“Suicidi in cella? Servono più carceri”. La giustizia senza appello di Giorgia di Errico Novi Il Dubbio, 26 ottobre 2022 Il vero mantra resta la “certezza della pena”. Che, dice però Nordio, “non deve necessariamente coincidere con la galera”. Nella sua relazione a Montecitorio, la premier parla di giustizia solo per rapidi accenni, e lo fa in chiave poco rassicurante quanto dice che il rimedio al sovraffollamento e ai suicidi in cella è costruire nuovi penitenziari. Pochi minuti dopo sarà il guardasigilli, in una nota, a ricordare che esistono le pene alternative. Non c’era molto spazio per la giustizia, certo. E il poco che Giorgia Meloni ha trovato nel suo discorso è stato corredato da flash, da accenni in qualche caso poco rassicuranti, come sul carcere. La premier parte dalla “certezza della pena”, che è un “principio basilare”. E traduce il concetto con una logica dall’eco quasi bonafediana: “È indegno di un paese civile che dall’inizio dell’anno vi siano stati 71 suicidi in cella”, scempio che va stroncato con un “nuovo piano carceri”. Vecchia idea della cultura “general-preventiva”, per non dire giustizialista: all’indecenza delle condizioni disumane dei reclusi si risponde con più spazi per rinchiuderli, non con le misure alternative. E Meloni si associa a quel filone pochi minuti prima che, da via Arenula, il suo guardasigilli Carlo Nordio diffonda una nota in cui ribadisce più volte che “la pena non è solo carcere”. Non c’è solo questo, ma il resto è richiamato solo per titoli. La doverosa premessa sulla “legalità” come “stella polare”, e la sfida al “cancro mafioso” da affrontare “a testa alta”, con “disprezzo e inflessibilità”. L’inevitabile passaggio sulla “durata ragionevole dei processi”, che è anche “una questione di crescita economica”. L’altrettanto doveroso e rapido accenno alla “effettiva parità tra accusa e difesa”. L’evocativo ma per ora indefinito richiamo alla “riforma dell’ordinamento giudiziario” che deve “mettere fine alle logiche correntizie”. E poi forse il solo paragrafetto che apre qualche spiraglio di ambizione vera sulla giustizia, la necessità che vi siano “meno regole ma chiare per tutti”, perché dietro l’eccesso e l’ingorgo normativo germoglia “anche la corruzione”, male da “estirpare”. Non è un caso se appena Meloni finisce di scandire quel passaggio, sia proprio Nordio a far partire l’applauso (e il ministro ci teneva a rivolgerglielo, visto che aveva già sentito il capo del suo governo dire “finiamo alle tre” per le troppe interruzioni entusiastiche). La neopresidente del Consiglio insomma dà l’impressione di essere un po’ inchiodata, in materia di giustizia, su un programma e un orizzonte da destra legge e ordine, non dissimile dalla piattaforma di opposizione appena dismessa. Non è un dato definitivo, tenuto conto che in un discorso di un’ora e dieci, lo spazio dedicato ai temi del processo, della magistratura, dei tribunali sovraccarichi e spopolati di personale è stato limitatissimo, quasi marginale. E che, insomma, è mancata un’articolazione in grado di far capire cosa davvero la premier intenda fare in quell’ambito. Ma non è un caso se la reazione più entusiastica, tra gli stessi alleati, sia arrivata da un leghista, Jacopo Morrone, assolutamente d’accordo sul fatto che “il sovraffollamento dei penitenziari non si può risolvere puntando solo sulla riduzione del numero dei detenuti” giacché “si rischierebbe un affievolimento della repressione”. Meloni ipotizza ampie convergenze sull’ergastolo ostativo, che M5S e Pd intendono disciplinare in senso ultra-restrittivo. È una linea che contraddice un po’ la scelta, come guardasigilli, di una figura dello spessore e della cultura garantista di Nordio. Se ci si deve basare sulle linee programmatiche, c’è solo da sperare che il ministro riesca a convincere la premier su quel mantra da lui stesso ripetuto stamattina: “La certezza della pena non deve necessariamente coincidere con il carcere”. Da una parte, si può dare per certo che il guardasigilli non starà lì a contemplare gli austeri arredi di via Arenula. Dall’altra si conferma l’impressione che, nel pieno di una crisi “mai così sfavorevole dal secondo dopoguerra”, come ha ricordato Meloni, le riforme del processo, le istanze garantiste siano per ora strozzate dalle emergenze. Oltre che dal ministro della Giustizia, l’equilibrio dipenderà anche dagli alleati, ma soprattutto da Forza Italia. Un po’ lo ha lasciato intendere per esempio l’azzurro Giorgio Mulè, che ha ricordato tra l’altro come la “separazione delle carriere” sia “scolpita nel programma”. Potrà pesare l’asse garantista che potrebbe crearsi fra berlusconiani e Terzo polo. E tornare utile il contributo di un viceministro che gestirebbe i dossier con la competenza di chi li ha avviati nell’ultimo anno e mezzo, come l’azzurro Francesco Paolo Sisto. Peserà anche il contributo dell’avvocatura, che reclama più ascolto e partecipazione nelle scelte sulla vita dei tribunali, e novità, in campo penale, sia sulle carriere dei magistrati che sul carcere. E poi servirà tempo, a Meloni, per rendersi conto della complessità di una materia che per forza di cose non può conoscere in tutte le sue angolature. Oggi ha detto che si deve intervenire anche sulla giustizia minorile affinché “non ci siano mai più casi come Bibbiano”. In realtà la riforma civile di Cartabia ha introdotto un’uniformità dei riti, in ambito familiaristico, che è già la giusta premessa per arginare le distorsioni. La presidente del Consiglio ha ricordato che gli autonomi, liberi professionisti inclusi, “non saranno più figli di un dio minore”, che rappresentano “un asse portante” del paese e che meritano “tutele adeguate”. Si può dare per certa la sincerità di Meloni, anche su questo, e però la premier potrebbe accorgersi presto che, tra le libere professioni, l’avvocatura ha sulla giustizia idee piuttosto diverse da quelle accennate nella relazione introduttiva di ieri. E riconoscere dignità ai professionisti, e innanzitutto alla professione forense, potrebbe voler dire anche avere la forza, su molti punti, a cominciare dalle carceri, di cambiare idea e rivedere un po’ l’agenda del governo. “La pena non è sempre il carcere”, il programma di Nordio per la Giustizia di Maria Carmela Fiumanò dire.it, 26 ottobre 2022 Il neo ministro si insedia in Via Arenula e anticipa alcune linee programmatiche. Apprezzamento per le riforme Cartabia: “Ci sarà continuità”. Il neo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, si insedia in Via Arenula e traccia a grandi linee quello che sarà il suo programma. Stamane, prima di recarsi in Senato per il discorso di Giorgia Meloni per la fiducia al Governo, l’ex magistrato ha fatto tappa nella sede del ministero per salutare e ringraziare Raffaele Piccirillo, per due anni capo di Gabinetto con Marta Cartabia. A lui e al suo staff il Guardasigilli ha voluto ufficialmente esprimere gratitudine per “l’eccellente lavoro svolto”. All’uscente Piccirillo subentra Alberto Rizzo, attuale presidente del Tribunale di Vicenza, che ora lavorerà a stretto contatto con Nordio. Nordio ha spiegato: “Abbiamo avuto proprio in questa sede un incontro molto lungo ed estremamente cordiale con la presidente Cartabia, con la quale abbiamo concordato continuità anche di colloqui. Perché - come detto in tempi non sospetti - la direzione che aveva assunto nelle riforme era secondo me quella giusta. Naturalmente, le maggioranze politiche e i programmi governativi cambiano e quindi - come tutti sanno - il nostro cercherà di portare avanti in modo ancora più avanzato queste riforme”. “L’obiettivo, soprattutto in un primo tempo - spiega il neo ministro - è quello di rendere la giustizia più efficiente. La priorità assoluta è avere una giustizia efficiente, in modo che abbia impatto favorevole sull’economia. In questo momento, è la sofferenza maggiore in cui versa il Paese. Ogni altro indirizzo sarebbe affrontato in un secondo tempo. Tutti conoscono le mie idee che ho scritto negli ultimi 20 anni”. Per Carlo Nordio, una lunghissima esperienza nei tribunali, una delle cose più importanti è anche “trovare una concordia, una armonia tra magistratura, avvocatura, tra personale penitenziario e personale amministrativo, per implementare gli organici e colmare dei vuoti che fino ad adesso, per varie ragioni, sono stati perniciosamente sguarniti e quindi rendere la giustizia più efficiente”. Per il guardasigilli scelto da Giorgia Meloni alla guida del dicastero di Via Arenula, rendere la giustizia più efficiente “non significa abbreviare a tutti i costi, non significa un efficientismo che non tenga conto dei due aspetti fondamentali del garantismo di cui si parla tanto che consistono da un lato nella presunzione di innocenza, ma dall’altro nella certezza dell’esecuzione della pena. Pena che, come ho già detto varie volte nei miei scritti, non coincide necessariamente con il carcere”. Secondo Nordio, “l’esecuzione della pena, che deve essere certa, deve essere proporzionata, deve essere soprattutto equa, perché il primo giudice del giudice è l’imputato o il condannato. Se tu sei troppo blando ti disprezza, se tu sei troppo severo ti odia; se tu sei equo non dico che ti onori, ma certamente rispetta te e l’istituzione”. Insomma, ricorda, “la pena deve essere orientata alla rieducazione del condannato”. “Tutto questo - conclude il ministro - noi cercheremo di farlo attraverso la riorganizzazione del sistema carcerario che a me sta molto a cuore”. Poi annuncia: “Le prime visite pastorali, se così le possiamo chiamare, saranno fatte contemporaneamente, se non prioritariamente nelle carceri. Questo non significa essere buonisti significa applicare la Costituzione. E quindi la certezza della pena che, ripeto, non deve necessariamente coincidere con il carcere. Il progetto Nordio, della commissione che io ho presieduto venti anni fa, anticipava la riforma Cartabia, dove la applicazione di misure alternative poteva essere disposta direttamente dal giudice della cognizione, anticipando tutte quelle cose che poi in parte anche per merito vostro sono state recepite”. Nordio difende le misure alternative (e rende a Piccirillo l’onore delle armi) di Errico Novi Il Dubbio, 26 ottobre 2022 È la conferma di una linea cauta, della volontà di misurare i passi. Carlo Nordio esordisce a via Arenula, e diffonde il primo comunicato da guardasigilli, con un ritorno sul principio cardine del suo inizio mandato: “L’input che servirà a questo ministero, almeno nella prima fase, la priorità assoluta, è una giustizia efficiente. Ogni altro indirizzo sarebbe affrontato in un secondo tempo”. E quindi riforme ambiziose come la separazione delle carriere o l’inappellabilità delle assoluzioni dovranno attendere. Eppure, nello stesso tempo, il guardasigilli non manca di spendere parole da garantista autentico proprio sul punto che più lo allontana dalle posizioni di FdI: le misure alternative al carcere. Perché sì, “garantismo” vuol dire “presunzione di innocenza” e anche, secondo il ministro, “certezza dell’esecuzione della pena”. Ma quest’ultima, appunto “non coincide necessariamente con il carcere”. Concetto rafforzato dalla necessità che nell’eseguire qualsiasi condanna ci si orienti “alla rieducazione”. E questo, dice ancora Nordio, “noi cercheremo di farlo attraverso la riorganizzazione del sistema carcerario che a me sta molto a cuore. Le prime visite pastorali, se così le possiamo chiamare, saranno fatte nelle carceri”. Quindi osserva: “Questo non significa essere buonisti” ma “applicare la Costituzione. Il progetto Nordio, della commissione che ho presieduto, anticipava la riforma Cartabia, dove l’applicazione di misure alternative poteva essere disposta direttamente dal giudice della cognizione”. Previsioni che “poi in parte sono state recepite”. Il ministro della Giustizia ne parla in occasione del saluto al capo di gabinetto uscente Raffaele Piccirillo, che ha avuto il merito di saper ricoprire con equilibrio il ruolo con due figure distanti tra loro come Bonafede e Cartabia. Secondo Nordio, Piccirillo merita “gratitudine” per “il lavoro eccellente” che ha svolto. La scelta di avvicendarlo, spiega il guardasigilli, è stata dettata dal fatto che il nuovo capo gabinetto, Alberto Rizzo, “è stato premiato come il massimo organizzatore di un Tribunale di media entità”, Vicenza, dove “ha utilizzato le risorse in modo quasi miracoloso”. Obiettivo che adesso è, appunto la priorità. Da realizzarsi, aggiunge il ministro, anche con un’alleanza “tra magistratura e avvocatura”. Idea che lo avvicina una volta di più a Sergio Mattarella. “Meno carcere” dice il capo del Dap Renoldi. Lo cacceranno? di Angela Stella Il Riformista, 26 ottobre 2022 “Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio di quest’anno sono stati 71 i suicidi in carcere. È indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”: in queste poche righe ieri il premier Giorgia Meloni nel suo discorso di insediamento ha ribadito la visione carcerocentrica di Fratelli d’Italia, in buona compagnia della Lega su questo. Dunque nessun accenno alle misure alternative, ma benzina al solito slogan “certezza della pena è certezza del carcere”, benché la Costituzione parli di “pene”, declinabili in vari modi. Mentre Meloni pronunciava alla Camera queste parole, al Salone della Giustizia in corso a Roma interveniva il capo del Dap, Carlo Renoldi, che delineava un’altra prospettiva: “In tutti i sistemi penitenziari esiste un catalogo di sanzioni che va ben oltre il carcere e che anzi vede, in misura maggiore, il ricorso a misure meno costose, in termini economici e sociali, rispetto al carcere. L’esperienza statunitense, ad esempio, pur caratterizzata da elevatissimi tassi di carcerizzazione, è connotata da un amplissimo ricorso alle misure di probation, ovvero alle misure alternative. Dunque, se anche il problema della pena si affrontasse prevalentemente costruendo nuove carceri, ciò non significherebbe abbandonare la prospettiva delle misure alternative come strumento essenziale. Inoltre, se di nuove carceri si deve parlare - e a mio avviso è anche giusto farlo - lo si deve fare intanto per chiudere quelle vecchie e impresentabili, per costruirne di nuove maggiormente idonee a realizzare, attraverso il trattamento, l’obiettivo del recupero”, ben diverso dalla “giusta punizione” come scopo della pena delineato da Edmondo Cirielli di Fratelli D’Italia in una sua proposta di modifica costituzionale dell’articolo 27 della Costituzione. La domanda sorge spontanea: Carlo Renoldi resterà al suo posto, visto questa divergenza di opinione con la premier e il suo partito? Paradossalmente la risposta dovrebbe essere sì, perché quello stesso partito e la Meloni stessa hanno voluto a via Arenula come Ministro della Giustizia Carlo Nordio per cui andrebbe abolito l’ergastolo, come riferito al Corsera, e che appena nominato ha dichiarato: “La pena, come ho già detto varie volte nei miei scritti, non coincide necessariamente con il carcere”. L’anarchico al 41-bis. È totalmente illegale! di Luigi Manconi Il Riformista, 26 ottobre 2022 La letteratura sul 41-bis si fa via via sempre più nutrita, assumendo i connotati del genere horror. Emerge un interrogativo: esiste un limite all’esecuzione della pena e alla sua afflittività? Viene da chiederselo ripercorrendo la vicenda di Alfredo Cospito, che ha intrapreso lo sciopero della fame all’interno della casa circondariale di Bancali, a Sassari, per denunciare le condizioni cui si trova costretto dal regime di 41-bis al quale è sottoposto dall’aprile scorso, dopo sei anni in Alta Sicurezza. Cospito è un anarchico condannato per strage perché così prevede il dispositivo del reato, anche se l’attentato in questione non ha provocato conseguenze letali. Nella notte tra il 2 e il 3 giugno del 2006, alla scuola Allievi Carabinieri di Fossano (Cuneo), esplodono due pacchi bomba a basso potenziale che non determinano morti, feriti o danni gravi. Per questo, la Corte d’Assise d’Appello ha qualificato il fatto come strage (art. 422 del Codice penale): delitto contro la pubblica incolumità, che prevede una pena non inferiore ai 15 anni. Successivamente, nel luglio scorso, la Cassazione ha modificato l’imputazione nel ben più grave delitto (contro la personalità interna dello Stato) di strage, volta ad attentare alla sicurezza dello Stato (art. 285 del Codice penale), condannando Alfredo Cospito e Anna Beniamino all’ergastolo. Il verdetto è palesemente abnorme, tanto più se si considera che non si è fatto ricorso a quella fattispecie penale - come ricorda Damiano Aliprandi sul Dubbio - nemmeno nei casi di attentati quale quello di Capaci, che ha provocato la morte di Giovanni Falcone, di sua moglie e degli uomini della scorta, e quello di via D’Amelio contro Paolo Borsellino. Tuttavia, nell’immediato, tenuto conto dell’azione non violenta intrapresa da Cospito l’attenzione va concentrata sulle sue condizioni di reclusione. Fino all’aprile scorso, pur sottoposto al regime di Alta Sicurezza, il detenuto poteva comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli e così partecipare al dibattito della sua area politica, contribuire alla realizzazione di due libri, scrivere e ricevere corrispondenza. Poi tutto è cambiato. Da sette mesi le lettere in entrata vengono trattenute e questo, di conseguenza, induce il detenuto a limitare e ad autocensurare le proprie. Le ore d’aria sono ridotte a due, interamente trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati; la “socialità” è limitata a un’ora al giorno, da passare con tre detenuti. In realtà, con uno soltanto, dal momento che un secondo si trova in isolamento diurno e un altro ormai non esce più dalla propria cella. La conseguenza di tutto ciò è un sistema di vera e propria deprivazione sensoriale: il perimetro dello spazio destinato all’ora d’aria è delimitato da muri alti che interdicono lo sguardo, e la visione del cielo è filtrata da una rete di metallo. “La mancanza di profondità visiva incide sulla funzionalità del senso della vista - scrivono gli avvocati Rossi Albertini e Pintus - e la mancanza di sole limita l’assunzione della vitamina D”. Lo stato di deprivazione sensoriale viene in genere scarsamente considerato, eppure è una delle più efferate conseguenze della natura nociva e patogena del carcere; oltre alle condizioni igienico-sanitarie spesso degradanti. La limitazione dei movimenti e gli orari imposti d’autorità, l’impossibilità di avere scambi e rapporti liberi, la determinazione dall’esterno dei ritmi quotidiani di vita e il controllo sugli spazi più intimi: tutto ciò produce una “postura del carcerato” che finisce inevitabilmente con l’ottundere e deprimere la personalità. Si tratta, in tutta evidenza, di una condizione totalmente illegale e di uno stravolgimento della lettera e del senso della legge che affida al regime di 41-bis il solo ed esclusivo scopo di impedire i legami tra il recluso e l’organizzazione criminale esterna alla quale apparterrebbe. Tutto ciò che eccede tale finalità è fuori legge. Che cosa ha a che vedere, infatti, con la ratio della norma il blocco della corrispondenza o quella miserabile apparenza di ora d’aria e di “socialità”? 