“Raccontateci difficoltà, speranze e cambiamenti per rendere la detenzione meno dolorosa” di Rossella Grasso Il Riformista, 25 ottobre 2022 L’iniziativa di Sbarre di Zucchero con Il Riformista. È un anno terribile per le carceri italiane. Ad oggi sono 71 i suicidi avvenuti in cella e l’anno 2022 non è ancora terminato. Un triste primato, un segno tangibile che nelle carceri ci sono molte cose che non vanno. Il Riformista ha deciso di appoggiare l’iniziativa lanciata da Micaela, Maurizio, Camillo, Enrico, Monica, Giovanni, Elisa e Umberto, gli amministratori del gruppo Sbarre di Zucchero che hanno deciso di raccogliere e divulgare le lettere di detenuti, ex detenuti, familiari e di tutti quanti operano nel mondo delle carceri affinchè sia acceso un faro su questo spaccato di vita troppo sofferente ma ancor di più relegato ai margini. Sbarre di Zucchero nasce come un gruppo su Facebook, diventato poi una vera e propria community, fondato dalle compagne di Donatela Hodo, morta suicida nel carcere di Verona ad agosto nonostante le mancasse poco per tornare in libertà. Aveva solo 27 anni. Prima di morire lasciò un biglietto per il fidanzato: “Leo amore mio, mi dispiace. Sei la cosa più bella che mi poteva accadere e per la prima volta in vita mia penso e so cosa vuol dire amare qualcuno ma ho paura di tutto, di perderti e non lo sopporterei. Perdonami amore mio, sii forte, ti amo e scusami”, scrisse a penna. Quel biglietto, quelle parole d’amore che vengono dal buio più pesto, sono rimaste incise nel cuore di tanti. E gridano che si faccia qualcosa per migliorare la condizione nelle carceri, affinché nessuno abbia mai più “paura di tutto” come Donatela, nessuno si senta solo e il carcere possa davvero assolvere a quello che la Costituzione prevede: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Affinché quelle celle, sovraffollate e inadeguate alla vita, non diventino più bare. Il Riformista accoglierà i contributi che gli amici di Sbarre di Zucchero raccoglieranno. Riportiamo qui di seguito la chiamata all’azione del gruppo, felici di poter accogliere la loro iniziativa e fiduciosi che mettendo insieme le voci e non rimanendo in silenzio le cose possono cambiare. E il contributo di ciascuno è fondamentale. Siamo le compagne di Donatela Hodo, che hanno sentito l’urgenza di tentare di prevenire altri suicidi e di raccontare la realtà di sofferenza delle donne in carcere per sensibilizzare l’opinione pubblica e le istituzioni. Al gruppo successivamente si sono aggiunti medici, volontari, avvocati, giornalisti e attivisti, tutte persone a cui stanno a cuore i diritti dei detenuti, con particolare attenzione alle donne. Sbarre di Zucchero promuove il superamento del carcere, le iniziative di reinserimento, la tutela degli affetti, la giustizia riparativa. Il messaggio che vogliamo trasmettere é che la detenzione non é un limite insuperabile ma è possibile riprendere in mano la propria vita, ricostruirsi un futuro, dimostrare di essere delle risorse preziose per la collettività. In questi due mesi abbiamo costruito molto. Oltre ad aver creato una pagina e un gruppo su Facebook abbiamo iniziato una collaborazione con la rivista Voci di Dentro e organizziamo con cadenza mensile dei convegni che vengono trasmessi anche su Radio Radicale. In tutte queste iniziative vengono valorizzate le testimonianze delle fatiche e delle rinascite delle ragazze di Sbarre. Saremmo felici di coinvolgervi, vi proponiamo di scriverci. Potreste raccontare le difficoltà del quotidiano, le vostre speranze, i cambiamenti che potrebbero rendere meno dolorosa la detenzione. Noi pensiamo che i vostri contributi sarebbero molto preziosi nell’opera di sensibilizzazione che cerchiamo di portare avanti. Crediamo fermamente nei principi dello Stato di Diritto e siamo convinti che solo con un paziente lavoro di dialogo con le istituzioni, di denuncia che sia soprattutto critica costruttiva, di proposte concrete si possano realizzare quei miglioramenti che tutti auspichiamo. Vi mandiamo un grande abbraccio e vi invitiamo a scriverci le vostre storie e le vostre proposte. Gli Amministratori di Sbarre di Zucchero: sbarredizucchero@gmail.com, oppure Sbarre di zucchero c/o Monica Bizaj via Torino 11 - 34074 Monfalcone (GO). Quel ruolo dei Garanti a tutela delle istituzioni di Alessandro Capriccioli* Il Dubbio, 25 ottobre 2022 Il caso di Pietro Ioia rischia di mettere in discussione un’attività che è invece indispensabile all’interno delle nostre carceri. In alcune delle reazioni che sono seguite alla notizia della misura cautelare nei confronti di Pietro Ioia, garante dei detenuti del comune di Napoli accusato di aver introdotto nel carcere di Poggioreale telefoni cellulari e droga, ho avvertito una quota di frenesia supplementare anche rispetto all’ormai (tristemente) consueto livore giustizialista tipicamente italiano, in base al quale vengono abitualmente emesse sentenze di condanna mediatica prima delle pronunce dei tribunali, o come nel caso di specie addirittura prima di una richiesta di rinvio a giudizio. È una quota di frenesia supplementare che a mio parere tradisce un diffuso sentimento di insofferenza verso l’attività dei garanti: attività che alcuni sembrano giudicare non soltanto superflua, ma talora perfino fastidiosa, perché evidenzia problemi e solleva criticità rispetto a un mondo, quello carcerario, di cui spesso si parla con colpevole riluttanza. La realtà è che i garanti svolgono un ruolo di importanza fondamentale per assicurare la legalità all’interno degli istituti penitenziari, e perciò per assicurare che alle persone detenute venga garantito il rispetto dei diritti riconosciuti loro dalla legge: e questo vale in modo particolare per i garanti comunali, che per la prossimità con cui seguono le vicende degli istituti nel proprio territorio sono in grado di assicurare il rispetto di quei diritti in modo ancora più puntuale e rigoroso. Sulla vicenda di Ioia, naturalmente, la giustizia farà il suo corso: e forse non è inutile ricordare, come da Radicali non abbiamo mai mancato di fare, che le esperienze passate di ciascuno non possono rappresentare motivi validi per mettere da parte la presunzione di innocenza, che fino a prova contraria deve valere per chiunque. Ma al di là del caso specifico e del suo esito sarebbe davvero una sciagura se questa vicenda finisse per alimentare e consolidare un sentimento di indifferenza, o peggio di sfiducia, nei confronti dei garanti come istituzioni, e quindi contribuisse a rafforzare la corrente di pensiero che li vorrebbe ridimensionati nei poteri, nelle attribuzioni e nelle possibilità di intervento. Al contrario, la legalità che in questo caso si ipotizza violata è la stessa legalità che i garanti contribuiscono quotidianamente ad affermare all’interno delle nostre carceri: e dunque la risposta più efficace, anche nel caso in cui fosse confermato che a violare la legge sia stato uno di loro, dovrebbe essere quella di potenziarne l’attività e mettere loro a disposizione strumenti più incisivi per poterla svolgere al meglio. *Consigliere Regionale Lazio +Europa - Radicali Un anarchico al 41 bis: “Pronto a lasciarmi morire di fame” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 25 ottobre 2022 Da giovedì scorso, 20 ottobre, Alfredo Cospito è in sciopero della fame. Parliamo del primo caso, senza precedenti, di un anarchico che è al 41 bis per via delle sue lettere e articoli pubblicati su riviste e siti on line durante la detenzione. Non i pizzini, o messaggi criptici, ma pensieri politici pubblici trasmessi quando era nel circuito differenziato dell’alta sicurezza (AS2) trascorsi nella quasi totalità senza alcun vincolo di censura nella corrispondenza. “Un paese liberale tutela tutte le ideologie, anche le più odiose”, sottolinea il suo avvocato Flavio Rossi Albertini assieme alla sua collega Maria Teresa Pintus che l’assiste al carcere duro di Bancali, a Sassari. Ricordiamo che Cospito è uno dei due condannati per strage contro la pubblica incolumità per due ordigni a basso potenziale esplosi presso la Scuola Allievi Carabinieri di Fossano senza causare né morti né feriti. Un reato che prevede la pena non inferiore ai 15 anni. Poi il colpo di scena. La cassazione ha riqualificato il reato a strage contro la sicurezza dello Stato. Parliamo dell’articolo 285 che prevede l’ergastolo. Si tratta del reato più grave del nostro ordinamento che non è stato nemmeno applicato per le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Reato introdotto dal Codice Rocco che prevedeva la pena di morte (ora l’ergastolo, in questo caso ostativo). In sostanza, parliamo di un reato introdotto per evitare la guerra civile. Ergo, con quelle azioni dimostrative, Cospito avrebbe messo in pericolo l’esistenza dello Stato. Chiaro che tutto ciò appare spropositato. D’altronde lo stesso neo ministro della giustizia Carlo Nordio ha ricordato che il nostro codice penale ancora porta la firma di Mussolini e che andrebbe, in prospettiva, modificato. Così come appare spropositato il ricorso al 41 bis disposto dalla ministra della giustizia precedente. Il carcere duro fu introdotto 30 anni fa sull’onda delle stragi corleonesi. Ora con Cospito nasce un precedente che mette in discussione il principio liberale stesso sul qualce si fonda il nostro Paese. Come ha sottolineato l’avvocato Albertini, il 41 bis nasce per impedire i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza, mentre nel caso specifico, la ministra “ha inteso perseguire la finalità di interrompere e impedire a Cospito di continuare a esternare il proprio pensiero politico, attività, tra l’altro, pubblica, pertanto né occulta né segreta; destinata non agli associati, bensì ai soggetti gravitanti nella galassia anarchica; e che, secondo quanto espressamente ritenuto dal Tribunale del Riesame di Perugia, si risolve, al più, in una propaganda sovversiva violenta, che il legislatore ha comunque considerato non più punibile”. Gli avvocati ora fanno sapere che il 20 ottobre, nel corso della camera di consiglio dedicata alla trattazione di un reclamo ex art 18 ter op, Cospito ha letto una articolata memoria difensiva con la quale denuncia le insopportabili condizioni detentive a cui è sottoposto, dichiarando al contempo la decisione di intraprendere uno sciopero della fame per protestare sia contro il regime penitenziario subito che contro l’ergastolo ostativo. Una battaglia che, dalla volontà espressa dal medesimo, non si arresterà se non con il suo decesso, stante la verosimile impossibilità di modificare il regime detentivo a cui è attualmente sottoposto. Gli avvocati Rossi e Pintus sottolineano che in questo lungo periodo, Cospito ha costantemente intrattenuto relazioni epistolari con decine o centinaia di anarchici e anarchiche, con siti e riviste della medesima matrice politica, partecipando anche alla esperienza editoriale che ha condotto alla pubblicazione di due libri sulla storia del movimento anarchico. Attività svolta alla luce del sole, in cui veniva esposto il suo pensiero anarchico e che lo ha visto, nonostante ciò, in almeno tre occasioni, destinatario di altrettante iniziative giudiziarie per il reato di istigazione a delinquere. Eppure, parliamo di un pensiero anarchico che ha, tuttavia, posto in seria difficoltà i Giudici i quali, nei diversi gradi di giudizio, hanno alternato qualificazioni giuridiche contrapposte, talvolta riconducendolo alla abrogata propaganda sovversiva, ex art. 272 