Processi e toghe nelle mani di Nordio, l’ex pm anti-Severino di Conchita Sannino La Repubblica, 22 ottobre 2022 Il magistrato, in pensione dal 2017, punto fermo della squadra Meloni. Primo scoglio i laici del Csm e il completamento delle riforme Cartabia. È stato al centro di un braccio di ferro “tra i più tesi di tutta la vigilia del nuovo governo”, è il liberatorio commento che arriva dai suoi, mentre Berlusconi ha perso anche questa partita, e Giorgia Meloni infila ormai l’uscita del Quirinale. Eppure il nome di Carlo Nordio, neodeputato e nuovo ministro della Giustizia, 75 anni, magistrato fino al 2017, “non è mai stato in discussione neanche per un’ora”, da parte della premier. E non è difficile capire perché. Toga simbolo delle battaglie di destra: per la separazione delle carriere e per il ripristino dell’immunità parlamentare; contro “l’abuso” della custodia cautelare e delle intercettazioni nelle indagini, nemico delle correnti, Nordio è forse uno dei pochi pm storicamente “avversario” dei colleghi dell’accusa. Ma, da Venezia, con rigore non discutibile, ha indagato sia sulle coop rosse - negli anni in cui duellava coi colleghi di Mani Pulite - sia sul sistema corruttivo del Mose che più di recente, ha travolto l’ex ministro e governatore di FI del Veneto, Giancarlo Galan. Nordio si è battuto in primavera anche per i 5 Sì ai referendum: poi clamorosamente falliti. Forse uno dei pochi versanti, quest’ultimo, che lo ha visto su posizioni distanti da Meloni: FdI era infatti per il No alla demolizione della legge Severino, mentre il neo ministro - sebbene non la consideri una priorità - è convinto che vada pesantemente limitata. E ora, da Guardasigilli, a quale “rivoluzione” si appresta? E come saranno completate le riforme appena partite, dopo complesso lavoro della ministra Cartabia? Nordio eredita il campo minato di una giustizia segnata da inefficienze croniche e mancanze di risorse, delegittimata da anni di scandali, e in cerca di quella “rigenerazione etica” su cui ha posto l’accento, anche nel giorno dell’applauditissimo insediamento bis, il presidente Sergio Mattarella, che guida il Consiglio Superiore. Non a caso, il primo messaggio istituzionale, con “i più sinceri auguri di buon lavoro”, arriva proprio da Palazzo dei Marescialli. È il vicepresidente del Csm, David Ermini, a congratularsi accennando agli imminenti nodi. “Per il suo lungo passato nella magistratura, Nordio - sottolinea Ermini - conosce assai bene e dall’interno la “macchina della giustizia” e i malanni che la affliggono, a iniziare dalla allarmante carenza di organico, dalla grave situazione delle carceri e dalla inadeguatezza dell’edilizia giudiziaria”. E proprio sul Csm da rinnovare dovrà concentrarsi subito il Guardasigilli: dopo l’elezione dei membri togati, il Parlamento in seduta congiunta dovrà eleggere i dieci membri laici, alla luce del nuovo corso (“procedure trasparenti”, “rispetto della parità di genere”) varato da Cartabia, insieme alle altre riforme - sul processo civile, quello penale, e il versante ordinamentale. Sullo sfondo, le lesioni di un quasi trentennale conflitto tra magistratura e politica. Un passato da archiviare. Anche per questo l’incontro di qualche giorno tra Nordio e il leader di FI (attualmente imputato a Milano per corruzione in atti giudiziari) - una mossa dettata evidentemente dall’asprezza della crisi Meloni-Berlusconi - è parsa ad alcune toghe una sgrammaticatura evitabile. L’associazione nazionale magistrati chiede risorse, mezzi. “Il nostro augurio per il ministro va insieme agli auspici. La tenuta dei principi su cui si fonda la giurisdizione, che siamo sicuri sia avvertita come una precondizione comune”, evidenzia con Repubblica il presidente Anm, Giuseppe Santalucia. “Ma le inefficienze di cui soffre la giustizia si combattono solo con risorse, investimenti, organici”. Un’altra pagina da scrivere. Sotto l’ombra di divisioni. Nordio guardasigilli, inizia un’altra storia (garantista) per la giustizia di Errico Novi e Valentina Stella Il Dubbio, 22 ottobre 2022 È dunque l’ex procuratore aggiunto di Venezia il titolare del dicastero di via Arenula. Con lui finisce definitivamente in archivio la lunga stagione iniziata con Mani pulite. E pur tra le difficoltà di una crisi che non lascerà molto spazio alle grandi riforme, si apre la strada verso il passaggio a una cultura liberale del diritto. Inizia