41 bis, corrispondenza trattenuta indebitamente tra detenuto e legale: ora decide la Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 26 ottobre 2022 Il ricorso presentato dall’avvocata Mori ha superato il primo vaglio della Corte europea per la vicenda di un recluso a Parma, al quale per la mancata consegna delle missive sono scaduti i termini per la presentazione di atti. Superato il primo filtro alla Corte europea di Strasburgo (Cedu) il ricorso relativo all’indebito trattenimento della corrispondenza tra difensore e un detenuto in 41 bis nonostante la sentenza della Consulta lo abbia dichiarato incostituzionale. È accaduto al carcere di Parma, il quale non ha mai consegnato al ricorrente le procure per un ricorso, speditegli dal difensore, facendo decorrere il termine per la presentazione. Il ricorso alla Corte Europea, argomentato dall’avvocata Marina Silvia Mori, ha quindi superato il filtro iniziale. Si tratta di un iter complesso che coinvolge gli esperti della cancelleria che verificano se ci sono gli estremi delle violazioni. Il ricorso ha superato questo filtro ed è stato registrato, ora si attende di arrivare alla realizzazione del secondo passo: la comunicazione al governo italiano. Il tema è di vitale importanza, perché secondo l’art. 34 della Cedu, uno di quelli di cui si solleva la violazione, “le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto”. E ciò ovviamente vale anche per i 41 bis. D’altronde è esattamente la ferma presa di posizione assunta dalla sentenza della Corte costituzionale 18/2022, che restituisce, da un lato, dignità alla figura del difensore e, dall’altro, ribadisce il ruolo fondamentale, nella architettura costituzionale, del diritto di/alla difesa. La corrispondenza al 41 bis tra detenuto e avvocato è stata ben disciplinata - La vicenda è ben argomentata dall’avvocata Silvia Mori nel ricorso alla Cedu. Sottolinea che la corrispondenza tra il difensore e l’assistito detenuto al 41 bis è sempre stata disciplinata nei seguenti termini: ogni comunicazione che non rechi l’indicazione “corrispondenza per motivi di giustizia” con il numero di procedimento in cui il difensore è nominato e l’autentica della firma del difensore da parte di un consigliere dell’Ordine degli Avvocati di appartenenza, viene aperta dalla struttura penitenziaria e sottoposta a visto di censura anche se - apparentemente - proveniente dal difensore. Viceversa, l’utilizzo della procedura di cui all’art. 35 disp. att. c.p.p. garantisce che la corrispondenza non possa essere sottoposta a censura. Nel ricorso, vengono quindi elencate le norme rilevanti, tra le quali l’art. 103 c. 6 c.p.p dove dice che “sono vietati il sequestro e ogni forma di controllo della corrispondenza tra l’imputato e il proprio difensore in quanto riconoscibile dalle prescritte indicazioni, salvo che l’autorità giudiziaria abbia fondato motivo di ritenere che si tratti di corpo del reato”. In sintesi, viene argomentato nel ricorso alla Cedu, è sempre stata una scelta del difensore se avvalersi della procedura specifica a garanzia della riservatezza della corrispondenza, o se consentire che le comunicazioni con l’assistito venissero sottoposte al vaglio di censura. Consulta: illegittima la censura della corrispondenza tra legale e recluso - Viene quindi ricordato che la Corte Costituzionale, con sentenza 18/2022 depositata il 24 Gennaio 2022, è intervenuta sulla corrispondenza tra il difensore e l’assistito in 41 bis, dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 41-bis, comma 2- quater, lettera e), della legge 26 luglio 1975, n. 354, nella parte in cui non esclude dalla sottoposizione a visto di censura la corrispondenza intrattenuta con i difensori. In particolare, fulcro del ragionamento della Corte è il seguente paragrafo: “la disposizione censurata si fonda su una generale e insostenibile presunzione - già stigmatizzata dalla sentenza n. 143 del 2013 — di collusione del difensore con il sodalizio criminale, finendo così per gettare una luce di sospetto sul ruolo insostituibile che la professione forense svolge per la tutela non solo dei diritti fondamentali del detenuto, ma anche dello stato di diritto nel suo complesso. Ruolo che, per risultare effettivo, richiede che il detenuto o internato possa di regola comunicare al proprio avvocato, in maniera libera e riservata, ogni informazione potenzialmente rilevante per la propria difesa, anche rispetto alle modalità del suo trattamento in carcere e a violazioni di legge o di regolamento che si siano, in ipotesi, ivi consumate”. Dopo la sentenza della Consulta le direzioni hanno adottato criteri diversi - Ma cosa accade? Lo spiega sempre l’avvocata Mori nel ricorso. All’esito della pronuncia della Corte Costituzionale le varie strutture penitenziarie “reagivano” in modi diversi. La corrispondenza “ordinaria” del difensore (quella, cioè, la cui provenienza non poteva essere ritenuta certa, in quanto la firma del mittente non era autenticata dal Consiglio dell’Ordine), e che poteva - e doveva - essere sottoposta a censura, non era aperta e “vistata” dalla Direzione del carcere, ma veniva indebitamente trattenuta (in assenza di norma specifica) e/o ritrasmessa al mittente dopo settimane o mesi. In alcuni casi, invece, la struttura detentiva contattava telefonicamente o via Pec il difensore per avere conferma dell’invio della missiva da parte del medesimo (altra procedura non prevista da alcuna norma di legge). Il difensore ha appreso della mancata consegna della posta in un colloquio - Il difensore, con raccomandata del 17 marzo 2022, ha inviato al ricorrente le procure da sottoscrivere per il ricorso alla Corte europea in relazione alla mancata celebrazione di una udienza. La raccomandata, come da stampa del sito ufficiale di Poste Italiane, era recapitata al carcere il 24 marzo 2022. Poiché nelle settimane successive il difensore non ha ricevuto alcuna notizia dal ricorrente, ha proceduto all’invio di un telegramma il 5 aprile 2022, sollecitando l’invio delle procure vista la prossima scadenza del termine. Anche in questo caso, non giungevano alcune risposte dal detenuto. Solo in occasione del successivo colloquio in presenza del 30 maggio 2022 presso il carcere di Parma il difensore ha appreso che al suo assistito non erano mai state consegnate né la raccomandata contenente le procure da sottoscrivere, né il successivo telegramma. Detti invii non sono stati oggetto di trattenimento a seguito di provvedimento giudiziale (mai notificato né al difensore né al detenuto) e neppure sono mai stati ritrasmessi al mittente. Il risultato? Il termine per la presentazione del ricorso alla Corte è inesorabilmente decorso, sebbene la struttura penitenziaria avesse ricevuto le procure il 24 marzo 2022. Il ritorno al passato del Dap che evita di reiterare violazioni come quelle di Parma - Viene sottolineato, a conferma del caos che è seguito alla sentenza della Corte Costituzionale - ovvero che ogni struttura ha interpretato a modo proprio comportando notevoli violazioni nel diritto di difesa - il Dap è finalmente intervenuto con una comunicazione del 5 agosto scorso con la quale, finalmente, si precisava “in assenza dei requisiti di forma appena indicati, la corrispondenza sarà doverosamente sottoposta al visto di censura”. Un ritorno al passato che però evita di reiterare le gravi violazioni avvenute nel frattempo. Sempre nel ricorso alla Cedu, si segnala, in considerazione del destinatario di questo ricorso, cosa consiglia il Dap in caso di corrispondenza con il difensore nominato per un ricorso alla Corte europea: in quel caso, in attesa del numero di procedimento conseguente al superamento del filtro, per evitare il visto di censura “potrà eccezionalmente considerarsi sufficiente - ai fini della compiuta indicazione del procedimento - l’allegazione dei documenti attestanti l’avvenuto deposito presso la Cedu dell’atto introduttivo del procedimento”. Il detenuto ricorrente e il suo difensore stanno quindi cercando di comprendere - visto che il numero di protocollo viene ottenuto con il superamento del filtro - cosa, effettivamente, dovrebbe essere indicato sulla corrispondenza con il detenuto: forse il numero della raccomandata di invio? A tal proposito si teme che seguiranno altri ricorsi, a fronte della soluzione adottata dal ministero della Giustizia. Giustizia: non è Carlo Nordio la stella polare di Giorgia Meloni di Tiziana Maiolo Il Riformista, 26 ottobre 2022 Il guardasigilli vuole una rivoluzione copernicana con l’effettiva parità tra accusa e difesa. Ma sulla lotta alla mafia la premier sceglie un’altra strada. Per non parlare poi dell’appello a salvare il regime ostativo. Lui pensa a una rivoluzione copernicana. Lei la inscrive nel cerchio della “legalità”, della “certezza della pena” e della “lotta alla mafia”. Non proprio un freno, le parole pronunciate ieri sulla giustizia dalla Presidente del consiglio Giorgia Meloni, rispetto al suo ministro rivoluzionario, il più garantista della storia, Carlo Nordio. Non è un freno, anche perché il suo guardasigilli l’ha scelto e voluto lei personalmente, anche come candidato Presidente della repubblica, prima ancora che negli uffici romani di via Arenula. Ma è sicuramente almeno un incontro diacronico, quello tra i due, e un po’ strabico di principi e storie. Quando lei dice che legalità vuol dire anche effettiva parità tra accusa e difesa e ragionevole durata del processo, fila via tutto dritto. Sta parlando Nordio, con il suo programma di rivoluzione copernicana. Che poi, come lui stesso ha spiegato nei giorni scorsi in alcune interviste, consiste solo nell’effettiva applicazione del codice di procedura penale Vassalli che, nel 1989, avrebbe dovuto introdurre nell’ordinamento italiano il sistema anglosassone. Quello basato sull’effettiva parità tra accusa e difesa e con la prova formata in aula e non più nelle segrete stanze di pubblici ministeri e giudici istruttori, come era nel sistema inquisitorio. Ma va ricordato, e se non lo sa Meloni, non può ignorarlo Nordio, che già dai primi momenti quel codice fu definito solo “tendenzialmente” accusatorio. E anche che in seguito una serie di norme volute dal Parlamento, ma anche decisioni della Corte Costituzionale, lo hanno ammorbato con incursioni inquisitorie. Che andranno spazzate via. Questo è accaduto soprattutto nei “maxiprocessi” e nell’applicazione costante e selvaggia dei reati associativi, che ha fatto accantonare ogni sogno rivoluzionario. Nell’aula dove si celebra il processo non accade affatto quel che abbiamo visto nel passato con Perry Mason e ancora oggi in tante serie tv americane. Dibattimenti in cui si formano le prove, accadono imprevisti e giochi di prestigio di accusa e difesa. Tutto si sviluppa e si decide lì. Infatti i processi si celebrano subito, non dopo anni. Nel processo italiano è tutto già scritto e visto nelle mani di un pubblico ministero portatore di un potere immenso, come non accade in nessun ordinamento del mondo occidentale. E tutto viene gonfiato dai media. E nei processi di mafia in particolare, le testimonianze rese dai “pentiti” in altre inchieste o procedimenti entrano nell’aula insieme al fascicolo del pm. Ma la prova non dovrebbe formarsi nel dibattimento? Giorgia Meloni non si è mai occupata direttamente di giustizia. Però la sua storia politica ha una nascita con una data precisa, e lei lo ha ricordato diverse volte, il 19 luglio del 1992. Lei aveva quindici anni, e un magistrato siciliano, Paolo Borsellino, quel giorno veniva assassinato dalla mafia. La giovane Giorgia reagì con rabbia, con quel grumo quasi sputato fuori dalla gola, come solo gli adolescenti sanno fare. Lo ha trasformato in progetto politico, dice. E lo ripete a voce alta, improvvisamente superando quel noioso raschino alle corde vocali che l’emozione le ha punteggiato gran parte del suo intervento alla Camera dei deputati. Il (la) Presidente del Consiglio assume un impegno forte, come non si è mai sentito in quest’aula neppure sulla bocca dei più ferventi militanti dell’antimafia. Pone la legalità come “stella polare dell’azione di governo”, grida “affronteremo il cancro mafioso a testa alta” e lancia la sua sfida a “criminali e mafiosi” che meriteranno solo “disprezzo e inflessibilità”. Qui Giorgia Meloni parla con il cuore e i sentimenti. Ma ha già abbandonato Carlo Nordio con il suo programma di rivoluzione copernicana sulla giustizia. Perché è vero che spetta al governo combattere ogni forma di criminalità e anche le gravi forme di devianza sociale. Le mafie le incarnano tutte e due. Ma manca un “però”, alla sua invettiva. Che ha comunque avuto successo, e non a caso è piaciuta a Rita Dalla Chiesa, neo-parlamentare e figlia di una delle vittime più illustri di Cosa Nostra, e anche a Maria Falcone, sorella di Giovanni, che non rinuncia purtroppo ad accompagnare i complimenti con una frasetta a bocca stretta, “aspettiamo i fatti”. Il “però”, che sicuramente Nordio avrebbe aggiunto, è che anche i processi per mafia dovrebbero sottostare alle regole che la stessa Meloni ha indicato nella prima parte delle sue (poche) parole sulla giustizia. E qui occorre una precisazione che deve precedere ogni altra riflessione. Nell’indicare come “eroi” Falcone, Borsellino e tutte le altre vittime più illustri della mafia, il (la) Presidente del Consiglio ha un po’ confuso i ruoli tra gli organi dello Stato. Cioè da una parte le forze dell’ordine, che sono chiamate a lottare e sconfiggere i fenomeni criminali, e il compito dei magistrati, che devono limitarsi a indagare per individuare i responsabili di ogni delitto. Guai però quando il pm scende nell’agone della lotta, si mette a ingaggiare il corpo a corpo, inoltrandosi su terreni che non devono mai essere i suoi. Non essendo lui il rappresentante del governo. Per capire e superare questa confusione di ruoli, bisognerebbe che le regole del “giusto processo” cominciassero a transitare prima di tutto, per esempio nella maxi-aula di Lamezia dove si celebra (si dovrebbe celebrare) il processo “Rinascita Scott”. O in quella di Reggio Calabria dove è in corso un nuovo “processo trattativa”, dopo quello fallimentare di Palermo e dove a un detenuto di nome Graviano è stato donato un computer perché possa riascoltare con calma le sue stupidaggini su Silvio Berlusconi. Ecco, questi due esempi mostrano come la lotta alla mafia da parte del governo dovrebbe passare prima di tutto dall’attenzione sulle regole e sulla loro applicazione. Non c’è bisogno di sottoporre il pubblico ministero al controllo del governo, come ha già detto il ministro Nordio. Ma il guardasigilli ha comunque il dovere di controllare che il processo si svolga nell’applicazione delle norme e dei principi costituzionali. Sull’applicazione della custodia cautelare, per esempio. In qualche intervista Carlo Nordio ha già mostrato di avere le idee chiare sul punto, dicendo che “il diritto alla libertà personale merita una garanzia in più. Credo che la richiesta di arresto formulata da un pm dovrebbe essere vagliata da un collegio di giudici, meglio se di città diverse da quella del pm…”. O il problema delle intercettazioni, che il nuovo guardasigilli considera “strumento invasivo e anticostituzionale, che dovrebbe essere relegato tra gli spunti investigativi”. Viene alla mente Giovanni Falcone, quando diceva che la deposizione del “pentito” deve essere solo uno dei tanti spunti investigativi, da usare come apriscatole e non come prova. Una cultura, o meglio culture che andranno applicate -ma ci vorrà del tempo, perché Nordio ha anche il problema di farsi accettare dai suoi ex colleghi magistrati- a norme come quella sull’abuso d’ufficio piuttosto che sul traffico di influenze e la “legge Severino”, o il famigerato concorso esterno in associazione mafiosa, che addirittura non esiste nel codice. Ma siamo sempre nelle fasi processuali, quando l’imputato è ancora innocente secondo la Costituzione. Potremmo assistere a una vera divaricazione all’interno dello stesso governo, e soprattutto se il guardasigilli sarà affiancato da viceministri e sottosegretari di cui già conosciamo l’adesione ai principi dello Stato di diritto, quando si entra nel campo dell’esecuzione. Purtroppo Giorgia Meloni anche nel suo esordio come primo ministro, non ha dimenticato di parlare di “certezza della pena” e di un nuovo “piano carceri”. E qui vorremmo per un attimo poter tirare la giacchetta alla ministra or ora uscita dal governo Marta Cartabia, che sul tema ha mostrato di aver molto da insegnare. E auguriamoci che certezza della pena non significhi, nella testa di Giorgia Meloni, certezza del carcere. Però lo stesso Nordio che ha in mente lo schema del processo anglosassone, potrebbe spiegare al(la) Presidente l’istituto americano della “probation” e delle misure alternative. Se c’è bisogno di nuove carceri, potrebbe essere, come ha detto il capo del Dap Carlo Renoldi, di cui auspichiamo il permanere nel suo ruolo, solo per sostituire quelle più fatiscenti. Come a dire che non occorre arrestare di più per fare giustizia. Ma noi aspettiamo la realizzazione di quello che Nordio ha messo tra i primi punti del suo programma: la depenalizzazione. Giorgia sarà d’accordo? P.S. Nella replica alla Camera il (la) Presidente del consiglio ha chiesto a tutte le forze politiche di difendere insieme l’ergastolo ostativo. Ma Nordio si è ricordato di dirle di essere contro l’ergastolo? Mafia, separazione delle carriere e (un’altra) riforma della magistratura di Giuseppe Pipitone Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2022 Che cosa ha detto Meloni sulla giustizia nel discorso alla Camera. Nel suo lungo discorso per chiedere la fiducia alla Camera, la neo presidente del consiglio ha toccato anche alcuni dei punti del programma relativi alla giustizia, annunciando una nuova riforma sull’ordinamento giudiziario (quella di Cartabia è stata appena approvata), un piano carceri (senza dire dove prenderà i fondi) e nuove leggi sulla giustizia minorire. Poi ha definito l’ergastolo ostativo “uno degli istituti più efficaci della lotta alla mafia”. La separazione delle carriere e una nuova riforma dell’ordinamento giudiziario, nonostante l’ultima sia appena entrata in vigore. E poi l’obiettivo che piace a tutti ma che nessuno (finora) è stato in grado di realizzare: i processi più veloci. Nel suo lungo discorso per chiedere la fiducia alla Camera Giorgia Meloni ha toccato anche alcuni dei punti del programma relativi alla giustizia. “Legalità vuol dire anche una giustizia che funzioni, con una effettiva parità tra accusa e difesa e una durata ragionevole dei processi, che non è solo una questione di civiltà giuridica e di rispetto dei diritti fondamentali dei cittadini, ma anche di crescita economica: la lentezza della giustizia ci costa almeno un punto di pil l’anno secondo le stime di Bankitalia”, ha detto la capa del governo. Effettiva parità tra accusa e difesa significa appunto la separazione delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti: un punto che è da sempre nel programma di centrodestra e che anche recentemente Carlo Nordio, neo ministro della Giustizia, ha inserito tra le sue priorità. La riforma delle toghe - Va detto che l’ultima riforma di Marta Cartabia dell’ordinamento giudiziario ha già limitato la possibilità di passare dalle funzioni di pm a quelle di giudice e viceversa: potrà avvenire un solo passaggio e soltanto entro i dieci anni dalla prima assegnazione del magistrato. Praticamente è una separazione delle carriere de facto. Meloni, però, ha annunciato pure l’intenzione di mettere mano all’ultima riforma varata dal governo di Mario Draghi in tema di toghe. “Rivedremo anche la riforma dell’ordinamento giudiziario, per mettere fine alle logiche correntizie che minano la credibilità della magistratura italiana”. La riforma del Csm e dell’ordinamento giudiziario della Cartabia, approvata solo pochi mesi fa, doveva servire proprio a questo: a limitare lo strapotere delle correnti. Un obiettivo fallito anche se, subito dopo aver giurato al Quirinale, il nuovo guardasigilli Nordio aveva sostenuto che la riforma Cartabia “andava nella direzione assolutamente giusta ma aveva dei limiti”. Evidentemente il nuovo esecutivo intende mettere mano a quei limiti: resta da capire quali siano, secondo il nuovo titolare del dicastero di via Arenula. Giustizia minorile e piano carceri - Nel suo discorso Meloni ha pure spiegato che il suo governo intende mettere mano alla “giustizia minorile, con procedure di affidamento e di adozione garantite e oggettive, perché non ci siano mai più casi Bibbiano, e intendiamo portarlo a termine”. La questione Bibbiano è stata spesso agitata dalla destra in campagna elettorale per attaccare il Pd. E in effetti Fdi aveva inserito una riforma della giustizia minorile nel suo programma: prevedeva l’eliminazione dei Tribunali per i minorenni e