Morire di carcere, un’altra vita è possibile? di David Alleganti La Nazione, 23 ottobre 2022 Una settimana fa sono stato a Gorgona, unico esempio in Europa di isola-carcere. Grazie alla Camera Penale di Livorno presieduta dall’avvocata Aurora Matteucci, ho potuto partecipare a una rappresentazione teatrale, seguita da un convegno dal titolo evocativo sui suicidi in carcere: “Per quanto noi ci crediamo assolti siamo lo stesso coinvolti. Morire di carcere: un’altra vita è possibile?”. Gli attori dello spettacolo, ispirato alle metamorfosi di Ovidio (regia di Gianfranco Pedullà), erano i ristretti di Gorgona, un carcere aperto nel quale i detenuti lavorano, producono e svolgono attività artistiche come appunto il teatro. Sono detenuti definitivi, con pene molto lunghe. Una realtà, quella di Gorgona, di cui purtroppo si parla molto poco, per questo il lavoro di divulgazione della Camera Penale di Livorno è prezioso. Il tema del convegno era, ahimè, di stringente attualità: i suicidi in carcere. Siamo arrivati a settanta persone che si sono tolte la vita in prigione nel solo 2022. Abbiamo già superato la quota del 2021 e rischiamo persino di superare il 2001, quando i morti furono 72, il numero più alto della storia dei suicidi in carcere. Un triste primato. Al convegno ha partecipato, tra gli altri, Marcello Bortolato, presidente del Tribunale di Sorveglianza di Firenze, che ha parlato anche di Sollicciano, “un carcere che è l’opposto di questo, dove le situazioni sono molto più difficili”. Il dato drammatico dei suicidi in carcere, ha detto Bortolato, autore insieme a Edoardo Vigna di “Vendetta pubblica. Il carcere in Italia” (Laterza), “coinvolge la responsabilità dei magistrati, che assieme alle altre istituzioni devono governare questo mondo. Dobbiamo partire dalla dimensione patogena del carcere, perché è indubitabile che il carcere provoca sofferenza nel fisico e nella psiche. Ci sono studi scientifici che dicono che i sensi a causa della protrazione della limitazione della libertà subiscono delle modificazioni”. A volte, ha spiegato Bortolato, “i detenuti presentano delle difficoltà evidenti dal punto di vista fisico, non perché abbiano problemi di natura patologica ma perché il luogo attenua alcune sensibilità e poi c’è il problema della psiche”. Il 23 per cento dei detenuti ha disturbi mentali che derivano dall’uso di sostanze stupefacenti, il 17 per cento ha nevrosi. “Noi dobbiamo cercare di affrontare il problema della dimensione patogena”, ha sottolineato Bortolato. Vito, detenuto, ha detto che il carcere di Sollicciano va chiuso, perché “è un lager”. Da anni operatori ed esperti spiegano perché il carcere fiorentino è un luogo malsano. Tutto il contrario, come dice appunto il dottor Bortolato, di Gorgona. Ad accogliere i visitatori, dipinto sulle coloratissime case dell’isola disabitata, dove vive un’unica residente, c’è un pezzo dell’articolo 27 della Costituzione. “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Troppo spesso politici e opinione pubblica preferiscono variazioni sul tema del marcire in carcere. “In galer a e buttiamo via la chiave”, dicono. Non si tratta di negare le responsabilità penali anche gravissime di chi è condannato. Ma qui il discorso è un altro e riguarda appunto l’articolo 27 della Costituzione. Alcuni di questi detenuti si suicidano quando stanno per uscire dal carcere. Perché non vogliono vedere che cosa li aspetta, là fuori. Gherardo Colombo: “Il carcere così com’è non serve a nulla: rende la società ben più pericolosa” di Marco Ballico Il Piccolo, 23 ottobre 2022 Il magistrato: “Chi esce di prigione spesso delinque ancora: manca la riabilitazione”. In un libro del 2020, “Il perdono responsabile”, spiegò, dati alla mano, come la gran parte dei condannati a pene carcerarie torni a delinquere. Il motivo? “La maggior parte non viene riabilitata, come prescrive la Costituzione, ma semplicemente repressa, e privata di elementari diritti sanciti dalla nostra carta fondamentale; così come ne vengono privati i loro cari”. Gherardo Colombo, magistrato e giurista, protagonista di inchieste storiche, dalla P2 a Mani Pulite, ha riproposto questi ragionamenti in un corso di aggiornamento per giornalisti dal titolo “Pena, carcere, misure alternative e giustizia riparativa” cui hanno partecipato l’ex direttore del Carcere di Trieste Enrico Sbriglia, l’ex dirigente scolastico, per 30 anni nella periferia triestina, Andrea Avon, il presidente dell’Ordine dei giornalisti Cristiano Degano, con la consigliera del Consiglio di disciplina Federica Badano, il presidente degli avvocati di Trieste Alessandro Cuccagna. Colombo, qual è la situazione nelle carceri oggi? “Il sovraffollamento, e la generale inadeguatezza delle strutture, oltre alle limitazioni che riguardano la cura della salute, l’igiene, l’informazione, i rapporti con i familiari fanno sì che la vita in carcere non corrisponda, nella quasi totalità dei casi, a quel che dice la nostra Costituzione, secondo la quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità”. La situazione non è comprensibile dall’esterno, per chi non la vive. Ed è il motivo per cui, anziché stimolare il desiderio di riabilitarsi, genera rancore e risentimento, sentimenti che spesso stanno alla base della volontà di trasgredire”. Non si può dunque nemmeno parlare di rieducazione del condannato? “Se ne sta iniziando a parlare da qualche anno, ma il sistema carcerario rimane sostanzialmente quel che era”. Per quale motivo? “Sicuramente hanno importanza le carenze di risorse, che risultano insignificanti sul fronte del trattamento rieducativo dei detenuti, ma le cause profonde sono altre. E generano anche le carenze di risorse”. Una questione solo politica o anche culturale? “Certamente politica e culturale. Ma il tema dell’esecuzione della pena riguarda anche altri aspetti, pure la filosofia. Continua a prevalere purtroppo il principio di retribuzione, vale a dire l’approccio di ripagare con il male chi ha fatto del male”. Le conseguenze? “La retribuzione comporta, per le vittime dei crimini, che si consideri un valore la vendetta, la quale come si sa non ripara, non aiuta ad uscire dalla dolorosa condizione di vittima. Al contrario, servirebbe aiutare da una parte chi ha subito il reato a sentirsi riparata dal male subito, e chi l’ha commesso a comprendere di avere agito il male e a non ripeterlo, non per paura della punizione, ma per convinzione”. L’articolo 27 della Costituzione, lì dove appunto si afferma che le pene devono tendere alla rieducazione del condannato, non è mai stato applicato in Italia? “Qualcosa di diverso si è cominciato a fare qualche anno fa. Penso al carcere di Bollate a Milano, nel quale la detenzione è accompagnata dalla possibilità di lavorare e dallo svolgimento di attività culturali e ludiche marcatamente indirizzate al recupero della persona. Ma, per riuscire a intervenire in modo strutturale, ci vuole molto di più. A partire dall’incremento della detenzione domiciliare, dell’affidamento in prova ai servizi sociali, della semilibertà, dei lavori di pubblica utilità”. Ma davvero, come lei scrive, il carcere non serve? “Il carcere serve a fare il contrario di ciò che si pensa faccia. Posto che non si possono tenere le persone in carcere tutta la vita, anziché aumentare la sicurezza dei cittadini, il sistema la diminuisce. Perché quando si esce, quasi sempre si torna a delinquere, spesso con una aumentata capacità di farlo”. Sono temi all’attenzione di chi lavora per la riforma della giustizia? “Lo sono. Nel 2015, agli Stati generale sull’esecuzione penale, ero coordinatore di un tavolo sulle sanzioni alternative al carcere. Il dibattito c’è, manca concretezza. Sia allora che dopo, i governi o non hanno esercitato la delega del Parlamento per modificare l’ordinamento penitenziario o l’hanno fatto in misura parziale. Le promesse di Nordio: processi più veloci e carriere separate nella giustizia di Conchita Sannino La Repubblica, 23 ottobre 2022 Il neo ministro all’uscita del Quirinale: “I ritardi nei processi ci costano il 2% del Pil”. La strada da battere per lui è la depenalizzazione. La “rivoluzione” sui due codici, la separazione delle carriere, il risparmio, la spending review. Ma restano, per ora, sullo sfondo. Non rinnega nessuna idea, non fa marcia indietro, Carlo Nordio nella veste di Guardasigilli. Ma le sue prime parole vogliono essere concilianti, e puntare a un obiettivo tanto prioritario, quanto - pone l’accento lui - “comune”. Il prezzo della giustizia lumaca - “Noi dobbiamo velocizzare i processi. Perché questo è legato alla ripresa dell’economia, e perché i ritardi nei vari processi”, allontanando investitori ed aziende, “ci costano il 2 per cento di Pil”, si ferma a spiegare, appena uscito dal Quirinale. “E poi penso - aggiunge ancora il neo ministro - che lavorare a questo significhi non solo concentrarsi sulla prima vera emergenza, ma anche sulla questione meno divisiva. Perché ritengo che a tutte le toghe interessi avere una giustizia più efficiente”. Ed è ancora a “tutte le toghe” che parla quando ipotizza: “l’implementazione di organici”, su cui torna a insistere l’Associazione nazionale magistrati anche ieri, chiedendogli un confronto. ma tra otto giorni esatti, intanto, entra in vigore la riforma del penale firmato Cartabia. Le 11.10 del sabato del giuramento. Nordio, quasi quarant’anni spesi nei panni di giudice istruttore prima e pubblico ministero dopo (è stato aggiunto e reggente a Venezia), esce dal Quirinale con la moglie al fianco. Sorride, risponde con garbo alla selva di sollecitazioni e prime curiosità, poi sale in auto e - per il passaggio di consegne - raggiunge il Palazzo di via Arenula. Dove resterà due ore a dialogare con la ministra uscente Marta Cartabia. La riduzione del numero dei reati - Ma a scuotere quei processi lumaca che soffocano diritti e senso di giustizia, ci hanno provato in tanti. Da dove parte il Guardasigilli? Nordio sintetizza: “Bisogna semplificare le procedure, individuare bene le competenze, eseguire quei programmi che sono compatibili con le risorse che abbiamo”. E va al punto: “La velocizzazione avviene con la depenalizzazione: attraverso una riduzione dei reati. Quindi va eliminato questo pregiudizio che la sicurezza, o la buona amministrazione, siano tutelate dalle leggi penali”. È una lettura che subito suscita l’apprezzamento dell’ex magistrato di Mani Pulite, Gherardo Colombo: “Credo che il neo ministro Nordio abbia toccato, con la sua prima dichiarazione, un tema importante: la sicurezza non è assicurata dal penale, occorre procedere a una estesa depenalizzazione”. Una (non troppo imprevista) sintonia, dopo gli anni che hanno visto su sponde opposte, con aspra dialettica, Nordio e il pool milanese. Il passaggio di consegne con Cartabia - Poco dopo, il ministro fa il suo ingresso al Ministero: dove lui e la ministra Cartabia si rivedono ieri dopo dieci mesi. “Ah, sì mi ricordo, l’ultima volta parlavamo del futuro e dell’Italia che verrà”, si sorridono.Il loro incontro era stato infatti davanti al pubblico - mica una platea qualunque, quella di Atreju, la kermesse politica della destra, sempre Meloni officiante, era l’8 dicembre del 2021 - a confrontarsi su riforme della giustizia, il Paese che si preparava tra post-Covid e Pnrr. Si riparte in fondo da lì, solo con scatoloni in partenza e ruoli ribaltati. Da un lato la Guardasigilli cui è toccato il compito arduo di piantare riforme indispensabili - processo civile, penale, Csm - a fronte di una maggioranza così eterogenea e divisa, dall’altro Nordio che eredita le nuove norme e i relativi decreti attuativi: oltre alle altre scadenze del Pnrr legate alla giustizia. Due ore nette di dialogo. Poi il sincero “buon lavoro” di lei, apre il nuovo corso di lui. “Ora depenalizzazione”. La sorpresa di Nordio di Francesco Grignetti La Stampa, 23 ottobre 2022 Il garantista Carlo Nordio non si smentisce. All’uscita del Quirinale, subito dopo aver giurato come ministro della Giustizia, si ferma con i giornalisti e indica quali saranno le sue priorità. La prima delle quali è abbastanza sorprendente, considerando il contesto di un governo di destra-centro: “Vanno velocizzati i processi, anche con una forte depenalizzazione e quindi una riduzione dei reati”. Ma nel programma della coalizione non ci sono le riforme costituzionali, quali la separazione delle carriere e lo sdoppiamento del Csm? “È nel programma, ma prima gli aspetti pratici”. Resta convinto della separazione delle carriere. “Perché è consustanziale al processo accusatorio”. Ma questa riforma, che avrà rango di legge costituzionale e tempi necessariamente lunghi, passa in secondo piano. Ci sono altre urgenze. “In questo momento è più importante concentrarsi sugli aspetti pratici, che è quello dell’implementazione degli organici e della velocizzazione dei processi: rendere la giustizia più efficiente, perché i ritardi ci costano due punti di Pil”. Il ministro Nordio in effetti ha sempre sostenuto che la giustizia italiana ha bisogno di una rivoluzione copernicana. “Tra i primi provvedimenti sulla giustizia - dice ad esempio - c’è l’attuazione piena del codice Vassalli, un codice firmato da una medaglia d’argento della Resistenza e in prospettiva la revisione del codice penale firmato da Mussolini, ancora in vigore e di cui nessuno parla (su cui ha le idee chiare, alcuni anni fa aveva guidato una commissione di studio al ministero, ndr)”. Che l’Italia democratica dipenda ancora dal codice Rocco, lo fa inorridire. Appena approdato a Via Arenula, dove ha incontrato Marta Cartabia, Nordio si rivela però soprattutto un pragmatico. “Visto che la prima emergenza è quella economica, a breve bisogna intervenire in quella parte della giustizia che aiuti la ripresa economica e cioè velocizzare i tempi”. E come arrivarci? “Semplificando le procedure, individuando bene le competenze e facendo anche una spending review. Ora ci sarà bisogno di fare un bilancio di queste risorse, bisognerà spendere al meglio e risparmiare dove possibile. Sono riforme urgenti, ma anche le meno divisive in ambito politico e verso la magistratura. Perché nessuno può essere contrario a una velocizzazione dei processi”. Come ieri gli ricordava anche David Ermini dal Csm, Nordio sa bene che ci sono drammatici problemi di organico. Mancano almeno 2000 magistrati e ci vorranno anni perterminare i concorsi. Se davvero si vuole uscire dall’ingolfamento della giustizia, occorre agire sul piano del numero dei processi. Di qui, l’idea di una depenalizzazione per i reati minori. “La riforma Cartabia - dice ancora il neo ministro - andava nella direzione assolutamente giusta, ma aveva dei limiti perché le leggi non le fa il ministro, ma il Parlamento. I limiti erano costituiti da una maggioranza politica che in parte non consentiva la piena attuazione perché composita, e con quelli che si dicono giustizialisti e non garantisti. Oggi abbiamo delle idee molto diverse, anche perché la velocizzazione della giustizia passa attraverso una forte depenalizzazione e quindi una riduzione dei reati”. Infine conclude con un monito rivolto ai non garantisti, i grillini, parte della sinistra, e pezzi della destra: “Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza o la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali. Questo non è vero. L’abbiamo sperimentato sul campo, soprattutto quelli come me che hanno fatto per 40 anni i pubblici ministeri”. Non stupisce la soddisfazione degli avvocati. “Esprimiamo - scrive l’Unione camere penali - il nostro convinto auspicio che il ministro Nordio vorrà e saprà rendersi protagonista di una profonda e autentica svolta liberale nella politica giudiziaria del nostro Paese”. L’Anm chiede intanto udienza. “Ci sono tante questioni da affrontare, anche sulla scia di quello che ha fatto il precedente governo e delle questioni lasciate in sospeso”, dice il presidente Giuseppe Santalucia. Il garantismo di Nordio che piace ai penalisti italiani. Meno ai detenuti di Eleonora Martini Il Manifesto, 23 ottobre 2022 Il neo Guardasigilli: “Le droghe cosiddette leggere non sono solo dannose per il cervello ma costituiscono il primo passo verso l’assunzione di quelle pesanti”. Velocizzare il corso della giustizia, depenalizzare, ridurre il numero dei reati, portare a compimento la riforma Cartabia, dare piena attuazione al codice di procedura penale “Pisapia-Vassalli” e addirittura - “in prospettiva” - revisionare il codice penale firmato da Mussolini. A giudicare dalle prime dichiarazioni del neo ministro di Giustizia, Carlo