cp, altre all’istigazione a delinquere. “Con ciò - sottolineano gli avvocati - dimostrando la labilità del confine tra le due fattispecie incriminatrici, nonché il delicato tema dei reati di opinione posto a confronto con diritti di rango costituzionale, ex art. 21 cost, in un paese liberale figlio degli insegnamenti del Beccaria e del Verri”. Nella precedente detenzione, infatti, Cospito riceveva libri e riviste, partecipava a dibattiti pubblici mediante contributi scritti, condivideva la sezione AS2 con imputati della medesima area politica e/ o con detenuti politici, godeva di numerose ore d’aria, palestra, biblioteca, socialità. E soprattutto non era stato sottoposto al 41 bis nonostante dal 2016, a seguito dell’emissione dell’ordinanza di custodia cautelare del Gip di Torino, era stato ritenuto comunque intraneo al sodalizio anarchico denominato FAI, la cui appartenenza, nel 2022, sarà posta a fondamento del decreto ministeriale applicativo del carcere duro. “Dall’aprile scorso e in assenza di avvenimenti che possano giustificare la diversità di trattamento penitenziario, il medesimo è privato di ogni diritto ed in particolare di leggere, studiare, informarsi su ciò che corrisponde alle sue inclinazioni e interessi, non riceve alcuna corrispondenza, quelle in entrata sono tutte trattenute e quelle in uscita soffrono dell’autocensura del detenuto stesso”, denunciano gli avvocati. Spiegano che al Bancali le ore d’aria si sono ridotte a due, trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadri, il cui perimetro è circondato da alti muri che impediscono alcuna visuale o semplicemente di estendere lo sguardo all’orizzonte, mentre la visuale del cielo è oscurata da una rete metallica. Un luogo caratterizzato in estate da temperature torride e in inverno da un microclima umido e insalubre. La mancanza di profondità visiva incide inoltre sulla funzionalità del senso della vista mentre la mancanza di sole sull’assunzione della vitamina D. La socialità è compiuta una sola ora al giorno in una saletta assieme a tre detenuti, sottoposti al regime da numerosissimi anni, che in realtà si riducono ad uno in considerazione del fatto che un detenuto è sottoposto ad isolamento diurno per due anni e un secondo ormai tende a non uscire più dalla cella. “Una condizione insopportabile che ora spinge Cospito a rifiutare una vita priva di alcuna prospettiva futura, che apparirebbe tale a qualunque essere umano ma che lo è in particolar modo per un uomo che vive e viveva delle relazioni che intratteneva con il mondo dei liberi. Una condizione talmente afflittiva da spingere il medesimo a rimpiangere la pena di morte per fucilazione ritenuta più degna di una infinita agonia in un limbo senza speranza”, denunciano sempre gli avvocati. Sul tema è intervenuto anche Luigi Manconi. “Si tratta - ha detto - in tutta evidenza, di una condizione totalmente illegale e di uno stravolgimento della lettera e del senso della legge che affida al regime di 41 bis il solo ed esclusivo scopo di impedire i legami tra il recluso e l’organizzazione criminale di appartenenza”. Il tempo è oro, anche in carcere bandieragialla.it, 25 ottobre 2022 Può mai venire qualcosa di buono dal carcere? Sì, il tempo. Quel tempo impugnato dal giudice come strumento di condanna - dal momento che proprio attraverso gli anni di reclusione inflitti il condannato espia la sua pena - assume altri significati, non un periodo della vita sprecato. Si fa di necessità virtù. I detenuti trascorrono la detenzione in diverse maniere. C’è chi si dedica allo studio iscrivendosi o riprendendo la scuola, lasciata quando si trovava in libertà, oppure chi, in possesso del diploma, decide di iscriversi all’università. Altri reclusi hanno la fortuna di lavorare all’interno degli istituti penitenziari. Grazie a questo lavoro percepiscono un salario attraverso il quale si mantengono e spediscono una parte ai loro famigliari fuori. L’istruzione e il lavoro sono gli strumenti principali di cui la legge si avvale per la rieducazione dei detenuti. A questi due si aggiungono la religione, la partecipazione ad attività culturali, ricreative e i contatti con i propri famigliari e la comunità esterna. Questo però non può bastare, poiché per alcuni tipi di reati l’ordinamento penitenziario richiede anche la revisione critica del vissuto. Il periodo di reclusione, ossia il presente, dovrebbe essere utilizzato dal detenuto per compiere un percorso di crescita, cercare di analizzare il proprio passato per capire il motivo che l’ha spinto a commettere un determinato reato e progettare così un futuro, anche se incerto, dopo aver espiato la condanna. Percorso questo non facile perché richiede un lavoro intenso su se stessi. Poi, a differenza della vita fuori dove il tempo scorre molto velocemente e ci sono distrazioni di ogni tipo, un giorno dietro le sbarre non è assolutamente paragonabile a un giorno di libertà. Tutto ciò necessità di molta pazienza e il segreto della pazienza è fare qualcosa nel frattempo. Infine, accade non di rado che il detenuto, dopo aver svolto un ottimo percorso e aver espiato una condanna molto lunga, sia pronto per essere reinserito nella società. Ma ciò non può avvenire, perché gli mancano ancora tanti altri anni da espiare. In casi simili non si riesce a capire la ragionevolezza di pene altissime. Poiché, se è vero che la pena può dare frutto, quando il frutto è davvero maturo, è tempo di raccoglierlo altrimenti marcisce. Quindi, in situazioni simili la funzione della pena non è più rieducativa, ma soltanto punitiva. Se non peggio, ossia una misura che toglie speranza e dignità ad essere umani. Giustizia, Nordio detta l’agenda “Per prima cosa ridurre i tempi” di Alessandro Zuin Corriere del Veneto, 25 ottobre 2022 Prima uscita pubblica a Treviso, alla presentazione del libro di Domenico Basso, per il ministro della Giustizia Carlo Nordio: “Urge dare certezze alle imprese e ridurre i tempi dei processi”. Oggi e domani lo attende il rito laico e repubblicano del voto di fiducia al governo appena formato, perciò, per il neo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, è un po’ come se fosse l’ultimo lunedì prima di una nuova vita. A Treviso, la sua città, giusto con qualche ora d’anticipo rispetto alla discesa (in treno) a Roma, trova il tempo per essere di persona a palazzo Giacomelli, dove si presenta il libro del giornalista Domenico Basso “Volti & Storie”, che contiene 40 interviste ad altrettanti personaggi pubblici del nostro Paese. Tra i quali, ovviamente, c’è anche Nordio, intervistato ben prima che il suo futuro da parlamentare e da ministro prendesse forma nella realtà. “Qui mi viene difficile essere chiamato signor ministro - esordisce Nordio con un sorriso -, sono nato a trecento metri da qui e passavo davanti a questo palazzo tutti i giorni per andare a scuola. Perciò il primo omaggio voglio farlo alla mia Treviso: per citare Churchill, io sono per metà veneziano (per ragioni professionali, ndr) e interamente trevigiano. Mi sto già organizzando - assicura - affinché il mio weekend, salvo impegni istituzionali, sia comunque a Treviso e sul Montello, dove mi rilasso per davvero”. Il direttore del Corriere del Veneto, Alessandro Russello, lo interpella al cospetto del salone gremito, richiamando l’imprenditore e politico trevigiano Bepi Covre, che ebbe a che fare, con sua grandissima sorpresa, con i tempi ultra-veloci della giustizia austriaca, in relazione a una vertenza legale contro un’azienda del luogo che gli aveva copiato un brevetto: in 20 giorni l’udienza era fissata. Siamo alla fantascienza, per la macchina della giustizia italiana? “Questo è uno dei leitmotiv - risponde il neo ministro, che sa bene di parlare in terra d’imprese - che ritornano: se un imprenditore vuole aprire un’attività in Italia, impiega dieci volte il tempo necessario a un collega austriaco o sloveno. Perciò, la cosa da fare immediatamente è semplificare le procedure e individuare esattamente le competenze: entrambe queste condizioni - procedure complicate e competenze non bene attribuite - sono, tra l’altro, le madri della corruzione. In Italia abbiamo una massa di leggi dieci volte superiore alla media europea. In questo campo bisogna agire subito, perché ci troviamo nel pieno di un’emergenza economica e anche la giustizia deve dare il suo contributo: l’inefficienza del nostro sistema giudiziario ci costa due punti di Pil, in termini di maggiori spese e di mancati investimenti da parte degli operatori stranieri: semplificare ha un forte impatto economico”. Insiste Russello: ma questo è il Paese delle mille corporazioni, non rischia di essere sostanzialmente irriformabile? Replica Nordio: “Le riforme le fa il Parlamento, non il Guardasigilli, però il ministro che mi ha preceduto, Marta Cartabia, persona straordinaria, aveva iniziato nella direzione giustissima e aveva individuato tutti i problemi. Ma non aveva una maggioranza favorevole a una riforma in senso liberale. Noi, invece, abbiamo un consenso popolare per certi aspetti trasversale: non oso pensare, per esempio, che i magistrati si mettano di traverso se dico che voglio aumentare gli organici. La separazione delle carriere? Lo sapete che sono favorevole ma passa in secondo piano - sottolinea il ministro -, prima dobbiamo occuparci dell’economia. Come si dice: prima si mangia e poi si può cominciare a ragionare”. Gli chiedono tre aggettivi per descrivere la prima donna chiamata alla guida del Paese, e Nordio questa volta utilizza (in inglese) una citazione da Shakespeare: “Ha la testa per capire, il cuore per decidere e il braccio per agire: questa è Giorgia Meloni”. Tra i 40 intervistati da Domenico Basso c’è anche il sindaco di Venezia, Luigi Brugnaro, che siede accanto al neo ministro e gli dedica queste parole: “Nordio è una persona capace e competente, finalmente”. Ma se si discute di riforme, il Veneto da 5 anni ne attende una di cui si è parlato tantissimo, senza arrivare al dunque: l’autonomia differenziata. Ci possiamo ancora contare? “Basta crederci - è la risposta di Brugnaro, che sembra un messaggio indirizzato al governatore Luca Zaia - ma ce la facciamo se non saremo troppo ambiziosi. Credo che sia più utile la tattica del poco ma subito: partiamo dal preaccordo con l’ex ministro Gelmini e mettiamolo in pratica, così dimostriamo a tutti che abbiamo ragione e non c’è la volontà di togliere ad altri”. Il Nordio-pensiero alla prova dei fatti e delle leggi di Paolo Comi Il Riformista, 25 ottobre 2022 Separazione delle carriere fra pm e giudici, depenalizzazione, limiti alla discrezionalità dell’azione penale, revisione dei reati che riguardano la pubblica amministrazione. Carlo Nordio, ex procuratore aggiunto a Venezia fino al 2017 e neo Guardasigilli, non ha deluso le aspettative: le sue prime dichiarazioni da ministro della Giustizia hanno infatti fatto la felicità dei fautori del diritto penale liberale. Un netto cambio di passo dopo la gestione “manettara” e “forcaiola”, sotto la supervisione del Fatto Quotidiano, del grillino Alfonso Bonafede. Il terreno, ovviamente, è minato. Prima di cantare vittoria bisogna muoversi con i piedi di piombo. Di separazione delle carriere in magistratura, ad esempio, si discute senza alcun risultato da circa trent’anni, con in mezzo anche un paio di referendum. L’argomento principale da parte degli oppositori è sempre lo stesso: con la separazione delle carriere il governo vuole imbrigliare i pm, condizionandone le