un’altra storia. Un’altra possibile giustizia. Carlo Nordio non è solo un nome forte, un guardasigilli dal tratto dirompente. È anche la fine di un’epoca e l’inizio di una fase completamente diversa. È l’addio a Mani pulite e la possibilità di una svolta garantista. Nordio dunque si aggiudica la sfida con Maria Elisabetta Alberti Casellati: un magistrato, un pm, ha avuto la meglio su un’avvocata che aveva già conquistato la presidenza di Palazzo Madama, e che sarà comunque a propria volta nel nuovo governo come ministra per le Riforme. Ma il neo deputato di Fratelli d’Italia, che per anni, con libri e articoli di giornale, ha infierito sulle contraddizioni della magistratura dall’interno dello stesso ordine giudiziario, avrà il compito forse più difficile nel nuovo esecutivo: rappresentare non una leadership o un’ambizione personali ma un progetto autonomo. In uno sforzo di equilibrio da far tremare le vene ai polsi. Nordio succede a Marta Cartabia, con la quale si è comunque aperta una fase nuova per il processo e l’esecuzione penale, e che è stata promotrice del più ricco e articolato pacchetto di riforme della giustizia dal dopoguerra. Al successore tocca un capolavoro: proporre una storica virata garantista per il processo (che la guardasigilli uscente ha dovuto lasciare a metà), per il penale innanzitutto, ma senza infrangere il sottilissimo equilibrio che serve a Meloni per evitare il naufragio. In un quadro internazionale pesantissimo, in una crisi già segnata dallo stigma della recessione e che mette la prima premier donna d’Italia di fronte all’incubo dell’asfissia energetica, il nuovo titolare di via Arenula dovrà sì tenere sul tavolo anche la giustizia, ma senza farne motivo di conflitti. Quali riforme saranno accessibili a Nordio - Tradotto in altre parole, a quali dossier Nordio potrà mettere davvero mano? Può contare su una convergenza almeno parziale fra il partito con cui è diventato parlamentare, FdI, e gli altri della coalizione: tutti sono d’accordo non solo sull’ambiziosa separazione delle carriere ma anche sul più immediatamente realizzabile divieto d’appello per i pm. Il rilancio della legge Pecorella troverebbe il terreno parzialmente arato dalla Commissione Lattanzi, che nel suggerire la riforma penale a Cartabia aveva ribadito come tra il diritto dell’imputato ad appellare e quello speculare del pm c’è un abisso a favore del primo. Sul piano delle grandi sfide di principio, Nordio potrebbe partire da lì. Ma poi, fin dal primo minuto in cui prenderà possesso della scrivania che fu di Togliatti, l’ex magistrato dovrà impegnarsi in un lavoro assai meno appetibile per i titoloni dei giornali: l’accelerazione vera sui tempi dei processi. Dovrà partire dalle norme appena introdotte con i decreti attuativi di Cartabia sul civile e sul penale, e implementarli con straordinari investimenti e misure organizzative. Non ultime quelle reclamate per esempio dalla magistratura lombarda che, come segnalato ieri dal Corriere della Sera, è la prima chiedersi come poter coniugare i nuovi poteri del gup previsti dalla riforma e la cronica carenza d’organico che quelle sezioni dei tribunali soffrono in tutta Italia. E ancora, sul reclutamento Nordio avrà subito occasione di costruire un rapporto forte con l’avvocatura. Perché anche al congresso forense di Lecce, la presidente del Cnf Maria Masi e diverse altre voci della professione hanno ricordato la possibilità di introdurre un accesso diretto in magistratura per gli avvocati con un determinato grado di anzianità professionale e l’abilitazione al patrocinio nella giurisdizioni superiori. Una rivoluzione che non riguarderebbe il penale ma l’ordinamento. E che, come l’inappellabilità delle assoluzioni, potrebbe non piacere ai magistrati. Ma che pure potrà dare la misura di quel sottile equilibrio di cui Nordio dovrà saper mantenere fra coraggio di cambiare e distanza dai conflitti. Nordio, biografia breve di un pm fuori dagli schemi - L’ex procuratore aggiunto di Venezia nasce a Treviso il 6 febbraio 1947. È in magistratura dal 1977. Tra le indagini più importanti che ha condotto, quelle sulle Br, sulla Tangentopoli veneta, sulle coop rosse, sui sequestri di persona. Nella città lagunare è stato coordinatore delle inchieste sui reati economici, bancari, finanziari e tributari: l’indagine più rilevante resta senz’altro quella sul Mose. Presidente della Commissione