No, Meloni, la lotta alla mafia non è difendere l’ergastolo ostativo di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 27 ottobre 2022 L’ostativo è anacronistico, non era quello che voleva Falcone, ha creato diversi falsi pentiti e soprattutto non sconfigge la mafia attuale, diversa da quella stragista di 30 anni fa. La neo presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, per replicare a chi invoca qualcosa di concreto per la lotta alla mafia, chiede all’opposizione di collaborare per difendere il 4 bis dell’ordinamento penitenziario. L’articolo che ha creato il cosiddetto ergastolo ostativo. Ed è quell’articolo che la Corte costituzionale chiede di modificare prorogando la scadenza all’8 novembre. Presunti pentiti come Scarantino spesso hanno raccontato il falso per assecondare i pm - Ma siamo sicuri che sia davvero un istituto efficace e non una foglia di fico che rende il nostro Paese un perenne Stato emergenziale rimasto fermo ai primi anni 90? Siamo sicuri che non abbia creato presunti pentiti (collaborando, crolla l’ostatività) che molto spesso raccontano balle per assecondare taluni pubblici ministeri che non applicano il metodo Falcone e Borsellino? Sia i giudici della Corte di Strasburgo che quelli della Consulta, hanno sottolineato che la stessa collaborazione molto spesso non è autentica, ma fatta solo per ottenere dei benefici. Abbiamo il caso eclatante del falso collaboratore Vincenzo Scarantino che ha fatto arrestare e condannare persone innocenti, accusati di aver eseguito la strage di via D’ Amelio. Il pentito Di Maggio continuava a delinquere - Se pensiamo al discorso del ravvedimento, abbiamo esempi di collaboratori di giustizia che, ottenendo i benefici, hanno commesso dei crimini. Uno a caso è stato il pentito Balduccio Di Maggio, il quale fu testimone “chiave” durante il processo Andreotti. Sicuramente la leader di Fratelli D’Italia può chiederlo alla senatrice Giulia Bongiorno visto che fu l’avvocato dell’ex presidente del Consiglio democristiano. Mentre si sentiva coccolato dall’allora procura di Palermo - almeno questa era la sua percezione dal tenore delle intercettazioni che uscirono fuori durante il processo -, commetteva omicidi e tanti altri reati. Modificare l’ostatività, non vuol dire abdicare alla lotta alla mafia. Non è “tana libera tutti” e non è - come dice il pensiero mainstream - liberare i mafiosi stragisti, tra l’altro rimasti in pochi e che moriranno seppelliti al 41 bis. Basterebbe vedere la richiesta di permesso premio (per questo beneficio è caduta l’ostatività con la sentenza costituzionale) dei Graviano: respinta. La mafia stragista non esiste più, ma c’è quella che ha scelto la strategia della sommersione - Eppure, gli ultimi “stragisti” rimasti, son gravemente malati e sostituiti da decenni da altri boss, quelli che hanno scelto la strategia della sommersione. Ed è proprio quest’ultima che va combattuta con altri mezzi. Non con istituti anacronistici e lesivi sia dei diritti umani, ma anche della vera lotta alla mafia. La stragrande maggioranza degli ergastolani ostativi, non sono boss sanguinari. Sono persone che hanno varcato la soglia del carcere in giovanissima età e oggi hanno più di 60 anni. Molti di loro sono ravveduti. Ma il ravvedimento non è la collaborazione, e non può essere estorta. Lo Stato italiano, la nostra nazione, deve essere migliore della mafia. Falcone non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione - Si parla tanto di Giovanni Falcone, ma si nasconde il fatto che lui aveva in mente un 4 bis totalmente diverso da quello che poi è stato legiferato dopo la sua morte. Basterebbe leggere un capitolo del recente libro - con la prefazione del Garante Mauro Palma - dal titolo “Il diritto alla speranza. L’ergastolo nel diritto penale costituzionale”. Un libro pensato da autorevoli giuristi come Emilio Dolcini, Elvio Fassone, Davide Galliani, Paulo Pinto de Albuquerque e Andrea Pugiotto. Un libro che il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, sicuramente apprezzerà. Si apprende che Falcone non ha assolutamente escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, ma ha semplicemente allungato i termini per ottenerla. In soldoni, ciò che aveva ideato Falcone, contemplava questa ratio: se non collabori non è preclusa la misura alternativa, devi solo attendere il decorso del tempo per poterla chiedere, sapendo che è stato aumentato. Paolo Borsellino non fu ucciso per il “papello” - Paolo Borsellino non è stato ucciso per via del papello di Totò Riina, come appare credere anche Giorgia Meloni in una sua recente intervista su Libero. Attenzione, quello è il pensiero inculcato dai teoremi giudiziari. Non si è mai provato della sua esistenza. Quello che Massimo Ciancimino sventolò innanzi ai pm, si è rivelato una patacca. Totò Riina decise di compiere la strage di Via D’Amelio, infischiandosene dell’effetto che si sarebbe avuto: i decreti sul 4 bis e 41 bis erano messi in discussione da numerose frange garantiste del Parlamento, ma la strage ha creato l’effetto contrario. Ciò significa che Totò Riina aveva paura di ben altro. Di cosa? Non delle trame nere, Gladio, P2, narrazioni utili sia per coprire delle verità, sia per continuare ad usarle come strumento politico. No. In tutte le sentenze emerge la questione mafia-appalti. Ma per questo ci vorrebbe una commissione parlamentare composta da persone bipartisan, soprattutto estranee a quell’epoca, senza nemmeno il coinvolgimento dei magistrati che operavano allora in Sicilia. Borsellino, prima di morire, disse alla moglie che la sua morte sarà voluta dai suoi colleghi ed altri. Una commissione seria, sarebbe davvero un bel tributo a un magistrato che, tra l’altro, apparteneva alla stessa corrente politica della Meloni come ha ricordato anche l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino. Solo così, il cerchio si chiuderà per davvero. Lavoro e istruzione, così pena e carcere funzionano davvero di Viviana Lanza Il Riformista, 27 ottobre 2022 Lavoro e istruzione. Un nuovo modello di carcere dovrebbe avere questi due obiettivi tra le sue priorità. E per raggiungere poi concretamente questi due obiettivi dovrebbe avere a disposizione spazi della pena adeguati e risorse sufficienti sia in termini di mezzi sia di uomini. Al momento manca un po’ tutto: mancano le risorse, mancano gli spazi e questi obiettivi sembrano lontane chimere. La relazione semestrale, presentata l’altro giorno dal garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello, mette nero su bianco numeri e dati che disegnano un quadro dove sono ancora tante, troppe, le cose che mancano. Prendiamo come riferimento la voce “lavoro”: nei primi sei mesi del 2022 in Campania sono circa 3mila i detenuti che lavorano, pari al 45% della popolazione reclusa. Nella maggioranza dei casi, come spiega il garante, si tratta di lavoro a tempo ridotto e tra coloro che lavorano 2.641 (su 3mila sono la quasi totalità) sono alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria, solo 334 lavorano per datori esterni al circuito penitenziario. “Va comunque registrato che il numero di detenuti impegnati in attività rilevanti è troppo basso. Ad esempio, a Poggioreale risulta essere meno de 13%”, si legge in un passaggio del relazione in cui si fa riferimento a dati raccolti anche dall’associazione Antigone. Insomma, sul fronte lavoro come funzione rieducativa della pena c’è ancora strada da fare. Così come c’è strada da fare se si pensa all’istruzione all’interno delle carceri. I dati diffusi dal ministero della Giustizia parlano di una percentuale bassissimi di detenuti con un livello di istruzione medio-alta, e questo non fa altro che confermare quanto il carcere sia diventato e continui ad essere un contenitore di disagi e devianze sociali. La maggior parte delle persone detenute proviene da contesti familiari e sociali difficili, da periferie degradate dove le opportunità di autonomia e di crescita nella legalità sono poche e dove il livello culturale è basso, talvolta bassissimo. Basti pensare che solo il 2,1% dei detenuti ha una laurea e solo il 15,5% ha un diploma di scuola superiore, il 2,9% di chi è in cella è analfabeta, il 2,2% non ha alcun titolo di studio, il 17,5% ha la sola licenza elementare e il 57,6% la licenza media inferiore. Se si concepisce la scuola e quindi l’istruzione come uno dei pilastri su cui poggiare la funzione rieducativa della pena è ovvio che queste percentuali vanno ribaltate attraverso un impegno sinergico di politica, scuola, famiglia, società, istituzioni. È notizia di questi giorni la laurea del primo detenuto studente del Polo universitario penitenziario della Federico II di Napoli. Si tratta di un detenuto che ha conseguito il diploma di scuola superiore nella casa circondariale di Secondigliano e si è poi iscritto al polo universitario penitenziario arrivando ad essere proclamato dottore in Scienze sociali a pieni voti (110 e lode) discutendo una tesi dal titolo “Lo studio negli istituti penitenziari: il valore educativo tra formazione, resipiscenza e recidiva. Education and imprisonment” con il professor Roberto Serpirei. Una notizia positiva che getta una luce nel buio del carcere dei diritti mortificati e delle opportunità negate. Il carcere dove ancora si conta un educatore per ogni 221 detenuti, dove il livello di scolarizzazione tra i detenuti è ancora basso. Su una popolazione di 6.853 detenuti, in Campania, 419 hanno un’alfabetizzazione di primo livello (129 dei quali sono stranieri), 933 hanno un’istruzione di secondo livello (38 gli stranieri), 81 hanno il diploma e 72 la laurea triennale o magistrale (di cui 3 sono stranieri). C’è ancora tanta strada da fare! Il decreto Cartabia liquidato come un “salvaladri”, ma evita solo che i pm lavorino a vuoto di Gian Luigi Gatta* Il Dubbio, 27 ottobre 2022 La via della depenalizzazione è stata indicata dal ministro Nordio quale possibile rimedio ai problemi della giustizia penale. È una delle vie maestre care agli studiosi. Percorrerla è però arduo se non si mettono da parte i toni allarmistici e la retorica del populismo penale. Che sono riapparsi proprio in questi giorni, addirittura, a proposito di un minus rispetto alla depenalizzazione: la trasformazione del regime di procedibilità di alcuni reati, secondo una linea parallela percorsa sin dalla legge 689/ 1981 e, da ultimo, dalla riforma Cartabia, anche e proprio rispetto al furto. Alcuni giornali hanno parlato in proposito di “decreto salvaladri”. Il governo Draghi non ha affatto approvato una norma “salvaladri”. Ha recepito un’autorevole proposta della Commissione Lattanzi, nella cui Relazione si legge che “un simile intervento potrebbe consentire… l’estensione del regime di procedibilità a querela alle ipotesi aggravate di furto… ricorrenti con molta frequenza anche in ipotesi banali (come nel classico furto in negozio o supermercato, ad es. poiché viene rimosso il dispositivo antitaccheggio, il che integra la violenza sulle cose, e le merci sono esposte negli scaffali, il che integra l’esposizione a pubblica fede); ipotesi rispetto alle quali, anche considerata la natura patrimoniale del bene giuridico tutelato, sarebbe opportuno e coerente richiedere almeno una chiara manifestazione di volontà a procedere della persona offesa”. Con il d. lgs. n. 150/ 2022 il furto diventa ora procedibile a querela salvo che sia commesso a danno di persone incapaci, per età o per infermità, ovvero che abbia ad oggetto beni pubblici o destinati a pubblico servizio. Significa salvare i ladri? No, significa solo condizionare l’avvio e la prosecuzione del procedimento penale a un atto formale della persona offesa, che manifesti il suo interesse a che lo Stato proceda ad accertare fatti e responsabilità. Perché? Per raggiungere gli obiettivi del Pnrr ed evitare il collasso del sistema giudiziario, ingolfato da un numero insostenibile di procedimenti penali. Il furto è un reato ad alto tasso di denuncia. Lo confermano i dati Istat: i furti denunciati dalle forze di polizia all’autorità giudiziaria, tra il 2016 e il 2020, sono stati 5.598.356: si tratta di altrettanti fascicoli sulle scrivanie di pm e giudici. La procedibilità d’ufficio obbliga oggi in molti casi a procedere inutilmente: il furto è il primo tra i reati per i quali viene applicata la causa di non punibilità per la particolare tenuità del fatto (celebri i casi del furto di una melanzana da un campo, di una merendina da un distributore automatico, di una scatoletta di tonno da un supermercato, ecc.); è il terzo tra i reati più prescritti in appello e il quarto in primo grado. Meglio allora procedere più efficacemente in meno casi, quando vi è un reale interesse della persona offesa, che potrà ottenere la restituzione del bene sottratto e il risarcimento del danno facendo leva sulla remissione della querela. Sulla stampa si è anche parlato di decreto “svuotacarceri”, prospettando l’imminente scarcerazione dei “colpevoli di furti non denunciati”. Si pone effettivamente il problema dei fatti commessi prima della riforma: con la sua entrata in vigore, la settimana prossima, occorre scarcerare, in difetto di una querela, quanti si trovino in custodia in carcere? Il problema dovrà essere subito risolto dagli interpreti, già al lavoro. Una soluzione plausibile, avanzata in queste ore, è quella che, facendo leva sul combinato disposto dell’art. 273 c. p. p e dell’art. 85 d. lgs. 150/ 2022, consente di conservare la misura già disposta in attesa della verifica della volontà della persona offesa di presentare querela, entro novanta giorni. La misura cade, cioè, solo se e quando, decorso quel termine, si verifica il difetto della condizione di procedibilità. Le Procure si stanno comunque già organizzando per individuare i procedimenti in cui è necessario rintracciare per tempo la persona offesa per valutare se intende presentare querela. La vacatio legis serve anche e proprio a questo. Senza allarmismi. *Ordinario diritto penale Univ. di Milano, già Consigliere della ministra Cartabia Nordio: “Le carceri sono la mia priorità” ansa.it, 27 ottobre 2022 “Garantire al massimo la presunzione d’innocenza ma anche la certezza della pena” dice il ministro. “Le carceri sono la mia priorità “: lo ha detto il ministro della Giustizia Carlo Nordio rispondendo ad una domanda dei cronisti sulle priorità da affrontare all’Università Roma Tre per la presentazione del calendario della polizia penitenziaria. Il ministro è poi entrato nell’aula magna della facoltà di Giurisprudenza, all’evento anche il capo del Dap Carlo Renoldi. “La mia prima visita esterna sarà alle carceri, 2 o 3 istituti particolarmente in difficoltà. Dev’essere un segnale della mia attenzione al problema delle carceri”. dice il Guardasigilli. “Grazie al collega Carlo Renoldi capo del Dap che è stato valido collaboratore della ministra Cartabia - aggiunge - il mio esordio al servizio dello Stato è avvenuto nel 1977 come magistrato e conosco bene l’ambiente carcerario. Sono un garantista - prosegue - e questo significa applicare il principio latino del Diritto Romano, garantire al massimo la presunzione d’innocenza ma anche la certezza della pena. Ma questo non significa una pena crudele, bensì una che deve migliorare le condizioni del condannato, evitare renderlo una persona peggiore. Cercheremo di potenziare le risorse economiche - promette - perché occorre una preparazione ma anche un riconoscimento economico del vostro lavoro. Al ministero lavoreremo molto per questo”, conclude Nordio. Ieri sul tema delle carceri era intervenuta anche la premier Giorgia Meloni: “Non si combatte il sovraffollamento depenalizzando” ma aumentando gli spazi. Sulla attività che lo aspetta come ministro Nordio, in una nota, ha sottolineato come non ci siano problemi circa l’età. “Ieri ho sentito in Senato una lamentela sull’età media dei componenti del governo. In effetti non credo che la saggezza coincida con la vecchiaia - ha osservato il ministro - perché una persona a 40 anni, come diceva Marco Aurelio, ha visto tutto ciò che è, che è stato e che sarà. Ricordo tuttavia che il giovane Napoleone fu sconfitto in Russia da Kutuzov, a Waterloo da von Blücher, che avevano il doppio della sua età e che Churchill celebrò la vittoria su Hitler all’età che ho io ora”. Tra gli interventi in programma c’è quello sul reato di abuso d’ufficio. “È un problema che sarà affrontato in un’accurata discussione parlamentare”, spiega il ministro in una dichiarazione al quotidiano “Il Dubbio”, confermando dunque l’intenzione di convocare gli amministratori locali in modo da dare seguito alla loro richiesta di tutela. “La revisione o l’abolizione del reato di abuso, che paralizza l’amministrazione, è stata chiesta da anni da tutti i sindaci, e vedo con soddisfazione che anche il sindaco di Milano concorda su questa necessità”, dice Nordio, anche a proposito delle parole con cui Giuseppe Sala aveva accolto l’ipotesi di modificare la norma. “In ogni caso, il problema”, precisa appunto il ministro, andrà “affrontato in un’accurata discussione parlamentare, con il supporto di statistiche tra indagini iniziate e condanne irrogate”. Dibattito al Senato per fiducia al governo Meloni. Intervento sen. Ilaria Cucchi senato.it, 27 ottobre 2022 Signor Presidente, onorevoli colleghi, mi chiamo Ilaria Cucchi e tutti voi sapete chi sono, conoscete la mia storia. Mio fratello Stefano è stato ucciso a suon di botte, morendo poi, dopo soli sei giorni, nelle mani dello Stato e passando nel frattempo attraverso la custodia indifferente e cinica di oltre 140 pubblici ufficiali. È una verità scomoda che mi ha fatto conoscere un lato oscuro dello Stato che mai avrei pensato potesse esistere. La giustizia, dopo oltre 160 udienze e ben quindici gradi di giudizio, ha accertato la verità, quella che era chiara, evidente e sotto gli occhi di tutti, ma è costata un caro prezzo alla sottoscritta e a tutta la sua famiglia, riconoscendo esplicitamente come fondamentale, appunto, il contributo mio e della mia famiglia. Presidente Meloni, in questo percorso ho dovuto affrontare l’ostilità e le offese di alcuni esponenti della sua maggioranza, qualcuno che oggi ha addirittura responsabilità di Governo, ma non nutro nei suoi confronti alcun sentimento di pregiudizio. Nessuno. La mia battaglia per mio fratello mi ha portata per tutti questi tredici anni di lotta a conoscere il mondo degli ultimi e dei derelitti. Ho frequentato e visitato tantissime realtà, comunità e associazioni che si occupano di coloro che, di fatto, sono privati dei diritti fondamentali dell’uomo. Ho fatto politica anch’io, ma sulla strada, non su queste poltrone ove oggi ho l’onore di trovarmi. Sono qui perché ho ricevuto la fiducia di tante persone e quella fiducia voglio ripagarla. Voglio portare qui tra voi la voce di chi ha creduto in me, oltre ad avermi sostenuta in tutti questi anni. Ho fatto politica sulla strada da sempre: da tredici anni non per mia volontà, ma dalla strada e dalle associazioni spontanee del volontariato si può davvero imparare tanto, Presidente, così come ho fatto io. Tutto ciò che serve e deve servire per garantire ai nostri figli un mondo migliore, una speranza per una società più giusta e più a misura d’uomo. I nostri ragazzi sono quegli stessi studenti che ieri all’università “La Sapienza” sono stati affrontati come terroristi per il semplice fatto che essi - poveri - credevano di avere ancora il diritto di protestare, di far sentire la loro voce in modo del tutto pacifico oltretutto. Inaccettabili, invece, sono i modi violenti e disumani con i quali sono stati trattati; immagini brutali che non avremmo mai voluto vedere e davvero intollerabili, che hanno avuto come teatro un luogo per me sacro: l’università. Presidente, è davvero questo il modello di Paese che volete offrire ai nostri figli? Provo tanto dolore, ma devo dire anche tanta speranza. Presidente, riconosco in lei la prima donna presidente del Consiglio, madre e - sì - anche italiana. Io le chiedo di andare a visitare, appena avrà modo, il mondo che ho avuto la fortuna di conoscere: quello del volontariato. La prego di farlo, Presidente, e sono convinta che cambierà idea su tante realtà e sulle grandi possibilità di riscatto che hanno gli ultimi, cittadini comuni, di organizzarsi spontaneamente e pacificamente tra loro per offrire ad essi stessi e ad altri una vita più sostenibile. Ultimo, ma non ultimo ovviamente, è il tema del mondo delle carceri, dove lo Stato è fin troppo spesso “assente” ed uso un eufemismo. Sono luoghi di vita e di lavoro, piegati dalla sofferenza per le condizioni disumane in cui sono costretti a sopravvivere agenti e detenuti abbandonati dallo Stato, che preferisce di fatto metterli in guerra gli uni contro gli altri piuttosto che operare riforme serie per una giusta e doverosa riqualificazione dei diritti e delle vite di tutti coloro che sono costretti a starci insieme. Sarebbe fin troppo semplice intervenire per lo Stato, che viceversa pare preferire il concetto delle carceri come discarica sociale, piuttosto che come luogo di rieducazione e offerta di nuove possibilità. Così si innescano vere e proprie situazioni esplosive, alle quali lo Stato risponde solo ed esclusivamente con l’unico mezzo che pare conoscere: la repressione. I settantuno suicidi dall’inizio dell’anno sono una tragedia, segno di un modello penitenziario in crisi. Parlando di carcere non si può non partire dall’articolo 27 della Costituzione, scritto da chi aveva subito la prigionia durante il fascismo. Quell’articolo non va cambiato, signor Presidente, ma va pienamente applicato. Il sistema penitenziario italiano non ha bisogno di più carceri, signor Presidente, ma di carcere migliori e di meno detenuti. Ben venga ogni riforma del codice penale che depenalizzi e riduca il carcere ad estrema ratio. Presidente Meloni, questo sistema non lo ha certo creato lei, ma nel suo programma non vedo una sola parola tesa in tal senso. Anche per questo non voterà la fiducia, ma vi invito a tenere in considerazione le mie parole. Concludo, signor Presidente. Voglio entrare in quest’Aula con le parole di una donna a cui dobbiamo molto e che onora il Senato, le parole della senatrice Liliana Segre: “L’indifferenza è più colpevole della violenza stessa. È l’apatia morale di che si volta dall’altra parte: succede anche oggi verso il razzismo e altri orrori del mondo”. Devo ringraziarla, senatrice Segre, perché in questo passo c’è la forza di un messaggio che può cambiare il mondo e che a me ha cambiato la vita: non voltarsi mai dall’altra parte; affrontare le ingiustizie anche a rischio di pagare un prezzo carissimo - come è accaduto a me - come quello della propria vita e serenità; scegliere il giusto e il bene comune, come ha fatto lei e come abbiamo il compito, colleghi, di fare oggi tutti noi. Buon lavoro. Meloni replica a Ilaria Cucchi: “Detenuti, la soluzione non è depenalizzare” Il Tempo, 27 ottobre 2022 Durante le repliche in Senato, Giorgia Meloni non manca di rispondere ad alcune critiche arrivate dall’opposizione. A Ilaria Cucchi, ad esempio, risponde sulla situazione delle carceri. “Ho citato alla Camera i 71 suicidi” avvenuti nelle prigioni italiane dall’inizio dell’anno. Ma “la soluzione non è depenalizzare - dice il presidente del Consiglio - Credo nella responsabilità. Tutti noi dobbiamo scegliere il giusto. Come facciamo se chi ha scelto di sbagliare non paga mai? La certezza del diritto significa anche certezza della pena e rieducazione”. Detto questo, Meloni ribadisce l’impegno del governo di “aumentare gli spazi” per migliorare le condizioni di vita sia dei detenuti che della polizia penitenziaria. Il premier replica anche sulle contestazioni della Sapienza. “Nella mia vita - dice - ho organizzato centinaia di manifestazioni, non ne ho mai organizzata una per impedire a qualcun altro di dire quello che voleva dire. È un suo diritto farlo. Martedì non erano manifestanti pacifici, ma manifestavano per impedire a ragazzi che non la pensano come loro di dire come la pensano. La democrazia è rispetto, se qualcuno della mia parte tentasse di bloccare una manifestazione io sarei la prima a condannarlo, non l’ho mai fatto in vita mia”. Il presidente del Consiglio risponde anche al senatore M5S Scarpinato, ex magistrato. “Mi dovrei stupire di un approccio così smaccatamente ideologico - dice Meloni - Ma mi stupisce fino a un certo punto perché l’effetto transfert tra neofascismo, stragi e sostenitori del presidenzialismo è emblematico del teorema di parte della magistratura, a cominciare dal depistaggio e dal primo giudizio sulla strage di via d’Amelio”. Sulla lotta alla mafia, Meloni chiede all’opposizione di essere “d’accordo per cercare strade comuni per difendere uno degli istituti più efficaci nella lotta alla mafia, il carcere ostativo. Rischiamo di perderlo e insieme si deve cercare di difenderlo. La lotta alla mafia non si fa con la retorica, ma nemmeno con i provvedimenti con cui avete rischiato di fare uscire decine di detenuti al 41 bis con la scusa del rischio di contagio”. Quattro buoni consigli al prossimo ministro della Giustizia di Maurizio Tortorella Panorama, 27 ottobre 2022 Il nuovo Guardasigilli ha importanti riforme da fare e gravi problemi a cui mettere mano. Ma quelli che Panorama evidenzia in queste pagine non sono più rinviabili. Questa è una lettera aperta al nuovo ministro della Giustizia. Nessuno può invidiarlo. Si troverà a gestire il settore più avvelenato dell’amministrazione pubblica, quello che la politica da decenni ha trasformato nel campo di battaglia per i suoi peggiori conflitti, ma anche quello che paradossalmente è stato il più dimenticato dalla recente campagna elettorale. Avrà certo mille gatte da pelare, il nuovo Guardasigilli, e non avrà respiro dal giorno del suo giuramento. Panorama si augura però abbia il tempo di dare un’occhiata ai quattro consigli (non richiesti) che seguono. Non si tratta delle clamorose riforme epocali, quelle di cui si discute da sempre - la separazione delle carriere, per esempio - ma che la corporazione dei magistrati come sempre farà di tutto per sabotare; né pensiamo a grandi rivoluzioni, che spesso cambiano tutto per non cambiare nulla. Quelle che seguono sono modifiche possibili e però importanti, che di certo darebbero il segno di un netto cambiamento di rotta. Ci provi, ministro: il cittadino apprezzerebbe. 1) Liberi il dicastero dai magistrati “fuori ruolo”. L’Italia è l’unico Paese del mondo occidentale dove esiste un’indebita commistione tra potere esecutivo e giudiziario, addirittura “fisica”. Come sempre, anche in questa legislatura il Csm ha concesso a 200 magistrati il permesso di uscire da un tribunale per assumere incarichi “fuori ruolo”. Il problema grave, che viola le auree regole stilate da Montesquieu nel 1748, è che 103 di loro lavorano al ministero della Giustizia, in massima parte all’ufficio legislativo. Che siano tecnici prestati alla politica è una vecchia storia e ormai non fa ridere più nessuno: la cronaca ha dimostrato che quei magistrati scrivono le leggi che li riguardano e gestiscono uffici politicamente delicatissimi, come il gabinetto stesso del ministro, cui suggeriscono nomine, decisioni, comportamenti. È facile capire che nessuna mossa dei medesimi colpirà mai gli interessi della corporazione da cui provengono. Per di più, dato che a decidere i loro nomi è sempre il Csm, la stragrande maggioranza di quei magistrati risponde agli interessi delle correnti che li hanno piazzati lì. Si trovano, insomma, a cavallo di un indebito conflitto d’interessi. Altre decine di colleghi fuori ruolo lavorano in altri ministeri, dai Lavori pubblici al Lavoro. Il risultato è che il ministero della Giustizia è controllato e condizionato da un esercito di magistrati che orienta le sue scelte e più in generale quelle dell’esecutivo, con un’evidente alterazione delle sane dinamiche tra poteri dello Stato. Il nuovo responsabile di via Arenula, quindi, dovrebbe ripristinare il principio della separazione tra poteri dello Stato e liberarsi dall’abbraccio dei “fuori ruolo”. Restituisca i suoi 103 magistrati ai tribunali (che ne hanno molto bisogno) e scelga i tecnici tra avvocati, commercialisti, docenti universitari. 2) Sia più duro con giudici e pm scorretti. Al ministro della Giustizia la legge dà il compito di promuovere l’azione disciplinare contro i magistrati che non svolgono i loro compiti o che si macchiano di comportamenti indebiti e illeciti, affidandone il compito ai suoi ispettori e al procuratore generale della Cassazione. Gli strumenti, insomma, ci sono. Certo, poi spetta al Consiglio superiore della magistratura decidere le sanzioni. E troppo spesso l’azione disciplinare finisce in nulla. Anche di recente è accaduto che un procuratore della Repubblica, accusato (da una collega!) di insistenti molestie sessuali sia stato trovato colpevole dei fatti dal Csm, ma “condannato” alla perdita di appena due mesi di anzianità sulla pensione. Ecco, per evitare queste soluzioni a tarallucci e vino, che screditano l’intero ordine giudiziario, servirebbe che il ministero fosse molto più duro nelle incolpazioni delle toghe. Molto più serio e assertivo. Che ci credesse davvero, insomma. Davanti a scorrettezze gravi non dovrebbe accontentarsi di un buffetto, ma dovrebbe insistere e pretendere giustizia vera. Lo faccia, ministro, vedrà che l’opinione pubblica sarà con lei. 3) Metta a frutto i 2-3 miliardi spesi per le prigioni. Il nuovo ministro dovrebbe mettere mano anche al nostro antiquato sistema carcerario: 189 istituti di pena dove la capienza “regolamentare” prevede un massimo di 50.942 detenuti ma oggi sono rinchiusi in quasi 56 mila. Nel 2022, lì dentro, si sono suicidati finora in 68. È un record folle. Fatte le proporzioni, è come se in Italia tra gennaio e ottobre si fossero uccise più o meno 72 mila persone, e non le 351 che effettivamente si sono tolte la vita. Le prigioni spesso sono vecchie e fatiscenti, e l’affollamento è un problema antico, punito più volte dalla Corte europea dei diritti dell’Uomo. Eppure per quella che in gergo si chiama “l’esecuzione della pena”, cioè la gestione dei reclusi, il ministero spende ogni anno tra i 2 e i 3 miliardi di euro. Da troppo tempo si ha la netta impressione che la cifra sia, a dir poco, spesa male. Dove finiscono tutti quei soldi? Il ministro dovrebbe indagare. A fondo. Dovrebbe anche far sì che aumenti il numero dei detenuti che lavorano: oggi sono 2.473 in tutto, cioè quattro su cento. Ed è questa la principale causa di “recidiva”, che in Italia è al 32 per cento contro una media europea al 12-14: chi esce dal carcere, ma non ha in tasca un mestiere, torna a delinquere. Rientrare in una cella è anche uno dei motivi della disperazione che spinge al suicidio, così come l’eccessivo ricorso alla carcerazione preventiva. I reclusi che a fine settembre scontavano una pena definitiva erano 39.419 su un totale di 55.835: il 70 per cento. Quindi poco meno di un terzo di quanti stanno in prigione è in attesa di giudizio. E 8.810 di loro, cioè quasi il 16 per cento, non hanno nemmeno una sentenza di primo grado. Nessun altro Paese europeo lo permette. 