Il ministro Nordio alla prima uscita: “Le carceri sono la priorità” di Eleonora Martini Il Manifesto, 28 ottobre 2022 Alla Polizia penitenziaria: “Piano di edilizia e risorse. Andrò in visita negli istituti più difficili”. Come Secondigliano, dove è stato trasferito finalmente per le cure il detenuto pakistano che dorme da mesi. La prima uscita pubblica del nuovo ministro di Giustizia, Carlo Nordio, è all’Università Roma Tre per la presentazione del calendario della Polizia penitenziaria. Ma forse non è solo il contesto a ispirare il neo Guardasigilli quando afferma “le carceri sono la mia priorità” e promette: “La mia prima visita pastorale laica non sarà nelle Corti di appello o in un ufficio giudiziario, ma sarà alle carceri”. Il ministro, insieme al capo del Dap Carlo Renoldi, presente all’evento, sceglierà nei prossimi giorni “due o tre istituti particolarmente in difficoltà” per una “visita simbolica ma effettiva per dare un segnale di attenzione prioritaria da parte del nostro ministero alla situazione carceraria”. Non è solo il contesto, dicevamo. Certamente, il Corpo degli agenti penitenziari - da sempre un buon bacino di voti per la destra - si aspetta molto dal governo Meloni, almeno (ma non solo) in termini di assunzioni e di attenzione ai sacrosanti problemi dei lavoratori delle carceri. E sicuramente rilanciare il solito piano di edilizia carceraria è la via più breve per dare un primo colpo al cerchio (dei poliziotti) e uno alla botte (dei palazzinari). Ma il ministro vuole anche dimostrare, da un lato, che il suo non è un garantismo solo procedurale, e dall’altro, di essere vicino ai penultimi (gli agenti) nella scala dell’esecuzione penale. Ecco perciò che nel programma del ministro di Giustizia emerge “il potenziamento delle strutture edilizie” e delle “risorse umane”: “Occorre costruire nuove carceri”, spiega Nordio che però, venendo incontro all’appunto sollevato nei giorni scorsi da Renoldi, aggiunge: “E migliorare quelle esistenti”. Parla anche di migliorie al trattamento economico di chi lavora nelle carceri “in condizioni veramente difficili”. Il ministro veneto, che ieri mattina ha avuto il primo colloquio con il vicepresidente del Csm, David Ermini, e ha nominato al vertice del suo Gabinetto Alberto Rizzo, presidente del tribunale di Vicenza, e l’ex deputata di FI Giusi Bartolozzi, ha 90 giorni di tempo per decidere se confermare l’attuale capo Dap, Renoldi, molto criticato dai sindacati di destra della Polizia penitenziaria per il suo orientamento garantista e di assoluto rispetto dei diritti dei detenuti. Ieri Nordio lo ha ringraziato come colui “che è stato valido collaboratore della ministra Cartabia”. Ed entrambi, ha affermato, sono “stati efficaci”. Mentre di sé il Guardasigilli ha detto di essere “un garantista, e questo significa applicare il principio latino del Diritto Romano, garantire al massimo la presunzione d’innocenza ma anche la certezza della pena. Ma questo non significa - ha puntualizzato - una pena crudele e cattiva, bensì una che tende a rieducare il condannato, o almeno a non farlo diventare peggiore di quando è entrato in carcere”, nel rispetto “della Costituzione e dei principi cristiani”. E allora vogliamo sperare che il ministro Nordio scelga tra le carceri da visitare per primi Secondigliano a Napoli, dove da pochi giorni è stato trasferito un detenuto pakistano di 28 anni proveniente da Regina Coeli, un uomo che dorme sempre, tutto il giorno, presumibilmente da quando è stato arrestato. Dorme senza mai svegliarsi, immobile, non risponde agli stimoli ed è munito di catetere e pannolone, e imboccato a forza di cibo liquido, come ha potuto testimoniare Susanna Marietti, coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone, che lo ha visto a giugno durante una visita nel carcere. Dorme anche quando compare davanti al giudice per le udienze, contrariamente a quanto prescrive il diritto procedurale che vuole che il detenuto sia informato e cosciente del procedimento al quale è sottoposto. A Regina Coeli, dove gli agenti lo chiamavano “il simulatore” perché non è stata trovata alcuna causa organica, la diagnosi è stata troppo frettolosa. L’uomo ora, dopo la denuncia di Marietti, è stato trasferito nel grande centro clinico di Secondigliano dove sono già stati programmati approfondimenti medici soprattutto di tipo neurologico e neuropsichiatrico (in Svezia da vent’anni studiano la “Sindrome da rassegnazione” riscontrata soprattutto nei bambini figli dei richiedenti asilo). Perché, come ha scritto Marietti, “nessuno simulerebbe mesi di morte apparente”. Carceri, il ministro non tradisce Meloni ma ricorda: la cella non è l’unica pena di Errico Novi Il Dubbio, 28 ottobre 2022 Carlo Nordio ha una sua maieutica. Elegante, colta, paziente, diplomaticamente abilissima. La sfodera, lo ha fatto anche ieri, per rimarginare la distanza che, in particolare sul carcere, c’è fra lui e la leader del governo, Giorgia Meloni. Ed è difficile pronosticare l’esito di questa dialettica. Intanto, al suo primo “evento esterno” da ministro, Nordio ha approfittato del contesto, la presentazione, a Roma Tre, del calendario della Polizia penitenziaria, per parlare appunto di detenzione: “Le carceri sono la mia priorità”, ha assicurato, “e ne sceglierò due o tre particolarmente in difficoltà per la mia prima visita: sarà un segnale della mia attenzione”. Ma il carcere, si sa, è per la premier anche l’unica pena davvero credibile, certa. E allora Nordio declina in chiave “garantista” la necessità di quella “certezza”, che, ricorda, “non significa una pena crudele, ma una pena che deve migliorare le condizioni del condannato, evitare di renderlo una persona peggiore”. Non sconfessa Meloni neppure sul nesso, discutibile, proposto dalla presidente del Consiglio fra il dramma dei suicidi e il rimedio ridotto a un nuovo “piano carceri”. Anche Nordio denuncia “l’inadeguatezza delle strutture: ne vanno costruite di nuove e vanno migliorate quelle esistenti”, ha spiegato, e “vanno potenziati gli organici della polizia penitenziaria”. E qui tra l’altro è subito “braccato” dai sindacati, in particolare dal segretario della Fns Cisl Massimo Vespia che dice di “apprezzare le parole del ministro” e di attendersi però che alle affermazioni “seguano finalmente i fatti”. Ma dalla strettoia il guardasigilli viene via col suo dribbling preferito, quando ricorda che “la certezza della pena è uno dei capisaldi del garantismo”, composto dalla “presunzione di innocenza” e appunto dalla “certezza che la pena sia eseguita”, eppure quest’ultima non vuol dire necessariamente “soltanto carcere”. Ed è qui che la maieutica con Meloni si annuncia incerta nell’esito. Però forse il ministro si supera quando, in un’altra dichiarazione, sfiora un tabù ancora più inattaccabile, per Fratelli d’Italia: l’ergastolo ostativo. Nei giorni scorsi gli era stata attribuita l’intenzione di abolire il “fine pena mai”. Il contrario di quanto immagina Meloni. Ma ancora una volta Nordio concilia ciò che apparentemente è inconciliabile. Lo fa con un colpo da maestro: “Non ho mai detto di esser contrario all’ergastolo. Ho detto che l’ergastolo è come l’inferno: esiste, ma può essere svuotato dall’Onnipotente”. Avesse parlato della sentenza costituzionale sulla liberazione dei “non collaboranti”, sarebbe venuto giù tutto. In realtà lo ha fatto, ma in modo così poetico da disarmare qualsiasi replica. Nordio: “Pena non è solo carcere, per detenuti anche sport e lavoro” di Stefano Pagliarini today.it, 28 ottobre 2022 Pene alternative per i detenuti e stipendi più alti alla polizia. “Massimo sforzo per migliorare la situazione” ha detto il ministro della Giustizia. Il neo ministro della Giustizia del governo Meloni Carlo Nordio non ha dubbi su quale sia la priorità del Paese: le condizioni delle carceri, intese come infrastrutture, condizione dei detenuti e del corpo della polizia penitenziaria. È infatti proprio oggi, in occasione della presentazione del calendario della polizia penitenziaria all’Università Roma Tre, che il Guardasigilli ha detto: “La certezza della pena, che è uno dei caposaldi del garantismo, prevede che la condanna debba essere eseguita ma questo non significa solo carcere e soprattutto non significa carcere crudele e inumano. Sarebbe contro la Costituzione, contro i principi cristiani e sarebbe anche contro l’utilità perché un detenuto deve essere aiutato nel suo recupero. Oggi ci sono molte opzioni che possono aiutare questo percorso rieducativo, introducendo lo sport, potenziando il lavoro. Rendendo cioè il carcere, che è un male necessario, più umano”. Allarme carceri per i numeri dei suicidi - Dunque Nordio, appena insediato, comincerà subito a lavorare su un piano per il recupero di un mondo, quello degli istituti penitenziari, tanto sconosciuto quando abbandonato a se stesso. Lo dicono i numeri dei suicidi. Da tredici anni, non ce ne sono mai stati così tanti come nel 2022. Nel 2009 erano stati 72. Da gennaio a oggi, se ne contano già 66 a cui si sommano altre 60 morti per cause diverse, alcune ancora da accertare. Su questo il ministro di Meloni vuole lavorare, dando subito un segnale. Infatti le sue prime uscite pubbliche del Guardasigilli saranno nelle carceri. Visite simboliche ma utili a tastare un terreno scivoloso. Nordio non ha mai nascosto di essere un garantista. Chi ha sbagliato non deve restare impunito ma non deve essere condannato un innocente. “Per me essere garantista significa garantire il massimo della presunzione di innocenza ma anche certezza della pena” ha ribadito il ministro, che non vuole smontare tutto il lavoro fatto precedentemente da Marta Cartabia. “Va dato atto alla ministra Marta Cartabia e al capo del Dap Carlo Renoldi di essere stati efficaci. Dedicheremo il massimo sforzo a migliorare ulteriormente la situazione” ha ribadito. Carlo Nordio nuovo ministro della Giustizia, chi è Più risorse alla polizia penitenziaria - Insomma il governo di Giorgia Meloni parte da qui, dalla parte più debole e dimenticata dell’intero sistema giustizia italiano. Dai detenuti ma anche dalla polizia penitenziaria, al quale Nordio ha garantito un sostegno non solo in termini di capitale umano ma anche di risorse economiche. “Nel nostro programma c’è il potenziamento delle strutture edilizie e delle risorse umane”. Quindi più carceri ma serve anche “migliorare anche il trattamento economico” degli agenti penitenziari e di chi lavora nelle carceri “in condizioni veramente difficili”. Anche perché Carlo Nordio le carceri le conosce bene. Il suo esordio risale al 1977 quando, come magistrato, è entrato subito nell’ambito del diritto penale come giudice istruttore. Dopo due anni, e per i successivi quaranta, ha lavorato come Pm. Il carcere lui lo ha vissuto nel momento più buio della repubblica, dal 1979 al 1982, quando indagava sulla colonna veneta delle Brigate rosse. Ci ha perfino dormito in carcere, come ha raccontato lui stesso in un simpatico siparietto durante il convegno. Ergastolo e pene alternative: Nordio si smarca dai Patrioti di Francesco Grignetti La Stampa, 28 ottobre 2022 Primi timori a destra sulle uscite controcorrente dell’ex magistrato che è per la depenalizzazione e contro la detenzione senza fine. Se c’è frizione, i diretti interessati lo hanno nascosto benissimo. Ma agli addetti ai lavori è evidentissimo che la rotta del ministro della Giustizia, Carlo Nordio, non è esattamente quella di Giorgia Meloni e nemmeno, forse, di Matteo Salvini. Il ministro è di un garantismo e liberalismo adamantino, finora era lontanissimo dalla politica, poco incline al compromesso. Le sue prime uscite vertevano sulla depenalizzazione. “La velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione e quindi una riduzione dei reati”, ha scandito uscendo dal Quirinale subito dopo il giuramento. Una depenalizzazione che in filigrana mostra l’ambizione di varare un nuovo Codice penale liberale e garantista a suo nome, buttando via il Codice Rocco che risale al fascismo. Peccato che a fatica questi propositi si incastrino con le dichiarazioni della presidente del Consiglio al Senato, due giorni fa: “Non sono convinta - ha detto Meloni rispondendo alla senatrice Ilaria Cucchi - che la soluzione al sovraffollamento carcerario, come è stato fatto negli ultimi anni, debba essere quella di depenalizzare”. Sullo sfondo, c’è un altro scoglio che creerà inevitabili problemi alla navigazione dell’uno o dell’altra: l’ergastolo ostativo, ovvero quell’ergastolo per mafiosi o terroristi che non permette di uscire vivi da una cella. Un problema molto serio e di enorme portata simbolica. L’ergastolo ostativo è inaccettabile per il garantista Nordio. “Un’eresia contraria alla Costituzione”, lo definì nel libro di Claudio Cerasa, Le catene della destra. Resta invece indispensabile per Meloni: “Saremo d’accordo - ha replicato in Senato ai grillini, giustizialisti più di lei - sul cercare strade comuni per difendere uno degli istituti più efficaci nella lotta alla mafia, che nacque proprio negli anni delle stragi di mafia. Un istituto che rischiamo di perdere e che credo insieme si debba cercare di difendere”. Proprio il carcere, o meglio come scontare le pene, sarà il vero punto di dissidio. Il partito di Giorgia Meloni ha un Dna diverso da quello di Nordio. FdI ha un approccio più severo, rigido, giustizialista. Così come la Lega, peraltro. Il disegno è aumentare le carceri e i detenuti, non il contrario. Nordio la vede diversamente, anche se concede molto all’altra visione. “Nel nostro programma - ha spiegato ieri a una cerimonia della polizia penitenziaria - c’è il potenziamento delle strutture edilizie e delle risorse umane. Occorre costruire nuove carceri e migliorare quelle esistenti. Migliorare anche il trattamento economico degli agenti, che lavorano in condizioni davvero difficili”. Detto ciò, “il delitto non deve restare impunito, ma non deve essere condannato un innocente. La pena deve essere certa ed eseguita. Non significa pena crudele e cattiva, ma che tende a rieducare il condannato, o almeno a non farlo diventare peggiore di quando è entrato in carcere”. Ad avviso