scelte investigative. Tradotto in altre parole, dal momento che la separazione delle carriere è una storica battaglia di Forza Italia, si tratterebbe di un favore a Silvio Berlusconi per salvarlo dai processi. “Una balla colossale: nei Paesi dove c’è la separazione delle carriere non c’è il controllo dell’esecutivo”, è stata la risposta di Nordio. Il tema, invece, è la “piena applicazione” del codice di procedura penale del 1989, “scritto da Giuliano Vassalli, medaglia d’argento alla Resistenza, ricorda Nordio, a differenza del “codice penale del 1930 che porta la firma del Duce”. Il codice Vassalli funziona con “principi opposti a quelli attuali”, a cominciare proprio dalla separazione delle carriere e dalla discrezionalità dell’azione penale. Si tratta di un codice, di tipo accusatorio, non fatto per i maxi processi e per un numero di reati sproporzionato come quelli che ci sono in Italia. “Nei Paesi anglosassoni, solo il 5 percento degli indagati va a giudizio”, precisa Nordio, “in Italia pm e gip si sentono obbligati a portare avanti il procedimento”. Ed è questa, quindi, la prima causa della congestione degli uffici giudiziari, con un carico di processi non gestibile a meno di non aumentare a dismisura gli organici. Sempre per sfoltire i processi, un rimedio per Nordio è l’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. “Il processo d’appello si svolge sulle carte del primo grado: la legge prevede che un uomo può essere condannato ‘aldilà di ogni ragionevole dubbio’. Come si può condannare con la procedura attuale chi è stato assolto?”, puntualizza il neo ministro. Nel “Nordio pensiero” trovano spazio altri due argomenti incandescenti: le intercettazioni telefoniche e la custodia cautelare. “L’Italia spende circa 200 milioni ogni anno per le intercettazioni: quattro volte di più rispetto agli altri Paesi Ue e 30 volte rispetto ai Paesi anglosassoni”, con gravi problemi di segretezza. Problemi che potrebbero essere risolti “attribuendo la responsabilità della tutela dei dati a chi ha disposto gli ascolti”. Per quanto riguarda la custodia cautelare, invece di un singolo giudice, un collegio, “meglio se da città diverse per evitare ogni tipo di contiguità: oggi la misura è firmata dal collega della porta accanto”. Tasto dolente, infine, i reati contro la pubblica amministrazione, ad iniziare dall’abuso d’ufficio e per finire al traffico d’influenze. Reati quanto mai evanescenti che prestano il fianco alle interpretazioni più disparate. Non è mancata, poi, una riflessione sull’ergastolo e sulla legge Severino (non ci sono nel programma di governo del centrodestra, ndr). Per Nordio l’ergastolo “andrebbe abolito” e per la Severino “sono dieci anni che scrivo che è un obbrobrio giuridico”. Alla domanda sul perché sia fondamentale la riforma giustizia, la risposa è secca: “Il malfunzionamento della giustizia equivale a circa 3 punti di Pil”. Poco meno di un quarto dei fondi del Pnrr destinati al Paese. “Dobbiamo farcela, è l’Europa che ci chiede le riforme”, ha concluso un molto fiducioso Nordio. Il “salvaladri” della Cartabia prima grana per Nordio di Luca Fazzo Il Giornale, 25 ottobre 2022 Il 1° novembre entra in vigore la riforma che scarcera i colpevoli di furti non denunciati. Cosa farà l’ex pm?. Rambo e Leli sono due rom di Moncalieri, in carcere con una condanna a quattro e sei anni di carcere per una sfilza interminabili di furti ai danni di aziende piemontesi. Sono in attesa della sentenza definitiva della Cassazione. A mezzanotte e un minuto del prossimo 1 novembre dovranno venire scarcerati. E insieme a loro avranno diritto a tornare liberi centinaia, forse migliaia, di detenuti in tutta Italia, graziati dal decreto con cui il 2 agosto scorso il ministro della Giustizia Marta Cartabia tradusse in pratica la riforma del codice penale approvata dal Parlamento. Il decreto Cartabia è fatto di decine di commi complicati che aggiungono e tolgono parole ad altri articoli e commi. In più di un caso, il ministro è andato un po’ più in là del mandato ricevuto dalle Camere. Tra i commi affogati nel testo, c’è quello che porterà alla liberazione di Rambo, Leli e dei loro colleghi. E che in questi giorni sta mandando in fibrillazione tutte le Procure d’Italia, costrette a riaprire i fascicoli uno per uno, a trovare un rimedio dove possibile, a disporre la scarcerazione immediata in tutti gli altri casi. Il “decreto salvaladri” della Cartabia è la prima gatta che il nuovo ministro Carlo Nordio si trova sul tavolo, appena insediatosi in via Arenula. Le conseguenze dell’entrata in vigore, la notte di Ognissanti, delle norme volute dalla sua predecessora vanno in direzione opposta al modello di giustizia di polso che l’ex pm e soprattutto il suo partito, Fratelli d’Italia, hanno proposto in campagna elettorale. Ma ormai il decreto Cartabia c’è. E Nordio ha davanti un’alternativa secca: rassegnarsi alla sua entrata in vigore, o intervenire d’urgenza con un decreto legge, sconfessando in modo eclatante l’operato della ministra di Draghi. Cosa prevede, in sostanza, il decreto? Che una serie di reati finora procedibili d’ufficio a partire dall’1 novembre lo saranno solo se la vittima sporge querela. Tra questi rientra l’intera categoria dei furti aggravati, anche con violenza sulle cose. Come quello dei due tipi di Moncalieri, che entravano negli stabilimenti delle ditte e ne uscivano a bordo dei camion aziendali sfondando i cancelli; e l’intera categoria dei furti d’auto, per esempio. Sono reati che la vittima in genere denuncia, anche a fine assicurativi, ma per i quali quasi mai sporge querela: che sarebbe, almeno inizialmente, una querela contro ignoti. Anche quando i responsabili vengono identificati, raramente la querela arriva: anche perché in genere si tratta di soggetti da cui è arduo ottenere un risarcimento. La stragrande maggioranza dei ladri che oggi si trova in carcere vi si trova perché finora nel caso di furti aggravati la legge consentiva di procedere d’ufficio. La nuova norma è retroattiva, quindi si applica anche a loro, che si trovano improvvisamente non imputabili di niente. Le Procure non hanno titolo per tenerli ancora dentro. Lo staff del ministero ha inserito nella norma la concessione alle vittime che finora non avevano sporto querela di novanta giorni per rimediare. Ma è del tutto impensabile che in una settimana, da qui ad Halloween, le Procure riescano a rintracciare una per una le vittime e a convincerle a sporgere una querela da cui rischiano di cavare solo rogne. La scarcerazione dei detenuti non è l’unico effetto surreale della riforma. Per le forze dell’ordine rischia di diventare impossibile arrestare un ladro colto in flagrante: se la vittima non sporge immediatamente querela, il reato non può essere in alcun modo perseguito. E il ladro appena acciuffato andrà lasciato andare. Nordio disarma le toghe: “Separo le carriere, ma i pm restano indipendenti” di Errico Novi Il Dubbio, 25 ottobre 2022 Mossa abile del neo-guardasigilli. Che nelle prime interviste evoca sì il temuto (dai magistrati) divorzio fra giudici e pm, ma si sottrae subito all’accusa di voler assoggettare questi ultimi alla politica. Chi pensa che Nordio possa favorire un conflitto coi magistrati, sottovaluta il neo-guardasigilli. Soprattutto ne sottovaluta il senso politico. Le prime parole del nuovo ministro della Giustizia, le prime che entrino nel dettaglio dei dossier più importanti, sono un saggio della sua abilità diplomatica. “Mai, mai e poi mai, ho pensato alla separazione delle carriere come primo passo verso un controllo del governo sul pubblico ministero. Mi fa inorridire solo l’idea”. Dichiarazione affidata al Corriere della Sera di oggi, in un colloquio ampio, come l’altro apparso sul Messaggero. Nordio chiarisce ancora: “L’indipendenza della magistratura per me è un idolo. Se non ne avessi un rispetto sacrale non avrei fatto il magistrato ma l’impiegato”. E ricorda che “nei Paesi dove c’è la separazione delle carriere infatti non c’è il controllo dell’esecutivo sul pm. E chi lo paventa dice una balla colossale”. Certo, di per sé non è un tranquillizzante, per la magistratura. Quanto meno per l’Anm. ma è una replica ai timori espressi da alcune figure di spicco dell’associazionismo giudiziario dal minuto successivo al giuramento del nuovo guardasigilli. Ad esempio Eugenio Albamonte, segretario di Area, la corrente progressista delle toghe, secondo il quale i propositi di Nordio punterebbero a “rendere i magistrati del pubblico ministero più isolati e più facilmente suscettibili di controllo”. Ecco, Nordio non pensa a un pubblico ministero assoggettato alla politica. Neppure a favorire indirettamente una successiva evoluzione di questo tipo. E qui però saranno importanti le sfumature. Nell’intervista al Messaggero, il ministro è chiaro nell’evocare un’altra svolta, l’addio all’obbligatorietà dell’azione penale: parla di “discrezionalità”, e osserva con il suo straordinario acume che se si introducesse “il potere per il pm di filtrare a monte i casi di cui viene investito e di non procedere per quelli che ritiene insussistenti, ci sarebbe un gran carico di lavoro in meno”. Tutto starà a chiarire se sarà la politica, o un circuito giudiziario che veda coinvolto anche il Csm, a stabilire i necessari criteri per disciplinare quella “discrezionalità”. Se appunto, non toccherà al Parlamento indicarli, sarà più difficile, per le toghe “refrattarie”, gridare al pericolo di pm braccio armato del potere politico. Di certo, Nordio si mostra subito abile. Parla già da uomo di governo, non da ex magistrato. E raccoglie consensi: anche all’esterno della maggioranza. Colpisce il post di Ettore Rosato, presidente di Italia viva: “Carlo Nordio l’ho sentito quando ha partecipato alle Leopolda, ha sempre detto cose che ho condiviso. Le dice anche oggi in modo chiaro e diretto nell’ultima intervista al Messaggero. Vediamo cosa gli lasceranno fare”. Rosato si riferisce anche all’approccio su inappellabilità delle assoluzioni e interventi di depenalizzazione. Se il ministro della Giustizia mostrerà di sapersi muovere con passo misurato, con determinazione negli obiettivi ma con un linguaggio capace di disarmare i conflitti, i sì alle sue proposte potrebbero riuscire a travalicare agevolmente i confini della maggioranza. E realizzare almeno in parte quella saldatura fra centrodestra e Terzo polo che, sulla giustizia, è subito apparsa nella natura delle Cose. Carlo Nordio avverte Berlusconi: la legge Severino non cambierà di Giulia Merlo Il Domani, 25 ottobre 2022 “Non è nel programma del centrodestra”, ha detto il neo ministro. Meloni, del resto, è attenta a non fare passi falsi: mettere mano ora alla Severino, proprio mentre Berlusconi è sotto processo per il caso Ruby ter, significa prestare il fianco ad accuse di leggi ad personam. Il neo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, nella sua prima intervista al Corriere della Sera ha dichiarato che non eliminerà la legge Severino, che provoca la decadenza degli eletti in caso di condanna per alcuni reati. Così spiazza subito Forza Italia, che reclamava proprio il ministero di via Arenula ed è stata delusa nella pretesa da Giorgia Meloni, che aveva candidato Nordio proprio con l’obiettivo di farlo diventare il suo guardasigilli. L’ex magistrato, noto per essere un libero pensatore poco incline al rispetto di dettati di scuderia, ha detto che seguirà il programma di centrodestra e che “la legge Severino non c’è. Quindi