per la riforma del codice penale (2002-2006) durante il governo Berlusconi, quando a via Arenula c’era Roberto Castelli. Si iscrive alla Gioventù liberale nel 1963, per poi stracciare la tessera quando fa il suo esordio in magistratura. Nella sua vita dice di aver cambiato spesso idea ma mai sulla sua cultura liberale. La sua ultima battaglia è stata quella per una “giustizia giusta”, in qualità di presidente del Comitato per il Sì ai referendum promossi da Lega e Partito Radicale. Nordio nel 1997 inizia anche la sua attività di scrittore, pubblicando diversi testi in tema di giustizia, “tutti orientati ad una svolta liberale sia del diritto penale che di quello processuale”. Da sottolineare la sua traduzione dal francese e il suo commento a “Crainquebille” di Anatole France, “una riflessione amara sulla fallibilità dei processi attraverso la vicenda grottescamente banale di un povero Cristo”, si legge nella quarta di copertina. Essendo anche un appassionato di storia, in particolare della seconda guerra mondiale, ha pubblicato per Mondadori “Operazione Grifone” e “Overlord”. Tra i suoi hobby e quelli della moglie Maria Pia Manuel fino a poco fa c’erano due cavalli, morti purtroppo durante la pandemia. Continua però a praticare il nuoto, onnivoro di libri - filosofia, religione, arte, politica - e ovviamente letteratura. Preferisce quella francese, specialmente Pascal e Voltaire, anche se al vertice mette l’inglese Shakespeare. A suo giudizio, “un magistrato che opera nel penale deve avere due virtù: umiltà e buon senso. Queste qualità si imparano soltanto attraverso la conoscenza dei nostri limiti e difetti. La cultura generale e soprattutto i grandi classici ti ridimensionano sempre, quando assumi posizioni di potere, ad esempio quando da magistrato devi decidere se mandare in carcere una persona”. Amante anche della musica classica, oscilla tra Bach e Beethoven. Da editorialista ha scritto per Il Messaggero e Il Gazzettino di Venezia. Carlo Nordio, ministro della Giustizia di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 22 ottobre 2022 “Nordio parla tanto ma conclude poco, era così anche da pm. Per cui, tutto sommato, potrebbe essere un ministro della giustizia meno pericoloso”. La confidenza di un magistrato - che lasceremo anonimo - al recente congresso nazionale dell’Anm fotografa insieme le preoccupazioni e le speranze delle toghe italiane. Che tra una candidata gradita a Berlusconi e uno gradito a Meloni preferiscono quello che piace meno al Cavaliere. E non perché Carlo Nordio è un magistrato mentre Elisabetta Casellati, la mancata ministra della giustizia, passata alle riforme, un’avvocata. Perché Nordio da 30 anni mette le dita negli occhi alla sua categoria. Era favorevole a una soluzione politica per Tangentopoli già nel 1992, è per la separazione delle carriere, per la responsabilità civile diretta dei magistrati, per l’abolizione della legge Severino - ma non subito, per il dispiacere di Berlusconi - è arcinemico delle toghe presenzialiste e dichiaratrici. Ma è sempre presente e dichiara su tutto. Conosciamo le sue preferenze in materia di riforme costituzionali - è per il semipresidenzialismo, al quale vuole arrivare con un’assemblea Costituente - che sono quelle della turboliberista fondazione Einaudi di cui è consigliere di amministrazione. Si professa garantista, ma nel settembre del 2000 inciampò in una brutta storia. Pm di turno a Venezia, convalidò il sequestro dell’auto di un cliente di una prostituta che i carabinieri si erano messi in testa di perseguire per favoreggiamento. Il giovane rimasto a piedi si tolse la vita per lo scandalo. Nordio, dopo aver accolto la richiesta dei carabinieri, li criticò pubblicamente. E per allontanare il sospetto che le direttive sul perseguimento dei clienti delle prostitute venissero dalla procura, in un’intervista al Corriere della Sera disse che gli ordini arrivavano direttamente dal Viminale (il governo era, neanche a dirlo, di centrosinistra). Per questa serie di esternazioni il Csm decise di aprire un fascicolo contro di lui. Così come anni prima era stato sottoposto a provvedimento disciplinare dall’Anm per aver attaccato i magistrati di Mani pulite. Nordio è già stato al ministero della giustizia, componente della commissione che doveva riscrivere il codice penale con il ministro leghista Castelli. È stato consulente di diverse commissioni