del ministro, in definitiva, e qui si sono drizzate molte orecchie nel destra-centro, “la certezza della pena non significa solo carcere”. La domanda che comincia a serpeggiare nella maggioranza a questo punto è: Nordio sarà un valore aggiunto o sarà un problema? Si scrutano le sue prime mosse. Ha chiamato come capo di gabinetto un giudice da Vicenza, Alberto Rizzo, un alieno come lui nel Palazzo. Ma come vicecapo vicario ecco Giusi Bartolozzi, magistrata prestata alla politica per una legislatura, senatrice fino a qualche mese fa. Dapprima in Forza Italia, nel luglio 2021 sbatté la porta perché non condivideva una forzatura del partito sulla riforma Cartabia. Neanche a farlo apposta, anche quella volta si dibatteva di abuso d’ufficio. È convinzione di Nordio che il reato sia sbagliato. E al quotidiano Il Dubbio ha annunciato una prossima sessione parlamentare sul punto: “La revisione o l’abolizione del reato di abuso, che paralizza l’amministrazione, è stata chiesta da anni da tutti i sindaci, e vedo con soddisfazione che anche il sindaco di Milano concorda su questa necessità”. Ergastolo ostativo, Meloni dice no alle modifiche e sfida le opposizioni: “Difendiamolo insieme” di Conchita Sannino La Repubblica, 28 ottobre 2022 Niente revisione, per ora. Nessuna liberazione anticipata, restino in carcere boss e mafiosi condannati al fine pena mai, il contrario di quanto chiedevano l’Europa e la Corte italiana. Ma l’8 novembre scade l’aut aut della Consulta. Porte sprangate. Il governo Meloni non farà una corsa contro il tempo, per riaprire le celle dei boss mafiosi. Sull’ergastolo ostativo infatti la presidente del Consiglio - direttamente dal banco del Senato, mercoledì, durante una replica - rivendica la propria originaria battaglia, e chiama a raccolta gli altri, per “tutelare insieme”, sottolinea, “uno degli strumenti più efficaci di contrasto al crimine organizzato”. Quindi niente revisione, per ora. Nessuna liberazione anticipata, restino in carcere boss e mafiosi condannati al fine pena mai, se non hanno dato prova di collaborazione con la giustizia. Esattamente il contrario di quanto chiedevano l’Europa, e la Corte italiana. Che, accogliendo la questione di legittimità sollevata dalla Cassazione dopo il ricorso di Giovanna Araniti - legale dell’ergastolano Francesco Pezzino, dalle cui istanze di liberazione condizionale è partito tutto - aveva dichiarato l’incostituzionalità di quella norma, disponendo che il legislatore provvedesse a modificare le norme. Di rinvio in rinvio, i giudici hanno dato di tempo fino all’8 novembre, data della prossima udienza. Improbabile tuttavia che, in dodici giorni, il nuovo Parlamento faccia ciò che i predecessori non sono riusciti a fare in diciotto mesi. La sfida della premier - Giorgia Meloni chiama le opposizioni, alla voce Antimafia, in Senato. “Immagino che saremo d’accordo sul cercare strade comuni per tutelare uno degli istituti più efficaci nella lotta alla mafia, che nacque proprio negli anni delle stragi: cioè il carcere ostativo, che rischiamo di perdere. E che credo insieme si debba cercare di difendere”. Per Fratelli d’Italia, si tratta di una battaglia identitaria: già alla Camera, si erano posti contro la legge che ammorbidiva il “fine pena mai”. Per il partito di Meloni, la sicurezza e la lotta al crimine organizzato passa anche attraverso il “rigore” di strette indispensabili, di fronte alla pericolosità del terrorismo mafioso. La bocciatura della Consulta - E’ il 15 aprile del 2021 quando la Consulta, trattando il caso del capomafia Pezzino, accusato di omicidio in Sicilia, stabilisce che l’ergastolo a vita, quello che preclude al detenuto una libertà condizionale anche dopo 26 anni già scontati (e sempre in assenza di una collaborazione con la giustizia), “è incompatibile con la Costituzione”. Si tratta di un punto fermo su cui la politica deve assumere le proprie responsabilità, sembra dire la Corte: che dà al Parlamento un anno di tempo, fino al maggio del ‘22, per cambiare le norme. Secondo la Corte, infatti, intervenire direttamente significherebbe mandare in tilt il sistema, comporterebbe un contraccolpo per le linee di contrasto alla criminalità organizzata. Il Sì della Camera alle nuove norme - Il primo aprile scorso, la Camera approva la nuova legge sull’ostativo. Che cosa cambia, concretamente? Che i benefici possono essere concessi a quegli ergastolani se: è riscontrato l’adempimento delle obbligazioni civili e gli obblighi di riparazione pecunaria, ma soprattutto in presenza di elementi che “consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva”, nonché “il pericolo di ripristino di tali collegamenti”. Il sì alla liberazione condizionale che oggi è preclusa avverrebbe comunque a fronte di 30 anni (e non 26) di pena scontata e a valle di articolati passaggi: il giudice di sorveglianza acquisirà il parere del pm, e le informazioni dal carcere dove è detenuto. Dopo 30 giorni, però, anche senza le risposte attese, il giudice è tenuto a decidere. La legge passa con 285 sì, si astengono Fdi, Azione e Iv. C’è voluta la mediazione della Guardasigilli Cartabia per trovare una sintesi: e dopo il forte scetticismo iniziale, aderiscono anche Piero Grasso e Maria Falcone. La palla torna alla Consulta, udienza l’8 novembre - Mancava solo il passaggio al Senato. Ma la legge va a rilento perché, nel frattempo, la Giustizia aveva dovuto accelerare sulla riforma del Csm, in vista del rinnovo del Consiglio. Così, a maggio, proprio su richiesta di Palazzo Chigi inoltrata attraverso i suoi avvocati dello Stato, la Corte Costituzionale aveva concesso ancora un rinvio: fissando la discussione all’8 novembre, data entro la quale le nuove norme dovevano essere già passate anche a Palazzo Madama. Ma la caduta del governo Draghi ha spazzato via ogni piano. Tra dodici giorni, alla nuova udienza, scatta il gong della Consulta: che dovrà decidere se lasciare ancora l’ultima mossa alla politica, quindi ai nuovi eletti, oppure intervenire. Carceri: Meloni si faccia ispirare da Papa Francesco di Sergio Segio vita.it, 28 ottobre 2022 Significativo e non scontato il richiamo del presidente del Consiglio allo scandalo sociale dei suicidi in carcere. Ma la soluzione non possono essere nè un commissario straordinario, nè un fantomatico piano edilizio. Piuttosto Meloni riparta dall’ascolto dei volontari penitenziari e dalle parole di Bergoglio, cui ha rivolto un saluto affettuoso, applaudita da ministri e deputati levatisi in piedi. È indubbiamente importante che Giorgia Meloni, nell’economia del suo discorso per la fiducia alla Camera, abbia voluto ricordare le carceri e, in modo specifico, i suicidi in cella, in drammatico aumento: “non è degno di una Nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro dei nostri agenti di Polizia penitenziaria”. Significativo e appropriato il richiamo alla dignità: non è solo problema di assicurare una diversa “qualità della detenzione” per scongiurare, o perlomeno ridurre, il triste fenomeno. Come per ogni altro, occorrerebbe ragionare sulle sue cause. Le cifre indicano che il picco storico di detenuti suicidi precedente all’attuale (stando ai dati ufficiali) era stato nel 2001, l’anno della grande delusione dopo la mancata amnistia nella ricorrenza del Giubileo, perorata da papa Giovanni Paolo II e sostenuta da un inedito e vastissimo cartello di associazioni, sindacati, reti di volontariato. Il numero odierno (71 suicidi, ha detto la premier, in realtà già superato) rimanda in evidenza al surplus di sofferenze e insofferenze determinato dal periodo pandemico e dalle lunghe chiusure e ulteriori limitazioni conseguenti. Superata - si spera - la fase più critica e intensa della pandemia si sono archiviate e dimenticate quelle sofferenze e insofferenze (che, va ricordato, riguardano sia i reclusi sia la polizia penitenziaria), compresa la strage di 13 detenuti del marzo 2020, un fatto “sudamericano”, di inedita gravità. Più o meno come si è fatto, del resto, nella società esterna, non considerando e non supportando adeguatamente le ferite psicologiche e l’aggravio di condizioni residuati dalla pandemia e dai lockdown. Con la differenza che in un mondo già chiuso, per definizione e per materialità, tutto ciò è divenuto implosivo, a rischio quotidiano di divenire esplosivo. Avere consapevolezza del problema (l’indegnità della condizione carceraria) è premessa ma non garanzia di un affrontamento adeguato ed efficace. Rischia di non esserlo se, come ha poi detto Giorgia Meloni, il suo governo punti a rimettere “al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri”. Se per quest’ultimo si intende il rilancio di un “Commissario straordinario” e, soprattutto, la costruzione di nuove carceri quale supposto rimedio allo stato di - cronico - sovraffollamento, si tratta di un film (un fallimento) già visto. In passato ha prodotto semmai inchieste per corruzione e sperpero di pubbliche risorse, mai un miglioramento nelle condizioni di detenzione. La vera risposta non sta nell’edilizia ma nella logica, nella cultura che presiedono alle politiche penitenziarie. Riconoscere dignità a chi è recluso comporta necessariamente un’idea della pena non vendicativa e non afflittiva. In questo senso, l’unico vero “piano carceri” sarebbe quell’insieme di misure individuate dagli Stati Generali dell’Esecuzione penale, conclusisi nel 2016 dopo due anni di intensi e produttivi lavori che avevano coinvolto centinaia di esperti, colpevolmente non tradotti, come dovuto e promesso, in effettive riforme dall’allora governo di centrosinistra. Chissà se, paradossalmente, un governo di opposto orientamento non trovi il coraggio e la lungimiranza di ripartire da lì. Ascoltando in questo modo anche la voce e le competenze delle migliaia di volontari che da sempre portano supporto, pratico e morale, nelle prigioni, impedendone per quanto possibile l’ulteriore disperazione e tracollo, in supplenza di governi e forze politiche indisponibili e incapaci o, peggio, indifferenti. È quello che le ha chiesto di fare, il giorno dopo al Senato, un’altra donna, invitando la nuova premier “a visitare il mondo del volontariato, che ho avuto la fortuna di conoscere. Sono convinta che cambierà idea su tante realtà e sulle tante possibilità di riscatto che hanno gli ultimi”. Sono parole di Ilaria Cucchi, la cui coraggiosa storia di dolore e impegno ricorda a tutti come di carcere, di pena vendicativa e di disprezzo per chi sbaglia si muoia, non solo per suicidio ma per violenza dell’istituzione. Il mio auspicio è che, se non a Ilaria, Giorgia Meloni dia ascolto a papa Francesco, cui ha rivolto un saluto affettuoso, applaudita da ministri e deputati levatisi in piedi. Di fronte al sovraffollamento delle celle, le parole del pontefice sono state, al solito, nette e inequivoche: “Il sovraffollamento delle carceri è un muro, non è umano! Qualsiasi condanna per un delitto commesso deve avere una speranza, una finestra”. Questo sarebbe l’unico vero e credibile programma per le carceri: abbattere muri, aprire finestre, costruire speranza. C’è da dubitare che agli applausi dei parlamentari corrispondano azioni e impostazioni conseguenti. Era già successo appunto al predecessore, Giovanni Paolo II, quando in un’inedita e storica prolusione davanti alle Camere riunite invocò attenzione per le carceri e i detenuti e, in specifico, “un segno di clemenza verso di loro mediante una riduzione della pena”. I parlamentari si spellarono le mani negli applausi, ma la clemenza non venne, la campagna per l’amnistia e l’indulto venne così cinicamente spenta per mancanza di risposte politiche e di carcere si continuò a morire, più di prima. A dispetto delle esperienze e del pessimismo, però, nella speranza anche meno plausibile bisogna continuare a credere. E chissà che, per necessità se non per convinzione, il nuovo governo non capisca che occorre urgentemente spegnere il fuoco sotto la pentola che bolle pericolosamente da troppo tempo, nell’incuria e assenza di reali risposte da parte dei governi di tutti i colori. Abuso d’ufficio, la proposta Nordio “spacca” i democrat di Simona Musco Il Dubbio, 28 ottobre 2022 Per il guardasigilli la modifica o l’abolizione dell’articolo 323 del codice penale è tra le priorità. Decaro: “Anci pronta a incontrare Nordio”. Ma Verini (Pd) frena: “Il vero problema sono le responsabilità dei sindaci”. Abolirlo no, modificarlo forse. L’abuso d’ufficio torna a far discutere la politica, all’indomani delle dichiarazioni del ministro della Giustizia Carlo Nordio, che al Dubbio ha confermato la volontà di modificare o abolire l’articolo 323 del codice penale per liberare i sindaci dalla cosiddetta “paura della firma”. E a ribadire che tra le priorità del centrodestra c’è anche questa è stato l’ex sottosegretario alla Giustizia e deputato di Forza Italia Francesco Paolo Sisto, in un faccia a faccia con il direttore del Dubbio Davide Varì al Salone della Giustizia. La sua abolizione, ha affermato, “è un pallino mio e del mio partito”. Come reato “è una sublimazione patologica dell’atto amministrativo, illegittimo per vari motivi”, con la conseguenza di una “burocrazia difensiva”. Il reato è già stato alleggerito dalla riforma introdotta con il decreto Semplificazioni nel 2020, ma la tagliola per i sindaci scatta a causa del combinato disposto con la legge Severino, che obbliga la sospensione di sindaci e governatori in caso di condanna di primo grado. “La presunzione di non colpevolezza - ha affermato Sisto - è però fino al terzo grado di giudizio, quindi non c’è allineamento”. Ad accogliere positivamente le parole di Nordio sono soprattutto i sindaci. A partire da Antonio Decaro, sindaco dem di Bari e presidente dell’Anci. “Le parole del ministro Nordio ci fanno ben sperare rispetto alla risoluzione di un problema annoso che i sindaci denunciano da tempo e che non ha trovato la giusta attenzione del Parlamento e del governo. Oltre a ringraziare il ministro - spiega al Dubbio -, sento di poter dare da subito la disponibilità dei sindaci e dell’Anci a riprendere il dialogo sulle norme relative alla responsabilità dei sindaci che spesso