non la abolirò. Lo stesso vale per l’ergastolo, anche se penso che vada abolito”. Parole che pesano soprattutto nel rapporto già teso tra Meloni e gli alleati di Lega e Forza Italia, che invece contro la Severino hanno fatto campagna elettorale. Salvini e Berlusconi - Con una sola battuta, il ministro mette due dita negli occhi a entrambi gli alleati di Meloni. Silvio Berlusconi, che aveva fatto un suo video sui social in cui parlava dell’abolizione della legge, in caso di vittoria del centrodestra. E lui sa qualcosa di questa norma, approvata nel 2012 durante il governo Monti e che ha comportato la sua decadenza da senatore, dopo la condanna in via definitiva nel processo Mediaset. I suoi guai giudiziari, però, non sono finiti. Ora è in corso il processo Ruby ter, di cui sono ancora aperti il filone romano e quello milanese e le sentenze di primo grado dovrebbero arrivare entro la fine dell’anno. Le parole di Nordio, però, sono un tradimento anche nei confronti di Matteo Salvini, che con la Lega ha promosso i quesiti referendari sulla giustizia, uno dei quali era proprio per l’abolizione della Severino. Nordio era addirittura a capo di uno dei comitati promotori, quindi sia Lega sia FI erano certi di poter contare su un ministro del loro stesso orientamento. I dubbi di Meloni - Sull’abrogazione della legge Severino, invece, Meloni ha sempre nutrito dubbi. Anche durante il referendum sulla giustizia l’appoggio di Fratelli d’Italia era stato solo su quattro quesiti su sei e a rimanere fuori era anche quello sulla Severino. La legge, infatti, è molto più articolata della semplice decadenza degli eletti in caso di condanna e il partito di Meloni ha sempre espresso dubbi sul fatto che la cancellazione totale fosse una buona soluzione. Ci sarebbe accordo sulla necessità di eliminare la differenza per gli eletti in parlamento e gli eletti negli enti locali, per cui la decadenza scatta anche in caso di condanna di primo grado (come nel caso del governatore della Campania Vincenzo De Luca, anche se nel suo caso la decadenza è stata scampata grazie all’assoluzione in appello). Su tutto il resto, però, bisogna discutere. Tradotto: la Severino non è la priorità della giustizia per FdI e proprio il fatto di averla tenuta fuori dal programma di coalizione del centrodestra è oggi un argomento solido per rimandare ogni valutazione. Meloni, del resto, è attenta a non fare passi falsi: mettere mano ora alla Severino, proprio mentre l’alleato Berlusconi è in attesa di sentenza, significa prestare il fianco ai detrattori che hanno sempre accusato il centrodestra a guida berlusconiana di leggi ad personam. Una linea, questa, che il ministro della Giustizia sembra più che intenzionato a seguire. Penalisti in agitazione a Nordio: “16 giudici per 15 udienze, fatto di inaudita gravità” di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 25 ottobre 2022 La Camera penale di Roma ha proclamato per il 2 novembre l’astensione e l’Unione delle Camere penali ha indetto lo stato di agitazione di tutta la categoria. In un processo in corso in questi giorni a Roma, con accuse “gravissime” a carico di più imputati, si sono avvicendati sedici giudici diversi in quindici udienze. Solo il Presidente è rimasto al suo posto. Un fatto giudicato dagli avvocati penalisti di “inaudita gravità” cosìcchè la Camera penale di Roma ha proclamato per il 2 novembre l’astensione dalle udienze. E l’Unione delle Camere penali, esprimendo “piena e incondizionata solidarietà ai Colleghi”, ha indetto lo stato di agitazione di tutta la categoria (La delibera). A due giorni dall’insediamento, il neo Ministro della Giustizia Carlo Nordio, incassati gli attestati di stima, si ritrova così subito in prima linea. La Giunta Ucpi, infatti, con una nota firmata dal Eriberto Rosso (segretario) e Gian Domenico Caiazza (presidente), si rivolge direttamente a lui per renderlo “edotto della ferma determinazione dei penalisti italiani di chiedere ed ottenere dal nuovo Governo, con i caratteri della più assoluta urgenza, l’adozione di un adeguato intervento normativo che, negando in radice presupposti e conseguenze di quanto statuito dalla sentenza Bajrami delle SS.UU., restituisca in modo inequivoco e non soggetto a possibili, ulteriori manipolazioni interpretative, l’intangibile principio della “immediatezza della decisione”. Un principio proseguono i penalisti “già inutilmente sancito dall’art. 525 cpp nella sua attuale formulazione, statuendo al contempo il principio per il quale qualunque trasferimento del giudice, per ragioni diverse dalla urgenza, possa avere luogo solo quando il giudice medesimo abbia smaltito il proprio ruolo di udienze, almeno con riguardo a quelle la cui istruttoria si sia già svolta nelle sue cadenze più significative”. “È semplicemente incompatibile con i più elementari principi del giusto processo, e prima ancora con le regole della logica e del buon senso - si legge nel documento delle camere penali - l’idea non solo che il giudice che pronuncia la sentenza sia diverso da quello che ha raccolto la prova, ma addirittura che il giudice possa mutare ad ogni udienza istruttoria”. Udienza filtro nel penale al via di Dario Ferrara Italia Oggi, 25 ottobre 2022 Stop prima del dibattimento se la condanna è improbabile. Conto alla rovescia per la nuova udienza filtro introdotta dalla riforma del processo penale, che entrerà in vigore martedì 1° novembre. Conto alla rovescia per la nuova udienza filtro introdotta dalla riforma del processo penale, che entrerà in vigore martedì 1° novembre. Il decreto legislativo 150/22 (varato dal governo Draghi sulla base degli impegni presi nell’ambito del Piano nazinale di ripresa e resilienza) amplia il catalogo dei reati per i quali l’azione penale può essere esercitata con la citazione diretta a giudizio: vi rientrano molte fattispecie punite con sanzioni comprese fra i quattro e i sei anni di carcere. E per le quali ora si celebra un’udienza predibattimentale in cui il giudice pronuncia la sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. L’innovazione introdotta dall’articolo 554 bis Cpp non si applica ai procedimenti nei quali al primo novembre 2022 risulta già chiesto il rinvio a giudizio: è l’esercizio dell’azione penale, infatti, lo spartiacque della fase processuale e dunque rappresenta il criterio per distinguere gli affari soggetti alla vecchia e alla nuova disciplina. È quanto emerge dalla circolare tematica emessa il 20 ottobre 2022 dal dipartimento per gli affari di giustizia del Ministero. Era stata l’Anm a indicare l’ambito di applicazione dell’udienza predibattimentale come una delle principali delle questioni da chiarire. Definizione anticipata. Diventano procedibili con citazione diretta reati come truffa aggravata, appropriazione indebita, frode all’assicurazione, falsificazione di carte di credito, contraffazione di sigilli, contrabbando di sigarette, evasione aggravata da violenza o minaccia. L’udienza predibattimentale in camera di consiglio si celebra davanti a un giudice diverso da quello davanti al quale si terrà eventualmente il dibattimento: si svolge sulla base del fascicolo del dibattimento insieme al fascicolo del pm e segna il limite di decadenza per la costituzione della parte civile. Dopo aver chiuso le questioni preliminari, il giudice può arrivare alla definizione anticipata del giudizio: col rito abbreviato o col patteggiamento, con la sospensione del processo per la messa alla prova dell’imputato o con l’oblazione; oppure con l’applicazione, concordata tra imputato e pm, di una pena sostitutiva di cui all’art. 53 della legge 689/81 come esito sanzionatorio della definizione del giudizio con rito alternativo. Se invece il procedimento supera la fase, il giudice deve fissare la data dell’udienza dibattimentale davanti a un altro magistrato. Devono passare almeno sessanta giorni fra la notifica della citazione a giudizio, all’imputato, al difensore e alla persona offesa, e la data dell’udienza predibattimentale: il termine può essere ridotto a quarantacinque nei casi di urgenza, da motivare in modo esplicito (il tutto a pena di nullità). Si devono garantire almeno venti giorni, invece, fra la data dell’udienza predibattimentale in cui si dispone la trasmissione del fascicolo al giudice della trattazione istruttoria e il giorno in cui inizierà il dibattimento. Regressione esclusa. Continuano a passare per l’udienza preliminare tutti i procedimenti per i quali risulta chiesto il rinvio a giudizio all’entrata in vigore della riforma (ma anche in tal caso scatta il non luogo a procedere se gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna). A maggior ragione valgono le vecchie regole per le udienze preliminari già fissate, i decreti di citazione a giudizio emessi e i dibattimenti non ancora dichiarati formalmente aperti. Il tutto per evitare che le Procure debbano riemettere gli atti e notificarli di nuovo a parti e difensori e che quindi si configurino “immotivate regressioni”. La nuova disciplina, invece, trova piena applicazione nei procedimenti in cui l’azione penale non risulta esercitata. Da aggiornare i moduli dei nuovi decreti di citazione. Campania. Presentati i dati semestrali delle carceri: un detenuto su tre è tossicodipendente Il Mattino, 25 ottobre 2022 “Il mondo carcerario campano ha pagato un prezzo alto per la pandemia in termini di vite. L’emergenza coronavirus ha acuito le problematiche della realtà carceraria, a cominciare dal sovraffollamento, e ha evidenziato la necessità di ricorrere a misure alternative al carcere. Il tema emergenziale della relazione semestrale è quello della tossicodipendenza; su 6853 detenuti, 1356 sono tossicodipendenti, il 60% dei nostri detenuti utilizza psicofarmaci. Il diritto alla salute dei detenuti resta un grave problema, come quello del sovraffollamento. Basta pensare che il numero totale dei detenuti presenti nelle carceri della Calabria, 2104, coincide con quello dei soli detenuti nel carcere di Poggioreale”. È quanto affermato del garante campano delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, che, stamani, ha presentato la relazione semestrale 2022 sullo stato della detenzione in Campania, nell’aula del consiglio regionale. La relazione è stata introdotta dall’intervento del presidente del consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, e dal portavoce della conferenza nazionale dei garanti regionali e territoriali, Stefano Anastasia. Tra i presenti in aula: Carmine Renzulli, procuratore della repubblica di Santa Maria Capua Vetere, Elisabetta Garzo, presidente del tribunale di Napoli, Patrizia Mirra, presidente del tribunale di sorveglianza di Napoli, alcuni direttori delle carceri, tra cui il colonnello Rosario Del Prete, direttore del carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, rappresentati delle associazioni di volontariato e alcuni consiglieri regionali. “Per quanto riguarda la sanità per i detenuti, essa resta un’altra grande emergenza del sistema carcerario, basta riflettere su un solo dato: per 6853 detenuti ci sono solo 55 posti letto negli ospedali della Campania - ha aggiunto Ciambriello - Occorre intervenire per risolvere il problema, ad esempio spostando, laddove possibile, le prestazioni sanitarie in carcere. In generale, puntare sulle misure alternative al carcere e sulla depenalizzazione, su un modello che limita il carcere solo ai casi più gravi e che lo finalizza all’inclusione sociale. Il Pnrr prevede notevoli