parlamentari. Chiamato dalla destra a parlare contro il disegno di legge Zan, ha pensato bene di proporre un parallelo tra omosessualità e pedofilia, definendo quest’ultima un orientamento sessuale. A inizio anno è stato il candidato di bandiera di Meloni per la presidenza della Repubblica, esperienza dalla quale è uscito, come ha raccontato in un’altra intervista, con un’amicizia con la leader di Fratelli d’Italia e una convinzione: “Non entrerò in politica”. Entra direttamente al governo. Riforma penale, l’Anm “Serve una disciplina transitoria o sarà caos” di Valentina Stella Il Dubbio, 22 ottobre 2022 La magistratura in questi giorni è stata in un religioso silenzio nell’attesa del nuovo ministro della Giustizia. Nessuno ha osato esprimere apertamente possibili preferenze. Ciononostante sotto diverse forme sta lanciando chiari messaggi al nuovo Guardasigilli e al nuovo Parlamento. Prendiamo ad esempio la nota della Giunta dell’Anm di qualche giorno fa in merito alla riforma del processo penale che entrerà in vigore il prossimo 1° novembre: “Il forte auspicio - vi si legge - è che si intervenga con un provvedimento di urgenza, per colmare le lacune di regolazione transitoria della riforma appena varata”. La questione appare seria e c’è esigenza di mettere ordine nel caos: “In assenza di una disciplina transitoria - denunciano le toghe - non sarà per nulla agevole, e certamente sarà causa di incertezze applicative stabilire se le modifiche si dovranno applicare anche ai procedimenti da tempo pendenti e quindi ai procedimenti iscritti secondo un ben diverso regime normativo”. A quali modifiche si riferiscono? Soprattutto a quelle relative alle indagini preliminari e al controllo sull’operato del pubblico ministero. L’aspetto che più degli altri viene mal digerito, e che è anche una vecchia battaglia dell’Unione Camere Penali, è il seguente: “L’accertamento della tempestività dell’iscrizione della notizia di reato nell’apposito registro con possibilità di attivazione di un subprocedimento, anche in fase successiva alle indagini, che si potrà concludere con la retrodatazione della iscrizione e quindi con la dichiarazione di inutilizzabilità degli atti di indagine compiuti al di fuori del termine finale sì come nuovamente individuato”. Inoltre, critica l’Anm, “è stata significativamente ridotta la possibilità di prorogare il termine delle indagini preliminari, perché la proroga potrà essere richiesta una sola volta” e “sono stati modificati i termini di durata delle indagini preliminari, che ora saranno ordinariamente, per la gran parte dei procedimenti per delitti, di un anno e non più di sei mesi”. In pratica il legislativo di Via Arenula sarà subito chiamato al lavoro dalla prossima settimana per mettere una pezza. Oltre a questo, in conclusione del suo 35esimo congresso, l’Anm ha approvato domenica scorsa una mozione generale che dice due cose. Innanzitutto “serve assicurare - chiede il “sindacato delle toghe” adeguate risorse, umane e materiali, per rendere veramente sostenibile il carico di lavoro sempre più pressante affidato ai singoli magistrati, rischiando altrimenti di essere pregiudicata proprio la qualità della risposta giudiziaria”. Insomma fate in modo che sul piano dell’efficientismo non vengano sacrificate correttezza delle decisioni ma anche garanzie processuali. A proposito di questo, lo scorso 18 ottobre la Guardasigilli uscente Marta Cartabia ha firmato un decreto ministeriale che indice un nuovo concorso da 400 posti per magistrato ordinario. In secondo luogo l’Anm “rivendica con orgoglio i valori della propria storia a presidio dell’autonomia e indipendenza della magistratura”. Se è vero che “sono valori che, oggi più che mai, si debbono declinare in termini di responsabilità e impegno etico nei confronti della società civile”, dall’altro lato quella rivendicazione potrebbe voler dire alla politica di non mettere in campo riforme invise come la separazione delle carriere. A distanza di qualche giorno dal congresso, tuttavia, non è mancata la critica amara da parte dei componenti eletti al Cdc nella lista Articolo 101, che si sono concentrati sulla presunta catarsi etica della magistratura dopo i vari scandali: “La cortina di ferro calata sui procedimenti disciplinari endoassociativi senza tenere conto dell’interesse dei colleghi e, in generale, dell’opinione pubblica, ad essere informati al