si ritrovano a pagare in prima persona un prezzo troppo alto per situazioni non sempre riconducibili alle loro competenze. Mi auguro, inoltre, che il ministro sarà con noi a Bergamo per l’assemblea dell’Anci sale 22 al 25 novembre per discutere di questa e di altre questioni”. Per Dario Nardella, sindaco di Firenze (Pd), “non c’è bisogno di commentare, per quanto mi riguarda. È sempre stata la battaglia dei sindaci”. Mentre a colpire Simone Uggetti, ex primo cittadino dem di Lodi, che ha perso la fascia dopo una condanna in primo grado poi ribaltata in appello, è stato l’approccio del ministro: “Il fatto di voler convocare i sindaci mi sembra un cambiamento dal punto di vista culturale - sottolinea -. C’è piena collaborazione e non una contrapposizione di poteri. L’abuso d’ufficio è un reato dai contorni vaghi che purtroppo ha margini di interpretazione e di dubbio per i sindaci, ma anche per i dirigenti e, comunque, i decisori, al punto da portare a non decidere o a farlo in tempi lunghi. Più è chiara l’indicazione degli ambiti di responsabilità, più questo Paese ha la speranza di poter migliorare”. Ma se in casa dem la proposta di Nordio entusiasma i sindaci, tra i parlamentari c’è più cautela. Anche perché il reato, affermano i più, risulta già parecchio “svuotato” dopo l’ultima riforma e non rappresenterebbe il vero problema degli amministratori. Proprio per tale motivo, secondo il senatore del Pd Walter Verini, “Nordio sbaglia mira”. Oggi, infatti, “le fattispecie sono molto circoscritte e quindi non interverrei ulteriormente. Il problema reale è la responsabilità che viene attribuita ai sindaci in caso di eventi che non sono questione di responsabilità personale - aggiunge -, ma di responsabilità oggettiva”. Gli esempi sono diversi: dal caso della sindaca di Crema Stefania Bonaldi, indagata dopo che un bambino si è schiacciato due dita della mano nel cardine della porta mangiafuoco della scuola, a quello dell’ex sindaca di Torino Chiara Appendino, finita a processo per la tragedia di piazza San Carlo. “Quei fatti non possono essere considerati responsabilità dei sindaci - sottolinea Verini -. Ma per tutelare chi sta più in trincea, ovvero i sindaci, allora dobbiamo cambiare - e ci sono le condizioni per farlo - il Testo unico degli enti locali, definendo meglio le norme del processo penale e le responsabilità dentro la pubblica amministrazione”. Sulla possibilità di una modifica, afferma comunque il senatore dem, “non c’è chiusura totale, ma vediamo dove e come. La motivazione non può essere quella di Nordio. Se si elimina l’abuso d’ufficio l’avviso di garanzia arriva lo stesso, ma per altre ipotesi di reato. E se l’abuso d’ufficio riguarda questioni rilevanti, il reato deve esistere”. A commentare le parole di Nordio è anche Anna Rossomando, vicepresidente del Senato, che ha ricordato le proposte già depositate in Parlamento sul tema. In primis quella “sulla revisione della Severino nella parte che riguarda i sindaci e in particolare la modifica sulla sospensione della carica con condanna non definitiva - spiega -, così come una ulteriore modifica del reato di abuso di ufficio e aggiungo la norma sulla responsabilità dei sindaci in merito alle condotte omissive improprie. Se questi provvedimenti non sono stati approvati già nella scorsa legislatura è perché la destra ha preferito fare propaganda sui referendum invece che trovare soluzioni per i sindaci. Se hanno cambiato idea ce lo facciano sapere”. In casa 5Stelle è il deputato Arnaldo Lomuti a garantire un “controllo” sulle possibili riforme prospettate dal centrodestra. “Siamo preoccupati in generale sull’ideale di giustizia che ha Nordio - spiega -. Riguardo all’abuso di ufficio, avevamo mostrato aperture già nella passata legislatura”. Ma tali aperture riguardano solo la possibilità di modifiche, “non soppressioni - conclude. Non abbiamo notizie su come il nuovo guardasigilli voglia mettere in pratica i suoi annunci. Vigileremo”. Per la deputata grillina Stefania Ascari, infine, “abolire il reato di abuso di ufficio è una scelta sbagliata che va contro la maggioranza dei sindaci italiani che amministrano con onestà e trasparenza - spiega -. Il vero tema da affrontare, piuttosto, è la semplificazione: amministrare una città è estremamente complesso e tanti possono essere gli ostacoli, perciò bisogna snellire la burocrazia e spendere più fondi per gli enti locali. Ma se si vuole dare battaglia alla corruzione e alle mafie, non si può pensare di abolire un reato spia quale è l’abuso di ufficio. Chi agisce in buona fede, non ha da temere”. Caiazza (Ucpi): “Dal ministro Nordio parole positive, ma giudicheremo i fatti” di Angela Stella Il Riformista, 28 ottobre 2022 “Le dichiarazioni del nuovo ministro sono importanti. Leggo le affermazioni della Meloni come una legittimazione sulla separazione delle carriere. Differenze però sul carcere”. Il cantiere della giustizia è sempre aperto, il neo Ministro della Giustizia Carlo Nordio ha lanciato subito delle priorità per il suo mandato, e si avvicina l’elezione dei laici del Csm. Ne parliamo con Gian Domenico Caiazza, Presidente dell’Unione delle Camere Penali. Dalle prime dichiarazioni del Ministro Carlo Nordio c’è un cambio di passo rispetto alla Cartabia? È prematuro dirlo. Le dichiarazioni rese dal nuovo Ministro sono molto importanti e positive, abbiamo avuto modo di conoscere in questi anni, in ripetute occasioni di incontro e di confronto, le solide radici liberali delle idee del dott. Nordio sulla giustizia penale, e la loro stretta vicinanza a molte di quelle che costituiscono da sempre il patrimonio culturale e ideale dei penalisti italiani. Certo, poi lo si dovrà giudicare dagli atti concreti. Nordio: “il mio primo atto: convoco i sindaci e abolisco l’abuso d’ufficio. Sono proprio gli amministratori di sinistra ad averlo chiesto per primi”... Si tratta di un antico tema. Questo reato comporta una amministrazione difensiva, la cosiddetta “paura della firma”, ed è molto sentito trasversalmente. Quindi il neo Guardasigilli fa bene a prendere queste iniziative. Tra i suoi obiettivi anche la depenalizzazione. Mette d’accordo penalisti e magistratura... Ai tempi di Bonafede avevamo convenuto con l’Anm su alcune proposte interessanti di depenalizzazione, soprattutto dei reati contravvenzionali. Si potrebbe ritornare a quella proposta comune. Sicuramente è una strada da battere. Invece i pm non saranno d’accordo a una limitazione delle intercettazioni... Anche su questo siamo d’accordo con il Ministro. Però il tema non è solo quello di limitarle quantitativamente ma di capire come ridurre il catalogo dei reati per i quali potrebbero essere disposte. A nostro parere il loro uso dovrebbe essere circoscritto solo ai reati di criminalità organizzata e di grave allarme sociale, come il terrorismo. Meloni nel suo discorso ha detto che occorre recuperare la parità tra accusa e difesa nel processo penale. Non ha parlato esplicitamente di separazione delle carriere. Comunque: se non ora quando? Io leggo le affermazioni della Meloni come una legittimazione politica delle affermazioni del Ministro Nordio sulla natura programmatica di questo governo in tema di separazione delle carriere. Parlare di equilibrio tra accusa e difesa non può che significare questo. Ora bisognerà solo rimboccarsi le maniche e decidere quale strada percorrere - se via parlamentare o governativa - per portare avanti questa riforma costituzionale, come previsto anche dalla nostra proposta di legge di iniziativa popolare. Berlusconi in tal senso fece promesse (poi non mantenute) anche in passato. Ora la politica avrà quel coraggio che le è mancato in precedenza? Dagli impegni che hanno preso le forze politiche rispondendo alle nostre domande in campagna elettorale la risposta dovrebbe essere solo che affermativa. Esiste una maggioranza assoluta che va al di là di quella di governo. Mi auguro che diversamente dal passato si dia coerenza e conseguenza a quello che si è affermato prima del 25 settembre. I presupposti ci sono tutti. Riforma del processo penale. 26 Procuratori generali scrivono a Nordio: senza riforma transitoria sarà il caos. Anche per voi occorre mettervi mano? Abbiamo anche a noi a cuore alcuni profili che richiedono a nostro parere un intervento transitorio. Penso ad esempio alle impugnazioni penali: dal primo novembre non sarà più prevista la possibilità di depositare le impugnazioni fuori dalla sede della Corte del giudice di riferimento. Questo è un problema perché sta andando in esaurimento la norma - transitoria a sua volta - che ci consente i depositi telematici. Se facciamo coincidere queste due circostanze si crea un grande problema. Un secondo tema riguarda la giustizia ripartiva: come la si può mettere in atto se mancano le strutture per la mediazione? Il Guardasigilli ha detto che tra le sue priorità c’è il carcere e la pena non significa solo carcere. Ma come riuscire a conciliare queste sue istanze con quelle del partito che lo ha fatto eleggere che sostiene “costruiamo più istituti di pena”? Questa è una bella domanda che bisognerebbe girare agli stessi Meloni e Nordio. Credo che un punto di incontro potrebbe essere solo quello di ripensare alle misure alternative come già fece la Commissione Giostra. Non solo ampliarle ma renderle anche più efficaci, effettive e più sorvegliate di come non lo siano ora. Questa può essere l’unica strada di incontro tra queste due esigenze. Nonostante qualcuno metta in dubbio la permanenza di Renoldi come capo del Dap, Nordio dovrebbe essere il suo primo protettore... Me lo auguro perché consideriamo Renoldi un eccellente capo del Dap. L’8 novembre la Corte Costituzionale dovrebbe decidere se dare altro tempo al Parlamento sull’ergastolo ostativo... Quello che non può accadere - ma temo che qualcuno della maggioranza abbia in testa - è che la risposta parlamentare possa essere contraria alle indicazioni fornite dalla Consulta. A questo punto i giudici costituzionali dovrebbero dichiarare l’incostituzionalità della norma in maniera definitiva. Il Presidente dell’Anm Santalucia ha detto: “Nel 2021 e nell’anno in corso sono stati aperti 102 procedimenti, ne sono stati ad oggi definiti 64, 16 con l’applicazione di sanzioni, le maggior volte della censura, 27 per sopravvenuti recessi dei magistrati dall’Associazione e 21 per insussistenza del rilievo deontologico. Insomma, stiamo facendo i conti, e seriamente, con gli errori del passato”. Lei crede che davvero sia così? Il problema non è numerico. Il problema è che non si vuole porre il giudizio disciplinare fuori dal Consiglio Superiore della Magistratura, ad esempio dando vita all’Alta Corte, come proposta anche da Luciano Violante. L’onorevole di +Europa Riccardo Magi ha scritto una lettera al Presidente della Camera per chiedere criteri di trasparenza nella scelta dei laici del Csm. Concorda? Mi sembra una giusta ed eccellente iniziativa, tuttavia non sono sicuro che avrà seguito. La presidente di Nessuno Tocchi Caino, Rita Bernardini, ha lanciato la candidatura dell’avvocato Giuseppe Rossodivita la Csm. Che ne pensa? Giuseppe Rossodivita è un avvocato di antica militanza radicale e di sicura solidità di principi liberali e radicali sulla giustizia penale. Non posso che augurarmi che questa proposta abbia le migliori fortune. I Pg scrivono a Nordio: tanti i dubbi sulla riforma di Gianni Barbacetto e Valeria Pacelli Il Fatto Quotidiano, 28 ottobre 2022 A quattro giorni dall’entrata in vigore della riforma Cartabia, le Procure d’Italia sono in tilt: in molte di queste sono in corso riunioni e confronti per capire come applicare le disposizioni previste dal decreto legislativo dell’ottobre scorso. A quali procedimenti si dovranno applicare? Solo ai futuri fascicoli o anche a quelli già aperti? Non c’è una norma transitoria, manca un’interpretazione condivisa. E così il rischio è che ogni Procura agisca come crede. A Bologna, per esempio, il procuratore Giuseppe Amato lo scorso 19 ottobre ha emanato una circolare per indicare che le nuove disposizioni si applicheranno solo ai “fascicoli iscritti dopo l’entrata in vigore del decreto legislativo”. In caso contrario, la conseguenza sarebbe quella di “paralizzare gli uffici requirenti di primo e secondo grado”, determinando un “caos organizzativo”. Non tutti i procuratori però condividono questa impostazione. Di certo una risposta dovrà fornirla il ministero della Giustizia, ora guidato da Carlo Nordio. Non ha ancora risposto alla lettera inviata il 25 ottobre scorso, firmata dai procuratori generali di tutte le Corti d’appello d’Italia. Che cosa chiedono? Di “mettere a fuoco possibili interventi normativi per il coordinamento tra il vecchio e il nuovo sistema”; “l’eliminazione di alcune sfasature riscontrate nel testo del decreto legislativo”; ma soprattutto di “valutare l’esigenza di una disciplina transitoria per alcuni aspetti relativi alla tempistica”. “Stiamo lavorando con grande attenzione”, è l’unica risposta di Nordio alle domande del Fatto. Secondo alcuni, in Via Arenula si starebbe anche riflettendo sulla possibilità di rinviare alcune disposizioni della Cartabia. Ma ancora non ci sono posizioni ufficiali da parte del ministero. Di certo il tempo è poco e il rischio è che la riforma entri in vigore in un sistema che non ha gli strumenti per applicarla, a cominciare dai sistemi informatici necessari per i nuovi adempimenti previsti (deposito atti, notifiche di avvisi e così via) che non potranno certo essere approntati in quattro giorni. “C’è una varietà di situazioni complesse che saranno difficilmente gestibili perlomeno in tempi brevissimi - spiega al Fatto Antonio Mura, procuratore generale di Roma, tra i firmatari della lettera a Nordio. Vi è il bisogno di un tempo di messa in opera di questa macchina organizzativa che consentirebbe di attuare meglio tutto”. Gerardo Dominijanni, procuratore generale di Reggio Calabria, spiega che, con particolare riferimento alle norme sulle indagini, “più che di un differimento, c’è bisogno di una norma transitoria che chiarisca a quali procedimenti si applicano le nuove disposizioni. In questo