4) Risarcisca equamente l’ingiusta imputazione. In Italia una legge del 2020 (proposta da Gabriele Albertini e ottenuta da Enrico Costa: onore al merito) risarcisce le spese legali agli imputati che una sentenza definitiva abbia riconosciuto innocenti con formula piena. È una misura di civiltà, da decenni esistente in tutti i Paesi europei, che in Italia riguarda (dato ufficioso del ministero della Giustizia) almeno 120 mila persone ogni anno. Già affrontare un processo penale da innocenti è un disastro, ma se in più devi anche pagare la parcella all’avvocato l’ingiustizia è doppia. Nel 2020 il governo Conte bis ha però eccepito che sarebbe stato troppo costoso risarcire tutti gli assolti, quindi ha stanziato appena 8 milioni l’anno, per una ridicola media teorica di 66 euro a testa. Ecco, ministro, smettiamola di far ridere il mondo, e utilizzi bene almeno una parte dei 9 miliardi di euro del suo bilancio, destinandoli alla voce “ingiusta imputazione”. Sarà ricordato per sempre. Nordio: “Sì, presto l’intervento sull’abuso d’ufficio. Sindaci da tutelare” di Simona Musco Il Dubbio, 27 ottobre 2022 Il ministro della Giustizia conferma la volontà di rivedere la norma per evitare la “paura della firma”. Non sarà forse il primo atto, ma sarà di certo tra le priorità. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio conferma al Dubbio l’indiscrezione lanciata ieri dal Fatto Quotidiano: nell’agenda del governo Meloni c’è anche una rivisitazione del reato di abuso d’ufficio, se non, addirittura, la sua completa cancellazione. “La revisione o l’abolizione del reato di abuso, che paralizza l’amministrazione, è stata chiesta da anni da tutti i sindaci, e vedo con soddisfazione che anche il sindaco di Milano concorda su questa necessità - ha dichiarato il Guardasigilli. In ogni caso, il problema sarebbe affrontato in un’accurata discussione parlamentare, con il supporto di statistiche tra indagini iniziate e condanne irrogate”. Insomma, per raggiungere il risultato ci vorrà del tempo. Ma la scelta di agire per eliminare la famosa “paura della firma”, che paralizza gli amministratori locali e blocca l’economia, è comunque legata anche alla necessità di rispettare gli impegni presi con l’Europa e il programma tracciato dal Piano nazionale di ripresa e resilienza. “È una riforma che serve dal punto di vista economico, perché sblocca la macchina amministrativa”, questa la frase carpita dal Fatto nella tarda serata di lunedì nella sala lettura della Camera. Ed è proprio alla Camera che giace già una proposta a prima firma della deputata forzista Cristina Rossello e co-firmata dal collega Pietro Pittalis, depositata il 19 ottobre scorso, che prevede l’abrogazione dell’articolo 323 del codice penale, complessivamente oggetto, nell’ultimo trentennio, di ben tre modifiche (con la legge 86/1990, la 234/1997 e da ultimo con il decreto legge 76/2020). L’ultima era stata anche oggetto di valutazione da parte della Corte costituzionale, che ha ritenuto non fondata la questione di legittimità costituzionale sollevata dal Tribunale di Catanzaro, secondo cui la modifica sarebbe stata in contrasto con l’articolo 77 della Costituzione, sia perché estranea alla materia disciplinata dalle altre disposizioni del Decreto semplificazioni, sia perché priva dei requisiti della straordinarietà e dell’urgenza propri del decreto legge. La riforma aveva ristretto la sfera applicativa dell’abuso d’ufficio, con lo scopo di contrastare la “burocrazia difensiva”. Per tale motivo, l’inciso “in violazione di norme di legge o regolamento” era stato sostituito con la nuova dicitura “in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”. Secondo il giudice delle leggi, è stata “l’esigenza di far “ripartire” celermente il Paese dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che - nella valutazione del Governo (e del Parlamento in sede di conversione) - ha impresso ad essa i connotati della straordinarietà e dell’urgenza. Valutazione, questa, che non può considerarsi, comunque sia, manifestamente irragionevole o arbitraria”. Insomma, a “benedire” un intervento d’urgenza è stata anche la Corte costituzionale, proprio per l’esigenza di far ripartire il Paese dopo la pandemia. Sul tema Nordio si era già espresso più volte, sostenendo la proposta dei sindaci di abolire l’articolo 323 del codice penale assieme a quello - più fumoso - di traffico di influenze, “che sono alla base della cosiddetta amministrazione difensiva”. Un complesso di norme da cancellare, aveva dichiarato al nostro giornale a giugno dello scorso anno, “per ridare fiato alla pubblica amministrazione e, quindi, per un’utilità concreta, in vista anche di una ripresa economica del Paese”. Già, perché la “paura della firma” “provoca la paralisi o il rallentamento della pubblica amministrazione per la paura che un domani si possa essere denunciati. I sindaci chiedono da anni questa revisione e se non avviene la pubblica amministrazione non riparte. E se non riparte la pubblica amministrazione - aveva spiegato - non riparte nemmeno l’economia. C’è un discorso concreto e urgente da fare, in vista anche dei soldi che l’Europa dovrà darci con il Recovery Fund”. La proposta di Nordio ha subito incontrato il favore del sindaco di Milano Giuseppe Sala, che a margine della Giornata della Trasparenza 2022 ha ribadito come “tra i sindaci, vedo anche nella chat nella quale sono, c’è molta attenzione su questo tema perché siamo tutti un po’ impauriti”. Proprio per tale motivo, “guarderemo con interesse a questa cosa. Non vogliamo sconti, andrebbe capito come va riformulato, ma così com’è sono d’accordo anche io che non funziona - ha concluso. Non c’è un limite chiaro tra l’abuso e l’omissione in atti di ufficio, e questo ci rende difficile la vita”. Nel salutare il capo di gabinetto uscente, Raffaele Piccirillo, Nordio ha delineato le altre priorità delle sue azioni. In primo luogo “rendere la giustizia più efficiente”, in modo “che abbia un impatto favorevole sull’economia”. E la scelta di affidare il posto che fu di Piccirillo ad Alberto Rizzo, presidente del Tribunale di Vicenza, rientra proprio in questa ottica: il magistrato fuori ruolo è stato infatti premiato “come il massimo organizzatore di un Tribunale di media entità, dove ha utilizzato le risorse in modo quasi miracoloso”. Ma sarà necessario anche implementare gli organici “e colmare dei vuoti che fino ad adesso, per varie ragioni, sono stati perniciosamente sguarniti e quindi rendere la giustizia più efficiente”. Efficienza non vuol dire, però, perdita delle garanzie. Così il percorso di Nordio verrà caratterizzato da due “pilastri”: presunzione di innocenza e certezza dell’esecuzione della pena. Che però “non coincide necessariamente con il carcere. L’esecuzione della pena - ha spiegato il ministro -, che deve essere certa, deve essere proporzionata, deve essere soprattutto equa” e “orientata alla rieducazione del condannato”. Un concetto, quest’ultimo, non totalmente condiviso dalla proposta di legge a prima firma Edmondo Cirielli (FdI), che invoca una riforma dell’articolo 27 della Costituzione per “limitare la finalità rieducativa” e “salvaguardare e garantire il concetto di “certezza della pena”. Nordio assicura però la volontà di riorganizzare il sistema carcerario, “che a me sta molto a cuore”. Il che “non significa essere buonisti - ha concluso -, significa applicare la Costituzione”. L’appello dei pm a Nordio: “Ferma lo tsunami della riforma Cartabia sulla giustizia penale” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 27 ottobre 2022 Lettera al ministro da tutti i capi degli uffici: “Con le nuove regole Procure in tilt, serve un rinvio”. L’allarme sulle inchieste di mafia. C’è posta per Nordio. Sulla scrivania al ministero ha trovato una lettera inviata martedì da tutti i procuratori generali italiani, dopo un’assemblea, per metterlo al corrente delle dell’entrata in vigore, tra meno di una settimana, della riforma Cartabia del processo penale. Il documento dei procuratori generali (figure apicali e di vigilanza), pur intinto nello “spirito di collaborazione istituzionale”, lancia l’allarme sulle “principali problematiche” che comporta “la vigenza immediata di una parte significativa della nuova disciplina”, con diversi “adempimenti oggettivamente impossibili o comunque problematici senza adeguato supporto”. Parole più hard si ascoltano in questi giorni nelle riunioni tra i pm delle Procure, impegnati nella trincea investigativa: “inferno”, “disastro”, “tsunami”, “precipizio”. Eppure la più radicale riforma del processo penale da oltre trent’anni sta passando alla chetichella. Nessun cenno nel dibattito parlamentare, né nelle dichiarazioni che hanno accompagnato l’insediamento del nuovo ministro, che peraltro è un ex pubblico ministero. L’impostazione della riforma, definita con i decreti delegati poco prima dell’insediamento del nuovo governo, è garantista: più controlli sull’attività dei pm, più limiti alle indagini, più informazioni all’indagato, più filtri all’esercizio dell’azione penale. L’aggravio organizzativo sui pm sconta quattro problemi generali: le Procure sono gli unici uffici non rafforzati nell’ambito del Pnrr; il sistema informatico non è stato aggiornato alle nuove norme; l’introduzione delle nuove norme cala come una mannaia, senza la previsione di un regime transitorio e graduale; non è chiaro se ai procedimenti in corso si applicano le vecchie regole (vigenti quando sono stati avviati) o le nuove. Le novità con maggiore impatto sono la modifica dei termini delle indagini, con proroghe più difficili; l’imposizione di un termine perentorio di tre mesi, alla scadenza delle indagini, per depositare tutti gli atti agli indagati; l’obbligo di videoregistrare gli atti investigativi; i controlli del giudice sulla data di iscrizione degli indagati nel registro delle notizie di reato. Nella pratica, i pubblici ministeri hanno tre lamentele. La prima è la nebbia interpretativa, che li costringerà ad applicare le nuove regole assumendosi il rischio di errori con danni alle indagini. La seconda è l’assenza di strumenti operativi per far funzionare le nuove regole (una nuova udienza filtro prima del dibattimento, la cosiddetta giustizia riparativa). La terza è l’irrazionalità di una regola molto rigida sulla chiusura delle indagini, anche quando mancano atti fondamentali (rogatorie, informative finale di polizia giudiziaria, perizie, interrogatori di nuovi testimoni, documenti inviati da altre Procure) e indipendentemente dall’inerzia dello stesso pm, con l’effetto di vanificare anni di lavoro, soprattutto in casi complessi come quelli delle organizzazioni mafiose. La lettera dei procuratori generali, inviata anche a Cassazione e Csm, invoca un intervento normativo; in assenza, l’attuazione della riforma sarà “limitata”. Secondo i magistrati inquirenti, servirebbe addirittura un decreto legge, per rinviare l’entrata in vigore della riforma e specificare il regime transitorio. Nel frattempo in tutte le Procure si studiano linee guida e “tecniche di sopravvivenza”. Il procuratore di Bologna Giuseppe Amato si è portato avanti, emanando una circolare per fissare “soluzioni ragionevoli”. Mancano pochi giorni. La questione sarà in cima all’agenda dello staff di Nordio, che ha nominato due ex colleghi nell’ufficio di gabinetto: capo Alberto Rizzo, presidente del tribunale di Venezia, e vice la giudice siciliana Giusi Bartolozzi, nella scorsa legislatura deputata di Forza Italia da cui era uscita in dissenso sia sulla legge Zan che sulla riforma della giustizia. Membri laici del Csm: primo scoglio per Nordio di Alberto Cisterna Il Riformista, 27 ottobre 2022 Probabilmente è il primo ministro della Giustizia del quale erano chiare le idee e precisi i propositi ben prima della nomina alla guida di via Arenula. Carlo Nordio arriva allo scranno parlamentare e alla poltrona ministeriale seguendo un percorso rettilineo e scevro dalle opacità che hanno segnato il passaggio di qualche altra toga alla politica. Tutti gli riconoscono, anche tra gli avversari, una carriera in magistratura portata a termine con impegno e passione, una cultura storica e filosofica di assoluto rilievo, un’attività di commentatore dei fatti di giustizia sulle colonne del Messaggero non priva di polemiche e con posizioni spesso antagoniste rispetto alla mainstream giustizialista, ma sempre contenuta nei toni. In questo scenario è del tutto prevedibile che la maggioranza di governo si appresti a scelte sul versante della giustizia che rapidamente porteranno il nuovo esecutivo a collidere con le mille resistenze e le mille obiezioni che, da anni, paralizzano ogni radicale innovazione del sistema giudiziario italiano. Due indicatori segnalano il quasi certo volgere del barometro nel quadrante della tempesta. Il governo Meloni ha una forte connotazione ideologica e identitaria. Il fronte giudiziario è, come abbiamo detto in altre occasioni, quello in cui più facilmente (e, quindi, più rapidamente) si può dare prova della reale intenzione di dar corso a riforme senza l’aggravio di costi economici al momento insostenibili. Pensioni, tassazione, sostegno all’occupazione e alle imprese sono territori minati vista la condizione finanziaria del paese, ma per la giustizia i costi di molte innovazioni sono davvero prossimi allo zero. Per giunta il ministro, nella sua prima dichiarazione pubblica, ha annunciato di voler procedere