riguardo, del resto, la dice lunga sulla volontà di effettivo cambiamento”. Poi la bocciatura del discorso del vertice dell’Anm: “A rendere poco credibili le parole del presidente Santalucia, secondo le quali l’Anm “non è rimasta inerte” e i magistrati stanno “facendo i conti con gli errori del passato”, sta il fatto che l’associazione non ha suggerito alcun concreto rimedio capace di evitare il ripetersi dei fenomeni degenerativi del correntismo e del carrierismo”. Così il magistrato “combattente” forza e danneggia il processo penale di Giovanni Fiandaca Il Dubbio, 22 ottobre 2022 In un recente intervento sul Dubbio del lunedì, Giorgio Spangher ha delineato un quadro ricostruttivo delle direttrici di tendenza del sistema-giustizia, con particolare riferimento al processo penale. Anticipo che condivido in larga misura l’analisi svolta dal valoroso processualista, a cominciare dalla pare in cui egli rileva che da una certa fase storica in poi - segnata prima dall’emergenza terroristica e poi dall’escalation della criminalità mafiosa - è emersa la tendenza a concepire il processo penale, più che come meccanismo di accertamento di singoli e circoscritti reati, come strumento di lotta e contrasto a fenomeni criminali di ampia portata: con conseguente rottura di quell’equilibrio tra finalità repressiva e rispetto delle garanzie individuali che ogni procedimento penale dovrebbe, almeno in linea teorica, riuscire a mantenere. Ma vi è di più. La propensione a utilizzare il processo come mezzo di lotta ha, altresì, preso piede nell’ambito delle strategie di contrasto alla corruzione cosiddetta sistemica: come emblematicamente dimostra l’esperienza giudiziaria milanese di Mani Pulite, di cui quest’anno è stato celebrato il trentennale, anche in questo caso l’obiettivo principale preso di mira dai magistrati inquirenti è finito col consistere, più che nell’accertare singoli episodi corruttivi, nel colpire e disarticolare il sistema della corruzione come fenomeno generale. Quale che sia il settore specifico di criminalità collettiva di vota in volta considerato, l’impiego del processo come una sorta di macchina da guerra è destinato a condizionare anche la fase preliminare delle indagini. Pubblici ministeri e polizia giudiziaria sono infatti indotti ad aprire grandi inchieste- contenitore ad amplissimo raggio su ambienti e persone potenzialmente sospettabili di relazioni criminose, ancor prima però di disporre di elementi di conoscenza relativi a possibili ipotesi specifiche di reato: piuttosto, l’indagine funge così da strumento esplorativo per andare alla ricerca di eventuali fatti penalmente rilevanti, con l’effetto di dilatare smisuratamente i tempi dell’accertamento giudiziario e di contestare non di rado reati di problematica e incerta configurabilità, con conseguente spreco di risorse materiali e umane. Prendendo implicitamente le distanze da un simile modello d’intervento, ad esempio il nuovo procuratore di Palermo Maurizio De Lucia ha dichiarato nel suo recente discorso di insediamento: “Indagheremo dove la legge ci impone di farlo e nel rispetto delle regole, ma processeremo dove saremo convinti di arrivare alle condanne. I processi che si devono fare saranno solo quelli che vanno fatti” (cfr. Giornale di Sicilia 16 ottobre 2022). È una apprezzabile dichiarazione d’intenti, peraltro in linea con alcune innovazioni normative della riforma Cartabia che convergono nello scoraggiare le investigazioni esplorative. Certo, l’idea del processo come arma di lotta ha avuto motivazioni storiche che - come anticipato - riconducono alla presenza o recrudescenza nel nostro paese di gravi forme di criminalità sistemica, che il potere giudiziario si è trovato a dover fronteggiare anche per una specie di delega tacita ricevuta da un potere politico incapace di (o poco disposto a) mettere in campo strategie di intervento idonee a incidere in profondità sulle cause genetiche dei fenomeni criminali da contrastare e prevenire. Ma - non soltanto a mio avviso - ha avuto in proposito un peso una componente soggettiva a carattere ideologico o latamente culturale, che ha a che fare con la auto- percezione di ruolo almeno di una parte della nostra magistratura penale e che in qualche misura perdura a tutt’oggi: mi riferisco alla concezione (presente in origine soprattutto tra i magistrati ‘ di sinistra’, ma poi estesasi con una certa trasversalità) che