Nordio, e dal sincero benvenuto ricevuto dall’Unione delle camere penali italiane (“vivo apprezzamento, sarà protagonista di un’autentica svolta liberale”, scrivono i penalisti) e da altre organizzazioni di avvocati, si potrebbe pensare ad un baco nel sistema di governo targato Giorgia Meloni. Se così fosse, considerando il noto orientamento per molti versi “garantista” del magistrato veneto, si potrebbe addirittura prefigurare il rischio di una spaccatura interna alla maggioranza di governo, con i “manettari” leghisti a dargli filo da torcere. Ma è davvero così? E cosa bisognerà aspettarsi dal nuovo Guardasigilli in materia di esecuzione penale? Già nel 2004 Carlo Nordio presiedette una commissione parlamentare per la riforma del codice penale che proponeva un nuovo modello nel quale il carcere era immaginato come l’estrema ratio, in modo da garantire il principio costituzionale del fine rieducativo della pena. La proposta - poi bocciata dalla Lega - puntava sull’abbattimento della custodia cautelare, l’eliminazione delle pene pecuniarie, la conversione della pena detentiva nei casi meno gravi in pene interdittive, ablative o prescrittive, e un sistema di sanzioni meno afflittive purché effettive. Rimaneva però l’ergastolo, totem indiscusso delle destre. I lavori della commissione Nordio, come detto, non portarono poi a nulla di fatto perché l’allora ministro di Giustizia, il leghista Roberto Castelli, impose il suo niet al governo Berlusconi II. Uno scenario un po’ simile a quello descritto ieri dallo stesso Nordio quando ha detto che la riforma Cartabia “andava nella direzione giusta” ma “aveva dei limiti, costituiti da una maggioranza politica che non ne consentiva la piena attuazione, composita e per certi aspetti giustizialista, meno garantista”. Anche ieri il neo ministro ha ribadito che “bisogna eliminare il pregiudizio che la sicurezza sia tutelata dalle leggi penali, questo non è vero, lo abbiamo sperimentato sul campo”. Ma la buona “cultura giuridica” (apprezzata anche dal Garante dei diritti dei detenuti nel suo comunicato di auguri istituzionale), fa di Nordio un garantista soprattutto nel campo della procedura penale, come ha dimostrato anche schierandosi con il “Sì” ai referendum sulla giustizia promossi da Lega e Radicali. Sull’esecuzione della pena, sul carcere, sulla vita dei detenuti, sulla tutela dei diritti fondamentali delle minoranze, però, il pensiero “liberale” del neo Guardasigilli non si è mai esercitato molto. E non è un caso. A giudicare dalla sua comunicazione sui social media, dove il refrain è la limitazione delle intercettazioni (e l’eliminazione dell’abuso di ufficio), e la melodia di base è fatta di slogan contro l’immigrazione clandestina, e a giudicare dai durissimi commenti contro le condanne all’Italia della Corte europea dei diritti umani, c’è da aspettarsi solo il peggio. Ricorda Marilena Grassadonia, responsabile Libertà & Diritti di Sinistra Italiana, che Nordio “paragonò l’omosessualità alla pedofilia durante le audizioni in Senato per la stessa legge”. E pochi mesi fa in un’intervista a Libero, parlando del contributo delle leggi sulle droghe al sovraffollamento carcerario, Nordio ribadì il suo orientamento proibizionista: “Le droghe cosiddette leggere non sono solo dannose per il cervello - asserì come un Giovanardi qualunque - ma costituiscono il primo passo verso l’assunzione di quelle pesanti”. Ecco, senza diritti civili (e quindi sociali) e senza una riforma della legge sulle droghe, il garantismo si ferma alle porte delle carceri, quelle stracolme di immigrati, tossicodipendenti e malati psichici. Albamonte contro Nordio: “La sua giustizia è forte con i deboli e debole con i forti” di Valentina Stella Il Dubbio, 23 ottobre 2022 Per l’ex presidente dell’Anm le idee del neoguardasigilli “servono a indebolire la capacità di controllo della magistratura rispetto al mondo della politica”. Dal Cnf a Ocf, Anf e Camere penali, tutte le reazioni alla nomina di Nordio. Non si sono lasciate attendere le reazioni alla nomina di Carlo Nordio quale nuovo Ministro della Giustizia. In primis quella dell’ex presidente dell’Anm e attuale Segretario di Area, Eugenio Albamonte. Ermini: “Priorità alla carenza di organico” - “Il dottor Nordio è un magistrato di grandissima esperienza, e dal lato della sua lunga esperienza avrà molto da lavorare”, ha detto il vice-presidente del Consiglio Superiore della Magistratura, David Ermini. “Credo sia giusto portare a termine il lavoro intrapreso da Cartabia”, ha aggiunto ma “ci sono carenze su cui non si può aspettare: uno è il problema degli organici, sia di magistrati che degli amministrativi, un’altra è l’edilizia giudiziaria, l’altro giorno è crollato il tetto del tribunale di Catania, e il terzo aspetto sono le carceri. Siamo indietro sul piano carceri va recuperata la riforma Orlando, mai attuata, e da dare dignità alle nostre carceri sia sull’edilizia sia sulla detenzione”, ha concluso Ermini. Leggi anche: Nordio guardasigilli, inizia un’altra storia (garantista) per la giustizia Cnf, Ocf, Anf Care Camere Penali: le reazioni dell’avvocatura alla nomina di Nordio - Ha commentato la formazione del nuovo Governo e quindi la recente nomina di Nordio anche la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi: “Congratulazioni e i migliori auguri di buon lavoro a nome mio e di tutto il Consiglio nazionale forense alla presidente del Consiglio dei ministri, Giorgia Meloni, e a tutti i componenti del nuovo governo, ai quali spetta l’arduo compito di garantire al nostro Paese, in questo particolare e difficile momento, stabilità ed efficienza e al quale avremo immediatamente cura di rappresentare le prioritarie esigenze di intervento a tutela della funzione e del ruolo dell’avvocatura affinché sia finalmente e costituzionalmente riconosciuta”. “Le più vive congratulazioni, con i migliori auguri per un proficuo e sereno lavoro - scrive il Cnf - al ministro della Giustizia, Carlo Nordio, con il quale siamo certi riusciremo ad interloquire costantemente per rappresentare le prioritarie esigenze di tutela dei principi costituzionali nella giurisdizione e oltre la giurisdizione. Siamo persuasi che il suo impegno, le sue competenze e la sua esperienza saranno al servizio della funzione ma soprattutto al servizio di quella “prossimità” funzionale ai bisogni dei cittadini”. “Auguri di buon lavoro” a Nordio sono arrivati anche dall’Organismo Congressuale Forense: “L’Avvocatura - si legge nella nota - ha già avuto modo di apprezzare, nei fatti, la vicinanza del Ministro alle istanze della classe forense: per questo, siamo fiduciosi che si potrà aprire una fase di confronto costruttivo basata su obiettivi condivisi per una Giustizia che metta al centro la difesa dei diritti dei cittadini e le garanzie dentro e fuori il processo. Con questo auspicio, manifestiamo la più ampia disponibilità di questo Organismo per una proficua e concreta interlocuzione sui temi che coinvolgono gli avvocati italiani”. Il segretario dell’Anf Giampaolo Di Marco rivolge “le congratulazioni e i più sentiti auguri di buon lavoro alla neo Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, all’intera compagine di Governo, in particolare al neo Ministro della Giustizia Carlo Nordio. Siamo certi che il Ministro della Giustizia con la sua grande esperienza e profonda conoscenza della macchina giudiziaria guiderà al meglio il dicastero”, dichiara il vertice dell’Associazione nazionale forense, “pur nella consapevolezza del difficile compito che l’attende. Riteniamo che tra le priorità del Ministro e del Governo vi siano le riforme del processo penale e del processo civile, che alla luce dei due decreti legislativi che attuano la delega sulla riforma del processo, debbano essere oggetto di necessarie correzioni e modifiche. Occorre fare presto, e intervenire sul civile facendo leva anche sulle risorse del Pnrr, ma non perseguendo l’illusione sterile della velocizzazione dei processi tramite l’approccio disincentivante e punitivo nei confronti del cittadino, che si rivolge al giudice per la tutela dei propri diritti. Altresì nel penale”, osserva ancora Di Marco, “occorre perseguire maggiore efficienza, adottando criteri trasparenti e predeterminati per legge per la redazione dei progetti organizzativi delle Procure. Siamo certi che il Ministro Nordio abbia consapevolezza di questi temi, e vorrà lavorare per un’accelerazione dei processi aumentando gli organici e le risorse, elementi indispensabili per fare funzionare realmente al meglio il sistema giustizia”. Di “auspicio per una profonda ed autentica svolta liberale nella politica giudiziaria del nostro Paese” parla invece la Giunta dell’Unione delle Camere Penali Italiane, guidate da Gian Domenico Caiazza: “Abbiamo avuto modo di conoscere in questi anni, in ripetute occasioni di incontro e di confronto, le solide radici liberali delle idee del dott. Nordio sulla giustizia penale, e la loro stretta vicinanza a molte di quelle che costituiscono da sempre il patrimonio culturale e ideale dei penalisti italiani”, commenta l’Ucpi. “Dalla separazione delle carriere tra magistratura inquirente e giudicante, alla costante denunzia dell’abuso della custodia cautelare nel nostro Paese, alla radicata e convinta difesa del sistema processuale accusatorio consacrato nell’articolo 111 della Costituzione repubblicana”. Albamonte contro Nordio: “La sua giustizia è forte con i deboli e debole con i forti” - Finalmente è uscita allo scoperto anche la magistratura: dopo giorni di silenzio o di dichiarazioni fatte nel ‘prudente’ anonimato ha parlato chiaramente l’ex presidente dell’Anm e attuale Segretario di Area, Eugenio Albamonte, che va dritto al punto: “In campagna elettorale Nordio ha disegnato una sua idea di giustizia forte con i deboli e debole con i forti. Perché tutte le misure di cui ha parlato servono a indebolire la capacità di controllo della magistratura rispetto al mondo della politica, dell’economia e dell’alta finanza e a rendere i magistrati del pubblico ministero più isolati e più facilmente suscettibili di controllo da una parte e di intimidazione dall’altra”. “Ovviamente - ha concluso il magistrato - anche noi sappiamo che in campagna elettorale se ne dicono di tutte, soprattutto se uno deve imbonirsi un elettorato di un certo tipo. E visto che siamo persone di buon senso, inguaribili ottimisti, aspettiamo di valutarlo alla prova di fatti, prima di dare un giudizio”. Leggi anche: Nordio alla Giustizia, le toghe restano in silenzio: “In fondo è stato uno di noi” - L’associazione dei giudici onorari, AssoGOT, invece “confida che la vicinanza da sempre manifestata dall’attuale maggioranza e dal Guardasigilli Carlo Nardio, possa presto tradursi in atti concreti e rendere finalmente merito, giustizia e dignità ad una categoria che tutti riconoscono come essenziale ma che resta precaria e sfruttata”. AssoGOT “auspica quindi che le belle parole e gli elogi cedano il passo ai fatti e all’effettivo riconoscimento dei giusti diritti”. In considerazione della “drammatica congiuntura degli ultimi anni” che “ha reso la condizione dei magistrati onorari ancora più insostenibile ed indegna di un Paese civile, così come ripetutamente rilevato non solo dai più attenti osservatori, ma anche da tutte le Istituzioni e le Corti europee”. Ermini: “Nordio magistrato di grande esperienza, avrà molto da lavorare” di Caludio Cerasa Il Foglio, 23 ottobre 2022 Il vicepresidente del Csm alla Festa del Foglio: “Credo sia giusto portare a termine il lavoro intrapreso dalla ministra Cartabia, ma ci sono carenze su cui non si può aspettare: il problema degli organici, l’edilizia giudiziaria e le carceri”. “Nordio è un magistrato di grandissima esperienza, e dal lato della sua lunga esperienza avrà molto da lavorare. Credo sia giusto portare a termine il lavoro intrapreso dalla ministra Cartabia”. Lo ha detto il vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura, David Ermini, alla Festa dell’Ottimismo del Foglio, intervistato da Ermes Antonucci. “Ci sono carenze su cui non si può aspettare”, ha poi affermato Ermini. Una riguarda il problema degli organici, sia di magistrati che degli amministrativi, un’altra è l’edilizia giudiziaria (l’altro giorno è crollato il tetto del tribunale di Catania) e il terzo aspetto sono le carceri. Va recuperata la riforma Orlando, mai attuata, per dare dignità alle nostre carceri sia sull’edilizia sia sulla detenzione”. “I magistrati hanno delle piante organiche decisamente insufficienti, dovrebbero essere 10.700 e attualmente ce ne sono meno di 9mila che stanno lavorando. Il problema sono i tempi dei concorsi: oggi per avere un magistrato dal bando alla presa delle funzioni occorrono quattro anni, è assolutamente insostenibile. Siccome abbiamo avuto la pandemia che ha interrotto il ciclo dei concorsi, adesso i nuovi magistrati in tirocinio prenderanno le loro funzioni, se va bene, a metà 2024. Noi, con le dimissioni che sono circa 260 l’anno, arriveremo a metà 2024 con 8.200 magistrati. E’ inutile parlare di riforme se manca la materia prima”. Il gruppo di sinistra delle toghe, Area, è già intervenuta per criticare la nomina di Nordio, affermando che le sue proposte mirano a ridurre l’autonomia della magistratura. Ermini, tuttavia, ha escluso il rischio che possa riproporsi una stagione di scontro tra politica e magistratura: “Non trovo scandaloso che gruppi di magistrati prendano posizione su temi di politica giudiziaria. Il ministro e la magistratura, rispettivamente, fanno il proprio lavoro. L’importante è che il rapporto istituzionale rimanga saldo e fermo. Non ci sono problemi se qualcuno prende posizioni diverse. L’importante è che siano fruttuose”. Tra poche settimane il Parlamento eleggerà i membri laici del Csm, che si aggiungeranno ai membri togati già eletti dai magistrati. Si chiuderà, così, una delle consiliature più turbolenti della storia della magistratura. “Sotto l’aspetto professionale - ha raccontato Ermini - è stata un’esperienza magnifica, a partire dal rapporto con le istituzioni, il presidente della Repubblica in testa, che per me è stato un faro”. Mario Paciolla, archiviare il caso significa far vincere le bugie del potere di Giuliano Granato* Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2022 Il 15 luglio 2020 a San Vicente del Caguán, in Colombia, viene ritrovato il corpo di un ragazzo di 33 anni, impiccato con delle lenzuola nella sua stessa abitazione. Senza aspettare nemmeno un minuto le autorità di Bogotà parlano di “suicidio”. Una tesi che, però, fin dall’inizio pare fare acqua da tutte le parti. Quel ragazzo era Mario Paciolla, 33 anni, napoletano. In Colombia lavorava con l’ONU. Dal giorno della sua morte amici e familiari si battono per ottenere verità e giustizia. Perché loro alla tesi del suicidio proprio non credono. E sono invece convinti che si sia trattato di un omicidio. Due anni dopo, il 19 ottobre 2022, arriva una terribile “doccia gelata”, secondo le parole di Anna e Pino, i genitori di Mario: la Procura di Roma dà per buona la ricostruzione delle autorità colombiane e chiede l’archiviazione: “è un caso da archiviare, non esiste nessun elemento concreto sull’omicidio”. Una decisione “sconcertante”. 1. Pochi giorni prima di quel maledetto 15 luglio Mario, in una telefonata ai genitori, si era mostrato preoccupato per qualcosa che aveva visto e forse non doveva vedere: “Ha avuto giorni di grande preoccupazione per il suo lavoro. Era in apprensione per alcuni report e in quei giorni sicuramente è accaduto qualcosa che poi ha determinato la tragedia. Lì bisogna fare chiarezza e cercare la verità” - ha dichiarato sempre la madre. Cosa aveva visto o saputo Mario e che lo aveva spaventato così tanto? Perché nessuna autorità pare interessata a capirlo per davvero? 2. Mario aveva già in tasca un biglietto aereo per tornare a Napoli, lasciando in maniera definitiva la Colombia. Anzi, aveva addirittura già iniziato a spedire le valigie: “Mario aveva organizzato il suo ritorno. Era ormai imminente. Eravamo in pieno periodo Covid e tornare dalla Colombia non era facile. Ma lui aveva già spedito le sue valigie, che io ho aperto e trovato nell’ordine che lui seguiva in questi casi”. E allora perché una persona che di lì a pochi giorni deve fare rientro a Napoli decide di ammazzarsi? 