Il delirio giustizialista della Lega: in carcere garante per i poliziotti e non per i detenuti di Riccardo Polidoro Il Riformista, 24 ottobre 2022 La custodia cautelare in carcere di Pietro Ioia, garante delle persone private della libertà per l’area della Città Metropolitana di Napoli, è stato un macigno che si è abbattuto su un terreno già disastrato e rischia, dopo quest’ulteriore deterioramento, di precipitare definitivamente nell’abisso del giustizialismo più deleterio. La condanna mediatica, puntualmente giunta a poche ore dall’arresto, con riferimento virgolettato ad intercettazioni e al contenuto di riprese video, sembrerebbe non lasciare spazio alla difesa dell’indagato, che, nell’interrogatorio di garanzia, si è avvalso - vista la mole di documenti da esaminare - della facoltà di non rispondere. Una prima riflessione va, dunque, fatta, ancora una volta, sulla pubblicazione di stralci di atti relativi alle indagini, che dovrebbero essere riservati, esclusivamente, alle parti e che, invece, diventano patrimonio comune. Nonostante la legge sulla presunzione d’innocenza, che stabilisce l’espresso divieto di indicare pubblicamente come colpevole la persona indagata, finché l’eventuale responsabilità non sia accertata con provvedimento irrevocabile di condanna, i media hanno illustrato, nel dettaglio, la tesi accusatoria, con precisa distinzione dei ruoli che ciascun indagato avrebbe avuto nel commettere l’azione criminale, unitamente alle prove che accertano tali condotte. È un dèja vu, che non si riesce a fermare. Ma il caso Ioia ci porta ad altre valutazioni. L’augurio è che possa, al più presto, dimostrare la sua innocenza, per se stesso e per quello che egli rappresenta. La sua storia, infatti, è stata, fino a questo momento, un vero e proprio simbolo di riscatto. Ex detenuto, scontata la condanna - 22 anni per narcotraffico internazionale - si è immediatamente dedicato ad attività che potessero sostenere il reinserimento sociale di coloro che avevano lasciato il carcere. Autore del libro “La cella zero”, poi divenuto opera teatrale. Un viaggio nel mondo sconosciuto della detenzione, con particolare riguardo al sopruso, all’abuso di potere, alla sospensione dei diritti. Da qui la denuncia di quanto avveniva nell’istituto di Poggioreale, in quella stanza luogo di tortura, dove i detenuti venivano vessati da agenti della Polizia Penitenziaria. Il processo, a carico di alcuni agenti della Polizia Penitenziaria, è ancora in corso presso il Tribunale di Napoli. Ieri l’ultima udienza istruttoria. Il 10 novembre prossimo è prevista la discussione del Pubblico Ministero, mentre le difese prenderanno la parola il 22 dicembre, il 5 e il 12 gennaio. Quello di Ioia è stato un impegno costante, anche quale Presidente dell’Associazione Ex Detenuti Organizzati. Chi lo ha conosciuto, vedeva nei suoi occhi la passione per l’attività di volontariato che svolgeva. La nomina a Garante, voluta dall’allora Sindaco de Magistris e poi confermata da Manfredi, suscitò varie polemiche, proprio per il suo passato. Mentre altri - tra cui chi scrive - sostennero che “era la persona giusta, al posto giusto”. Chi meglio di lui, infatti, poteva conoscere le problematiche relative alla detenzione e quelle dell’effettivo reinserimento sociale, una volta liberi? È presto per dire se avevamo sbagliato, in quanto la verità sarà accertata nell’unica sede possibile, quella giudiziaria. Intanto la notizia di quanto accaduto ha immediatamente aperto il dibattito sui criteri di scelta dei Garanti nominati dagli Enti Locali e sulla stessa loro utilità. La Lega, che già in passato aveva criticato la figura dei Garanti, si è affrettata ad emanare un comunicato in cui afferma che “al di là del nome del ministro, la Lega avrà certamente un ruolo nel dicastero della Giustizia guidato dal centrodestra. Tra i primi dossier da affrontare, anche alla luce dell’arresto del garante dei detenuti del Comune di Napoli, la necessità di un garante per le donne e gli uomini in divisa che lavorano nelle carceri italiane, troppo spesso in condizioni inaccettabili”. Ma la Polizia Penitenziaria non ha già i Sindacati - peraltro molto attivi - a tutelare i loro diritti? Tale dichiarazione, proveniente da un partito della coalizione di maggioranza che si accinge a governare il Paese, è l’ulteriore prova - semmai ce ne fosse stato bisogno - che, in materia di Giustizia ed in particolare di Esecuzione Penale, non vi sarà alcuna possibilità che vengano pienamente rispettati i principi costituzionali. Per questo, se davvero Pietro Ioia fosse colpevole, la sua azione criminale colpirà non solo la sua persona, ma, come in realtà già sta avvenendo, darà forza a quella deriva giustizialista che ai detenuti nulla vuole concedere, neanche i loro diritti. La sua colpevolezza rappresenterebbe, inoltre, per coloro che in lui hanno creduto e ne hanno ammirato la volontà di riscatto, un vero e proprio tradimento. Carlo Nordio, ministro della Giustizia: “Processi veloci, ecco come faremo” di Massimo Martinelli Il Messaggero, 24 ottobre 2022 “Leggete qualche libro in più e qualche saggio giuridico in meno”, disse ai colleghi più giovani al momento di andare in pensione. Era il febbraio del 2017 e Carlo Nordio chiuse per l’ultima volta il suo ufficio di pm a Venezia e cominciò a dedicare parte del suo tempo alle sue passioni: la storia, la musica classica, Shakespeare, il cavallo e la sua Treviso. Ma soprattutto, e ancora, la Giustizia. Saggi, convegni, bozze di riforme. Fino all’ultimo referendum sulla giustizia, la scorsa primavera: Nordio era presidente del comitato per il Sì. E sosteneva una posizione in parte differente da quella di Fratelli d’Italia. Ministro Nordio, tutti la definiscono un uomo libero. Anche Giorgia Meloni, quando lanciò la sua candidatura, disse che lei non aveva una storia politica alle spalle ma “solo” una grande preparazione giuridica, e questo bastava. Da dove comincerà al dicastero della Giustizia? “L’emergenza del Paese riguarda i costi dell’energia. Io voglio cominciare dai costi della giustizia”. Costa molto? “Quello che costa è la mancanza di affidabilità del nostro sistema giudiziario. Le aziende straniere non investono in Italia perché sono spaventate dalle lungaggini della giustizia. La nostra economia fondata sul credito è vulnerata dal fatto che per riscuotere quel credito bisogna aspettare anni, mentre negli altri paesi europei bastano pochi mesi. E poi c’è il problema della cosiddetta “amministrazione difensiva”. Che cos’è? “Molti imprenditori che vogliono investire sono rallentati dalle lungaggini degli amministratori pubblici. I quali non firmano permessi e licenze perché temono un avviso di garanzia. È la paura della firma, un fenomeno di cui ho scritto molto e che rallenta fortemente l’economia”. È il grande tema del reato di abuso d’ufficio. Va eliminato? “Io credo che debbano essere fortemente revisionati i reati che riguardano la pubblica amministrazione. Tra questi il reato di abuso d’ufficio e il traffico di influenze”. Queste modifiche possono servire all’economia, ma non velocizzano il processo penale. Che fare? “Dobbiamo partire dalla piena applicazione del codice di procedura penale introdotto da Giuliano Vassalli nel 1989, che non è mai avvenuta. Quel codice introduce il rito accusatorio cosiddetto anglosassone, funziona con principi opposti a quelli attuali, a cominciare dalle carriere separate e dalla discrezionalità dell’azione penale”. Basta a velocizzare il processo? “No, ma tanto per fare un esempio di come funziona il sistema anglosassone negli altri paesi, in Inghilterra va realmente a giudizio solo il 5% degli indagati. In Italia pm e gip si sentono quasi obbligati a portare avanti il procedimento fino al rinvio a giudizio o all’archiviazione. Introducendo il potere per il pm di filtrare a monte i casi di cui viene investito e di non procedere per quelli che ritiene insussistenti, ci sarebbe un gran carico di lavoro in meno”. Che altri correttivi? “L’inappellabilità delle sentenze di assoluzione. La legge prevede che un uomo può essere condannato “aldilà di ogni ragionevole dubbio”. Allora mi chiedo come si possa condannare in appello qualcuno che è stato già assolto in primo grado, almeno con la procedura attuale”. Si spieghi... “Adesso in appello si giudica in base alle carte del primo processo. Ecco che si possono formare due punti di vista giudiziari opposti sugli stessi atti processuali: un giudice condanna laddove un altro giudice aveva avuto un dubbio. Discorso diverso è quello del processo di appello basato su fatti nuovi, che nel primo processo non erano emersi”. Intercettazioni e manette facili. Che ne pensa? “Per le intercettazioni spendiamo 200 milioni di euro ogni anno. Sono uno strumento importante ma sono diventate quasi l’unico utilizzato dai pm. In Italia le procure intercettano i cittadini quattro volte in più rispetto alla media dei paesi Ue e 30 volte in più rispetto ai paesi anglosassoni. E poi c’è il problema della segretezza”. Come si risolve? “Semplice. Attribuendo la responsabilità sulla tutela del segreto al pm che le ha disposte. Se finiscono sui giornali ne risponde lui. Credo che potrebbe funzionare”. Sulla custodia cautelare cosa pensa? “Che il diritto alla libertà personale merita una garanzia in più. Credo che la richiesta di arresto formulata da un pm dovrebbe essere vagliata da un collegio di giudici, meglio se di città diverse da quelle del pm, anche per evitare ogni tipo di contiguità. Oggi la richiesta di arresto fatta da un pm viene vagliata da un gip che magari lavora nell’ufficio accanto”. Un altro tema delicato: le correnti della magistratura. Servono? “La libertà associativa è importante, ma non dovrebbe determinare gli equilibri nell’organo di autogoverno della magistratura. Penso che sia opportuno introdurre un meccanismo di sorteggio per i componenti del Csm, magari scegliendo in una rosa di nomi di persona autorevoli indicati dagli stessi magistrati”. Un percorso lungo, ce la farete? “Alcune di queste cose le chiede l’Europa. Dobbiamo farcela per forza”. Caro ministro Nordio, ora ascolti noi toghe di Ezia Maccora* La Stampa, 24 ottobre 2022 L’1 novembre 2022 entrerà in vigore la riforma della giustizia penale. Una riforma di sistema che non prevede una disciplina transitoria. Il progetto di riforma coinvolge infatti tutti i segmenti del procedimento e del processo penale. Ma l’ufficio che, più di ogni altro, sarà da subito interessato da nuove competenze e da diverse regole di giudizio è quello del giudice delle indagini preliminari (Gip) e dell’udienza preliminare (Gup). Ufficio storicamente in difficoltà e in affanno, per gli imponenti carichi di lavoro a cui deve far fronte ed per i tempi di decisione, in alcuni casi ad horas, e lo sarà ancora di più dal primo novembre 2022. Basta elencare le novità della riforma per capire la mole di lavoro e la delicatezza dei compiti affidati a questi giudici. •?Controllo della tempestività di iscrizione della notizia di reato da parte del pubblico ministero, attività da svolgersi nel contraddittorio delle parti, con possibili e pesanti ricadute sul regime di utilizzabilità degli atti di indagine compiuti fuori termine. •?Opposizione al decreto di perquisizione in ottemperanza a un intervento della Corte Edu. •?Positiva modifica radicale della regola di giudizio per archiviare un procedi-mento (quando gli elementi acquisiti nel corso delle indagini preliminari non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna) che incrementerà da un lato le richieste di archiviazione del pubblico ministero e, dall’altro, le opposizioni delle persone offese e le relative udienze. •?Ampliamento dei presupposti per la definizione del procedimento