fondi assegnati alle carceri, una circostanza positiva che, in assenza di una programmazione, rischia di essere vanificata. I 14 milioni del provveditorato delle opere pubbliche inspiegabilmente non sono stati impiegati, come previsto, per il carcere di Poggioreale. Occorre puntare sulle misure alternative alla detenzione e su un a maggiora presenza di personale di supporto, volontari ed operatori, che possano contribuire allo svolgimento di quelle attività che sono fondamentali per il reinserimento sociale dei detenuti”. “In un semestre l’ufficio del garante ha potuto incontrare 628 detenuti - ha detto Anastasia - ciò evidenzia l’importanza del ruolo che collega le carceri con le istituzioni e con la società e di far emergere le principali problematiche del mondo carcerario e di risolverle. È importante una visione politica che non punti solo sulla penalizzazione e che abbia una forte sensibilità sul tema del fine rieducativo della pena e sull’obiettivo del reinserimento sociale del detenuto”. “Il dato emerso dalla relazione semestrale del garante dei detenuti, il numero dei detenuti tossicodipendenti nelle nostre carceri, 1356, uno su tre, è esplosivo e sottolinea una grave emergenza della nostra realtà carceraria che si unisce a quelli del sovraffollamento e delle prestazioni sanitarie - ha sottolineato Oliviero - Come istituzioni e come politica dobbiamo intervenire per la risoluzione di queste emergenze per rendere il carcere un luogo dove vengono garantiti i diritti fondamentali della persona e per finalizzarlo al recupero dei detenuti e al loro reinserimento sociale”. Campania. Si abbassa l’età di chi impugna un’arma. Per sette minori l’accusa di omicidio di Fabrizio Geremicca Corriere del Mezzogiorno, 25 ottobre 2022 I dati del Garante dei detenuti da gennaio a giugno. Dalla realtà alla fiction “Mare fuori” è una serie televisiva trasmessa in prima serata su Rai 2 dal 23 settembre 2020. Racconta le storie di un gruppo di ragazzi rinchiusi nell’Istituto di pena minorile di Napoli, liberamente ispirato al carcere di Nisida. Sei adolescenti accusati di omicidio volontario, 77 di tentato omicidio, 4 di omicidio stradale, 47 di violenza sessuale, 206 di produzione, spaccio e traffico di stupefacenti, 44 di atti persecutori e stalking, 82 di rissa. Il tutto su una popolazione tra 12 e 17 anni che nella regione conta circa 370.000 ragazze e ragazzi. Sono dati allarmanti quelli che ha fornito ieri, nella relazione sul semestre gennaio-giugno 2022, Samuele Ciambriello, che è il garante dei detenuti della Campania. “La questione minorile più che altrove - ha detto - desta allarme sociale, al punto da costituire una potenziale minaccia di ordine nazionale”. Il tema non è tanto quello di inasprire le pene o di anticipare l’età della punibilità, secondo Ciambriello, ma la debolezza delle politiche di prevenzione, quelle che dovrebbero scattare in presenza di segnali allarmanti, in primis l’abbandono scolastico. “Non è certo fisiologico - ha accusato il garante - che il primo contatto dinanzi al quale si trova un minore dell’area napoletana è personificato dalla figura non del maestro, ma del giudice minorile o del rappresentante delle forze dell’ordine. Il tema dell’evasione scolastica è da sempre presente nell’agenda politica, ma non è stato mai radicalmente risolto”. Quali i possibili interventi? “Bisognerebbe lanciare una campagna a tappeto per sensibilizzare non solo le famiglie, spesso sorde, ma l’intero ambiente che dovrebbe operare a sostegno delle autorità scolastiche per stigmatizzare a fondo il malcostume, segnalare gli evasori ed i relativi nuclei familiari”. Non accade e, complice la scarsità di opportunità lavorative, ha detto Ciambriello, “oggi un ragazzo, un giovane, un adolescente che cresca in aree disagiate può obiettivamente contare su scarse o nulle possibilità di ribaltare quello che sembra essere il suo destino esistenziale”. Non sono solo gli adolescenti, peraltro, che talvolta finiscono in carcere in Campania. Ci sono pure i bambini, i figli piccoli delle detenute. “A settembre 2022 - informa il rapporto firmato dal garante e presentato ieri alla stampa - erano presenti nel penitenziario dei Lauro 12 madri: 7 italiane e 5 straniere, con 13 figli al seguito. Tra questi sette bimbi italiani e sei stranieri. “Alcune di queste donne - ha raccontato Ciambriello - mi hanno confessato di preferire addirittura il rimanere in carcere perché questa condizione assicura loro un minimo di lavoro nel penitenziario e servizi per i bambini: l’asilo ed il pulmino che li accompagna. Pare incredibile. Sono storie che raccontano bene la condizione di tante persone che affollano le carceri”. A giugno 2022 la Campania registrava 6.853 presenze nei suoi penitenziari, a fronte di 6.747 dell’anno precedente. Per tasso di affollamento, risulta essere seconda solo alla Lombardia. Un detenuto su quattro in Campania (1.356 persone) è tossicodipendente ed uno su tre si trova in carcere per reati di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. Oltre il 60% della popolazione detenuta, inoltre, assume psicofarmaci, in particolare benzodiazepine ed ansiolitici. I detenuti stranieri sono il 12,9% della popolazione ristretta nei penitenziari della regione. “Un dato stabile - ha ricordato Ciambriello - e tra i più bassi in Italia. Siamo in linea con la Basilicata e con la Puglia”. Circa il 30% dei detenuti in Campania è in attesa di giudizio, mentre il 63% del totale ha almeno una condanna in primo grado. Poco più di un detenuto su tre (il 35%) ha da scontare un residuo di pena inferiore ai tre anni. Quanto all’età, la fascia più rappresentata è quella tra i 50 ed i 59 anni. Quarantasei detenuti sono molto giovani (tra i 18 ed i 20 anni). Quasi un centinaio gli ultra settantenni ed a Poggioreale c’è pure un novantunenne. Foggia. Morto in carcere, 13 indagati accusati di omicidio La Stampa, 25 ottobre 2022 Sul caso del trentenne Osama Paolo Harfachi, deceduto in cella una settimana fa Ilaria Cucchi ha presentato un’interrogazione urgente. Sono 13 le persone indagate per la morte del trentenne Osama Paolo Harfachi, foggiano di origini marocchine, trovato senza vita il 18 ottobre scorso nel letto della sua cella nel carcere di Foggia. L’uomo si trovava in prigione da cinque giorni per una rapina. Le 13 persone sono indagate a vario titolo per reati che vanno dall’omicidio preterintenzionale all’omicidio colposo nell’esercizio della professione sanitaria. Tra gli indagati c’è anche un detenuto. Secondo un primo esame del cadavere il trentenne sarebbe morto per un non meglio identificato “arresto cardiocircolatorio” ma i parenti di Harfachi non credono al decesso per cause naturali e per questo hanno presentato una denuncia. Un ex detenuto, amico della vittima, avrebbe riferito al fratello della vittima di averlo visto in carcere particolarmente sofferente e avrebbe riferito che il 30enne sarebbe stato picchiato. L’intervento di Ilaria Cucchi - Il caso si è trasformato subito in un’interrogazione diretta ai Ministri della Giustizia e dell’Interno Piantedosi e Nordio e presentata dalla neo-senatrice Ilaria Cucchi: “Sia fatta subito chiarezza sulle cause che hanno portato alla morte in carcere di Osama Paolo Harfachi, trovato senza vita nel letto della sua cella nel carcere di Foggia - si legge nel documento - in particolare è necessario sapere perché ancora oggi venga impedito ai familiari di vedere il corpo del proprio caro”, aggiunge la senatrice dell’Alleanza Verdi e Sinistra. E conclude: “Perché ancora oggi viene impedito ai familiari di vedere il corpo del proprio caro?”. Napoli. Matricida morto in carcere, detenuto intercettato: “L’ho giustiziato a modo mio” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 25 ottobre 2022 Aveva saputo che quell’uomo tranquillo, apparentemente innocuo, aveva commesso un delitto orrendo. Aveva saputo - tam tam interno al carcere - che quello che dormiva nella sua stanza e che non dava alcun segnale di disturbo, era un matricida. Un reato troppo grave, intollerabile, anche per chi è abituato a confrontarsi con assassini, con soggetti psicolabili, lì all’interno di un padiglione penitenziario. Dal suo punto di vista, quell’uomo avrebbe turbato la sua permanenza nel “soggiorno” di Poggioreale, al punto tale da rendere inevitabile una sorta di vendetta trasversale e a freddo. E così quell’uomo doveva morire, il matricida doveva essere giustiziato, secondo l’ottica distorta dell’assassino. Ed è per questo motivo che lo scorso gennaio, si è consumato un omicidio a freddo, a colpi di calci e pugni, quanto basta a riproporre all’attenzione di tutti la difficoltà di gestire una platea penitenziaria sempre più vasta e complessa. Ed è per questo motivo - a leggere le carte dei pm - che il detenuto Salvatore Pasqua attende il momento propizio per entrare in azione. Quello della doccia, colpendo l’uomo che ha di fronte a forza di pugni, di calci e - probabilmente - anche con uno sgabello. A cadere tramortito e senza speranza è il detenuto Eduardo Chiarolanza, l’otto gennaio scorso, lì all’interno del padiglione Livorno del carcere di Poggioreale. Non è un nome qualunque, almeno per gli addetti ai lavori. Da qualche mese, Chiarolanza si è imposto alla cronaca come il “mostro di Pianura”, ritenuto responsabile di un orrendo delitto: quello della madre, donna anziana e indifesa, uccisa e fatta a pezzi, poi riversati all’interno di alcune buste di Ikea, per poi essere gettate in alcune discariche del quartiere della periferia occidentale. Una brutta storia di cronaca, culminata negli arresti di Chiarolanza, soggetto violento e disturbato, che avrebbe ucciso la mamma per motivi economici, per aver preteso soldi da giocare in chissà quale lotteria on line. Pochi mesi dopo il delitto, l’omicidio del matricida. Un epilogo di sangue e violenza che è stato ricostruito grazie al lavoro investigativo del pm Valentina Rametta, sotto il coordinamento del procuratore aggiunto Simona Di Monte. Decisive alcune intercettazioni ambientali, attivate sia nei confronti dei compagni di cella del presunto assassino, sia nei confronti dello stesso Pasqua. Ed è quest’ultimo che sembra confessare - ovviamente in modo inconsapevole - l’operazione di giustizia criminale messa in campo all’interno della cella di Poggioreale, nei confronti del Chiarolanza. In un primo colloquio, Pasqua afferma con una buona dose di malizia, a proposito dei suoi disturbi della personalità: “Se mi riconoscono l’incapacità di intendere e di volere, io vado in Rems per un anno (a proposito delle strutture che hanno sostituito i manicomi criminali, ndr)”. E ancora: “Io sono consapevole che quello l’ho ucciso io e l’ho fatto perché lui aveva ucciso la madre”. Difeso dall’avvocato Rolando Iorio, ora Pasqua potrà rivendicare la propria estraneità ai fatti, nel corso del prosieguo del processo. Agli atti verrà messa anche un’altra intercettazione, questa volta ricavata nel carcere di Santa Maria Capua Vetere: “Aveva fatto a pezzi la madre, per questo l’ho ucciso”. Scrive il gip Vertuccio, che ha applicato la misura cautelare: “Nessuna remora - dice il gip - nell’ammettere di aver ucciso un uomo in quanto matricida, che avrebbe compromesso la serenità del soggiorno in cella”. Un inferno di violenza e vendette, nel chiuso di una cella del carcere napoletano, ora più che mai alle prese con la difficoltà di gestire una platea di detenuti sempre più complessa e articolata. È della scorsa settimana, infatti, la notizia degli arresti di Pietro Ioia, garante cittadino del Comune di Napoli, mentre sono diversi gli osservatori che chiedono sostegni reali e concreti a tutela di utenti e addetti ai lavori. Cremona. Gherardo Colombo nel carcere per la presentazione del libro scritto dai detenuti di Francesca Morandi La Provincia di Cremona, 25 ottobre 2022 Davanti ad autorità e studenti il confronto con l’ex pm di Mani Pulite Colombo. “Conosco i vostri drammi, le strade che state percorrendo qui sono necessarie”. Prima saluta: “Buongiorno!”