3. A poche ore dalla morte, si precipitano alla casa due funzionari colombiani dell’Onu, il datore di lavoro di Mario. Sono Christian Thompson e Juan Vàsquez. Prelevano oggetti appartenuti a Mario. Ripuliscono la stanza. Addirittura il pavimento fu lavato a colpi di candeggina. Come se qualcuno avesse voluto cancellare ogni traccia. Traccia di cosa. E ancora: perché i quattro agenti di polizia presenti non hanno mosso un dito e perché Thompson e Vàsquez hanno pensato bene di prelevare un materasso e alcuni utensili macchiati di sangue per poi gettarli in una discarica? Alle autorità sembra un comportamento lineare? Perché voler sbattere la porta e rinunciare a perseguire la strada che potrebbe condurre alla verità? 4. Sul corpo di Mario sono stati trovati tagli e segni compatibili con quelli che deriverebbero da un’aggressione violenta. C’è chi si è spinto a parlare di segni di tortura. In seguito alla seconda autopsia sul corpo di Paciolla, quella effettuata in Italia, così scrive Claudia Julieta Duque, giornalista colombiana amica di Mario: “Sebbene le coltellate sul cadavere potessero a prima vista essere classificate come autoinflitte, uno studio più dettagliato delle lesioni ha permesso ai medici legali di determinare che mentre le ferite del polso destro presentavano ‘chiari segni di reazione vitale’, nella mano sinistra mostravano ‘caratteristiche sfumate di vitalità”, o ‘vitalità diffusa’ ,a suggerire che alcune delle ferite potessero essere inflitte ‘in limine vitae o anche post-mortem’, cioè quando Paciolla era in uno stato agonizzante o era già morto”. Diventa, perciò del tutto legittimo supporre che il cooperante sia stato non solo ucciso, ma anche torturato”. Com’è possibile che questi risultati autoptici non lascino quanto meno aperta la porta del dubbio? Com’è possibile in presenza di tali elementi esser certi si sia trattato di suicidio? 5. Infine: perché l’Onu ha offerto così scarsa collaborazione? In fondo Mario era un loro dipendente: “Mi riferisco anche all’Onu. Mio figlio è un morto sul lavoro. Se un muratore muore su un cantiere si deve chiedere contro all’impresa dove lavorava. Che cosa ha fatto l’Onu per tutelare mio figlio? Come lo ha protetto?”. Viene il dubbio che anche le Nazioni Unite non abbiano interesse a che si arrivi a una piena verità. Verità che è la precondizione per poter ottenere giustizia. Quella per cui continuano a battersi familiari e amici di Mario. E a cui le nostre stesse istituzioni sembrano aver abdicato. *Portavoce nazionale di Potere al Popolo Trapper rosso sangue di Carlo Bonini La Repubblica, 23 ottobre 2022 Musica, coltelli, faide. Da Milano a Roma, le baby gang si sono prese le città. “Ho tutto quello che ti può servire”. Con un messaggio su Instagram la donna del trapper lo tradisce, vuole vendetta “per le umiliazioni subite”. E allora contatta l’amico fraterno del capo dei rivali e lo ‘vende’: “Vi dico dove potete trovarlo”. Così ‘gli altri’ si organizzano. È la notte del 16 giugno scorso e parte la spedizione punitiva. Sanno che Simba La Rue è in via Aldo Moro a Treviolo, Bergamo, a quell’ora, sotto casa della sua fidanzata. Sono incappucciati, lo colgono di sorpresa. Botte e dieci coltellate: 40 giorni di prognosi, sangue, grida. Poi la fuga. “Hai visto quel marocchino di m.... sono stato io sono stato io, ho paura di averlo ucciso” dice uno di loro in macchina. È “Bode”, le mani ancora rosse. Dai dissidi sui social alla violenza di strada, la faida nel mondo dei trapper ha fatto l’ennesimo salto di qualità. Simba La Rue e Baby Gang da una parte, a Milano e dintorni, e Baby Touché e i suoi dall’altra, “quelli di Padova”. C’è la fidanzata complice, l’attrice hard Bibi Santi. Sembra una sceneggiatura. Ma è guerra di strada. La faida - Il sottofondo è un impasto di musica e social, soldi e lusso sfrontato da esibire. Ma lo scenario per cui balzano alle cronache i trapper è diventato invece la violenza. Le pistole e i coltelli, e quindi gli arresti, la droga, la criminalità di strada. Nell’ultimo anno questo mondo sta facendo parlare di sé più nelle aule di giustizia che per meriti discografici. E la Lombardia è l’ombelico di questo fenomeno giovanile che mischia i “dissing” su TikTok alle faide per strada che finiscono nel sangue. Il 7 ottobre gli aggressori di “Speedy” Simba vengono arrestati dai carabinieri di Bergamo. Inclusa Bibi Santi, che in realtà si chiama Barbara Boscali, ha 31 anni, un figlio, ed è complice del raid. È lei stessa ad ammetterlo ai militari: “Pensavo lo avrebbero solo bullizzato con un paio di schiaffi”. E ancora: “A Samir dicevo: vediamo se anche con gli uomini fa il figo come fa con me”. In manette anche il fratello di Baby Touché: “Ha fatto quello che ha fatto, noi abbiamo fatto quello che abbiamo fatto, così finisce di rompere il ca...”. A sferrare le coltellate è Younnes Foudad, il “Cammello”, 30 anni, nato in Marocco e in Italia senza fissa dimora. “Ho visto un video sul telefono di Younnes in cui si sentiva urlare la fidanzata di Simba, diceva: no la pistola no”, mette agli atti una del gruppo. Leggiamo ancora: “Avevano fatto quel video per dimostrare quello che avevano fatto così come era stato girato il video sul rapimento di Baby Touché”. Perché bisogna tornare a una settimana prima per trovare il senso della rivalsa che scatena questi fatti. La storia viene pubblicata su Instagram il 9 giugno 2022. Touché è in auto, seduto sul sedile posteriore: ha il volto insanguinato, il naso gonfio e i capelli spettinati. Si sente la voce di Simba: “Dov’è il gangster che sei? Dov’è la tua sicurezza?”. Gli arriva uno schiaffo, gli altri ridono, 35 secondi ripresi con il cellulare e diffusi attraverso il profilo “Simba la_ruee”. Il ragazzo era stato accerchiato nei pressi di via Boifava a Milano, colpito a calci e pugni e caricato su una Mercedes Classe A. Touché verrà liberato in un paese del lecchese, dopo la gogna in diretta. “Un tratto essenziale delle azioni di questi gruppi - scriverà il gip - è contraddistinta dalla spettacolarizzazione delle stesse, prima esaltate nei brani musicali e poi, quando concretamente avvengono sono riprese, girando dei veri e propri film mediante i cellulari, da chi vi partecipa e diffuse con commenti entusiastici sui social”. Anche se la versione degli arrestati è opposta. “Era tutto uno scherzo, una finzione”, dice invece Simba ai carabinieri nel tentativo di discolparsi. Lo fa però da un letto d’ospedale, dove si trova per cercare di salvarsi il nervo femorale dopo aver preso dieci coltellate. È questo video infatti che costerà al rapper - oltre a un processo per sequestro di persona e rapina - anche la vendetta, con la complicità della sua donna. Ma intanto anche i padovani sanno di averla fatta grossa. “Nessuno di noi vuole una madre che piange”, dirà Baby Touché (non indagato). E ai carabinieri anche lui proverà a riproporre la pantomima dello scherzo organizzato con Simba per far crescere i follower e far parlare di loro sui social. Perché la violenza, poi, conta perché va mostrata sui social. Sassi a san Siro - I riflettori pubblici sul mondo dei ‘trapper gangster’ si accendono due primavere fa. Bisogna tornare al 10 aprile 2021, un sabato. Tra piazzale Selinunte e via Micene, a San Siro ma nella parte più scura del lusso delle case dei calciatori, un gruppo di giovanissimi si raduna per girare un video musicale e finisce per prendere a sassate le camionette della polizia arrivate a disperderli, siamo ancora in emergenza Covid e nelle strade c’è il divieto di assembramenti. Il video clip è di Amine Ez Zaaraoui, appena ventenne, in arte “Neima Ezza”, in piazza c’è anche Zaccaria Mouhib, stessa età, meglio noto come “Baby Gang”. Succede tutto in pochi minuti: dai palazzi chiamano il 112, arrivano le forze dell’ordine ma la massa resta lì, non si disperde, continua a girare immagini. “Se arrivano gli sbirri, nessuno scappa”, incita Baby Gang sui social. Parte una sassaiola, tornano indietro lacrimogeni, è guerriglia urbana. In 14 vengono denunciati, ma il salto è stato fatto. E Milano ha scoperto ufficialmente l’esistenza di questi giovani trapper e il loro seguito. Disordini in piazza Selinunte a Milano con 300 ragazzi: l’intervento della polizia - I fatti di piazzale Selinunte scoperchiano il vaso di pandora su un mondo. Ma quella realtà era già sotto gli occhi di tutti: su TikTok e Instagram questi trapper già allora avevano una base di pubblico solida, ragazzi affascinati dal mito del cantante ‘autentico’, rissoso, che fa quello che mette in rima. Droga, armi e guanti di sfida che portano alla violenza. Alla faida di strada. La più nota e cruenta passata dalle parole ai fatti è quella tra il gruppo di Baby Gang e di Simba La Rue contro quello di Baby Touché, al secolo Mohamed Amine Amagour: giovanissimo rapper di Padova, anche lui di origini marocchine. Per riavvolgere il filo è necessario tornare allo scorso 29 luglio, quando vengono arrestate nove persone legate al rapimento del video e a un altro caso di violenza. Con questa operazione coordinata dalla procura di Milano, si scopre così che la faida è iniziata almeno cinque mesi prima. E cioè il 14 febbraio: uno della banda di Simba La Rue viene rapinato e accoltellato nei pressi della stazione di Padova. Diventa subito una questione sui social a colpi di stories, in un crescendo di minacce: “Lo avete accoltellato da dietro nel polpaccio (...) questo è il vostro massimo”, scrivono quelli di Simba accompagnando con emoticon di scherno. La risposta arriva a stretto giro. Il teatro stavolta è Milano. Alle 2.40 del mattino del primo marzo, Akrem Ben Haj Aouina (molto vicino al trapper Baby Touché) e Thomas Calcaterra, assieme ad altre due ragazze, sono in Porta Venezia, vengono intercettati da un gruppetto di ragazzi a volto coperto. Calci, pugni e coltellate. Tra gli arrestati per questo episodio c’è una delle due ragazze, Sara Ben Salha: è lei che fa da esca, viene “incaricata di attirare la vittima Aouina con la scusa di un appuntamento galante - si legge nell’ordinanza - al fine di rendere possibile l’agguato”. Per comunicare agli amici i suoi spostamenti, condivide la posizione di WhatsApp per otto ore in modo che si possa monitorare per tutta la durata dell’appuntamento. Con tanto di cuffia bluetooth per dare aggiornamenti. La guerra a questo punto è dichiarata: “A Milano se dobbiamo girare, adesso stiamo attenti fra’, perché siamo entrati in una war zone con quelli di Padova”, dicono intercettati due degli arrestati per quell’aggressione. Passa il tempo, il risentimento cova. Del gruppo di Simba La Rue, fa parte anche Baby Gang. I due da mesi hanno gli occhi addosso di polizia e carabinieri. È la notte tra il 2 per il 3 luglio scorsi, in corso Como, sono fuori dal locale 11Club Room, in 13, due minorenni. Nasce una discussione con due senegalesi, che tirano fuori per primi la pistola. Ma presto la situazione si ribalta. Dal gruppo di Baby Gang cominciano a picchiare selvaggiamente i due: a un certo punto spunta anche un ferro, stavolta vero, che ferirà alla gamba uno degli avversari. Faida dei trapper a Milano, arrestati Baby Gang e Simba: risse e pistole nel cuore della movida - Baby Gang e Simba La Rue finiscono arrestati assieme ad altri nove per questi fatti. Diranno che i due senegalesi volevano rapinarli e loro si sono solo difesi. Ma intanto si è sparato per strada, con feriti. Finisce dentro anche Tuci Eliado, 32 anni albanese, “il Lupo”, socio di Baby Gang al bar “Smoke One” di Pioltello, suo tour manager, Daspo a pioggia. C’è “Mario” (Marilson Paulo Da Silva), 27 anni, originario della Guinea Bissau, fa il modello ed è il principale manager di Baby Gang, sui social si mostra sempre elegante e con una montatura degli occhiali da intellettuale, indossando abiti di alta moda e taggando i marchi per cui posa. Post intervallati da fotografie di Baby Gang, con rimandi al profilo “No Parla Tanto Records”, la loro etichetta indipendente trap/drill. C’è ancora Chakib Mounir, detto “Malippa”, è anche lui un manager di Baby Gang, così come di Simba La Rue e di un terzo, Escomar. Parla molto Malippa, anche intercettato dai carabinieri della compagnia Duomo: “Sì, ma questi qua - dice intercettato parlando con un’amica - hanno iniziato a sparare addosso a noi! Hai visto, no? Il problema... sai perché nessuno di noi ha sparato un colpo? Perché noi non spariamo in aria, è quella la verità! I nostri ragazzi, se sparano, sparano addosso alla gente”. Andrea Rusta, detto ‘Asap’, è nato in Albania e ha 22 anni. Habitué di serate e concerti degli amici trapper, quella sera ha il gesso al braccio e mena come un ossesso: “Ho tirato veramente il calcio a quelli che vai alle giostre, hai capito? Tipo il punchball per i piedi, così gliel’ho tirato”. Un mondo lontano dai cliché - Milano è stato il centro di gravità di questa piccola tribù. Le produzioni e lo staff della RM4E (Real Music for Ever) e della sua gemmazione 7Zoo - le etichette di successo della scena locale trap - hanno fatto da collante per la maggior parte di questi ragazzini cresciuti tra autotune e lampeggianti. Diciassette ne ha censiti la Questura milanese nel suo lavoro di approfondimento sul fenomeno: gli analisti di Squadra mobile e Divisione anticrimine hanno compilato le schede lavorando sui dati crudi: 13 denunce per furto, 12 per resistenza, 11 per rapina, armi e lesioni, 9 per minacce, 7 per spaccio e vilipendio, e così via a scendere per un’altra mezza dozzina di reati. Ma lo studio, intitolato “Rapper Crime”, il primo del suo genere in Italia, è andato oltre. Risalendo agli orientamenti religiosi e politici, ai quartieri e alle etnie, alle parole chiave. Scoprendo una realtà parzialmente difforme rispetto ai cliché. Quello degli italiani di seconda generazione è il primo. I figli di immigrati esistono, così come i ragazzi maghrebini senza la nostra carta d’identità e quelli con cognomi milanesi e romani, brianzoli e padovani. L’appartenenza ideologica, per quanto fluida, è un altro spartiacque. E va in direzione opposta rispetto a quanto si disse e si scrisse, nel gennaio del 2020, dei Gola’s Locos 27, la prima delle crew a finire nelle cronache nere della città. Appartenevano quei ragazzi tutti campionamenti e pistole (finte) a un collettivo con base in via Gola, a pochi passi da un radicato centro sociale, dal glamour dei Navigli e da un grumo di case occupate dove gli abusivi gestiscono ingressi e affitti. Un vago ideale squatter era il punto di saldatura di quelle anime che a Capodanno, per festeggiare, avevano dato fuoco a un enorme falò e assaltato le autopompe dei vigili del fuoco. I protagonisti di questa saga, così distanti dal centro nei loro alveari a San Siro, guardano invece a destra. Non alla Lega di Matteo Salvini: “vergognoso”, scriveva Sami Abou El Hassan detto “Sacky”, per bocciare un post Matteo Salvini in supporto di Israele. Anzi, ecco gli hashtag di “Neima Ezza” in favore della Palestina, ecco il video di Mattia Barbieri (“Rondo da Sosa”, che ottenne l’onore di un ricevimento ufficiale dal sindaco Beppe Sala) che beve acqua durante il Ramadan. Ma poi anche una canzone di “Keta” (Mohamed Aziz Khemiri) che si fa beffe del mese di digiuno e penitenza: “Non ho mai bevuto, sto fatturando pure, fra’, stando anche seduto”. E allora, come riferimento ideologico di chi canta soldi e donne facili, arriva lui. Silvio Berlusconi. Eroe di “Baby Gang” che, a tre settimane dal voto, ne fa sui social un santino elettorale: “Gira e rigira il Capo rimane sempre lui quando c’era lui l’Italia era la vera Italia non si può dire nulla a sto uomo votate tutti Silvio Berlusconi”. Con il tag di Forza Italia. E la retromarcia (dopo le polemiche) è un nuovo endorsement: “Non sono qua a fare il pentito né a rimangiarmi le parole ma”, fece sapere il ragazzo, “la roba del (votate Berlusconi Forza Italia) era ironica”. Un ammiccamento (“Non mi metto a fare da cartello pubblicitario a Berlusconi senza che mi dia 1€”) e un nuovo peana: “Rimane sempre il numero uno per me e tante idee politiche le appoggio pure”. Guarda caso quelle sulla giustizia, sulla scarcerazione e pure sull’immigrazione, tanto che Mouhib si è sentito in dovere di rivolgere un messaggio ai suoi connazionali: “Tanti miei compaesani maranza si sono arrabbiati perché ora in Marocco sta girando voce che sono razzista”. Dal 15 dicembre 2018, esordio in società dei trapper milanesi con il primo video convocato sui social da “Neima Ezza” sotto lo stadio, di strada ne hanno fatto parecchia. Strizzando l’occhio, durante la pandemia, anche ai cortei No Green Pass nel momento di massima espansione, senza però andare oltre un generico ribellismo (“Attacchiamo quella volante”) o l’adolescenziale provocazione (“Andiamo a rubare! Philipp Plein, Gucci!”). Il vero punto di non ritorno