con decreto penale di condanna e sostituzione della pena con i lavori di pubblica utilità. •?Controllo più incisivo sui vizi dell’imputazione sia in caso d’imputazione “ge-nerica” sia d’imputazione non corrispondente in fatto agli atti e alla norma contestata. •?Mutamento radicale della regola di giudizio per pronunciare la sentenza di proscioglimento e non rinviare a giudizio quando gli atti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna. •?Ampliamento dei riti speciali: abbreviato condizionato, patteggiamento, giudi-zio immediato e messa alla prova. •?Applicazione di alcune misure alternative alla detenzione fin dalla sentenza di condanna se la pena è contenuta in 4 anni di reclusione con un complesso iter procedurale che prevede la necessaria interlocuzione con gli uffici di esecuzione penale esterna che devono stilare il progetto di recupero posto alla base della diversa sanzione da applicare in luogo del carcere. Si tratta di competenze che delineano una nuova e incisiva funzione degli uffici gip-gup, da un lato di maggior controllo dell’operato dei pubblici ministeri dall’altro di filtro tempestivo di ciò che non richiede un processo penale. Nuove competenze che s’innestano in una già importante definizione dei processi davanti al gup grazie all’ampia richiesta dei riti alternativi da parte degli imputati e dei loro difensori. Ed infatti nel 2021 Milano ha definito 6024 procedimenti con riti alternativi rispetto ai 3921 di Napoli e ai 3696 di Roma. Si tratta di dati destinati ad aumentare se si considerano i benefici introdotti dalla riforma per coloro che accedono ai riti speciali, anche in termini di entità e tipologia di pena. Vantaggio ulteriore quello sui tempi brevi necessari a concludere il processo davanti al gup, rispetto a quelli più lunghi propri del giudizio affidato al tribunale penale. D’altra parte quest’azione deflattiva e di filtro è indispensabile se si considera che sul sistema giudiziario italiano gravavano al 30 giugno 2021 oltre due milioni e mezzo di procedimenti a carico di noti. Ed anche i tempi medi di definizione erano tutt’altro che tempestivi: 320 giorni presso gli uffici di procura; 439 giorni presso gli uffici giudicanti di primo grado; 956 giorni presso le corti di appello; 150 giorni presso la Corte di cassazione. Sul versante del sovraffollamento carcerario non può essere sottovalutato che si tratta spesso di soggetti condannati a pena non superiore a quattro anni, che si caratterizzano per il basso tasso di scolarità, per essere stranieri, tossicodipendenti, e privi di attività lavorativa; soggetti che richiedono, quasi sempre, un percorso rieducativo diverso dalla mera detenzione in carcere. I dati più recenti in tema di efficacia delle misure alternative sul versante della rieducazione e del reinserimento sociale evidenziano come la percentuale dei recidivi fra coloro che scontano una pena in carcere è del 68,45%, a fronte del solo 19% di coloro che invece scontano la pena in misura alternativa. Criticità che la riforma sicuramente cerca di affrontare. Ma potranno gli uffici gip-gup, a risorse invariate, assorbire questo aumento vertiginoso di lavoro? Non vi è il rischio che questa riforma rimanga sulla carta e si disperda quello che di positivo contiene in termine di deflazione dei procedimenti, consentendo la rapida e doverosa conclusione del processo nei confronti di coloro che a distanza di molti anni sarebbero comunque assolti, e di applicazione della sanzione penale già in sede di condanna con un ampliamento del catalogo delle sanzioni? È evidente che l’impatto di una riforma di tale portata non potrà essere assorbito con le risorse oggi esistenti e la loro attuale dislocazione. Occorrerà quindi rivedere le scelte organizzative dei tribunali, sapendo che le attuali scoperture degli organici sono pari a quasi 1600 unità e che i prossimi ingressi di magi-strati non si vedranno prima del 2025. Ci auguriamo che per il nuovo Ministro della Giustizia e per il Consiglio superiore della Magistratura, che può intervenire dettando delle linee guida organizzative generali, questa emergenza sia posta al primo punto della loro futura agenda di lavoro. Senza soluzioni che indichino le migliori strade da percorrere la riforma non raggiungerà l’obiettivo principale che l’ha mossa: il raggiungimento degli obiettivi del Pnrr, che per il processo penale fissa al 2026 la riduzione del 25% della durata media del processo penale nei tre gradi di giudizio. Nell’immediato, se permangono invariate le risorse e la loro attuale destinazione, per poter affrontare con serietà le nuove competenze, dovrà necessariamente essere diminuito il numero dei procedimenti da trattare in udienza preliminare per consentire al giudice di studiare attentamente gli atti e definire ciò che non deve proseguire, dovranno essere rivisti i progetti già in atto finalizzati agli obiettivi del Pnrr in settori non prioritari come quello delle archiviazioni, e occorrerà accettare un inevitabile allunga-mento dei tempi di emissione delle misure cautelari personali e reali che costituiscono una fetta quantitativa e qualitativa rilevante del lavoro (solo a Milano nel periodo giugno 2021- giugno 2022 sono state emesse 3.152 ordinanze cautelari di cui 2.757 personali e 395 reali a cui devono aggiungersi 744 ordinanze di convalida di arresto o fermo). Non è purtroppo una prospettiva positiva e nessun magistrato l’affronterà, dal primo novembre, a cuor leggero. *Presidente Aggiunta ufficio Gip Milano Il ministro e la separazione delle carriere: “No a un controllo del governo sul pm” di Virginia Piccolillo Il Corriere della Sera, 24 ottobre 2022 “Mai, mai e poi mai, ho pensato alla separazione delle carriere come primo passo verso un controllo del governo sul pubblico ministero. Mi fa inorridire solo l’idea”. Carlo Nordio sta tornando in treno a Treviso dopo la nomina a ministro della Giustizia per fare una valigia adeguata al suo nuovo incarico. La notizia che il braccio di ferro tra Silvio Berlusconi e Giorgia Meloni si era concluso giovedì sera in suo favore l’aveva avuta venerdì mattina dallo stesso Berlusconi che la mattina precedente aveva incontrato a Villa Grande, assieme con Gianni Letta. In quel faccia a faccia voluto da Meloni per convincere il leader di Forza Italia che il candidato giusto a quell’incarico era il suo Nordio, assicura che Berlusconi non aveva avanzato alcuna richiesta specifica di garanzie. Né sull’abolizione della legge Severino né su altro. “Non occorreva. Sono dieci anni che dico e scrivo che la legge Severino è un obbrobrio giuridico. Soprattutto se approvata retroattivamente. Ho presieduto il comitato del referendum per il “no” a quella legge e alla custodia cautelare per reiterazione del reato”, spiega il neo Guardasigilli. Racconta particolari inediti sul colloquio che ha poi convinto il leader di Forza Italia a rinunciare alla propria candidata Maria Elisabetta Alberti Casellati: “Eravamo in giardino. Il dottor Letta, che conosceva perfettamente i miei libri, ha riassunto a Berlusconi le mie posizioni. Peraltro che non coincidono in tutto con quelle di FdI, e fa onore a Giorgia Meloni avermi indicato come candidato presidente della Repubblica e alle elezioni, pur sapendolo”, dice. Precisa però che “la politica è mediazione” e lui intende seguire il programma della coalizione di centrodestra: “L’abolizione della Severino non c’è. E quindi non la abolirò. Lo stesso vale per l’ergastolo, anche se penso che andrebbe abolito. Idem per l’immunità parlamentare e per le intercettazioni che, secondo me, andrebbero limitate. Alcune sono indispensabili e altre dannose perché limitano la libertà dei cittadini”. La separazione delle carriere nel programma c’è. E Nordio intende occuparsene. Anche se lui stesso è stato all’inizio giudice e poi pm. E dice di aver “potuto fare benissimo entrambe le funzioni”. Ma si pone il problema di come il passaggio appaia agli occhi del cittadino: “Potrebbe pensare che una mentalità accusatoria non sia tipica del giudice e viceversa”. E si indigna se si pensa che la separazione sia solo un primo step per arrivare al controllo del governo sui pm: “L’indipendenza della magistratura per me è un idolo. Se non ne avessi un rispetto sacrale non avrei fatto il magistrato ma l’impiegato. Nei Paesi dove c’è la separazione delle carriere infatti non c’è il controllo dell’esecutivo sul pm. E chi lo paventa dice una balla colossale”. In ogni caso non intende occuparsene subito. Prima vuole concentrarsi su misure che possano velocizzare la giustizia, favorendo così l’economia. Il primo provvedimento? “L’urgenza è accelerare i processi. Per far questo serve innanzitutto aumentare l’organico. E visto che per quello dei magistrati servono minimo quattro anni, dal momento in cui si bandisce un concorso a quello in cui i vincitori prendono servizio, mi occuperò subito del personale amministrativo: cancellieri, segretarie”. Perché, assicura, “il magistrato è come il chirurgo. Lui opera, ma il paziente deve arrivare in sala operatoria preparato e qualcuno se ne deve occupare anche dopo”. Un provvedimento “semplice”, spiega “per il quale, mi dicono ci sono anche i fondi per attuarlo”. Contemporaneamente intende procedere all’ampliamento dell’organico anche con la definizione dello status dei giudici onorari. E partire da subito con una semplificazione normativa. A cominciare dalla depenalizzazione di alcuni reati. E qui sorgono gli altri timori. C’è chi sta già accusando Nordio di volere abolire la legge sull’abuso d’ufficio. Lui spiega che non intende farlo. Ma vuole procedere a “una profonda revisione per mettere tranquillità ai pubblici amministratori che non se la sentono più di prendere decisioni”. Il treno è quasi arrivato a Treviso. In due giorni ha fatto tre volte questa tratta. Appena avuta la notizia della nomina lo aveva preso al volo per poter andare a casa a prendere almeno l’abito scuro per il giuramento. Neanche il tempo di arrivare per salutare la moglie Maria Pia e gli amatissimi gatti Rufus e Romeo-Leonetto, aveva avuto però la comunicazione che il giuramento sarebbe avvenuto la mattina dopo alle 10. A quel punto insieme con la moglie ha fatto una corsa verso l’ultimo treno per Roma. Processi penali impazziti: l’assurdo turn over dei giudici di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 24 ottobre 2022 Abbiamo più volte ricordato quanto sia fondamentale una regola del processo penale che si chiama “immediatezza della deliberazione”: il giudice che emette la sentenza deve essere il medesimo che ha partecipato all’intero dibattimento, ha ascoltato i testimoni, i consulenti, i periti, ed ha acquisito (o non acquisito) documenti ed altre prove. Se il giudice cambia, occorre ripetere l’istruttoria (“a pena di nullità assoluta” proclama severamente la norma). Abbiamo anche detto che questo elementare principio di civiltà, sancito senza equivoci dall’art. 525 del nostro codice di rito, è stato letteralmente sovvertito dalla interpretazione giurisprudenziale, con un significativo contributo, purtroppo, della stessa Corte Costituzionale. Di fatto, ora la situazione è l’opposto di quanto previsto dalla norma, formalmente ancora vigente: se cambia il giudice, pazienza. Il giudice nuovo si legga i verbali (se ne ha voglia), si faccia un’idea di quello che è successo, e pronunci la sentenza. La cosa più scandalosa - anche in questo ci ripetiamo, ma ne vale la pena, così comprenderete meglio il fatto che mi appresto a raccontarvi - è la logica che ha ispirato questo sovvertimento interpretativo. Chi pretende di ripetere il processo per non essere giudicato da un giudice diverso da quello che ha raccolto la prova attenta alla ragionevole durata del processo, e