. Poi, nel Teatro di Cà del Ferro, davanti alle autorità, agli studenti delle Torriani e del Ghisleri, ai suoi compagni di detenzione - soprattutto davanti a Gherardo Colombo, l’ex pm del pool di Mani Pulite che ha lasciato la magistratura - Lorenzo, in carcere da un anno e mezzo, si mette a leggere: “Non vogliamo passare vittime della società o delle nostre storie. Noi siamo gli stessi che han fatto di tutto per ottenere benefici. Siamo quelli che si dichiaravano innocenti, guardando negli occhi le vittime dei nostri reati, pur sentendoci in colpa. Siamo vittime e carnefici, siamo persone come te, con i propri lati oscuri e altri più solari...”. È un passaggio dell’introduzione di “Residenza provvisoria. Racconti dal carcere”. Il libro (stampato dalla cooperativa sociale Antares) è il frutto di un lavoro di gruppo del progetto Re-Start2.0: percorsi di reinserimento socio-lavorativo oltre la pena, progetto cofinanziato da Regione Lombardia Por Fse, (Programma operativo regionale del Fondo sociale europeo). Cinquantotto pagine in cui Antares, Alexander, Rineo, Mirko, Edison, Lorenzo, Ihab e Pietro tirano giù la maschera, si mettono in gioco, raccontano perché sono finiti dentro. Storie di vita. E di pregiudizi: ‘teroon’, ‘negher’, ‘buttare via le chiavi’, ‘chissà che bella vita fanno in carcere’. Ma il valore aggiunto del libro è in quella frase letta da Lorenzo: ‘Siamo persone come te’. In “Residenza provvisoria” anche il lettore diventa protagonista, invitato dai detenuti a rispondere alle domande, a riflettere. Perché “è questo il nostro modo di abbattere le distanze”. Le 58 pagine sono “un immenso e meraviglioso viaggio che è la vita”: copyright degli educatori Francesca Salucci (cooperativa Bessimo) e Leone Lisé di Asst, conduttori del gruppo di lavoro, anime del volume e di un video presentati all’incontro coordinato dalla giornalista Cristina Coppola con Colombo per faro. L’ex pm ascolta le storie delle persone detenute, le chiama al tavolo. Si rompono le barriere, si riflette su “fatica”, “drammi” e “fiducia”. Il focus è sull’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Rieducazione che passa dai progetti per aiutare i detenuti a riprendersi la dignità e, una volta fuori, la vita in mano. Per aiutarli a non inciampare più. “Ogni mese - racconta Colombo - vado a San Vittore, alla Nave, il reparto di trattamento avanzato per la cura delle dipendenze. Tante storie, tante persone che si trovano nelle condizioni di chi ha letto oggi i brani, le conosco lì e so delle fatiche che si fanno, so dei drammi che si vivono, drammi che poi sono stati esasperati nel periodo di Covid, perché il contatto con l’esterno è l’effetto di maggior dignità per cercare di recuperare. Dobbiamo fare tanto e sono convinto che le strade che state percorrendo qui sono necessarie”. “Non è facile per nessuno guardarsi dentro e, dopo, mettersi a nudo. Credo ciò sia ancor meno facile per chi si trova ad espiare una pena ... e ha deciso di ‘aprirsi’ al mondo e, da lì, ripartire”, dice la direttrice del penitenziario Rossella Padula. Lorenzo e i suoi compagni lo hanno fatto. E lo ha fatto anche Stefano, lui agente della polizia penitenziaria, l’altra faccia della medaglia. Stefano, un uomo sotto la divisa. Nel volume c’è anche la sua di storia. Legge un pezzo: “Una cosa è certa: nella mia casa non ci saranno mai le grate alle finestre perché le vedo tutti i santi giorni”. Grate e chiavi, l’altro simbolo del carcere: “Chiavi che aprono e chiudono i cancelli, chiavi in ottone, grandi, dorate, che un giorno daranno la libertà a tutte le persone ristrette, perché quel giorno tanto atteso arriverà prima o poi e sarà una liberazione”. L’ex pm Colombo parla della giustizia riparativa: “Vuol dire consentire, favorire i percorsi attraverso i quali chi è vittima e chi ha reso vittima la persona, camminino, aiutati da chi se ne intende, perché attraverso questo cammino, arrivino ad un incontro, attraverso il quale la vittima sia riparata il più possibile del male che ha subito, e il responsabile si renda conto del male che ha fatto e non lo commetta più”. L’ex pm ringrazia l’amministrazione del carcere, “perché più si parla di queste cose, più si respirano queste cose e più poi si contribuisce sulla strada del cambiamento, della realizzazione della nostra Costituzione”. Palermo. Fare del buono con il progetto “Cotti in Fragranza” di Stefania Leo linkiesta.it, 25 ottobre 2022 Storia ed evoluzione di un’azienda palermitana che vuole essere riconosciuta per la qualità del suo cibo e non per il suo Dna benefico. Tutto è iniziato con dei biscotti. Era il 2016 e il forno era quello dell’Istituto Penale Minorile Malaspina di Palermo. Dai “malacarne”, come vengono chiamati i ragazzi che finiscono in carcere da giovanissimi, sono nati i Buonicuore, ossimoro gastronomico in forma di frollini aromatizzati al mandarino. I frutti sono raccolti a Ciaculli, in terreni confiscati alla mafia. E dopo quell’esperimento, Lucia Lauro e Nadia Lodato non si sono più fermate, dando vita al progetto Cotti in Fragranza. Niente assistenzialismo, siamo imprenditori - Cotti in Fragranza nasce grazie all’intraprendenza di queste due donne e alla collaborazione con l’Istituto Don Calabria, ente religioso e sociale con cui sia Lucia che Nadia collaborano. L’obiettivo del progetto è lavorare con ragazzi a rischio marginalità o detenuti, per creare una realtà lavorativa capace di integrarli e reinserirli nella società una volta fuori dal carcere. Il progetto è stato costruito con un taglio imprenditoriale, lontano dall’aura caritatevole con cui, a volte, queste idee vengono ammantate. Oggi i Buonicuore ci sono ancora, ma l’organizzazione si è strutturata come una vera azienda. Ci sono quattro gruppi di lavoro. La pasticceria del carcere minorile, che da tre anni si è specializzata anche sui grandi lievitati, è coordinata dal pastry chef Simone Gambino. La mensa, che si occupa del confezionamento e trasporto dei pasti per persone senza fissa dimora, è supervisionata dal giovane Andrei Ciortescu, uno dei primi a entrare a far parte del progetto dopo aver pagato il suo debito con la giustizia. Ma il salto di qualità Cotti in Fragranza lo compie nel 2018, quando a bordo del progetto sale lo chef manager Francesco Gambino. È lui a pensare al bistrot Al Fresco (come chiamarlo altrimenti?), al laboratorio di cucina presso la struttura Casa San Francesco, al catering per matrimoni ed eventi. Tutto con sede a Palermo. “In estate, Al Fresco prepara da mangiare per 120 persone ogni giorno - racconta Lucia - Questo significa che chi ci sceglie lo fa perché da noi si mangia bene, non perché ci lavorano ex detenuti. Vogliamo sovvertire l’inclinazione buonista, e in questo i ragazzi sono stati dei complici straordinari sin dall’inizio. Vogliono dimostrare di essere come gli altri, senza fare pena a nessuno. Così hanno accettato la sfida dell’essere riconoscibili attraverso il loro lavoro”. La strada più difficile (e buona) per ricominciare - Il percorso con Cotti in Fragranza inizia al mattino, quando i ragazzi segnalati dalla direzione escono dalle celle e vanno a lavorare nella pasticceria del Malaspina. Ma il lavoro con i minori non bastava. Così Lucia e Nadia hanno portato il proprio progetto al carcere dell’Ucciardone e alla casa circondariale Pagliarelli di Palermo. Qui Nadia si occupa di fare orientamento e profilazione dei detenuti, segnalando gli under 30 pronti a uscire o prossimi alla semi libertà, per introdurli nello staff. Non che lavorare con persone più grandi sia un problema. “Quando si vuole cambiare vita, lo si può fare a ogni età. Ma la prossimità anagrafica crea coesione nello staff”. Ogni giorno mangiano tutti insieme, come una famiglia. E come un team, pensano a come trasformare la propria attività in un business redditizio, che permetta a tutti di realizzare i propri sogni. “Per chi vive in carcere la cucina è molto importante - spiega Lauro - o si mangia molto male o, se si ha la possibilità di preparare qualcosa da soli, il cibo diventa una delle poche occasioni della giornata per pensare ad altro. Come dice Francesco Gambino, la cucina è anche l’opportunità più difficile che offriamo a queste persone per reintegrarsi. È un lavoro molto duro, che richiede tempo, sacrifici e sforzo fisico. E se è vero che la cucina è anche disciplina, dall’altra è cura, e questo elemento risuona spesso nelle loro storie personali. Così il cibo e la relazione diventano centrali in questo percorso”. Se chiedete a Lauro quali sono i risultati più importanti raggiunti con Cotti in Fragranza finora, vi dirà che sono tanti, tutti con nomi e cognomi. “Dopo 25 anni di assistenza sociale, ogni persona è un successo unico e inimitabile. Cotti in Fragranza oggi è un’azienda con 22 dipendenti e un buon fatturato. Abbiamo generato un precedente e, con esso, la possibilità di esportare un modello”. Infatti, sta per aprire un laboratorio a Casal di Principe, in provincia di Caserta, in cui esportare il progetto nato a Palermo. Ma non è l’unico obiettivo futuro. “Stiamo per completare un nuovo step: Svolta all’albergheria. Grazie anche alla Fondazione ConilSud, abbiamo iniziato a ristrutturare parte dell’ex convento Casa San Francesco per dotarlo di stanze destinate all’accoglienza turistica. L’obiettivo è di ospitare persone che sceglieranno di vivere un’esperienza a 360 gradi: dormire, seguire una cooking class e mangiare da Al Fresco”. A rendere possibile tutto questo ci saranno persone che hanno scelto di riscrivere il proprio futuro attraverso il cibo. Napoli. Alla Federico II si è laureato il primo studente del polo penitenziario di Giuseppe Cozzolino fanpage.it, 25 ottobre 2022 Al Polo Universitario Penitenziario della Federico II si è laureato il primo studente: ha conseguito il titolo in Scienze Sociali col massimo dei voti. Un detenuto del carcere di Poggioreale si è laureato con il massimo dei voti in Scienze Sociali: si tratta del primo laureato del Polo Universitario Penitenziario dell’Università degli Studi “Federico II” di Napoli. L’argomento della tesi è stato “lo studio negli istituti penitenziari: il valore educativo tra formazione, resipiscenza e recidiva. Education and imprisonment”, discussa con il professor Roberto Serpieri. Da alcuni mesi, il detenuto ha già ottenuto la semilibertà, potendo così discutere la tesi nelle aule del Dipartimento di Scienze Sociali. Una prima laurea che, sottolinea l’Ateneo napoletano, “conferma l’importanza dell’attività intrapresa con grande impegno da tutti i docenti che insegnano al Polo Penitenziario, dai tutor, dalla polizia penitenziaria, dagli operatori, ma principalmente”, si legge in una nota, “dagli studenti detenuti che si dedicano allo studio per il proprio futuro, per dare senso al tempo della detenzione e per guardare alla libertà con occhi e competenze nuove e diverse”. Al momento sono 8 i Dipartimenti federiciani coinvolti, più di 100 a semestre i