è stato il nuovo video girato da Neima Ezza e soci in via Zamagna, la battaglia contro trecento agenti in assetto antisommossa del 10 aprile 2011. La risposta, con le perquisizioni a tappeto in tutta San Siro, una settimana dopo, certificava che lo scontro era aperto. Da lì, una spirale senza fine. L’assalto collettivo e la sassaiola fuori dalla discoteca Old Fashion del 12 luglio, per punire i buttafuori intransigenti e il rapper rivale Giuseppe Bockarie Consoli detto Laioung. Le rivoltellate tra Kappa 24 - il 33enne Islam Abd El Karim - e l’ex amico Carlo Testa, 8 gennaio 2022. La sparatoria di corso Como del 3 luglio. E in mezzo, un rosario di piccole rapine, di episodi di spaccio, di video turbolenti, fino al tentativo di noleggiare un pullman scoperto per andare in Duomo a far casino: era il 26 maggio 2022, il Milan aveva festeggiato allo stesso modo il suo scudetto, solo tre giorni prima. La Digos se ne accorse in tempo e vietò tutto. Ma nuovi trapper violenti stanno crescendo in città e dintorni. Da “Nuflex”, arrestato a maggio con 385 grammi di coca e 30 di hashish in casa, a “Jordan Jeffrey Baby” e “Traffik” che il 10 agosto si erano filmati alla stazione di Carnate mentre pestavano un immigrato e gli urlavano contro. “Vogliamo ammazzarti perché sei nero”. Devono rispondere di rapina aggravata da discriminazione razziale. Per ognuno dei diciassette rapper tracciati (Vale Pain, Kero, Kilimoney, Samy, Mister Rizzus, Diablobaby, Zefe) dalla Questura c’è una foto segnaletica, una scheda, un archivio di precedenti. L’album di famiglia dei Rapper Crime. Bevo solo Makatussin nel bicchiere - Se c’è un filo che lega Milano a Roma non è solo nelle gesta di Traffik, Gianmarco Fagà, 25 anni, che nel 2019 minaccia il dipendente del Burger King in piazzale Flaminio nella capitale (“Il filippino faceva il simpatico, gli ho il tirato un vassoio sui denti”) e poi incassa una denuncia da tre fan che lo accusano di averli picchiati con un tirapugni e rapinati del cellulare dopo un selfie alla stazione Termini. Nella capitale i ragazzi bevono ‘Viola’ al ritmo di trap: gli sciroppi per la tosse a base di codeina allungati con la Sprite o la gazzosa per ottenere una sostanza color viola che rende euforici. La moda Usa delle “Purple drunk” adesso spopola tra i giovanissimi da 16 e i 18 anni che nelle notti di movida si sballano sulla scalea del Tamburino. I 126 gradini che uniscono Trastevere a Monteverde, nel cuore di Roma, ufficialmente sono intitolati alla memoria di Domenico Subiaco, giovane tamburino del I Reggimento fanteria morto per difendere la Repubblica Romana. Per i ragazzi quella è la scalinata di Ketama126 e degli altri componenti della Crew126, un rimando diretto al numero di gradini che compongono la rampa. Perché lì si radunavano anche loro, prima di sfondare. È stata sufficiente una storia sul profilo Instagram di Ketama126 per trasformarla in un grande punto di raduno per le comitive cittadine. Con i conseguenti problemi di ordine pubblico, specie nell’estate del 2020, subito dopo il primo confinamento. “Bevo solo Makatussin nel bicchiere/ sciroppo cade in basso come l’Md/ io non cado in basso sono ancora in piedi”, recita una strofa di “Sciroppo”, un testo di Sfera Ebbasta. Il brano è un inno alle ‘Purple drunk’. Le bottiglie di sciroppo al mattino ricoprono la scalinata cara a Ketama e agli altri, insieme ai blister vuoti di Xanas. Farmaci e psicofarmaci per sballarsi. Che in questo caso non producono un effetto calmante, al contrario rendono i giovanissimi euforici e aggressivi, “saltano come grilli - denunciano i residenti - e aggrediscono i passanti in branco”. Le forze dell’ordine intensificano i controlli e spesso sono costretti a transennare la scalea. L’autostrada lisergica del Sole - Viola non gira solo li. Ascoltano “Autostrada del sole” (feat Massimo Pericolo e Crookers) i ragazzi che si sballano con le ‘Purple drunk’ ai quattro angoli della città: “Chiamami un pusher non un dottore/ dentro di me c’è l’autostrada del sole - recita il ritornello - nomi di donna dati alle pistole/ entrambe mirano al cuore”. La trap è ormai un fenomeno e le forze dell’ordine sono costrette a farci i conti, da ogni punto di vista. Gli agenti del distretto Prati proprio nell’estate del 2020 concludono un’indagine su un traffico clandestino di nuove sostanze, gestito dai minorenni per il loro coetanei. La filiera era gestita da 12 ragazzi, tra i quali tre minorenni, tutti figli dell’alta borghesia del centro cittadino, residenti tra Ponte Milvio, il rione Prati e il Flaminio. Alcuni di loro avevano rubato i ricettari ai genitori medici per procurarsi le medicine e poi distribuire agli amici la ‘New Joint’: una miscela letale di ossicodone (un antidolorifico derivato dell’oppio, parente della morfina), metadone, morfina appunto e codeina. Gli investigatori hanno studiato i video postati su Instagram, hanno intercettato le conversazioni utili a scambiarsi informazioni, con tanto di indicazioni posologiche, sui medicinali come il ‘Deplagos’, chiamato dai ragazzi ‘Perk’, termine utilizzato anche dai trapper. È fuori di sé anche Traffick quando nel marzo del 2019 viene ripreso in video mentre prende a calci la porta a vetri del fast food in piazzale Flaminio, a due passi da piazza del Popolo. Minaccia il lavorante filippino, finché un addetto alla sicurezza non riesce ad allontanarlo. Il video diventa virale il giorno stesso e lui, puntuale, replica su Instagram: “Nessuno fa il simpatico ok? Perché io so dove lavori, cosa fai il simpatico? Ti metto dentro la friggitrice! - minaccia l’addetto - Non è che vado a disturbare chi lavora io. Io sono tornato gli ho tirato un vassoio in faccia”. Un mese prima, il 23 febbraio, Traffick, insieme a Gabriele Magi, in arte Gallagher, 27 anni, aveva aggredito tre fan che gli avevano chiesto un selfie e qualche autografo all’uscita della metropolitana alla stazione Termini. Prima la foto, poi calzano il tirapugni e menano le mani, picchiano e rapinano i tre ragazzi e anche un passante, un 50enne bengalese che aveva avuto la sfortuna di incrociarli sulla sua strada e al quale tentano di portare via il cellulare. La coppia di trapper è stata condannata a due anni con rito abbreviato. Dalla strada al web, quando non cantano, i trapper romani molto più spesso si esibiscono nel ‘dissing’: risse verbali, minacce che spesso sono utili per acquisire seguaci e popolarità in rete. “Ti spacco la testa bro, con me non si scherza, stai a catena (a cuccia)”, è una delle tante invettive che Traffick lancia ai rivali, su Instagram. Né lui, né Gallagher sono cresciuti in ambienti particolarmente difficili, come nel caso di Pepi, Ion, Er gitano, i vecchi rapper del decennio precedente, nati e cresciuti nella borgata di Tor Bella Monaca, una delle piazze di spaccio più grandi d’Italia. Traffick e Gallagher sono figli della borghesia romana. Mescolano lo slang giovanile a un vocabolario ispaneggiante. Mimano i linguaggi e i comportamenti di chi vive in strada, ma dopo i colpi di testa si vantano pubblicamente di aver alle loro spalle avvocati “fortissimi” che li faranno scagionare da ogni accusa. Come gli adolescenti delle baby gang, che del resto costituiscono il loro pubblico di riferimento, utilizzano i social come piazza virtuale nella quale imporsi, per garantirsi la notorietà e un’ulteriore ascensione sociale. È diversa invece la storia di Sayanbull, al secolo Alex Refice, classe 1995. Nasce e cresce nella borgata romana di Tor Marancia, oggi al centro di un tentativo di riqualificazione. Ha un passato difficile, ma con la musica si è emancipato. Eppure in una delle ultime clip abbraccia Niko Pandetta. Canta “Pistole a via Libetta”, la strada dei locali a due passi dal vecchio porto fluviale di Roma. “Pezzi (di coca) sopra l’iPhone/ squilla e non risponde - fa il brano - pistole a via Libetta come fosse normale”. I toni sono violenti ma certo non sconvolgono uno dei personaggi romani ormai più noti al grande pubblico. Massimiliano Minnocci, in arte ‘Il brasiliano’, “perché da ragazzino - racconta - a pallone ero il più forte di tutti”. Fisicità imponente e bicipiti tatuati, come parte del viso, Minnocci nasce e cresce nella borgata di Pietralata, quadrante Nord-Est, lì dove dovrebbe sorgere il nuovo stadio della Roma. Non gli dispiacerà, visto il passato da ultrà della Roma e un daspo ancora in corso. Brasiliano non fa musica, ma i trapper romani li ha incrociati tutti, nel corso della sua scalata ai social, da quando, nell’autunno del 2018, completamente fuori di sé per via della cocaina, affronta la polizia schierata nel quartiere per una manifestazione di CasaPound e un contro-presidio delle realtà antifasciste. Il video di Minnocci ammanettato in commissariato diventa virale e lui ringrazia. “Quel video è stata la mia fortuna”, ha detto più di una volta in diretta Instagram l’influencer, che ha abbandonato la criminalità per dedicarsi esclusivamente alle sponsorizzazioni via web. Recentemente ha pubblicato anche un libro La vera storia del Brasiliano. “Da piccolo il mio eroe era mio padre, e faceva reati - dice - se avesse fatto l’avvocato io avrei fatto l’avvocato come lui. Per questo dico ai ragazzi, studiate, lasciate stare le droghe e godetevi la vita, che la vita è bella”. Birds in The Trap. Se l’unica arma necessaria è il talento - Che cosa c’è prima del machete nello zaino o delle armi mostrate su Instagram e portate per strada? E cosa resta dopo le notti di ‘lean’, coca e ossicodone? Per rispondere va fatto un passo di lato. Depositare la violenza e le risse, le pose e il consumo di droga su uno sfondo. Fatta questa tara, comprendere la trap significa innanzitutto non criminalizzare un’intera scena musicale, un’intera generazione. E comprenderla significa incamminarsi verso il “blocco”: andare incontro alle lunghe distese di decrepita edilizia popolare in cui la Trap fermenta per poi arrivare nel cuore delle città. Significa andare tra i serpenti di cemento poveri di forme canoniche di comunità, deboli di Stato, che circondano Milano come Napoli, Roma come Torino. E significa, preliminarmente, accordarsi sui termini. Esplorare un codice. La trap è una derivazione del rap, cosi come quest’ultimo si è evoluto nel Sud degli Stati Uniti d’America. Ad Atlanta, per l’esattezza, metà degli anni ‘90. Nelle “trap house”, gli edifici abbandonati in cui venivano prodotte e vendute sostanze stupefacenti. La ‘Trap Music’ è la trasmissione orale di forme di esperienza maturate in quel contesto. “Il codice espressivo è pungente, a volte scioccante. C’è un uso iperbolico di certe immagini e rappresentazioni. Vi è una paradossale esaltazione di contesti di marginalizzazione sociale, del declino delle periferie e dei quartieri di edilizia pubblica, dove si mitizzano aspetti che in realtà presentano un retroterra tragico. In questo senso va inquadrato il tema della violenza, ma anche il tema dell’abuso di sostanze psicotrope e la celebrazione parossistica del denaro”, ci dice Emanuele Belotti, sociologo del Dipartimento di Architettura e Studi Urbani al Politecnico di Milano, che della trap ha fatto uno dei suoi oggetti di studio - leggere Birds In The Trap, Bordeaux Edizioni - e con la sigla Signor K. la sua personale forma d’arte. Un canto, quello della trap, che introietta il “No Future” e dagli Stati Uniti si espande, nell’ultimo ventennio, in contesti sociali simili. In Inghilterra, in Francia. E in Italia, in quelle periferie dove Il 28,6% della popolazione è ancora a rischio di povertà o esclusione (Istat, 2021). L’impossibilità di mobilità sociale, l’emancipazione economica come utopia. La trap “è un megafono per giovani delle classi subalterne che conoscono queste condizioni di privazione e svantaggio, a volte persino di negazione dei diritti civili: è ingenuo attendersi da loro inni alla joie de vivre”. C’è una caratteristica, forse è quella principale: la trap offre la possibilità di esprimersi in maniera non mediata. Ancora Belotti: “Le classi subalterne sono sempre state raccontate. Anche magistralmente, pensiamo a De André e Pasolini. Ma l’opportunità di narrarsi in prima persona, senza mediazioni culturali, è un fatto epocale. Per la prima volta, il rap ha dato a questa generazione di giovani una chance di espressione. E questa generazione ora sbatte sul tavolo e mitizza proprio quegli elementi di cui si alimenta lo stigma e le narrazioni sovente sprezzanti di cui sono oggetto. Qui c’è anche un elemento di provocazione”. Di rivalsa. Si pensi a Marracash, alla sua Vendetta, 2015: “La mia vendetta è che i tuoi figli ascoltano i miei testi, e sognano di diventare quello che detesti”. Provocazioni e rivalsa che non restano senza effetti. Anzi, che vengono messi a mercato. Perché non si tratta solo di parole, di rime. Si tratta di soldi. Classifica Fimi di metà ottobre 2022: dei primi 50 album in classica, 35 sono riconducibili al genere, nella quasi totalità intestati ad artisti under 40. “Parliamo di un’industria che, in Italia, prima del successo del rap, era in ginocchio e che oggi vale 332 milioni di euro l’anno, con una crescita che nel 2021 ha sfiorato il 28% (Fimi 2021). Una locomotiva trascinata da questi artisti, che lascia stupefatti nel quadro di bassa crescita che caratterizza l’economia del paese da oltre due decenni”. Una locomotiva che non è solo musicale ma intrinsecamente visiva. Certo, il videoclip esiste da decenni e l’immagine ha sempre accompagnato le star della musica popolare. “Ma oggi ci sono le stories, i selfie e i post condivisi nel quotidiano. C’è Instagram, Youtube e Tik Tok. Non dobbiamo ascoltare solo la musica e interpretarla in quanto tale. Per capire l’opera bisogna guardare la loro produzione multimediale nel quotidiano. Cosa stanno facendo? Fiction, un nuovo tipo di fiction, che non ha nulla da invidiare per fatturati alle fiction tradizionali ma che è certamente molto più economica”. E in Italia come altrove la trap si indirizza verso un immaginario che ha a che fare con il tipo-criminale, il gangster. “Il ‘gangsta rap’ è sempre esistito, ma oggi c’è un’offerta sovrabbondante e saturata di queste narrazioni”, dice ancora Belotti. “L’intreccio tra gang di strada e rap, o la scena ‘grime’ nel caso del Regno Unito, sono oggetto di discussione pubblica un po’ ovunque. A Londra, analizzando riferimenti codificati nei testi le forze dell’ordine sono riuscite a risalire ad autori di episodi violenti, persino omicidi”. E il fatto che simili dinamiche siano state replicate in contesti così diversi pone un interrogativo. “Chi ha costruito i presupposti per la circolazione transnazionale di questi contenuti e per il loro successo? I Colle der Fomento, storico gruppo underground italiano, nel brano Sul tempo dicevano: “controllano rivolte e le vendono con uno spot o con un video musicale, poi piangono e accusano se qualcuno si fa male, regalano la violenza ai miei fratelli, poi vogliono tenere fuori quelli che non sono buoni o belli”. Un passaggio eloquente. Le grandi case discografiche hanno un ruolo determinante nel plasmare il consumo musicale”. Insomma, sono gli artisti o le case discografiche a costruire attenzione attorno a questi contenuti? “Penso che oggi la verità sia a metà strada. Il ‘gansta rap’ è un format che funziona, e centinaia di giovani hanno visto e colto una opportunità. A decine hanno potuto costruirsi così una professione nel mondo della comunicazione e alimentare un notevole conto in banca”. Opportunità. In un Paese dove una persona tra 15 e 34 anni su quattro è classificata come NEET: non lavora e non frequenta corsi di istruzione o formazione professionale. Dove le retribuzioni sono basse e la precarietà è strutturale. “Indipendenza dalla famiglia e una capacità di spesa gratificante: se le condizioni di ingresso nel mercato del lavoro non soddisfano questi due requisiti, come si può immaginare che giovani, che magari hanno interrotto gli studi, siano incentivati a lottare per permanervi?”