mena il can per l’aia, secondo inveterato costume degli avvocati difensori. Invece, tutti zitti sulle ragioni per le quali il giudice cambia, che evidentemente sono considerate convenzionalmente nobilissime e comunque insindacabili. Peccato che, nel 90% dei casi, sono ragioni di carriera: voglio cambiare sezione, o funzione, o sede, e quindi arrangiatevi. Da quando le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno definitivamente sancito questi principi, e queste priorità valoriali, in tutti i Tribunali italiani si è scatenata - complici ovviamente anche le croniche carenze di organico - una sarabanda che definire indecorosa è il minimo che si possa dire. Inizi i processi con un giudice (o tre, se il giudizio è collegiale) e da quel momento assisti inerme a un continuo modificarsi del giudicante. Recentemente a Roma un nutrito gruppo di valorosi Colleghi ha denunciato un caso che ha davvero dell’incredibile. Si tratta di un processo a carico di numerosi imputati di gravi fatti di estorsione ed interposizione fittizia, aggravate dal metodo mafioso. Ebbene, in un processo di questa complessità, che prevede in caso di condanna pene davvero molto gravi, è accaduto in pratica che in nessuna udienza il collegio fosse il medesimo dell’udienza precedente. Ad ogni udienza almeno un giudice, ma a volte anche due, erano nuovi. Facciamo qualche esempio, in modo che la denunzia del fatto non scolori in una eccessiva genericità. Il Collegio che ammette le prove è subito diverso da quello che inizia a raccoglierle. E sia. Ma si veda l’esame delle persone offese: due udienze, alla seconda cambia un giudice. Esame - ovviamente cruciale - della Polizia Giudiziaria che ha svolto le indagini, e degli altri testi dell’accusa: cinque udienze. Dopo la prima udienza, a quella successiva ne cambiano due; alla terza altri due; alla quarta altri due, alla quinta uno. Udienze per esame testi della difesa: quattro, ad ognuna è cambiato uno dei tre giudici. Ma l’acme si raggiunge nella fase della discussione. La requisitoria del Pubblico Ministero avviene in presenza di due giudici nuovi su tre (e parliamo di due nuovi giudici che non avevano mai partecipato nemmeno ad una delle udienze precedenti). Alla udienza fissata per l’inizio delle arringhe difensive, cambia nuovamente uno dei tre giudici, che però si rende conto di versare in una condizione di incompatibilità; quindi l’udienza viene sospesa, e si va alla ricerca di un qualsivoglia altro giudice che possa comporre il collegio. Quando infine si è trovato il malcapitato (che non sa nulla di nulla del processo, ovviamente, e non ha nemmeno sentito la requisitoria del pm), i difensori sollevano tutte le eccezioni possibili, ma il Tribunale ritiene di superarle senza battere ciglio. La fine della storia la apprenderemo dalle cronache. Non credo ci sia bisogno di ulteriori commenti. Mettetevi nei panni degli imputati, con onestà intellettuale, e ditemi cosa provereste ad essere giudicati in queste inaudite condizioni. Ecco, quando si parla di regole processuali noi avvocati siamo sempre gli azzeccagarbugli che piantano grane per non fare i processi. Ed usiamo termini di difficile comprensione, quali appunto quelli del diritto alla “immediatezza del processo”. Forse oggi avete capito un po’ meglio di cosa stiamo parlando; e cioè della libertà e dei diritti fondamentali di tutti e di ciascuno di noi. E di come essi siano oggi quotidianamente mortificati ed umiliati, nel generale disinteresse. Si tratta, tuttavia, di non mollare; e noi, statene certi, non molliamo. Scatti di ordinaria “mala edilizia” giudiziaria di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 24 ottobre 2022 L’Anm ha pubblicato sul proprio sito centinaia di foto, raccolte dagli stessi protagonisti della giurisdizione: una mappa, da Nord a Sud, della condizione di aule e uffici giudiziari nei quali sono costretti a lavorare magistrati, avvocati e personale amministrativo. Il nostro giornale lo dice da sempre. La giustizia non ha bisogno di proclami e di effetti speciali, se poi, scendendo sul pianeta terra, le aule e gli uffici frequentati dai magistrati, dagli avvocati e dai cittadini sembrano più a delle piccionaie o a dei tuguri. Per questo motivo l’Associazione nazionale magistrati ha voluto far conoscere lo stato in cui versa l’edilizia giudiziaria. Come? Nella maniera più semplice ed accessibile, pubblicando sul proprio sito (www.associazionemagistrati. it) centinaia di foto, scattate dagli stessi protagonisti della giurisdizione e quotidiani frequentatori dei Tribunali. La galleria fotografica - in alcuni casi una vera e propria galleria degli orrori -, composta da otto sezioni, mostra da Nord a Sud, passando per la capitale, lo stato pietoso in cui versano le aule d’udienza e altri locali dei Tribunali italiani. Ogni galleria fotografica ha un titolo e i magistrati hanno dato adito al loro estro: le locuzioni utilizzate vanno da “Impressionismo giudiziario”, a “Vostro onore”, “Giustizia 6.0” e “Con gli occhi all’insù” per giungere alla “Raccolta differenziata”. Le altre gallerie si intitolano “Terzo potere”, “Lavori in corso” e “Il vizio della memoria”. Scatti non d’autore che non hanno la velleità di vincere premi fotografici, ma che intendono portare a conoscenza di tutti la realtà, senza filtri, senza infingimenti, senza, appunto, effetti speciali. Nel suo saluto di commiato, rivolto ai dipendenti e a funzionari del ministero della Giustizia, Marta Cartabia, ha dichiarato che nei seicento giorni trascorsi in via Arenula ha voluto “contribuire a realizzare quel volto costituzionale della Giustizia”. Chissà cosa ha pensato la ministra uscente sfogliando il dossier fotografico dell’Associazione nazionale magistrati. “Mala edilizia” - I componenti della VIII Commissione permanente di studio dell’Anm evidenziano le motivazioni che li hanno indotti a fare questo singolare viaggio nell’Italia della “mala edilizia” giudiziaria. “Per ottenere un quadro aggiornato della “salute” dei nostri palazzi di giustizia - spiegano abbiamo ritenuto utile effettuare un monitoraggio dell’edilizia giudiziaria, chiedendo a tutti i magistrati di documentare fotograficamente lo stato in cui versano gli uffici in cui quotidianamente prestano servizio e in cui, ogni giorno, migliaia di cittadini (personale amministrativo, avvocati, parti processuali), fanno ingresso. Grazie al contributo delle Giunte Esecutive Sezionali e di tanti colleghi abbiamo così realizzato un dossier fotografico sull’edilizia giudiziaria composto da circa 500 foto relative a più di 50 Tribunali e Procure della Repubblica”. L’edilizia giudiziaria è una sorta di specchio dell’Italia, secondo l’Associazione nazionale magistrati. “Quella che emerge da questa “istantanea” - affermano i componenti della VIII Commissione permanente di studio - è la fotografia di un Paese i cui palazzi di giustizia presentano strutture sovente inadeguate e uffici troppo spesso inospitali e, in alcuni casi, persino insalubri: insomma, luoghi di lavoro non dignitosi per quanti vi prestano servizio o anche solo li frequentano come utenti. Al fine di evidenziare le situazioni di maggiore criticità che, a nostro giudizio, richiedono interventi urgenti, tra tutte le foto raccolte ne abbiamo selezionate alcune, che abbiamo suddiviso in otto categorie in base all’oggetto raffigurato e al contesto in cui la foto è stata scattata. L’intera raccolta fotografica, comprensiva di documenti e relazioni, suddivisa in base all’ufficio giudiziario da cui provengono, è, invece, consultabile navigando attraverso la cartina geografica”. A Roma spazi insufficienti e inadeguati - A denunciare questa situazione è il presidente del Tribunale, Roberto Reali, che si sofferma, in una relazione inviata al presidente della Giunta dell’Anm Lazio (Sezione di Roma) tanto sul settore civile quanto su quello penale, senza tralasciare l’Aula Bunker di Rebibbia. Gli immobili in cui si svolgono le attività del civile si caratterizzano per la loro vetustà. Reali pone l’attenzione sull’immobile di via Lombroso, che ospita dal lontano 1977 l’Archivio di Stato Civile, concesso in uso gratuito per tre anni al Ministero di Grazia e Giustizia dalla Provincia di Roma. Sono trascorsi quarantacinque anni e la montagna di faldoni è ancora lì. La struttura “risulta inagibile e interdetta ai lavoratori” dal 2015 ed è incustodita. La Città giudiziaria, situata in Piazzale Clodio, ospita il settore penale: necessita di interventi di ristrutturazione e di ampliamento. Servono, evidenzia il presidente del Tribunale di Roma, investimenti mirati per la “riqualificazione complessiva della Città giudiziaria” e l’ampliamento della tessa “mediante la costruzione di un nuovo Palazzo che possa affiancare i già esistenti Edifici A, B e C di Piazzale Clodio”. Nell’Aula Bunker di Rebibbia avvocati, magistrati, parti processuali e forze dell’ordine nelle giornate di pioggia farebbero bene ad indossare l’impermeabile o ad usare l’ombrello a causa delle infiltrazioni di acqua piovana dalle coperture, denunciate dallo stesso Reali. Nella documentazione allegata al dossier si nota, inoltre, che nei pressi delle aule di udienza il problema dei rifiuti è di portata eccezionale. Decine di sacchi formano montagne di spazzatura. Ambienti condivisi nella gallery di Cassino, dove spicca una foto di alcuni armadi e fascicolatori, pieni zeppi di faldoni, sistemati in un bagno. Nella stessa stanza in cui si trovano un lavabo e la carta per pulirsi. Piemonte: Torino ride, Alessandria piange - Se il Palazzo di Giustizia di Torino, intitolato a Bruno Caccia (magistrato martire, ucciso dalla criminalità organizzata nel 1983) si presenta ordinato, non può dirsi lo stesso per le aule di udienza del Tribunale di Alessandria. Qui, le infiltrazioni che mangiano gli intonaci e i cavi volanti sono un pugno nell’occhio. In uno spazio ricavato alle spalle della postazione dei giudici, arredata con elementi di almeno settant’anni fa - poltrone comprese -, si nota un deposito in cui sono ammassate sedie, cartoni e addirittura alcuni televisori. Come il deposito di un rigattiere. A Biella, oltre ai muri scrostati e ad alcune cabine dalle quali debordano centinaia di cavi, spicca un vecchio telefono pubblico. Il pezzo da museo è sovrastato da un muro ridotto a gruviera. “Pronto, ministero della Giustizia?”