momento ci sono grossi problemi di incertezza, anche perché la mancanza di un’interpretazione unanime creerà contenziosi e possibili nullità di provvedimenti e/o inutilizzabilità delle attività di indagine”. Con il nuovo scadenzario previsto dalla riforma e la mancanza di strumenti idonei, molti atti infatti potrebbero essere annullati. “Non stiamo chiedendo un rinvio dell’applicazione delle nuove norme - è invece il pensiero di Francesca Nanni, procuratrice generale di Milano -, ma di fare chiarezza in merito alla sorte di procedimenti pendenti, anche molto delicati, e di aiutare gli uffici requirenti finora esclusi dall’assegnazione delle risorse, ad attuare la riforma”. Le prossime ore, per la giustizia, sono un’incognita. Il Csm si spacca dopo il richiamo di Mattarella di Ermes Antonucci Il Foglio, 28 ottobre 2022 I membri del Consiglio superiore della magistratura si dividono dopo la missiva del capo dello stato sulla circolare sulle valutazioni di professionalità delle toghe. Si è abbattuta come un macigno sul Consiglio superiore della magistratura la missiva con cui il capo dello stato, Sergio Mattarella, ha messo in guardia i consiglieri dall’approvare una circolare sulle valutazioni di professionalità delle toghe che ignora la legge delega approvata in materia dal Parlamento lo scorso settembre. Durante il plenum di ieri è emersa una netta spaccatura tra i promotori della circolare, appartenenti soprattutto alle correnti di Area e di Autonomia e Indipendenza, e i componenti togati e laici che si sono resi conto dell’inopportunità di intervenire su un tema così delicato ancor prima che il governo possa adottare i decreti attuativi della legge delega. Nella comunicazione inviata nei giorni scorsi a David Ermini, vicepresidente del Csm, Mattarella si è detto “certo che l’assemblea plenaria nel dibattito avrà modo di esaminare i contenuti della proposta confrontandosi con i principi dettati in materia dalle norme di delega di cui alla legge 17 giugno 2022, n. 71, il cui termine di esercizio è tutt’ora pendente”. Il problema non riguarda solo la tempistica, ma soprattutto il contenuto della circolare, che ignora alcune delle novità fondamentali contenute nella legge delega. Nel corso del dibattito al plenum, il procuratore generale della corte di Cassazione, Luigi Salvato, si è espresso in maniera critica sull’opportunità che il Csm intervenga per attuare un provvedimento che contiene princìpi e criteri direttivi rivolti al governo e non ancora attuati: “In virtù dell’univoco significato del termine ‘direttivi’ - ha detto - le disposizioni contenute nella legge delega non possono fornire mai direttamente la regola per un caso concreto, ma solo orientare l’attività dell’unico organo deputato ad attuare quelle direttive, cioè il governo. Il contenuto della direttiva quindi non può mai essere auto-applicativo. Se così non fosse non sarebbe una direttiva, ma sarebbe altro. Quindi ci troviamo di fronte a norme sostanziali di scopo che nessun altro, che non sia il legislatore, può attuare”. Salvato si è mostrato dubbioso anche sulla compatibilità tra i princìpi stabiliti dalla legge delega e i contenuti della circolare: “Nella legge delega a me sembra che si preveda una motivazione semplificata del giudizio positivo, ma non un’assenza di motivazioni, come proposto dalla circolare”. “In merito alle capacità organizzative, la stessa legge delega prevede diversi tipi di giudizio (discreto, buono, ottimo) per valorizzare i profili professionali specifici”, ha aggiunto Salvato, sottolineando come la circolare, al contrario, preveda valutazioni soltanto “in termini di adeguatezza o inadeguatezza”. Estremamente critico anche il membro laico Filippo Donati: “Se noi andiamo ad approvare questa circolare ci inseriamo nell’ambito di un procedimento normativo in corso”, ha affermato. “La circolare dice espressamente che contiene previsioni volte ad anticipare alcune novità contenute nella legge delega. Poi ci dice però che altre novità contenute nella riforma non vengono introdotte. Questa è una cosa che noi quotidianamente insegniamo ai nostri studenti: è possibile all’interno di una riforma fare un’attività di cherry picking, cioè prendere le parti che piacciono e tralasciare le parti che non piacciono, e poi dire che l’intervento che si va a compiere è conforme alla ratio complessiva della riforma? Su questo ho qualche dubbio”. Donati ha così ricordato le amnesie della circolare: “E’ stata tenuta fuori la possibilità di dare una graduazione sulla capacità organizzativa del magistrato, che è un aspetto qualificante della riforma approvata dal Parlamento. Non si valutano gli esiti dei procedimenti, e anche questo è un punto importante della riforma”. Insomma, “si dà un modello di valutazione che dubito sia conforme all’idea che aveva il Parlamento quando ha approvato la legge delega, una valutazione che dovrebbe essere complessiva”. Anche un altro membro laico, Fulvio Gigliotti, ha avanzato perplessità sul metodo: “Mi domando quanto sia opportuno che un Consiglio superiore, pur nella pienezza dei poteri ma in chiusura di consiliatura, e di fronte a quadro normativo non ancora compiutamente delineato, pretenda o si proponga di dettare una normativa organica della materia con la piena consapevolezza che da qui a breve bisognerà rimettere mano alla disciplina”. Vista la spaccatura, la votazione sulla circolare è stata rinviata alla prossima seduta del plenum, che si terrà il 9 novembre. La requisitoria del senatore Scarpinato e lo spettro dei teoremi giudiziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 28 ottobre 2022 Il rischio è che si dia una lettura cospirazionista delle legittime scelte politiche. Alcuni processi fallimentari, come la cosiddetta trattativa Stato-mafia, sono fondati su quello. “Al senatore Scarpinato dovrei dire che mi dovrei stupire di un approccio così smaccatamente ideologico. Ma mi stupisce fino a un certo punto perché l’effetto transfert che lei ha fatto tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico del teorema di parte della magistratura. A cominciare dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via d’Amelio. E questo è tutto quello che ho da dire”. La replica efficace di Giorgia Meloni a Scarpinato - Una replica secca, efficace della presidente del Consiglio Giorgia Meloni dopo l’intervento del grillino ed ex magistrato palermitano Roberto Scarpinato. Subito arriva la difesa d’ufficio del Fatto Quotidiano per precisare che la ex toga nulla aveva a che fare con le indagini di Via D’Amelio e che, anzi, nel 2011, da procuratore generale a Caltanissetta chiese la revisione dei primi due processi Borsellino in seguito alle rivelazioni di Gaspare Spatuzza. A parte che bisogna ringraziare gli avvocati come Rosalba Di Gregorio, i quali hanno lottato duramente quando tutti gli remavano contro, bisogna dire che la Meloni è stata chiara e forse è una questione di comprensione del testo. Dal processo per la mancata cattura di Provenzano alla cosiddetta trattativa - Non ha accusato Scarpinato di essere il Pm che seguì i primi processi Borsellino, ma è partita dal suo intervento/requisitoria per dire che una parte della magistratura effettivamente imbastisce processi basati su teoremi. Alcuni, appunto, di chiara matrice ideologica. Ed è vero che sono stati fallimentari. I primi processi Borsellino lo sono stati. È un fatto indiscutibile. Così come quelli contro gli ex Ros portati avanti, in questo caso, anche da Scarpinato stesso. Pensiamo alla cosiddetta mancata cattura di Provenzano, la mancata perquisizione del covo (che poi era la casa della famiglia, il covo era un altro) di Riina fino ad arrivare alla cosiddetta trattativa Stato-mafia. Tutti fallimenti. In questi processi, puntualmente sono entrate le narrazioni che il senatore grillino ha esplicato nell’intervento. Pensiamo al capo della P2 Licio Gelli. Viene sempre dipinto come una specie di Spectre che muove le fila della Storia. Si è cercato perfino di dipingere l’ex Ros Mario Mori come persona vicina alla P2. Peccato che è l’esatto contrario visto che, da giovane, fu cacciato via dai servizi segreti di allora (il Sid) proprio perché era un disturbo per il piduista Maletti, all’epoca vice capo. C’è anche chi fa serenamente il suo lavoro, si attiene ai fatti - Il problema è che la Meloni ha toccato un tema generale che coinvolge sicuramente una parte della magistratura. C’è chi ha una visione dietrologica degli eventi, a tratti davvero surreali, che rischia di dare una chiave di lettura “oscura” a ogni legittima scelta politica. Ecco infatti che subito si collega il presidenzialismo o la separazione delle carriere a un piano di qualche regia occulta: in pratica le “scie chimiche” applicate alla politica. Ma c’è anche chi fa serenamente il suo lavoro, si attiene ai fatti. Accade così, solo per fare un esempio, che ben due serissime procure avevano archiviato la faccenda di “faccia da mostro”. Non hanno trovato nulla per inquisirlo. Anzi, solo prove contrarie. Altri invece, da morto, lo rispolverano e lo si inserisce nel disegno delle “entità” che governano gli eventi del nostro Paese. Falcone si sgolava contro questi retropensieri che nulla hanno a che fare con una seria lotta alla mafia - Qualche problema c’è. Ma esiste da più di 30 anni. Basterebbe ascoltare o leggere gli interventi di Falcone: si sgolava fino alla nausea contro questi retropensieri che nulla hanno a che fare con una seria lotta alla mafia. Ma anche Borsellino stesso. Dopo la strage di Capaci, rilasciò una bella intervista al compianto Giuseppe D’Avanzo. Alla domanda sul terzo livello ed entità, ecco cosa rispose: “Credo che sia fuorviante immaginare una Spectre dietro le azioni della mafia e vedere questo delitto come una strage di Stato. Prima di avventurarsi in questo ragionamento, bisogna accertare i fatti e attenervisi”. Una lezione, la sua, che dovrebbe fungere da monito contro taluni “indicibili” ragionamenti. Torino. Nuovo suicidio in carcere, giovane si toglie la vita nella sezione “nuovi giunti” di Federica Cravero La Repubblica, 28 ottobre 2022 Un altro suicidio ha sconvolto stamattina il carcere di Torino. Un giovane detenuto di origine africana si è tolto la vita intorno alle 8 impiccandosi nella cella del padiglione B, nella sezione “Nuovi giunti”, in cui era detenuto da appena due giorni. Il ragazzo - la cui identità è sconosciuta - era stato, arrestato mercoledì per il furto di un paio di cuffie bluetooth. Ieri si era tenuta l’udienza di convalida e il giudice si era riservato la decisione se tenerlo in carcere o liberarlo. Ma il giovane non ha atteso la decisione e si è tolto la vita subito dopo il passaggio degli operatori per la terapia dei compagni di cella, che avviene alle 7.30. L’allarme è stato lanciato immediatamente, gli agenti della polizia penitenziaria hanno provato a lungo a rianimarlo. Tra i poliziotti c’era anche un volontario della Croce rossa, che ha subito praticato le manovre opportune, ma alla fine ha dovuto arrendersi ed è stato dichiarato il decesso. “Sono sconfortata - si sfoga la direttrice del carcere Lorusso e Cutugno, Cosima Buccoliero - Il detenuto era appena arrivato, la visita all’ingresso non aveva rilevato criticità: non c’è stato neanche il tempo di accorgersi di qualche problema e di intervenire”. Napoli. Il detenuto che dorme da 4 mesi trasferito a Secondigliano per approfondimenti medici La Stampa, 28 ottobre 2022 L’associazione Antigone: “Non si possono simulare mesi e mesi di coma apparente, è importante identificare la malattia specifica”. È stato trasferito dal carcere di Regina Coeli al penitenziario di Secondigliano l’“uomo che dorme”, il detenuto di 28 anni che da giugno scorso non si sveglia. A riferirlo è l’associazione Antigone: “Dopo la nostra denuncia pubblica il ragazzo è stato trasferito al carcere di Secondigliano a Napoli, dove si trova nel grande centro clinico dell’istituto. Una serie di approfondimenti medici sono stati programmati nei prossimi giorni, in particolare di tipo neurologico, per cercare finalmente di andare oltre quella semplicistica diagnosi effettuata a Regina Coeli secondo la quale il ragazzo sarebbe un simulatore”. Il giovane, originario del Pakistan, è infatti soprannominato dal personale del carcere “il simulatore”. A raccontare la sua storia è stata Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone, che ha incontrato l’uomo a giugno scorso. “Non si possono simulare mesi e mesi di coma apparente - spiega ancora l’associazione -. Nel frattempo, stiamo lavorando per cercare di mettere in contatto le autorità sanitarie di Secondigliano con un gruppo di ricercatori che lavora da anni sui disturbi neurologici funzionali, quelli privi di un’apparente causa organica, come sono queste sindromi del sonno”. “In questi giorni abbiamo imparato - prosegue Antigone - che si tratta di un universo variegato: esistono sindromi del sonno diverse tra di loro, ciascuna con le proprie peculiarità. E’ importante identificare la malattia specifica del ragazzo per poter intervenire correttamente. Trattandosi di sindromi molto rare servono neuropsichiatri esperti e specializzati in questo tema. Le autorità penitenziarie di Secondigliano si sono mostrate molto disponibili e ci stanno aiutando a creare questo ponte tra medici”. Avellino. Carenze assistenza sanitaria ai detenuti: i penalisti irpini si astengono dalle udienze di Antonella Sarno avellinotoday.it, 28 ottobre 2022 L’avvocato Quirino Iorio: “Il problema va affrontato una volta per tutte. Va incrementata la presenza di specialisti all’interno delle strutture penitenziarie”. Camera Penale Irpina. Da ieri 26 ottobre ad oggi 27 ottobre, gli avvocati irpini si astengono dalle udienze penali per denunciare le anomalie dell’assistenza sanitaria ai detenuti presso gli istituti di pena presenti nel territorio del circondario di Avellino e di competenza dell’ufficio di sorveglianza di Avellino. Avvocato Iorio: “Il problema va affrontato e risolto una volta per tutte” - Ecco le dichiarazioni odierne del presidente della Camera Penale Irpina, l’avvocato Quirino Iorio: “Abbiamo più volte