. E la questione rimanda al tema del commercio di sostanze psicotrope: “in particolare, di quello più minuto: perché in questo scenario è chiaro che possa diventare una alternativa allettante, specie se non si appartiene a una rete familiare provvista di mezzi economici, relazioni sociali e solida dotazione culturale. Non penso si tratti necessariamente di una scelta obbligata, ma costituisce senz’altro la via più pratica per sottrarsi a un futuro designato e frustrante”. Lo dice molto bene ancora una volta Marracash in 20 anni (Peso), dove canta la condizione di ventenne nel quartiere, descrivendo lo spaccio come il solo “commercio” per ragazzi “in gamba anche più dei ragazzi del centro”, ma “senza porte di accesso ad un business onesto”. Ed ecco lo sfondo, la zona d’ombra. Ciò che bisogna sforzarsi costantemente di vedere. Anche quando viene mortificato dalla stupida, ostentata e perpetuata violenza urbana. “Resta in ombra il talento che questa generazione di rapper esprime al di là delle ambiguità e ambivalenze di cui certo il fenomeno non è esente, e che pure hanno finito per monopolizzare la discussione pubblica. Questi rapper esprimono il potenziale di nativi digitali che usano software craccati, smartphone e piattaforme social gratuite con l’abilità che siamo soliti attribuire ai professionisti”. Giovani, talvolta di origine straniera, che si sono misurati con l’abbandono scolastico, la violenza e la deprivazione materiale, che “hanno saputo trascinare la risalita di una industria musicale in grave affanno, rivoluzionandone codici espressivi, canoni e sonorità. Un caso di allineamento esemplare tra ricambio generazionale, creatività al servizio dell’innovazione, e rilancio industriale nel campo dell’economia digitale, capace di creare mobilità sociale per mezzo dell’iniziativa imprenditoriale di giovani ai margini delle nostre città”. Ciò che resta nell’ombra ma che non va perso di vista è un piccolo miracolo, insomma, “che le politiche di quartiere dovrebbe prendere in seria considerazione. Un miracolo che rende ancora più amaro constatare come percorsi brillanti di riscatto possano spegnersi sul nascere in una rissa senza senso all’alba di un sabato estivo qualunque”. Birds in The Trap, uccelli in gabbia, appunto. A cui Emanuele Belotti, non più da ricercatore ma da “collega”, dice, infine: “Avete un talento eccezionale tra le mani, è l’unica arma di cui avete bisogno, non dimenticatelo per nessuna ragione”. Milano. Morto in carcere dove non doveva stare: per il pm non ci sono responsabili agi.it, 23 ottobre 2022 La Procura di Milano ha chiesto di archiviare l’indagine sulla morte in carcere di Giacomo Trimarco, il ragazzo di 21 anni trovato morto il primo giugno scorso a San Vittore dove non sarebbe dovuto stare perché era in attesa da mesi di essere collocato in un luogo di cura per un grave disturbo psichiatrico. Per la madre non è stato un suicidio - Stando a quanto si è appreso, dagli esiti dell’autopsia emerge che è deceduto per ‘inalazione di gas butano’ e non si ravvisano possibili responsabilità nella gestione del suo caso. “Se le cose stanno così - dice la madre Stefania all’AGI - Giacomo non si è suicidato perché sniffando il butano, come fanno molti detenuti, voleva liberarsi dal malessere che viveva in carcere e non uccidersi. Si sa che i reclusi usano quelle bombolette non solo per cucinare ma per l’effetto simile all’eroina”. Il giovane era recluso per il furto di un telefonino. Da due mesi era destinato a una Rems e da nove aspettava di essere collocato in una comunità terapeutica perché soffriva di un disturbo borderline ma per lui non c’era posto anche a causa delle liste d’attesa lunghe in media 304 giorni. Tanto deve attendere chi, per legge, dovrebbe stare nelle strutture che hanno sostituito gli ospedali psichiatrici giudiziari. “Di lui non importava niente a nessuno” - La madre Stefania pensava che il carcere fosse il posto meno pericoloso dove aspettare perché l’avrebbe tenuto lontano dalla dipendenza dall’alcol. Invece poi “è andato tutto storto. Di Giacomo non importava a nessuno, dal Sert ai servizi psichiatrici nessuno ha ascoltato la nostra richiesta di aiuto. Una comunità l’ha respinto perché era troppo ‘impegnativo’. E lui peggiorava, sempre di più”. Racconta la signora Stefania che Giacomo, figlio adottivo con importanti traumi alle spalle, “era molto altro oltre la sua malattia. Aveva la voce di un angelo, suonava il flauto, disegnava e con le mani sapeva fare tutto. Costruiva anche macchinette per i tatuaggi in carcere col materiale che trovava”. Milano. Morto il fondatore della Scu Umberto Bellocco: era al 41bis dal 1993 Gazzetta del Sud, 23 ottobre 2022 Già detenuto presso la Casa di Reclusione Milano Opera in regime 41bis, è morto Umberto Bellocco che, all’inizio degli anni 80, fu l’artefice della creazione di una nuova organizzazione criminale in Puglia: la Sacra Corona Unita in opposizione alla nuova camorra organizzata pugliese. Fu arrestato una prima volta nell’83, a Lecce, e condannato a 3 anni di carcere per detenzione illegale di armi. In seguito fu accusato anche di diversi omicidi, estorsione, traffico di droga e associazione a delinquere di stampo mafioso, ma fu assolto in molti dei suoi processi. Fu ancora condannato 14 anni per traffico di droga. Rilasciato nell’88 per lo scadere dei termini di detenzione e si diede alla latitanza, ma venne nuovamente arrestato nel 1993. Bellocco ha trascorso i suoi ultimi giorni con familiari più stretti dal momento che i suoi avvocati, i legali Cianferoni e Pintus hanno chiesto e ottenuto la sospensione della pena e l’allocazione in regime ospedaliero con possibilità di incontro continuativo durante le ultime fasi di vita con i familiari più stretti. Una denuncia è stata già presentata perché sia fatta chiarezza su eventuali responsabilità in ordine alle mancate cure da parte dei sanitari competenti. Milano. Ipm Beccaria, 9 nuovi “baby detenuti” in un mese di Marianna Vazzana Il Giorno, 23 ottobre 2022 Nel carcere minorile non c’è più posto. Fabrizio Rinaldi, neo direttore: “Incentiviamo il ponte tra dentro e fuori”. Rapine in strada, anche in pieno giorno. Vittime picchiate oppure costrette sotto minaccia a prelevare al bancomat. Età media che si abbassa: basti dire che della “Z4”, la baby gang di Calvairate e Corvetto smantellata dai carabinieri la settimana scorsa facevano parte due dodicenni (non imputabili), tra cui una ragazzina che ha compiuto gli anni meno di tre mesi fa. Un tema caldo, quello della violenza giovanile. E l’Istituto penale per i minorenni Cesare Beccaria è al completo, con 38 ragazzi detenuti, di cui il più giovane ha 15 anni. Come intervenire? Come arginare questa esplosione di rabbia? Ne parliamo con Fabrizio Rinaldi, che da un mese dirige la struttura minorile. Cinquantaquattro anni, di origine partenopea, ha raccolto la sfida continuando a guidare anche la Casa circondariale di Como. Una missione iniziata 25 anni fa con la vicedirezione del carcere di San Vittore. È la prima volta che dirige un istituto penale per minori? Quale aspetto l’ha colpita di più, al suo arrivo? “Sì, è la prima volta. Io ho pensato che fosse un’esperienza da fare, per arricchire me e soprattuto aiutare i ragazzi. Ho trovato un’ottima organizzazione e apprezzo in particolare la collaborazione tra operatori penitenziari, enti locali e realtà del privato sociale, tutti impegnati per il recupero dei ragazzi. L’impegno che ci vuole, per aiutare un giovane, è maggiore rispetto a quello che richiede un adulto. Noi ci occupiamo di creare percorsi personalizzati, e penso che la priorità ora sia incentivare il “ponte”, che già esiste, tra dentro e fuori dal carcere”. Che cosa la preoccupa di più? “L’incremento dei nuovi ingressi. A febbraio sono entrati 9 nuovi ragazzi (6 nello stesso periodo dello scorso anno) e sarebbero stati di più, se ci fosse stato il posto. Adesso abbiamo 38 giovani (30 nel 2021), in una struttura che ha capienza massima di 36. Una capienza ridotta perché c’è un’ala in fase di ristrutturazione da oltre 10 anni (i lavori dovrebbero concludersi entro l’anno) ma anche per le regole anti Covid che hanno ulteriormente limitato gli spazi. Le aree prima utilizzate per ospitare gli arrestati in flagranza ora servono per l’isolamento prima dell’ingresso nel gruppo e nel caso di positività, quindi i ragazzi che non possiamo accogliere vengono mandati in altre strutture. I contagi hanno reso più difficile l’organizzazione: abbiamo avuto 8 casi positivi in contemporanea, che sono stati isolati. Ora l’allarme è rientrato. Con il Dipartimento e il Centro per la Giustizia minorile ci si sta impegnando fortemente per assicurare la migliore accoglienza possibile, anche ricavando nuovi spazi”. Nelle baby gang ci sono partecipanti sempre più giovani. In certi casi, si è notato sui social, bambini tengono pistole in pugno. Come inquadra il fenomeno? “Attualmente bambini e ragazzi tendono a bruciare le tappe in tutto. Non mi meraviglio che anche nel delinquere si anticipino i tempi. Non bisogna dimenticare l’impatto dei lockdown: per tutti, ma soprattutto per i giovanissimi, è stato molto pesante e traumatico dover stare a casa per tanto tempo”. E com’è il primo impatto con il carcere, per i nuovi arrivati? “Molto traumatico. Noi cerchiamo di attenuarlo, con educatori e psicologi. Perdere d’un tratto la libertà, le proprie abitudini, non poter più utilizzare internet, per un adolescente è un grosso problema. In più va incontro a una “doppia reclusione” perché all’ingresso è obbligatorio un periodo di isolamento anti Covid. Anche in carcere si creano dinamiche di gruppo ma c’è più controllo e ognuno impara a essere “responsabile per sé”. Quali sono i principali reati per cui i ragazzi vengono accompagnati in carcere? “Oggi come l’anno scorso, quelli contro il patrimonio (come le rapine) e a seguire contro la persona (come le lesioni)”. In cosa consiste il recupero? “L’obiettivo è la responsabilizzazione. Far scattare una presa di coscienza. Non c’è una ricetta. Tendenzialmente, di giorno si segue l’attività scolastica e, poi, laboratori: panificazione, falegnameria, attività culturali e di svago come calcio, palestra (spazio donato dalla Fondazione Francesca Rava), teatro, grazie alla compagnia Puntozero. Cerchiamo di educare alla bellezza facendo scoprire nuove possibilità di espressione”. Ha in mente altri progetti? “Certamente, nei nuovi spazi restaurati, ci sarà modo di incrementare le aree di socialità e di pensare ad altre attività. Fondamentale è mantenere il rapporto con l’esterno, sviluppare possibilità di crescita e di lavoro, in modo che una volta fuori si possa davvero sperimentare il cambiamento”. Reggio Emilia. “Da trent’anni dalla parte delle persone più fragili” Gazzetta di Reggio, 23 ottobre 2022 La coop sociale L’Ovile si prepara per il trentesimo anniversario. “Negli ultimi dieci anni abbiamo quasi triplicato il numero dei dipendenti, passati da 160 a 375, di cui 181 soci-lavoratori, rafforzando decisamente la nostra capacità di inclusione al lavoro di persone in condizioni di fragilità, che nel 2021 hanno rappresentato una quota superiore al 50% sul totale dei lavoratori”. Si avvieranno il 5 novembre, nell’Aula Magna dell’Università di Modena e Reggio Emilia, le celebrazioni del trentennale della cooperativa sociale L’Ovile che, con quasi 15 milioni di fatturato, 327 soci e 375 lavoratori, rappresenta la realtà di maggiori dimensioni tra le coop sociali del sistema Confcooperative. “Inizieremo - spiega Valerio Maramotti, presidente de L’Ovile - approfondendo il tema delle migrazioni forzate legate ai cambiamenti climatici che si verificano sul nostro pianeta; fenomeni che, soprattutto nei Paesi più poveri del mondo, si consumano senza clamore, pur causando migliaia di vittime e costringendo milioni di persone ad abbandonare le loro terre. Con questo tema - prosegue Maramotti - daremo il via ad una serie di eventi che ci accompagneranno per diversi mesi e che abbiamo scelto per approfondire grandi questioni legate alle tante povertà e fragilità che si registrano nel mondo e anche nelle nostre comunità locali, ma anche le tante azioni solidali che connotano il nostro territorio e la stessa storia della nostra cooperativa”. Fondata nel marzo 1993 a Pratofontana nella comunità di don Daniele Simonazzi, la cooperativa sociale si dedicò, inizialmente, alla raccolta e alla vendita di cartone. “Un’attività povera - ricorda Maramotti - che comunque consentì di offrire qualche possibilità di lavoro a persone in grande stato di bisogno, tanto che il primo dipendente de L’Ovile fu un ospite del carcere di Reggio ammesso alle misure alternative e tra le prime donne avviate al lavoro vi furono giovani vittime di tratta”. Un’attenzione, quella riservata ai detenuti, e soprattutto a quelli della sezione psichiatrica, che caratterizzerà tutta la storia della cooperativa sociale reggiana, ancora oggi molto impegnata, sia con strutture d’accoglienza che con progetti e servizi, all’interno della struttura carceraria (con un laboratorio di falegnameria, tra l’altro), nell’accompagnamento al reinserimento e nell’ambito della giustizia riparativa. “Una prima e grande svolta nella nostra attività - spiega Maramotti, che sottolinea il forte legame originario con la Chiesa reggiana - avvenne nel 1994, quando l’allora Acia (oggi Iren) ci coinvolse nei progetti di esternalizzazione dei servizi di spazzamento e raccolta differenziata dei rifiuti, dando il via a quel ramo di attività legato a servizi ambientali, agricoltura e manutenzione del verde che oggi rappresenta il 30% del nostro fatturato”. La storia de L’Ovile è segnata, tra l’altro, da diversi processi di integrazione; nella coop sociale di via De Pisis - che a propria volta è stata tra i soci fondatori del Consorzio Oscar Romero e della Polveriera di Reggio - sono confluite altre importanti cooperative (l’Eco di Rubiera, Maia di Bagno e Il Villaggio di Casina), che hanno portato a una ulteriore diversificazione delle attività, che oggi, oltre ai servizi ambientali, riguardano l’accoglienza di migranti (25,4% del fatturato), le pulizie (12,8%), i servizi assistenziali (10,8%), le lavorazioni industriali (8,8%), e, ancora, educazione ambientale (con la struttura Ecosapiens), laboratori socio-occupazionali, commercio al dettaglio e produzione di energia. “Abbiamo costruito e continuiamo a costruire comunità - conclude Maramotti; - proprio per questo partiremo con le nostre celebrazioni guardando alle aree povere del mondo, a chi da esse fugge e bussa anche alle porte dei reggiani, ma allargando poi lo sguardo ai più fragili che nel nostro territorio chiedono azioni solidali e progetti di sostegno e accompagnamento che possono realizzarsi in un intreccio sempre più stretto di azioni pubbliche e private”. Prato. Detenuti e reinserimento sociale: il Progetto carcere cerca volontari tvprato.it, 23 ottobre 2022 Associazione Don Renato Chiodaroli e Caritas presentano l’esperienza martedì 25 ottobre nell’antico chiesino di Narnali. I detenuti che cucinano la pasta per le signore che si ritrovano a giocare a burraco nel chiesino di Narnali. L’esperienza, originale e molto apprezzata da entrambe le parti, è iniziata da poco ed è una delle tante attività messe in campo dal Progetto carcere curato dalla Caritas diocesana e dall’Associazione Don Renato Chiodaroli. L’obiettivo è quello di aiutare i detenuti a fine pena a reinserirsi nella società grazie a opportunità di lavoro e all’accompagnamento di operatori volontari. Tutto ruota intorno alla Casa Jacques Fesch in via Pistoiese a Narnali, che si trova proprio accanto all’antico chiesino prima citato, aperta per accogliere i familiari dei carcerati che affrontano un lungo viaggio per visitare i loro cari reclusi alla Dogaia e i detenuti bisognosi di un alloggio dove poter scontare l’ultimo periodo di pena. L’impegno profuso dall’Associazione Chiodaroli in questo servizio è lodevole e prezioso per tutta la comunità perché è confermato da tutti i dati statistici in materia che offrire occasioni di lavoro o semplicemente di formazione ai detenuti diminuisce la possibilità di recidiva in modo importante. Ma come tutte le attività di volontariato, anche questa ha bisogno di qualcuno che con generosità si metta a disposizione. “Cerchiamo uomini e donne che abbiano tempo e voglia di darci una mano, anzi di aiutare queste persone a ritrovare la propria strada”, dice Elisabetta Nincheri della Chiodaroli e una delle anime della Casa Jacques Fesch. Chi sono le persone adatte a questo servizio? “Tutti coloro che non pensano che l’unica soluzione per i delinquenti sia quella di metterli in carcere e buttare via la chiave - dice Elisabetta - basta avere un po’ di umanità, ma soprattutto non avere paura”. Elisabetta ammette di aver iniziato questo impegno con un po’ di timore: “Sapevo che uno dei “ragazzi” ospitati era stato condannato per omicidio. È difficile non avere brutti pensieri, ma occorre andare oltre il “fattaccio” commesso, vanno considerati non per quello che hanno fatto, ma per quello che sono: esseri umani”. Per fare un punto sul Progetto carcere