. Non risponde nessuno. Stranamente… A Paola l’ascensore va solo giù - Il viaggio nella “mala edilizia” prosegue a Sud. La Giunta sezionale dell’Anm di Catanzaro, nei mesi scorsi, ha denunciato l’improvvisa rottura di un cavo dell’ascensore del Palazzo di Giustizia di Paola. L’impianto di sollevamento è precipitato nel vuoto. Il caso ha voluto che non ci fossero persone nell’ascensore. In Tribunale per lavorare non per rischiare la vita. A Crotone, invece, i magistrati hanno protestato per “le criticità strutturali del Tribunale” e hanno altresì rappresentato “la nocività degli ambienti di lavoro” a causa dell’umidità dei locali, delle perdite d’acqua al piano terra e al secondo piano. A ciò si aggiunge il blocco totale degli impianti di riscaldamento. Per il momento, viste le alte temperature delle “ottobrate” che si susseguono, il pericolo di congelamento non sussiste. Foggia. Una stanza per 4 nel penale. Ma nel civile va peggio - Nel Tribunale penale di Foggia i quattro giudici del dibattimento devono lavorare nella stessa stanza. Ma i conti non tornano. Ci sono tre scrivanie ed una sola postazione fissa dotata di computer. Forse, serve una calcolatrice in via Arenula. Nel Tribunale civile va peggio. Ben sette magistrati condividono la stessa stanza, sprovvista di computer e di telefono. E non hanno neppure distinte scrivanie. Insomma, nel capoluogo da uno si sperimenta il coworking giudiziario all’italiana. Bari e i fascicoli nei bagni - In piazza De Nicola, sede del Tribunale Civile, della Corte di Appello penale e civile, e del Tribunale di Sorveglianza si ricava spazio pure nei bagni per conservare i fascicoli. Al piano terra, nel sottoscala si trova invece di tutto: sedie e poltrone rotte, armadi inutilizzati, vecchie macchine da scrivere, monitor, stampanti fuori uso, fascicolatori metallici arrugginiti ed ammaccati. Dal rigattiere all’isola ecologica è un attimo (per la gioia dei ratti per possono insinuarsi ovunque). Trani. Palazzi storici che richiedono manutenzione - Chi non vorrebbe fare udienza a due passi dal mare? A Trani la sede delle Esecuzioni mobiliari, ospitata nel Palazzo Gadaleta, si trova in una posizione felice. All’interno, però, i magistrati sono preoccupati. In alcune stanze le crepe evidenti non fanno immaginare niente di buono. Le cose non vanno meglio nella sede centrale del Tribunale, a Palazzo Torres, a due passi dalla splendida Cattedrale romanica. Lo stabile, risalente alla metà del XVI secolo, richiede di essere sottoposto ad urgenti interventi di ristrutturazione. Alcuni cornicioni sono pericolanti. Il palazzo di giustizia di Catania cade a pezzi - A riprova dell’emergenza edilizia giudiziaria vi è il crollo parziale, pochi giorni fa, nel Palazzo di Giustizia di Catania, del tetto della cancelleria del Giudice per le indagini preliminari. Fortunatamente, non ci sono stati feriti. La Giunta etnea dell’Associazione nazionale magistrati è ritornata a porre all’attenzione i gravi problemi che si affrontano nella città siciliana e ha espresso “ancora una volta la massima preoccupazione e il vivo allarme per le condizioni in cui versano gli uffici giudiziari catanesi”. L’Anm chiede con urgenza che vengano svolte attività di manutenzione ordinaria e straordinaria “per evitare tragedie che questa volta sono state solo sfiorate”. “Non è ammissibile - si legge in una nota - che in un edificio pubblico, e a maggior ragione in un Palazzo di Giustizia, dove devono trovare tutela i diritti di ciascuno, i lavoratori che ivi operano debbano temere per la propria incolumità. Non è altresì ammissibile che, a seguito di tali eventi, alcuni magistrati dell’ufficio non dispongano attualmente di un ufficio dove poter celebrare le udienze e non siano pertanto messi in condizione di adempiere ai propri doveri”. Grande preoccupazione viene espressa da Rosario Pizzino, presidente del Coa di Catania. “Il crollo di un soffitto, verificatosi nel Palazzo di Giustizia - dice al Dubbio -, è un incidente che, purtroppo, non ci sorprende. Ricordiamo ancora il distacco della lastra di marmo dalla parete di un’aula d’udienza e le recenti piogge torrenziali all’interno dei locali. Da anni denunciamo i problemi strutturali del Palazzo di Giustizia e, più volte, abbiamo posto all’attenzione delle istituzioni le carenze dell’edilizia giudiziaria nella nostra città “. Silenzio di tomba da via Arenula. “Dagli uffici ministeriali - aggiunge il numero uno delle toghe etnee non sono pervenute risposte adeguate e vane sono pure rimaste le richieste loro inoltrate dai vertici giudiziari di Catania. Così siamo arrivati a questo ennesimo episodio che poteva anche essere tragico. Adesso, a causa dell’inagibilità di un intero settore del Palazzo, ci sarà da fare i conti con una serie di inevitabili ritardi e disfunzioni nell’attività giudiziaria e di problemi organizzativi per gli uffici che si riverseranno sull’intera struttura giudiziaria, sui cittadini e sui difensori. Un altro duro colpo per noi avvocati, ancora alle prese con le restrizioni anti-Covid, e proprio nel momento in cui l’Ufficio per il processo iniziava ad avviarsi. Ci auguriamo che gli interventi di ripristino siano immediati e che questo ennesimo episodio sia uno sprone per affrontare e risolvere la questione dell’edilizia giudiziaria a Catania”. Sul crollo nell’ufficio del Gip intervengono pure Antonino La Lumia, presidente del Movimento Forense, e Giuseppe Casabianca, presidente della sezione di Catania di MF. “Secondo i primi accertamenti - affermano -, la causa sarebbe da individuare nelle recenti infiltrazioni d’acqua piovana. Solo la mera casualità, dunque, ha consentito di evitare una tragedia, perché nella notte nessuno era presente nei locali. Ciò è inaccettabile: gli avvocati e tutti coloro che quotidianamente operano nei Tribunali non possono vedere la propria incolumità messa a rischio dalle pessime condizioni nelle quali versano gran parte degli edifici giudiziari in Italia. Il Movimento Forense, da anni, denuncia, anche attraverso ripetute mozioni congressuali, tale perdurante stato di degrado, inconcepibile in un ordinamento, che dovrebbe invece garantire l’efficienza e la funzionalità dell’intero sistema: una vera riforma della Giustizia, piuttosto che fermarsi esclusivamente ai profili del rito, deve partire da queste basi e non può trascurare seri e concreti investimenti”. Gli esponenti del Movimento Forense chiedono “un intervento immediato da parte delle istituzioni, al fine di assicurare il regolare svolgimento di tutte le attività processuali e, nel contempo, di inserire il tema tra le priorità dell’agenda politica del nuovo governo”. Quando si trascurano i luoghi in cui si amministra la Giustizia, i diritti rischiano di essere abbandonati. Proprio come gli oggetti dei depositi improvvisati in alcuni Tribunali. Con buona pace del “volto costituzionale della Giustizia”. La giustizia predittiva muove i primi passi di Claudia Morelli Italia Oggi, 24 ottobre 2022 L’applicazione dell’intelligenza artificiale al modo forense sta cominciando a vedere la luce con diversi progetti in fase sperimentale, almeno in Italia. Non mancano, naturalmente, i problemi legali alla regolamentazione di questo settore. In attesa che la Ue sciolga i nodi sul livello di rischio dei sistemi. L’applicazione dell’intelligenza artificiale (Ia) nella giustizia sta cominciando a muovere i primi passi anche in Italia. Al momento non ci sono applicazioni intensive di tool al settore giudiziario. Ci sono piuttosto sperimentazioni. L’ultimo progetto (anticipato da La Nuova procedura civile) è quello del Tribunale di Milano con l’Università, ancora a livello di convenzione, che dichiara di voler procedere secondo una impostazione statistico-giurisprudenziale “tentando di prevedere le future decisioni delle singole corti in base allo studio dei precedenti” (sui diversi approcci si veda altro articolo nella pagina seguente). Anche la Corte di cassazione sta lavorando con lo Iuss (Istituto universitario degli studi superiori) di Pavia (nel contempo è da qualche giorno che il sito della Suprema corte manda un alert sulla insicurezza dell’accesso perché è scaduto il certificato https!). E altri progetti sono in corso, con approcci più o meno scientifici sotto il profilo prettamente tecnologico: quello della Scuola Sant’Anna realizzato dal Lider Lab dell’Istituto Dirpolis (Diritto, politica, sviluppo) con i tribunali di Genova e Pisa (il progetto riguarda l’assegno di mantenimento e risarcimento del danno alla salute); il Centro interdipartimentale di ricerca Human-Centered Artificial Intelligence (Alma Ai) dell’Università di Bologna (i provvedimenti giudiziari processati provengono da fonti diverse, quali i tribunali della regione Emilia Romagna, Corte dei conti, atti amministrativi, sentenze della Corte costituzionale); il Tribunale di Brescia che con l’Università sta lavorando a un progetto relativo al diritto delle imprese e del lavoro. L’Avvocatura dello stato ha messo a punto, con l’aiuto di Sogei, un sistema di Intelligenza artificiale applicato al dominio dati dell’Avvocatura dello stato, con l’obiettivo “di efficientare lo smistamento e la lavorazione dei flussi informativi in ingresso agevolando il data entry da parte degli utenti sul sistema Avvocatura 2020 e migliorando al tempo stesso la qualità delle informazioni ivi censite”. Sogei è a sua volta coinvolta nel progetto Pro.di.g.it di Mef e Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, che si sviluppa su più fronti, compreso quello della costruzione di una banca dati delle sentenze tributarie di merito, da interrogare con sistemi algoritmici. Dal canto suo, il ministero della giustizia, in occasione del Pnrr, aveva annunciato di stare progettando un data-lake giudiziario (un insieme non strutturato di dati giudiziari) da interrogare con algoritmi per estrarre nuova conoscenza e sta digitalizzando circa 10 milioni di atti giudiziari a questo fine. Regolamento sulla intelligenza artificiale. Non mancano, naturalmente, i problemi legali alla regolamentazione di questo settore. Nel parlamento europeo è in corso da anni un dibattito sulla classificazione come ad “alto rischio” dei software applicati al settore giustizia. Nel corso della discussione sono stati presentati emendamenti volti a escludere dalla categoria tutti gli applicativi che non riguardano i sistemi di “giustizia predittiva”, ma che comunque sono a supporto delle attività forensi e giudiziali. Entrare o meno nella classificazione ad alto rischio ha un impatto considerevole sugli adempimenti a cui saranno tenute legaltech e produttori di software, ma anche gli utilizzatori finali: nel primo caso, infatti, scattano obblighi e requisiti stringenti per tutta la filiera del valore. “Mi sono opposto a questa possibilità perché ritengo che una classificazione onnicomprensiva sia più garantista e rispettosa dei diritti fondamentali”, commenta Brando Benifei, il rapporteur del parlamento Ue sul regolamento di disciplina della intelligenza artificiale. Il testo del regolamento, presentato dalla Commissione ormai due anni fa, è stato subissato da 3.000 emendamenti. L’obiettivo politico, conferma Benifei, è quello di approvare il testo entro il 2023, mentre si discute anche della sua entrata in vigore visto che la data attualmente prevista, il 2025, potrebbe essere fin troppo lontana. Al momento, stanno lavorando al testo sia il parlamento, che dovrebbe approvare la sua posizione entro gennaio prossimo; sia il Consiglio, che dovrebbe farlo entro dicembre. Da lì inizierà il trilogo. “Ho intenzione di proporre anche la introduzione di una norma che prescriva agli utilizzatori dei sistemi di Ia nella giustizia, law firm e tribunali, di effettuare una valutazione di impatto dell’applicazione di Ia sui diritti delle persone coinvolte nei casi specifici, e non solo nel caso eventuale di una decisione giudiziaria ma anche nel caso di studio e di analisi della causa e ogni volta che il tool supporti l’attività di assistenza e consulenza”, specifica Benifei. La partita è complessa. Vediamo perché. Sistemi di Ia nella giustizia sono considerati ad alto rischio. Il regolamento Ue introduce norme via via stringenti basate sul rischio di danni che l’utilizzo del sistema di Ia provocherebbe sui diritti fondamentali, la salute e la sicurezza delle persone. La classificazione di un sistema di Ia come ad alto rischio si basa non solo dalla funzione svolta dal sistema di intelligenza artificiale, ma anche sulle finalità e modalità specifiche di utilizzo di tale sistema. L’intero titolo III disciplina la produzione e la messa sul mercato (o in uso) di tool di Ia ad alto rischio, subordinatamente al rispetto di: a) determinati requisiti obbligatori, quali la previsione di sistema di gestione dei rischi, di controllo e governance dei dati, di documentazione tecnica, di obblighi di informazione, di conservazione delle registrazioni, di sorveglianza umana e di robustezza cibernetica; b) di obblighi distribuiti lungo tutta la filiera; c) di una valutazione della conformità ex ante affidata a enti di certificazione e enti di