l’istituzione di sezioni specializzate presso ogni tribunale. Meloni, alla Camera, non è scesa nei dettagli ma si è limitata a concetti generici. Sempre nel programma di Fdi si parla di un piano carceri, altro tema toccato oggi da Meloni che ha citato anche l’altro numero di suicidi avvenuti nei penitenziari nell’ultimo anno. “Lavoreremo per restituire ai cittadini la garanzia di vivere in una Nazione sicura, rimettendo al centro il principio fondamentale della certezza della pena, grazie anche a un nuovo piano carceri. Dall’inizio di quest’anno sono stati 71 i suicidi in carcere. E’ indegno di una nazione civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”. Resta inevaso un interrogativo: dove il governo a guida Fdi intenda recuperare i fondi per la costruzione di nuovi penitenziari. La lotta alla mafia - Ampio spazio del suo discorso la nuova capa del governo lo ha dedicato alla lotta alla mafia. Lo ha fatto quando ha deciso di ricordare, ancora una volta, di aver cominciato a far politica dopo l’omicidio di Paolo Borsellino. “Ho iniziato a fare politica a 15 anni, il giorno dopo la strage di Via D’Amelio, nella quale la mafia uccise il giudice Paolo Borsellino, spinta dall’idea che non si potesse rimanere a guardare, che la rabbia e l’indignazione andassero tradotte in impegno civico. Il percorso che mi ha portato oggi a essere presidente del Consiglio nasce dall’esempio di quell’eroe”, ha detto Meloni. Che poi ha promesso: “Affronteremo il cancro mafioso a testa alta, come ci hanno insegnato i tanti eroi che con il loro coraggio hanno dato l’esempio a tutti gli italiani, rifiutandosi di girare lo sguardo o di scappare, anche quando sapevano che quella tenacia li avrebbe probabilmente condotti alla morte. Magistrati, politici, agenti di scorta, militari, semplici cittadini, sacerdoti. Giganti come Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rosario Livatino, Rocco Chinnici, Pio La Torre, Carlo Alberto Dalla Chiesa, Piersanti Mattarella, Emanuela Loi, Libero Grassi, don Pino Puglisi, e con loro un lunghissimo elenco di uomini e donne che non dimenticheremo. La lotta alla mafia ci troverà in prima linea. Da questo Governo, criminali e mafiosi non avranno altro che disprezzo e inflessibilità”. La questione dell’ergastolo ostativo- Nel suo primo discorso in Parlamento nella nuova veste di capa del governo, dunque, Meloni ha deciso di dedicare ampio spazio alla questione mafiosa, facendo in aula i nomi e i cognomi dialcune tra le principali vittime eccellenti di Cosa nostra. Citazioni dal grande valore simbolico ma che lasciano il tempo che trovano se non saranno sostenute da scelte precise. Nel caso di Fratelli d’Italia - il partito principale di governo - il precedente dell’appoggio dato a Renato Schifani - archiviano per concorso esterno - in Sicilia vale come monito. Ora che Meloni è a Palazzo Chigi altri saranno i banchi di prova. Per esempio: davvero il nuovo governo intende risparmiare sulle intercettazioni - mezzo fondamentale di lotta alla mafia - come ha annunciato il ministro Nordio? E cosa farà il nuovo esecutivo sulla questione dell’ergastolo ostativo? “Uno degli istituti più efficaci della lotta alla mafia, spero che su questo ci si voglia dare una mano”, ha detto Meloni nella sua replica. Senza una riforma, che il precedente Parlamento ha affossato poco prima della fine della legislatura, i boss delle stragi potrebbero tornare in libertà anche senza collaborare con la magistratura. Dopo due rinvii, infatti, la nuova udienza della Consulta è fissata per l’8 novembre prossimo. Nordio: “Convoco i sindaci e abolisco l’abuso d’ufficio” di Antonella Mascali e Giacomo Salvini Il Fatto Quotidiano, 26 ottobre 2022 “Il mio primo atto: convoco i sindaci e abolisco l’abuso d’ufficio. Sono proprio gli amministratori di sinistra ad averlo chiesto per primi”. Alle sette di sera di ieri il nuovo Guardasigilli Carlo Nordio e il responsabile giustizia di Fratelli D’Italia Andrea Delmastro si ritrovano nella sala lettura della Camera. E lì concordano la linea. “È una riforma - dice Nordio - che serve dal punto di vista economico perché sblocca la macchina amministrativa ed elimina la paura dei sindaci della firma che può portare ad avvisi di garanzia”. L’abuso d’ufficio è una priorità, ma ci sono anche altre grane che il neo ministro deve risolvere, ereditate dalla riforma Cartabia, che entrerà in vigore il 1° novembre. Ecco dunque le “rogne” che attendono Nordio e che preoccupano molto le toghe. Carenza di magistrati. Mercoledì il plenum del Csm ha approvato una delibera in cui si dice che è di “assoluta gravità” la scopertura dell’organico. “Su 10.771 magistrati previsti per legge” ne mancano, negli uffici giudiziari, “1.859”. Una carenza destinata a crescere “per effetto dei futuri pensionamenti e che sortirà effetti negativi sulla possibilità di raggiungere gli ambiziosi obiettivi fissati dal Pnrr”. Si avranno nuovi magistrati “non prima dell’estate del 2024”, per effetto dei concorsi 2019 e 2021. Tra il concorso e la presa di servizio passano 4 anni. Ecco perché il Csm chiede al neo ministro Nordio di ridurre il tirocinio da 18 a 12 mesi e di tornare alla prova scritta pre-covid, per quanto riguarda il concorso, “maggiormente idonea”. Svuota carceri. Si ampliano i reati perseguibili non più d’ufficio, ma a querela di parte. Tra questi, tutte le specie di furto anche con danneggiamento, il sequestro semplice, la minaccia, le lesioni stradali, senza aggravanti. Quindi, dal 1° novembre la querela deve essere contemporanea alla denuncia. Ma questa norma si applica anche ai procedimenti in corso. Per cui, se le vittime di un reato, che hanno già denunciato, non sporgeranno pure querela entro il 30 gennaio, dopo la comunicazione del pm, se sono in corso le indagini oppure entro 3 mesi dalla comunicazione del giudice, se c’è un processo in corso, quel reato sarà estinto. Potrebbero, cioè, in astratto, esserci migliaia di impuniti. Pene brevi. Potranno avere una pena alternativa al carcere anche detenuti a “pene brevi”, adesso in prigione perché ritenuti, ad esempio, socialmente pericolosi. Mentre finora il giudice della “cognizione” poteva decidere pene alternative al carcere in caso di condanne fino ai 2 anni, adesso lo potrà fare anche per pene fino ai 4 anni. Riforma ostativo. L’ex maggioranza, a eccezione del M5s, ha fatto saltare in Senato l’approvazione della riforma dell’ergastolo ostativo ordinata al Parlamento dalla Consulta. Quindi, il nuovo Parlamento deve ricominciare da zero, ammesso che l’8 novembre la Corte non decida da sé invece di rinviare, come già fatto a maggio, per aspettare il Parlamento. Nuove competenze gip-gup. Nasce quella che viene chiamata “udienza di comparizione predibattimentale”, ossia un’udienza preliminare per le citazioni dirette. Finora, queste, invece, vanno, su richiesta del pm, direttamente al giudice monocratico. Altra nuova competenza, è quella di dover stabilire eventuali misure alternative alla detenzione, mentre prima spettava ai giudici di Sorveglianza. Dunque, più lavoro, a carenze di organico invariate. Tempi più lunghi assicurati. Ritardata iscrizione. Una delle tante nuove spade di Damocle sulla testa dei pm sarà l’eventuale dichiarazione, da parte di un giudice, in ogni grado del giudizio, di ritardata iscrizione della notizia di reato. Una manna per le difese di imputati “eccellenti”: se la contestazione si conclude con la retrodatazione della iscrizione, determinati atti, saranno dichiarati nulli. Il presidente dell’Anm, Giuseppe Santalucia, con Il Fatto lamenta l’assenza per più punti della riforma, anche quelli appena spiegati, di una norma transitoria e fa una richiesta al ministro Nordio: “È necessaria una norma transitoria che copra tutti i settori della riforma, dato che si potrebbero creare incertezze applicative e di conseguenza rallentamenti dell’azione giudiziaria. Nel frattempo sarebbe auspicabile un periodo di vacatio legis (sospensione della riforma, ndr) più lunga degli ordinari 15 giorni, a causa dei riassetti degli uffici che la riforma impone”. La mossa disperata del Pd: candidare Cartabia per strappare il Csm alla destra di Giulia Merlo Il Domani, 26 ottobre 2022 Dopo la decisione sui sottosegretari dovranno essere eletti i dieci laici tra cui verrà scelto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Il candidato di FdI è Valentino, l’ex ministra potrebbe sfidarlo. Il Transatlantico, lungo corridoio antistante l’aula di Montecitorio, è una fiera delle vanità in cui rimbalzano le voci più varie e la giustizia è tornata argomento di conversazione. Gli occhi di tutti guardano in due direzioni: via Arenula e palazzo dei Marescialli. Al ministero la partita si è chiusa sul nome di Fratelli d’Italia, l’ex magistrato Carlo Nordio. Ma la nomina dei sottosegretari si intreccia con la partita delicata del Consiglio superiore della magistratura, che attualmente funziona in regime di prorogatio. Sull’organo di governo autonomo della magistratura, il centrosinistra e in particolare il Pd intende sfidare la maggioranza di governo e cercherà di riconquistare la vicepresidenza - come già fatto con l’uscente David Ermini - sfruttando le dinamiche interne. La doppia ipotesi Sisto - Il più nominato all’interno del centrodestra è l’attuale sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, avvocato barese di Forza Italia. Stimato dagli avvocati e dai magistrati, viene indicato sia per un ritorno al ministero della Giustizia, dove il suo partito reclama un posto di sottogoverno, sia come candidato vicepresidente del Csm. Senatore di carattere e competenza, Berlusconi lo vorrebbe al fianco di Nordio per presidiare un dicastero importante. Il diretto interessato - il cui braccio operativo è stato spesso provvidenziale anche per la ministra uscente Marta Cartabia nell’approvazione della riforma e nella stesura dei decreti attuativi - dovrebbe però essere disponibile a un secondo giro da sottosegretario dopo aver mancato il posto da ministro. Per questo il Csm sarebbe una buona soluzione. In teoria tutto fila, in pratica ambienti di FI considerano quella della vicepresidenza a Sisto poco più che un’ipotesi di scuola, con scarsa probabilità di andare in porto. Il senatore, infatti, è considerato un politico fondamentale nella compagine azzurra a palazzo Madama. Costringerlo in una posizione pur prestigiosa ma esterna alla politica non convince. Per questo, un altro nome possibile è quello di Pierantonio Zanettin, forte dell’esperienza pregressa al Csm nel quadriennio 2014-2018. Ma in queste ore il favorito sarebbe diventato Giuseppe Valentino, uno dei tre laici che dovrebbe essere eletto in quota Fratelli d’Italia. Penalista calabrese, ex senatore e presidente della fondazione Alleanza nazionale, sarebbe lui l’uomo in grado di ottenere il gradimento dei togati e raggiungere i 18 voti che normalmente servono per l’elezione del vicepresidente. L’opzione Cartabia - Anche il Partito democratico si sta muovendo. Se prima del voto il nome più probabile era quello di Anna Rossomando, ora l’ipotesi di un suo passaggio a palazzo Marescialli è fuori discussione, visto che è stata eletta vicepresidente del Senato. In ambienti dem si riflette sul fatto che, per mantenere la vicepresidenza grazie ai voti dei consiglieri togati, la strada più intelligente è quella di puntare su un nome tecnico, che possa piacere anche ai magistrati moderati. Per questo nella rosa di nomi la più accreditata è l’ex ministra Cartabia, che potrebbe trovarsi così a competere con il suo ex sottosegretario. Dopo l’esperienza a via Arenula l’ex presidente della Consulta dovrebbe tornare nella sua Milano, dove l’attende una cattedra all’università Bocconi. Ma starebbe facendo di tutto per rimanere a Roma. Il Csm sarebbe un’ottima soluzione a patto che le venga garantita la possibilità di diventare vicepresidente. Difficilmente, infatti, una ministra uscente, da molti indicata come papabile per la presidente della Repubblica e del Consiglio, potrebbe accettare di essere una semplice “laica di minoranza”. Il problema è che il Pd, al momento, non sembra in grado di darle queste rassicurazioni. Magistratura indipendente, la corrente che esprime 7 togati ed è la maggioranza relativa, ha definito “preoccupante” la riforma dell’ex ministra e starebbe già trattando con Meloni per sostenere Valentino. Un problema per Fontana - Il numero magico per essere certi dell’elezione, come detto, è 18. I membri laici, tra cui viene scelto il vicepresidente, sono dieci. La ripartizione dovrebbe essere di 3 posti per Fratelli d’Italia, che ritorna al Csm con i suoi eletti dopo che nel precedente Consiglio aveva passato la mano a Forza Italia, rispettivamente 2 a Lega e Forza Italia e probabilmente uno a testa per Pd, terzo polo e Movimento 5 stelle, anche se i dem, come gruppo più numeroso, potrebbero provare a puntare a due eletti. Tra i venti togati, invece, il nuovo sistema elettorale misto ha prodotto una maggioranza incerta: 7 eletti di Magistratura indipendente; 6 di Area; 4 di Unicost; 2 di Magistratura democratica (di cui uno indipendente) e un indipendente e non collegato a nessun gruppo associativo. A questi si aggiungono i due membri di diritto: il primo presidente della Cassazione, Pietro Curzio, vicino alle toghe progressiste, e il procuratore generale della Cassazione, Luigi Salvato, vicino a Unicost. L’elezione dei consiglieri individuati dal parlamento avverrà nella prima seduta comune di Camera e Senato, che non potrà tenersi prima dell’inizio di dicembre. La legge, infatti, prevede almeno 40 giorni di preavviso per la convocazione dei corpi elettorali. In termini numerici la corrente centrista di Unicost è sicuramente determinante, ma il voto è segreto e dall’urna spesso sono uscite sorprese. Per questo, contatti trasversali sono in corso. Tuttavia, proprio la riforma Cartabia rischia di trasformare il voto per i laici nella prima grana per il presidente della Camera, Lorenzo Fontana. Il radicale Riccardo Magi ha inviato una lettera in cui ricorda che spetta a Montecitorio dare applicazione alla norma della riforma che fissa principi di trasparenza nelle procedure di candidatura e selezione dei candidati laici, nel rispetto della parità di genere. Queste procedure vanno fissate prima del voto e Fontana deve farsene garante, ricorda Magi, “per ciò che attiene le procedure di candidatura”, magari con la presentazione di un curriculum, e per “individuare un metodo di voto che garantisca la parità di genere nell’esito”. Tradotto: i laici dovrebbero essere cinque uomini e cinque donne, e già questo pone una questione politica non secondaria che, insieme all’individuazione di norme di trasparenza, potrebbe ritardare ulteriormente la scelta. Gli esiti della riforma Cartabia: una giustizia penale meno inflessibile ma non meno efficace di Francesco Palazzo* Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2022 Non c’è solo prescrizione, non c’è solo efficienza processuale e deflazione nella riforma della giustizia penale definitivamente varata la settimana scorsa. La prescrizione monopolizzò il dibattito politico e pubblico durante la gestazione della legge, finendo per distrarre l’attenzione dal molto altro che si andava costruendo nel cantiere della riforma. E il tema è probabilmente destinato a rimanere senza pace, fino a che non si riuscirà a ritrovare l’equilibrio perduto tra volume del contenzioso penale e capacità di smaltimento del sistema. L’efficienza e la deflazione processuali sono state le stelle polari europee della riforma, che - bisogna riconoscerlo - ha operato non solo sul consueto terreno delle modifiche dell’ordinamento processuale, ma anche su quello più impervio, anche economicamente, del rafforzamento dell’organizzazione giudiziaria e dell’ampliamento degli organici. Sebbene sollecitata fortemente dall’esigenza di efficientamento della malridotta giustizia penale, la riforma non è un neutrale intervento di meccanica processuale e giudiziaria: qualificanti di una scelta assiologicamente connotata sono i capitoli, anche quantitativamente consistenti, dedicati alla revisione profonda del sistema sanzionatorio: e cioè, il potenziamento delle pene sostitutive del carcere di durata medio-breve e l’introduzione di una disciplina organica della cosiddetta giustizia riparativa. Sia l’uno che l’altra sono riconducibili a una comune ispirazione politico criminale che restituisce alle parti del processo - autore, vittima e pubblico ministero - un ruolo protagonistico; è, in fondo, un’idea di giustizia penale meno rigida; meno statalistica, meno (teoricamente) inflessibile, ma non meno efficace: ai vecchi meccanismi repressivi che gridano molto e concludono poco se ne sostituiscono altri più duttili ma forse più utili a ridurre l’alto tasso di recidiva mediante un più intenso coinvolgimento dell’autore nella sua vicenda giudiziaria. Per esprimere con una parola questo orientamento di fondo che traspare dalla riforma del sistema sanzionatorio, si potrebbe forse parlare addirittura di personalismo, richiamando così un valore costituzionale che non può non illuminare anche l’oscuro orizzonte penale. Questo personalismo si manifesta nella riforma del sistema sanzionatorio con due valenze diverse. Da un lato, secondo una logica essenzialmente consensualistico-negoziale, vengono largamente potenziati istituti in cui la diversificazione sanzionatoria costituisce il corrispettivo della semplificazione processuale o addirittura della rinuncia all’accertamento processuale. Vengono qui in gioco non solo i noti meccanismi del patteggiamento e del giudizio abbreviato, che pure sono stati potenziati dalla riforma. Altrettanto, se non più significativi, sono gli interventi riformatori in tema di reati perseguibili a querela e di estinzione delle contravvenzioni a seguito di adempimento delle prescrizioni imposte dall’autorità (ad esempio in materia alimentare): qui quella sorta di volontaria “composizione sanzionatoria” che si realizza rispettivamente, con la remissione della querela a seguito di soddisfacente risarcimento e con la regolarizzazione della situazione antigiuridica a seguito dell’osservanza delle prescrizioni dell’autorità, consente di chiudere la partita penale con uno “scambio” in grado di soddisfare entrambe le parti in causa. Dall’altro lato, il personalismo della riforma si manifesta secondo una valenza indubbiamente più impegnativa sia per le parti che per l’ordinamento. Ci si muove qui in una logica di chiara marca umanistico-risocializzativa. In primo luogo, il legislatore è tornato a valorizzare le pene sostitutive che il giudice di cognizione può oggi irrogare al posto del carcere fino a quattro anni in concreto; e anche il catalogo delle pene sostitutive è stato arricchito fino a ben quattro specie: semilibertà, detenzione domiciliare, lavoro di pubblica utilità e pena pecuniaria. È stato un passo davvero coraggioso che, pur imponendo al giudice di salvaguardare le esigenze securitarie di difesa sociale, implica un imponente e impegnativo coinvolgimento personalistico dell’autore, chiamato a una sorta di patto con lo Stato orientato alla sua risocializzazione. Questa è la funzione prevalente soggiacente alle nuove pene sostitutive, con l’eccezione evidentemente della sola pena pecuniaria che non ha valenza spiccatamente rieducativa, ancorché sia dotata - forse proprio per ciò - di grandi potenzialità applicative. È augurabile d’altra parte che le altre specie di pene sostitutive, proprio perché contenutisticamente modulate in chiave fortemente rieducativa, in particolare la semilibertà e la detenzione domiciliare, non ingenerino un atteggiamento di diffidenza in un giudice, qual è quello della cognizione, poco abituato al dialogo con l’autore del reato e attento più al fatto che alla complessa flessibilità delle sanzioni rieducative. Rimane infine il grande tema della giustizia riparativa: grande non solo per la disciplina ampiamente articolata contenuta nel decreto delegato, ma anche per la sfida che essa comporta alla