docenti che vi insegnano e 19 i tutor tra studenti e dottorandi impegnati nel progetto: il Polo Universitario Penitenziario, coordinato dalla delegata del rettore Marella Santangelo e nato grazie a un progetto di collaborazione tra l’Università degli Studi di Napoli Federico II e il Provveditorato dell’Amministrazione Penitenziaria della Campania è il primo PUP del Meridione d’Italia, al quale sono iscritti anche il più alto numero di detenuti, nonché di maggiori corsi erogati, tanto da attivare anche il primo tirocinio interno all’istituto. Migranti. Torna Salvini e riaccende lo scontro con le ong di Carlo Lania Il Manifesto, 25 ottobre 2022 “Non è possibile che tutte le navi del mondo vengano solo in Italia” E il neoministro incontra il comandante della Guardia costiera. Giusto il tempo di insediarsi nel suo nuovo ruolo di ministro delle Infrastrutture e a Matteo Salvini non deve essere sembrato vero di poter tornare a battere la grancassa sull’immigrazione. A largo, in mare, ci sono l’Ocean Viking con bandiera norvegese e la Humanity One che batte bandiera tedesca, navi di due ong che dopo aver salvato complessivamente 118 migranti muovono ora davanti alle coste libiche in attesa di sapere verso quale porto dirigere. Tanto basta al leghista, che come primo atto da ministro chiede un incontro con l’ammiraglio Nicola Carlone, comandante generale della Guardia costiera: “Per fare il punto sulla situazione, anche a proposito di immigrazione”, spiega una nota del Carroccio. Più tardi, a sera, ospite a Porta a Porta, spiega: “Nel primo consiglio dei ministri ho scambiato qualche parola con il ministro Piantedosi e il ministro Tajani. Il ragionamento è salvare vite, prima di tutto, ma non è possibile che le navi di tutto il mondo arrivino unicamente in Italia”. Per poi rispolverare i vecchi slogan di sempre: “Torneremo a essere un Paese che fa rispettare i suoi confini”. Le decisioni che verranno prese nelle prossime ore chiariranno più di ogni altra cosa l’impronta che il governo Meloni, e il neo ministro dell’Interno Matteo Piantedosi, vogliono dare alle politiche sull’immigrazione. Non è scontato però che le cose vadano nella direzione auspicata da Salvini. Tenere o meno i porti aperti alle navi delle ong, assegnando loro un porto sicuro come previsto dal diritto internazionale, è infatti una decisione in capo al Viminale e difficilmente Giorgia Meloni, ora che si è insediata a Palazzo Chigi, vorrà debuttare sulla scena interazionale con le immagini di due navi cariche di disperati lasciate in mare come succedeva quando al Viminale c’era il leghista. L’uscita di Salvini serve quindi al leghista più che altro a lanciare un segnale sul fatto che la competenza sulla Guardia costiera rimane a lui e non, come ipotizzato, al nuovo ministero per il Sud e il Mare guidato dall’ex governatore siciliano Nello Musumeci. Così come la competenza sui porti, che però riguarda la gestione delle banchine e non la possibilità di negare l’attracco a una nave. Evidentemente Salvini pensa che riaccendere lo scontro con le ong, ammesso che gli riesca anche questa volta, possa dare frutti dal punto di vista mediatico anche se non sono certo le navi il vero problema. Dei 78 mila migranti registrati quest’anno, solo 11 mila infatti sono stati tratti in salvo dalle navi umanitarie. La metà sono arrivati in maniera autonoma e in soccorso degli altri sono intervenuti mercantili di passaggio o le motovedette di Guardia costiera e Guardia di Finanza e della Marina. Il problema, semmai, è quello di sempre: convincere l’Europa a farsi carico di quote di migranti evitando di lasciarli tutti in Italia. Da ministro dell’Interno Piantedosi ne ha parlato domenica sera con il collega francese Gerald Darmanin e entrambi hanno convenuto sulla necessità di rafforzare la cosiddetta Malta 2, la piattaforma europea messa a punto dalla ministra Lamorgese per la redistribuzione dei migranti alla quale hanno aderito 21 Paesi ma che fino a oggi obiettivamente ha marciato a rilento. La cronaca intanto continua far registrare tragedie del mare. Negli ultimi giorni sono infatti morti due bambini, uno di dieci mesi e uno di un anno, per un’esplosione a bordo di un barcone diretto a Lampedusa e il ribaltamento di un barchino con una bimba dispersa vicino all’isolotto di Lampione. Ieri invece sono stati ritrovata quattro cadaveri, mentre altre quattro persone risultano disperse dopo che il barchino sul quale viaggiavano è affondato. Salvini già presidia i porti e prepara la nuova battaglia contro migranti e Ong di Lorenzo Milli* Il Dubbio, 25 ottobre 2022 Nemmeno il tempo di cominciare il nuovo lavoro come ministro delle Infrastrutture e delle Mobilità sostenibili che Matteo Salvini ha scelto l’argomento forte, quello studiato per anni e anni e ormai imparato a memoria: i porti. E tanto per chiarire che non ci sarà alcuna discussione sulla delega legata al loro controllo, ieri ha convocato nel suo ufficio l’Ammiraglio Nicola Carlone, comandante generale della Guardia Costiera. Dopo l’annuncio della neopresidente del Consiglio, Giorgia Meloni, di un ministero del Mare e del Sud, affidato non a caso all’ex presidente della Sicilia, Nello Musumeci, in molti si erano chiesti se quella mossa non fosse strategica onde evitare che Salvini insistesse sul tema a lui più caro: il controllo dell’immigrazione clandestina. Ma nonostante la nuova dicitura del ministero guidato da Musumeci, il controllo dei porti potrebbe rimanere nelle mani del ministro delle Infrastrutture, anche se sarà lo stesso governo con un decreto a doverlo specificare. “Assolutamente no”, ha detto Salvini a Porta a Porta alla domanda se il nuovo ministero gli toglierà la delega”. Aggiungendo poi che la Lega tornerà “a far rispettare leggi e confini”. Il leader della Lega, insomma, non ha perso tempo e ha marcato il territorio. “Il Corpo vanta un personale con 10.800 donne e uomini e centinaia di uffici e comandi in tutta Italia - spiegano fonti leghiste - dopo l’incontro con Carlone - Per Salvini è stato un lungo e proficuo incontro per fare il punto della situazione, anche a proposito di immigrazione: attualmente in area Sar libica ci sono due imbarcazioni ong”. Con lui c’era anche il deputato del Carroccio Edoardo Rixi, in odore di un posto da viceministro come era già nel governo gialloverde, prima di dimettersi in seguito alla condanna in primo grado nel processo “spese pazze”. In sostanza, dunque, la guerra contro le ong cominciata dall’allora ministro dell’Interno nel 2018 e portata avanti per poco più di un anno prima che con la mossa del Papeete si auto-allontanò dal Viminale, riprende ora. E Salvini la riprende da dove l’aveva lasciata, ovvero facendo il punto con la Guardia costiera per capire come e dove intercettare le navi ong e come gestire i migranti da loro soccorsi. Ma come è noto Giorgia Meloni ha detto no al ritorno del Capitano al ministero dell’Interno anche per la sua passata gestione del caso Open Arms, che lo ha fatto finire sotto processo a Palermo per sequestro di persona. “Vedo che Salvini pure da ministro delle Infrastrutture ricomincia la sua cinica campagna di propaganda contro i migranti, incontrando il comandante generale della Guardia Costiera - ha polemizzato Nicola Fratoianni, segretario di Sinistra italiana Mentre bambini, donne e uomini continuano a morire a poche miglia dalle coste italiane, e si susseguono naufragi su naufragi”. In ogni caso la questione è tutta interna alla maggioranza, con Giorgia Meloni impegnata a distribuire le caselle dei sottosegretari e dei viceministri facendo attenzione a non scontentare nessuno. Da questo punto di vista la Lega non può che accettare le decisioni che verranno prese, visto che ha già ottenuto, oltre che il ministero delle Infrastrutture per lo stesso Salvini e quello dell’Economia per il suo vice, Giancarlo Giorgetti, anche il ministero dell’Interno. Dove è finito un tecnico, è vero, ma che risponde al nome di quel Matteo Piantedosi che è stato capo di gabinetto proprio di Salvini all’epoca del governo gialloverde. Corsi e ricorsi storici che hanno come fil rouge sempre la stessa battaglia: quella contro l’immigrazione clandestina. Migranti. La Guardia costiera nella notte salva 400 persone. Piantedosi: “Navi Ong fuori legge” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 25 ottobre 2022 Il neoministro vuole bloccare la Ocean Viking e la Humanity 1. Dei profughi, 147 sono sbarcati a Pozzallo, altri due gruppi sono stati indirizzati su Catania e Augusta. Altri 500 sbarcati a Lampedusa: emergenza nell’hotspot. Nella notte nuovi salvataggi di migranti in mare anche da parte della Guardia costiera italiana intervenuta a soccorrere un grosso peschereccio con 400 persone a bordo segnalato ieri sera da Alarm Phone. Tre i mezzi della Guardia costiera impegnati, il primo con 147 persone a bordo ha sbarcato i profughi a Pozzallo, altri due gruppi sono stati indirizzati su Catania e Augusta. Adesso sono 300 i migranti a bordo delle due navi umanitarie attualmente in missione nel Mediterraneo che ieri il ministro delle Infrastrutture Matteo Salvini ha chiesto al comandante generale della Guardia costiera di monitorare. Nuovi salvataggi anche da parte delle navi ong: la tedesca Humanity 1 ha soccorso infatti altre 113 persone su un gommone, tra loro tre donne e un bambino e ora ha a bordo 158 migranti. Altre 118 sono sulla Ocean Viking di Sos Mediterranée, le prime due navi Ong che si troveranno a dover chiedere un porto di sbarco al governo. Salvini ha già fatto sapere che l’Italia chiamerà in causa gli Stati di bandiera delle due navi, la Norvegia e la Germania. Piantedosi blocca le navi ong: “Non in linea con norme Ue e italiane” - Piantedosi - a quanto si apprende - ha emanato, in qualità di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, una direttiva ai vertici delle forze di polizia e della Capitaneria di porto perché informino le articolazioni operative che il ministero degli Affari esteri, con note verbali alle due ambasciate degli Stati di bandiera (Norvegia e Germania), ha rilevato che le condotte delle due navi Ocean Viking e della Humanity 1 attualmente in navigazione nel Mediterraneo non sono “in linea con lo spirito delle norme europee e italiane in materia di sicurezza e controllo delle frontiere e di contrasto all’immigrazione illegale”. Le condotte, sulla base dell’articolo 19 della Convenzione internazionale delle Nazioni unite sul diritto del mare, saranno valutate ai fini dell’adozione da parte del titolare del Viminale, in qualità di Autorità nazionale di pubblica sicurezza, del divieto di ingresso nelle acque territoriali. Altri 1400 da salvare - Alarm Phone ha inoltre segnalato altri due barconi con circa 1400 persone a bordo, che si troverebbero tra le zone di ricerca e soccorso di Malta e Italia. “Abbiamo appena parlato con loro: ci sarebbero due barconi che sono partiti insieme da Tobruk, in Libia. Ci è stato detto che uno trasporta circa 700 migranti, il secondo circa 650”. Secondo quanto riferito, una persona è morta e i motori non funzionano più. “È necessaria una grande operazione di salvataggio”, aggiunge Alarm Phone. Altri 500 sbarcati a Lampedusa. Emergenza nell’hotspot - Sempre nella notte sono sbarcati a Lampedusa altri 500 migranti, con sei diversi barconi. La più grande delle isole Pelagie si è, ancora una volta, trasformata in una terra d’emergenza: con i furgoncini che fanno la spola dal molo Favarolo all’hotspot di contrada Imbriacola