garanzia. L’amministrazione della giustizia e i processi democratici, specifica l’annesso III del regolamento, sono tra le attività considerate “ad alto rischio”, unitamente alla gestione della immigrazione e alle attività di contrasto al crimine. Il regolamento attualmente non contiene esclusioni e/o eccezioni. Il considerando 40 del testo regolamentare spiega il perché di questa scelta: “Alcuni sistemi di Ia destinati all’amministrazione della giustizia e dei processi democratici devono essere classificati come ad alto rischio, considerando il loro impatto potenzialmente significativo su democrazia, Stato di diritto, libertà individuali e diritto a un ricorso effettivo e a un giusto processo. In particolare, per affrontare i rischi di potenziali pregiudizi, errori e opacità, è opportuno qualificare come sistemi di Ia ad alto rischio quelli destinati all’assistenza della autorità giudiziaria nella ricerca e interpretazione dei fatti e della legge e nell’applicazione della legge ad un insieme concreto di fatti”. Le mozioni del Congresso dell’Avvocatura. D’altra parte, se il mercato spinge per una maggiore liberalizzazione, da parte dell’Avvocatura arriva la richiesta di una vigilanza attenta. Le 13 mozioni approvate dal Congresso forense di Lecce ben esprimono, al di là di qualche eccesso conservatore, una posizione chiara dell’avvocatura che, forse per la prima volta nella sua storia recente, non gioca la carta della opposizione pregiudiziale o della rivendicazione teorica ma prova a fissare i cardini di azione per “governare” il processo, guardando anche ai gap formativi interni. Gli aspetti di unità di intenti tra le diverse mozioni (alcune provenienti da associazioni specialistiche come Uncat e Unaa, da Ordini, come l’Unione Lombarda, da Ocf, si veda altro articolo nella pagina seguente) sono la necessità di una formazione specifica dei giuristi sulla tecnologia; le necessità di creare spazi istituzionali e associativi per condividere progettualità e sperimentazione; la necessità (questa forse già assorbita dalle normativa di provenienza Ue) di fissare regole e norme per il rispetto di etica e diritti fondamentali; la istituzione di authority ad hoc per la verifica terza dell’utilizzo dei tool (anche questa forse già assorbita dal regolamento Ue). Alcune insistono sull’aggiornamento dei doveri deontologici delle professioni coinvolte, e sulla disclosure da parte del giudice delle modalità di utilizzo dei tool nel processo decisione, altre sulla necessità di volgere lo sguardo non solo all’utilizzo di Ia nel momento decisionale ma anche nel processo, ponendo attenzione ai data in ingresso nel processo; altre richiedono il rilascio di open data giudiziari. Non basta un algoritmo per fare giustizia di Marino Longoni Italia Oggi, 24 ottobre 2022 Si fa presto a dire Intelligenza artificiale. E magari pensare di risolvere in questo modo la lentezza dei processi e la non prevedibilità delle sentenze. In realtà le cose non sono così semplici. Perché l’attività giurisdizionale non è un fatto meccanico ma è un’attività complessa. Si fa presto a dire Intelligenza artificiale. E magari pensare di risolvere in questo modo gli incancreniti problemi della giustizia, prima di tutto la lentezza dei processi e la non prevedibilità delle sentenze. Che ci vuole? È sufficiente disporre di una buona banca dati (input) e di un algoritmo in grado di mettere in rapporto il caso concreto con casi analoghi già giudicati in precedenza (metodo induttivo) e il gioco è fatto, la sentenza che ne uscirà in modo quasi automatico sarà la sintesi (output) o la media dei dati inseriti in precedenza e opportunamente valutati dal sistema di intelligenza artificiale. Oppure il sistema potrebbe essere strutturato per mettere in relazione la fattispecie concreta con il dettato normativo di riferimento (metodo deduttivo) per ricavarne, anche qui in modo automatico, la sentenza. In realtà le cose non sono così semplici. Se ne stanno rendendo conto gli avvocati che, a questo argomento, hanno dedicato una delle tre tavole rotonde del loro ultimo congresso nazionale. Perché l’attività giurisdizionale non è un fatto meccanico ma è un’attività complessa, che si evolve e si modifica in un processo dialettico con l’evoluzione della società. Avendo a che fare con delle persone e non con delle cose, la giustizia non è riducibile in modo deterministico (o a una questione di calcolo, come ipotizzava Leibniz). Anche perché verrebbe altrimenti impedita la funzione di adattamento delle norme giuridiche in senso evolutivo e il processo si limiterebbe a una monotona ripetizione e applicazione di regole morte e sempre più staccate dalla vita della collettività. C’è differenza tra un abito cucito su misura e uno in taglia unica che deve essere indossato da persone con età, corporatura, altezza e peso diversi. E poi c’è il problema della qualità dei dati che vengono utilizzati. Nei pochi casi di utilizzo dell’intelligenza artificiale legati al mondo della giustizia già registrati a livello mondiale, questo problema si è evidenziato in modo drammatico. Negli Usa, per esempio, uno strumento di Ia per la prognosi di recidiva del condannato è stato messo sotto accusa perché la qualità dei dati inseriti non era in grado di evitare problemi di discriminazione razziale. La stessa cosa è successa in Olanda con il caso Syri dove l’algoritmo ha rilevato 20 mila casi di frodi nell’utilizzo di sussidi, che in realtà sono risultati un falso positivo dovuto a problemi di discriminazione razziale nell’input. Il caso è esploso in modo così clamoroso che ha portato alle dimissioni del governo in carica. In Italia, al momento, ci sono in corso, a livello sperimentale, numerosi progetti che puntano all’utilizzo dell’intelligenza artificiale come ausilio dell’attività giurisdizionale (ne parla Claudia Morelli nel suo articolo a pag. 2). Quello che si annuncia il più operativo nella pratica, al momento, è il programma Prodigit portato avanti congiuntamente dal ministero dell’economia e dal Consiglio di presidenza della giustizia tributaria, che si propone di elaborare il primo algoritmo predittivo in ambito fiscale, che opererà sulla base di un milione di sentenze delle commissioni tributarie previamente inserite e dovrebbe consentire ai professionisti e ai contribuenti di conoscere il probabile esito di una data causa nel giudizio di merito. L’Uncat, l’unione nazionale degli avvocati tributaristi, è prontamente intervenuta chiedendo che il progetto sia realizzato in modo trasparente e conoscibile, anche per quanto riguarda il contenuto del data base e le modalità di funzionamento dell’algoritmo, che dovrebbe peraltro essere messo in grado di operare non solo in base ai precedenti giurisprudenziali, ma anche sulla base delle argomentazioni delle parti (Agenzia delle entrate e difensore del contribuente), questo per evitare di ritrovarsi con un sorta di algoritmo-poliziotto che, secondo gli avvocati, sarebbe “quanto di più ripugnante possa essere escogitato”. Un ragionamento che merita una seria riflessione. La giustizia, la legge e il rigore con lo scotch di Giusi Fasano Corriere della Sera, 24 ottobre 2022 Il procuratore capo di Tempio Pausania, Gregorio Capasso, ha inflitto un’ammenda a tre testimoni che non si sono presentati, nonostante che l’udienza non si sia tenuta per mancavano microfoni e impianti audio e il pannello sul quale proiettare video era un collage di fogli A4 appiccicati al muro con lo scotch. “Cercavi giustizia ma trovasti la legge” cantava Francesco De Gregori nella sua Il bandito e il campione. Quanta distanza c’è fra la norma scritta e la giustizia applicata? Quanta fra la ragione giuridica e la logica dei fatti? Proviamo a rispondere con un esempio che arriva dall’aula del tribunale di Tempio Pausania (Sassari). In quel Palazzo di Giustizia si sta celebrando il processo per violenza sessuale di gruppo contro quattro ragazzi genovesi, uno dei quali è figlio di Beppe Grillo, il fondatore del Movimento 5 stelle. Succede questo: l’altro giorno si presentano in aula avvocati e testimoni (convocati per l’udienza) partiti da Roma, Genova, Milano e luoghi vari della Sardegna. Arrivano tutti esclusi tre: una psicologa, una ginecologa e una dottoressa medico legale, tutti e tre della clinica Mangiagalli di Milano. Due di loro avevano inviato una giustificazione scritta, la terza, invece, non aveva avvisato. Prima che si cominci la discussione l’udienza però salta. Perché ai giudici viene fatto notare - e la Corte lo ammette - che non ci sono le condizioni adeguate per andare avanti: mancano microfoni e impianti audio degni di questo nome e per di più il pannello sul quale proiettare video è un collage di fogli A4 appiccicati al muro con lo scotch. Niente udienza. Meglio cercare prima una soluzione. Ma, rinvio o non rinvio, il pubblico ministero del processo - che poi è anche il procuratore capo, Gregorio Capasso - ci tiene a sottolineare lo stesso che il suo Ufficio è la legge. Poco importa se l’udienza è slittata. Non fa nulla se, date le circostanze, sarebbe stato comunque inutile il viaggio fino a Tempio. Non ti sei presentato? Io chiedo per te un’ammenda da 250 euro. E non basta annunciare gli “inderogabili impegni” con i quali si sono giustificati due dei tre. Tutto lecito, per carità. Tutto previsto dal codice di procedura penale. Resta il rigore del gesto, una questione più simbolica che pratica, alla fine. Era proprio necessaria tanta intransigenza? Tra l’altro: se ritieni indispensabile la testimonianza in aula di un professionista, perché non dargli tempo e modo di organizzarsi con un preavviso ampio invece di una decina di giorni? Forse il sistema giustizia - lo stesso dei fogli A4 attaccati al muro con lo scotch - ignora che non sempre l’assenza di un testimone è cialtroneria civica. Proprio come non sempre la legge è giustizia. L’odissea dell’innocente che patteggiò per paura: assolta dopo 6 anni di Riccardo Radi* Il Dubbio, 24 ottobre 2022 Dopo 3 mesi di carcere, davanti allo spettro di un lungo processo per favoreggiamento in un omicidio, la donna patteggia. Poi il presunto omicida viene assolto e arriva la revisione della sentenza. Storia di una innocente che si dichiara colpevole pur di non avere più nulla a che fare con la giustizia. Giustizia che non le ha creduto quando lei, l’innocente, raccontava il vero e che l’ha imprigionata fino a “convincerla” a dire il falso. D’altra parte, anche un ex ministro della Giustizia dichiarò alla stampa che “gli innocenti non finiscono in carcere”. Nella storia che racconto ci sono due innocenti che finiscono in carcere nello stesso procedimento per delle accuse infamanti: il primo, accusato dell’omicidio di una ragazza, si farà 30 mesi di carcerazione preventiva, e la seconda 3 mesi per favoreggiamento. In tanti “credono” che gli assolti siano persone che la fanno franca, noi raccontiamo di innocenti che sono stati stritolati dal sistema giustizia. Nelle aule dei Tribunali accade anche che una persona che patteggia la pena, quindi si dichiara colpevole, venga successivamente assolta perché il fatto non sussiste! Infatti, parleremo di un caso che nella prassi giudiziaria raramente accade: la revisione di una sentenza di patteggiamento. La vicenda ha per protagonista la signora V.G., una tranquilla badante moldava che viene chiamata dalla polizia per testimoniare in merito alla presenza nella sua abitazione di un indagato per omicidio. La signora V.G. ricorda chiaramente la circostanza e riferisce in maniera dettagliata orari e riferimenti precisi relativi al fatto che effettivamente il signor A.C. fosse il giorno 1° dicembre del 2008, dalle ore 10.30 alle ore 16.00, presso la sua abitazione per svolgere un lavoro di