segnalato un deficit di assistenza ai detenuti, in particolar modo sotto l’aspetto sanitario. Bisogna tener presente che, a differenza del comune cittadino, il detenuto non ha la possibilità di rivolgersi alle strutture private. In questo momento, si evidenziano delle criticità nelle strutture irpine. Noi vogliamo richiamare l’attenzione degli organi istituzionali affinché questo problema, segnalato anche dal garante dei diritti dei detenuti, dal garante provinciale e da quello regionale, venga in qualche modo affrontato una volta per tutte”. “Al Carcere di Avellino c’è un’altissima incidenza di atti di autolesionismo” - “Siamo a conoscenza dei problemi che si sono verificati all’interno delle strutture penitenziarie, anche a Bellizzi Irpino - continua - crediamo che, in qualche modo, ci sia un legame che va affrontato. I dati sono allarmanti. Nel primo semestre 2022, Avellino si caratterizza per avere un’altissima incidenza di atti di autolesionismo tra i detenuti. Credo sia venuto il momento di richiamare l’attenzione, soprattutto degli organi istituzionali, coinvolgendo anche la popolazione per far capire che la nostra protesta è volta a chiedere tutti gli interventi idonei a far sì che questa problematica venga risolta. Sono tante le cose da fare ma, sicuramente, la prima dovrà essere incrementare la presenza di specialisti all’interno delle strutture penitenziarie” conclude. Perugia. “Balera”, lo spettacolo dei detenuti della Casa circondariale di Capanne di Sandro Francesco Allegrini perugiatoday.it, 28 ottobre 2022 Quando, a cambiare senso, basta una lettera dell’alfabeto. Un percorso di recupero e reinserimento attraverso il linguaggio forte del teatro. Un progetto dal nome simbolico “Per aspera ad astra”. Ed erano una trentina i soggetti coinvolti nell’operazione, in ruoli e funzioni diverse e complementari. Il tutto sotto l’accorta regia di Vittoria Corallo. Con la convinta adesione della direttrice del carcere Bernardina di Mario, anche attraverso la fitta rete di suoi collaboratori, con la persuasa approvazione dei giudici di sorveglianza, con la partecipazione della nostra ABA per la scenografia, col sottofondo della ‘band indie rock post punk’ Panta, col sostegno della Fondazione Perugia. Un’operazione veramente corale. Il testo/pretesto intorno al quale ruota l’affabulazione è “Gli Uccelli” di Aristofane: più per metodo che per contenuti. Insomma: si sposta il punto di osservazione. Ma nello spettacolo c’è anche parecchia scienza e allusività. Basta saperla trovare. Una rappresentazione intrisa di forte carica simbolica. Così il lanciare spazzatura, che qualcuno pazientemente raccoglie. Un bisogno di pulizia che è soprattutto interiore. Il lasciare indumenti logori e sporchi per vestirne di nuovi. L’assumere un abito per identificare un personaggio. L’assillo dei telefonini che non vanno e il calare improvviso del buio, aspettando il “fiat lux” letterale e metaforico. Il continuo storytelling familiare, fatto di nonni, cugini e sorelle. Fino allo straziante fuori programma della lettera finale, sul tema eterno della madre: adorata, allontanata, rimpianta. Nell’auspicio di un mondo in cui ci sia spazio per tutti. E poi quella riflessione (“agostiniana”?) sul tempo: galantuomo, denaro, sfuggente e indefinibile. Eppure metronomo dell’avventura esistenziale. Un esperimento in cui vale di certo più il percorso che il traguardo. Per ridare dignità e senso alle scelte. Che non debbono mai essere irreversibili. Pena la disperazione e il morire dentro. Belle parole di Daniela Monni (Fondazione), dell’assessore Edi Cicchi, del magistrato, della direttrice. Del direttore dello Stabile Nino Marino che ci ricorda come, per quella prestazione, i detenuti abbiano sottoscritto un contratto. Dando il senso di aver effettuato una prestazione professionale. Ma con la gioia di essersi riscoperti parte attiva, e utile, del vivere civile. Consenso generale anche da parte delle classi del Mariotti e del Pieralli. Giovani che, per un paio d’ore, hanno fatto a meno del telefonino. Comprendendo come anche un (semplice, ma non banale) cambio di consonante (Balera/Galera) possa, a volte, segnare una svolta. Perché il carcere deve essere recupero, non vendetta. In un Paese civile. Pisa. Libri in arabo dalla Tunisia per i detenuti del Don Bosco pisatoday.it, 28 ottobre 2022 L’iniziativa è stata realizzata dalla Ong Un Ponte Per in collaborazione con l’associazione “Lina Ben Mhenni”. È stato consegnato nella mattinata di giovedì 27 ottobre, alla Casa Circondariale Don Bosco di Pisa, il primo carico di libri in lingua araba arrivato dalla Tunisia. I testi sono stati raccolti e donati dall’associazione tunisina ‘Lina Ben Mhenni’, nata in memoria dell’attivista e giornalista tunisina prematuramente scomparsa, protagonista della ‘Rivoluzione dei Gelsomini’ del 2011, che nel suo paese aveva raccolto moltissimi libri con l’obiettivo di donarli alle persone detenute. I libri sono stati consegnati alla biblioteca del carcere di Pisa dalla Ong italiana Un Ponte Per, che in Tunisia collabora con la Lina Ben Mhenni nell’ambito del progetto ‘Kutub Hurra’ (Libri a porti aperti), e dall’associazione di volontariato toscana Controluce, insieme ad altre realtà associative e istituzionali toscane. Grazie a questa donazione, le persone arabofone detenute nel carcere Don Bosco potranno finalmente fruire di testi scritti nella loro lingua madre. La motivazione di questo intervento è (nello spirito dell’articolo 27 della Costituzione) quello di fornire strumenti culturali utili alla funzione riabilitativa della pena anche a quelle persone detenute che non hanno facile accesso ai libri in lingua italiana. Secondo i dati raccolti nel 18° Rapporto dell’associazione Antigone, nelle carceri italiane i detenuti arabofoni rappresentano la comunità linguistica più ampia dopo quella italofona. Ciononostante, spesso i detenuti hanno accesso solo al Corano come lettura nella propria lingua madre. Portare altri libri in arabo significa creare attività culturali, formazioni e scambi, nell’ottica di una maggiore inclusività nei programmi di trattamento. Il progetto ‘Kutub Hurra’ aveva visto un primo carico di libri in arabo arrivare a Livorno nel maggio 2022, destinati alla biblioteca del carcere Le Sughere, grazie ad una convenzione firmata tra la direzione del carcere, Un Ponte Per, associazioni locali e il Garante delle persone private della libertà del Comune di Livorno. L’iniziativa di Pisa rappresenta quindi la seconda tappa di un percorso che Un Ponte Per auspica di estendere anche ad altre carceri italiane. La speranza è di riuscire a creare attività culturali e di mediazione attraverso l’uso di questi testi. Asti. Protagonisti astigiani nel cortometraggio sui suicidi in carcere di Elisa Ferrando lanuovaprovincia.it, 28 ottobre 2022 L’obiettivo è riflettere sul delicato tema dei suicidi in carcere. Parliamo del cortometraggio che verrà girato dal 13 al 21 novembre in un ex carcere di Bergamo Alta. Il legame con Asti sta nei suoi protagonisti. Uno dei registi, il bergamasco Giulio Ferrari, è di famiglia astigiana, tanto che ha ancora diversi parenti in città. L’attore protagonista è l’astigiano Mario Nosengo, consulente del Teatro Alfieri e organizzatore teatrale (con l’associazione “Arte e tecnica” si occupa delle stagioni di Moncalvo e Nizza Monferrato). Il progetto - A spiegare come è nato il progetto è proprio Giulio, 21 anni, laureando all’accademia di belle arti Naba di Milano (indirizzo Media). “Insieme alla tesi di laurea - spiega - dovrò presentare un cortometraggio insieme ad alcuni compagni, ovvero Giovanni Falanga (con me alla regia) e Giacomo Garampelli (direttore di fotografia). A questo scopo abbiamo scelto di concentrarci su un argomento a valenza sociale, ovvero il tema dei suicidi nelle carceri, in considerazione del fatto che quest’anno è stato battuto il record di 70 casi (aggiornati alla scorsa settimana). Abbiamo approcciato il tema partendo da una storia vera, accaduta in un centro di permanenza per i rimpatri del Sud Italia, dove il barbiere della struttura si è sentito chiedere le lamette da un migrante che stava pianificando il suicidio”. Il luogo di svolgimento della storia, nel corto, non è definito con precisione, ma tutto porta a pensare che sia un carcere. Oltre al protagonista, l’ispettore della struttura impersonato da Mario Nosengo, recitano anche una guardia penitenziaria e quattro detenuti. Tra gli attori anche Vittorio Nastri, nel cast del film “Io sto bene” di Donato Rotunno uscito al cinema ad inizio anno. La raccolta fondi - Proprio per coprire i compensi degli attori e le spese tecniche i ragazzi hanno avviato una campagna di crowdfunding (raccolta fondi) sul web, tramite la piattaforma Indiegogo (al link https://igg.me/at/prisoncide). “Ad oggi (giovedì scorso, ndr) abbiamo raccolto 3.400 euro. L’obiettivo, sinceramente molto ambizioso, è di 10mila euro. Ma anche se non raggiungessimo questa cifra saremmo comunque soddisfatti”. La partecipazione ai festival - Dopo la laurea, il cortometraggio verrà iscritto a diversi festival nazionali. “L’idea - continua - è di circuitarlo tramite l’Accademia. Lo presenteremo, ad esempio, al festival di Venezia, dove è già successo che laureati della Naba abbiano vinto il prestigioso premio Orizzonti”. Ferrari non esclude che possa anche essere presentato all’Asti Film Festival, che si tiene ogni anno ai primi di dicembre. “Ci terrei che il corto - confida - fosse proiettato a Bergamo, Milano e Asti, le tre città cui sono maggiormente legato. Quindi prenderò contatti per partecipare al festival astigiano”. Nessun dubbio, quindi, sulla carriera da intraprendere al termine degli studi. “Dopo la laurea - conclude - non so se comincerò a lavorare o proseguirò gli studi con un master, tutto dipende dal successo del cortometraggio. Ma una cosa è certa: il mio futuro sarà sul set”. Piove sotto l’ombrello, ovvero l’incerta deterrenza di Francesco Strazzari* Il Manifesto, 28 ottobre 2022 Gli Stati Uniti hanno anticipato di qualche mese l’arrivo nelle basi europee della versione aggiornata (assai più versatile) delle sue armi atomiche B61-12. La notizia è riportata da Politico. Accompagnata da un laconico commento del Pentagono, il cui portavoce ricorda come si tratti di un programma di ammodernamento deciso da anni, per cui non è il caso di discutere i dettagli. La notizia è intesa a “rassicurare gli alleati europei” sull’efficacia dell’ombrello nucleare: non un passo indietro davanti al ricatto nucleare con cui la Russia di Putin punta a consolidare le annessioni territoriali, scardinando i principi basilari dell’ordine internazionale. Proprio per questo, non può però essere disgiunta dal contesto della guerra in Ucraina. Non solo in questi giorni il dispiegamento dei nuovi B61-12 accompagna l’intensificarsi delle minacce nucleari russe (con corollario di grande esercitazione nucleare Nato, a cui Mosca risponde simulando un attacco nucleare massiccio); occorre anche ricordare come l’ammodernamento degli arsenali e la crisi del dialogo strategico fra Washington e Mosca costituiscano una delle radici più profonde del conflitto. La svolta avviene dopo 9/11, con l’avvento al potere dei neoconservatori di cui si circonda George W. Bush nel partito repubblicano: perseguendo l’idea dell’invulnerabilità strategica americana nel quadro della war on terror globale, i neocon considerano la Russia una potenza irreversibilmente degradata. L’immagine della Russia come marginale - potenza del passato - è funzionale al venir meno, da parte americana, dell’idea che sia utile, o prudente, mantenere inibizioni nello sviluppo della propria potenza militare nel quadro di un negoziato bilaterale con Mosca. Gli Usa escono dal trattato sulle difese missilistiche (Abm); nel 2007 Putin esce dall’accordo sulle armi convenzionali in Europa. Dopo un breve, faticoso tentativo di riallacciare il dialogo (Obama e Medvedev firmano l’accordo New Start nel 2010; con la presidenza Trump le preoccupazioni repubblicane si rivolgono alla Cina, mentre i russi lanciano nuovi programmi militari: saltano un po’ tutti i meccanismi multilaterali e bilaterali. In sostanza, la narrazione proposta dai repubblicani americani rappresenta il controllo bilaterale degli armamenti come un ambito obsoleto, sopravvissuto a se stesso e non più nell’interesse della sicurezza degli Stati Uniti. A sua volta, sotto la guida di Putin, Mosca investe per anni sulla ripresa economica e militare come premessa per consolidare l’influenza nello spazio ex-sovietico ed arginare l’allargamento Nato, denunciando l’egemonia americana come forma di parassitismo. Russia e Stati Uniti possiedono insieme oltre il 90% di tutte le armi nucleari presenti sul pianeta. Il problema è che mentre si erodeva l’interesse di Washington e Mosca per il dialogo sul disarmo bilaterale, il progresso tecnologico ha eroso alcune fondamentali distinzioni su cui si regge, per i noti paradossi, la tradizionale logica della deterrenza. La velocità e l’agilità dei missili ipersonici rischiano di rendere obsolete le difese missilistiche esistenti e future. Una maggiore flessibilità di impiego delle armi, unita alla riduzione del tempo di risposta degli stati nucleari, incoraggia l’uso preventivo della forza. Il fatto che i nuovi vettori consentano un utilizzo duale (convenzionale o nucleare) rende difficile l’identificazione della minaccia rispetto ai tempi su cui è tarata la capacità di deterrenza attuale, e questo crea un incentivo ad affidarsi a sistemi di intelligenza artificiale e dinamiche algoritmiche che minimizzano il ruolo del fattore umano. In questo contesto di continua trasformazione ed erosione degli standard operativi, nessuno sembra poter prevedere oggi con esattezza gli effetti di una mossa sulla scacchiera nucleare. Recentemente il Segretario alla Difesa Usa Lloyd Austin ha informato gli alleati europei di come la revisione della dottrina nucleare Usa - la pubblicazione è attesa a giorni -, resterà imperniata sulla nozione di “ambiguità calcolata”, contrariamente al fatto che Joe Biden aveva dichiarato che il solo scopo