e presentare questa opportunità di servizio a chi volesse dare una mano, è stato convocato un incontro nel chiesino di Narnali - via Pistoiese, 515 - martedì 25 ottobre, alle 21,15. Sarà fatta una breve introduzione alla realtà del carcere e ai bisogni dei detenuti e delle loro famiglie, si parlerà del servizio offerto a Casa Jacques Fesch, si lascerà spazio per approfondimenti e il dibattito tra i presenti. Per informazioni si può contattare la Caritas diocesana 0574-32858; caritas@diocesiprato.it. Prato. La storia di Manci, da detenuto a imprenditore che dà lavoro ai carcerati di Giacomo Cocchi tvprato.it, 23 ottobre 2022 Originario dell’Albania ha scontato dieci anni di carcere ed è “rinato” nella Casa Jacques Fesch della Caritas di Prato: “Tutti abbiamo diritto a una seconda opportunità”. “In questa casa sono rinato, posso dirlo senza esagerare: sono rinato”. Manci Gezim è un albanese di 33 anni e un terzo della sua vita lo ha passato in carcere. “Quali reati? Tanti capi di imputazione, anche gravi, non lo nascondo, ma oggi sono una persona diversa e questo lo devo alla Casa Jacques Fesch”, dice Manci che adesso ha un lavoro, è addirittura imprenditore, una moglie e una figlia di diciotto mesi. Il giovane albanese ha raccontato la storia della sua rinascita alla presentazione del bilancio sociale della Fondazione Caritas, è stata una testimonianza forte, commovente e utile per capire quanto bene possano fare i progetti di sostegno ai carcerati a fine pena. Jacques Fesch era un criminale francese convertito in carcere, a lui è dedicata la casa aperta da Caritas e gestita dall’associazione Don Renato Chiodaroli insieme al cappellano della Dogaia don Enzo Pacini. Manci Gezim ci arriva nel 2017 quando la casa, posta accanto al chiesino di Narnali in via Pistoiese, è in ristrutturazione. Il 33enne sta finendo di scontare dieci anni carcere, una volta fuori deve ricominciare da capo, non ha documenti, non ha una famiglia, non ha un lavoro, non ha un posto dove andare. Per quelli come lui il rischio recidiva è altissimo: quasi due detenuti su tre che non hanno opportunità, quando sono liberi tornano a delinquere. Gezim viene coinvolto dalla ditta Saccenti nei lavori alla Casa Jacques Fesch e impara il lavoro di muratore, per sei mesi vive nella struttura e qui viene aiutato da Elisabetta Nincheri, una dei volontari della Chiodaroli. Il giovane capisce che si stanno aprendo possibilità importanti per lui. Ricambia la fiducia data e inizia a costruire la propria vita. Conosce quella che diventerà sua moglie, il lavoro va così bene che decide di mettersi in proprio e aprire una impresa edile dove adesso lavorano nove dipendenti. “Di questi, tre sono ex detenuti - sottolinea Gezim - come hanno aiutato me, anche io voglio fare altrettanto”. Milano. Ri-scatti: le foto di detenuti e agenti che raccontano la vita in carcere di Chiara Vitali Avvenire, 23 ottobre 2022 Sessanta detenuti e quaranta agenti penitenziari di 4 carceri milanesi hanno immortalato la vita dei luoghi in cui vivono o lavorano. La mostra al Pac di Milano fino al 6 novembre. Un gruppo di uomini prende il sole nel cortile del carcere, direttamente sull’asfalto. Una detenuta invece apre la finestra della sua camera e la luce si posa su due letti e su alcune mensole. Ancora, un detenuto è seduto a leggere e di fronte a sé ha un murale con una riproduzione della “Creazione di Adamo” di Michelangelo. Sono immagini inedite, arrivano direttamente da quattro carceri milanesi e vedono autori d’eccezione: a scattare le fotografie sono stati sessanta detenuti e quaranta agenti penitenziari. Macchina alla mano, hanno immortalato la vita dei luoghi dove abitano o lavorano. Oggi 800 dei loro scatti sono visibili nell’esposizione “Ri-scatti. Per me si va tra la perduta gente”, allestita al Pac - Padiglione d’arte contemporanea. La mostra nasce da un progetto durato quasi un anno, ideato e realizzato dall’associazione “Ri-scatti”, che usa la fotografia come strumento di riscatto sociale e come opportunità di integrazione. L’iniziativa ha visto la collaborazione del Politecnico di Milano, del Provveditorato Regionale Lombardia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ed è stata promossa dal Comune di Milano con il sostegno di Tod’s. “Ri-scatti” ha offerto a detenuti e agenti un corso di undici mesi e li ha dotati di macchine fotografiche che i partecipanti hanno potuto usare anche nei reparti del carcere e nelle celle. “È stato un percorso mai affrontato prima, da nessun altro. Il risultato è un racconto intenso, veritiero, esplicito, dalle tinte forti ed estremamente duro. È difficile capire. Il carcere è un mondo sconosciuto per chi non lo vive” hanno spiegato gli organizzatori. “Le carceri non sono solo affollate di detenuti, sono affollate di esseri umani che non possono essere lasciati soli, che devono essere aiutati a salvarsi dalla loro convinzione di non avere più alcuna possibilità di riscatto”. Il progetto portato avanti è stato “scomodo”, dice il presidente di Ri-Scatti, Stefano Corso, “ma ha visto il termine “riscatto” come profondamente collegato allo sguardo di chi racconta”. Gli istituti coinvolti nel progetto sono stati la Casa di Reclusione di Opera, la Casa di Reclusione di Bollate, la Casa Circondariale F. Di Cataldo e l’IPM C. Beccaria. La mostra è ora visitabile fino al 6 novembre, l’ingresso è gratuito. Tutte le eventuali offerte saranno destinate a finanziare interventi architettonici volti al miglioramento della qualità della vita nelle carceri. Non si sceglie quale libertà ci piace di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 23 ottobre 2022 I dispotismi non sono solo la negazione delle libertà politiche e civili. Sono anche nemici della libertà di impresa. L’amicizia con Putin ribadita da Berlusconi e le sue parole ostili nei confronti di Zelensky ci ricordano che in Italia (non solo in Italia ma da noi in modo particolarmente esibito ed evidente) è dominante una concezione della libertà che la equipara a un salame: può essere tagliata a fette e ciascuno si prende la fetta che preferisce. C’è chi apprezza e difende la libertà di impresa, la libertà economica, ma è tiepido, quando non del tutto indifferente, riguardo a certe libertà civili e politiche. Salvo dolersi, e rivendicare quelle libertà, se personalmente danneggiato dall’azione di qualche magistrato. E c’è, per contro, chi apprezza le libertà civili e politiche mentre, contemporaneamente, è ostile alla libertà economica. Ricordo una trasmissione televisiva di molti anni fa a cui partecipai insieme a Berlusconi. Putin aveva appena preso una decisione che smantellava un istituto importante della neonata democrazia russa: aveva ricentralizzato il potere sottraendo agli elettori il diritto di eleggere i governatori. La loro nomina tornava nelle mani del Cremlino. Osservai che si trattava di una mossa inquietante che sembrava annunciare una più generale svolta autoritaria. La replica di Berlusconi fu di tipo, possiamo dire, “efficientistico-manageriale”: disse che Putin gli aveva fatto vedere i curricula dei governatori nominati e che si trattava di persone preparate. Il conclamato liberalismo di Berlusconi non gli impediva di rimanere indifferente di fronte a un così palese indebolimento della sfera delle libertà politiche in Russia. Quando Berlusconi entrò (fragorosamente) in politica e vinse le elezioni del 1994, non si limitò a fare nascere il centro-destra e a sconfiggere la gioiosa macchina da guerra di Achille Occhetto. Sfidò anche le culture politiche che avevano dominato la Repubblica per oltre un quarantennio. Il messaggio politico era centrato sulla necessità di liberare mercato e imprese dai lacci e lacciuoli imposti dallo Stato. Era un messaggio ispirato al liberalismo economico (ciò che i suoi detrattori chiamano liberismo). Veniva infranto un tabù. Le culture politiche fino ad allora dominanti, animate da una parte ampia del mondo democristiano e dai comunisti erano sempre state diffidenti, quando non apertamente ostili, nei confronti delle imprese. Per quelle culture, mercato e imprese erano solo mali necessari. E comunque da tenere a bada, da controllare e da dominare. La rottura del tabù attirò, allora, intorno a Berlusconi, diverse personalità liberali (Giuliano Urbani, Antonio Martino, Lucio Colletti e molti altri). Persino Marco Pannella fece , nel ‘94, un accordo elettorale con lui. Chi ritiene che gli odii che si guadagnò subito Berlusconi non abbiano nulla a che fare con il violento schiaffo che egli diede allora alla tradizione politico-culturale dominante in Italia, nega l’evidenza. In seguito, nei successivi governi Berlusconi, restò la retorica della libertà di impresa e gli inni alle virtù del mercato, ma, nelle concrete politiche, il liberalismo economico delle origini si perse per strada. Ritorniamo a ciò che Berlusconi ha detto di Zelensky. Si può esaltare la libertà (economica) e contemporaneamente manifestare ostilità per il leader di un popolo invaso che lotta per la propria libertà? Ebbene sì, si può, ma solo se si pensa che l’una libertà e l’altra siano cose totalmente distinte e, soprattutto, separabili. Esistono ormai solide e abbondanti prove storiche che dimostrano che ciò non è vero. I dispotismi non sono solo la negazione delle libertà politiche e civili. Sono anche nemici della libertà di impresa. Anche se, in certe fasi storiche, il regime dispotico può scegliere di favorire la libertà economica (come in Cina dalle riforme Deng in poi) , si tratta solo di una parentesi destinata prima o poi a chiudersi. Come dimostra proprio il caso della Cina: il consolidamento del potere di Xi Jinping sta andando di pari passo con una nuova statalizzazione dell’economia cinese. Quando non è nutrita, alimentata e sostenuta dalla libertà politica e dalle altre libertà civili, l’esistenza della libertà di impresa resta in uno stato di precarietà, la sua sopravvivenza dipende dal capriccio del “principe”. Dura fin quando il principe non cambia idea. Prima o poi è destinata ad eclissarsi. C’è una contraddizione vistosa nel liberalismo monco di chi tiene separata la libertà economica (che apprezza) e le altre libertà verso cui è indifferente o, nella migliore delle ipotesi, più tiepido: o difendi tutto il “pacchetto” oppure, prima o poi, ti giocherai anche mercato e libertà di impresa. Ma ciò che vale per Berlusconi vale anche, qui da noi, a parti rovesciate, per una parte ampia della sinistra: in questo caso, grandi inchini nei confronti delle libertà politiche e civili (salvo tacere di fronte a certe invasioni di campo di questo o quel magistrato), indifferenza, quando non aperta ostilità, nei confronti della libertà di impresa. Sul tema della concorrenza, ad esempio, non è vero che parti ampie della sinistra non condividano certe ostilità di principio di Lega e Fratelli d’Italia. Il fatto che il Pd non sia mai riuscito a diventare un autentico partito riformista dipende dal fatto che nel suo seno sono tuttora presenti e forti le correnti che diffidano del mercato e che accettano le imprese ma solo se tenute saldamente al guinzaglio. Sono le correnti che, almeno su un punto, non hanno mai davvero rotto con la tradizione comunista. Per la quale, come disse una volta Enrico Berlinguer, la proprietà privata (senza la quale non ci sono né libera impresa né mercato) è come il peccato originale per i cattolici. Plausibilmente, la più che probabile convergenza fra Pd e 5 Stelle rafforzerà quelle tendenze. Ma vale anche in questo caso una regola: se resti indifferente agli ostacoli che incontra la libertà economica e se, magari, sei anche pronto ad aggiungerne altri, prima o poi, l’eccesso di invadenza dello Stato nella vita economica e sociale finirà per indebolire anche la sfera delle libertà civili e politiche. Come scrisse Luigi Einaudi all’epoca della sua polemica con Benedetto Croce, la libertà è indivisibile: non puoi avere la libertà civile e politica se non hai anche la libertà economica. E viceversa. Non puoi avere la democrazia liberale se non hai anche il libero mercato. Ci sono troppi riscontri che ci obbligano a non avere dubbi: la libertà non è equiparabile a un salame. Cento città in piazza, la “chiamata alla pace” parte dall’Italia di Emanuele Giordana Il Manifesto, 23 ottobre 2022 Weekend di mobilitazioni diffuse in preparazione del 5 novembre. Da Bologna Massimo Bussandri della Cgil dice che fermare la carneficina è anche fermare i suoi effetti nefasti nel mondo sulle fasce più vulnerabili mentre Elly Shlein lancia un appello perché questa rete italiana, con vocazione europea, si colleghi alle altre reti del Vecchio Continente perché la pressione sulla pace investa tutta l’Europa. È cominciato venerdì con una fiaccolata a Roma e un’iniziativa pubblica a Bologna, organizzata dalla Cgil emiliana e molto partecipata, il weekend di mobilitazione nazionale che prepara l’appuntamento del 5 novembre a Roma per chiedere negoziato, cessate il fuoco e una Conferenza internazionale per porre fine alla guerra in Ucraina. Weekend che si conclude oggi a Roma con la partecipazione all’Angelus di papa Francesco, a mezzogiorno in Piazza San Pietro. Ma si farebbe un torto a Pistoia, a Napoli ad altre città grandi e piccole citando solo Bologna e Roma perché il venerdi di inizio weekend è stato denso di appuntamenti, convegni, presidi in quello che è stato chiamato il fine settimana delle “cento città” che rischiano però di essere molte di più tra ieri e oggi. Se l’inizio simbolico di questo “giro d’Italia arcobaleno” - come la rete EuropeForPeace lo ha chiamato - è stata venerdì la Fiaccolata in piazza del Campidoglio a Roma, marce, flashmob, presidi, momenti di silenzio, incontri, tende erano previste in tutto lo stivale. In preparazione di una “chiamata alla pace” che la coalizione arcobaleno EuropForPeace, forte di oltre 600 adesioni, ha organizzato per sabato 5 novembre a Roma. Da Bologna Massimo Bussandri della Cgil dice che fermare la carneficina è anche fermare i suoi effetti nefasti nel mondo sulle fasce più vulnerabili mentre Elly Shlein lancia un appello perché questa rete italiana, con vocazione europea, si colleghi alle altre reti del Vecchio Continente perché la pressione sulla pace investa tutta l’Europa. Ma intanto la mobilitazione comincia dall’Italia dove, sono in tanti a dirlo - da Raffaella Bolini di Arci a Pasquale Pugliese di Rete Pace Disarmo a Rita Monticelli delegata del Comune e solo per citare l’evento di Bologna - il movimento per la pace conosce un risveglio. Tutte le principali città italiane capoluogo di regione o provincia autonoma hanno partecipato a questa marcia diffusa per la pace ma gli eventi sono stati tantissimi anche nei piccoli centri. Organizzati da associazioni, sindaci, sindacati, Ong. Ieri è stata la volta, tra le altre, delle piazze di Ancona, Bari, Bolzano, Torino, Trieste e Venezia; a Perugia invece è stata organizzata una manifestazione di tutta la Regione Umbria (qui tutte le iniziative). L’idea è stata preparata e lanciata da EuropeForPeace dopo una prima mobilitazione diffusa il 23 luglio scorso (con 60 città coinvolte) e l’invio il 21 settembre di una lettera al Segretario Generale dell’Onu Guterres in occasione della Giornata della Pace per un sostegno ad azioni multilaterali, e alla vigilia dell’ottavo mese di guerra provocata dall’invasione russa e della Settimana Onu per il Disarmo (24-30 ottobre). Nel testo inviato al Palazzo di Vetro EuropeForPeace sottolinea come “l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia ha riportato la guerra nel cuore dell’Europa ed ha già fatto decine di migliaia di vittime e si avvia a diventare un conflitto di lunga durata” portando conseguenze nefaste “anche per l’accesso al cibo e all’energia di centinaia di milioni di persone, per il clima del pianeta, per l’economia europea e globale”. Ribadendo la vicinanza alle popolazioni colpite dalla guerra si ricorda poi come occorra cercare “una soluzione negoziale, ma non si vedono sinora iniziative politiche né da parte degli Stati, né da parte delle istituzioni internazionali e multilaterali” sottolineando come invece sia necessario “che il nostro Paese, l’Europa, le Nazioni Unite operino attivamente per favorire il negoziato avviando un percorso per una Conferenza internazionale di pace che, basandosi sul concetto di sicurezza condivisa, metta al sicuro la pace anche per il futuro”. Anche alla luce delle rinnovate e inaccettabili minacce nucleari. Non vincere la guerra insomma. Vincere la pace. Eugenia Roccella, la nomina che riapre