riparazione e per fermarsi poi a mangiare. La Procura della Repubblica di Roma non le crede, e per ben tre volte la convoca, e sempre più insistentemente la mette alle strette. Gli inquirenti acquisiscono i tabulati telefonici delle utenze dell’indagato e della V.G., e raccolgono le dichiarazioni delle altre due persone che avrebbero dovuto parzialmente riscontrare l’alibi. Dalla lettura dei verbali delle testimoni risultano parziali differenze nell’indicazione degli orari, differenze che però sembrano scaturire dalla non perfetta conoscenza della lingua italiana. Sia la V.G. che le altre due donne ascoltate non sono italiane, ma non vengono esaminate in presenza di un interprete perché tutte dichiarano di parlare e comprendere la lingua italiana. Errore fatale! L’incalzare delle domande, l’uso di un linguaggio tecnico e il riferimento a orari scanditi da minuti rendono le dichiarazioni delle tre donne poco lineari e poco concordanti tra loro. Si arriva alla svolta: la mattina dell’8 ottobre 2010, alle 5.00, la Polizia giudiziaria suona al campanello e notifica una ordinanza di custodia cautelare per il presunto omicida e per la signora moldava, accusata di favoreggiamento, ed entrambi vengono trasferiti in carcere. In sede di interrogatorio di garanzia si dichiarano innocenti, ma non vengono creduti, in virtù del fatto che i tabulati telefonici dimostrerebbero che l’omicida si sarebbe trattenuto solo per una ora nell’abitazione. Quindi avrebbe avuto tutto il tempo per spostarsi e uccidere la giovanissima vittima e di conseguenza la moldava avrebbe mentito. Il Tribunale della Libertà conferma l’ordinanza e la signora V.G dopo 3 mesi di carcerazione preventiva viene scarcerata per scadenza termini. La Procura della Repubblica procede alla richiesta di rinvio a giudizio e all’udienza preliminare il presunto omicida è in stato di detenzione carceraria e la V.G libera con l’accusa di favoreggiamento. La prospettiva è quella che il processo si svolga in Corte di Assise, ma dopo tre mesi di carcerazione la prospettiva di subire un processo lungo e costoso e le ristrettezze economiche, in seguito dell’arresto, per aver perso il lavoro sono tutti buoni motivi per lasciarsi alle spalle la triste storia. Davanti al Giudice dell’udienza preliminare di Roma si patteggia una pena di nove mesi di reclusione, pena sospesa. La signora VG, però, non rinuncia a testimoniare nel processo per l’omicidio e grazie al suo atto di coraggio civico e alle sorprendenti circostanze che in realtà l’attento esame dei tabulati telefonici confermano l’alibi dell’omicida: la vittima sarebbe morta per cause naturali. Si i arriva così alla svolta. L’imputato AC viene assolto perché il fatto non sussiste dopo 2 anni 5 mesi e 7 giorni di carcerazione preventiva. Per questo orrore giudiziario si riesce a ottenere il 24 gennaio 2017 dalla Corte di appello di Roma il risarcimento di 260mila euro, ma questa è un’altra storia. Illustrata la vicenda ora è necessario entriamo nel particolare della posizione della signora V.G. La revisione della sentenza di patteggiamento, richiesta per la sopravvenienza o la scoperta di nuove prove, comporta una valutazione di quest’ultime, alla luce della regola di giudizio posta, per il rito alternativo. Le nuove prove devono consistere in elementi tali da dimostrare che l’interessato deve essere prosciolto secondo il parametro di giudizio dell’art. 129 c.p.p., così come applicabile nel patteggiamento. Tale differenza rispetto ai parametri utilizzati nella revisione delle sentenze “ordinarie” trova la sua spiegazione nella peculiarità della pronuncia emessa ai sensi dell’art. 444 c.p.p., in cui il controllo giudiziale è appunto limitato ad escludere la sussistenza di cause di proscioglimento ex art. 129 c.p.p. Questa regola è stata ribadita dalla Cassazione - sezione sesta penale - con sentenza n. 25308 del 9 giugno 2015. Per i giudici di piazza Cavour, l’estensione del rimedio straordinario alla sentenza di patteggiamento, ad opera della L. n. 234 del 2003, risulta notevolmente più contratta rispetto alla revisione ordinaria. Infatti nel caso delle pronunce ex art. 444 c.p.p., il giudice viene chiamato a stabilire se le prove sopravvenute alla sentenza definitiva e quelle scoperte successivamente siano tali da dimostrare “da sole” la necessità di un proscioglimento oppure se siano autonomamente in grado di gettare una nuova luce e di fornire una chiave di letture radicalmente alternativa degli atti del procedimento concluso con il patteggiamento, atti che di per sé non erano tali da reclamare l’adozione di una pronuncia ai sensi dell’art. 129 c.p.p. In caso contrario, - conclude la Corte - “la revisione cesserebbe di essere un mezzo di impugnazione straordinaria e diverrebbe, in relazione al patteggiamento, strumento a disposizione del patteggiante per revocare in dubbio una decisione da lui stessa richiesta e riaprire integralmente la fase dell’accertamento dei fatti e della responsabilità” (così, Sez. 6, 24 maggio 2011, n. 31374; Sez. 3 sent. 13032/14 e 23050/13; sez. 4 sent. 26000/13). Ed ancora più recentemente, la Cassazione sezione 2 sentenza numero 24365 del 23 giugno 2022, ha chiarito: “è ammissibile la richiesta di revisione di una sentenza di patteggiamento per inconciliabilità con l’accertamento compiuto in giudizio nei confronti di altro imputato per il quale si sia proceduto separatamente ma è, tuttavia, necessario che l’inconciliabilità si riferisca ai fatti stabiliti a fondamento della sentenza di condanna e non già alla loro valutazione”. Principio ribadito tra le tante da (Sez. 1, n. 15088 del 08/01/2021, Elia, Rv. 281188 - 02; Sez. 5, n. 10405 del 13/01/2015, Rv. 262731 - 01); - in ogni caso, “in tema di giudizio di revisione, nel caso in cui la richiesta si fondi sull’inconciliabilità tra giudicati ai sensi dell’art. 630, comma 1, lett. a), cod. proc. pen., il giudizio sull’ammissibilità o meno della domanda di revoca della sentenza non può prescindere da una pur sommaria valutazione e comparazione tra le due sentenze che si assumono in contrasto, non potendo il giudice limitarsi a verificare esclusivamente l’irrevocabilità della decisione che avrebbe introdotto il fatto antagonista e la mera pertinenza di tale sentenza ai fatti oggetto del giudizio di condanna” (Sez. 2, n. 29373 del 18/09/2020, Nocerino, Rv. 280002 - 01). Nel caso in esame c’è una sentenza definitiva di assoluzione per l’omicidio che rende inconciliabile la sentenza di patteggiamento. In base a questo presupposto viene redatta la richiesta di revisione alla Corte di appello di Perugia che, in data 22 aprile 2016, ha revocato la sentenza emessa in data 15 luglio 2011 dal Gup di Roma ed ha assolto la Signora V.G. perché il fatto non sussiste!!! Finalmente, dopo circa 6 anni dall’arresto si arriva a mettere un punto sulla triste storia che ha segnato in maniera indelebile la Signora VG, la quale ancora oggi non riesce a parlare della sua odissea. Pochi giorni fa mi ha riferito di avere ancora gli incubi e di sognare di risvegliarsi in carcere e provare l’umiliazione di non essere creduta. *Avvocato Sicilia. Carceri siciliane, sovraffollamento e disorganizzazione di Salvo Fleres La Discussione, 24 ottobre 2022 Il mondo delle carceri presenta un tasso di autoreferenzialità non comune. Solo la presenza e la verifica costante di quali siano le condizioni reali può rappresentare un elemento di garanzia circa l’oggettivo rispetto dei diritti dei reclusi e persino di quelli del personale, sempre inferiore alle esigenze quotidiane. Consultando i registri delle infermerie è possibile constatare che ci sono troppi scivoloni per le scale, troppi ferimenti sospetti, troppe lesioni casuali, mentre non sempre i posti regolamentari dichiarati sono calcolati correttamente e tengono conto, come dovrebbero, della indisponibilità di interi reparti, da tempo chiusi per manutenzioni che vanno a rilento. In Sicilia sono presenti 23 strutture penitenziarie, ma molte ospitano un numero di reclusi superiore alla capienza regolare e anche su questo piano il concetto di regolarità andrebbe chiarito. Sulla base di quanti metri quadrati per recluso vengono calcolati i posti di cui parliamo le statistiche? A Catania, nella struttura di Piazza Lanza, ci fu un periodo in cui in una cella di circa 20 metri quadrati erano stipate otto, nove o anche dieci persone, una delle quali, a turno, dormiva sul tavolo o per terra. Oggi la situazione è leggermente migliore, ma basta una retata per fare saltare qualsiasi fredda contabilità e far trattare i reclusi peggio dei polli in batteria. In una sua famosa citazione, lo scrittore russo Fëdor Dostoevskij afferma che “Il grado di civilizzazione di una società si misura dalle sue prigioni.” Sulla base di questo metro la Sicilia non sarebbe considerata sufficientemente civile. La Costituzione Italiana, però, è molto chiara e all’articolo 27 così recita: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Chissà se qualcuno se ne ricorda? Nelle carceri siciliane, alla data del 30 settembre erano presenti 6.018 reclusi a fronte di una capienza regolamentare che ne prevede 6.454. Questo, però, non significa nulla, dato che 12 dei 23 penitenziari presenti nell’Isola ospitano più persone di quante ne potrebbero contenere e sempre che i dati siano “sinceri”. Un ulteriore elemento che può essere interessante per valutare la situazione è quello che riguarda la tipologia dei reclusi. Sul totale dei detenuti 206 sono donne, 935 sono stranieri e 124 sono in semilibertà. Sulla qualità del trattamento risocializzante parla l’annosa carenza di educatori e di psicologi. Tornando al sovraffollamento e all’autoreferenzialità del sistema, secondo il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria sono regolari tre metri quadrati per ciascun “ristretto”, mentre la sentenza della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo emessa contro l’Italia nel 2009, a seguito di un ricorso promosso dal recluso Sulejmanovic e riguardante trattamenti inumani e degradanti, richiamando una disposizione del Consiglio d’Europa, ritiene corretti almeno sette metri quadrati. A conferma di una situazione piuttosto nebulosa e per nulla tollerabile basta citare i dati del carcere di Caltagirone, dove i posti regolamentari sono 542 ed i detenuti presenti sono 398. Però non è agibile un’intera ala, circostanza della quale non si dà atto nella stesura delle statistiche ufficiali. Il dato peggiore è quello di Bicocca, alla periferia di Catania, che dispone di 135 posti regolamentari, ma in cui sono ospitati 201 detenuti. Le cifre assumono elementi di ulteriore gravità se si tiene conto del fatto che sul totale dei ristretti ben 183 si trovano nella zona di alta sicurezza, che pertanto ospita esattamente il doppio dei detenuti previsti. Grave è anche la situazione del personale, carente in tutte le strutture. Sempre a Bicocca, ad esempio, a fronte di un organico di 200 agenti ce ne sono in servizio 170, 55 dei quali sono distaccati al nucleo traduzioni, dunque non prestano servizio all’interno dell’istituto. Tornando al fenomeno degli strani infortuni e degli atti di autolesionismo, appare inquietante ciò che ci dicono i 98 casi del carcere di Piazza Lanza, su una media di 300 reclusi ed i 65 “infortuni accidentali” di Bicocca. I suicidi verificatisi in Sicilia nell’anno in corso sono stati 10, anche questo rappresenta un elemento a dir poco scandaloso, dato che la regione ospita poco più di un decimo del totale dei reclusi ed i suicidi nel Paese, in totale, sono stati 70: un dato che, da solo, costituisce un atto di accusa verso il sistema penitenziario italiano. Non sarà che forse qualcosa non va nel verso giusto e magari se ne parla poco e male? Non