anche a una radicale spending review nel bilancio di via Arenula con l’intenzione - evidentemente - di voler alimentare i propositi di riforma della macchina giudiziaria con risorse da reperire nelle pieghe delle somme già a disposizione, o quasi. È evidente che il premier ha necessità di far cogliere alla pubblica opinione la novità del primo governo di destra della storia repubblicana e che, quindi, dovrà chiedere ai ministri il massimo impegno per i primi, fatidici 100 giorni dall’insediamento del suo gabinetto. Nordio è tra i pochi ministri, forse l’unico a quanto si sappia, che ha nel cassetto progetti e idee da mettere subito in campo. Ha presieduto una commissione per la riforma del codice penale, ha enunciato da tempo alcuni capisaldi del suo progetto di modifica dell’ordinamento giudiziario, ha l’esigenza di conseguire anche alcune modifiche costituzionali di più lungo periodo, intende completare le riforme messe in cantiere dalla Cartabia. Insomma, dispone di un palinsesto di tutto rispetto. Si potrebbe decidere di calare tutte le carte in un sol colpo sul tavolo da gioco nella convinzione che chi intenda opporsi non potrebbe mettersi di traverso su tutto il pacchetto e molte innovazioni potrebbero anche avere il sostegno dei gruppi parlamentari di Calenda e Renzi. A questo sfondo, impregnato tutto di realpolitik, si affianca il fatto che il principale interlocutore del ministro, ossia la magistratura italiana, attende con una certa trepidazione la scelta parlamentare della componente laica del Csm e non ha interesse a spalancare anzitempo le porte di Giano. Anche su questo versante, infatti, non mancano calcoli e tatticismi. In caso di accordo con i gruppi del Terzo polo, la maggioranza di governo sarebbe in grado di coprire la totalità dei 10 scranni da occupare a Palazzo dei marescialli, lasciando ai “calenziani” l’onere di rappresentare la minoranza parlamentare entro il Csm. Questo priverebbe la componente togata che, come noto, annovera 20 membri della possibilità di orientare la scelta del vicepresidente verso un rappresentante dei partiti di centrosinistra, ossia dello schieramento ritenuto, a torto o a ragione, il meno ostile verso le toghe. È evidente che, visto l’imminente addensarsi di nuvole all’orizzonte, l’opzione più semplice sarebbe quella di fortificare Palazzo dei marescialli al fine di organizzarvi una sorta di ridotta da cui condurre la resistenza alle iniziative ministeriali meno gradite. Una cittadella assediata, certo, ma che guidata da un autorevole vicepresidente, distonico rispetto ai progetti della maggioranza politica in auge, potrebbe rendere difficile il percorso delle riforme. Una pietra d’inciampo rispetto alla quale si gioca una partita tutt’altro che semplice. I canoni fondamentali della democrazia pretenderebbero un sistema di check and balance che non veda praticamente tutti i principali palazzi del potere istituzionale (Parlamento, Governo, Csm) presidiati da un’unica compagine politica. Un’alterità politica del Csm rispetto al ministero di via Arenula non sarebbe, in teoria, un assetto da disprezzare. Nella pratica gioca contro questa soluzione il fatto che la mobilitazione delle toghe nei prossimi tempi potrebbe essere imponente e massiccia; altro che lo sciopero di qualche mese or sono, che ha pur registrato una zoppicante partecipazione. Tutti sanno - e lo stesso presidente Santalucia lo ha riconosciuto con grande onestà all’ultimo congresso dell’Anm - che la legge elettorale di nuovo conio non ha saputo interrompere la linea di continuità tra i gruppi associativi e la rappresentanza nel Csm. E questo è un fattore che porterebbe necessariamente grande fibrillazione nell’organo di autogoverno se dovesse davvero profilarsi uno scontro duro tra toghe e politica. La tentazione della maggioranza di fare l’en plein tra i dieci componenti di nomina parlamentare è, quindi, forte e per resistervi sarà necessario che tutti i partiti, e le opposizioni tra essi, individuino candidati di grande prestigio e autorevolezza da presentare ai 20 togati come probabile prossimo vicepresidente. Certo il ministro Nordio non invoca carta bianca, ma è chiaro che nessuno vuole precostituirsi avversari insidiosi. Valutazione di professionalità, il monito di Mattarella al Csm di Paolo Comi Il Riformista, 27 ottobre 2022 “Sono certo che l’Assemblea plenaria avrà modo di esaminare i contenuti della proposta confrontandosi con i principi dettati in materia dalle norme di delega di cui alla legge 71 del 17 giugno 2022”. A scriverlo, in una nota indirizzata la scorsa settimana al vicepresidente del Csm, è stato il presidente della Repubblica Sergio Mattarella che ha in questo modo deciso di “prendere posizione” sul parere delle valutazioni di professionalità dei magistrati che dovrà essere votato oggi dal Plenum. La materia, quella delle valutazioni di professionalità, è quanto mai incandescente. Attualmente, il 99,7 percento delle toghe ha una valutazione positiva. Un dato che, come ricordato a suo tempo dall’allora presidente della Cassazione Giovanni Canzio, non “ha eguali in nessuna altra amministrazione pubblica”. Se quasi tutti i magistrati sono “bravi” ed “efficienti” c’è qualcosa che “stride”, aggiunse Canzio, invitando il Csm a non essere di manica larga in maniera generalizzata. Invito che, per la cronaca, cadde nel vuoto. Ed in effetti, leggendo i pareri di professionalità dei pm e dei giudici, viene fuori una categoria di livello elevatissimo. Circostanza, però, che fa a pugni con la realtà. Teoricamente, come recita la circolare, le valutazioni di professionalità dovrebbero permettere “di conoscere l’attività che in concreto ciascun magistrato svolge nella realtà lavorativa in cui è inserito, e di valutarla alla luce sia delle “condizioni imprescindibili per un corretto esercizio delle funzioni giurisdizionali” (indipendenza, imparzialità ed equilibrio) sia dei parametri che la qualificano (la capacità, la laboriosità, l’impegno e la diligenza)”. In altri termini, “le valutazioni di professionalità costituiscono la base su cui poggia la legittimazione dei giudici e dei pubblici ministeri; nel contempo, tendono a migliorare la resa del “servizio giustizia” ed a rafforzare la fiducia dei consociati nel sistema giudiziario”. Il problema è che questo controllo “serio” ed “effettivo” evidentemente non viene praticato. Le valutazioni di professionalità in prima battuta competono ai Consigli giudiziari, “espressioni decentrate della funzione di governo autonomo che, proprio per essere organi di prossimità, hanno un ruolo fondamentale nel perseguimento dell’obiettivo di una valutazione reale e completa sui singoli magistrati”. I Consigli giudiziari, per prassi consolidata, tendono a “largheggiare”, scrivendo pareri eccelsi che potranno tornare utili quando la toga dovrà concorrere per un incarico direttivo. “Todos caballeros”, per usare una espressione attribuita a Carlo V di Spagna. La riforma Cartabia aveva in mente di cambiare in modo significativo questo procedimento valutativo appiattito verso l’alto. Ed invece, sotto la spinta “togata”, ha lasciato di fatto tutto immutato, continuando ad affidare in via esclusiva ai magistrati, pm e giudici, la valutazione dei colleghi, senza che gli avvocati possano incidere in alcun modo. Per difendere lo status quo, le toghe avevano affermato che gli avvocati sono parte del processo e avrebbero quindi un ‘interesse’ specifico. Dimenticando che anche il pm, parte del processo, era da sempre pienamente legittimato ad esprimere giudizi nei confronti del giudice. Le “pagelle” per le toghe, poi, sono rimaste nel cassetto. Come se non ci fossero. Il tanto decantato fascicolo del magistrato, voluto dalla ministra MarPer ta Cartabia con l’indicazione delle performance raggiunte, non è stato infatti minimamente considerato nel parere che dovrà essere votato oggi da un Csm in “prorogatio”. Sul rinnovo del Csm è intervenuto ieri il deputato Riccardo Magi di +Europa. Con una lettera indirizza ai presidenti delle Camere, il parlamentare romano ha chiesto di sapere come intendono procedere per l’elezione dei componenti laici. La loro elezioni, infatti, pare essere in alto mare. Servono “procedure trasparenti per le candidature nel rispetto della parita di genere”, ha ricordato Magi. Ad oggi, sia Ignazio La Russa che Lorenzo Fontana non hanno dato alcuna disposizione sulla modalità di presentazione delle candidature, su chi dovrà valutare i curricula, sulle procedure di voto. Mani Pulite segnò l’alleanza tra le procure e i giornali. E partorì il processo mediatico di Valentina Stella Il Dubbio, 27 ottobre 2022 “1992: nasce il processo mediatico” è il titolo di un dibattito tenuto due giorni fa al Salone della Giustizia. In realtà per Piero Sansonetti, direttore del Riformista, la distorsione del racconto giudiziario è iniziata prima, “ai tempi della lotta armata quanto la politica diede una delega alla magistratura”. Del periodo di Tangentopoli ha ricordato: “allora i giornali lavorarono in maniera unificata - Stampa, Repubblica, Unità, Corriere della Sera, in parte anche il Messaggero. Non cercavano le notizie ma unificavano le veline. Se non stai nel Pool era fuori. Non erano liberissimi giornali allora, non raccontiamoci balle”. Tra i relatori anche Gian Domenico Caiazza, presidente dell’Unione Camere Penali: “Il processo mediatico consiste nel concentrare l’attenzione e il giudizio dell’opinione pubblica solo sulla fase delle indagini, sull’ipotesi accusatoria. Basta l’iscrizione nel registro degli indagati per mettere all’indice una persona. I giornalisti bramano le carte dell’indagine ma non si fanno vedere durante il dibattimento: questo prodotto non vende”. Alla domanda del moderatore Gian Marco Chiocci, direttore dell’Andkronos sui possibili rimedi, Caiazza ha concluso: “non è facile. Occorre ricostruire una idea di fondo, rendendo concreti dei principi, quali quello di non colpevolezza. Tutto ciò impone un impegno intellettuale. Inoltre bisogna contenere il potere della pubblica accusa e contemporaneamente rivalutare socialmente il ruolo del giudice, il vero protagonista della giurisdizione”. In collegamento c’era Carlo Renoldi, capo del Dap: “I detenuti oscillano anch’essi tra la rappresentazione di tanti Caino, che hanno compiuto ogni sorta di nefandezze, e al tempo stesso di vittime dello Stato, sottoposte a quotidiane violazioni dei loro diritti fondamentali. Anche qui, bisogna uscire dalle astrazioni. Ogni detenuto è una persona e il suo essere rappresentato come un’entità astratta finisce per negarne l’umanità, così come avviene, singolarmente, anche per le persone che hanno subito un reato, per le quali, l’etichettamento come vittime, finisce per negare l’individualità e l’irripetibilità delle loro storie e delle loro sofferenze”. È stata poi la volta di Enzo Carra, politico e giornalista, di cui ricordiamo tutti la sua foto con i ceppi ai polsi mentre veniva condotto in Tribunale a Milano: “Della sentenza oggi non importa niente a nessuno, forse persino all’imputato a meno che non sia costretto ad andare in galera. Nel 1992 mancavano i social. Pensate se adesso, nel tempo degli odiatori, volessimo cominciare un ragionamento sulla notizia di indagine che uccide il racconto della sentenza”. Tra gli ospiti anche Alessandro Sallusti, direttore di Libero. Ha ricordato come ai tempi di Mani Pulite “c’era una lotta pazzesca tra i giornali a vendere una copia in più; è molto più banale l’origine di tutto”. Le redazioni poi “sono diventate le house organ delle Procure. Io c’ero: al Corriere della Sera l’avviso di garanzia per Berlusconi lo ha dato la Procura di Milano in fotocopia. Lo hanno fatto in un giorno in cui faceva più male a Silvio Berlusconi. Questa superficialità della categoria giornalistica si è saldata col passare dei mesi con quella dei pm. Come mi ha raccontato Palamara, in quegli anni i magistrati si trasformarono da semplici burocrati di Stato a delle vere e proprie star”. Queste parole di Sallusti hanno creato letteralmente “disagio” e “imbarazzo” nell’ex pm di Mani Pulite Gherardo Colombo, collegato da remoto: “La Procura non è una persona. Non si possono tutelare le fonti e poi fare una specie di gioco di prestigio: l’affer-mazione di Sallusti è assolutamente non dimostrabile”. E rivolto a Sallusti: “Quello che dice è una cosa molto grave e pesante nei confronti di chi questa cosa non l’ha fatta, ammesso che sia stata fatta. Io mi sento davvero molto in imbarazzo perché mi sento chiamato in causa”. E poi ammette: “Quella fuga di notizie ci ha danneggiato enormemente. La mia idea del rispetto della persona è ferma e sicura: le persone devono essere rispettate in sintonia assoluta con l’art. 27 della Costituzione per cui fino a sentenza definitiva non si può essere considerati colpevoli. Ma le persone vanno tutelate anche dopo in base all’art. 3 Cost. L’uscita di quella notizia ha danneggiato le indagini perché ha gettato molto discredito sulla Procura di Milano. Io mi sto arrovellando per capire da dove sia uscita: dalla Procura, dai carabinieri, da chi ha ricevuto invito? Tra i magistrati chi conosceva la notizia? Borrelli, D’Ambrosio, Di Pietro, Davigo, Colombo, Greco. Se Sallusti dice che è stato un magistrato, è tra questi sei ma gli altri cinque sono innocenti”. Lettera aperta a Ilaria Cucchi, nel giorno della morte della madre di Andreina Corso lavocedivenezia.it, 27 ottobre 2022 Cara Ilaria, come vorrei che queste mie parole arrivassero a te, a essere lette dai tuoi occhi buoni. Come vorrei, adesso che la tua mamma ha trovato riposo nella morte, tu sapessi di tante persone, di un mondo che vi è stato vicino, di battiti di cuore che hanno pulsato con il tuo. Si tratta di persone indignate, che hanno sofferto con voi e che hanno pianto nell’ascolto dei fatti e delle vostre testimonianze disperate. Fra quelle persone ci sono anch’io, che di anni ne ho settantacinque e che a letto, di sera, ascoltando Radio Radicale, ho seguito tutti i processi, che non mi sono persa una parola delle menzogne che pretendevano di sostituirsi alla verità. E in cuor mio vi stavo seduta accanto, mentre si svolgeva il racconto di miserabili bugie e astuzie per raggirare il corso degli eventi. E vi vedevo proprio, seduti nell’aula processuale, a soffrire, a gemere dalla rabbia. Mi dicevo, chissà se lo sanno Ilaria e i suoi, ch esiste un orizzonte ‘altro’ dove l’animo umano si ribella alle ingiustizie, anche quando troppe realtà sembrano zittirti, come potrebbe zittirti un dittatore, uno spargitore di prepotenza e odio. Addosso, vi hanno sparato in tanti, giornalisti e politici con le parole che non ripeto, proprio a te, che le conosci bene. E non ti voglio ferire a mia volta. Tua madre, il suo mettere la biancheria dentro una borsa per poi iniziare il suo pellegrinaggio verso l’ospedale insieme a tuo padre, o con te, sperando di