il fronte dei diritti civili di Alessandra Arachi Corriere della Sera, 23 ottobre 2022 La neoministra della Famiglia è contraria a unioni civili e interruzione di gravidanza. Esultano gli esponenti dei Family Day e i pro life, preoccupate le associazioni arcobaleno. Lei dribbla: “Di aborto si occupa il ministero della Salute”. La ministra Eugenia Roccella ha tre deleghe: la Famiglia, le Pari Opportunità e, del tutto nuova, quella della Natalità. Tre deleghe che hanno spaccato in due l’opinione pubblica. Non si può nascondere il carattere più che conservatore di Roccella, lei che per la prima volta nel 2007 organizzò il Family Day con l’intento di prendere di mira i “Dico”, precursori delle unioni civili. E poi quando le unioni civili divennero legge la neo ministra si mise in prima fila per organizzare il referendum per abolirle. Per lei la famiglia è solo quella di una mamma e di un papà, un valore per il quale ha già promesso si impegnerà ad ogni livello. “La famiglia è troppo spesso trascurata e penalizzata”, ha detto lei subito dopo aver giurato al Quirinale. E poi ha aggiunto: “Lavorerò per contrastare l’inverno demografico che rischia di sottrarre futuro e speranza al nostro Paese”. Esulta per questo Mario Adinolfi, presidente del Popolo della Famiglia: “Eugenia è una mia cara amica: le nostre battaglie sono arrivate nel cuore dello Stato. Per far ripartire la natalità bisogna cancellare la vergogna dell’uccisione del figlio nel proprio grembo materno. So che Eugenia Roccella lo farà. Nel mondo si alza un vento contro l’aborto: pensiamo a quello che è successo negli Usa”. Grande preoccupazione per questo arriva da Carlo Calenda, leader di Azione: “Roccella in passato ha preso posizioni pericolose sull’aborto, speriamo che al governo non lo faccia”. A dire il vero tra le prime dichiarazioni fatte dalla neo ministra ce ne è stata una proprio sull’aborto: “Non spetta a me, ma al ministro della Salute”, ha tagliato corto per dribblare i cronisti che la incalzavano. Lei in campagna elettorale aveva dichiarato apertamente: “L’aborto non è un diritto”. E ora, già prima della conferma di Adinolfi, anche le Famiglie Arcobaleno pensano che Roccella si occuperà anche di aborto. “Cancellerà tutti i diritti”, dice con preoccupazione la presidente Alessia Crocini. Preoccupatissimi tutti gli esponenti del mondo Lgbtq. La voce di Alessandro Zan, deputato dem, è diretta: “Eugenia Roccella si comporta come un’omofoba militante. Ha detto chiaramente che vuole abolire le unioni civili”. Zan, primo firmatario del ddl che porta il suo nome, aggiunge: “Tutte le dichiarazioni fatte fino ad ora fanno pensare che Roccella sia il ministro delle Impari opportunità. È la nemica di tutti i diritti”. Tranciante il giudizio di Vladimir Luxuria: “Nominare Eugenia Roccella come ministro della Famiglia e delle Pari Opportunità è un po’ come mettere Crudelia Demon alla presidenza della lega protezioni animali”. Ma la neo ministra per la famiglia dice di avere in testa nuove idee. Ha affermato: “È importante che la famiglia sia trattata con maggiore equità, senza scaricare sul nucleo familiare, ed in particolare sulle donne, tutto il peso del lavoro di cura, dei figli e delle persone fragili. Noi siamo pronti a mettere in campo nuove idee”. Plauso dal Forum Famiglie. “Il fatto che vi sia un ministero della natalità e della famiglia è una piccola grande vittoria”, dice Luigi De Palo, il presidente. Che aggiunge: “Io durante la campagna elettorale avevo proposto che la Natalità fosse messa come delega al ministero dell’Economia. Sono sicuro però che Eugenia Roccella saprà incidere sull’inverno demografico anche se il suo ministero è senza portafoglio”. Nel 2007 Eugenia Roccella organizzò il primo Family Day per combattere i “Dico”. Poi è arrivato Massimo Gandolfini nel 2015 e nel 2016 ad organizzarne altri (e poi il Family Day divenne un soggetto strutturato”). “In quegli anni c’era il problema delle unioni civili da risolvere”, dice adesso Gandolfini. Che parlando della neo ministra della Famiglia, delle Pari Opportunità e della Natalità ha soltanto parole di notevole stima. Dice, infatti: “La conosco da molti anni, e posso dire che è una grande e autorevole rappresentante del mondo pro life e pro family”. Due movimenti che l’opposizione teme molto. E Carlo Calenda se ne fa portavoce: “Se toccano i diritti l’opposizione sarà dura e non solo in Parlamento. La presenza della Roccella è preoccupante da questo punto di vista”. Quando essere disabili porta anche alla povertà: a rischio uno su cinque di Giulio Sensi Corriere della Sera, 23 ottobre 2022 L’indagine Openpolis: cresce la quota di persone con disabilità a rischio di “deprivazione” in Italia. Il nostro Paese 18esimo in Europa, investiamo in assistenza solo il 2% del Pil. In Italia una persona con disabilità su cinque è a rischio povertà: un dato in linea con la media dei Paesi europei dove vivere senza alcuna disabilità fa scendere di 6,2 punti percentuali la probabilità di scivolare nella spirale della deprivazione materiale e sociale. L’allarme sull’ancora forte incidenza della povertà fra chi vive condizioni di disabilità proviene da Openpolis che ha raccolto i dati Eurostat sul tema e comparato la situazione di tutti gli Stati membri. “Le persone con disabilità - spiega Martina Lovat di Openpolis - sono maggiormente esposte alla marginalizzazione economica e sociale. Se il numero delle persone a rischio povertà fra chi non ha disabilità cala, quello delle persone che invece vivono anche solo una disabilità sta continuando ad aumentare”. L’Italia è al diciottesimo posto in Europa per la percentuale di prodotto interno lordo dedicato alla spesa a sostegno della malattia e disabilità. “È un calcolo - aggiunge Lovat - che viene effettuato a livello di tutti gli Stati membri per poter rendere confrontabile questa voce. Include la spesa per il mantenimento di livelli di reddito adeguato e di assistenza sociale diretta alle persone nella vita quotidiana, senza includere quella medica. L’Italia spende su questo fronte il 2 per cento del Pil, un dato inferiore alla media europea che è il 3 per cento”. Roberto Speziale è il presidente nazionale di Anffas, l’Associazione nazionale famiglie di persone con disabilità intellettiva e/o relazionale. “Le faccio un esempio - spiega - per capire cosa tutto questo significhi. Spesso quando in una famiglia nasce un figlio o una figlia con disabilità uno dei due genitori, in genere la madre, è costretto a lasciare il lavoro. L’assenza di servizi adeguati impone l’allontanamento dal percorso lavorativo. Ciò ha conseguenza diretta sul reddito familiare perché il nucleo rimane con una sola entrata. Poi ci sono altri effetti: la necessità di una pluralità di servizi, analisi mediche, accertamenti, cure. Quelli offerti dal sistema pubblico sono molte volte mancanti, carenti o fuori portata temporale. Quindi le famiglie sono costrette a fare da sole e reperire queste cure fuori regione, perciò si aggiungono anche le spese per le trasferte. Abbiamo calcolato che tutto questo possa costare anche 300 euro al giorno, circa novemila euro al mese. Si capisce come la situazione economica delle famiglie deperisca rapidamente”. Poi i ragazzi e le ragazze crescono e solo in alcuni casi possono contribuire al reddito familiare. “Più andiamo avanti negli anni - aggiunge Speziale - e più questa situazione peggiora. Aumenta l’età dei genitori, crescono i bisogni assistenziali e l’annesso carico economico. È un avvitamento verso il basso della situazione in cui incide anche la perdita di energie fisiche. Tutti questi fenomeni sono la causa dell’incidenza maggiore della povertà nei nuclei che hanno persone con disabilità: le condizioni di partenza contano, ma il generale impoverimento delle famiglie italiane fa sì che il problema sia sempre più esteso”. I sostegni esistono, sia monetari sia di servizi, ma da soli non garantiscono l’emersione dalla soglia di povertà. “Se l’esigenza di assistenza o di cura del singolo non è sostenuta da un adeguato welfare - spiega Cristiano Gori, docente di politica sociale all’Università di Trento - diventa causa di impoverimento del nucleo. Questo in Europa aumenta laddove c’è un welfare più debole. Il fattore tempo è decisivo: più si protrae la condizione di disabilità o non autosufficienza, più la situazione precipita. Il dramma è quando i genitori di un figlio o una figlia con disabilità diventano non autosufficienti. Se ne parla troppo poco in Italia, ma ci sono casi molto gravi e nessuno ha strumenti per affrontarli”. Qualcosa si sta facendo sia a livello europeo sia italiano per fronteggiare la situazione, ma esperti e associazioni che operano nel campo della disabilità si aspettano risposte più incisive. Il Pnrr ha messo a disposizione 500 milioni di euro per fornire servizi socio-sanitari comunitari e domiciliari alle persone con disabilità. La parola d’ordine è autonomia e nell’ultimo Consiglio dei ministri del governo Draghi, l’11 ottobre, è stato approvato un testo di legge di riforma sugli anziani non autosufficienti che prevede forti azioni di sostegno. “La sfida che abbiamo davanti - commenta Gori - è coniugare le politiche di assistenza alle persone non autosufficienti con l’attenzione alla dimensione della povertà economica”. “Ma per impedire alle persone con disabilità di entrare nella spirale della povertà - conclude Speziale - occorre lavorare a progetti individuali multidimensionali. Significa focalizzare per ciascuna persona il suo bisogno e prevedere un budget specifico anche per evitare sprechi o duplicazioni. Fra le risorse fondamentali ci sono le reti di volontariato e solidarietà che devono essere attivate e valorizzate. Le riforme in materia di disabilità e non autosufficienza spingono in questa direzione. Sono occasioni da non sprecare”. Miliardi sulla pelle dei migranti: la sorveglianza delle frontiere fa ricca l’industria delle armi di Giulia Bosetti L’Espresso, 23 ottobre 2022 La lobby dei produttori di materiali bellici spinge la crescita esponenziale degli investimenti tecnologici per il controllo dei confini europei: un mercato che vale quasi 70 miliardi di dollari l’anno. E alimenta un circolo vizioso di soprusi e violenza. Una crescita annua tra il 7 e il 9 per cento, un fatturato che oscilla tra i 65 e i 68 miliardi di euro all’anno. Sono i numeri di un settore che non conosce crisi: il gigantesco complesso industriale del controllo delle frontiere. Una gamma sconfinata di tecnologie impiegate per difendere i confini dell’Occidente, un esercito di droni, sensori, robot intelligenti, sistemi di videosorveglianza e intelligenza artificiale, prodotti da quegli stessi colossi su cui oggi più che mai puntano gli occhi e investono soldi i governi di tutto il mondo: le società produttrici di armi. Proteggere le frontiere è diventato il grande mantra degli Stati occidentali e in particolare dell’Europa, dove la crescita di mercato doppia quella degli altri Paesi: 15 per cento l’anno. Più la guerra minaccia il cuore del vecchio continente, più aumentano i rifugiati e i migranti e più si attrezza l’industria militare: “Le aziende fanno profitti grazie ai muri fisici e virtuali che sono diventati parte integrante delle politiche dell’Unione europea a causa delle pressioni delle aziende, che hanno trasformato la migrazione da un problema umanitario a un problema di sicurezza”. Mark Akkerman, ricercatore di Stop Wapenhandel, organizzazione indipendente olandese che monitora il business degli armamenti, ha indagato il ruolo dell’industria nella militarizzazione delle politiche di frontiera. Nel suo piccolo ufficio di Amsterdam, circondato di report e dossier, parla senza mezzi termini: “I produttori di armi hanno influenzato il dibattito pubblico facendo passare l’idea che i migranti siano una minaccia, per poi proporre come soluzione le loro tecnologie e i loro servizi. L’Europa e gli Stati membri sono molto sensibili alle richieste della lobby delle armi”. A giudicare dalle somme che l’Ue ha deciso di investirci, Akkerman non sbaglia. Nel report “A quale costo”, le organizzazioni Statewatch e Transnational Institute analizzano le spese dell’Unione europea: tra il 2021 e il 2027 gli investimenti per i settori sicurezza e difesa ammontano a 43,9 miliardi di euro, un aumento di budget del 123 per cento. Il Fondo per la gestione del controllo delle frontiere cresce del 131 per cento, passando a 6,2 miliardi di euro e i finanziamenti di Europol e di Frontex, l’agenzia per la sicurezza dei confini, sfiorano i 10 miliardi di euro: un aumento del 129 per cento. Grazie a una lunga serie di richieste di accesso agli atti, l’osservatorio Corporate Europe di Bruxelles ha scoperto come l’industria privata e i suoi gruppi di pressione hanno influenzato le decisioni politiche dell’Unione europea: “Il budget di Frontex è cresciuto a dismisura e l’agenzia ha ottenuto maggiori poteri nella gestione degli appalti per le frontiere, senza un adeguato sistema di trasparenza e controllo dell’attività di lobby”, spiega la ricercatrice Margarida Silva. In tre anni, Frontex è stata in contatto con 108 società private, con cui ha organizzato diciassette meeting. Hanno partecipato le principali compagnie di armi in Europa: la francese Airbus, le spagnole Indra e Gmv, l’italiana Leonardo. “Le aziende hanno cercato di convincere Frontex e gli Stati membri a spendere più soldi in tecnologie di sorveglianza e controllo delle frontiere”, conclude Silva. E ci sono riuscite. Per Hannah Neumann, eurodeputata tedesca dei Verdi relatrice della Risoluzione sull’export di armi del Parlamento europeo del 2020, è un circolo vizioso: “Le aziende vendono armamenti a Paesi terzi che li utilizzano per fare la guerra, costringendo le persone a fuggire dalla loro patria. Poi le stesse società vendono ai governi europei tecnologie e attrezzature per impedire a quelle persone di entrare in Europa”. L’industria militare vanta un accesso privilegiato alla Commissione e ai governi europei, che in alcuni casi ne sono anche azionisti. Vedi Leonardo, partecipata al 30 per cento dal ministero dell’Economia italiano, o Thales, dello Stato francese per il 25 per cento. “Recentemente la Commissione europea ha creato lo Strumento per la stabilità e la pace e c’è stata una fortissima pressione dell’industria delle armi per includere nei suoi finanziamenti la fornitura di attrezzature per la sicurezza delle frontiere come telecamere nascoste o recinzioni di filo spinato”, rivela Neumann. La partita cruciale si gioca sui confini esterni dell’Ue. Dal 2015 ad oggi, la Croazia ha ricevuto dall’Ue 163 milioni di euro per acquistare dispositivi di imaging termico, telecamere a infrarossi, apparecchiature che rilevano i battiti cardiaci, droni a lungo e medio raggio che trasmettono dati in tempo reale, fuoristrada con termocamere mobili su rimorchio ed elicotteri tra i più avanzati al mondo: due Eurocopter francesi prodotti da Airbus e due AW139 dell’italiana Leonardo, con tanto di termocamere che possono riprendere fino a 10 chilometri di distanza. Tecnologie che hanno portato a un’escalation di violenza nei respingimenti illegali della polizia croata. Lo attesta un rapporto di Border violence monitoring network del 2021. E lo vivono sulla propria pelle i rifugiati afghani che ogni giorno tentano il “game” sulla rotta balcanica, giocando a nascondino con la polizia di frontiera croata per poi essere respinti. Picchiati, derubati, denudati. A Velika Kladusa, piccolo comune della Bosnia nord-orientale, ne ho incontrati a decine. Con i piedi fasciati, le dita spezzate, le schiene sfregiate. Famiglie con bambini, ragazzini strappati ai genitori. Come Hadi e Nabi, 17 e 14 anni. Spuntati dal bosco con lo zaino in spalla e la paura negli occhi. “La polizia croata ci ha catturato grazie alle telecamere nascoste sugli alberi. Ma dobbiamo riprovarci, per arrivare ad Amburgo dalla mamma e chiedere la protezione umanitaria”. Il difensore civico dell’Ue ha avviato un’indagine ufficiale sulle responsabilità della Commissione nell’utilizzo di fondi pubblici per operazioni della polizia di frontiera che violano i diritti dei rifugiati: “Quando i poliziotti mi hanno arrestato, indossavano visori a infrarossi, avevano droni e geolocalizzatori. A qualcuno hanno rotto le braccia, a qualcun altro le gambe. Questo ci sta facendo l’Europa”, si sfoga un giovane afghano. Dai boschi della Croazia alle isolette greche nel Mar Egeo, la parola “accoglienza” fa sempre rima con “sorveglianza”. Isola di Samos, 1.200 metri dalle coste della