tradizione della giustizia punitiva. Precisato che la riparazione va qui intesa non già in senso economico o patrimoniale bensì come ritessitura di legami e rapporti interpersonali anche nei loro contenuti emotivi, non c’è dubbio che qui è altissimo il tasso di personalismo da entrambe le parti, autore e vittima. Così come è indubbio che i cosiddetti percorsi di giustizia riparativa, lungi dall’essere strumenti di pura deflazione o di fuga dalla tradizionale giurisdizione punitiva, aprono nel processo delle parantesi di durata non predeterminabile e soprattutto ne comportano una vera e propria deformalizzazione. Rendendo così comprensibili le critiche dei più convinti difensori della tradizione liberale. Ma le preoccupazioni paiono obiettivamente eccessive in ragione della cautela con cui la riforma ha previsto gli effetti dell’esito riparativo positivo sulla vicenda punitiva: l’effetto più rilevante si riduce in verità a quello di propiziare la remissione della querela. Non c’è dubbio che la riforma appena varata segna una tappa significativa nel continuo cammino della pena e delle sue trasformazioni e che essa lancia una sfida a tutti coloro che sulla scena della giustizia penale recitano la loro parte. Raccoglierla è ormai un dovere, anche se il cammino della pena è una riforma storicamente continua. *Professore emerito di Diritto penale nell’Università di Firenze Per testare le riforme, il vero “filtro” rimane il loro impatto sulle persone di Valentina Stella Il Dubbio, 26 ottobre 2022 “L’identità si costruisce con l’Europa, non contro l’Europa”: è una frase molto significativa quella pronunciata oggi dalla presidente della Corte costituzionale Silvana Sciarra nella sua relazione introduttiva al Salone della Giustizia. Le sue parole non vanno lette sicuramente come un giudizio sulle idee politiche di due forze del centrodestra, anche perché, come lei stessa ha ribadito, “dal confronto sulla giustizia e sulle riforme necessarie il giudice delle leggi resta fuori, perché garante imparziale della tutela dei diritti e delle libertà fondamentali, nonché dell’equilibrio fra i poteri istituzionali e al tempo stesso fautore della leale collaborazione fra le istituzioni democratiche”. Tuttavia Sciarra ha voluto rimarcare che sono “grandi temi di attualità” quelli di cui la Corte ha discusso a settembre “con una delegazione di giudici della Corte di Lussemburgo” ossia “l”Identità nazionale degli Stati membri e il primato del diritto dell’Ue” e “Stato di diritto e indipendenza dei giudici nazionali”“. A seguire dibattito tra operatori del settore giustizia. “Verso una nuova giustizia, certamente. Ma restano i dubbi se si è anche verso una buona giustizia - ha esordito la presidente del Cnf, Maria Masi. L’avvocatura ha manifestato in diverse occasioni perplessità sugli strumenti, per noi inadeguati, scelti per accelerare i processi e sulla loro reale efficacia per incidere, anche e soprattutto, sulla percezione che i cittadini hanno della giustizia”. “Sono stata catturata - ha proseguito Masi - nel discorso della presidente Sciarra dal concetto di “persona”. Questo dovrebbe essere il filtro per capire se e come le riforme incideranno sulla qualità della giustizia. Confidiamo che si metta in atto un approccio culturale che investa tutti gli operatori della giustizia e che, insieme a questi interventi per noi non adeguati, siano ben investite le risorse economiche europee nell’accesso fisico alla giustizia, con riferimento all’edilizia giudiziaria, alla prossimità della domanda di giustizia, e sul rinnovamento formativo delle competenze di magistratura e avvocatura per un equilibrio di funzioni e poteri”. Tra gli interventi anche quello di Tommaso Miele, presidente aggiunto della Corte dei Conti: “Credo che sia arrivato il momento di chiudere una stagione iniziata all’inizio degli anni ‘90 del secolo scorso e che ha portato la magistratura ad occupare spazi non suoi, con inevitabili deviazioni dal fine ultimo della giustizia e con un abbassamento del livello delle garanzie. Occorre recuperare e riaffermare la cultura delle garanzie, e dobbiamo essere soprattutto noi magistrati a farlo. La funzione non deve mai trasformarsi in potere”. Per Pietro Curzio, Primo Presidente di Cassazione, una giustizia che funzioni “ha bisogno di tre cose: buone regole, risorse finanziarie, risorse umane”. Le risorse finanziarie “dopo decenni ora sono disponibili, e dopo il blocco delle assunzioni abbiamo avuto in parte anche risorse umane, come quelle dell’Upp”, ha sottolineato. Ma “mancano i giudici: purtroppo l’ultimo concorso era per 310 posti ma solo 210 candidati lo hanno superato, c’è un problema di raccordo con l’Università”. Quanto alle regole, “cambiarle sempre crea problemi, la cosa più complicata è dare loro applicazione”, ha rilevato Curzio, ricordando le recenti riforme dei codici di procedura civile e penale: sono “riforme impegnative. Adesso il grosso lavoro è dare loro attuazione. C’è un po’ di preoccupazione perché se mentre applichiamo le nuove regole queste vengono cambiate si crea confusione”. Dinanzi a lui era seduto il professor Guido Alpa: “La Banca nazionale degli investimenti è sempre molto critica nei confronti dell’Italia in merito alle risorse dedicate alla giustizia. Qualche anno fa ci misero addirittura allo stesso livello del Burkina Faso. Evidentemente c’è un problema di acquisizioni delle fonti per poter dare questi giudizi. Tuttavia tale giudizio scoraggia gli investitori stranieri a venire nel nostro Paese”. Per l’accademico, “per la verità l’Italia, culla della civiltà, dal punto di vista della cultura giuridica è straordinaria e non merita questa immagine negativa”. Infine, Luciano Violante, già presidente della Camera e magistrato ha sottolineato: “Con la riforma del processo penale assistiamo ad un mutamento dei ruoli degli avvocati, dei pm e dei giudici, soprattutto nella fase delle indagini preliminari. Poi ciò che mi preoccupa è il massiccio ingresso del digitale all’interno del processo penale; però le strutture amministrative non sono preparate. C’è da fare un forte investimento nella formazione dei cancellieri e delle segreterie”. La tentazione di raggiungere la giustizia sociale per via giudiziaria di Alessandro Barbano Il Dubbio, 26 ottobre 2022 Non si può raccontare la crisi della giustizia fermandosi all’evoluzione del processo penale. Mi concedo questo spunto critico, partecipando al dibattito aperto sul dubbio dagli interventi di due maestri del diritto, come Giorgio Spangher e Giovanni Fiandaca. Non perché abbia l’ardire o la competenza per mettere in discussione tesi così autorevolmente rappresentate, ma perché voglio approfittare del mio punto di vista metodologicamente “ignorante” per riportare la discussione al rapporto tra il cittadino e la potestà punitiva dello Stato. Sono convinto che il rischio di un’analisi limitata al processo, cioè alle categorie del penale propriamente dette, è quello di sottovalutare il dilagare del punitivismo nella democrazia italiana, in azioni ed effetti che debordano ampiamente dagli argini formali della procedura. La tesi dei due insigni giuristi è che il processo ha subito una “torsione finalistica” , spostando il suo target dall’accertamento del reato al contrasto del fenomeno criminale, alterandone la sua originaria natura liberale, e offrendosi come braccio armato a una politica mossa da pulsioni securitarie. In nome dell’efficientismo, dell’economicità e della compressione temporale, il risultato del processo ha fatto strame del principio di tipicità legale delle incriminazioni, fagocitando le categorie sostanziali dentro una “processualizzazione” in cui sfuma, fino svanire, il rapporto tra l’accertamento penale e la verità ontologica dei fatti. È specchio di questa distorsione l’eclissi dei “reati che offendono beni afferrabili” a vantaggio di fattispecie centrate su una fenomenologia sociale giudicata moralmente riprovevole, a prescindere dalla sua offensività giuridica. La seconda conseguenza di questa torsione finalistica è la centralità dell’indagine come strumento esplorativo e pervasivo di tutela sociale, connesso a tre funzioni che la giustizia ha ricevuto in delega dalla politica, e che Giovanni Fiandaca riassume nel “controllo di legalità” a tutto campo sull’attività dei pubblici poteri, nella difesa della democrazia dalle minacce della criminalità e nel rinnovamento e nella moralizzazione della classe dirigente e della società. All’analisi ineccepibile dei due prestigiosi maestri qui sintetizzata, aggiungo solo una considerazione, per così dire, a posteriori: un rito accusatorio incompiuto, insediato in un sistema ordinamentale che rinunci alla separazione delle carriere, e in un sistema magistratuale geneticamente idiosincratico rispetto all’idea di una parità tra accusa e difesa, non può che approdare a una verità processuale che coincida con una verità sfigurata. Nessun giudizio che cerchi la prova nella dialettica tra le parti può prescindere da una terzietà radicale del giudicante. Che non riguardi solo la sua funzione nel processo, e neanche l’inquadramento nell’ordinamento, ma il rapporto direi sacrale del giudice con la protezione dell’innocente, la sua inattaccabile indifferenza alle domande di giustizia dell’opinione pubblica, la responsabilità di sostenere il senso del limite che il sistema accusatorio porta con sé, e tra questo l’idea che un colpevole possa anche farla franca perché le indagini sono state condotte male. Ma non è solo il processo propriamente detto la sede di “corruzione” della giustizia, quanto le sue duplicazioni speciali, che si sono riprodotte dentro e fuori i confini del penale, portando a spasso il punitivismo nella democrazia italiana. E tra queste la legislazione antimafia, storica amnesia del dibattito pubblico. È qui che, alle tre deleghe della politica alla magistratura, indicate da Giovanni Fiandaca, se ne aggiunge una quarta, ancora più decisiva: e cioè la funzione di riscatto sociale e di perseguimento di quell’uguaglianza sostanziale che la Costituzione prescrive alla democrazia nel secondo comma dell’articolo 3. E che la giustizia di prevenzione s’incarica di realizzare, mettendo al centro del suo radar non più i colpevoli, ma i beneficiari di ricchezze ingiuste, che si tratti di mafiosi o di corrotti, o più semplicemente di terzi in qualche modo coinvolti con i primi a prescindere da una loro responsabilità penale, e perfino di ostaggi del ricatto mafioso in quanto pagatori del cosiddetto pizzo. La loro colpa non è verso lo Stato o verso la comunità, e neanche verso le vittime dei reati commessi, spesso neanche provati o ipotizzati, ma prima di tutto verso la storia. Il fatto che le confische non siano considerate sanzioni, ma piuttosto provvedimenti penali sui generis, con un artificio incomprensibile a qualunque cittadino di buon senso, non ci esime dall’analizzare l’enorme afflittività che scaricano sulla democrazia e la sua giustificazione. Ne fornisce un compendio ideologicamente chiaro la sentenza 24/ 2019 con cui la Consulta riconosce e assegna alla confisca una natura “ripristinatoria”. L’ablazione dei beni costituisce, secondo la Corte, “non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico. In presenza, insomma, di una ragionevole presunzione che il bene sia stato acquistato attraverso una condotta illecita, il sequestro e la confisca del bene medesimo - dice ancora la Corte - non hanno lo scopo di punire il soggetto per la propria condotta, bensì, più semplicemente, quello di far venir meno il rapporto di fatto del soggetto con il bene, dal momento che tale rapporto si è costituito in maniera non conforme all’ordinamento giuridico, o comunque di far sì che venga neutralizzato quell’arricchimento di cui il soggetto, se non fosse stata compiuta l’attività criminosa presupposta, non potrebbe godere”. Come si può ignorare che la lotta all’arricchimento illecito sia stata ufficialmente codificata dal Giudice delle Leggi come uno degli obiettivi del sistema penale, ancorché sui generis? E come ignorare che questo sistema sui generis prescinda dalle garanzie del processo penale ordinario? Tanto da far sostenere alla Corte di Cassazione (V Sez. Pen. n. 49153/ 2019) che, “in tema di misure di prevenzione, l’assoluzione del proposto dal reato associativo non comporta l’automatica esclusione della pericolosità sociale dello stesso, in quanto, in ragione dell’autonomia del processo di prevenzione rispetto a quello penale, il giudice chiamato ad applicare la misura può avvalersi di un complesso di elementi indiziari, anche attinti dallo stesso processo penale conclusosi con l’assoluzione”. Significa - ed è norma nella prassi - che il giudice della prevenzione può scremare dal processo penale gli indizi di colpevolezza da quelli di innocenza, prevalenti, che hanno concorso a determinare l’assoluzione, e utilizzare ai fini della decisione sulla confisca solo i primi, cioè i più utili a raggiungere il risultato. E ancora: si può ignorare che “nel giudizio di prevenzione - (V Sez. Pen. n. 33149/ 2018) - la prova indiretta o indiziaria non deve essere dotata dei caratteri di gravità, precisione e concordanza prescritti dall’articolo 192, né le chiamate in correità o in reità devono essere necessariamente sorrette da riscontri individualizzanti”? Vuol dire che ai fini delle confische la prova non deve essere grave. Quindi può essere irrilevante? Non deve essere precisa. Quindi può anche essere sfocata, tanto da non identificare con chiarezza i soggetti né i fatti a giustificazione di una pericolosità dei primi? Non deve essere concordante. Quindi può tranquillamente essere dissonante o in contrapposizione con altri elementi che abbiano portato il giudice penale a confutarla, elementi che in sede di giudizio di prevenzione si può far finta di non vedere? A ulteriore precisazione di ciò di cui si parla, la Corte aggiunge che le accuse dei pentiti non devono essere necessariamente confermate. Anche se la conferma non esiste, o se esiste una precisa smentita, le loro accuse possono essere espunte dal processo penale e impiegate, per quello che servono, nel processo di prevenzione? È accaduto, accade, accadrà ancora in tanti di quei tribunali di territorio dove l’evocazione della mafiosità fa scattare un riflesso pavloviano. Tutto questo per dire che la “torsione finalistica”, di cui parlano Spangher e Fiandaca, arriva al punto di perseguire un obiettivo politico di giustizia sociale attraverso gli scarti del diritto penale, cioè quegli indizi o semplicemente sospetti, illazioni, congetture, pregiudizi che in nessuno procedimento ordinario potrebbero mai diventare prova e che invece bastano a togliere perfino le scarpe a cittadini mai indagati, o piuttosto assolti. Se vogliamo comprendere a pieno che cosa è diventata la giustizia in Italia, dobbiamo partire da qui. Umbria. Diversamente abili e carcere, il senatore Guidi: “Serve attenzione anche per le disabilità invisibili” ternitoday.it, 26 ottobre 2022 “Giudico molto positivamente il lavoro della Terza commissione regionale dell’Umbria che ha programmato una serie di audizioni e di visite negli istituti di pena per monitorare lo stato dei detenuti diversamente abili. L’attenzione da questo punto di vista deve essere totale, riferita anche alle cosiddette disabilità invisibili”. Così il senatore Antonio Guidi, responsabile del dipartimento equità sociale e disabilità di Fratelli d’Italia, eletto nella circoscrizione Umbria, interviene dopo la decisione della Terza commissione regionale di monitorare la situazione delle carceri, in particolare dopo gli episodi di violenza accaduti a Terni nei giorni scorsi. “La decisione della Terza commissione dell’Umbria - prosegue Guidi - va nella direzione giusta e punta a tenere alta l’attenzione su un problema, quello del trattamento dei detenuti con disabilità, che va sicuramente affrontato al più presto. Anche perché si tratta di una questione complessa, che non riguarda soltanto la presenza di barriere architettoniche negli istituti di detenzione, ma anche la gestione delle cosiddette disabilità invisibili, ossia quelle legate alla sfera mentale che solo apparentemente non hanno effetti sulle possibilità fisiche di una persona. C’è bisogno di un monitoraggio attento e scrupoloso a livello nazionale: per questo sto lavorando all’organizzazione di un convegno in Umbria che affronti la tematica da un punto di vista tecnico. Inoltre, verificherò di persona la situazione delle carceri a livello nazionale, partecipando a incontri e sopralluoghi nei diversi siti del territorio nazionale”. Bari. I segni sospetti, la droga, i 13 indagati. La morte di Osama in carcere di Fulvio Fulvi Avvenire, 26 ottobre 2022 Il detenuto di origini marocchine era stato trovato senza vita in cella a Foggia il 18 ottobre, ma i familiari non credono al decesso per cause naturali. È stato trovato morto nel letto della sua cella cinque giorni dopo essere finito dentro per una rapina. Ad accorgersene è stato l’agente penitenziario nel suo solito controllo, alle 8. “Sembrava dormire”. L’ha chiamato più volte, l’ha scosso. Ma non rispondeva. Anzi, non respirava più. Ed è scattato l’allarme. “Arresto cardio-circolatorio” è scritto nel referto stilato dai medici del carcere che quella stessa mattina - era il 18 ottobre scorso - hanno eseguito l’ispezione sul cadavere di Osama Paolo Harfachi, 30 anni, foggiano di origini marocchine. Ma cosa è successo veramente nelle ore che hanno preceduto il decesso tra le strette mura della casa circondariale di Foggia? E cosa è capitato al trentenne quel maledetto 13 ottobre quando, dopo il colpo nella tabaccheria di via Trento fuggì a piedi per le vie del centro di Foggia ma fu inseguito, acciuffato e condotto in caserma da sette agenti della polizia ferroviaria? A chiederselo sono i genitori della vittima i quali non credono all’ipotesi della morte per cause naturali. “Era in perfetta salute, prima di essere arrestato”, sostengono, e si chiedono come mai non è stato mai concesso loro di vederlo da morto. E allora, anche in base alle rivelazioni fatte da un ex detenuto al fratello di Osama Paolo, i familiari hanno presentato denuncia ai carabinieri. La procura del capoluogo dauno ha aperto quindi un fascicolo nel quale figurano iscritte tredici persone: oltre ai sette poliziotti anche cinque dipendenti dell’istituto di pena in servizio nell’infermeria e un recluso di Taranto che, secondo il pm che ha firmato i provvedimenti, Dominga Petrilli, potrebbe aver ceduto droga alla vittima. Per tutti gli indagati le accuse sono, a vario titolo, omicidio preterintenzionale e omicidio colposo e lesioni personali nell’esercizio della professione sanitaria. A far scattare le indagini, in particolare, sarebbero state, come dicevamo, le confidenze di un ex compagno di cella di Osama Paolo, scarcerato il giorno precedente la morte: ha riferito al fratello della vittima, Zakaria, di averlo visto dietro le sbarre in condizioni di grave sofferenza: “Era tutto spezzato”. Secondo lui avrebbe subito violenze: “mi ha confidato di essere stato picchiato”. Mostrava tumefazioni in varie parti del corpo. Sarà vero? La magistratura dovrà accertarlo. L’iscrizione nel registro degli indagati è un atto dovuto, precisano dagli uffici giudiziari della procura: in attesa di vederci chiaro è stata effettuata ieri pomeriggio in carcere l’autopsia sul cadavere di Harfachi, unitamente all’esame tossicologico per verificare se avesse effettivamente assunto delle sostanze stupefacenti. Particolare non di poco conto. L’incarico al medico legale era stato conferito in mattinata: essendo un atto irripetibile, il pubblico ministero, per garantire il diritto di difesa, ha informato gli indagati che hanno nominato propri consulenti per assistere sia all’esame autoptico sia agli accerta-menti tossicologici. E finalmente i suoi cari, su disposizione del pm, hanno potuto rivedere Osama Paolo. “Non posso dirvi le condizioni, non sono un medico, ma ha molti segni sui fianchi derivati dallo scongelamento… non