ravvisa la principale missione della giurisdizione penale nell’esercizio di un controllo di legalità a tutto campo (sull’attività dei pubblici poteri, prima ancora che sulle condotte dei cittadini comuni), nella difesa delle istituzioni democratiche dalle minacce della grande criminalità, nella promozione del rinnovamento politico e nella moralizzazione collettiva. Questa concezione della giurisdizione, oltre a determinarne una sovra- esposizione politica con conseguenti squilibri nell’ottica della divisione dei poteri istituzionali, e a condizionare - come già detto - la gestione del processo penale strettamente inteso, produce in verità effetti pure sul modo di interpretare e applicare le norme del diritto penale sostanziale, che definiscono cioè i presupposti generali della punibilità e gli elementi oggettivi e soggettivi dei vari tipi di reato. Quanto più infatti la giustizia penale assume un’impronta combattente di tipo simil-belligerante, tanto più il magistrato interprete- applicatore delle norme incriminatrici sarà tentato di cavarne il massimo della punibilità, adottando interpretazioni estensive o addirittura analogiche (ancorché in diritto penale formalmente vietate!) che forzano o manipolano il contenuto testuale delle fattispecie legali; con buona pace dei principi di riserva di legge e tipicità, che dovrebbero in linea teorica fungere da presidi garantistici invalicabili. A neutralizzare o indebolire l’efficacia orientativa del principio della tipicità legale delle incriminazioni concorre un fenomeno connesso, che la dottrina di matrice professorale ha denominato processualizzazione delle categorie sostanziali. Che vuol dire? Per rendere più accessibile il significato di questa espressione ostica, cerchiamo di esplicitarlo così: si allude alla mossa giudiziale di spostare sul terreno della prova processuale la soluzione di nodi problematici che attengono, invece, alla previa determinazione dei presupposti della responsabilità sul versante del diritto sostanziale, in conformità appunto al principio di tipicità penale. Per esemplificare, si pensi al problema, ricorrente nei processi di mafia, di definire il partecipe punibile di un’associazione mafiosa. Orbene, il predetto fenomeno della processualizzazione si verifica ogniqualvolta l’organo procedente, piuttosto che partire da una precisa e vincolante definizione generale di che cosa secondo la legge penale debba intendersi per ‘ partecipe’, e ricercare poi gli elementi di prova corrispondenti, stabilisce con ampia discrezionalità se un certo soggetto rivesta tale ruolo: decidendo sulla base sia dei riscontri probatori contingentemente disponibili, sia delle esigenze repressive valutate di caso in caso (così, ad esempio, la soglia minima della partecipazione associativa punibile è stata dalla giurisprudenza più volte individuata nella mera sottoposizione al rito di affiliazione, non ritenendosi necessario anche il successivo ed effettivo compimento di concreti atti espressivi del ruolo di associato, come viceversa richiede ai fini della punibilità l’orientamento più garantistico predominante nella dottrina accademica). E’ forse superfluo esplicitare che un tale stile decisorio contraddice, in maniera vistosa, i principi di un diritto penale di ascendenza illuministico- liberale. In una recente rievocazione, promossa dalla Camera penale di Palermo, del celebre maxiprocesso alla mafia siciliana istruito ormai più di un trentennio fa da Giovanni Falcone e da alcuni suoi colleghi di allora, si è ridiscusso del tormentoso problema di fondo di come rendere compatibile il contrasto giudiziario alle mafie con un modello di giustizia penale liberale e con i principi del giusto processo. Partecipando alla discussione, ho ricordato che lo stesso Falcone - come risulta da svariati suoi scritti ricchi di acume analitico e propositivo, successivamente raccolti nel volume Interventi e proposte (Sansoni, 1994) - aveva ben chiari i non pochi inconvenienti dei maxiprocessi in termini di gigantismo processuale e di conseguente oggettiva difficoltà di accertare in maniera approfondita le colpevolezze individuali dei numerosi soggetti sottoposti a giudizio: e che, rendendosi altresì conto della tendenziale incompatibilità tra i processi di grandi dimensioni e il nuovo rito di stampo accusatorio (beninteso, considerato nella versione originaria) allora ancora in