Turchia. Spiagge candide, acque cristalline e un campo rifugiati videosorvegliato h24, con sistema di sicurezza a raggi X e autenticazione in due fasi: tesserino di riconoscimento e impronte digitali. Doppia recinzione militare in stile Nato, una società privata incaricata della sicurezza, Samos è il primo dei cinque campi profughi altamente tecnologici che la Grecia sta allestendo sulle isole del Dodecaneso con i soldi dell’Unione europea. Tutto viene monitorato dal centro di massima sicurezza di Atene grazie a Centaur, un sistema di sorveglianza elettronica futuristico dotato di algoritmi di analisi del movimento: “Stila anche il report delle emergenze. Comunichiamo al campo quello che sta succedendo e facciamo intervenire la polizia o la Guardia Costiera”, racconta Manos Logothestis, Segretario generale per l’accoglienza dei richiedenti asilo, di fronte a decine di telecamere puntate sui rifugiati: “Avremo droni e visori a lungo raggio e tutti gli operatori possono mandarci in tempo reale immagini girate con i loro smartphone”. La Commissione europea ha definito il campo di Samos una pietra miliare nella gestione della migrazione, ma in una lettera aperta i rifugiati siriani che ci vivono lo paragonano alla prigione di Guantanamo: “Stiamo impazzendo. Ci sono atti di autolesionismo, persone che si tagliano con il coltello e sbattono la testa contro il muro”. Gabriel Feldman dell’Png Still I Rise, è seriamente preoccupato per le loro condizioni psicologiche: “Ci sono stati raid notturni della polizia, molti abitanti del campo sono sotto shock e tutti vivono nel terrore”. Europe Must Act e il Samos Advocacy Collective, una rete di attivisti e organizzazioni che lavorano sull’isola, hanno denunciato le detenzioni illegali dei rifugiati e la violazione dei diritti umani fondamentali e hanno scritto una lettera alla Commissione europea. “La Commissione sta monitorando da vicino la situazione e continuerà ad affrontare la questione con le autorità greche competenti”, è stata la risposta. L’Europa continua a sorvegliare. Laura Morante: “Assange e Wikileaks argine alle false verità, ma molte star tacciono” di Stefania Maurizi Il Fatto Quotidiano, 23 ottobre 2022 “Noi viviamo, in questo momento, in un Paese dove non si distingue più l’informazione dalla propaganda, noi non sappiamo più”. Si chiama “La mia voce per Assange” ed è una campagna internazionale che punta a salvare il giornalista e fondatore della piattaforma Wikileaks che nel 2010 ha iniziato a pubblicare tra l’altro documenti top secret sui crimini commessi nei conflitti internazionali dagli Usa e da altri Stati occidentali. Dopo le accuse di stupro nei suoi confronti partite dalla Svezia, l’australiano si rifugiò nell’ambasciata dell’Ecuador a Londra. Dal 2019 è in carcere in Gran Bretagna e dovrebbe essere estradato negli Usa dove rischia 175 anni di prigione. A lanciare l’appello è stato il premio Nobel per la Pace, Adolfo Pérez Esquivel. Un comitato formato da Grazia Tuzi, Armando Spataro, Laura Morante, Vincenzo Vita, Paolo Benvenuti, Daniele Costantini, Flavia Donati, Giuseppe Gaudino, ha raccolto decine di video a sostegno di Assange. Fin da quando ho letto, qualche anno, fa le notizie su di lui, sulla sua detenzione e su tutta la sua vicenda, mi continuavo a chiedere: come mai i giornali non mettono questa notizia in prima pagina, ogni giorno, come un martellamento, è una cosa talmente scandalosa. Noi viviamo, in questo momento, in un paese dove non si distingue più l’informazione dalla propaganda, noi non sappiamo più. Ormai quando leggo il giornale, cerco di leggere tra le righe, perché non capisco più cosa davvero sta succedendo nel mondo, ho sempre l’impressione di venir manipolata. Ritengo una cosa assolutamente preziosa che ci sia un’organizzazione come WikiLeaks che si impegna con enorme sforzi, con enormi rischi, a informarci su quello che davvero accade nel mondo, su quali possono essere le ragioni vere, nascoste di certi fenomeni, di certe guerre, di certe destituzioni. Noi tutti ci illudiamo di essere liberi, ma fino a che non siamo correttamente informati, la libertà è pura illusione. Non esiste libertà, se non c’è informazione libera, perché se io non so, io voto senza sapere chi realmente voto, io credo di scegliere, ma in realtà la mia scelta è determinata da una serie di false verità. Quindi per me salvaguardare Assange e WikiLeaks vuol dire non soltanto essere accanto a un essere umano che sta vivendo una spaventosa odissea da anni, ma vuol dire anche difendere la nostra libertà. Sul red carpet di Venezia, Hillary Clinton era celebrata, eppure ha votato a favore della guerra in Iraq. Assange, che ha rivelato crimini di guerra in Iraq, marcisce nella prigione più dura del Regno Unito. Che responsabilità ha il mondo della cultura? Una responsabilità enorme. E non so dire con quanta tristezza mi sono resa conto che moltissime persone nel mio ambito, che è quello dello spettacolo, mi hanno risposto che il caso Assange è controverso. Questo, purtroppo, bisogna dire, molto grazie a quel documentario (Risk, 2016, della regista premiata a Venezia. Lei si riferisce a Laura Poitras: bisogna riconoscerle di aver dichiarato al Festival di Toronto che l’estradizione di Assange sarebbe una grave minaccia per la libertà di stampa... Sì, ho letto che l’ha detto, però è un po’ tardi. Il danno l’aveva già fatto, io non glielo perdono tanto facilmente. Noi siamo, purtroppo, molto condizionabili. Bisogna cercare di tenere molto sveglio lo spirito critico. Io non leggo ormai da anni una notizia su un giornale senza domandarmi perché quella notizia è lì. Vado sempre a cercare delle verifiche, per quello che posso. Penso che le notizie, ormai, si possano leggere solo così, perché siamo un paese sommerso dalla propaganda. È diventata una cosa scandalosa! Non si riesce più nemmeno ad avere più punti di vista, non dico un punto di vista critico, dico vari punti di vista. Forse anche per questo mi sta tanto a cuore il caso Assange e WikiLeaks. Mi sento garantita finché loro possono continuare a lavorare senza rischiare 175 anni di carcere. Tunisia. La fuga è una scelta per oltre sette milioni di persone di Francesco Battistini Corriere della Sera, 23 ottobre 2022 Lo rivela una ricerca dell’Observatoire national des migrations. È il 65% dei tunisini a dichiarare di voler emigrare a qualsiasi costo. Una percentuale che diventa del 90, se a parlare sono i giovani fra i 15 e i 29 anni. Adesso che abbiamo anche un ministro del Mare, meglio saperlo subito: dall’Africa è in arrivo il millesimo bastimento carico di dannati del mare. E stavolta i “mediterranti”, per citare il poeta tunisino Hédi Bouraoui, non sono più soltanto i gruppetti di giovani che saltano sui barconi. “La migrazione dalla Tunisia è diventata ormai un comportamento sociale - spiega una ricerca dell’Observatoire national des migrations - riguarda intere famiglie, usa ogni mezzo e ricorre anche alla migrazione aerea”. Non lo dice Salvini o qualche ong: è il 65% dei tunisini, ovvero sette milioni e mezzo di persone, a dichiarare al governo di Tunisi di voler emigrare a qualsiasi costo. Una percentuale che diventa del 90, se a parlare sono i giovani fra i 15 e i 29 anni. C’è da stupirsi? Fra meno di due mesi la Tunisia torna a votare e nessuno, dopo un decennio di delusione, ha più voglia d’innaffiare la retorica della Rivoluzione dei Gelsomini. L’unica democrazia sbocciata dalle Primavere arabe è precipitata nel caos d’un parlamento sospeso, d’una corte costituzionale sciolta e d’un governo licenziato da un presidente semi-golpista che sta smantellando pezzi di Stato e, insieme, incassando il boicottaggio elettorale delle opposizioni. Al recente disastro politico, si somma una catastrofe economica datata. I quasi 4mila panettieri di tutta la Tunisia hanno promesso che non sforneranno più: la farina è troppo cara, le bollette sono esagerate, le sovvenzioni statali inesistenti. A giugno scoppiò la rivolta del pane, seguita al blocco del grano ucraino. Ma ora a piangere è tutto il piatto. Polli e uova in un mese sono aumentati del 25%. L’olio e la frutta d’un quinto, in un Paese che li produce; i prezzi al supermercato del 13%, in un mercato che importa tutto; l’inflazione al 9. Non resta che fuggire. Qualche giorno fa, a Lampedusa è sbarcata una bambina di 4 anni. Sola, solissima. Il papà l’ha messa sul barcone. Perché fosse Dio, o l’Italia, a occuparsene. Iran. Una rivolta di tutti, radicale e senza leader di Farian Sabahi Il Manifesto, 23 ottobre 2022 All’inizio delle proteste iraniane l’appello “Hamvatan! Bia ba ham harf bezanim!” (“Compatrioti, parliamoci!”) era stato pubblicato dall’agenzia Fars legata ai pasdaran. Parole che, agli iraniani, ricordano quelle usate dal paciere nelle liti di coppia. Queste sei settimane di proteste e repressione dimostrano però che per i vertici di Teheran non sarà facile mettere a tacere il dissenso: parlarsi non serve, cercare un compromesso con la leadership della Repubblica islamica nemmeno. A dimostrarne l’inutilità sono le vicende di una serie di personaggi che hanno dapprima avuto un ruolo di primo piano nella Rivoluzione del 1979 ma, nel momento in cui hanno assunto un atteggiamento più critico, sono stati perseguitati ed estromessi. I casi eclatanti sono quello del Grande ayatollah Montazeri e quello del filosofo Abdolkarim Soroush. L’ayatollah Montazeri era stato uno dei fedelissimi di Khomeini fin dal tempo delle proteste del 1963 e del suo esilio l’anno successivo. Con la Rivoluzione del 1979, i suoi uomini avevano portato avanti le esecuzioni di massa a Isfahan e lui si era guadagnato il diritto alla successione a capo della Repubblica islamica. Quando aveva osato criticare ulteriori massacri di regime, era stato costretto a rassegnare le dimissioni. Considerato un difensore dei diritti umani, era stato messo agli arresti domiciliari ed è morto nel 2009, poco dopo le proteste del movimento verde di opposizione che aveva sostenuto. Un ulteriore caso è quello del filosofo Abdolkarim Soroush: all’indomani della Rivoluzione del 1979 era stato membro del Consiglio rivoluzionario incaricato delle purghe e dell’islamizzazione delle università, per poi trasformarsi in una sorta di Martin Luther King dei riformisti ed essere obbligato ad andare in esilio. Quella in corso non si può ancora definire “rivoluzione”. I moti di protesta contro lo scià necessitarono di tredici mesi prima di ottenerne la fuga, il 16 gennaio 1979. Di certo non possiamo etichettarla come “rivoluzione delle donne”, perché in prima linea ci sono tanti uomini. E non è nemmeno la “rivoluzione dei giovani” perché a protestare sono anche anziani. È il caso dell’ottantenne Gohar Eshghi: madre del blogger Sattar Beheshti, arrestato dalla polizia informatica e ucciso in prigione nel 2012, si è tolta il velo davanti alla telecamera e quel video è subito diventato virale. Per ora sappiamo che si tratta di proteste che coinvolgono generazioni diverse, dagli adolescenti agli anziani, in molteplici aree dell’Iran, dalla provincia del Kurdistan nell’ovest fino al Sistan e Balucistan nel sudest, passando per le città. Le differenze rispetto al movimento verde del 2009 sono evidenti. Innanzi tutto, a quel tempo c’erano tre leader: Mir Hossein Musavi, sua moglie Zahra Rahnavard, e Mehdi Karrubi. Restarono agli arresti domiciliari per anni. Di loro è apparsa qualche immagine sui social, invecchiati e senza il carisma di un tempo. In secondo luogo, in quella occasione a protestare era il ceto medio in contesti urbani. Terzo, chiedevano dove fosse finito il loro voto, visto che l’ultraconservatore Mahmoud Ahmadinejad si era aggiudicato un secondo mandato presidenziale. Motivate dai brogli, le rivendicazioni erano in primis politiche. Quarto: la leadership dell’Onda verde invocava la memoria di Khomeini, citava testi ratificati dalle istituzioni della Repubblica islamica e chiedeva, invano, il sostegno dei vertici del clero sciita. Quinto: simbolo di protesta era il velo verde, colore simbolico per l’Islam. Oggi, tutto è cambiato, a cominciare dal foulard che viene bruciato come atto di ribellione. I riformisti di un tempo non sono in prima linea e, se interpellati, chiedono di evitare gesti di rottura con il passato. Non ci sono leader e quindi il movimento di protesta non può essere decapitato. Le proteste sono partite dalla provincia iraniana del Kurdistan e non dalla capitale. Per scendere in strada, gli iraniani non hanno bisogno di internet, che le autorità hanno rallentato e, in certi orari, bloccano del tutto. A protestare sono tutte le generazioni e i ceti sociali. La differenza principale, rispetto al 2009, è che la gente che scende in strada non cerca un qualche compromesso perché è ben consapevole che non serve a niente. Ed è proprio questo il senso dello slogan “Boro gom shod!” (“Andate a quel paese!”) rivolto alle autorità e scandito dalle liceali in diverse località. Haiti sull’orlo di una catastrofe sanitaria di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 23 ottobre 2022 Le persone ad Haiti vivono in condizioni terribili e si trovano quotidianamente ad affrontare una situazione sanitaria e umanitaria spaventosa e in continuo deterioramento, avverte Medici Senza Frontiere (Msf). In molti quartieri della capitale, Port-au-Prince, colpita dalle violenze e dove c’è carenza di carburante, è una vera e propria sfida per le persone accedere all’acqua potabile e all’assistenza sanitaria. A tutto ciò si è aggiunto anche il colera, a tre anni dalla sua ultima apparizione. “La scorsa settimana una donna incinta è venuta nel nostro ospedale di Cité Soleil per un parto cesareo d’urgenza. Abbiamo cercato di trasferirla in un’altra struttura specializzata, ma è morta prima - dice la dottoressa Luxamilda Jean-Louis di Msf - Che sia dovuto all’insicurezza delle strade o al mancato funzionamento delle strutture sanitarie, episodi come questo accadono ogni giorno a Port-au-Prince. La situazione è così instabile che può cambiare da un giorno all’altro, a volte anche di ora in ora”. Da diversi giorni, la grande maggioranza degli ospedali a Port-au-Prince, dipendenti dai generatori per funzionare, è stata costretta a ridurre i propri servizi e potrebbe dover cessare le attività a causa della carenza di carburante. “Anche le strutture di Msf si trovano nella stessa situazione. Possiamo continuare a lavorare ancora solo per qualche settimana se non avremo accesso al carburante. Inoltre, alcune forniture mediche di cui abbiamo bisogno per curare pazienti affetti da colera e fornire assistenza alla popolazione sono attualmente bloccate al porto”, spiega Mumuza Muhindo, responsabile delle attività di Msf a Haiti. Le équipe di Msf sono anche preoccupate per la recrudescenza del colera, confermata ufficialmente lo scorso 2 ottobre. La scorsa settimana Msf ha ricevuto ogni giorno oltre cento pazienti con sintomi simili al colera nei quattro centri di trattamento allestiti nei quartieri di Turgeau, Drouillard a Cité Soleil, Champ de Mars e Carrefour, che hanno una capacità totale di 205 posti letto. “L’acqua contaminata è una delle principali cause di diffusione del colera. Con il ritorno del colera ad Haiti, la mancanza di acqua pulita diventa dunque disastrosa. Senza acqua potabile e una buona gestione dei rifiuti, il rischio di un aumento dei casi è molto alto. Bisogna agire con urgenza”, avverte Auguste Ngantsélé, coordinatore medico di Msf a Haiti. Oltre all’acqua e alle cure, la popolazione deve poter accedere alle strutture sanitarie, sfida costante a Port-au-Prince, dove è spesso molto difficile raggiungere un ospedale in grado di fornire le cure necessarie. Msf, ogni giorno, è testimone di questa situazione attraverso le proprie attività mediche, che si tratti di assistenza a pazienti con traumi, vittime di ustioni, emergenze o sopravvissuti a violenze sessuali. Negli ultimi giorni, Msf ha incrementato le attività, rafforzando la capacità chirurgica in alcuni dei progetti e implementando una risposta al colera incentrata sulla cura, ma anche sulla prevenzione delle infezioni. Da oltre 30 anni, le équipe di Msf forniscono assistenza medica gratuita a Haiti e attualmente gestiscono sette progetti in tutto il paese, nella capitale Port-au-Prince, nel sud e ad Artibonite. Msf interviene regolarmente anche in situazioni di emergenza, come in caso di disastri naturali. Nel 2021, le équipe di Msf hanno condotto 25.000 consultazioni di emergenza, curato 3.220 vittime a causa delle violenze e assistito 1.560 sopravvissuti a violenze sessuali.