lo so. Voglio che i medici legali accertino la situazione” ha commentato Zakaria. Anche la compagna della vittima, dopo la visita all’obitorio del penitenziario ha rilasciato dichiazioni: “Non si può nascondere così tanto questa situazione, nemmeno io che sono la mamma di sua figlia sono stata avvisata, se non del decesso. Non stiamo capendo nulla e non è giusto. Ho saputo dai suoi familiari - ha rivelato - che ha chiesto soccorso ma non l’ha ricevuto”. Bisognerà attendere qualche giorno per conoscere l’esito degli esami medico-legali. Sull’informazione di garanzia ai poliziotti, intanto, è intervenuto Stefano Paoloni, segretario generale del Sindacato autonomo di Polizia (Sap): “Siamo sempre al punto di partenza. Non può essere fattibile - accusa - che ogni volta che un poliziotto interviene per una misura di polizia rischia, per atto dovuto, di essere indagato”. Intanto la senatrice Ilaria Cucchi (Alleanza Verdi e Sinistra) ha presentato un’interrogazione urgente ai ministri della Giustizia, Carlo Nordio, e dell’Interno, Matteo Piantedosi, chiedendo che “sia fatta subito chiarezza sulle cause che hanno portato alla morte in cella Osama Paolo Harfachi” e che sia fatta “presto luce sull’ennesimo caso di morte sospetta in carcere”. Ma quante morti sono avvenute nelle 192 carceri italiane le cui cause sono ancora da accertare? Oltre a quella di Harfachi, dall’inizio dell’anno sono 26, tra le 137 registrate finora (di cui 71 suicidi). Un numero insostenibile per qualsiasi Paese civile. Padova. Morto per overdose in carcere, rischiano il processo 5 detenuti di Cristina Genesin Il Mattino di Padova, 26 ottobre 2022 Rischiano il processo per omissione di soccorso aggravata cinque detenuti, tutti di origine nordafricana, rinchiusi del carcere Due Palazzi (il grattacielo per i condannati in via definitiva). Il pubblico ministero padovano Sergio Dini ha sollecitato il loro rinvio a giudizio, una richiesta sulla quale, a breve, si pronuncerà il Gup. Il 15 giugno scorso, infatti, è morto nella sua cella al quarto piano del penitenziario Mohammed El Habchi, tunisino di 27 anni: l’autopsia ha accertato che a uccidere il giovane è stata un’overdose di metadone. Ma quando ha cominciato a sentirsi male, il ragazzo non è stato subito soccorso dai compagni che, al contrario, avrebbero spostato il 27enne probabilmente per “confondere le acque” e coprire che era in corso una “festina” a base di droghe. Quando è stato colto dal malore, poi risultato fatale, Mohammed El Habchi non era nella sua cella: si trovava in quella di quattro fra gli indagati. Quel giorno d’estate i detenuti ora imputati avrebbero trasferito il 27enne nella cella a lui assegnata solo 40 minuti dopo il malore, quando ormai il giovane era incosciente e agonizzante. Poi avrebbero chiamato gli agenti di polizia penitenziaria, addossando addirittura la colpa di un intervento tardivo nei soccorsi agli operatori del carcere. Il tutto per evitare che fosse scoperta la “festicciola” in corso quando era l’ora della “ricreazione”: in alcune sezioni durante la giornata le porte delle celle sono aperte e i reclusi possono circolare in quell’area liberamente. Sul posto era arrivato anche il pubblico ministero di turno, Sergio Dini, per un sopralluogo. E per rendersi conto di persona dell’accaduto: il magistrato, peraltro, si è occupato di quasi tutte le inchieste sul “carcere colabrodo” (ovvero un carcere dove entra di tutti). Inchieste che, alcuni anni fa, avevano prodotto anche una serie di arresti. Sono state analizzate tutte le telecamere a circuito chiuso. Ed è stato notato che mentre le guardie erano prontamente intervenute, alcuni reclusi si erano preoccupati di nascondere il corpo agonizzante del compagno salvo poi spostarlo allertando in ritardo i soccorsi. Nel frattempo il pm, dopo aver avviato l’indagine, ha ordinato l’autopsia con l’esame tossicologico. Esame che ha evidenziato come il decesso sia stato causato da un’overdose di metadone, farmaco impiegato per alleviare le sofferenze dall’astinenza all’eroina. Tuttavia, se assunto fuori dal controllo medico e in dosaggi alterati, anche il metadone può portare alla morte. Una morte che per il giovane tunisino è arrivata nell’infermeria del carcere. Mohammed El Habchi era stato trasferito al Due Palazzi in seguito a un aggravio della misura cautelare per violazione degli arresti domiciliari. Nonostante quest’ultimo provvedimento restrittivo della libertà personale, infatti, nel dicembre 2020 era stato sorpreso a rubare nel negozio di articoli sportivi Decathlon in via Venezia. Nessuno dei detenuti coinvolti nell’indagine ha mai parlato spiegando come quel metadone sia entrato nel penitenziario. Salerno. Fuorni, carcere da inferno. “Boom tossicodipendenti” di Salvatore De Napoli La Città di Salerno, 26 ottobre 2022 Il report del garante Ciambriello: “Il 38% dei detenuti ha problemi con la droga”. E il “vuoto” negli organici fa paura: solo 154 addetti alla vigilanza sui 243 previsti. Sovraffollamento, presenza notevole di detenuti tossicodipendenti, personale insufficiente. Sono questi tre dati che fotografano il carcere di Salerno, così come evidenziato da dalla redazione semestrale sul mondo carcerario della Campania, redatto dal garante dei detenuti della Campania, Samuele Ciambriello. Il sovraffollamento. Il penitenziario di Fuorni dovrebbe ospitare al massimo 399 detenuti, mediamente ne ospita 429 con punte di 450, la maggior parte comunità compresa tra i 40 e 60 anni. Più o meno nello stesso andamento anche quella degli stranieri, che però hanno una percentuale più bassa tra i giovani detenuti e più alta in quella dei 35-45enni. Il problema tossicodipendenza. Su 429 detenuti ad avere un problema di tossicodipendenza sono ben 163, in pratica due ogni cinque, il 38% del totale. Un dato che non meraviglia, viste le varie operazioni contro lo spaccio di sostanze stupefacenti all’interno dello stesso carcere che ha portato alla scoperta di organizzazioni di spacciatori tra detenuti. Ciambriello sottolinea che in tutta la Campania si contano 6.456 detenuti di cui 1356 tossicodipendenti: “Diventa sempre più precario il ricorso a pene amministrative e non carcerarie e una sempre minore applicazione delle misure alternative per i tossicodipendenti diagnosticati e indirizzati verso le comunità terapeutiche”. Gli organici. Altro problema è quello del personale penitenziario applicato direttamente in tutta la Campania, dove non mancano notevoli deficienze di organico. A Salerno ci sono 24 amministrativi, sette funzionari dell’area giuridico-pedagogica, quattro posti di psicologhi psicologi ex articolo 80, un mediatore culturale, due ministri di culto e 16 volontari. Il problema maggiore si avverte negli organici degli agenti della polizia penitenziaria: dovrebbero essere 243 e sono in totale 154, di cui solo 121 addetti alla vigilanza su vari turni del penitenziario, mentre altri 33 sono addetti alle scorte dei detenuti quando partecipano alle udienze dei processi, vengo trasferiti altrove, vanno in ospedale. Le operazioni in cella. Nel primo semestre del 2022 a Salerno si sono verificati 28 sequestri di oggetti non ammessi tra le celle, come i telefonini, dieci altri oggetti non ammessi ai colloqui, 214 infrazioni disciplinari, 64 atti di autolesionismo, otto tentativi di suicidio, uno purtroppo portato a termine, ed una morte per causa naturale. Sono stati 77 gli scioperi della fame, 16 i rifiuti di assistenza sanitaria, una sola evasione, sempre nel primo semestre 2022. Cinque i provvedimenti disciplinari e 485 quello di tipo sanitario, causa Covid, che rappresenta ancora una minaccia. Il rischio suicidi. “I fattori di rischio suicidario - ribadisce Ciambriello - non sono riconducibili solo ed esclusivamente sistema carcerario, ma anche ad alcune caratteristiche personali. L’impatto psicologico terrestre dell’attenzione vi in tempi lunghi di una condanna di le crisi di assistenza di tossicodipendenti e lo stesso quotidiano della vita carceraria possono superare la soglia di resistenza del detenuto medio”. La situazione a Eboli e Vallo. Situazione meno grave al penitenziario di Eboli, istituto specializzato nel trattamento delle dipendenze da stupefacenti e alcol, 37 detenuti tossicodipendenti presenti su 38 (on 50 posti), e Vallo della Lucania, con 50 detenuti (molti dei quali per reati a sfondo sessuale). Roma. Il caro-bollette mette a rischio i progetti di inserimento lavorativo per i detenuti di Valerio Valeri romatoday.it, 26 ottobre 2022 A Rebibbia Nuovo Complesso alcuni detenuti si occupano di catering, oltre a gestire una torrefazione. I consumi rischiano di mettere in ginocchio l’impresa e interrompere il percorso di chi ci lavora. Quasi vent’anni di attività all’interno della casa circondariale di Rebibbia, centinaia di persone detenute riportate a una vita normale tramite progetti di formazione e lavoro, un’impresa sociale che lavora anche con organizzazioni, privati ed istituzioni. Adesso, però, i rincari dell’energia e l’aumento delle bollette rischiano di fiaccare la capacità delle cooperative sociali che operano nelle carceri e in particolare di “Men at Work”, realtà del terzo settore che fa parte dello sterminato sottobosco di coop che tiene in piedi l’impianto sociale e si rivolge agli ultimi. La cooperativa che si occupa di reinserimento dei detenuti tramite il lavoro - Presidente di “Men at Work” ma anche di Federsolidarietà - Confcooperative Lazio, Luciano Pantarotto torna a lanciare l’allarme: “È a serio rischio la sostenibilità delle cooperative nelle carceri - spiega a RomaToday -. Rebibbia Nuovo Complesso al suo interno ha una torrefazione che vende caffè e altri prodotti, ci sono dei lavoratori ed è un’impresa energivora. Poi facciamo catering, usiamo gas ed elettricità, ma ad oggi nemmeno sappiamo quanto dovremo spendere per le prossime bollette. Tutto ciò compromette il privato sociale e avendo a che fare con i detenuti si va ad intaccare quello che è un diritto costituzionale sancito dall’articolo 47 che prevede il reinserimento di chi è privato della libertà personale” Una cucina da 800 pasti al giorno che organizza catering e servizio a domicilio - In un posto come Rebibbia, con 1.450 detenuti, il ruolo delle cooperative sociali è basilare: “Sostituiamo lo Stato che quando fa l’imprenditore purtroppo lo fa male - continua Pantarotto - e lo facciamo dal 2003. Catering, produzione dolciaria, torrefazione, forniamo pasti al pubblico e al privato: centri estivi, centri diurni, pasti a domicilio. Il potenziale quotidiano è di 800 pasti al giorno. Quando i detenuti ricevono le visite dei familiari nel giardino interno, se vogliono possono usufruire del nostro servizio per rendere più normale e piacevole i momenti con i parenti”. Il tutto è reso possibile da una cucina di 400 mq ricavata dall’ex cucina-agenti “completamente abbandonata e ristrutturata in parte a spese nostre, in parte con fondi europei” specifica Pantarotto. “A Roma oltre 3.000 detenuti adulti” - A luglio 2019 il Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, durante una visita a Rebibbia rimase a cena all’interno del carcere, assaggiando i piatti preparati da una squadra di cuochi formati nel tempo dalla cooperativa: “Ad oggi abbiamo 5 impiegati con regolare busta paga - continua Pantarotto - e 38 ore settimanali di lavoro. Adesso partiremo con un corso di formazione e con le certificazioni HACCP per la somministrazione di bevande e alimenti. Noi abbiamo la certificazione ISO9000, a testimonianza di un’attenzione estrema alla qualità del nostro lavoro”. A Roma, tra Rebibbia Nuovo Complesso, sezione penale, sezione femminile, terza casa (custodia attenuata) e il carcere di Regina Coeli ci sono oltre 3.000 detenuti adulti: “È come se parlassimo di un grosso complesso condominiale a Roma - conclude Pantarotto - ed è multi-problematico. Non possono venire meno certi progetti. Per questo chiederemo al nuovo Ministro e al dipartimento competente di poter ripartire i costi dei consumi secondo le tariffe 2021 e non le nuove”. Napoli. I detenuti di Poggioreale lavoreranno per il Teatro San Carlo di Mario Rusciano Corriere del Mezzogiorno, 26 ottobre 2022 Al via i laboratori e i corsi per addetti al palcoscenico, elettricista e sarto teatrale. Laboratori e attività didattiche dedicate ai detenuti hanno preso il via al Teatro di San Carlo, grazie al protocollo d’intesa tra la Fondazione e la Casa Circondariale G. Salvia di Napoli - Poggioreale. Guidati da personale qualificato del Lirico di Napoli infatti, i giovani hanno iniziato a frequentare corsi di formazione specialistica legati ai mestieri del palcoscenico: in particolare sono stati attivati corsi per i profili professionali di Elettricista, Macchinista, Attrezzista, Sarto teatrale, Addetto alle attività amministrative, ciascuno della durata di 200 ore. Lo spettacolo in carcere - Inoltre giovedì 4 novembre a partire dalle ore 10 la Chiesa della Casa Circondariale di Poggioreale si trasformerà in palcoscenico: andrà in scena infatti “Cavalleria” spettacolo teatrale a cura del Maestro Carlo Morelli che avrà per protagonisti gli stessi detenuti. Il progetto pone l’accento sulla pratica teatrale intesa come vera e propria attività formativa che aiuta la riscoperta delle capacità e sensibilità personali. “Non possiamo considerare il carcere come un qualcosa di esterno alla nostra comunità, al contrario - afferma il sindaco di Napoli e Presidente della Fondazione Teatro di San Carlo Gaetano Manfredi - la Casa Circondariale G.Salvia è pienamente inserita nel tessuto cittadino e in quanto tale deve dialogare con tutte le istituzioni, prima fra tutte quelle culturali, nell’ottica di un percorso di recupero che ha come fine ultimo proprio il reintegro nella società”. Lissner e l’opera di recupero - “L’effetto positivo delle attività culturali per il recupero dei detenuti ed il loro reinserimento nella società è ormai universalmente riconosciuto, per questo sono particolarmente felice che due istituzioni cittadine come il Teatro San Carlo e la Casa Circondariale G. Salvia lavorino insieme a progetti di inclusione che favoriscono non solo il reintegro dei detenuti stessi ma che hanno una più ampia ricaduta sul bene della società”, così il Sovrintendente del Teatro di San Carlo Stéphane Lissner. “Mettere in rete il carcere di Poggioreale e la più grande istituzione culturale cittadina è un risultato molto importante - afferma il direttore della Casa Circondariale “Giuseppe Salvia” Carlo Berdini - ed è per questo che sono particolarmente lieto di questo protocollo d’intesa e soprattutto dell’avvio, in questa fase realizzativa, di corsi di formazione professionalizzanti che favoriscono il reinserimento nella società. A tal proposito vorrei esprimere un particolare ringraziamento alla dottoressa Patrizia Mirra presidente del Tribunale di Sorveglianza di Napoli per il supporto dato a questa iniziativa che mi auguro possa essere l’inizio di un percorso più ampio”. Spedaliere: al servizio della città - “Per il Teatro di San Carlo l’impegno sociale resta una priorità e questo protocollo d’intesa conferma la nostra volontà di essere sempre più un’istituzione al servizio della città - afferma il direttore generale Emanuela Spedaliere -il teatro, la musica ed in generale tutte le attività artistiche sono uno strumento essenziale non solo per il reinserimento sociale ma soprattutto per il benessere psico-fisico della persona. Desidero ringraziare tutti i dipendenti della Fondazione per la grande disponibilità e sensibilità nell’accogliere questi giovani e avviarli ad un percorso di conoscenza dei mestieri del teatro”. Varese. Detenuti a fine pena: cesti natalizi sfornati dai loro laboratori di Stefano Zanette Il Giorno, 26 ottobre 2022 Un’iniziativa della coop “La Valle di Ezechiele”. Sono cesti natalizi con una storia speciale, quella che ogni giorno scrive “La Valle di Ezechiele”, cooperativa sociale che accompagna le persone detenute prossime al fine pena verso l’inserimento lavorativo. La sede legale è presso la casa circondariale di Busto Arsizio mentre il laboratorio si trova a Fagnano Olona ed è nello spazio operativo che fervono i lavori di confezionamento dei cesti, con prodotti alimentari delle imprese sociali che operano nel tessuto degli istituti di pena di tutta Italia, da nord a sud. Un anno fa, esattamente il 25 ottobre, l’inaugurazione della cooperativa con il taglio del nastro avvenuto alla presenza dell’allora Ministro della Giustizia Marta Cartabia, che in quell’occasione ha ricevuto il primo cesto e la prima cassetta natalizi. L’auspicio dei volontari è ora di poter incontrare il nuovo titolare del Dicastero, Carlo Nordio. Nel frattempo si lavora alle confezioni natalizie che si possono prenotare entro il 31 ottobre, sul sito della cooperativa, dunque ancora pochi giorni per scegliere questo dono speciale. Sottolineano dalla cooperativa “I cesti, come i Re Magi di cui hanno i nomi, Artaban, Melchiorre, Baldassarre, Gaspare, porteranno i vostri doni natalizi ai vostri cari, ai vostri dipendenti o ai vostri clienti. Quest’anno possiamo spedire direttamente noi i cesti al destinatario: troverà un cartoncino con il vostro nome e indicato a quante persone avete dato lavoro, omaggiando un cesto “La Valle di Ezechiele”. Un progetto dunque importante che aiuta a compiere passi fondamentali per chi sta lasciando alle spalle il passato, la detenzione, costruendo una vita nuova. Il messaggio è chiaro, comprando questi cesti non si fa la carità, ma si dà lavoro a persone che vogliono rimettersi in gioco nella vita. “In due anni di attività - fanno sapere dalla Valle di Ezechiele - ben 12 sono le persone detenute che abbiamo preso a lavoro, portandoli verso una vita nuova. Nessuno di loro ha commesso nuovi reati; tecnicamente si dice: tasso di recidiva di reato dello 0%. Milano. Dal carcere alla sartoria: “Il mio percorso di recupero” di Roberta Rampini Il Giorno, 26 ottobre 2022 Nel laboratorio di Trezzano. Cristian Loor Loor aiuta gli ex detenuti a rifarsi una vita. “La mia detenzione nel carcere di Bollate è stato un percorso di recupero e reinserimento sociale. Ho ripreso la mia attività sartoriale e l’ho insegnata ad altri detenuti, ho conseguito la laurea magistrale in Relazioni internazionali e insieme ad altri detenuti abbiamo organizzato iniziative sociali per raccogliere fondi a destinati in gran parte a realtà che si prendono cura di donne vittime di violenza e a bambini bisognosi. Il riscatto sociale deve essere un’opportunità per tutti i detenuti”. Cristian Loor Loor, ex detenuto di origini ecuadoriane, insieme ad altri detenuti del settimo reparto del carcere di Bollate, due anni fa, ha costituito Catena in Movimento Onlus. Un’organizzazione di volontariato che oggi ha laboratorio sartoriale “oltre le sbarre”, a Trezzano sul Naviglio. È qui in viale Verri 15, che domenica 30 ottobre, dalle 10 alle 17, si terrà un pranzo sociale per raccogliere soldi a sostegno delle attività dell’associazione. Un menù italo ecuadoregno per fare un futuro al laboratorio sartoriale e alle nuove attività “imprenditoriali” che saranno avviate nel 2023. “L’associazione è formata da nove ex detenuti che sono a fine pena e una ventina di detenuti a titolo volontario. Creiamo oggetti artigianali venduti per sostenere iniziative nell’ambito della giustizia riparativa - spiegano - l’ambito in cui siamo specializzati è la manifattura sartoriale. In queste settimane, per esempio, stiamo realizzando gadget aziendali”. Il gruppo, che è coordinato da Simona Gallo, funzionario giuridico pedagogico nel carcere di Bollate, nei mesi dell’emergenza sanitaria, si è dedicato quasi interamente al confezionamento di mascherine per detenuti e operatori. Lo scorso anno in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne (25 novembre 2021) ha realizzato foulard e scalda collo di colore rosso e donato i proventi all’associazione “L’Altra Metà del Cielo”. Nel 2019 in occasione della mostra “Leonardo prigioniero del volo”, i detenuti-sarti e stilisti di Catena