sarà che forse qualcuno non dice tutta la verità? Non sarà forse che il fenomeno dell’autoreferenzialità del sistema penitenziario debba essere fermato? Non sarà forse che la logica meramente segregativa, tanto di moda negli ambienti giustizialisti e securitari, vada subito superata a favore della rieducazione, così come previsto dalla Costituzione? Si tratta di domande retoriche per le quali, così stando le cose, purtroppo, sarà difficile ottenere una risposta sincera. Napoli. Inferno Poggioreale, il viaggio tra celle senza docce e lavori in corso di Viviana Lanza Il Riformista, 24 ottobre 2022 Carcere di Poggioreale. Da giorni è sotto i riflettori per essere stato il luogo in cui, secondo la più recente inchiesta della Procura di Napoli, sarebbero avvenuti gli scambi di droga e telefoni tra il garante di Napoli Pietro Ioia e alcuni detenuti. E continua ad essere il carcere simbolo delle criticità del sistema penitenziario, per via del sovraffollamento innanzitutto ma anche a causa di tutto quello che manca. A partire dalle docce nelle celle, per esempio. E non è un esempio da poco. Si tratta delle condizioni minime di igiene e vivibilità che vengono negate, mortificate. Proprio in questi giorni gli osservatori di Antigone, l’associazione che da anni si occupa della tutela dei diritti e delle garanzie nel sistema penale, sono stati nel carcere di Poggioreale, il più grande della Campania, tra i più grandi d’Europa. Nella struttura ci sono 2.126 detenuti (pensare che complessivamente nelle undici carceri della regione Calabria se ne contano 2.104) a fronte di una capienza regolamentare di 1.571 posti (di cui 87 non disponibili secondo dati diffusi a giugno dal ministero della Giustizia). Poggioreale è una casa circondariale composta da dodici reparti. Gli osservatori di Antigone ne hanno visitati una parte: quelli destinati a detenuti trans, tossicodipendenti, omosessuali, i cosiddetti sex offender e cioè persone accusate di aver commesso reati a sfondo sessuale, e detenuti reclusi in regime di alta sicurezza e in isolamento disciplinare. Gli osservatori sono entrati anche nel reparto San Paolo, quello dedicato alle persone recluse in regime di ricovero e nella sezione che ospita i detenuti cosiddetti comuni. Il primo problema balzato agli occhi è quello delle condizioni di vita all’interno del vecchio carcere cittadino, aggravate sicuramente dalla sproporzione tra posti disponibili e gente detenuta. Una sproporzione che adesso sarà accentuata anche dal fatto che il padiglione Roma, che si trova al primo piano della struttura di Poggioreale, è stato di recente svuotato per consentire i lavori di ristrutturazione, ciò significa che ai 1.571 posti disponibili sulla carta vanno sottratti ancora ulteriori posti. La capienza, quindi, si riduce mentre il numero dei detenuti continua, periodicamente, a crescere. E per l’immediato futuro non ci sono previsioni migliori sotto questo aspetto, se si considera che nel progetto di ristrutturazione che sta per essere attuato con i fondi stanziati anni fa dal ministero delle Infrastrutture rientrano anche i padiglioni Genova, Salerno, Napoli e Italia. Dunque mezzo carcere di Poggioreale nel corso dei prossimi mesi sarà rimesso a nuovo, e questa è una buona notizia sicuramente ma incide sugli spazi della pena e soprattutto sugli spazi vitali dei detenuti, già stipati in celle sovraffollate. A questo si aggiungono le croniche carenze, come quelle rivelate dagli osservatori di Antigone: “Assenza di docce nelle celle di alcuni reparti, mancanza di sale destinate alla socialità nella maggior parte delle sezioni, presenza di ballatoi che riducono sensibilmente gli spazi a disposizione della popolazione detenuta”, fa sapere Antigone. Reggio Emilia. La Pulce modello di socialità di Gabriele Farina Gazzetta di Reggio, 24 ottobre 2022 Il rapporto 2022 di Antigone: riscoperti sport e teatro in carcere dopo l’emergenza. D’Amaro: “Reggio è stata una delle prime strutture a riprendere i colloqui in presenza”. L’ultimo rapporto di Antigone, l’associazione che si occupa dei diritti dei detenuti, contiene segnali di speranza per le persone che si trovano nel carcere della Pulce di Reggio. Di recente, infatti, è stato pubblicato il 18° resoconto annuale, dal titolo “Il carcere vissuto da dentro”, e le 177 pagine del rapporto offrono uno spaccato, aggiornato allo scorso aprile, degli istituti penitenziari italiani. La struttura di via Settembrini è più volte citata in merito a problematiche sollevate in carcere e a progetti lanciati presso la stessa sede, indicati come un modello. Il primo riferimento è ai progetti lanciati con l’ente di promozione sportiva Uisp. La Pulce è citata con altre carceri quali il fiorentino Sollicciano e il romano Rebibbia. Gli osservatori dell’associazione hanno riscontrato che sono organizzate “attività in tutte le sezioni, anche nel femminile e in quella transgender” all’interno dell’istituto reggiano. L’ultima sezione citata è una delle peculiarità del carcere reggiano. Dai dati del rapporto si apprende che le persone trans negli istituti penitenziari italiani erano 63 al 15 febbraio 2022, data dell’ultimo aggiornamento. Dodici gli istituti che possono accoglierle, tra cui La Pulce, che in quella data ne aveva dieci. È il terzo numero più alto su scala nazionale dietro Rebibbia Cinotti nella Capitale (quindici persone detenute) e Como (dodici). A livello qualitativo, la situazione appare in miglioramento. “Non si registra nessuna detenuta trans in isolamento preventivo - è sottolineato nel rapporto -, né in allocazione temporanea”. Al contrario, la ripresa dei progetti è avvenuta a Reggio Emilia più rapidamente che altrove. A renderne conto è Anna D’Amaro, referente del Movimento identità transessuale (Mit) di Bologna. “Dal 2021 siamo riuscite a riattivare i colloqui in presenza a Milano San Vittore e il presidio fisso del lunedì a Reggio Emilia - attesta D’Amaro -: per il resto delle strutture riceviamo le richieste di colloqui online direttamente dalle detenute”. Le attività in presenza sono una riscoperta dopo le difficoltà causate dalla pandemia. Ancora una volta, alla Pulce la ripresa appare più veloce che in altri luoghi. D’Amaro descrive l’esperienza organizzata in carcere lo scorso aprile con il festival “Divergenti”. “Il festival del cinema trans ci consente di promuovere una narrazione che altrove ha poco spazio - tributa la referente del progetto per il Mit -, creando un focus sulle esperienze di chi ha un’identità di genere non conforme”. Il significato del festival tenutosi a Reggio Emilia è apprezzato dalla stessa referente, che considera “importante per le detenute ritrovarsi in queste storie e sentire per una volta le loro vite al centro della scena”. L’ultimo riferimento nel rapporto a Reggio Emilia riguarda l’ex ospedale giudiziario (Opg) di Reggio Emilia. Il modello dell’Opg è stato dichiarato superato dalla Regione ormai sette anni fa. L’evoluzione dell’Opg prende il nome di Rems, ovvero residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza. La struttura reggiana può ospitare fino a trenta pazienti. È stata inaugurata nel dicembre scorso dopo lavori per oltre 6,3 milioni di euro. Il rapporto di Antigone illustra come Reggio Emilia abbia fatto controtendenza ancor prima del superamento degli Opg, sostituendo gli agenti di Polizia penitenziaria con personale sanitario. L’avanguardia è descritta come “sola, parziale e problematica eccezione”. Cuneo. Al lavoro dopo il carcere: Centallo offre una seconda possibilità di Federico Mellano cuneodice.it, 24 ottobre 2022 Iniziativa del Comune per l’inserimento lavorativo delle persone che hanno avuto problemi con la giustizia. Dal 2010 il Comune di Centallo è in prima linea per la realizzazione dei cantieri di lavoro destinati a coloro che risultano più vulnerabili e a rischio di discriminazione. Si tratta della realizzazione di attività temporanee in ambito vivaistico, di rimboschimento e costruzione, riparazione, manutenzione di opere di pubblica utilità, al fine di migliorare la qualità dell’ambiente e degli spazi urbani. L’iniziativa viene finanziata dalla Regione Piemonte, con il sostegno dell’Unione Europea nell’ambito di specifici programmi regionali. L’amministrazione comunale centallese ha sempre risposto prontamente ad ogni bando che, quasi con cadenza annuale, veniva emanato in osservanza della legge regionale n. 34/2008. Anche quest’anno è stata colta l’occasione e i competenti uffici comunali hanno presentato un progetto ancora più ricco di obiettivi. Infatti, ai lavori strettamente attinenti all’area tecnico-manutentiva, che interesseranno due persone, sono state aggiunte mansioni di archivio, per una sola persona. Il cantiere di lavoro avrà la durata di 12 mesi, e i lavoratori saranno coinvolti per 30 ore settimanali, su 5 giornate lavorative, ricevendo in cambio un’indennità giornaliera, a carico della Regione, pari a 30,72 euro. Al Comune spetteranno la fornitura dei buoni pasto, gli oneri contributivi, assicurativi e fiscali e le spese per la sicurezza. Ai partecipanti sarà garantita inoltre un’idonea formazione, in coerenza con i valori di fondo che sono alla base dell’iniziativa regionale. Si vuole infatti rafforzare l’occupabilità in prospettiva del reinserimento lavorativo e sociale di chi è più fragile, attraverso l’acquisizione e il consolidamento di competenze professionali e la conoscenza diretta del mondo del lavoro, realizzando nel contempo opere e servizi di pubblica utilità. Il progetto è stato approvato dalla Giunta Comunale centallese e inviato ai competenti servizi regionali, affinché venga esaminato e valutato attraverso l’assegnazione di un punteggio. Lo scorso anno il Comune di Centallo era risultato vincitore del bando, insieme ad altri sedici comuni piemontesi, classificandosi al quarto posto, su sette, della graduatoria provinciale. Il progetto approvato prendeva il via lo scorso mese di febbraio, vedendo impiegate due unità lavorative. Terminerà nei primi mesi del 2023, così da cedere il passo a quello nuovo, qualora venga accolto. Le passate esperienze si sono rivelate decisamente valide, non solo per l’apporto lavorativo offerto alla comunità locale ma anche per il successivo inserimento nel mondo del lavoro della maggior parte di coloro che hanno partecipato ai cantieri centallesi. Grazie anche alla stretta collaborazione con la Casa Circondariale di Cuneo è stato possibile offrire una valida opportunità di inserimento sociale a quanti hanno dimostrato una lodevole volontà di riscattarsi da un passato sofferto e difficile. Talvolta i lavoratori sono stati coinvolti in attività di volontariato sul territorio, anche insieme alla protezione civile, in eventi particolari come la festa patronale o altre festività di rilevo e per le consultazioni elettorali. Un percorso irrinunciabile quello dei cantieri di lavoro, per l’amministrazione comunale centallese che da quel lontano 2010 aveva creduto nel potenziale sociale e umano dell’iniziativa. Veniva così inviato in Provincia, allora ente intermedio tra la regione e il comune per le politiche del lavoro, il primo progetto, denominato “Progetto Aurora”, nome che voleva rappresentare la speranza di una nuova vita. Così è stato per molti. “I nostri ieri”, il carcere e l’attimo che può cambiare la vita ansa.it, 24 ottobre 2022 Un delitto inspiegabile, ricreato durante un laboratorio in carcere, nei confini tra memoria e trauma, racconto e manipolazione delle emozioni. È il filo che segue “I nostri ieri” il film di Andrea Papini, con Peppino Mazzotta, Francesco Di Leva, Daphne Scoccia, Maria Roveran, Denise Tantucci e Teresa Saponangelo che debutta alla Festa del cinema di Roma in Alice nella città per poi