poter vedere il figlio, di avere notizie sulla sua salute. Ancora negazioni, bugie, pesci in faccia che scarnificano il cuore e ti fanno tornare a casa, a fatica: già si capiva che da quell’ospedale Stefano non sarebbe uscito vivo. La tua mamma è morta, ma ha fatto in tempo a conoscere la sentenza della Corte di Cassazione che ha condannato per omicidio preterintenzionale i carabinieri responsabili di quei fatti atroci. M’interrogo sul silenzio della cosiddetta società civile. Quando ti penso, so che non ti dispiacerà sentirmi dire che in te riconosco Antigone, nella sua ricerca di giustizia per dare degna sepoltura al fratello Polinice, che Creonte, re di Tebe voleva fosse lasciato in pasto ad avvoltoi e cani. Così, come lei ha sorretto il padre cieco Edipo, nel suo lungo vagare impervio, tu sei stata accanto ai tuoi genitori, ai tuoi figli, hai lottato, sostenuta da quell’avvocato che ha difeso appassionatamente, Stefano. Così, cara Ilaria, sorella di Antigone hai dato un contributo di civiltà enorme, generoso, nobile in questo difficile Paese, dove insieme a numerose persone attente, responsabili e sensibili, vi sono gli ignavi, gli indifferenti, purtroppo. E poi ci sono gli invisibili come me, che ascoltando la radio di sera, rabbrividendo di rabbia per alcune, troppe testimonianze indecenti e false, si sono sentiti partecipi a tutto tondo del dolore tuo e della tua famiglia. Te lo scrivo oggi che tua madre vi ha lasciato tenendovi però ben stretti a lei, perché ti, vi arrivi l’abbraccio di quegli invisibili che vi sono sempre stati accanto. Mi rimane l’immagine del gesto di tua madre nel riporre in una borsa gli indumenti per suo figlio. E m’invade quella commozione infinita e grata che mi ha spinto a scriverti. Torino. Ragazzi dentro, un giorno nel carcere minorile di Irene Famà e Massimiliano Peggio La Stampa, 27 ottobre 2022 Qui arrivano detenuti sempre più giovani. La sfida è dare una seconda chance a chi ha un passato di spaccio e baby gang. “Per entrare in una gang serve un rito. I capi si mettono attorno a te ti picchiano”. Quanto? Alcuni minuti? “No, macché. Giusto un po’, trenta secondi, al massimo un minuto. Ma non c’è da preoccuparsi, funziona così, basta resistere”. “Bless”, come “benedire”: una rosa e una croce tatuate sull’avambraccio, sul collo i simboli dei Latin King, la banda sudamericana che ha gettato radici anche tra le periferie di Milano e Genova. Sorride il ragazzo, mentre racconta i segreti delle bande, ma giura di non farne parte. Pensa in grande: “Quando esco da qui, voglio diventare tatuatore”. E per un tatuaggio come il tuo quanto ti faresti pagare? “Dai, almeno cento euro”. Ha diciassette anni. Il suo curriculum criminale è già lungo, ma il modo in cui si esprime è da adolescente. Ferrante Aporti, carcere minorile di Torino, una vecchia villa con celle e corridoi sorvegliati da telecamere, 46 ragazzi trascorrono le giornate scontando le loro pene. “Questa è la capienza massima. Qui, per quanto si può, cerchiamo di non fare sovraffollamento” dice la direttrice Simona Vernaglione. Per entrare qui dentro non si possono fare nomi, ma solo assorbire le storie di questi giovani che per la legge sono detenuti. Nel ramo che ospita le celle per i nuovi arrivi, ancora sottoposti a indagine, c’è Bilal, il rapinatore seriale che continua a ripetere di avere dodici anni. Lui è tra quelli che non può avere contatti con l’esterno. E allora com’è questo luogo? Le pareti sono colorate, come in un oratorio, gli agenti della polizia penitenziaria non indossano le divise per non sembrare ostili, la giornata è divisa tra lezioni e attività. Ma questo resta pur sempre un carcere. Ci sono ragazzi di diciassette, diciotto anni. I giovani adulti, che non ne hanno ancora compiuti venticinque, ma la loro carriera criminale l’hanno iniziata da minorenni. Nella stanza della pittura c’è chi disegna cinture come quelle di Gucci. Con tanto di “marchio”. Cosa diresti ai tuoi coetanei là fuori? “Cosa vuoi dire, è una bella domanda. Anche a me, ne dicevano di cose. Che non dovevo sbagliare, arrabbiarmi, che dovevo rigare dritto. Poi, però, mi sono ritrovato qua dentro. Ad un ragazzo che non è ancora maturo, puoi dirgli quello che vuoi, tanto sbaglia comunque. Il carcere è un’esperienza negativa e positiva. In fondo qui imparo qualcosa”. C’è qualcosa da migliorare? “Certo, per noi e per chi ci lavora”. Di fronte a lui, uno dei giovanissimi vuole intervenire. “Ho un sogno. Fare felice mia mamma che è rimasta in Tunisia”. Ecco chi sono questi spacciatori, ladri, rapinatori, membri violenti di baby gang. Sono ragazzi che cercano una seconda chance nella vita, perché la prima se la sono giocata saccheggiando negozi, aggredendo coetanei, ferendo controllori di mezzi pubblici. Perché hai rubato? “Perché quando non hai niente e vedi che gli altri hanno tutto, indossano vestiti e scarpe firmate, quelle cose le vuoi anche tu. Per sentirti come loro. E te le prendi, perché sei povero”. E allora si spaccia. “Sì, si spaccia. Prendi le dosi da una parte e le vendi in strada”. Sedici anni, tunisino, è arrivato in Italia, a Lampedusa, su un barcone. A sentirlo parlare, racconta l’Italia vista da dietro le sbarre e i container dei centri d’accoglienza. Adria, Bologna, Milano e poi Torino. “Sono qui da solo. La mia famiglia è a casa, al mio paese. Cerco di mandare dei soldi, l’unico mio desidero è che mia madre possa vivere tranquilla per il resto della sua vita”. Per ora è chiuso in questo edificio che non ha nulla di moderno, ma che ci prova, nonostante la sua funzione, ad essere il più possibile accogliente. “Rimani nella tua stanza per ore. Per noi ragazzi bisognerebbe trovare un’altra soluzione al carcere”. Cosa pensi quando sei nella tua stanza? “Penso al mare”. I detenuti lavano i pavimenti delle celle, che da queste parti sono definite stanze di contenimento: “Dobbiamo tenerle ordinate”. E gli agenti di polizia li chiamano “assist”. Dietro una delle prime porte d’ingresso, dove si registrano i nuovi arrivati, c’è un metro per calcolare l’altezza. È il confine che separa il fuori dal dentro, la libertà dalla restrizione. Dopo dieci passi si sente un ronzio. È il trapano del dentista che sta curando le carie di uno dei più giovani reclusi. La maggior parte di loro non si è mai sottoposto a una visita medica. Per lo stato italiano esistono unicamente in quanto hanno commesso dei reati, ma non hanno nemmeno il codice fiscale. E durante la pandemia, per poterli vaccinare, la direzione ha dovuto chiedere un permesso speciale. Nei lunghi corridoi risuonano i passi e gli echi delle serrature, al fondo dell’edificio dove si apre la grande palestra, chiamata “piazza”, c’è una stanza rimodernata di recente con i soldi di enti privati e finanziatori lungimiranti. Può sembrare un sogno, ma la direttrice è fermamente convinta che debba diventare un luogo aperto al quartiere. Un luogo in cui far incontrare i ragazzi e i residenti della zona. E così quell’ambiente diventerà un teatro, un piccolo cinema, un luogo di concerti. “E perché no? Anche un posto dove far assaggiare le nostre straordinarie pizze. Qui i ragazzi imparano a fare i cuochi, a recitare, a dialogare, a parlare”. E anche a disinnescare la loro violenza. Quella violenza che si legge nei loro atteggiamenti, nel modo in cui gesticolano, in cui accendono le sigarette. E che si vede nei materassi dati alle fiamme durante qualche protesta. “Negli ultimi anni, l’utenza è cambiata. Arrivano giovanissimi, hanno quattordici, quindici e sedici anni. Qualcuno lo guardi in faccia e pensi che in fondo è un bambino”, spiega la direttrice. E di detenuti “giovani adulti” in questo momento ce ne sono solo dodici. “Arrivano dopo essere stati in Spagna, in Grecia, in giro per il mondo. Perlopiù magrebini, tunisini, qualche egiziano. Sono ragazzi di strada con vite difficili e davvero ci si chiede come avrebbero potuto non sbagliare, crescere in maniera diversa”. E loro lo raccontano così: “Della strada ci fidiamo perché ci insegna tanto di buono e di cattivo. Per noi è casa nostra”. La cosa che più sconvolge gli operatori del Ferrante Aporti è la violenza gratuita, la disorganizzazione della vita e l’aggressività di questi giovani. Aumentata dall’abuso di alcol “bevuto come fosse acqua” e di stupefacenti, di droghe sintetiche e medicinali. Quali gli antidoti per curare la rabbia? “Accompagnarli nella crescita”, rispondono le educatrici. Che, al di là delle incombenze di routine, dei colloqui con i magistrati, delle relazioni da inviare in procura per spiegare i percorsi riabilitativi, si soffermano sull’aspetto umano: “Torni a casa e pensi di aver fatto qualcosa di buono”. Al Ferrante Aporti tutti sono convinti di una cosa: questi detenuti sono criminali, certo. Ma il loro destino non è segnato. E la scommessa è proprio questa: dare loro opportunità ed evitare che, una volta fuori, finiscano di nuovo arrestati. Ecco la sfida più impegnativa. E ad ammetterlo sono proprio i detenuti: “Questa non è una soluzione per noi. Se entri spacciatore, esci ladro. Diventi hacker, i compagni di raccontano questo e quell’altro. Come evitare i guai o scassinare. Qualcuno ti sa dare qualche indirizzo giusto. Io sono entrato che spacciavo, adesso che esco so anche rubare”. Maglietta rosa da ciclista, una barbetta accennata da chi ha compiuto da poco diciassette anni. Ha studiato per l’esame di informatica: “Sono preparatissimo, so rispondere a tutte le domande. Qui dentro impari delle cose, puoi studiare, leggere. In carcere, però, non ci voglio più stare, tra pochi giorni sono sicuro che uscirò”. I più, al Ferrante Aporti, imparano anche l’italiano. E i corsi di base per imparare la grammatica sono raddoppiati. Le superiori, invece, sono state chiuse: non ci sono alunni, i detenuti sono troppo piccoli. Poi c’è chi per la prima scopre un libro. E si emoziona. “Non avevo mai letto. Poi è venuto a parlarci quello scrittore che scrive di sport e ho scoperto che mi piace leggere le storie di chi ce l’ha fatta”. Foggia. Detenuto 30enne morto in carcere, l’autopsia: nessun segno violenza La Repubblica, 27 ottobre 2022 I genitori del giovane non credono alla morte per cause naturali e, per questo motivo, avevano sporto denuncia. Per questa vicenda 13 persone hanno ricevuto informazioni di garanzia. Non ci sarebbero traumi ed evidenti segni di violenza sul cadavere di Osama Paolo Harfachi, 30 anni, foggiano, di origini marocchine, arrestato il 13 ottobre scorso con l’accusa di aver compiuto una rapina in una tabaccheria a Foggia e trovato morto in cella la mattina del 18 ottobre. È quanto si apprende dopo l’autopsia eseguita nel pomeriggio di ieri a Foggia. I genitori del giovane non credono alla morte per cause naturali e, per questo motivo, avevano sporto denuncia. Per questa vicenda 13 persone hanno ricevuto informazioni di garanzia. I 13 indagati hanno ricevuto ieri le informazioni di garanzia come ‘atto dovuto’ prima dell’autopsia disposta dal pm inquirente, Dominga Petrilli. Sono un detenuto accusato di aver ceduto in carcere droga al 30enne (per spaccio e morte come conseguenza di altro delitto); cinque agenti della Polfer di Foggia e due carabinieri per i quali si ipotizza il reato di omicidio preterintenzionale; ed infine cinque persone in servizio nell’infermeria del carcere per le quali l’ipotesi di reato è di omicidio colposo e lesioni in ambito sanitario. Milano. Morto il boss casertano Raffaele Ligato: era detenuto in regime di 41 bis di Giuseppe Cozzolino fanpage.it, 27 ottobre 2022 Morto all’età di 74 anni il boss Raffaele Ligato: era detenuto nel carcere milanese di Opera, dove era in regime di 41 bis e stava scontando l’ergastolo. Malato da tempo di una patologia legata all’apparato renale, era stato trasferito presso la Quinta Divisione Medicina Protetta dell’ospedale Santi Paolo e Carlo di Milano dove era stato ricoverato d’urgenza nei giorni scorsi. Il boss originario di Pignataro Maggiore verrà sepolto nella sua città d’origine nei prossimi giorni. Raffaele Ligato è considerato dagli inquirenti uno dei boss di spicco del clan Lubrano-Ligato, fondato da Vincenzo Lubrano ma gestito di fatto dai Ligato dopo la caduta di gran parte dei principali boss dei Lubrano, che vantavano anche importanti parentele con la potente famiglia dei Nuvoletta attraverso matrimoni “misti” e anche forti legami con la mafia siciliana dei Corleonesi, al punto che quando si sposò Gaetano Lubrano, fratello del boss Vincenzo, al matrimonio avrebbero partecipato anche Leoluca Bagarella e Giuseppe Calò, oltre allo stesso Totò Riina, che all’epoca era anche latitante. Trento. Nel carcere 100 detenuti sopra il limite e manca personale: Fugatti scrive al ministero ildolomiti.it, 27 ottobre 2022 Personale al di sotto dei numeri previsti e un numero di detenuti che supera il limite di capienza della struttura. È questa in poche parole la fotografia che il presidente della provincia Maurizio Fugatti ha fatto in una lettera al nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio all’interno della quale chiede un tempestivo adeguamento della dotazione di organico della struttura, attualmente eccessivamente ridotta. Dopo l’ennesima aggressione a danno del personale di Polizia penitenziaria in servizio alla casa circondariale di Trento, Fugatti ha deciso di sollecitare nuovamente il ministero. Nella missiva al Guardasigilli, vengono riportati gli ultimi due episodi avvenuti in carcere. Il primo riguarda l’incendio appiccato da una detenuta e nel quale quattro agenti di polizia penitenziaria sono rimaste intossicate. Il secondo episodio riguarda l’aggressione fatta da un detenuto a 6 agenti. Il governatore chiede quanto prima un intervento, anche alla luce dei numeri attuali dei detenuti che appaiono lontani da quelli pattuiti nel 2002 con l’accordo tra Provincia e ministero sulla realizzazione del nuovo carcere di Spini di Gardolo. Gli episodi avvenuto all’interno della struttura carceraria “minacciano il buon funzionamento della struttura, ponendo serie difficoltà agli operatori che in questi anni si sono adoperati, anche con grandi sacrifici professionali e personali, per supplire alle ridotte dotazioni di organico”. Fugatti fa inoltre riferimento al fatto che il limite di capienza della struttura previsto dall’accordo del 2002 (240 detenuti) è costantemente superato. I dati acquisiti dalla Provincia evidenziano una presenza effettiva di 348 detenuti a fronte di 174 unità di agenti effettivamente presenti; mentre la pianta organica, calcolata sulla capienza indicata nell’accordo del 2002 prevede l’assegnazione di 227 operatori di Polizia penitenziaria. Roma. L’Università come via per il reinserimento sociale dei detenuti di Filippo Jacopo Carpani Avvenire, 27 ottobre 2022 “Didattica in carcere” vuole raccontare il valore potenziale del reinserimento sociale e dei limiti tangibili della sua applicazione, attraverso