in Movimento hanno partecipato alla creazione di 30 abiti ispirati alle opere e invenzioni di Leonardo. Brescia. Canton Mombello, dopo l’appello arrivano 800 set di lenzuola di Antonio Borrelli Giornale di Brescia, 26 ottobre 2022 Bianche, colorate, con disegni o con ricami. Più che per per tutti i gusti, per le esigenze primarie dei detenuti. Nelle celle di Canton Mombello mancano le lenzuola, così la direttrice del carcere Francesca Paola Lucrezi ha lanciato un appello al territorio per un sostegno. A rispondere sono stati la cooperativa di Bessimo e l’ufficio Pari opportunità della Loggia. L’ondata di solidarietà è stata massiccia: 750 completi sono stati raccolti solo dal Comune di Brescia grazie a un tam-tam solidale, altre 50 dalla cooperativa camuna. “L’amministrazione penitenziaria autoproduce vettovaglie e generi letterecci - spiega la direttrice Lucrezi - ma la produzione è concentrata solo in alcuni istituti in Italia e stiamo ancora attendendo le consegne. Se non ci fosse stata questa cordata avrebbero avuto problemi quei detenuti che non hanno famiglie sul territorio ad aiutarli”. Ieri mattina, in via Spalto San Marco, la consegna dei pacchi con gli 800 teli raccolti e beni di prima necessità (come sapone), frutto di una mobilitazione che ha visto impegnati imprenditori, associazioni e parrocchie. Ma anche cittadini bresciani, alcuni dei quali presenti alla consegna: Annamaria Rossi, Giuliana Antonelli e il presidente di Unci Guido De Santis. “Hanno risposto tantissimi cittadini, anche dalla provincia e dalle valli - commenta soddisfatta l’assessora alle Pari opportunità Roberta Morelli -. Le ragazze del laboratorio di sartoria hanno poi provveduto ad abbinarle e a operare ritocchi laddove necessario”. Non è finita qui - Ma il lavoro dell’assessorato a supporto dei detenuti non finisce qui: nelle prossime settimane si procederà alla raccolta di asciugamani. Piccoli ma fondamentali ristori in una casa circondariale che vive una condizione critica ma cronica. L’appello della Garante dei detenuti Luisa Ravagnani e dei rappresentanti sindacali della Fp Cgil è ora rivolto direttamente al neoministro della Giustizia Carlo Nordio. Le criticità sono le stesse che caratterizzano da troppo tempo la casa circondariale bresciana: sovraffollamento, vetustà della struttura, alto numero di soggetti psichiatrici e tossicodipendenti e un lavoro sempre più pericoloso per gli agenti. “A settembre non avevamo interlocutori - spiega la Garante Ravagnani - oggi li conosciamo e speriamo che il nuovo governo abbia la volontà, la forza e l’energia di cambiare una situazione che non è più un’emergenza, ma drammatica ordinarietà di gestione del sistema penitenziario”. Bari. Dal carcere all’università: la seconda vita dei detenuti grazie a un accordo con l’Ateneo di Enrico Filotico Corriere del Mezzogiorno, 26 ottobre 2022 Il senato accademico ha approvato la convenzione con il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria per l’accesso agli studi di persone detenute. È stata approvata questa mattina nel corso del Senato accademico la convenzione tra l’Università degli Studi di Bari e il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Provveditorato Regionale della Puglia e della Basilicata, per favorire lo sviluppo culturale e la formazione universitaria, al fine di sostenere i detenuti negli istituti penitenziari della Puglia. Nello spirito del valore rieducativo della pena, le amministrazioni hanno voluto perseguire l’obiettivo primario rispetto al rapporto con i detenuti: il reinserimento. Il regolamento è diretto a disciplinare la possibilità di accesso agli studi universitari alle persone private della libertà personale per effetto di un provvedimento dell’Autorità Giudiziaria. “L’Università ha assunto gli impegni di agevolare il compimento degli studi universitari dei detenuti ristretti presso gli Istituti penitenziari della Puglia, fornendo sostegno didattico e burocratico alle studentesse e agli studenti reclusi e a coloro che sono in misura alternativa - si legge sulla pagina di Università Protagonista - il diritto allo studio, quale diritto costituzionale, deve essere garantito a tutti e la particolare condizione delle persone private della libertà personale richiede specifiche modalità organizzative, finalizzate a consentire la migliore fruizione delle opportunità didattiche e formative offerte dalla nostra Università”. Rileggere Beccaria per tornare alle origini del diritto penale di Mauro Palma Il Manifesto, 26 ottobre 2022 “Dei delitti e delle pene”, a cura di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti, per Giappichelli. Affrontati molti temi dell’oggi, debitamente commentati in un’ottica di rivolgersi anche a un pubblico giovanile per far riscoprire una di quelle pietre miliari da cui si delinea la civiltà giuridica di un Paese. Aprendo Dei delitti e delle pene, il libro a cura di Patrizio Gonnella e Susanna Marietti (Giappichelli, pp. 144, euro 14) con un atteggiamento certamente incuriosito, ma anche perplesso, ci si chiede cos’altro potrà essere detto attorno alle pagine di Cesare Beccaria a cui tutti ci riferiamo continuamente nel lungo dibattere sulle pene, sul loro significato, sulla concezione che si è andata modulando nei più dei duecentocinquant’anni che ci separano dalla sua pubblicazione? Inoltre, si può essere intimiditi per il fatto che commenti ce ne sono stati molti a cominciare da quello di Voltaire, scritto nel 1766 mentre il testo veniva messo nell’indice dei libri proibiti. Che altro è possibile dire, dunque? Non solo, ma l’ambiente culturale a cui anche io appartengo e che vede nei due autori, Patrizio Gonnella e Susanna Marietti (ordine solo alfabetico) un grande e riconosciuto motore attraverso le iniziative di Antigone mi portava a credere che l’asse del loro commentare i diversi capitoli di Dei delitti e delle pene fosse quello che la copertina della sua antica edizione del 1780 indicava: una Giustizia, seduta e imponente che rifugge dagli strumenti di morte, tortura e violenza che avevano finito per corredare la sua immagine e il rapporto che le persone avevano con il suo agire. Pensavo cioè a un nocciolo tematico unico, importante, ma concentrato, disegnato appunto attorno all’impegno quotidiano dei due autori. Non è così, il testo è denso di spunti importanti e intriganti. Perché le pagine, scritte nelle pieghe in cui il sapere filosofico incontra quello dell’analisi sociale per confluire, insieme, nel solco del diritto, affrontano direttamente quell’ampia tematica con cui Beccaria non costruisce un trattato giuridico penalistico bensì fonda l’asse di una nuova cultura. Incide nel sapere diffuso; incide nel sapere istituzionale e con tali incisioni affronta la possibile costruzione di modelli diversi di percezione del rapporto tra rendere giustizia e percezione di una giustizia vicina. In questo aspetto, fondamentale anche per l’oggi, si inseriscono le annotazioni, i commenti, le aperture problematiche che Gonnella e Marietti formulano, consegnandoci uno strumento per un sapere, vivo che sa dialogare al presente e indica sfide ancora da risolvere. Certamente la sfida del limite dell’esercizio penale, che rinvia al loro impegno continuo, è presente sin dal primo Commento dei due autori: “Non di rado il diritto penale, anche nella contemporaneità - scrivono - ha perso la sua connotazione di legge al servizio della libertà di tutti e si è trasformato in strumento di lotta politica, di repressione ingiustificata, di imposizione di stili di vita. Tornare alle origini del diritto penale significa ricordarsi che è ingiustificata ogni forma di punizione che non sia realmente funzionale a garantire una vita tranquilla e sicura” e parlano, quindi, di “quota minima di comportamenti che è veramente necessario punire” escludendo sempre ogni logica di castighi meritati. Ma, proprio perché l’asse della rete di commenti non si restringe a tale ambito, particolare attenzione va riservata alle annotazioni attorno ai capitoli dal XXII al XXV laddove le considerazioni di ordine sociale e politico scaturiscono naturalmente dalla lettura dell’impostazione di Beccaria che giunge - come sappiamo - a disconoscere la “sacralità giuridica” della proprietà privata. Qui il commento spazia da considerazioni circa l’inconsistenza di ogni forma di penalizzazione della “non appartenenza”, cioè della persona straniera, perché “maggiori dovrebbero essere i motivi contro un nazionale che contro un forestiero”, a quelle relative al necessario variegarsi delle sanzioni possibili. Temi dell’oggi, debitamente commentati in un’ottica di rivolgersi anche a un pubblico giovanile per far riscoprire una di quelle pietre miliari da cui si delinea la civiltà giuridica di un Paese. Da riscoprire e da non perdere. Anche con questi puntuali commenti. Un incubo di malagiustizia: il racconto di Marta Gentili askanews.it, 26 ottobre 2022 Una storia di malagiustizia legata a un’inchiesta sulla Sanità, un lungo incubo che ora diventa un libro, per raccontare una vicenda che ne contiene purtroppo molte altre. Marta Gentili, coinvolta e poi assolta “perché il fatto non sussiste” in un’inchiesta su presunta corruzione nella sanità pubblica, ci ha raccontato la sua storia, di cui ha scritto nel volume “Il raglio dell’asino”. Tutto inizia l’8 maggio 2017 con 19 arresti e 75 indagati: tra questi ultimi anche Gentili. “In quel periodo - ha spiegato - io ero il direttore marketing di un’azienda farmaceutica e, come quasi tutti i dipendenti delle aziende farmaceutiche che ricoprivano determinati ruoli, sono stata iscritta nell’elenco degli indagati. In realtà io ho scoperto di essere inserita in questo elenco per puro caso e la notifica ufficiale mi è stata data dai carabinieri quasi nove mesi dopo. Sono stata interrogata, dopo una serie insistente di mie richieste, un anno e mezzo dopo, a 15 giorni dalla chiusura delle indagini e dalla presentazione degli atti in Procura”. L’inchiesta era partita da Parma, per poi essere in parte trasferita a Lecco, dove tutto è cambiato e per molti imputati le accuse sono decadute. Si parla di un errore di valutazione della Procura di Parma, un errore che però ha sconvolto la vita di molte persone. “Questi anni - ha aggiunto Marta Gentili - sono stati anni terribili da vivere, perché vissuti nella totale incertezza: non si hanno informazioni, non si riesce a interloquire con le persone che ti accusano e non si capisce di cosa sei accusato. Per me è durata quattro anni, sei mesi e otto giorni. Me li ricordo tutti. Ma purtroppo c’è ancora qualcuno che sta aspettando di avere giustizia”. Il libro è nato anche per cercare di evitare che una storia come questa si ripeta, ma c’era pure un elemento, per così dire, terapeutico, nel raccontarla. “Il raglio dell’asino - ha detto ancora l’autrice - è questo mio sfogo: io ho avuto bisogno di scrivere in questi quattro anni e mezzo perché dovevo in qualche modo rendere concreto ciò che mi stava accadendo, perché sembrava veramente di vivere qualcosa di assurdo e di astratto. È la nostra Costituzione che dice che si è innocenti fino a prova contraria - ha concluso Marta Gentili - invece nei fatti non è così: sei colpevole fino a prova contraria e vieni anche sommerso da questa onda mediatica che non riesce a porre un limite tra la giusta informazione e delle forme di aggressione verbale nei confronti degli imputati”. E se le angosce giudiziarie che ricordano i romanzi di Kafka si uniscono alle peggiori derive della società digitale, si capisce bene il dramma ai confini dell’assurdo di chi, da innocente, si trova a vivere vicende come questa. La preghiera del Papa è un grido contro l’escalation della guerra di Francesco Peloso Il Domani, 26 ottobre 2022 Si è chiuso a Roma l’incontro interreligioso promosso da Sant’Egidio: “Le prime vittime della guerra sono i poveri e i rifugiati”, ha detto Francesco nell’evento conclusivo al Colosseo “Ascolta, Signore, la preghiera dei poveri, dei deboli, dei feriti, dei rifugiati che implorano la pace e con loro salva noi tutti dall’odio e dalle guerre”. La preghiera per la pace dei leader religiosi riuniti a Roma per dire no a tutte le guerre si riassume in una invocazione che va al cuore del problema: la pace serve a salvare le vite degli innocenti, degli ultimi, di coloro che non hanno potere. L’incontro promosso dalla Comunità di Sant’Egidio - “Il grido della pace” - iniziato domenica si è infatti concluso ieri pomeriggio, prima con un momento di preghiera in cui i rappresentanti delle diverse tradizioni religiose si sono riuniti separatamente, poi al Colosseo con una serie di interventi chiusi da un discorso di papa Francesco. Paura nucleare - Nei tre giorni di dibattiti nel centro convegni La Nuvola all’Eur, e di nuovo nelle parole del vescovo di Roma, è tornata ripetutamente la preoccupazione per il rischio di un’escalation nucleare mai vista così vicina e possibile dalla crisi dei missili di Cuba del 1962. “Oggi, in effetti - ha detto in proposito il Papa nel suo intervento - si sta verificando quello che si temeva e che mai avremmo voluto ascoltare: che cioè l’uso delle armi atomiche, che colpevolmente dopo Hiroshima e Nagasaki si è continuato a produrre e sperimentare, viene ora apertamente minacciato”. La questione è stata toccata anche nell’ “Appello per la pace di Roma” sottoscritto dai leader religiosi presenti nella capitale dove si chiede esplicitamente di “liberare il mondo dall’incubo nucleare”. “Riapriamo subito un dialogo serio - si legge nel testo - sulla non proliferazione nucleare e sullo smantellamento delle armi atomiche”. Il volto dei profughi - “L’invocazione della pace non può essere soppressa - ha scandito il pontefice - sale dal cuore delle madri, è scritta sui volti dei profughi, delle famiglie in fuga, dei feriti o dei morenti. E questo grido silenzioso sale al Cielo”. Si tratta di una richiesta che “non conosce formule magiche per uscire dai conflitti, ma ha il diritto sacrosanto di chiedere pace in nome delle sofferenze patite, e merita ascolto. Merita che tutti, a partire dai governanti, si chinino ad ascoltare con serietà e rispetto. Il grido della pace esprime il dolore e l’orrore della guerra, madre di tutte le povertà”. Bergoglio ha rivolto il suo appello affinché non ci si lasci “contagiare dalla logica perversa della guerra; non cadiamo nella trappola dell’odio per il nemico. Rimettiamo la pace al cuore della visione del futuro, come obiettivo centrale del nostro agire personale, sociale e politico, a tutti i livelli. Disinneschiamo i conflitti con l’arma del dialogo”. Fermare la guerra - Dall’incontro interreligioso di Roma è salita forte la richiesta di negoziato per fermare il conflitto che sta insanguinando l’Ucraina, al contempo i partecipanti ai vari momenti di discussione hanno richiamato l’attenzione sui tanti fronti di guerra aperti oggi nel mondo. Sono passati 36 anni dal primo incontro per la pace e il dialogo fra le grandi religioni ad Assisi, era il 1986, ha ricordato il presidente della Comunità di Sant’Egidio Marco Impagliazzo, da allora, ha detto, “il mondo è cambiato. La Guerra fredda non c’è più, l’idea dello scontro di civiltà è stata contenuta. La comprensione e l’amicizia tra i mondi religiosi sono cresciute molto, più che quelle tra le nazioni. La nostra preghiera ha cambiato narrazioni che sembravano inattaccabili, ha modificato scenari solidi come una cortina di ferro”. “Se le religioni - ha aggiunto - ascoltano il grido di pace e uniscono la loro preghiera, la loro capacità creativa, anche questa guerra mondiale a pezzi può essere fermata”. Alla cerimonia di chiusura al Colosseo era presente anche la scrittrice Edith Bruck, testimone della Shoah. La mediazione vaticana - Sul fronte diplomatico, il presidente francese Emmanuel Macron ha fatto sapere di aver chiesto a papa Francesco, durante l’incontro in Vaticano di lunedì scorso, di telefonare al presidente russo, Vladimir Putin, al patriarca ortodosso russo Kirill e al presidente americano Joe Biden, per “favorire il processo di pace” in Ucraina. Secondo quanto ha scritto l’agenzia russa Tass, il portavoce del Cremlino, Dmitri Peskov, ha giudicato positivamente l’iniziativa del presidente francese. In generale, l’incontro per la pace promosso da Sant’Egidio, è sembrato caratterizzarsi per una sempre maggiore consapevolezza dei leader spirituali del ruolo positivo che possono ricoprire le tradizioni religiose nella costruzione di relazioni più aperte e collaborative fra i popoli e gli stati, e di essere antidoto ai nazionalismi esasperati. Anche perché alcuni di loro condividono le iniziative della Comunità da molto tempo. È il caso del rabbino David Rosen, uno dei maggiori promotori di parte ebraica del dialogo fra le fedi, che ha insistito molto sulla necessità che si sviluppi la reciproca conoscenza fra religioni e culture: “potremmo chiederci - ha detto Rosen durante uno dei dibattiti - perché è così importante conoscersi reciprocamente? La risposta naturalmente è che se non ci conosciamo, cadiamo vittime di qualsiasi tipo di pregiudizio negativo e perfino di ostilità. Per vivere in pace e armonia gli uni con gli altri è necessario conoscerci”. “Similmente, quando non ci parliamo diventiamo vulnerabili a ogni tipo di incomprensione e percezione erronea. Il vero dialogo, che significa parlare con l’altro, non all’altro, ci rende capaci di conoscerci e comprenderci reciprocamente”. L’intellettuale libanese Tarek Mitri, dell’università americana di Beirut, ha a sua volta sottolineato come “non si può ignorare il pervasivo risorgere del nazionalismo, del campanilismo e del populismo. Decisamente, le politiche identitarie sono spesso diventate una determinante fondamentale nelle relazioni all’interno e tra le nazioni. Nello sconcerto di molti credenti, la religione viene sempre più strumentalizzata nella mobilitazione politica, esagerando le paure o re-inventando il cosiddetto odio ancestrale tra le comunità”. Forse, un aspetto che è mancato nel fitto calendario di eventi dell’iniziativa è stato un approfondimento sul tema della difesa dei diritti umani e civili sotto attacco in tante parti del mondo (problematica che è parte del nesso fra pace e giustizia). Tuttavia hanno trovato spazio le tematiche relative alle migrazioni e all’ambiente. Appello per un’altra pace possibile di Sergio D’Elia* Il Riformista, 26 ottobre 2022 Come rendere giustizia alle vittime ucraine in Ucraina e russe in Russia della guerra di Putin? Pensiamo davvero di consegnarci al solito Tribunale dei vincitori sui vinti? Noi invece invochiamo la giustizia che riconcilia e ripara. Occorre, innanzitutto, stabilire con fermezza e senza ambiguità che nella guerra in corso nel cuore dell’Europa il torto e la ragione non sono equivalenti, ma impari. Vittime e carnefici non si somigliano, sono inconfondibili. Da una parte c’è l’aggressore, la Russia di Putin; dall’altra c’è l’aggredito, l’Ucraina. Da nonviolenti non possiamo essere pacifisti, neutrali ed equidistanti. Abbiamo il diritto e il dovere di ingerenza, di intervento, di pronto soccorso. Con le parole di Marco Pannella, ispirate dal Mahatma Gandhi, affermiamo che “fin quando non costruiremo una società di nonviolenti, sarà dovere dei nonviolenti, se non vogliono essere vili, schierarsi al fianco della violenza più vicina alle ragioni del diritto”. C’è obiezione di coscienza e obiezione di coscienza. Chi siamo noi per giudicare qual è quella giusta? Tra l’obiezione di coscienza al militarismo che invoca la “pace senza se e senza ma” e l’obiezione di coscienza a un pacifismo che condanna a subire la guerra chi per sua legittima difesa decide di resistervi? Siano beati sempre i costruttori di pace e i nonviolenti “intolleranti” - nel senso pasoliniano del “tollere” - che non levano lo sguardo, non si voltano dall’altra parte. Gli uni e gli altri sono fratelli: non vivono nella indifferenza e nella rassegnazione o nell’attesa che la pace arrivi. Occorre sempre costruire, non attendere, la pace. Il tempo della pace va previsto, visto