gestazione, egli raccomandava di privilegiare non già la strada dell’illecito di associazione (dispositivo di incriminazione comodo e servizievole anche per la sua idoneità a consentire scorciatoie probatorie), bensì la ricerca dei singoli reati-scopo rientranti nel programma associativo, e di concentrare su di essi la verifica processuale. Un metodo d’indagine, questo, a suo giudizio per un verso più efficace per rendere meno evanescente la prova e, per altro verso, più rispettoso delle istanze di garanzia. Ritengo che questi suggerimenti di Giovanni Falcone meritino di essere, oggi, ripresi e rimeditati. A maggior ragione, considerando che la tendenza giudiziale all’utilizzo della fattispecie associativa è andato sempre più diffondendosi anche in settori criminosi che poco hanno a che fare con la criminalità organizzata, sovrapponendosi spesso in maniera indebita al concorso criminoso in uno o più reati specifici. Minori a rischio, comunità al collasso: mancano posti ed educatori. Un ospite su due è straniero di Elisabetta Andreis Corriere della Sera, 22 ottobre 2022 Le difficoltà di gestione date anche dai casi complessi di minori con dipendenze o disagio psichico. Don Rigoldi: “Utile affiancare agli operatori alcuni mediatori culturali, magari con un passato sulla strada”. Chiuso in una cella del Cpa di Torino l’ormai noto Bilal aspetta che in udienza il gip del Tribunale per i minorenni decida se convalidare il suo arresto e applicare una misura cautelare come chiede la Procura. Capirà bene quello che sta succedendo? Troverà lì dentro qualche adulto in grado di agganciarlo, parlare la sua lingua, stare con lui? È arrivato dal Marocco come minore straniero non accompagnato, è stato colto in flagranza di reato sette volte in due mesi per furto di Rolex e collanine, aveva detto di avere 12 anni e invece, dagli ultimi accertamenti medici, ne avrebbe 14. Potrebbe quindi finire in carcere. La sua vita sbandata è finita in modo traumatico nelle mani della giustizia. E lui - Bilal - cosa pensa? “Anche per un ragazzino non imputabile penalmente il magistrato può disporre misure di sicurezza contenitive, sotto questo aspetto avere meno di 14 anni non lascia il Tribunale senza strumenti, non è questo il punto - ridimensiona Paolo Tartaglione, responsabile della comunità Arimo -. Bisogna chiedersi invece perché continuava a scappare dalle comunità, non è un tema banale”. Le strutture chiudono per mancanza di educatori in un momento storico in cui un ospite su due ha origini straniere e quelle che resistono non hanno le risorse sufficienti e adatte per agganciare d’istinto, in tempi brevi, ragazzini così problematici: “Regione Lombardia ha dato da poco la libertà di assumere anche psicologi, sociologi e esperti di scienze sociali, oltre che laureati in scienze dell’Educazione, ma forse non basta - aggiunge don Gino Rigoldi -. Talvolta sarebbe utile affiancare mediatori culturali o giovani che magari abbiano fatto la vita di strada e riescono a ispirare un rapporto di fiducia subito, complici le esperienze comuni, il Paese d’origine, la lingua”. I minori che presentano una elevata multi problematicità, magari anche per l’abuso di sostanze o disagio psichico, possono rendere difficile la gestione interna nelle comunità non specializzate, a maggior ragione se si creano numerosi gruppi mono-etnici coesi che entrano in contrapposizione tesa o violenta con altre etnie, sottolinea Francesca Perrini, dirigente del Centro di giustizia minorile: “Le strutture talvolta non danno più la disponibilità all’accoglienza di minori stranieri nell’area penale” tanto che, aggiunge la presidente del Tribunale di via Leopardi Maria Carla Gatto, “in questo momento non è neanche possibile eseguire misure penali di collocamento in comunità perché non ci sono posti”. La situazione è esplosiva e le stime della Procura parlano chiaro: negli ultimi nove mesi almeno un minore su dieci colto in flagranza di reato era “senza fissa dimora”. O visto da un’altra angolazione: finora nel 2022 e nel distretto di competenza il Tribunale ha aperto 1.400 procedimenti (contro i 984 di tutto il 2021) ma di questi, solo 900 ragazzi risultavano inseriti in comunità. Gli altri 500 se la cavavano altrove: in casi estremi forse per strada, da soli, dove organizzazioni più grandi di loro si impossessano troppo presto della loro infanzia. “Uno dei momenti più tristi del