dell’arsenale nucleare fosse la deterrenza di attacchi nucleari. Una novità che non può che essere letta in relazione agli scenari di guerra ucraini, o meglio al continuo agitare lo spettro nucleare da parte del Cremlino. La plausibilità di una relativa affermazione dei repubblicani nelle imminenti elezioni di midterm proietta ulteriore incertezza: si intravede uno scenario in cui gli Stati Uniti, contro il parere della Casa bianca, continuano ad investire su programmi missilistici (sottomarini) voluti da Trump, mentre pongono condizioni al sostegno militare alla difesa ucraina, tirando il freno. L’Italia è tutt’altro che estranea a queste dinamiche di crescente incertezza, non solo per la significativa presenza di armi nucleari sul proprio territorio, ma anche, in senso più ampio, per il suo impegno nelle sedi multilaterali (v. le tensioni diplomatiche con Mosca nei giorni scorsi, per l’esclusione dei russi da un tavolo di esperti in materia di proliferazione). La crisi dell’agenda internazionale di disarmo, nucleare incluso, si accompagna all’assottigliarsi del consenso europeo e all’affermarsi di un atlantismo in chiara salsa nazional-conservatrice, su modello polacco. Le incertezze a cui ci espone il riarmo delle democrazie richiedono un sussulto di partecipazione ampia e diffusa a partire dai movimenti per la pace, ben distinto da chi - a ben vedere - propone negli Usa come da noi più spesa militare e l’appeasement col nazionalismo putiniano. *Autore del libro “Frontiera ucraina., guerra geopolitiche e ordine internazionale” uscito in questi giorni (Il Mulino) Migranti. Un altro naufragio a Lampedusa, Salvini: “Fermeremo i trafficanti” di Laura Anello La Stampa, 28 ottobre 2022 In salvo 31 migranti, morta una donna. Ma i sopravvissuti raccontano: “La sera prima sono annegate sei persone”. L’ennesimo naufragio riapre la discussione politica sull’immigrazione. Non si fa attendere la presa di posizione del ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini: “Messaggio per i trafficanti di esseri umani e complici: l’Italia non tollererà più il business dell’immigrazione clandestina e degli sbarchi fuori controllo. Le Ong straniere si regolino di conseguenza”. Mentre il deputato di Sinistra Italiana Aboubakar Soumahoro invita “tutta l’opposizione ad andare sulle navi che salvano gli esseri umani, mentre alcuni ministri si apprestano a tenere sospese vite umane in mare”. A Lampedusa il bilancio dei vivi e dei morti si aggiorna di ora in ora. I primi, i vivi, sbarcano alla spicciolata su barchini, barcollano in alto mare su carrette mezze affondate, riemergono bagnati e mezzo annegati tra le braccia dei soccorritori, approdano sul molo Favaloro stremati ma felici di essere salvi, gremiscono il centro di accoglienza di Lampedusa da cui - ieri sera - si apprestavano a essere trasferiti in cinquecento sessanta. I secondi, morti, vengono ripescati tra le onde - corpi che galleggiano da giorni o da ore - ed è compito non facile stabilire a quale naufragio appartengano. Ancora più numerosi, ci sono gli scomparsi, fantasmi evocati dai sopravvissuti che raccontano di uomini e donne, e bambini purtroppo, volati giù dalle barche, inghiottiti dal mare, stremati dalla fatica. Ieri è toccato a un barcone di otto metri affondare al largo dell’isola dopo sei giorni di navigazione da Sfax, in Tunisia. Il bilancio dei vivi è di 31 migranti originari della Guinea, della Costa d’Avorio, del Mali e del Camerun: 21 uomini, nove donne e un ragazzino, che sono state soccorsi al largo e portati in salvo. Quello dei morti è di uno, il cadavere di una donna della Guinea. E il disperso, il fantasma, è sempre uno, un profugo della Costa d’Avorio. “Era con noi sul barcone, giovane, alto, non lo abbiamo più visto”, hanno detto i sopravvissuti. “E altre sei persone sono annegate la notte prima del soccorso”, raccontano dalla nave ong Humanity che è carica di altri migranti. Ma la pesca tragica di corpi non si è fermata qui: altri due cadaveri, di un uomo e di una donna, sono stati ripescati a diverse miglia dalla costa di Lampedusa da motovedette della Capitaneria di porto: li hanno intercettati tra le onde e portati a riva, e con loro sono sette i morti che affollano il piccolo cimitero dell’isola, cui aggiungere quattro bambini. Mancano le bare, ormai. “La situazione si è complicata - dice il sindaco, Filippo Mannino - perché oltre a soccorrere e accogliere i vivi, arrivano dei cadaveri ed è complesso, anche a livello umano, gestire tutto”. Il Canale di Sicilia è un brulicare di barchini e barconi, dal molo Favaloro all’hotspot è un continuo via vai di mezzi di trasporto, il poliambulatorio è in piena attività. In serata le prime quattro salme sarebbero state trasferite nell’Agrigentino, nella stessa nave dei 560 vivi, destinate al cimitero di Palma di Montechiaro, senza nome e senza lacrime. Migranti. Sos Humanity: “Chiudere i porti è illegale” di Giansandro Merli Il Manifesto, 28 ottobre 2022 Parla Till Rummnhol, capomissione sulla Humanity 1: “Dal Viminale nessuna comunicazione ufficiale. Per ora non c’è alcun divieto di ingresso nelle acque territoriali. Aspettiamo che l’Italia ci indichi un luogo sicuro di sbarco”. Till Rummenhohl ha 30 anni ed è un esperto di ingegneria oceanica. Sulla Humanity 1, che insieme alla Ocean Viking attende un porto davanti alle coste siciliane, svolge il ruolo di capomissione. È impegnato col soccorso civile nel Mediterraneo centrale da sei anni. Tra il 2016 e 2017 ha partecipato a nove missioni sull’Aquarius. In molte altre ha lavorato da terra. Sembra che il governo italiano non voglia darvi il porto. A bordo c’è preoccupazione? Non abbiamo ricevuto comunicazioni ufficiali. Il processo di richiesta al centro di coordinamento del soccorso marittimo di Roma e al Viminale ha seguito la stessa procedura delle missioni precedenti. Al momento non c’è alcun divieto di ingresso nelle acque territoriali. Ci aspettiamo che questo non cambi, nonostante le dichiarazioni ai media. Ci aspettiamo che l’Italia ci dia un porto. Nelle convenzioni internazionali è scritto chiaramente che deve essere assegnato un luogo sicuro di sbarco. Le autorità italiane devono rispettare quest’obbligo. Quante richieste di porto avete inoltrato? Quattro. La prima il 23 ottobre. Le ripeteremo ogni giorno fino a quando non riceveremo risposta. Chi sono le persone salvate? A bordo abbiamo 180 naufraghi. Vengono da Gambia, Nigeria, Sud Sudan e altri paesi. Un centinaio sono minori non accompagnati. Abbiamo soccorso un gommone pieno di donne e bambini da cui alcune persone, prima del nostro arrivo, erano cadute in acqua. Sembra che qualcuno sia annegato. I compagni di viaggio sono sotto shock. Ci sono uomini e donne che in Libia hanno sofferto violenze continue e ne portano le cicatrici sul corpo. Lo spazio sul ponte è limitato e non è possibile separare i minori dagli adulti. Dormono all’aperto, nello stesso spazio. Esposti a condizioni climatiche che nei prossimi giorni peggioreranno: è previsto un vento più forte. Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi vi accusa di operare in maniera autonoma e senza coordinamento. È vero? No, non lo è. Abbiamo agito nello stesso modo degli ultimi sei anni. Non abbiamo mai cambiato alcun comportamento, rispettando tutti gli obblighi imposti dal diritto internazionale del mare. Il problema è che da alcuni anni le autorità italiane e maltesi non rispondono più ai nostri messaggi e non coordinano le nostre operazioni di ricerca e soccorso. Non ci fanno sapere nulla neanche quando chiediamo informazioni sui casi di barche in difficoltà di cui riceviamo notizia. Quando ci sono persone in pericolo in mare il soccorso non è una scelta, ma un dovere imposto dalla legge. Se le autorità non rispondono dobbiamo scegliere se salvare o no. Se il capitano non reagisse nel più breve tempo possibile si comporterebbe in modo illegale e sarebbe perseguibile. Noi informiamo tutti i centri di coordinamento di ogni passaggio dei soccorsi. Ma non rispondono mai. Ci sono state reazioni dallo Stato di bandiera dopo la nota verbale inviata dal ministero degli Esteri italiano all’ambasciata tedesca? Siamo in contatto continuo con la Germania che ci aiuta a comunicare con le autorità italiane. Adesso però il tema è passato su un piano diplomatico tra ambasciate e ministeri che non ci compete. Cosa farete se l’Italia vi nega qualsiasi porto e vi dice di andare in Francia, Spagna o addirittura Germania come pretese in passato Matteo Salvini? Continueremo ad agire rispettando il diritto internazionale del mare, come abbiamo sempre fatto. Questo significa che i naufraghi devono sbarcare nel porto sicuro più vicino. Siccome Malta ignora le nostre richieste, il successivo paese competente è l’Italia. Continueremo a fare pressione per avere il porto: non è ragionevole né realizzabile andare lontano con i sopravvissuti a bordo. Significherebbe metterli di nuovo in pericolo. Un soccorso non è finito finché non toccano terra. Faremo pressione sull’Italia perché rispetti le leggi nazionali e internazionali. Se chiuderanno i porti dimostreremo che è illegale. Per Piantedosi l’obiettivo del governo è che non ci siano più navi di Ong che salvano migranti nel Mediterraneo. Cosa significherebbe? Sarebbe una tragedia in primis per l’Europa. Vedremmo un grande aumento di morti e dispersi. Una grande vergogna per i paesi europei e per la società civile. Noi salviamo le vite delle persone perché ci sono politici che adottano misure anti-migranti. Il Mediterraneo centrale è la rotta più letale al mondo e la situazione peggiorerebbe ancora. Le persone sarebbero comunque costrette a salire sulle barche per fuggire dalle condizioni in Libia. Si tratterebbe di una grande tragedia. Per la prima volta il Mediterraneo si troverebbe senza mezzi di ricerca e soccorso, a differenza del resto dei mari e oceani. Quando le persone chiedono aiuto devono essere salvate. Migranti. Memorandum Italia-Libia: 5 anni di illegalità e crimini contro l’umanità La Repubblica, 28 ottobre 2022 Se entro il 2 novembre il governo italiano non deciderà per la sua revoca, il Memorandum Italia-Libia verrà automaticamente rinnovato per altri 3 anni. Per questo motivo oltre 40 organizzazioni chiedono all’Italia e all’Europa di riconoscere le proprie responsabilità e di non rinnovare gli accordi con la Libia, un Paese tutt’altro che sicuro, nelle mani di una classe politica evidentemente incapace di occuparsi dei propri cittadini e scosso da tensioni crescenti che vedono protagonisti la stessa popolazione, le milizie locali, la classe politica e diverse potenze straniere regionali, come l’Egitto, l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia. 100mila persone intercettate e nelle mani degli aguzzini. A cinque anni dal Memorandum Italia-Libia, il bilancio delle ricadute sulla vita di uomini, donne e bambini migranti è tragico. Dal 2017 ad oggi quasi 100.000 persone sono state intercettate in mare dalla Guardia costiera libica e riportate forzatamente in Libia, un Paese che può essere definito in tanti modi, ma sicuramente affatto sicuro. La vita dei migranti e rifugiati in Libia è a rischio, tra detenzioni arbitrarie, abusi, violenze e sfruttamento. Significa non avere alcun diritto e nessuna tutela. “L’Italia e l’Unione Europea - si legge in un documento diffuso da Amnesty International e sottoscritto da più di 40 organizzazioni - continuano a impiegare in Libia sempre più risorse pubbliche e a considerarlo un Paese con cui poter stringere accordi, all’interno di un complesso sistema basato sulle politiche di esternalizzazione delle frontiere, che delega ai Paesi d’origine e transito la gestione dei flussi migratori, con il sostegno economico e la collaborazione dell’UE e degli Stati membri. Il Memorandum Italia - Libia crea le condizioni per la violazione dei diritti di migranti e rifugiati agevolando pratiche di sfruttamento e di tortura tali da costituire crimini contro l’umanità”. Oltre 100 milioni di denaro pubblico alla guardia costiera libica. Il Memorandum prevede il sostegno alla Guardia costiera libica, attraverso fondi, mezzi e addestramento. Continuare a supportarla significa non solo contribuire direttamente e materialmente al respingimento di uomini, donne e bambini ma anche sostenere i centri di detenzione dove le persone vengono sottoposte a trattamenti inumani e degradanti, abusate e uccise. Dal 2017 la Guardia costiera libica ha ricevuto oltre 100 milioni in formazione e equipaggiamenti (57,2 milioni dal Fondo fiduciario per l’Africa e 45 milioni solo attraverso la missione militare italiana dedicata). Soldi pubblici e risorse destinate alla cooperazione e allo sviluppo, impiegate invece per il rafforzamento delle frontiere, senza alcuna salvaguardia dei diritti umani, né alcun meccanismo di monitoraggio e revisione richiesto dalle norme finanziarie dell’UE. Ugualmente le risorse utilizzate per l’implementazione degli interventi umanitari non hanno bilanciato i crimini contro l’umanità che sono commessi attraverso il Memorandum. La situazione attuale in Libia. Va ribadito che la Libia non può essere considerato un luogo sicuro. Il quadro politico è instabile, e le violenze contro la popolazione crescono di anno in anno, così come il numero delle persone sfollate. Nel paese è impossibile fornire una protezione alle persone vulnerabili. Le opzioni sicure e legali per fuggire sono limitate sia nell’accesso sia nei numeri, tanto che sono molte le persone che decidono di intraprendere un viaggio di ritorno via terra - in particolare lavoratori stagionali provenienti dai paesi vicini - correndo rischi simili a quelli già affrontati per raggiungere la Libia. Molti altri, invece, provano ad attraversare il Mediterraneo, pagando somme messe da parte con lavori svolti spesso in condizioni disumane, e affrontando viaggi pericolosi, in cui la probabilità di annegare è alta quanto quella di essere intercettati e respinti. Le organizzazioni firmatarie: A Buon Diritto, ACAT Italia, ACLI, ActionAid, Agenzia Habeshia, Alarm Phone, Amnesty International Italia, AOI, ARCI, ASGI, Baobab Experience, Centro