. Il dibattito resta contenuto dentro il perimetro di un inevitabile mantenimento dello status quo. A rappresentare l’Italia nel patto con Tripoli, nel 2017, c’era il governo guidato dal Partito democratico, a dare il tacito assenso per il suo rinnovo, nel 2020, il secondo governo Conte, sostenuto dalla maggioranza “giallorossa” di Pd e Movimento 5 stelle. Il governo Draghi, caduto prima di potersi esprimere, si è limitato a garantire “aiuti e sostegno” al paese partner. La premier in carica, Giorgia Meloni, si trova ora per le mani il dossier di un paese protagonista in almeno tre voci della sua agenda politica: commercio, energia e sicurezza. E il sogno di una nuova centralità dell’Italia nel Mediterraneo sarà probabilmente ridimensionato dalla necessità di mantenere gli equilibri, interni ed esterni. Almeno nella prima fase di governo. Tanto basterà perché il memorandum si rinnovi, continuando a legittimare la mattanza nello spicchio di mare che divide le coste italiane dalle prigioni libiche. E rimandando la questione al governo del 2025. La vita nelle prigioni della Bulgaria: tra tutele inapplicate e timidi passi avanti nei diritti di Domenico Guarino luce.lanazione.it, 29 ottobre 2022 Il Comitato per la prevenzione della tortura, organismo del Consiglio d’Europa, ha stilato l’ultimo rapporto sulla condizione dei detenuti del Paese Balcanico. Maltrattamento durante i fermi di polizia, violenza tra detenuti, una grave carenza di personale e problemi con la fornitura di medicinali: nel nuovo rapporto sulla sua visita in Bulgaria a ottobre 2021, il Comitato per la prevenzione della tortura (CPT) del Consiglio d’Europa lancia l’allarme carcere nel Paese balcanico. Nel report del Comitato per la prevenzione della tortura si evidenziano le criticità ancora presenti nelle carceri bulgare ma anche i passi avanti fatti. Il CPT esprime in particolare “grande rammarico per l’assenza di reali progressi nell’applicazione di tutele fondamentali contro il maltrattamento, in particolare il diritto di comunicare la detenzione di una persona a una terza parte, il diritto di accesso a un avvocato e a un medico e il diritto a essere informati di tali diritti”. Secondo quanto ricostruito nel rapporto, queste tutele non sono praticamente mai applicate nel periodo iniziale del fermo di polizia, di 24 ore. Le autorità bulgare, da parte loro, hanno presentato le misure prese o concepite per attuare le raccomandazioni formulate dal Comitato nel rapporto, rivendicando i progressi compiuti. In effetti lo stesso CPT ha accolto con favore “la rarità di casi di maltrattamento da parte del personale, la riduzione della popolazione carceraria e alcuni miglioramenti nelle condizioni di vita”. Allo stesso modo è stato valutato positivamente come “la stragrande maggioranza delle persone interpellate ha dichiarato di aver ricevuto un trattamento consono da parte della polizia”. Il Comitato sottolinea inoltre come sviluppo positivo il fatto che, dalla visita periodica del 2017, “la popolazione carceraria in Bulgaria è ulteriormente diminuita e la norma legale nazionale di 4 metri quadrati per detenuto è stata globalmente rispettata negli istituti visitati (ad eccezione del carcere di Plovdiv)”. Tuttavia, rimane il fatto che la violenza tra i detenuti rimane un problema e la carenza di personale penitenziario non fa che aumentare il rischio; e che le condizioni materiali della detenzione “potrebbero essere considerate accettabili per un massimo di 24 ore, ma sono risultate insoddisfacenti per periodi più lunghi”.