prima. Il dopo-guerra va anticipato, preparato. Nulla di buono per il dopo-guerra può avvenire che non sia stato pensato per bene e per il bene, prima, molto tempo prima, quando a imperare sono ancora il male, la violenza, il terrore. Hic et nunc. Occorre pensare, sentire, agire, vivere, qui e ora, nel modo e nel senso in cui vogliamo accadano le cose. Allora, cosa pensiamo di fare per rendere giustizia alle vittime ucraine in Ucraina e russe in Russia della guerra di Putin? Pensiamo davvero di consegnarci al solito Tribunale dei vincitori sui vinti? Di corrispondere, in proporzione uguale e contraria, alla violenza e al dolore infinito del crimine di guerra con la durezza e il castigo esemplare del “giudice di pace”? Con la pena tremenda, senza fine, senza speranza, fino alla morte? Non c’è pace senza giustizia, è vero, è giusto dirlo. Ma quale giustizia vogliamo? Se è quella di Dike, la dea con la spada in una mano e nell’altra la bilancia coi piatti impari, la pace può essere terrificante quanto la guerra. Prepariamo sin da oggi il tempo della pace, togliendo la spada dalla mano della giustizia e pareggiando sulla bilancia il piatto del torto con quello della ragione. Invochiamo un’altra dea, un’altra giustizia: Atena, dea della saggezza, la sua idea di giustizia che non punisce e separa, ma riconcilia e ripara. Il “Nessuno tocchi Caino” della Genesi rimane un monito sempre più attuale. Dovesse accadere, lo diciamo sin da ora anche per Vladimir Putin, come facemmo con Saddam Hussein, anche con la proposta di esilio alternativa alla guerra. Nessuna vendetta, nessuna pena di morte, nessuna pena fino alla morte. Nessuna umiliazione! Usciamo dalla logica manichea del bene e del male della giustizia penale, del delitto e del castigo. Cerchiamo, anche in questo caso, qualcosa di meglio del diritto penale! Se vogliamo davvero una liberazione e una pace che durino nel tempo, liberiamo innanzitutto noi stessi e liberiamo il campo dagli armamentari mentali e strutturali del giudizio: indagini e tribunali, condanne e pene, procuratori e giudici, carcerieri e boia. Scongiuriamo, quindi, per il nostro futuro la maledizione dei mezzi sbagliati che prefigurano e distruggono i fini giusti. Mettiamo in circolazione e usiamo parole e strumenti di segno diverso, coerenti coi fini che vogliamo affermare. Parliamo al male con il linguaggio del bene, all’odio con il linguaggio dell’amore, alla forza bruta della violenza con la forza gentile della nonviolenza. Per l’Ucraina e per la stessa Russia, immaginiamo sin da subito, prefiguriamo e, in tal modo, forse, riusciamo già a costruire qualcosa di diverso dalla violenza omicida e suicida di chi la guerra ha scatenato. Siamo il futuro, il diritto e la pace che vogliamo vedere affermati in quella terra e nel mondo! Non occorre andare a cercare nella notte dei tempi per scoprire qualcosa di meglio del diritto penale. Il motto visionario “nessuno tocchi Caino” della Genesi e l’imperativo messianico “non giudicare!” del Vangelo, si sono invertiti in tempi molto più recenti, quando per sanare le ferite del passato e ristorare le vittime di immani violenze, di crimini di guerra e contro l’umanità, non sono stati edificati tribunali ma corti e commissioni “verità e riconciliazione”. È successo in Ruanda, dopo il genocidio del 1994. È successo in Sudafrica nel 1995 alla fine dell’apartheid. La verità per salvaguardare la memoria delle vittime, la riconciliazione per salvaguardare il futuro della società. Da questo esempio del passato, da questa visione del futuro, letteralmente “religiosa”, tendente cioè non a separare ma a legare vissuti e mondi diversi, può venire lo spirito creatore, lo stato di grazia che, forse, ci salveranno. *Segretario di Nessuno tocchi Caino Giustizia riparativa. Coltivare il dialogo e abbandonare la lingua della prepotenza di Gabrio Forti* e Claudia Mazzucato** Il Sole 24 Ore, 26 ottobre 2022 Nelle ultime settimane è calato sul mondo il presagio di un’escalation atomica del conflitto in Ucraina, come se non bastassero le migliaia di morti, feriti e sfollati. Il 2 ottobre scorso, il Pontefice ha implorato un serio sforzo di pace, “supplicando” Vladimir Putin e Volodymyr Zelensky; il 4 ad Assisi il Presidente della Repubblica ha rivolto l’appello a non “arrendersi alla logica di guerra (...). E allora la richiesta di abbandonare la prepotenza che ha scatenato la guerra. E allora il dialogo. Per interrompere questa spirale”. Negli stessi giorni, nelle aule dell’Università Cattolica, una piccola-grande esperienza dava concretezza alle parole del Presidente Mattarella gettando, tra le righe della Storia violenta (anche) di questo tratto di secolo, alcuni piccoli segni opposti di vita, pace e futuro possibili. Su iniziativa dell’Alta Scuola “Federico Stella” sulla Giustizia Penale e in collaborazione con il Forum Europeo per la giustizia riparativa, il Parents Circle israelopalestinese, l’Istituto Basco di Criminologia, la Defensoria del pueblo del País Vasco (Ararteko) e alcuni tra i maggiori esperti europei di restorative justice, si riunivano per la quarta volta dal 2019 accomunate dalla partecipazione a percorsi di giustizia riparativa dopo atti di violenza politica ed estremismo violento di varia matrice. Responsabili e vittime hanno scelto volontariamente di “abbandonare la prepotenza” e, potremmo dire, abbandonarsi al dialogo. Consapevoli, nelle loro viscere, della necessità di “interrompere la spirale” mortifera della violenza, si sono impegnati nel disegnare un’altra spirale (significativamente, le sedie dei partecipanti erano disposte in forma di spirale): un cerchio aperto alle parole dure di un confronto franco e terribile, sempre significativo e disarmante (per riprendere un concetto su cui insiste Agnese, figlia di Aldo Moro). Nel corso di due momenti pubblici, i partecipanti all’Incontro degli Incontri - questo è il nome dato all’iniziativa - hanno posto l’uditorio davanti al “fatto compiuto” del loro essere pacificamente insieme, esponendosi all’interlocuzione con la cittadinanza, inclusi studenti e giovani. Intersecare l’Incontro degli Incontri - con le sue storie di superamento della violenza con il dialogo - e partecipare in diretta allo scriversi di un presente in cui rispetto e riconciliazione non consentono alla morte di avere l’ultima parola è un bagno di realtà dal quale si emerge (più) certi che gli appelli al disarmo, alla pace e al dialogo non hanno nulla di retorico e devono anzi essere presi sul serio e ricadere concretamente nel quotidiano in ogni ambito possibile. Disarmare il dolore, disarmare l’ingiustizia, disarmare la giustizia non sono ideali per anime belle, sono necessità per sopravvivere, come testimoniano - con il fatto stesso del loro incontro - gli ex combattenti e le persone offese implicati in vicende sanguinose della Storia recente dell’Europa e del Medio Oriente. Per una memorabile sincronicità, nei medesimi giorni, il Consiglio dei Ministri approvava in via definitiva la riforma della giustizia penale recante, fra altre novità, una “disciplina organica” della giustizia riparativa. Quest’ultima, integrata nel sistema penale, diviene catalizzatrice di innovazione, partecipazione e potenziale mitigazione sanzionatoria. II decreto prevede che la giustizia riparativa sia “accessibile senza preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità”, avendo cura di assicurare “l’eguale considerazione per l’interesse della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa”: perché la restorative justice non è la giustizia “delle vittime”, né dell’emenda moral-restitutoria del reo. La disciplina contiene principi e disposizioni inequivocabili per orientare costituzionalmente la giustizia riparativa, il che dovrebbe rassicurare chi, di recente, ha espresso preoccupazioni in tal senso. Nella giustizia globale come nella giustizia penale nazionale, occorre il coraggio della coerenza: sforzarsi di abbandonare la prepotenza che trasforma in giustizieri per coltivare ovunque il dialogo e interrompere ogni spirale di violenza, affermando la pari dignità di ogni essere umano, dal peggiore al più vulnerabile, dal più innocente al più colpevole, senza dimenticare quella “zona grigia” che, come insegna Primo Levi, unisce i primi e i secondi. *Ordinario di Diritto penale e Direttore dell’Alta Scuola sulla Giustizia Penale Università Cattolica **Associato di Diritto penale, Comitato di coordinamento dell’Alta Scuola sulla Giustizia Penale Università Cattolica Famiglie, disagio psichico e porte chiuse di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 26 ottobre 2022 Nei casi estremi di cui ancora recentemente si è occupata la cronaca si arriva all’omicidio: quasi sempre si è scoperto poi che la famiglia aveva chiesto aiuto e non lo aveva trovato. Quando chiudi la porta di casa, resti da solo col tuo problema. E l’amore, da solo, non basta. Parlate con una mamma, un papà, un fratello o una sorella di una persona che soffre di disagio mentale: e tutti vi racconteranno questa fatica aggiungendo che sul tema pesa ancora uno stigma sociale che isola. Nei casi estremi di cui ancora recentemente si è occupata la cronaca si arriva all’omicidio: quasi sempre si è scoperto poi che la famiglia aveva chiesto aiuto e non lo aveva trovato; oppure che non aveva avuto la forza e il coraggio di ammettere il problema illudendosi in buona fede di poterlo gestire in casa. E in entrambe le circostanze proprio le mura domestiche possono diventare una trappola. Solo pochi giorni fa, il 10 ottobre, si è celebrata la trentesima edizione della Giornata Mondiale della salute mentale: “salute”, non “disagio” perché parliamo di patologie molto diffuse (in Italia si calcola ne soffrano circa 4 milioni di persone) che possono essere curate, soprattutto se diagnosticate e affrontate in tempo perché spesso di manifestano in età giovanile. “Tutte le grandi forze della società devono essere coinvolte per portare insieme un messaggio di cambiamento e di speranza e una vera attenzione alla Salute Mentale”: questo l’appello lanciato appunto il 10 ottobre da Ughetta Radice Fossati, fondatrice di Progetto Itaca, che in Italia è stata una delle prime organizzazioni ad occuparsi di questi temi cercando soprattutto di mettersi a disposizione delle famiglie. Il cambiamento invocato da Radice Fossati riguarda dunque ciascuno di noi e invita le istituzioni a favorire percorsi di sostegno più solidi e più radicati su tutti i territori del nostro Paese. Anche parlarne aiuta a combattere lo stigma, a togliere le paure e le vergogne. Ripetere che ci sono le cure può dare coraggio. E magari dietro a quelle porte ci sarà meno solitudine. Minorenni, contro la normalizzazione di pratiche violente di Ilaria Boiano* Il Manifesto, 26 ottobre 2022 Tra i presidi del nostro ordinamento si iscrivono i rigorosi e inderogabili confini, costituzionalmente stabiliti dall’art. 13, a ogni limitazione della libertà personale, che può essere compressa dall’autorità giudiziaria solo nelle forme e nei casi stabiliti dalla legge. La società civile, comunque, è consapevole di dover sempre mantenere alta l’attenzione sui rischi di arbitrii e ingiustizie che si registrano nei contesti di restrizione della libertà personale, poiché il piano formale delle garanzie costituzionali spesso si scontra con quello sostanziale di abuso e sopraffazione. V’è oggi uno spazio di irragionevole e sproporzionata compressione della libertà personale che rimane invisibile, o addirittura normalizzata: a seguito di valutazione di psicologi forensi che accusano le madri, spesso in fuga con i figli dalla violenza domestica, di condotte alienanti, manipolatorie o “disturbi relazionali”, i tribunali civili e minorili ordinano l’esecuzione coercitiva di provvedimenti di allontanamento dei figli, contro la loro volontà, per collocarli presso il padre o in case famiglia, con divieto di contatti e incontri con la madre, ritenuta responsabile del rifiuto dei figli nei confronti del padre. Si vede in azione così l’effetto secondario della patologizzazione e criminalizzazione senza reato (dal momento che il plagio che di fatto si invoca, è fattispecie espunta dal nostro ordinamento dalla Corte costituzionale), prodotta dai provvedimenti civili e minorili a carico della figura materna: sulla presunzione che, se l’autorità giudiziaria è giunta a una decisione così drastica, quest’ultima sicuramente “qualcosa avrà fatto”. In queste operazioni, spesso coordinate da tutori, curatori e servizi sociali, con l’intervento delle forze dell’ordine e personale sanitario, il pregiudizio contro le donne si traduce non solo nel dispiegamento di sorveglianza e contenimento (fino al trattamento sanitario obbligatorio nei riguardi delle donne coinvolte), ma anche nell’uso illegittimo della coercizione fisica e psicologica, ossia di violenza, nei confronti delle persone minorenni, ridotti a res oggetto di esecuzione. La Corte di cassazione (ord. 24/3/22 n. 9691) ha chiarito che l’esecuzione con la forza dell’allontanamento coercitivo dei figli da un genitore, in assenza di concreto pregiudizio, è da ritenersi estraneo allo Stato di diritto: ciò vuol dire che la pratica è in sé estranea all’ordinamento stesso per la sua portata violenta e autoritaria. Nonostante ciò, sono ancora diffuse prassi che espongono persone minorenni a trattamenti inumani e degradanti motivati dal loro superiore interesse, svuotato di ogni aderenza al bene di rango costituzionale del concreto “benessere dell’infanzia” (art. 32 Cost.); e, cosa che allarma ancora di più, le stesse prassi diventano oggetto di linee guida e tavoli di lavoro per la loro “regolamentazione”, come appena annunciato dal Garante nazionale dell’infanzia e dell’adolescenza. Questa iniziativa, che si traduce di fatto nella scelta di normalizzare pratiche senza alcuna legittimità costituzionale, svela la persistente incapacità dell’ordinamento giuridico, e con esso della società tutta, di riconoscere bambini e bambine quali soggetti di diritto con una voce propria autodeterminata. Si susseguono carte, dichiarazioni, opuscoli nei quali si sintetizzano i loro diritti e le loro libertà fondamentali, ma la loro voce rimane silenziata e, non di rado, soverchiata da quella del padre violento. Per cambiare il discorso giuridico su queste pratiche autoritarie, non si può non affrontare la questione del pregiudizio sessista che colpisce le loro madri. D’altra parte, è solo grazie alle riforme promosse dal movimento delle donne per abbattere gli istituti della patria potestà e della potestà maritale, che i bambini e le bambine sono stati “visti”, per la prima volta, come soggetto di diritto. *Associazione Differenza Donna Sull’immigrazione proposte già sentite e mai attuate di Carlo Lania Il Manifesto, 26 ottobre 2022 Dalla missione Ue agli hotspot in Africa Meloni rispolvera vecchi progetti sperimentati e accantonati in passato. Tre minuti in coda al discorso programmatico per liquidare l’immigrazione con proposte vecchie e difficilmente realizzabili. Mentre il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi si preparava a bloccare due navi delle ong, alla Camera Giorgia Meloni rispolvera idee che in sei anni di cosiddetta “emergenza immigrazione” l’Unione europea ha discusso e sperimentato, salvo poi archiviarle quasi tutte proprio perché inattuabili. Proposte avanzate sempre in nome di una presunta “lotta agli scafisti” ma che, puntualmente, hanno sempre finito per colpire i migranti. Ed è proprio da lì, dal contrasto alle organizzazioni criminali che speculano sulla disperazione dei migranti che ovviamente la premier parte. “Il nostro obiettivo è impedire che sull’immigrazione l’Italia continua a farsi fare la selezione dagli scafisti”, consentendo gli ingressi solo attraverso il decreto flussi. Pochi dubbi sul come fare: “Se non volete che si parli di blocco navale lo dirò così: dobbiamo recuperare la proposta originaria della missione navale Sophia dell’Unione europea che nella terza fase prevista, anche se mai attuata, prevedeva il blocco delle partenze dei barconi dal Nord Africa”. Quello che Meloni non dice sono gli ostacoli incontrati dalla missione Ue (che in cinque anni di attività ha comunque salvato più di 45 mila uomini, donne e bambini). Ostacoli principalmente politici. Per poter portare a termine il suo mandato, che nella terza fase prevedeva l’ingresso nei porti libici per affondare le imbarcazioni degli scafisti, erano infatti necessarie condizioni precise: un mandato dell’Onu e l’autorizzazione del governo libico senza la quale ogni azione sarebbe stata interpretata come un atto di guerra. Dalle Nazione unite non è mai arrivato il via libera, ma la difficoltà principale si è avuta nell’impossibilità di fare riferimento a un’autorità libica riconosciuta. All’epoca, era il 2015, la Libia era divisa tra il governo di Tripoli, guidato dal premier al Serraj e sostenuto dall’Italia, e quello di Bengasi fedele al generale Haftar appoggiato dall’Egitto. Stringere un accordo con uno dei due avrebbe provocato la reazione dell’altro. Oggi la situazione è molto più complicata. La Libia è un Paese spaccato in tre tra Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, con almeno due governi e tre parlamenti e qualcosa come 700 milizie che si fronteggiano. E come se non bastasse con la presenza ingombrante di Turchia, Russia ed Egitto. Trovare una soluzione che metta d’accordo tutti è praticamente impossibile. Finirà, purtroppo, con il solito sostegno di mezzi e soldi alla Guardia costiera libica perché continui a riportare i migranti nel centri di detenzione. Poi ci sono gli hotspot in Africa. Meloni ne ha parlato anche ieri alla Camera spiegando che dovranno essere gestiti dalle organizzazioni umanitarie e dovranno servire a vagliare le richieste di asilo. “Per distinguere chi ha diritto a essere accolto n Europa e chi quel diritto non ce l’ha”, ha spiegato. Anche in questo caso nulla di nuovo. Era il 2018 quando la Commissione europea propose di far sbarcare i migrati in “piattaforme regionali” gestite dall’Onu in collaborazione con l’Ue, di fatto hotspot da collocare lungo le coste del nord Africa dove separare i migranti economici dai richiedenti asilo. Qualcosa di molto simile la propose anche l’allora ministro degli Esteri Moavero Milanesi, preferendo però chiamarli “centri di assistenza, informazione e protezione” dei migranti. Non se ne fece nulla. Il primo ad avanzare qualche resistenza fu il presidente francese Emmanuel Macron, ma non fu l’unico. All’epoca il “Guardian” riferì della contrarietà espressa dall’Unione africana, secondo la quale il progetto violava il diritto internazionale secondo il quale le richieste di protezione vanno presentate nei Paesi ai quali si intende chiedere asilo. Infine i fondi all’Africa. Meloni ha parlato di un non meglio specificato “piano Mattei” (il riferimento è a Enrico Mattei) di investimenti. “Un modello virtuoso di collaborazione e di crescita tra Unione europea e nazioni africane”. Sorvolando sul fatto che da anni l’Ue investe in progetti di sviluppo in Africa, va detto che comunque servirebbero anni per vedere i primi risultati. E a chi le ha ricordato che non si tratta di una novità, ieri la premier ha risposto con sicurezza: “Dite che c’è già stato? Allora non è quello cui penso io. Parlo da tempo con diverse organizzazioni di patrioti africani e neanche loro se ne vogliono andare da casa”. Migranti. Primo stop alle navi delle Ong, il governo prepara l’offensiva di Giansandro Merli Il Manifesto, 26 ottobre 2022 Il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi accusa: “Soccorsi senza coordinamento”. A Lampedusa arrivano due neonati morti. L’Oim: dal 2021 oltre 2.800 vittime nel Mediterraneo centrale. In mare due navi si impegnano a salvare persone, a terra tre ministri si occupano di creare loro problemi. Sulle Ocean Viking e Humanity 1 ci sono 326 naufraghi. Viaggiavano su barchini instabili o gommoni sovraffollati, con il rischio di ribaltarsi o affondare in qualsiasi momento, senza le