le voci di ex studenti detenuti e personale accademico. Reinserimento sociale dei detenuti e il carcere come luogo di scambio e aggregazione, in un ambito comunitario più ampio delle mura che lo delimitano. Questi sono i pilastri della manifestazione Future sight e dell’evento “La didattica in carcere”, svoltosi nel pomeriggio di mercoledì 26 ottobre all’auditorium Ennio Morricone e organizzato dall’Università Tor Vergata di Roma. Al dibattito hanno partecipato, come esponenti dell’ateneo, la ricercatrice di diritto pubblico Marta Mengozzi, la ricercatrice di diritto privato Cristina Gobbi, la professoressa di storia moderna Marina Formica e la ricercatrice di filologia classica Cristina Pace, oltre agli ex studenti detenuti Filippo Rigano, Fabio Falbo e Giacomo Silvano. Il progetto nasce nell’anno accademico 2006-2007, quando l’Università Tor Vergata ha avviato, in via sperimentale, l’iniziativa “Teledidattica-Università in carcere”, avvalendosi della collaborazione del Garante dei diritti dei detenuti della Regione Lazio e della Casa circondariale di Rebibbia - Nuovo complesso. L’offerta puntava ad incentivare allo studio universitario quanti, in possesso di diploma, si trovavano a scontare una pena in strutture carcerarie. Da allora, il progetto ha preso gradualmente corpo grazie al coinvolgimento sempre più partecipato di numerosi studenti e detenuti. L’attività dell’Ateneo, oggi, riceve il sostegno della Regione e del Provveditorato generale dell’amministrazione penitenziaria del Lazio, tramite cui ha finanziato un progetto per l’informatizzazione dell’Istituto di Rebibbia Nuovo Complesso, per consentire agli studenti reclusi l’utilizzazione di strumenti tecnologici sicuri ma adeguati a garantire un contatto più immediato con i docenti e un accesso ampio ai materiali di studio e alle lezioni. Inoltre, grazie alla collaborazione di attori sociali diversi ogni detenuto iscritto a uno dei corsi di studio di Tor Vergata ha potuto beneficiare dell’esenzione totale dalle tasse universitarie e regionali, a prescindere dalle condizioni di reddito, e di ulteriori agevolazioni. Sono più di cinquanta gli studenti iscritti negli ultimi anni all’Università Roma Tor Vergata e sono distribuiti tra le tre aree che partecipano al progetto: Lettere, Giurisprudenza e Economia. “Il progetto parte dalla ferma convinzione del valore individuale e sociale della conoscenza, non solo quale fattore di migliore opportunità lavorativa ma anche e soprattutto quale elemento di sviluppo e valorizzazione dell’essere umano”, ha dichiarato Marta Mengozzi. “Tramite il progetto, l’Ateneo mette in campo tutto il proprio impegno perché il diritto allo studio e la previsione costituzionale che “la scuola è aperta a tutti” siano effettivi e non restino solo mere enunciazioni”. Affermazioni a cui ha fatto eco la professoressa Formica, che ricorda il fatto che “tutti hanno collaborato attivamente e con passione per realizzare un percorso di formazione universitario che potesse agevolare il reinserimento sociale degli studenti reclusi, in un’ottica di piena equiparazione a ogni altro soggetto di diritto”. Rimangono, però, diverse questioni aperte, in particolare di ordine sociale e che superano l’ambito della didattica. Interrogativi concernenti il diritto allo studio e, di conseguenza, il diritto al lavoro. È necessario trovare una risposta comunitaria e condivisa alla domanda sullo scopo della didattica in carcere, e gli stessi percorsi accademici, intrapresi negli istituti penali, vivono l’urgenza di essere riconosciuti per poter essere pienamente significativi. Ravenna. Riparte il corso per pizzaioli rivolto ai detenuti ravennanotizie.it, 27 ottobre 2022 Dopo due anni di sospensione a causa dell’emergenza sanitaria da Covid 19, riprende all’interno della Casa circondariale di Ravenna il corso per pizzaioli. Il corso, riservato ai detenuti, inizierà domani, giovedì 27 ottobre, grazie all’impegno dell’associazione di volontariato “Il Paese Sant’Antonio per la solidarietà”, con il sostegno della Associazione nazionale pizzaioli e dei Club Lions di Ravenna Dante Alighieri, Bisanzio, Host e Padusa. L’attività formativa è strutturata in lezioni teoriche e pratiche, sulle proprietà nutrizionali della pizza, dalle tecniche di preparazione fino alla fase della cottura. I corsi svolti all’interno della Casa circondariale, che ebbero inizio nel 2015 su input del Comune di Ravenna - Assessorato alle Politiche Sociali sia grazie alla disponibilità e al sostegno dei Lions Club di Ravenna che dell’Associazione Il Paese Sant’Antonio per la solidarietà, ha portato negli anni, all’interno della struttura, momenti formativi e di valenza trattamentale, che hanno rappresentato per i detenuti opportunità sia di acquisire competenze specifiche e spendibili nel mondo del lavoro al termine della pena, sia di instaurare importanti relazioni umane, tappe di un percorso di crescita e di cambiamento finalizzato al reinserimento nel tessuto sociale esterno. Questa rappresenta una delle tante iniziative che all’interno dell’Istituto penitenziario di Ravenna vengono organizzate nel rispetto di quanto sancito dall’art. 27 della Costituzione che prevede il principio rieducativo della pena nell’ottica di concedere un’altra chance a chi, avendo commesso degli atti antigiuridici, è privato della libertà. Brindisi. Lo spettacolo di danza dei detenuti del carcere di Brindisi: con contratto brindisireport.it, 27 ottobre 2022 Sabato 29, ore 21:00, e domenica 30 ottobre, ore 18:00, presso il Teatro Don Bosco di Brindisi, sarà di scena un viaggio che darà la possibilità di andare oltre le apparenze con “I passeggeri”. Angelo, Matteo, Toni, Tonino, Luigi, Andrea. Tutti detenuti del carcere di Brindisi. E anche danzatori. Hanno sottoscritto un regolare contratto di lavoro. Ccnl. Per danzare saranno pagati. Una bella storia, un messaggio forte e chiaro: il carcere deve riabilitare e consentire un reinserimento nella società, non emarginare. Ecco perché queste esperienze meritano di essere seguite e raccontate, perché restituiscono dignità e fiducia a chi ha sbagliato e vuole redimersi. Sabato 29, ore 21:00, e domenica 30 ottobre, ore 18:00, presso il Teatro Don Bosco di Brindisi, sarà di scena un viaggio che darà la possibilità di andare oltre le apparenze con “I passeggeri”, spettacolo ideato e prodotto da AlphaZtl compagnia d’arte dinamica con la regia di Vito Alfarano, inserito nel cartellone del Bpa, Brindisi Performing Arts. Un percorso iniziato a marzo che non si concluderà nel weekend perché “I passeggeri” è stato selezionato al Festival nazionale di Teatro in Carcere Destini Incrociati e approderà a Venezia, il 23 novembre, nell’ Auditorium Regina Margherita dell’Università Ca’ Foscari. Per la prima volta dal 2008, da quando cioè la AlphaZtl lavora a stretto contatto con la casa circondariale, è stato raggiunto un risultato importante: i detenuti sono stati contrattualizzati, regolare Ccnl come lavoratori dello spettacolo. Lo spettacolo “I passeggeri” parla di attesa, di quel momento in cui tutto si ferma e hai il tempo di riflettere per poi partire con consapevolezza. I passeggeri accolgono tutti nel loro vagone, l’importante è farsi trasportare dalla forza evocativa dei loro racconti. Il coreografo è Vito Alfarano, un lavoro a quattro mani (o a due menti!) con Francesco Biasi, coreografo under35. E’ una prima nazionale. Questa sera, ore 21:00 nell’Ex Convento Santa Chiara di Brindisi, in occasione della proiezione del docufilm Tabacchi Lavorati Esteri con cui il regista Benito Ravone, che dialogherà con Marcello Biscosi, racconta la storia del contrabbando a Brindisi, sarà possibile acquistare i biglietti dello spettacolo I passeggeri. Brindisi Performing ArtsFestival; produzione Alphaztl Compagnia d’Arte Dinamica; regia Vito Alfarano choreographer Alphaztl; Coreografie Vito Alfarano; choreographer Alphaztl e Francesco Biasi; testi Michele Anam Caiulo; riadattamento dei testi Marcello Biscosi. Il progetto gode del supporto del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Consiglio Regionale della Regione Puglia ed è realizzato in collaborazione con la direzione della casa circondariale di Brindisi, ministero della Giustizia. Benevento. “Come vorrei essere”, il percorso per i detenuti di Airola usertv.it, 27 ottobre 2022 Il primo atto del progetto “Come vorrei essere”: un percorso di preparazione alla vita libera, inserito nella programmazione educativa ministeriale dell’Ipm di Airola, realizzato dall’associazione Mediterraneo Comune e da Echoes (soggetto capofila) a favore delle persone detenute, ha generato la prima Summer School, un corso di grafica e un seminario di formazione che, grazie alla docente di Unisib Maria D’Ambrosio, svelerà la potenza di questo modello d’intervento di empowerment in carcere. Giovedì 27 ottobre tutta la comunità dell’Ipm di Airola ripercorrerà alcune tappe del progetto nel teatro dell’istituto minorile, che vedrà protagonisti i ragazzi guidati dagli educatori e dalla direttrice Marianna Adanti, con la partecipazione del magistrato di sorveglianza Margherita Di Giglio e del dirigente del Centro di Giustizia minorile di Napoli Giuseppe Centomani. L’incontro sarà introdotto dalla sociologa Maria Venditti che ha seguito i ragazzi nei laboratori comunitari della Summer School, accompagnandoli in una fase importante della reclusione, quella estiva. Come spesso abbiamo raccontato, in questi luoghi difficili da vivere e attraversare, emerge un bisogno di sentirsi inclusi nella società e di esprimere emozioni e desideri ai quali non si può rinunciare, nonostante la condizione di distanza e di separazione. Allora come possiamo declinare le parole: desiderio, futuro, identità, lavoro, dignità, inclusione, cambiamento? Ci abbiamo provato attraverso interviste, giochi, arti performative e lo faremo ancora esplorandole insieme e cercandone il significato di ognuna nella storia di ciascuno. Il seminario formativo, condotto dalla nostra guida scientifica e spirituale Maria D’Ambrosio, incarnerà le parole e avvierà tutti i partecipanti a un esercizio non scontato dei significati di: carcere e di educazione. “Riposizionare il carcere dentro il tessuto sociale e istituzionale dei territori che abitiamo è una urgenza civica e culturale che registro da studiosa e che costituisce la spinta per fare della ricerca uno strumento che possa contribuire a ristrutturare in senso pedagogico la mappa dei luoghi della Cura e a ripensare in chiave educativa tutte le professioni coinvolte. Una “questione vitale” per dirla con Rosi Braidotti: nel caso degli Istituti di pena minorile, e di quello di Airola in particolare perché ci dà occasione di un primo incontro seminariale, il richiamo alla trasversalità pedagogica e alla sua funzione educativa sembra essere ancora più esplicito e legittimo perché ci si senta coinvolti in un comune lavoro per farne uno ‘spazio formante’ Maria D’Ambrosio. Torino. Architettura vs edilizia, le sfide del carcere contemporaneo dentrolanotiziabreak.it, 27 ottobre 2022 Venerdì 28 ottobre a Palazzo Lascaris di Torino un seminario sugli ambienti di detenzione. Gli spazi della detenzione appaiono decisivi per garantire la dignità del detenuto e determinare l’efficacia nei percorsi di recupero e di reinserimento. Questo il tema intorno a cui ruota il seminario Architettura vs edilizia - Le sfide del carcere contemporaneo che si svolge venerdì 28 ottobre alle 10 nell’Aula consiliare di Palazzo Lascaris (via Alfieri 15, Torino). Promosso dal Consiglio regionale del Piemonte attraverso l’Ufficio del garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, in collaborazione con la Conferenza dei garanti territoriali delle persone private della libertà, il seminario propone una riflessione sull’ambiente fisico del carcere in termini di qualità architettonica per il benessere dei reclusi e degli operatori, anche alla luce delle direttive recentemente elaborate dall’Amministrazione penitenziaria per per la riorganizzazione dei regimi e dei circuiti detentivi. Dopo i saluti istituzionali del componente dell’Ufficio di presidenza Gianluca Gavazza, del direttore della Fondazione Piemonte dal vivo Matteo Negrin e della presidente del Fondo Alberto e Angelica Musy Angelica Corporandi D’Auvare Musy, il regista iraniano Milad Tangshir introduce il film Vr Free, che consentirà ai presenti di immergersi nell’esperienza del carcere attraverso la realtà virtuale. Alle 11 una tavola rotonda, moderata dal garante regionale delle persone detenute Bruno Mellano, con interventi di Emanuela Saita, direttore del master in Psicologia penitenziaria e profili criminologici e docente all’Università Cattolica Sacro Cuore di Milano; Davide Ruzzon, referente scientifico di Tuned Lombardini22 di Milano e direttore del master di Neuroscienze applicate alla progettazione architettonica e docente all’Università Iuav di Venezia; Marella Santangelo, docente di Composizione architettonica e urbana all’università Federico II di Napoli e componente della Commissione Architettura penitenziaria del Ministero di Giustizia; Giulia Mantovani, docente di Diritto penitenziario all’Università di Torino; Cesare Burdese, architetto e componente della Commissione Architettura penitenziaria del ministero di Giustizia. Verbania. Narrativa e inclusione con il Premio Stresa di Luca Gemelli La Stampa, 27 ottobre 2022 La giuria dei lettori (ottanta persone) è composta anche da detenuti del carcere di Pallanza. Oggi dalle 17 (ingresso libero) l’hotel Regina Palace ospita finale e premiazione del “Premio Stresa Narrativa”. Sono cinque le opere tra le quali la giuria (ottanta lettori e cinque critici) sceglieranno il vincitore del concorso organizzato dalla Proloco di Stresa e sostenuto dall’amministrazione comunale. Gli autori in corsa, quattro uomini e una donna, sono: Filippo Maria Battaglia con “Nonostante tutte” (Einaudi); Roberto Camurri con “Qualcosa nella nebbia” (Nn editore); Veronica Raimo con “Niente di vero” (Einaudi); Fabio Stassi con “Mastro Geppetto” (Sellerio) e Dario Voltolini con “Il Giardino degli Aranci” (La nave di Teseo). Gli autori, prima dello spoglio dei voti, che avviene come da tradizione in sala, dialogheranno con la giuria dei critici che ha selezionato i finalisti tra le ottanta opere pervenute in primavera. Il Premio Stresa è nato nel 1976 grazie a un gruppo di amici appassionati di lettura e scrittura; dopo una interruzione di 11 anni tra il 1984 e il 1995, è ripartito con la regia della Proloco di Stresa. Confermato, grazie alla collaborazione con la Casa circondariale di Verbania, con la direttrice Stefania Mussio e con la garante dei detenuti Silvia Magistrini, l’inserimento nella giuria dei lettori di sei detenuti (l’iniziativa è stata curata dall’educatrice (FGP) dr. Franca Facciabene). Una targa speciale sarà consegnata a Gerry Mottis, per il libro “Domenica Matta. Storia di una strega e del suo boia”, Gabriele Capelli editore. Santo Stefano: come liberare un carcere di Giulia Villoresi La Repubblica, 27 ottobre 2022 Lo costruirono i Borboni sull’isola di fronte a Ventotene: vi fu recluso anche Pertini, e in tanti ci lasciarono la pelle. Chiuso dal 1965, ora finalmente diventerà altro. Siamo stati a vedere come vanno i lavori. Santo Stefano (Ventotene). L’ex carcere borbonico di Santo Stefano è un monstrum, una cosa meravigliosa uscita dalla fantasia di un re reazionario e un architetto progressista. Uno strano sogno di fine Settecento, in cui si agitano pulsioni umanitarie e punitive, principi illuministi e sanfedisti, utilitarismo e neoclassicismo. Un luogo di bellezza spirituale, dove le idee apollinee di rieducazione e redenzione hanno fatto i conti con la brutalità dei fatti umani. Il carcere appare come un’allucinazione sulla cima di Santo Stefano, uno scoglio di neanche ventotto ettari che guarda l’isola di Ventotene. Nel 1795 Ferdinando IV di Borbone ne affidò il progetto a un discepolo di Vanvitelli, Francesco Carpi, che lo realizzò secondo i principi del carcere ideale appena teorizzati da Jeremy Bentham: una struttura circolare dove un solo sorvegliante, al centro, può vedere tutti i detenuti. È il Panopticon, metafora psico-poliziesca di un potere onnisciente, dove l’astensione dal male dovrebbe sorgere dalla consapevolezza di essere costantemente osservati. Algebra morale inglese, di cui Carpi fornisce un’interpretazione borbonica: un anfiteatro a matroneo la cui pianta ricalca quella del teatro San Carlo di Napoli; e al centro del palcoscenico, invece della torre di sorveglianza, una cappella: non un secondino, ma Dio osserva i detenuti. E da ogni parte, il mare. Pensato come bagno penale per criminali irriducibili, Santo Stefano cominciò ben presto a ospitare dissidenti politici. La prima ondata dopo la rivoluzione napoletana del 1799, le ultime col fascismo. Fino alla chiusura nel 1965. Oggi, approdando sull’isola da uomini liberi, possiamo dire che questo è il carcere più bello del mondo, per quanto possa essere bello un luogo di detenzione. Del suo destino si è discusso per anni, finché, nel 2016, il governo Renzi ha stanziato 70 milioni di fondi europei per un progetto di restauro e valorizzazione. Nel 2020, con la nomina di Silvia Costa a commissario straordinario, il progetto è partito davvero, e ora Santo Stefano è popolata da operai. Ma non ci si limiterà a musealizzare il sito: le ricchezze di questo luogo pretendono di più. Chi le ascolta, entra in stato confusionale. Qui nidifica il falco pellegrino e transita il capodoglio. Qui giacciono, sul fondale violetto, cinque navi romane. Qui sono stati imprigionati i patrioti del Risorgimento Settembrini padre e figlio, Giuseppe Poerio e Silvio Spaventa; briganti leggendari come Fra Diavolo, Carmine Crocco e Giuseppe Musolino; il regicida anarchico Gaetano Bresci; comunisti e padri costituenti quali Mauro Scoccimarro, Pietro Secchia e Umberto Terracini. E, nella cella numero 36, anche un futuro presidente della Repubblica: Sandro Pertini. Intanto, dalla dirimpettaia Ventotene, cellula madre e luogo di confino, usciva clandestinamente il testo fondativo dell’Unione europea, oggi noto come Manifesto di Ventotene. Da qui l’idea di rendere questo luogo un polo multifunzionale, con un centro di studi europei sulla pena e una stazione di pratica ambientale, delle residenze d’artista e un ostello della gioventù. La domesticazione dell’isola, naturalmente, presenta alcune difficoltà. Sbarcarvi è tra le più rilevanti. Con mari agitati l’approdo è tecnicamente impossibile, o pericoloso, perché Santo Stefano non ha un pontile. E una prateria di posidonia oceanica pone vincoli ecologici alla sua costruzione. Oggi bisogna saltare, e poi sperare che all’ora del ritorno non ci sia libeccio. Apprendo con una certa delusione che no, non è mai capitato che qualcuno abbia dovuto passare la notte qui. Almeno, non a memoria di Salvatore. Lui è da trent’anni il custode in pectore di Santo Stefano, la conosce palmo a palmo, ne ha ricostruito la storia quando ancora non c’erano pubblicazioni in materia e l’ha raccontata a gruppetti di visitatori, conducendoli in luoghi che ora, per motivi di sicurezza, non sono più visitabili. Le sue competenze non si fermano alla storia. Per esempio, sa che la roccia grigio-azzurra su cui abbiamo saltato si chiama riolite. Che Santo Stefano è più fertile di Ventotene, perché non si è formata per colata piroplastica, ma dal deposito di soffice cenere. Qui la terra non smette mai di fruttare: lentisco e mirto in autunno, cipollotti selvatici a gennaio, narcisi a maggio, iris a giugno, in estate la ginestra e i fiori di cardo. Quando il detenuto, scrive Settembrini, sale al carcere per la “stradetta erta e scabra”, è tramortito da questa bellezza: “I campi, il verde, le erbe e tutto il mare, e tutto il cielo, e la natura che non dovrà più rivedere”. Gli ergastolani meno resistenti, a quel tempo, difficilmente sopravvivevano più di un anno. Migliaia di uomini sono sepolti qui, ma nel piccolo cimitero sono rimasti solo trentanove nomi. E li abbiamo, questi nomi, solo perché all’inizio degli anni Settanta è capitato qui Luigi Veronelli, scrittore, gastronomo e anarchico che si è preso la briga di decifrare i cartigli ancora leggibili sulle croci e annotare la posizione delle tombe. Lo racconta il giornalista Pier Vittorio Buffa, che è riuscito a ricostruire alcune delle storie dei dimenticati che riposano qui (Non volevo morire così, Nutrimenti). L’ergastolano Giovanni D’Andrea, per esempio, si è suicidato il 18 giugno 1909 gettandosi dalla loggia dell’ultimo piano: era entrato nel 1901 per un crimine che non aveva commesso; i suoi accusatori, presi dai rimorsi, lo avevano poi scagionato, ma il ministero di Giustizia tardava a riaprire il processo. Tra le cause di morte più frequenti c’era il cosiddetto “Sant’Antonio”: una coperta addosso e poi giù legnate fino alla fine. Così è morto Gaetano Bresci, “suicidato” dalle guardie nel 1901. Altre storie tristi si potrebbero raccontare. La maggior parte finisce con un inventario - tot calze, tot mutande, una foto, 29 lire - e la lettera dei parenti che rinunciano all’eredità. Santo Stefano è un luogo che spezza i legami, non solo attraverso l’isolamento, ma perché rende sostanzialmente impossibili le visite dei familiari. Poi, nel 1952, arriva un nuovo direttore, Eugenio Perucatti, che alla prima riunione fa leggere ad alta voce il terzo comma dell’articolo 27 della neonata Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Vecchierelli intontiti - Il carcere sembrava rimasto congelato al Settecento. Perucatti porta elettricità, fognature e acqua. Costruisce degli alloggi per i familiari dei detenuti e istituisce visite di 24 ore. Grazie al lavoro dei detenuti nascono orti e giardini bellissimi. Una sala musica e una sala conferenze. Un campo di bocce e un campo da calcio (il torneo classico è detenuti e guardie contro ventotenesi). Anche un cinema: e invita gli isolani a frequentarlo. La popolazione del carcere si mischia con quella dei liberi; i figli delle guardie crescono con gli ergastolani per casa. Non troppo sorprendentemente, nel 1960 Perucatti viene “promosso” a incombenze amministrativo-ministeriali. Cinque anni dopo, chiude il carcere di Santo Stefano. Il Corriere della Sera descrive lo sbarco degli ultimi ergastolani a Formia: “Vecchierelli, taluno mezzo sciancato, intontiti da decenni di galera”; molti hanno delle gabbie coperte da un panno bianco da cui sale un “cip cip”. La storia ufficiale del carcere finisce qui. E, onestamente, Salvatore sembra stanco di raccontarla. Migranti. Nel silenzio sta per rinnovarsi il memorandum fra Italia e Libia. E nessuno pensa di disdirlo di Nicola Bracci Il Domani, 27 ottobre 2022 Ong e cittadini hanno manifestato a Roma per chiedere che venga annullato l’accordo con la Libia. Dal 2017 regola le politiche migratorie tra i due paesi: mentre le associazioni umanitarie protestano, fa comodo a tutta la politica. E il 2 novembre si rinnoverà automaticamente per altri tre anni. Quaranta organizzazioni non governative si sono riunite oggi pomeriggio in piazza Esquilino, a Roma, per chiedere al nuovo governo di non prorogare il memorandum d’intesa Italia-Libia, il documento che regola i rapporti tra i due paesi in tema di politiche migratorie. Alla protesta si sono uniti in questi giorni anche alcuni parlamentari. L’accordo firmato nel 2017 dall’allora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni, del Partito democratico, è il frutto di lunghe trattative tra l’allora ministro dell’Interno italiano, Marco Minniti (Pd), e il primo ministro del Governo di riconciliazione nazionale libico, Fayez al-Sarraj. Il patto si rinnova tacitamente ogni tre anni, come già accaduto nel 2020. La nuova scadenza entro la quale il governo italiano dovrebbe agire se decidesse di abrogarlo è il 2 novembre prossimo. È quello che chiedono cittadini e Ong riuniti oggi a Roma per manifestare. In mancanza di questo intervento le misure sottoscritte nel 2017 saranno estese fino al 2025. Giorgia Meloni, neoeletta presidente del Consiglio, in passato ha più volte parlato di “pessima gestione” dei rapporti con la Libia da parte del governo italiano. Oggi guida una coalizione di partiti che, almeno in campagna elettorale, ha spesso sostenuto la necessità per l’Italia di riconquistare un ruolo da protagonista nel Mediterraneo. Ma lo scenario più probabile è che sul dossier libico l’esecutivo di centrodestra scelga la linea della continuità con i governi che l’hanno preceduto, sia per ragioni di equilibrio politico interno, sia per gli stretti rapporti commerciali che legano i due paesi. Il trattato - Il Memorandum “Minniti” è da anni criticato sia nel merito sia nella forma. Concluso in forma semplificata, senza cioè richiedere l’intervento del parlamento, l’accordo violerebbe l’articolo 80 della Costituzione. Lo ha sostenuto fin da subito l’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi), che ricorda come la carta costituzionale imponga la ratifica delle Camere per i trattati internazionali di natura politica o, in altra ipotesi, per trattati che comportano oneri finanziari per lo stato italiano. E su quest’ultimo punto il dato è incontestabile. A oggi il finanziamento del decreto Missioni, la misura che ogni anno garantisce i fondi necessari per l’applicazione del memorandum, è costato oltre 44 milioni di euro, prelevati dai fondi pubblici. Negli ultimi tre anni, inoltre, la somma stanziata è cresciuta costantemente, dai 10 milioni del 2020, ai 10,5 del 2021, fino quasi a raggiungere i 12 milioni nel 2022. Decisione, quest’ultima, sostenuta da un’ampia maggioranza parlamentare del governo Draghi nel voto del luglio 2021, con 361 favorevoli. L’accordo si inserisce in un quadro di cooperazione “nel settore dello sviluppo, nella lotta all’immigrazione clandestina, tratta di esseri umani, contrabbando e nel rafforzamento della sicurezza delle frontiere”. Nell’articolo 1 del documento si richiede al governo italiano di promuovere programmi di crescita nelle zone colpite dall’immigrazione clandestina. È un intervento che va oltre la mera “messa in sicurezza” e si estende anche a infrastrutture, sanità, trasporti, energie rinnovabili, insegnamento, formazione del personale e ricerca scientifica. Ma il centro focale del documento è la questione migratoria, ago della bilancia nei rapporti con la Libia e tema dirimente nell’equilibrio politico interno italiano. Dal 2017 Roma è impegnata nella formazione e nel finanziamento delle istituzioni di sicurezza e militari libiche: guardia di frontiera, guarda costiera del ministero della Difesa libico e altri organi competenti del ministero dell’Interno. Delle sovvenzioni beneficiano poi anche i cosiddetti “centri di accoglienza” libici, che la comunità internazionale ha più volte citato come veri e propri centri di detenzione. L’Italia si è occupata in questi anni del loro rimodernamento e della formazione del personale in loco. Alla guardia costiera libica spetta, invece, il compito di controllare i confini, “proseguendo negli sforzi mirati anche al rientro dei migranti nei propri paesi d’origine, compreso il rientro volontario”. La comunità internazionale - Non è prevista nel trattato alcuna distinzione tra migranti economici, migranti che si ricongiungono a familiari già espatriati e migranti in cerca di protezione. L’unico distinguo è quello tra immigrazione regolare e irregolare. Pertanto, dal 2017, il governo di Tripoli è impegnato a bloccare chiunque non sia in possesso di regolare documentazione, con il mandato di rimpatriare e trattenere nei centri di detenzione anche donne e uomini che cercano protezione fuori dalla Libia o dal proprio paese di provenienza. Tutto questo avviene in completa violazione della Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati. Tra le rotte migratorie verso e all’interno dell’Europa, quella del Mediterraneo centrale è la più letale. I recenti dati dell’Organizzazione internazionale per le migrazioni (Oim), agenzia collegata alle Nazioni unite, parlano di almeno 2.836 tra morti e dispersi nel 2021. Nello stesso anno la rotta tra Italia e Libia è anche quella in cui si registra il maggior numero di morti legate ai respingimenti: 97. E chi riesce a sopravvivere finisce a ingrossare le fila dei rimpatriati detenuti nei lager. Oltre 100mila, nella sola Libia, nei primi quattro anni di accordi tra Roma e Tripoli. Qui i prigionieri vivono in condizioni disumane, con regolari episodi di torture e trattamenti degradanti, sparizioni forzate, detenzioni arbitrarie, stupri e violenze psicologiche. In un rapporto pubblicato l’11 ottobre scorso, l’Alto commissario per i diritti umani dell’Onu, Nada al-Nashif, ha riconosciuto che dietro le pratiche di rimpatrio “assistito”, supportate anche dall’Unione europea, si nascondono violenze sistematiche. “La Libia e gli stati coinvolti dovrebbero adottare misure immediate per affrontare urgentemente questa situazione insostenibile e inconcepibile”, si legge nel report. E in proposito sono innumerevoli le indagini e le testimonianze pubblicate in questi anni da decine di organizzazioni non governative, da Amnesty International, a Actionaid, Human Rights Watch, Medici senza frontiere, Oxfam: tutte presenti alla manifestazione di piazza Esquilino, a Roma, per chiedere al nuovo governo italiano un cambio di direzione che appare, però, estremamente improbabile. In continuità - Il sostegno della politica italiana all’attuale gestione dei flussi migratori nel Mediterraneo ha dimostrato, negli anni, di non scontentare quasi nessuno. Da chi rivendica con orgoglio la riduzione degli sbarchi sulle coste italiane, a chi ne fa un discorso di Realpolitik e di contingenza, a chi sposta il carico delle responsabilità sull’Europa. Il dibattito resta contenuto dentro il perimetro di un inevitabile mantenimento dello status quo, con l’obiettivo primario di non compromettere rapporti commerciali irrinunciabili per entrambi i paesi. A rappresentare l’Italia nel patto con Tripoli, nel 2017, c’era il governo guidato dal Partito democratico, a dare il tacito assenso per il suo rinnovo, nel 2020, è stato il secondo governo Conte, sostenuto dalla maggioranza “giallorossa” di Pd e Movimento 5 stelle. Il governo Draghi, caduto prima di potersi esprimere sulla continuità dell’accordo, si è limitato a garantire “aiuti e sostegno” al paese partner, esprimendo “soddisfazione per quello che la Libia fa, per i salvataggi”. Queste le parole dell’ex presidente del Consiglio Mario Draghi, in occasione di una visita a Tripoli nell’aprile 2021. La neoeletta premier Giorgia Meloni si trova per le mani il dossier di un paese che gioca un ruolo da protagonista in almeno tre voci della sua agenda: commercio, energia e sicurezza. Il suo desiderio di una nuova centralità dell’Italia nel Mediterraneo sarà probabilmente ridimensionato dalla necessità di mantenere gli equilibri, interni ed esterni. Almeno nella prima fase di governo. Tanto basterà perché il memorandum si rinnovi, continuando a legittimare la mattanza nello spicchio di mare che divide le coste italiane dalle prigioni libiche. E rimandando la questione al governo del 2025. Piantedosi: “Obiettivo no navi che trasportano migranti”. 