Astalli, CGIL, CIES, CINI, Civicozero onlus, CNCA, Comitato Verità e Giustizia per i Nuovi Desaparecidos, Comunità Papa Giovanni XXIII, CoNNGI, Cospe, FCEI, Focus Casa dei Diritti Sociali, Fondazione Migrantes, Emergency, EuroMed Rights, Europasilo, Intersos, Magistratura Democratica, Mani Rosse Antirazziste, Medici del Mondo Italia, Mediterranea, Medici Senza Frontiere, Movimento Italiani Senza Cittadinanza, Open Arms, Oxfam Italia, Refugees Welcome Italia, ResQ - People Saving People, Save the Children, Sea Watch, Senza Confine, SIMM, UIL, UNIRE, Un Ponte per. Ultima chiamata per Julian Assange: ora l’Europa deve battere un colpo di Andrea Lanzetta tpi.it, 28 ottobre 2022 Il fondatore di WikiLeaks attende l’estradizione negli Usa in un carcere britannico di massima sicurezza. Eppure come finalista del Premio Sakharov potrebbe presenziare alla premiazione prevista al Parlamento Ue e sfuggire a 175 anni di galera. Ma Londra deve smetterla di comportarsi come Putin. Ha trascorso gli ultimi dieci anni a sfuggire a un ordine di cattura degli Stati Uniti, dove è ricercato per aver divulgato documenti secretati. Dopo aver passato quasi sette anni rifugiato nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra, dal 2019 Julian Assange è detenuto nel carcere britannico di massima sicurezza di Belmarsh in attesa di essere estradato negli Usa, dove rischia fino a 175 anni di reclusione. Ma la speranza è l’ultima a morire e potrebbe arrivare dal Parlamento europeo, Londra permettendo. Il giornalista era infatti tra i tre finalisti del premio Sakharov 2022 per la libertà di pensiero, assegnato ogni anno dall’Eurocamera dal 1988. Alla fine, l’onorificenza è stata attribuita al “coraggioso popolo ucraino” che continua a resistere all’invasione russa. Ma non tutto è perduto perché la vera battaglia riguarda la liberazione del fondatore di WikiLeaks e la tutela della libertà di stampa. Come di consueto infatti, il Parlamento europeo dovrebbe invitare tutti i finalisti a presenziare alla cerimonia di premiazione prevista a Strasburgo il prossimo 14 dicembre. Le autorità britanniche dovranno allora decidere se negare o meno tale diritto ad Assange, mettendosi sullo stesso piano della Russia di Putin. La proposta dal M5S - L’idea arriva dall’europarlamentare del Movimento 5 Stelle, Sabrina Pignedoli, promotrice della candidatura di Julian Assange al premio Sakharov 2022, a cui negli scorsi mesi si sono uniti un’altra quarantina di deputati di quasi tutti i gruppi (escluso Renew Europe). “Sapevo che, visto l’anno particolare, una vittoria sarebbe stata difficile ma quello che più mi premeva era portare il caso all’interno delle istituzioni europee”, ricorda Pignedoli a TPI. “Al di là degli inviti alla moglie Stella Morris e al padre John Shipton, frutto delle iniziative di singoli parlamentari, c’era bisogno di un impegno da parte del Parlamento e nonostante il premio Sakharov non rappresenti una presa di posizione comune, di fatto Assange è stato votato tra i finalisti e questo dimostra un interessamento da parte dell’istituzione al caso: era il primo passo da fare”. Ma l’obiettivo resta ben più ambizioso. “Ora il Parlamento europeo dovrebbe rispettare la consuetudine di invitare tutti i finalisti alla cerimonia di assegnazione”, aggiunge l’eurodeputata. “So che sarà difficilissimo ma ci batteremo fino all’ultimo perché Assange possa partecipare di persona”. E non è solo una questione politica, presenziare a Strasburgo potrebbe infatti aiutare il giornalista anche a livello umano. “È un uomo detenuto da tre anni e mezzo in un carcere di massima sicurezza, in una cella minuscola, che vede i suoi figli solo ogni tanto”, sottolinea la parlamentare. “Avere la possibilità di uscire e di partecipare a un evento che testimoni la vicinanza delle persone alla sua causa lo aiuterebbe anche a livello psicologico”. Ma come dovrebbe avvenire il tutto operativamente? Di solito, il Parlamento europeo recapita alla persona o ai suoi collaboratori un invito a presenziare alla cerimonia di premiazione e poi spetta all’interessato/a rispondere se e come intende partecipare, indicando chi eventualmente possa rappresentarla in caso di impossibilità a prendervi parte. Il caso di Assange però è particolare, come riconosciuto anche dalla riunione dei capigruppo dell’Eurocamera. Non è ancora chiaro se e chi - dall’ufficio di presidenza di Roberta Metsola o dalla Conferenza dei presidenti (di cui fanno parte anche i leader di tutti i gruppi politici) - possa recapitare una richiesta formale alle autorità britanniche. “Se sarà necessario ci rivolgeremo anche direttamente a Metsola”, ribadisce Pignedoli. “Faremo di tutto perché Assange possa uscire e arrivare a Strasburgo da uomo libero”. Precedenti poco incoraggianti - Le probabilità di successo di una tale richiesta, spiegano a TPI fonti interne al Parlamento europeo, sono comunque piuttosto scarse, non tanto per mancanza di volontà a Bruxelles ma perché i governi interpellati solitamente fanno orecchie da mercante. È la storia a dirlo. Basti ricordare i primi vincitori del premio istituito nel 1988: il dissidente sovietico Anatoly Marchenko, a cui fu assegnato postumo, e Nelson Mandela, che lo ritirò soltanto nel 1990 dopo la sua liberazione dalla prigione Victor Verster, nel Sudafrica dell’apartheid. Lo stesso accadde alla leader birmana Aung San Suu Kyi, insignita nel 1990, ma che soltanto nel 2013 riuscì a ritirare l’onorificenza (poi sospesa nel 2020 per il suo ruolo nelle atrocità contro il popolo Rohingya). Il dissidente cinese Hu Jia, a cui il premio fu assegnato nel 2008 quando era ancora detenuto, non ha invece mai ritirato il prestigioso riconoscimento. Nonostante sia stato scarcerato nel 2011, da allora vive ancora sotto stretta sorveglianza. Alla cerimonia di premiazione, a cui l’oppositore non potè partecipare, presenziò con un video registrato la moglie e attivista per i diritti umani, Zeng Jinyan. Ma il caso più recente risale al 2021, quando il premio Sakharov fu assegnato al dissidente russo Alexei Navalny, detenuto in un carcere di massima sicurezza e sopravvissuto a un attentato nell’agosto 2020. Nel dicembre scorso fu la figlia Daria a ritirare il premio a nome di suo padre perché le autorità russe negarono allo storico oppositore la possibilità di presenziare alla cerimonia. Allora fu appositamente riservato un seggio vuoto all’Eurocamera in segno di protesta contro l’atteggiamento repressivo di Mosca. Una scena che potrebbe ripetersi il prossimo 14 dicembre con il fondatore di Wikileaks rappresentato da un collaboratore o da un suo familiare, probabilmente la moglie Stella Morris. “Un’altra sedia vuota sarebbe un pessimo segnale per la nostra democrazia”, conclude Pignedoli, lanciando un appello a “segnare la differenza con altri Paesi”. “Credo fortemente che siamo diversi da certi regimi ma dobbiamo dimostrarlo con i fatti”. Non certo comportandosi come Putin. Giappone. Esecuzioni a sorpresa “per non turbare i condannati” di Sergio D’Elia Il Riformista, 28 ottobre 2022 In Giappone i reclusi nel braccio della morte sono impiccati con poche ore di preavviso. Famiglie e legali informati a cose fatte. “Non disturbiamo la loro stabilità emotiva”, la scusa. È il governo infatti a non voler essere disturbato. La pena di morte è ormai considerata un ferro vecchio della storia dell’umanità. È un ferro arrugginito e per ciò tutti stanno attenti a maneggiarlo: tantissimi Stati l’hanno cancellata dai codici; alcuni non la usano più da decenni; altri si vergognano a usarla e la praticano in segreto; altri ancora l’hanno mascherata con il “fine pena mai”, l’ergastolo senza via d’uscita; in altri luoghi, come da noi, è il carcere, l’istituto strutturale della pena, a compiere l’opera mortifera. Mentre il mondo tende all’abolizione, il Giappone si ostina a praticarla, ma come una vergogna la copre con un manto di incertezza e segretezza. Non solo l’opinione pubblica, gli stessi condannati nel braccio della morte sono tenuti all’oscuro: la prima la scopre dopo il fattaccio, i secondi qualche ora prima di essere appesi per il collo. Fino alla metà degli anni 70, i condannati a morte e le loro famiglie sono stati informati delle esecuzioni il giorno prima. Oggi, le notifiche arrivano ai detenuti con una o due ore di preavviso; le famiglie e gli avvocati vengono a conoscenza della loro impiccagione solo dopo che è avvenuta. Il governo ha spiegato in parlamento e altrove che notificare in largo anticipo il giorno e l’ora della morte disturberebbe la “stabilità emotiva” del detenuto che verrà giustiziato. David Johnson, un professore dell’Università delle Hawaii, esperto del sistema capitale nel Paese del Sol Levante, ha definito il metodo di esecuzione giapponese un “attacco a sorpresa (damashi-uchi)”. Lo scopo della segretezza è proteggere “il potere del Ministero della Giustizia di decidere chi morirà e quando - e con poche discussioni pubbliche. In altre parole, questa pratica riguarda la conservazione delle prerogative del potere. Non vi è alcuna giustificazione di principio”. Nel novembre dell’anno scorso, due detenuti avevano annunciato una causa contro il modo in cui le autorità giapponesi applicano la pena di morte. I loro nomi non sono stati resi noti. Il team legale teme ritorsioni. Potrebbero essere giustiziati in qualsiasi giorno, per un motivo sconosciuto. Il 13 gennaio di quest’anno sono cominciate le udienze, che continuano, presso il tribunale distrettuale di Osaka. Gli avvocati difensori Yutaka Ueda e Takeshi Kaneko hanno presentato documenti e testimonianze toccanti. “Quando l’addetto della prigione apre la porta della cella e annuncia l’esecuzione, il prigioniero viene immediatamente preso, legato, ammanettato e portato con gli stessi vestiti sul posto delle esecuzioni, dove viene impiccato con un cappio”, ha scritto agli avvocati il detenuto del braccio della morte Hiroshi Sakaguchi. Un’altra testimonianza, contenuta in un nastro audio registrato nel 1955, racconta le ultime ore di un prigioniero senza nome in un’epoca in cui i termini di preavviso erano più lunghi. Si capisce che l’uomo riceve tre giorni prima la notifica della sua esecuzione e trascorre il tempo salutando affettuosamente i detenuti e la sorella in visita, che singhiozza. Il nastro include il rumore dell’uomo che viene impiccato mentre i monaci buddisti cantano i sutra. L’avvocato Yoshikuni Noguchi era presente a un’esecuzione al Tokyo Detention House nel 1971 come ufficiale penitenziario. Il detenuto aveva appreso della sua esecuzione il giorno prima. Quel giorno ha incontrato la sua famiglia e ha scritto delle lettere. Noguchi ha ricordato che il detenuto sembrava calmo quando ha detto alla sua famiglia: “Sono consapevole del mio crimine. È naturale per me prendermene la responsabilità. Non siate tristi”. Proprio alla fine dell’udienza di gennaio, l’avvocato Takeshi Kaneko ha menzionato tre detenuti nel braccio della morte che erano stati giustiziati il 21 dicembre 2021, dopo che i due querelanti avevano intentato causa. Anche loro, come se fossero mucche o maiali portati al macello, sono stati avvisati all’ultimo momento, condotti alla camera dell’esecuzione dove gli hanno stretto una corda intorno al collo. Questo modo di fare nega ai detenuti anche la possibilità di contattare un avvocato e, quindi, il diritto di appello. Alcuni prigionieri hanno trascorso più di un decennio nel braccio della morte prima di essere uccisi in una data arbitraria. Almeno un prigioniero è stato giustiziato mentre era in corso un appello, ha ricordato Kaneko. Il ministero della Giustizia annuncia il nome e il crimine commesso dal prigioniero ma nient’altro, citando regole di riservatezza e privacy. La segretezza significa che non c’è dibattito pubblico in Giappone sulla pena di morte o su come venga applicata. La causa legale in corso non mira certo a rovesciare la pena di morte. Può renderla però meno crudele. Se il Giappone adottasse un maggiore preavviso, potrebbe consentire ai prigionieri, prima della morte, almeno un piccolo segno di vita e di amore: un’ultima cerimonia del tè e la possibilità di scrivere poesie haiku, vedere le famiglie, comunicare i loro sentimenti, scrivere lettere a persone che gli hanno voluto bene. Iran. Le cose che sappiamo dell’incendio nel carcere di Teheran di Imogen Piper, Stefanie Le, Babak Dehghanpisheh* ilpost.it, 28 ottobre 2022 Dopo due settimane il Washington Post ha messo insieme testimonianze e analisi dei video sulle violenze a Evin. Per oltre 40 anni il carcere di Evin a Teheran è stato il simbolo più visibile del governo autoritario della Repubblica Islamica, un complesso minaccioso costruito sulla paura e sul controllo assoluto. Le proteste raramente fanno breccia nelle mura della prigione. Ma la notte del 15 ottobre enormi incendi hanno devastato Evin, uccidendo almeno otto persone e ferendone 61, in base a quanto riferito dai mezzi di informazione statali. Le famiglie dei detenuti temono che il vero bilancio sia molto più alto. Il disastro ha coinciso con le manifestazioni di protesta nazionali che hanno attraversato l’Iran nell’ultimo mese e con una brutale repressione da parte delle forze di sicurezza del paese, che hanno ucciso decine di manifestanti e arrestato diverse migliaia di persone. Alcuni dei detenuti sono stati portati a Evin, del quale i gruppi per i diritti umani hanno documentato una lunga storia di torture e altri abusi. Video straordinari registrati la notte dell’incendio mostrano persone che urlano “Morte al dittatore” e “Morte a Khamenei”, un riferimento alla Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, e slogan dei manifestanti, mentre vengono sparati colpi d’arma da fuoco e le fiamme si innalzano sopra la prigione. Per capire cosa sia successo quella notte, il Washington Post ha analizzato decine di foto e video, ha parlato con attivisti, avvocati, ex detenuti e famiglie degli attuali detenuti, e ha consultato esperti di incendi dolosi, armi e audio forense. I risultati sono evidenti: almeno un incendio sembra essere stato appiccato intenzionalmente in un momento in cui i prigionieri erano rinchiusi nelle