arrivare in sala con Atomo Film a gennaio. La trama, ispirata da un’esperienza di lavoro del regista a contatto con i detenuti in carcere, ha per protagonista Luca (Peppino Mazzotta), documentarista in un momento di stallo lavorativo, che si dedica all’insegnamento in una struttura carceraria. L’incontro con Beppe (Francesco Di Leva) camionista che gli racconta l’inspiegabile delitto commesso, porta Luca a decidere di fare dei fatti il soggetto del saggio di fine corso. Un’esperienza che pone Luca a doversi confrontare con, fra gli altri, la sorella della vittima, Lara (Scoccia), l’interprete della vittima (Roveran), e la famiglia che ha abbandonato Beppe, a partire dalla moglie Daisy (Saponangelo). Contemporaneamente Luca si ritrova a farsi domande sulle scelte della sua vita dopo il ritorno momentaneo della figlia Greta (Tantucci), alla vigilia di una partenza per un master (e forse una vita) all’estero. Per Papini, già autore di storie in nero, sempre realizzate con produttori indipendenti, come La velocità della Luce e La misura del confine, I nostri ieri racconta “l’incontro fra tre emarginazioni, una fisica, legata al carcere insieme a quella lavorativa e quella affettiva”. Nel rappresentare la prigione “era importantissimo trovare un equilibrio. Non si racconta la solita storia di violenza, costrizione, ma il carcere nel quale ho lavorato io, una struttura moderna dove si vive in una relativa libertà. Mi sembrava più rivoluzionario rappresentare la felicità degli esclusi che la violenza. il film indaga le cause che possono scatenarla ma non mette in scena lo spettacolo orrendo al quale spesso assistiamo oggi”. Per Di Leva “I nostri ieri pone l’accento su un tema che mi è molto caro, dare una possibilità a chi non ce l’ha mai avuta. il lavoro pedagogico nelle carceri è qualcosa di importante, per migliorare tutti noi come esseri umani. Poi Beppe mi ha fatto pensare a mio padre che è stato camionista. Io da ragazzino ho passato tante giornate con lui in cabina, mi addormentavo a Napoli e mi svegliavo in Sicilia. È un ruolo che mi ha fatto riflettere molto su quanto siamo vulnerabili. Basta poco e ci si ritrova a compiere qualcosa con cui fai poi i conti per tutta la vita”. Importante nella storia anche la dimensione personale dell’insegnante, Luca, “un uomo che rischia di sfruttare in maniera famelica le emozioni legate al crimine che mette in scena” dice Peppino Mazzotta. Un comportamento legato anche al suo passato “con cui ci confrontiamo attraverso Greta, la figlia - spiega Denise Tantucci. Lei porta in una dimensione separata da quella del carcere, è una parte molto nostalgica e delicata”. “Le nostre prigioni”: da domani a venerdì nuovo viaggio dentro le carceri liguri di Mariangela Bisanti rainews.it, 24 ottobre 2022 Nuove puntate per raccontare storie di detenzione: La Spezia, Pontedecimo, Imperia e Sanremo. Le storie di chi è recluso e di chi lavora dietro le sbarre alla Spezia, Pontedecimo, Imperia e Sanremo: cinque puntate per raccontarvi la detenzione vista dal di dentro. Dai progetti di recupero che si scontrano con il cronico sovraffollamento alla massiccia presenza di detenuti stranieri che quasi mai possono contare su un mediatore culturale, fino alla carcerazione femminile e alle conseguenze che comporta: la maternità dentro una cella o la lontananza dai figli. “Le nostre prigioni” il titolo delle puntate, in onda da domani a venerdì 28 ottobre, alle 7.30 in Buongiorno Regione e nel Tg delle 14. Iran. Il racconto da dentro: cos’è accaduto davvero nella prigione di Evin di Riccardo Noury* Il Fatto Quotidiano, 24 ottobre 2022 Sull’incendio divampato la sera del 15 ottobre nella famigerata prigione di Evin sono circolate diverse ricostruzioni. Le autorità iraniane hanno attribuito, cambiando più volte versione, la responsabilità ai detenuti, definiti dal capo della magistratura Gholamhossein Mohseni Ejei “agenti del nemico… che hanno facilitato il lavoro dei centri e degli uffici sionisti, americani e britannici coinvolti nell’alimentare la guerra e generare disordini”. Secondo Amnesty International, che ha raccolto testimonianze da prigionieri, parenti delle vittime, giornalisti e difensori dei diritti umani con contatti all’interno della prigione, le cose sono andate diversamente. Soprattutto, l’incendio è scoppiato un’ora e mezzo dopo una violenta repressione, che dunque non è stata - come invece sostenuto dalle fonti ufficiali - necessaria per riportare la calma e impedire la fuga dei prigionieri. I prigionieri detenuti nell’edificio n. 8 della prigione di Evin hanno riferito di aver udito, a partire dalle 20 del 15 ottobre, spari e urla provenienti dall’adiacente edificio n. 7. L’edificio n. 8 ospita per lo più difensori dei diritti umani e dissidenti ingiustamente imprigionati, mentre l’edificio n. 7 è utilizzato prevalentemente per coloro che sono stati condannati per furto e reati finanziari. I prigionieri nell’edificio n. 8, preoccupati per quanto stava accadendo in quello accanto, hanno tentato di sfondare l’ingresso principale dell’edificio n. 7. In risposta, le guardie carcerarie e la polizia antisommossa hanno sparato gas lacrimogeni e pallini di metallo. Secondo un testimone oculare, le forze di sicurezza armate situate all’esterno dell’edificio n. 8 hanno sparato munizioni vere, attraverso le finestre, contro i prigionieri che si trovavano all’interno. Le guardie carcerarie e la polizia antisommossa hanno successivamente ammanettato numerosi prigionieri dell’edificio n. 8 e li hanno ripetutamente picchiati alla testa e al volto con i manganelli. Le forze di sicurezza hanno anche picchiato i prigionieri sulle ferite provocate dai pallini di metallo. Un prigioniero ha riportato per iscritto il racconto di un testimone oculare, ottenuto da una fonte giudicata affidabile da Amnesty International, secondo il quale gli attacchi sono stati guidati da un funzionario identificato come un colonnello, che ha partecipato ai pestaggi minacciando di morte ai prigionieri urlando: “Farò piangere le vostre madri per la vostra morte. Il giorno della vostra morte è arrivato”. Secondo il racconto del prigioniero, le forze di sicurezza hanno successivamente trasferito centinaia di prigionieri nella “palestra” della prigione, che è una grande sala, e lì hanno inflitto loro ulteriori brutali pestaggi. Anche dall’edificio n. 5, ossia il reparto femminile, e dall’edificio n. 4, che ospita, tra gli altri, uomini con doppia cittadinanza e dissidenti politici detenuti arbitrariamente, hanno tentato di uscire dai loro edifici quando i rumori degli spari si sono fatti più insistenti. Le testimonianze oculari dei prigionieri in questi edifici parlano di forze di sicurezza che hanno di nuovo sparato illegalmente gas lacrimogeni. Secondo i racconti dei prigionieri, le forze di sicurezza sono entrate anche nel reparto femminile e hanno puntato le pistole alla testa di diverse prigioniere fra minacce e insulti. Secondo le informazioni ottenute da Amnesty International, più di una decina di prigionieri dell’edificio n. 8 ha subito dolorose ferite da pallini metallici, che non sono state curate o lo sono state in modo inadeguato. Diversi prigionieri e prigioniere fra il reparto femminile e l’edificio n. 4 hanno subito danni fisici a causa dell’esposizione ai gas lacrimogeni. Fonti intervistate dall’organizzazione hanno anche sollevato timori che le forze di sicurezza possano aver sparato munizioni vere, data la gravità delle ferite riportate da diversi prigionieri. L’incendio è stato successivo all’uso illegale della forza contro i prigionieri. Diversi resoconti di prigionieri e dei loro parenti indicano che le sparatorie sono iniziate intorno alle 20, un’ora e mezza prima delle 21.29, orario in cui - secondo i portavoce dei Vigili del fuoco di Teheran - era stato segnalato l’incendio. Secondo un giornalista ed ex prigioniero di coscienza con una conoscenza dettagliata di quel carcere, l’incendio si è esteso a una struttura a più piani che contiene un laboratorio di cucito e un auditorium (di seguito edificio del laboratorio), che si trova in un’area della prigione circondata da alte mura e comprende anche gli edifici n. 7 e n. 8. Riprese video ritraggono diverse persone in borghese sul tetto dell’edificio del laboratorio, che alimentano l’incendio gettando sulle fiamme quella che sembra essere una sostanza infiammabile. Ex prigionieri con conoscenza diretta della prigione di Evin hanno confermato che si trattava del tetto. Hanno inoltre riferito ad Amnesty International che le porte principali degli edifici che ospitano i prigionieri sono chiuse dalle 17 alle 9 del mattino successivo e sarebbe impossibile per i prigionieri raggiungere la posizione sul tetto vista nel video. Le autorità iraniane hanno una lunga esperienza nell’utilizzo di persone in borghese nelle loro operazioni di sicurezza. Secondo le immagini aeree e le riprese video dell’area interessata dall’incendio, questo sembra essere stato limitato all’edificio del laboratorio. Le informazioni ottenute da Amnesty International indicano che questo edificio non è generalmente utilizzato per ospitare i prigionieri ma in passato, durante periodi di arresti di massa a seguito di proteste come quelle che nel novembre 2019 interessarono tutto il paese, è stato temporaneamente adibito a centro di detenzione informale per centinaia di detenuti. Ma c’è di più. In un servizio scioccante del 16 ottobre, l’organo d’informazione statale Fars News ha riferito che i boati che si odono in alcuni video erano prodotti da mine terrestri la cui esplosione era stata provocata da prigionieri in fuga. Le notizie secondo le quali i prigionieri avevano calpestato le mine sono state successivamente smentite, ma le autorità non hanno negato l’uso di mine terrestri all’interno della prigione di Evin. Un giornalista ed ex prigioniero di coscienza ha detto ad Amnesty International di aver assistito a un’esplosione, nel gennaio 2020, mentre era detenuto nell’edificio n. 8: le guardie carcerarie dissero che un gatto aveva calpestato delle mine terrestri. Ha aggiunto che le mine sono collocate sulle colline che si trovano all’interno dell’area settentrionale del complesso penitenziario e che sono visibili da alcuni ambienti dell’edificio n. 8. Amnesty International è a conoscenza di almeno altri due ex prigionieri che hanno dichiarato sui social media che è risaputo tra i prigionieri che le mine sono collocate sulle colline situate nella parte settentrionale della prigione di Evin e che loro stessi hanno sentito e/o visto esplodere mine durante la loro detenzione. L’ammissione da parte di organi d’informazione affiliati allo stato che le mine terrestri sono collocate in prossimità dei reparti carcerari rivela il totale disprezzo delle autorità iraniane per la vita umana e il diritto internazionale. Dopo le violenze mortali del 15 ottobre, le autorità hanno sospeso tutte le visite al carcere di Evin, il che espone i prigionieri a ulteriori rischi di tortura e altri maltrattamenti, fra cui la negazione delle cure mediche. Dopo l’attacco, le autorità hanno trasferito decine di prigionieri dall’edificio n. 8, comprese le persone ferite, in un luogo inizialmente sconosciuto e si sono rifiutate di informare le famiglie su cosa fosse capitato loro e su dove si trovassero. È emerso circa un giorno dopo, quando ad alcuni prigionieri è stato permesso di fare brevi telefonate, che erano stati trasferiti nel carcere di Raja’i Shahr, a Karaj, nella provincia di Alborz. Il destino e le condizioni di molti altri prigionieri e detenuti, compresi quelli detenuti nell’edificio n. 7, rimangono poco chiari e suscitano serie preoccupazioni per la loro sicurezza. *Portavoce di Amnesty International Italia