1.200 salvati dalla guardia costiera di Giansandro Merli Il Manifesto, 27 ottobre 2022 Mediterraneo. Due navi Ong in attesa di un porto. Intanto dopo il maxi-soccorso coordinato dalle autorità italiane 416 naufraghi sulla Diciotti. Arrivano oggi a Crotone Piantedosi: “Obiettivo no navi che trasportano migranti”. 1.200 salvati dalla guardia costiera. Nel Mediterraneo centrale continuano i soccorsi e le richieste di porto, ma dal Viminale arrivano solo segnali di ostilità. Ieri il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha dichiarato che l’obiettivo è non avere “navi che trasportano migranti”. Oggi si riunirà con i vertici di forze dell’ordine, intelligence e comandante della guardia costiera, l’ammiraglio Nicola Carlone, per fare il punto della situazione. Sulla Humanity 1 ci sono 180 naufraghi. Tre le richieste di un luogo sicuro di sbarco. La nave si trova a poche miglia dalle coste della Sicilia orientale, dove fino alla settimana scorsa le Ong attendevano indicazioni per toccare terra (che arrivavano puntualmente dopo diversi giorni). Tra martedì e mercoledì la Ocean Viking, di Sos Mediterranée, ha realizzato due nuovi soccorsi e adesso sul ponte ospita 234 persone. In zona Sar c’è anche la Geo Barents di Medici senza frontiere. Altre navi sono pronte a salpare. Mentre Piantedosi e Salvini puntano l’attenzione contro le Ong continuano gli sbarchi autonomi e i soccorsi della guardia costiera italiana. A Lampedusa nelle ultime 48 ore sono arrivati quasi 1.000 migranti. Circa 1.200, invece, sono stati salvati in una grande operazione coordinata dalle autorità italiane a sud-est di Portopalo di Capo Passero. Due i motopesca partiti dalla Cirenaica. A bordo anche due cadaveri. Tra i mezzi utilizzati la nave Diciotti della guardia costiera che trasporta 416 naufraghi e dovrebbe arrivare oggi a Crotone. Intanto l’aereo di Sea-Watch ha denunciato un episodio in cui la sedicente “guardia costiera” libica ha ricondotto a terra un barchino che poi è stato riutilizzato per una nuova partenza. “Collaborano con i trafficanti”, accusa l’Ong. Accoglienza alla sbarra, in appello chiesti più di 10 anni per Lucano di Silvio Messinetti Il Manifesto, 27 ottobre 2022 La Pg di Reggio Calabria attenua le accuse ma conferma l’impianto di primo grado per l’ex sindaco di Riace. La sentenza in dicembre. Alla lettura della richiesta della procura generale, lui non era in aula. Aveva disertato l’udienza in cui si celebrava la requisitoria della pubblica accusa. Aveva lasciato ai suoi legali - gli avvocati Andrea Daqua e Giuliano Pisapia - il compito di rappresentarlo. Mimmo Lucano non era a Reggio Calabria ieri e non sedeva tra i banchi degli imputati in corte d’appello. Era rimasto a Riace. Dove, proprio alla ripresa del processo, e non per puro caso, passava la Carovane solidaire partita in suo onore da Parigi il 17 settembre. In un lungo giro tra Italia e Francia, con tappe a Palermo, Napoli, Roma, Torino, La Roya e Marsiglia, terminerà il suo viaggio il 5 novembre. Quel giorno a Marsiglia il sindaco socialista Benoit Payan, alla presenza degli eurodeputati Damien Carême e Pietro Bartolo, ma anche di artisti, avvocati, associazioni in difesa dei rifugiati, conferirà la cittadinanza onoraria all’ex sindaco di Riace. E ieri gli attivisti del collettivo hanno ribadito il loro appello all’intera Europa: “la solidarietà non può essere un crimine, il Mediterraneo non può divenire un simbolo di morte, l’accoglienza è una ricchezza e territori come Palermo, Riace, Crotone, La Roya, Briançon hanno mostrato l’esempio”. In Francia la causa di Lucano gode del sostegno di cittadini e associazioni. In Italia, invece, nell’aura di criminalizzazione generalizzata dei soccorsi in mare, dell’operato delle Ong e dell’immigrazione, tornata in auge con il nuovo governo Meloni, la musica è ben altra. E anche ieri se ne è avuta conferma. La Pg ha chiesto la condanna a 10 anni e 5 mesi di carcere per l’ex sindaco di Riace e principale imputato del processo Xenia nato da un’inchiesta della guardia di finanza sulla gestione dei progetti di accoglienza dei migranti nel borgo della Locride. Davanti alla corte, presieduta da Giancarlo Bianchi, è durata 3 ore la requisitoria dei sostituti procuratori generali Adriana Fimiani e Antonio Giuttari. La riformulazione della pena richiesta è pura cosmesi giuridica. Poco cambia rispetto alla pena inflitta dal tribunale di Locri che lo aveva condannato a 13 anni e 2 mesi di reclusione. È vero che c’è una riduzione di 3 anni. Ma lo spirito rimane identico. È un processo politico costruito ad hoc per demolire il cosiddetto “modello Riace”. È quel che Pietro Calamandrei, definiva “il rovesciamento di senso”, nell’arringa difensiva per Danilo Dolci, altro perseguitato di Stato: non ci sono fatti ma idee, sparisce il contesto, l’identità dell’inquisito viene capovolta. Nel caso di Lucano, l’accoglienza diventa così sistema clientelare per l’accaparramento dei voti, il volontariato si trasforma in peculato, la trasparenza amministrativa in corruzione. Nello specifico, la Procura generale ha chiesto l’assoluzione per un capo di imputazione e la prescrizione per due capi. A Lucano, che nel 2018 trascorse un breve periodo agli arresti domiciliari e circa un anno con il divieto di dimora, vengono contestati i reati di associazione per delinquere, truffa, peculato, falso e abusi d’ufficio. Dopo aver ricostruito gli elementi di prova e dopo aver ritenuto inutilizzabili alcune intercettazioni telefoniche, i due sostituti pg hanno chiesto la condanna anche per altri 15 imputati. Per due è stata chiesta l’assoluzione. La pubblica accusa ha considerato in continuazione i reati per cui era chiamato a rispondere l’ex primo cittadino. La condanna inflitta a Lucano nel processo di prime cure era stata quasi il doppio rispetto alla richiesta del pubblico ministero di Locri, per il quale all’ex sindaco andavano comminati 7 anni e 11 mesi. I legali di Lucano si dicono comunque fiduciosi in vista della sentenza. Pisapia e Daqua avevano presentato ricorso, sostenendo che nelle motivazioni ci fosse una ricostruzione della realtà “macroscopicamente deforme rispetto a quanto emerso in udienza”, ma soprattutto viziata da un approccio “aspro, polemico, al limite dell’insulto” e dalla preoccupazione di trovare Lucano “colpevole ad ogni costo”. E la decisione della corte di riaprire l’istruttoria per una intercettazione del 2017 aveva riacceso le speranze. Si tratta di una registrazione chiave, silenziata in primo grado. La sentenza è prevista per dicembre, preceduta dalle arringhe difensive. Nell’attesa, la scelta dell’ex sindaco è quella della disobbedienza civile: non intende pagare la provvisionale da 750 mila euro poiché sarebbe “un’ammissione di colpevolezza e in appello non mi aspetto l’attenuazione della pena, non accetto neanche un giorno in meno, voglio l’assoluzione piena. Voglio la riabilitazione del nostro lavoro. Voglio la luce della verità”. Iran. Tutti in piazza per Mahsa Amini, la polizia spara sui manifestanti di Greta Privitera Corriere della Sera, 27 ottobre 2022 Pugno duro delle autorità nella data “pericolosa” dei 40 giorni dal lutto. Nel Kurdistan chiuse le scuole, sospeso Internet e riempito la città di posti di blocco. Ci sono tutti. Donne senza velo, donne col velo, uomini, giovani, bambine, anziani. Nei video postati sui social vediamo il lato sinistro di un’autostrada fuori Saqqez, città nel Kurdistan iraniano, traboccante di persone che cercano di aggirare i posti di blocco delle forze di sicurezza per raggiungere il cimitero di Aichi, dove si trova la tomba di Mahsa Amini, la ventiduenne uccisa il 16 settembre a Teheran dalla “polizia morale”. Sentiamo il rumore che fanno centinaia di clacson suonati contemporaneamente. Riconosciamo “donne, vita e libertà”, le parole che da quaranta giorni fanno da sottofondo alle proteste del popolo iraniano contro il regime di Raisi e dell’Ayatollah Khamenei. Erano diecimila, dice l’agenzia di stampa iraniana Irna. La ong Hengaw riporta che la polizia ha sparato proiettili veri, ha lanciato lacrimogeni tra la folla per disperderla e ancora non si conosce il numero delle vittime e dei feriti. Nonostante i morti, gli arrestati, i divieti e gli avvertimenti, al quarantesimo giorno dall’uccisione di Amini, le persone si sono comunque date appuntamento per commemorare la giovane ragazza, simbolo di questa (nuova) rivoluzione. Il quarantesimo giorno, per la religione islamica, coincide con la fine del lutto, è il momento in cui l’anima si separa dal corpo per raggiungere il paradiso. Le autorità sapevano che il 26 ottobre sarebbe stata una data “pericolosa” e hanno attuato tutte le norme di sicurezza che pensavano potessero bastare per arginare la marea dei manifestanti che vedevano crescere all’orizzonte. Hanno ordinato la chiusura delle scuole e delle università del Kurdistan “per un’ondata di influenza”, una scusa per ostacolare le proteste degli studenti, secondo le organizzazioni per i diritti umani. Hanno riempito la città di Saqqez di posti di blocco e sospeso Internet per limitare la possibilità di comunicazioni tra i manifestanti. Secondo alcune fonti, ci sarebbe stata una telefonata alla famiglia Amini per intimarli di non organizzare nessuna cerimonia in nome di Mahsa, minacciando la vita del figlio. “Volevano impedire alla gente di entrare nel cimitero, ma in molti ci sono riusciti comunque”, hanno riferito testimoni a Reuters. Ieri, si urlava “Donne, vita, libertà” in onore della coetanea Amini anche alla Sharif University di Teheran, a quella di Qom, in tantissimi altri atenei e scuole del Paese, fulcro delle proteste. La contestazione, iniziata il 16 settembre e in un primo momento gestita e portata avanti principalmente dalle ragazze più giovani - appoggiate dai coetanei - che chiedevano di togliere l’obbligo del velo e più libertà alle donne, in poco tempo è dilagata tra le altre generazioni. Nonostante sia da considerare la rivoluzione della generazione Z - quella dei nati tra il 1997 e il 2010 - vissuta nelle piazze e raccontata sui social, anche i lavoratori del settore petrolifero, il sindacato dei professori, molti liberi professionisti e genitori si sono uniti alla lotta. Si sciopera, si contesta in tutto il Paese con una parola in comune: libertà. Gli iraniani e le iraniane chiedono la fine del regime teocratico che nel mentre accusa i “nemici stranieri” di guidare le proteste, chiedono l’abolizione del fondamentalismo, delle disuguaglianze economiche e di genere che affliggono il Paese da oltre 40 anni. Come sempre, ogni rivoluzione porta con sé slogan e immagini che rimangono nel racconto. Ieri, una fotografia che è entrata a far parte della storia di questa protesta. Si vede una ragazza in piedi sul tetto di una macchina che svetta proprio sopra la lunga coda umana sull’autostrada di Saqqez. Una mantella rossa, le scarpe da ginnastica, i capelli lunghi, sciolti. Ha il braccio destro alzato che più di ogni parola ci dice “libertà”. Siria. Dopo fame e guerra arriva l’incubo colera di Marta Serafini Corriere della Sera, 27 ottobre 2022 La grave mancanza idrica, causata dalle piogge insufficienti e i danni alle infrastrutture hanno provocato nelle ultime settimane più di 24mila casi e 80 persone sono già morte. Quando le persone bevono la stessa acqua contaminata che usano per irrigare i campi, e quando non hanno abbastanza acqua per praticare un’igiene minima, le malattie si sviluppano e minacciano la salute e persino la vita delle persone, soprattutto dei bambini”. È con queste parole che l’inviato speciale delle Nazioni Unite per la Siria, Geir Pedersen, davanti al Consiglio di sicurezza, ha lanciato l’allerta sul rischio che la Siria venga investita a breve da un’epidemia di colera. La grave mancanza idrica, causata dalle piogge insufficienti, i bassi livelli e i danni alle infrastrutture hanno provocato nelle ultime settimane più di 24mila casi e 80 persone sono già morte, con le province di Aleppo, Al Hasakh, Al Bab particolarmente esposte, secondo l’Organizzazione mondiale della sanità che conferma la gravità del quadro. Il colera è solo uno dei pesi che il popolo siriano continua a sopportare: arresti arbitrari, sparizioni forzate e una crisi economica che è la peggiore dall’inizio della guerra. Tutte conseguenze di un conflitto che vede coinvolti attori impegnati e coinvolti anche su altri teatri - in primis quello ucraino - come Mosca, alleata del regime di Bashar Assad, ancora saldo al potere nonostante i costanti abusi. E come Ankara, supporter dei gruppi jihadisti che ancora controllano il nord del Paese. Ribadendo il suo appello alle parti a proteggere i civili e le infrastrutture, Pedersen ha affermato che è “inaccettabile che le ostilità continuino a causare morti civili, compresi i bambini”. Nonostante ciò la questione siriana resta lontana sia dalle prime pagine dei principali quotidiani sia dai tavoli diplomatici. Secondo i dati delle Nazioni Unite le famiglie siriane riescono a procurarsi solo il 15% delle razioni di cibo che potevano permettersi un anno fa e il numero di persone che hanno bisogno di aiuto è aumentato del 30% rispetto allo scorso anno. Una tragedia che non è affatto una sorpresa, che ha causato milioni di profughi costretti ad abbandonare lavoro e case, e che inevitabilmente avrà un impatto sui futuri flussi migratori e dunque sull’Europa.