loro celle. Il fuoco più letale è divampato vicino al luogo di questo incendio doloso. Mentre i detenuti cercavano di fuggire, le guardie e altre forze di sicurezza li hanno aggrediti con manganelli, munizioni da combattimento, pallini di metallo ed esplosivi. Gli incendi. I disordini sono iniziati intorno alle 20:45, come mostra un video pubblicato da Mizan, il sito di notizie della magistratura iraniana. Il video sostiene che una rissa sia scoppiata nella sezione 7 e che i prigionieri abbiano poi dato fuoco a un vicino laboratorio di cucito. Le immagini satellitari analizzate dal Washington Post mostrano infatti ingenti danni al tetto dell’edificio di due piani al centro della prigione che ospita il laboratorio di cucito, nonché una sala religiosa chiamata Hussainiya al livello sottostante. Ma non è stato l’unico incendio scoppiato nel carcere durante la notte, e probabilmente neanche il primo. Prima che le fiamme fossero visibili dall’esterno del laboratorio di cucito, i video mostrano almeno tre persone che lanciano liquidi infiammabili su un fuoco in cima a un edificio adiacente nella sezione 7, secondo Phillip Fouts, un investigatore antincendio certificato. Probabilmente l’incendio sul tetto non si è esteso, dice Fouts, per mancanza di materiale combustibile. Le immagini satellitari scattate in seguito mostrano danni minimi. Eppure nelle immagini si vede un altro fuoco che divampa all’interno della sezione 7, vicino a dove i piromani avevano precedentemente alimentato le fiamme sul tetto. Questo secondo incendio sembra aver avuto origine all’ingresso della sezione 7, vicino a una postazione di guardia, secondo un ex detenuto che ha trascorso diversi anni nel carcere di Evin. Temendo ritorsioni, l’ex detenuto ha parlato con il Washington Post a condizione di mantenere l’anonimato. Il Washington Post non può confermare come sia nato l’incendio all’interno della sezione 7, ma la sua vicinanza all’incendio doloso è eloquente. Ed è l’incendio all’interno della sezione 7 - di cui il governo in seguito ha accusato i detenuti senza fornire prove - ad aver fornito un pretesto per la caotica e brutale repressione dei detenuti che ne è seguita. A detta dell’ex detenuto, i cancelli delle sezioni si chiudono ogni sera alle 17:00 dopo l’appello. Le famiglie degli attuali detenuti dicono che con le proteste del mese scorso i loro movimenti sono stati ulteriormente limitati. È quindi improbabile che i detenuti potessero accedere a una qualsiasi delle tre aree in cui sono scoppiati gli incendi. Amnesty International ha riferito che gli spari e le urla nella sezione 7 sono stati uditi dai detenuti nelle sezioni vicine già alle 20,00, ben prima che fossero visibili le prime fiamme, e che “le autorità hanno cercato di giustificare la sanguinosa repressione dei detenuti con il pretesto di combattere le fiamme”. La televisione di stato iraniana in seguito ha affermato che le forze di sicurezza stavano reagendo a un piano di fuga “premeditato” dei detenuti. “È stato uno strano incidente accaduto in un momento in cui i detenuti in teoria dormono” ha detto Saleh Nikbakht, un avvocato che ha diversi clienti a Evin, al telefono da Teheran con il Washington Post: “una cosa grossa”. Come ha dichiarato il governo, la sezione 7 ospita condannati per rapine e reati finanziari, anche se l’ex carcerato ha detto al Washington Post che lì erano detenuti anche criminali più violenti. Dato altrettanto importante, la sezione 7 confina con la 8, dove sono detenuti dissidenti e prigionieri politici, e dove alla fine si è diffuso il fumo dell’incendio. Una repressione letale - Mentre il fumo nocivo filtrava dalla sezione 7 nella 8, l’attivista per i diritti dei lavoratori Arash Johari, 30 anni, ha iniziato a tossire e ad annaspare, ha raccontato alla sua famiglia. Lui e il resto dei detenuti della sezione 8 hanno dovuto affrontare una scelta difficile: forzare i cancelli o soffocare. Hanno forzato i cancelli e si sono riversati nel cortile della prigione, dove - secondo i membri della famiglia che hanno parlato sotto anonimato per paura di ripercussioni da parte delle autorità - sono stati accolti da guardie infuriate a colpi di manganelli, proiettili e gas lacrimogeni. Steven Beck, un esperto di audio forense, e dei ricercatori della Carnegie Mellon University, hanno analizzato separatamente i video forniti dal Washington Post e hanno scoperto che sono stati sparati più di 100 distinti colpi di arma da fuoco. Entrambe le analisi hanno identificato spari automatici “compatibili con un AK-47” così come altri che probabilmente provenivano da pistole e fucili. Mohammad Khani, un dissidente della sezione 8, è stato colpito al petto con dei pallini di metallo e ha preso un proiettile nel fianco, secondo un membro della famiglia che ha parlato sotto anonimato. Beck ha anche riconosciuto almeno due esplosioni “compatibili con granate”. Amael Kotlarski, analista senior ed esperto di armi di Janes, il fornitore di servizi di difesa dell’intelligence, ha esaminato filmati e audio forniti dal Washington Post e ne ha dedotto che siano state usate granate assordanti, “a giudicare dal lampo e dall’esplosione” nel video. “Johari ha detto di essere stato colpito alla testa con un manganello e che aveva le vertigini e la nausea” ha detto un suo familiare: “e che aveva la vista offuscata e gli usciva sangue dalla testa”. Le esperienze di Khani e Johari quella notte non hanno potuto essere verificate ulteriormente dal Washington Post, ma erano coerenti con i risultati ottenuti da Amnesty, così come con le precedenti indagini condotte dal Washington Post che documentavano l’uso eccessivo della forza contro i manifestanti iraniani. Per far fronte ai disordini, a Evin sono stati inviati rinforzi che comprendevano “forze di sicurezza, polizia giudiziaria, forze Basij e unità speciali di polizia”, ??ha detto nel video della magistratura il funzionario del carcere Heshmatollah Hayat Al Ghaib. I Basij sono un corpo paramilitare delle Guardie rivoluzionarie (IRGC) e hanno assunto un ruolo di primo piano nella repressione violenta dei manifestanti. A detta del governo, poco prima di mezzanotte l’incendio a Evin è stato estinto e i disordini sedati, anche se fonti che hanno familiari e amici che vivono intorno alla prigione hanno dichiarato al Washington Post che gli spari si sono sentiti fino alle 2 del mattino di domenica. Secondo un membro della famiglia di Johari, tre autobus pieni di detenuti della sezione 8, compreso Johari, sono stati inviati da Evin alla prigione di Rajai Shahr, circa 40 miglia a ovest. Il video della magistratura mostra gli autobus scortati da auto della polizia con luci rosse lampeggianti. A Johari era stata promessa una radiografia per le ferite alla testa nel carcere di Rajai Shahr, ma le autorità non hanno provveduto, ha detto la sua famiglia. Domenica Khani ha contattato la famiglia per dire che era stato gravemente ferito. I suoi parenti si sono battuti per fargli ottenere cure mediche esterne e le autorità carcerarie alla fine hanno ceduto, portandolo in un vicino ospedale. La ferita da proiettile nel fianco di Khani era profonda circa due dita e ha richiesto un intervento chirurgico, ha detto un suo familiare, aggiungendo che prima di rispedirlo a Evin i medici non gli hanno ricucito correttamente la ferita né gli hanno somministrato degli antibiotici. Ora può camminare solo con l’aiuto di altri prigionieri politici della sezione 8. Decine di altre famiglie sono accorse a Evin domenica mattina per avere notizie dei loro parenti. Sono state respinte dai soldati finché non si è formata una grande folla che ha iniziato a battere sul cancello chiedendo risposte. Molte madri, pensando che i loro figli fossero morti, gridavano di dolore. “Quando le famiglie si sono riunite per fare domande le guardie hanno insistito che le persone si avvicinassero una alla volta, o avrebbero dovuto picchiarle” ha detto il parente di Johari, che quel giorno ha parlato con le famiglie presenti al carcere. “Non facevano che ripetere “Andate a casa, vi contattiamo noi”. Altrove altre famiglie avevano paure simili. Tra i detenuti a Evin ci sono Siamak Namazi ed Emad Sharghi, due dirigenti d’azienda iraniano-americani. Quando sabato notte sono scoppiati i disordini, Namazi è stato spostato dalla sezione 4 alla 2A, che è gestita dall’IRGC, secondo suo fratello Babak. Durante i disordini Namazi sentiva gli spari e l’odore del fumo, ha detto suo fratello al Washington Post in un’intervista telefonica da Dubai. “È importante che il presidente Biden capisca quanto ci siamo andati vicino. A rimanere uccisi potevano essere Siamak ed Emad” ha detto Babak. “È la prova dell’assoluta urgenza e pericolosità della situazione in cui si trovano”. *The Washington Post Iran. Il controllo di internet da parte di un regime miope ha i giorni contati di Francesca Luci Il Manifesto, 28 ottobre 2022 I supporti per connettersi a Starlink iniziano a entrare nel Paese di contrabbando. Parla uno studioso di telecomunicazioni di Teheran. Dall’inizio delle proteste in Iran, il 16 settembre, è molto difficile connettersi a internet a causa del blocco imposto dalle autorità in tutto il Paese nel tentativo di sedare i “disordini”. Il governo iraniano ha perfezionato un modello sofisticato di autoritarismo digitale, che ha fornito al regime un vasto insieme di strumenti per mettere a tacere il dissenso online e offline. Per anni, il governo ha costruito muri digitali per isolare gli iraniani da internet globale sviluppando, sulle orme del “Great Firewall” cinese, la propria rete internet nazionale che consente alle autorità di censurare più facilmente i contenuti online. Quasi tutte le principali piattaforme social sono bloccate in Iran. Instagram e WhatsApp erano le uniche due app rimaste disponibili, ma sono state bloccate durante le proteste in corso. Secondo il sito web Top10Vpn la domanda di Virtual Private Network che consentono di aggirare la censura è aumentata oltre il 3.000% dall’inizio delle proteste. Per rendere la connessione a internet più difficile per gli iraniani, le autorità hanno bloccato le app Google Play e Apple Store, che offrivano l’installazione di Vpn gratuite in un modo semplice e veloce. Ci sono ancora Vpn a pagamento, ma gli iraniani hanno difficoltà a pagarli a causa delle sanzioni. Centinaia di migliaia di piccole attività commerciali, in particolare quelle gestite da casa dalle donne, o piccole fattorie nelle aree rurali, che si affidavano a internet e ai social media per la pubblicità e la vendita dei propri prodotti hanno subito danni economici irreparabili. In un rapporto congiunto, le organizzazioni tedesche di giornalismo investigativo e libertà digitale Correctiv, Taz e Netzpolitik hanno denunciato l’azienda tedesca Softqloud perché contribuisce a isolare internet in Iran. Softqloud è infatti sospettata di essere una società di copertura della compagnia internet iraniana Arvan Cloud, che ha stretti legami con il governo della Repubblica islamica. La ministra degli Esteri federale Annalena Baerbock ha dichiarato che il caso è ora al vaglio delle autorità di sicurezza tedesche. Intanto a fine di settembre Elon Musk, cofondatore e amministratore delegato di SpaceX, ha affermato che la sua rete internet satellitare Starlink può alleviare la repressione digitale dell’Iran. La connessione offerta da Starlink è già stata fondamentale per l’esercito ucraino per organizzarsi contro quello russo. Tuttavia i potenziali utenti di Starlink hanno bisogno di terminali fisici - assenti in Iran - per utilizzare effettivamente il servizio. Ma sembra che i primi terminali Starlink siano stati contrabbandati nel Paese. Pagati da chi, anche perché sono strumenti abbastanza costosi, e destinati a chi, non è ancora noto. Il ministro iraniano delle Comunicazioni e delle tecnologie dell’informazione, Issa Zarepour ha detto ai media locali di “non prendere Starlink sul serio. Devono obbedire alle leggi del paese se vogliono fornire il loro servizio all’Iran”. Se i piani di Starlink dovessero effettivamente andare avanti, l’autorità iraniana potrebbe rivolgersi all’Unione internazionale delle telecomunicazioni (Itu), l’organismo di regolamentazione delle comunicazioni internazionali delle Nazioni unite, o ad altre autorità per protestare legalmente contro SpaceX. Tuttavia, “Starlink o servizi simili saranno a breve una realtà in questo Paese”, afferma uno studioso di telecomunicazione a Teheran. “È inevitabile. Basta pensare quello che è successo con la tv satellitare: hanno distrutto le parabole a migliaia di persone, con il risultato che oggi perfino sulla terrazza del più ortodosso degli ortodossi si può vedere una parabola installata. La miopia delle autorità accelera questi processi. Decine di canali televisivi, milioni di dollari spesi per gestirli, ma tutto controllato dallo stato, nessun canale indipendente e un’abbondanza di contenuti propagandistici, promesse vuote e bugie. Così hanno spinto la popolazione verso i canali satellitari di lingua persiana trasmessi dall’estero e finanziati da chissà chi e con quale obbiettivo”. Allo stesso modo, la censura e le limitazioni imposte a internet “accelerano l’era di Starlink. Non importa se necessita di supporti fisici per ora assenti: tantissime cose vengono contrabbandate in questo Paese, gli strumenti di Starlink faranno la stessa fine. Ecco la mia previsione: in un primo momento, molto probabilmente, i supporti verranno pagati da varie lobby iraniane all’estero, e destinati ai loro referenti. In seguito si costituirà un mercato nero per chi si può permettere di pagare tali strumenti. Anche coloro che apparentemente sostengono i governativi, che ora sono diventati “sordomuti” ma comprendono il valore della libera informazione. Infine arriverà una versione cinese degli strumenti necessari, più o meno alla portata di tutti. Un traffico milionario dentro cui si infileranno, sicuramente, gli sciacalli protetti dallo stesso regime che oggi censura internet libero. Finora per tutte le cose proibite provenienti dall’estero si è seguito lo stesso scenario. Ecco perché questo paese deve cambiare”.