più basilari condizioni di sicurezza. Secondo le autorità italiane, però, sono le Ong ad aver agito fuori dalle convenzioni sul soccorso in mare e dalle norme per il contrasto dell’immigrazione. È il contenuto di una nota verbale con cui il ministero degli Affari esteri, guidato da Antonio Tajani (Forza Italia), ha contestato alle ambasciate norvegese e tedesca, stati di bandiera delle imbarcazioni, un comportamento irregolare: “operazioni di soccorso svolte in piena autonomia e in modo sistematico senza ricevere indicazioni dall’autorità responsabile dell’area Sar, Libia e Malta, informata solo a operazioni avvenute”. Le due navi non hanno fatto nulla di diverso dalle ultime missioni, portate a termine lontano dai riflettori della politica. Ma con la destra al governo il vento è cambiato e l’esecutivo ci tiene a segnare subito il punto. “È vero che abbiamo agito in autonomia. Sono anni che chiediamo il coordinamento alle autorità competenti ma nessuno risponde. Dovremmo lasciare affogare le persone?”, dice Francesco Creazzo, di Sos Mediterranée. Sulla base delle contestazioni alle ambasciate il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha inviato una direttiva ai vertici delle forze di polizia e delle capitanerie di porto. Dal Viminale fanno sapere che si tratta di una richiesta di monitorare le due navi anche ai fini di un eventuale divieto di ingresso nelle acque italiane. Che per ora non è stato disposto. Immediato il sostegno del vicepremier e neoministro delle Infrastrutture Matteo Salvini (Lega): “Come promesso questo governo intende far rispettare regole e confini”. Il manifesto ha potuto visionare il contenuto della nota verbale, che ha una forma scritta, trasmessa all’ambasciata norvegese. Il ministero degli Esteri, che per errore attribuisce la Ocean Viking a Medici senza frontiere invece che a Sos Mediterranée, sottolinea come l’Italia non abbia assunto il coordinamento dei soccorsi, avvenuti fuori dall’area di ricerca e soccorso di competenza, e dunque non riconosca alcuna responsabilità nell’individuazione del porto. Afferma anche di considerare pregiudizievole al buon ordine e alla sicurezza dello Stato l’ingresso della nave in acque territoriali italiane, che quindi potrà essere rifiutato. Un déjà-vu del braccio di ferro Salvini-Ong andato in scena tra 2018 e 2019. I decreti sicurezza voluti al tempo dal leader leghista, infatti, sono ancora in vigore. Il successivo governo Pd-M5s aveva promesso di cancellarli all’insegna della “discontinuità” sulle politiche migratorie, ma li ha solo modificati. Per esempio trasferendo nel penale il regime sanzionatorio, con l’aggiunta della possibile reclusione fino a due anni per il comandante della nave, e precisando che non si possono punire i soccorsi “effettuati nel rispetto delle indicazioni della competente autorità per la ricerca e il soccorso in mare”. Il diavolo, come sa chi scrive le leggi e chi le emenda, sta nei dettagli. È da oltre cinque anni che l’Italia non coordina i soccorsi fuori dalla sua zona Sar. Né coordinano Malta o i libici, che comunque non dispongono di porti sicuri. Intanto dal 2018 la “flotta civile” è cresciuta. Le navi umanitarie attive sono dieci: Geo Barents, Ocean Viking, Sea-Eye 4, Mare Jonio, Humanity 1, Aita Mari, Open Arms, Open Arms 1, ResQ, Sea-Watch 3 (detenuta a Reggio Calabria). Altre due sono in arrivo: Sea-Watch 5 e Life Support. Tre sono le unità più piccole e veloci: Louise Michel, Rise Above e Aurora Sar (bloccata da problemi con la bandiera britannica). Ci sono poi tre velieri che svolgono missioni di monitoraggio e assistenza: Astral, Imara e Nadir. Anche gli aerei civili che pattugliano il mare sono tre: Colibrì 2 (di Pilots Volontaires), Seabird 1 e 2 (di Sea-Watch). Uno, invece, il centralino che riceve e rilancia le richieste di aiuto: Alarm Phone. Nonostante tutto ciò, in assenza di una vera assunzione di responsabilità degli stati, i migranti continuano a morire. Almeno 2.836 dal 2021 nel Mediterraneo centrale (fonte: Oim). Ieri è toccato a due gemellini di appena 20 giorni partiti, con altre 56 persone, da Sfax. Erano sottopeso e sarebbero morti di ipotermia. “La prima a scendere sul molo di Lampedusa è stata la madre, distrutta, in lacrime”, dice Giovanni D’Ambrosio di Mediterranean Hope. Nella camera mortuaria del cimitero dell’isola, sprovvista di cella frigorifera, ci sono anche i quattro cadaveri trovati in mare lunedì, quelli di altri due bambini vittime di un incendio scoppiato sul loro barcone e di due tunisini recuperati il 6 ottobre. Tra lunedì e martedì sulla maggiore delle Pelagie sono arrivate più di 800 persone: oltre 1.100 le presenze nell’hotspot. Ieri, poi, la guardia costiera italiana è intervenuta per soccorrere circa 1.300 migranti partiti su due pescherecci da Tobruk, nella Cirenaica. Geo Barents e Humanity 1 erano in area ma non sono state coinvolte. Sull’operazione non sono state diffuse informazioni ufficiali. Migranti. No al rinnovo del patto criminale Italia-Libia di Filippo Miraglia Il Manifesto, 26 ottobre 2022 Giorgia Meloni alla Camera sul tema immigrazione si presenta con ricette vecchie e già logore: una rivisitazione del fantomatico blocco navale e gli hotspot fuori confine, ovvero esternalizzazione dei controlli e delle frontiere, per impedire di fatto ogni via d’accesso all’Europa. Proposte sbagliate e fallimentari, che hanno già fatto la fortuna di trafficanti e milizie che sulle vite umane speculano e costruiscono imperi. Proposte che hanno già prodotto crimini contro l’umanità, stupri, violenze, torture e morte. Perché è questo ciò che accade in Libia da anni, ogni giorno, con il sostegno, economico e politico, del nostro governo e dell’UE. In particolare dalla firma del Memorandum Italia-Libia, un simbolo di queste esternalizzazioni. Un accordo criminogeno nato il 2 febbraio 2017 su iniziativa dell’allora Ministro Minniti e sostenuto poi da tutte le successive maggioranze. Da allora, più di 100 milioni di euro sono arrivati nelle tasche della cosiddetta guardia costiera libica in formazione ed equipaggiamenti. Un miliardo da Italia e Ue per le diverse missioni in Libia e nel Mediterraneo, spesso usati per contrastare le Ong, anziché per salvare vite umane. A parlare di crimini contro l’umanità e di responsabilità dei governi è già stato più volte il procuratore capo della Corte Internazionale dell’Aia Karim Khan, molto ascoltato se si tratta di crimini commessi dai russi in Ucraina, poco o per nulla quando si parla di Libia. Lunedì scorso il nuovo Rappresentante Speciale per la Libia del Segretario Generale dell’Onu, Abdoulaye Bathily, ricordava davanti al Consiglio di Sicurezza che “le violazioni contro migranti e richiedenti asilo continuano nell’impunità. La detenzione arbitraria continua come pratica comune.” Bathily ha denunciato il ritrovamento di 11 corpi di migranti carbonizzati all’indomani degli scontri tra bande rivali di trafficanti di esseri umani a Sabratha, invitando le autorità libiche ad “adottare misure immediate e credibili per affrontare la terribile situazione dei migranti e rifugiati e smantellare la relativa tratta e le reti criminali”. Entro il 2 novembre il governo potrebbe intervenire per modificare il Memorandum, evitando che il patto si rinnovi automaticamente il prossimo 2 Febbraio. Nonostante dalle parole di Giorgia Meloni l’esito appaia scontato, più di 40 organizzazioni della società civile italiana hanno deciso di scendere in piazza oggi a Roma - piazza dell’Esquilino alle 17,30 - chiedendo di fermare questa vergogna. #NonSonoDAccordo lo slogan: se continuerete a finanziare violenze, morte e respingimenti illegittimi, non lo farete in nome nostro. Rinnovando il Memorandum, scommettendo sulle esternalizzazioni, così come avvenuto solo qualche mese fa quando è stata rinnovata dal Parlamento, con pochi voti contrari, la missione in Libia e il relativo sostegno alla cosiddetta guardia costiera libica, si sceglie di alimentare i crimini più efferati. Le armi, gli strumenti e le risorse donate alle autorità libiche vanno direttamente alle milizie che si contendono il controllo del territorio, dei porti e dei centri di detenzione. Un sostegno che alimenta la violenza ed è un ostacolo al processo di pace. Così, come in un macabro gioco dell’oca, da anni migliaia di persone, torturate e violentate, partono dai centri di detenzione, vengono imbarcate per attraversare il Mediterraneo, ricatturate in mare, con l’aiuto dell’Italia e di Frontex, dalla cosiddetta guardia costiera libica e riportate nei centri di detenzione a subire altre violenze e ricatti. Oltre 100mila dalla firma del Memorandum a oggi. Un modo per aggirare il divieto di respingimento previsto dalla Convenzione di Ginevra, che i governi oramai mal sopportano ma sono costrette a rispettare, appaltando alle milizie libiche il lavoro sporco. Un circolo infernale che spesso si interrompe, in mare o in terra, con la morte: quasi 2 mila solo quest’anno nel Mediterraneo. Morti di frontiera che si potevano evitare consentendo alle persone di viaggiare in sicurezza e legalità, invece di rafforzare i controlli o evocando fantomatici blocchi navali. Scendiamo in piazza contro chi intende amplificare la spirale di violenza e di morte, impedendo alle persone di fuggire da un luogo che tutti sanno non essere sicuro. Ma speriamo anche di assistere, e forse ci illudiamo, ad un’inversione di marcia delle forze democratiche e di sinistra che, salvo poche eccezioni, in questi anni, in Italia come in UE, nel migliore dei casi si sono distinte per un assordante silenzio. Nel peggiore elaborando la dottrina Minniti, attaccando le Ong, firmando il Memorandum. Stati Uniti. 30 anni nel braccio della morte l’uomo che chiamò a testimoniare Kennedy e Gesù di Riccardo Noury Corriere della Sera, 26 ottobre 2022 Trent’anni fa, in Texas, Scott Panetti sparò ai suoceri uccidendoli. Si consegnò alla polizia dicendo di aver agito sotto il controllo di un tale “Sergente”, tra le “risate di Satana”, che si era insediato dentro ai mobili della sua abitazione, cui invano aveva cercato di dare fuoco. Al processo si presentò vestito da cowboy, con una vistosa sciarpa viola, rifiutò l’avvocato e chiese che venissero a testimoniare in sua difesa Gesù Cristo, John Fitzgerald Kennedy e altre 200 persone morte da tempo. La prima volta che a Panetti furono diagnosticati enormi problemi di salute mentale, compresi ripetuti episodi di schizofrenia e forme acute di paranoia che resero necessari oltre 10 ricoveri, risale a oltre quattro decenni fa. Nessuno batté ciglio al processo che si concluse con la condanna a morte. Per due volte, Panetti è arrivato a un passo dall’esecuzione prima che venisse sospesa. La Corte suprema federale, nella sentenza Ford v. Wainwright del 1986, ha vietato le esecuzioni di persone con gravi disturbi mentali, a tal punto a non comprendere il motivo della loro sentenza. In una sentenza del 2007 riguardante proprio questa vicenda (la Panetti v. Quarterman), la Corte ha specificato che il condannato a morte non deve solo avere una vaga consapevolezza della relazione il suo crimine e la sentenza, ma deve avere una “razionale comprensione” dei motivi per cui verrà messo a morte. Panetti ha trascorso quasi tre decenni nel braccio della morte. Tra pochi giorni la Corte del distretto occidentale del Texas esaminerà nuovamente la sua vicenda giudiziaria. Russia. Caso Griner: confermata la condanna a 9 anni per possesso di stupefacenti La Repubblica, 26 ottobre 2022 Il tribunale di Krasnogorsk ha respinto il ricorso presentato dagli avvocati dell’ex cestista americana condannata in primo grado a nove anni di carcere con l’accusa di possesso e traffico di droga. Le proteste della Casa Bianca. La Corte d’appello ha confermato la condanna a nove anni di reclusione per la cestista americana Brittney Griner, riconosciuta colpevole di possesso di stupefacenti dopo essere stata arrestata a febbraio in un aeroporto moscovita in possesso di olio di cannabis. La star del basket Usa, che è apparsa in video collegamento nell’aula di tribunale di Krasnogorsk, vicino Mosca, aveva chiesto al tribunale di Mosca di ridurre la sua pena detentiva “traumatica” nel carcere di Novoye Grishino. L’atleta si è scusata per quello che ha definito “un errore ingenuo” e si è detta “molto, molto stressata”. Secondo il tribunale si tratta di una condanna “equa” e per questo l’ha confermata in appello. L’avvocato della donna, Alexander Boykov, ha detto alla corte che “nessun giudice potrà dirà onestamente che la condanna a nove anni di Griner è in linea con il diritto penale russo”. Ora Griner potrebbe iniziare presto a scontare la sua condanna in un istituto di pena russo, ogni giorno trascorso dietro le sbarre dall’arresto lo scorso febbraio sarà conteggiato come uno e mezzo per la sua pena detentiva. Immediata la reazione della Casa Bianca che ha parlato di processo farsa. “Siamo a conoscenza delle notizie provenienti dalla Russia che Brittney Griner continuerà ad essere ingiustamente detenuta sotto circostanze intollerabili dopo un altro processo farsa”: così il consigliere per la Sicurezza nazionale Usa Jake Sullivan dopo la conferma della pena. Biden, ha aggiunto, è stato “molto chiaro” nel dire che dovrebbe essere rilasciata immediatamente”. L’amministrazione Usa “ha continuato ad impegnare la Russia attraverso ogni canale disponibile e a fare ogni sforzo per portare a casa Brittney Griner, come pure per sostenere altri americani detenuti in Russia, compreso il nostro concittadino ingiustamente detenuto Paul Whelan”, continua Sullivan, ricordando che il presidente Usa “ha dimostrato che vuole fare il massimo e prendere decisioni difficili per riportare a casa gli americani, come la sua amministrazione ha fatto con successo da altri Paesi nel mondo”. L’arresto della star del basket - Brittney Griner, star del basket americano due volte campionessa olimpica, è in carcere in Russia da quando, nel febbraio scorso, fu arrestata al suo arrivo all’aeroporto Sheremetevo di Mosca dopo che la polizia le aveva trovato nel bagaglio sigarette elettroniche liquide contenenti olio di hashish. La quantità, secondo quanto precisato oggi dal suo avvocato in aula, era di 0,72 grammi. Al processo di primo grado la Griner si era dichiarata colpevole di traffico di droga, aggiungendo di non aver avuto intenzione di “violare la legge russa”. È opinione diffusa, tuttavia, che l’atleta trentunenne possa essere usata dalle autorità russe come pedina per uno scambio di prigionieri con gli Usa. Brittney Griner, giocatrice di punta dei Phoenix Mercury, era arrivata in Russia per giocare nel campionato russo nelle fila di una squadra di Ekaterinburg durante la pausa del campionato Wnba americano. Giappone. Prigionieri del braccio della morte contro le esecuzioni senza preavviso vaticannews.va, 26 ottobre 2022 Due condannati a morte del Giappone hanno presentato una causa contro le modalità con cui le autorità applicano la pena di morte, ha riportato Vatican News il 24 ottobre 2022. Le autorità giapponesi concedono ai prigionieri nel braccio della morte solo una o due ore di preavviso della loro impiccagione, una politica che secondo le autorità tutela la “stabilità emotiva” del detenuto. Gli attivisti affermano invece che questa politica privi i prigionieri dei loro diritti legali, così come la possibilità di dire addio alla famiglia o ricevere ministri religiosi. La causa, presentata da due prigionieri anonimi del braccio della morte al tribunale distrettuale di Osaka, contiene testimonianze toccanti. “Quando l’addetto della prigione apre la porta della cella del prigioniero e annuncia l’esecuzione, il prigioniero viene immediatamente preso e portato sul luogo dell’esecuzione”, ha scritto agli avvocati il prigioniero del braccio della morte Hiroshi Sakaguchi, riportato nella causa. “Il prigioniero viene legato, ammanettato e portato con gli stessi vestiti sul posto delle esecuzioni, dove viene impiccato con un cappio. … Noi, i condannati, non siamo autorizzati a opporci all’esecuzione”. Un’altra testimonianza è contenuta in un nastro audio registrato nel 1955, che racconta le ultime ore di un prigioniero senza nome in un’epoca in cui i termini di preavviso erano più lunghi. Nel nastro, si comprende che l’uomo riceve tre giorni di preavviso della sua esecuzione e trascorre il tempo salutando affettuosamente i detenuti e la sorella in visita, che singhiozza. Il nastro include il rumore dell’uomo che viene impiccato mentre i sacerdoti buddisti cantano i sutra. Il Giappone ora ha ridotto il periodo di preavviso a una o due ore, negando ai prigionieri il tempo sufficiente per contattare chiunque fuori dal carcere o anche solo per riflettere sulla morte imminente. Takeshi Kaneko, un avvocato che lavora a Osaka per i due prigionieri anonimi, dice che la politica è sbagliata. “Se dai l’avviso il giorno stesso, non puoi prepararti bene”, ha detto Kaneko. “È solo per comodità delle autorità che il prigioniero viene avvisato la mattina stessa. Questo è un errore”. Inoltre, questa politica nega ai detenuti la possibilità di contattare un avvocato, e quindi il diritto di appello. Almeno un prigioniero è stato giustiziato mentre era in corso un appello. Il ministero della Giustizia giapponese non ha mai detto perché o quando abbia adottato le esecuzioni immediate. Dice solo che la politica garantisce la “stabilità emotiva” del prigioniero. Gli attivisti ritengono che potrebbe essere un tentativo di prevenire suicidi. Un condannato a morte si è suicidato nel 1975 e l’adozione delle nuove modalità potrebbe risalire a quel periodo. Incertezza e segretezza circondano le esecuzioni in Giappone. Il ministero della Giustizia annuncia il nome e il crimine commesso dal prigioniero ma nient’altro, citando regole di riservatezza e privacy. Alcuni prigionieri hanno trascorso più di un decennio nel braccio della morte prima di essere uccisi in una data arbitraria. La segretezza significa che non c’è quasi dibattito pubblico in Giappone sulla pena di morte o su come venga applicata. Gli attivisti ritengono che molte persone non siano nemmeno consapevoli del fatto che tutti i prigionieri vengano impiccati, una pratica invariata dal 19° secolo. “Dato che solo due informazioni vengono divulgate dalle autorità, questa è una situazione in cui è impossibile discutere del sistema della pena di morte”, ha affermato Kaneko. L’attuale causa legale non mira certo a rovesciare la pena di morte. Gli avvocati stanno sfidando una piccola parte della procedura come modo per avviare una discussione più ampia. “Vorrei chiedere a tutti cosa ne pensano della pena di morte”, ha detto Kaneko. “Il periodo di preavviso dovrebbe essere di 30 giorni, 90 giorni o anche più? Dal momento che non ci sono discussioni in Giappone, possiamo aumentare la consapevolezza sul problema”. Kaneko invita le autorità del Giappone a prendere in considerazione le procedure negli Stati Uniti, dove i prigionieri di alcuni stati hanno la libertà di incontrare ospiti, scrivere lettere e consumare un ultimo pasto a scelta. Ciò conserva parte della loro dignità e offre un certo sollievo. Se il Giappone adottasse maggiore preavviso, potrebbe consentire ai prigionieri un’ultima cerimonia del tè e la possibilità di scrivere poesie haiku, sostengono i presentatori della causa presso il tribunale di Osaka. Nel 1979, il Giappone è diventato membro della Convenzione sulle Libertà Civili, che proibisce metodi di esecuzione “dolorosi e umilianti”. Il Comitato per le Libertà Civili, che sovrintende all’attuazione del documento, ha espresso più volte preoccupazione per il fatto che i detenuti nel braccio della morte giapponese vengano giustiziati senza preavviso e che le loro famiglie non possano prepararsi. Questo, si dice, è crudele. Nel frattempo, il team legale di Osaka teme ritorsioni contro i due prigionieri per via della causa legale. Potrebbero essere giustiziati in qualsiasi giorno, per un motivo sconosciuto. Per questa ragione, alla corte non è stato comunicato il loro nome.