dove vengono portati i migranti e con mezzi che poi spostano gli ospiti della struttura, quelli presenti già da qualche giorno, verso il porto. Nonostante i quotidiani trasferimenti con il traghetto di linea, nella struttura di primissima accoglienza, al momento, ci sono di nuovo 1.154 persone a fronte di 350 posti disponibili. Piantedosi vuole il comitato nazionale ordine e sicurezza - Il tema immigrazione riconquista dunque immediatamente l’agenda del governo. Questa mattina, a Radio RAI, il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi ha annunciato l’intenzione di convocare al più presto un comitato nazionale ordine e sicurezza sull’immigrazione allargato alle forze di polizia. “Gli aspetti che inducono ad assumere atteggiamenti che richiedono una certa sensibilità chiaramente vengono prima di tutto - ha detto il ministro - quindi la salvezza delle persone e l’approccio umanitario. Ma certo è che tutto quello che può essere finalizzato a prevenire che ci siano questi viaggi, che a volte si trasformano in viaggi della morte, sarà alla nostra attenzione”. Cannabis, dagli Usa di Biden un nuovo modello contro il proibizionismo di Giulia Crivellini* e Federica Valcauda** Il Dubbio, 25 ottobre 2022 Il presidente americano cancella le condanne per possesso. E se l’Italia seguisse questo esempio di pragmatico garantismo? Il nuovo governo si è formato, con la scelta dei ministeri che non commenteremo in questa sede ma con la certezza che non saranno anni facili per i diritti in questo Paese. Se c’è una realtà oggi nuova è che l’America che inventò il proibizionismo lo sta smantellando pezzo dopo pezzo. L’ultimo importante segnale, prima dei referendum sulla cannabis dell’8 novembre che vedranno coinvolti cinque Stati nordamericani, l’ha dato il presidente degli Stati Uniti d’America. Il 7 ottobre, con una proclamazione presidenziale, Joe Biden ha cancellato tutte le condanne federali per possesso di cannabis, sostenendo l’illogicità della reclusione per persone trovate in possesso di questa sostanza. Negli Stati Uniti, così come in Italia, i detenuti a causa di reati relativi a sostanze stupefacenti sono la maggioranza e la cannabis è la sostanza più perseguita, nonostante ormai sia legale in molti Stati, creando sovraffollamento carcerario e quindi condizioni di detenzione che contrastano con i più basilari diritti della persona. Alla proclamazione di Biden sono seguite le parole della vicepresidente Kamala Harris, che ha parlato di un cambio di approccio verso il sistema giudiziario, partendo proprio dal cambiamento delle politiche sulla cannabis. Anche il Paese che ha inventato la “war on drugs” prende dunque coscienza dei costi che gravano sulla vita delle persone: i precedenti penali portano barriere relative al lavoro, stigma sociale e iniquità. Sappiamo che da noi il nuovo governo Meloni difficilmente si avventurerà in azioni di amnistia verso chi ha compiuto reati relativi alla cannabis, ma ricorderemo oggi e nel futuro le parole del nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, che proprio in questi giorni ha detto: “Serve una riduzione dei reati. Va eliminato il pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali”. Se questa affermazione vale, diventa ancora più consistente per quelli che oggi sono reati senza vittima e che non possono essere trattati al pari di altri. Senza dimenticare l’elevato numero di detenuti tossicodipendenti (circa il 30%) che non dovrebbero stare in carcere ma essere avviati a percorsi di sostegno. I prossimi mesi saranno allora cruciali, perché ci diranno se l’esempio che arriva dall’America, anche dopo i referendum delle mid-term, potrà aprire uno spiraglio di pragmatico garantismo in questo nuovo Governo. *Tesoriera Radicali Italiani **Membro di direzione Radicali Italiani Iran. Medici, prof e intellettuali si schierano con la rivolta di Chiara Cruciati* Il Manifesto, 25 ottobre 2022 Scuole e università epicentro della protesta in Iran. 315 incriminati, in quattro rischiano la vita. Per reagire alla repressione, il movimento si struttura: presidi fissi e azioni brevi. Trentotto giorni di rivolta, 198 città coinvolte. E il movimento si struttura: acefalo e fluido, alle grandi marce delle prime settimane - quando era la forza dei numeri a respingere camionette della polizia e agenti antisommossa - ha sostituito azioni brevi, rapide, di piccoli gruppi che evitino così arresti di massa. Una pratica che si unisce a presidi ormai fissi: le università e le scuole. Le immagini che giungono da campus e istituti di diverse città - da Teheran a Isfahan - raccontano di folle di giovani, braccia alzate e slogan (su tutti “Jin, Jiyan, Azadi”, in curdo “donna, vita, libertà”), di ragazze che fanno irruzione nella mensa maschile all’Università Sharif a Teheran contro la segregazione di genere e mangiano con i ragazzi in giardino, di genitori che presidiano gli ingressi delle scuole per impedire l’accesso dei paramilitari, i Basij, responsabili di pestaggi, omicidi e sparizioni forzate. E di professori in sciopero domenica e di nuovo ieri, con la partecipazione maggiore in Kurdistan e Azerbaigian occidentale. Iranwire ieri riportava della condanna a cinque anni per tre insegnanti impegnati nel sindacato, mentre l’ong statunitense Committee to Protect Journalists denuncia l’arresto di 44 giornalisti iraniani tra i circa 12.500 detenuti dall’inizio della protesta. C’è anche la giovane italiana Alessia Piperno: domenica il neo ministro degli esteri italiano Tajani ha parlato con il padre: “Sto seguendo con il massimo impegno e con grande determinazione il caso”. Alle proteste in piazza e nelle classi si aggiungono le prese di posizione di un numero crescente di categorie: domenica 130 medici hanno chiesto “la fine delle violenze, specialmente verso bambini e adolescenti” e l’accesso a cure mediche per tutti i feriti senza che temano che un ingresso in ospedale si traduca in arresto. Lo stesso hanno fatto 300 dentisti e oltre 600 intellettuali, tra artisti e scrittori, che chiedono l’immediato rilascio dei colleghi arrestati. Ma la repressione non accenna a spegnersi: ieri il procuratore di Teheran, Ali Salehi, ha annunciato l’incriminazione di 315 persone per “collusione contro la sicurezza dello stato”, “propaganda contro il sistema” e “disturbo dell’ordine pubblico”. Quattro di loro rischiano la pena di morte per il reato di moharebeh, offesa contro l’islam e lo stato, per aver “terrorizzato la società, ferito poliziotti, distrutto proprietà pubbliche con l’intento di combattere il sacro sistema della Repubblica islamica”. Un paradigma che iraniane e iraniani sfidano da un mese. Come A. N.: “Ho 23 anni e studio all’università - dice al manifesto - Porto il velo per mia scelta ma credo che ognuna debba essere libera di scegliere per sé, di vestirsi come vuole. Il velo è diventato un simbolo di controllo. Noi donne siamo vittime di regole che non hanno fondamenti religiosi, un’interpretazione di potere che vuole solo controllarci. Vado a manifestare per i valori di libertà e giustizia, per le ragazze e i ragazzi che hanno perso la vita ingiustamente, per me, le mie sorelle, le mie amiche, per le donne”. La rivolta iraniana ha assunto i chiari tratti di una mobilitazione femminista, intesa non solo come rivendicazione di giustizia di genere ma come spinta verso una reale giustizia sociale che investa l’intero paese e ne sovverta il sistema di dominio. In piazza, per questo, ci sono anche gli uomini. S. D. è uno di loro. Ha 50 anni e gestisce un’azienda di 12 dipendenti. Racconta della madre single e della sua intolleranza verso il velo, delle battaglie quotidiane per vedersi riconosciuta nel proprio agire politico e sociale, sul posto di lavoro - da impiegata, dopo la laurea - e negli uffici pubblici. “Mia madre mi parlava di un’ingiustizia secolare che mantiene le donne sottoposte agli uomini, un dominio affermato con l’obbligo a coprirsi la testa. Mi ha raccontato dei soprusi subiti solo perché era una donna. Se non avesse problemi di salute, oggi sarebbe al fianco di questi ragazzi. Allora vado io per lei e per mia figlia di 20 anni che è in strada dal primo giorno dopo l’uccisione di Mahsa Amini. Vado per le donne e gli uomini che hanno sofferto perché hanno un’idea diversa da quella dominante”. “Non voglio un paese in cui c’è discriminazione di genere, in cui l’obbedienza è l’unica via di sopravvivenza. Appartengo a una religione colma di generosità e pace: non intendo lasciare questi valori a una manciata di corrotti. Questo è solo l’inizio”. *Con la collaborazione di Francesca Luci Mancato accesso alle carceri, comitato Onu contro la tortura sospende visita in Australia dire.it, 25 ottobre 2022 Esperti delle Nazioni Unite lamentano ostruzionismo delle autorità locali. 70 ong: atteggiamento governo preoccupa. Un comitato delle Nazioni Unite per la prevenzione della tortura ha interrotto una missione in Australia a fronte della mancata collaborazione delle autorità locali, che hanno più volte impedito al personale dell’Onu di visitare delle strutture detentive. A renderlo noto è stato il Subcommittee on Prevention of Torture (Spt), questo il nome dell’organismo, che agisce su mandato del Protocollo opzionale alla Convenzione contro la tortura (Opcat), siglato nel 2017 e poi ratificato da diversi Paesi, fra i quali la stessa Australia. Stando a quanto si apprende da un comunicato, alla delegazione del Spt, composta da quattro esperti, fra le altre cose “è stato impedito di visitare diversi luoghi in cui le persone sono detenute” e “non è stato garantito l’accesso a tutte le informazioni e la documentazione pertinenti che aveva richiesto”. Problemi particolari si sono verificati negli Stati del Queensland, nel nord-est, e del New South Wales, nel sud-est Secondo quanto riferito dal governo di Canberra, le autorità locali di quest’ultima regione in particolare hanno impedito al personale Onu l’accesso a qualsiasi istituto di detenzione statale. Gli esperti hanno quindi ritenuto “compromessa” la collaborazione con l’Australia e hanno sospeso la missione, che era iniziata il 16 ottobre e che sarebbe dovuta terminare il 27. La risposta del governo australiano - Il ministro della Giustizia australiano Mark Dreyfus, oltre a dirsi “deluso” dall’atteggiamento dell’amministrazione del New South Wales, ha detto di “rammaricarsi” della decisione del comitato Onu, affermando che la sospensione della visita “poteva essere evitata”. Dreyfus ha detto che l’Australia proseguirà nel suo impegno per il rispetto dei diritti umani. Il sistema penitenziario australiano, in modo particolare i centri di detenzione per i migranti, compresi quelli gestiti dall’Australia in Paesi vicini nell’ambito di accordi di esternalizzazione delle frontiere, sono da anni sotto accusa per le violazioni dei diritti umani che vi si verificano, stando a quanto documentato dall’Onu e da numerose ong. 70 Ong denunciano il comportamento delle autorità - Oltre 70 organizzazioni locali, fra le quali l’Australian Lawyers for Human Rights, si sono detti in una nota “profondamente preoccupati” dal fatto che “l’ostruzionismo incontrato” abbia spinto l’Onu a interrompere la sua visita sull’isola. Le ong hanno quindi chiesto all’esecutivo del primo ministro Anthony Albanese e ai governi locali di “prendere in considerazione le raccomandazioni dell’Opcat”, tenendo in conto che “il diritto all’esenzione dalla tortura è una norma inderogabile del diritto internazionale”.