nostro lavoro è quando vediamo arrivare i ragazzini. Spesso sono sporchi, spaventati e affamati, oltre che soli - racconta Francesca Ciulli, storica operatrice di comunità. Ricordo come fosse ieri Hafi: aveva 13 anni, era molto magro e indossava un impermeabile chiaro, lungo e grande, aveva i capelli schiacciati sulla fronte e non parlava una parola di italiano. La polizia era intervenuta mentre un tossicodipendente reclamava da lui la sua dose di eroina gratis, minacciandolo con una bottiglia di vetro rotta; l’aveva già tagliato sull’avambraccio, se non fosse passata la volante avrebbe fatto l’ennesima fuga senza sapere dove andare”. “La storia di Bilal per certi aspetti è analoga. Dice di avere 12 anni ma si atteggia da adulto e vuole essere trattato da adulto” considera ancora Emanuele Martinoli, socio storico della comunità Oklahoma. “Dice che deve lavorare per aiutare la famiglia d’origine: un desiderio infantile in un corpo da bambino che pretende di essere grande. Come dovremmo trattare allora Bilal (e i prossimi Bilal) che arriveranno o verranno mandati in Italia per cercare lavoro e aiutare la loro famiglia?”. Dovremmo dare loro un lavoro, in deroga alle leggi sul divieto di lavoro minorile, per consentirgli di guadagnare i soldi (meglio che rubare) e aiutare la famiglia? Dovremmo dare loro un tetto, del cibo e la scuola garantendo sostegno economico alla famiglia di origine? O dovremmo rimandarli a casa appena li individuiamo? Quale di queste soluzioni è corretta e quale possiamo permetterci? Bilal, cella o comunità? Il rischio della battaglia giudiziaria sul destino del baby rapinatore di Cesare Giuzzi Corriere della Sera, 22 ottobre 2022 Il gip del Tribunale dei minori deve decidere sul futuro del ragazzino. Secondo gli esami ossei ha tra i 13 e i 14 anni. Ma in base alla data di nascita da lui dichiarata potrebbe avere già superato l’età limite e finire in un carcere minorile. Quanti anni ha Bilal? È questa la domanda - che rischia di diventare un caso giudiziario - alla quale dovrà rispondere sabato il gip del Tribunale dei minori che si trova a decidere sul futuro del (presunto) 12enne marocchino fermato sei volte negli ultimi dieci giorni per furti e rapine. Se Bilal, come sostiene adesso la procura dei minori, ha 14 anni allora per la legge italiana è imputabile e potrà essere accusato per la duplice rapina di giovedì notte e, se il giudice lo riterrà, chiuso in un carcere minorile in custodia cautelare in attesa di giudizio. Al contrario, se prevarrà la linea adottata in questi mesi da varie procure dei minori italiane, compresa fino a giovedì quella di Milano, non c’è certezza scientifica che Bilal abbia compiuto i 14 anni, allora dovrà essere subito liberato e, come minore non accompagnato, collocato in una comunità. Struttura dalla quale è sempre fuggito nei suoi quattro mesi di vita in Italia. Tutto ruota intorno a una perizia medico legale e alle sue diverse interpretazioni, a patto che di interpretazioni si possa parlare visto che la procedura scientifica dell’esame osseo (polso, mano, scapola, dentatura) è universalmente riconosciuta come il criterio di legge per stabilire l’età dei minori. Quindi con procedure chiaramente codificate e standardizzate. L’esame medico legale sul corpo di Bilal è stato eseguito dal Labanof di Cristina Cattaneo, eccellenza internazionale in ambito medico legale. La polizia e il pm dei minori Pietro Moscianese Santori sono convinti di avere in mano le carte giuste per provare un’età superiore o molto vicina ai 14 anni. Per legge si terrebbe conto del valore più favorevole per l’indagato. D’altro canto i carabinieri, che finora hanno fermato Bilal 5 volte, dalla stessa procura hanno sempre avuto una linea diversa, ossia quella della non imputabilità. La questione fondamentale è legata a un primo controllo compiuto dalla polizia a settembre, la prima volta a Milano. In quella circostanza Bilal ha dichiarato agli agenti una data di nascita di metà ottobre 2008. Gli esami ossei hanno poi definito un’età tra i 13 e i 14 anni. Non avendo compiuto con certezza i 14 anni era stato rilasciato. E lo stesso hanno fatto i carabinieri successivamente. Giovedì quando è stato di nuovo bloccato in base a quella data originaria risultava avesse compiuto i 14 anni. Così il pm Moscianese Santori ha disposto l’arresto. E venerdì ha chiesto la convalida dell’arresto (che se ha meno di 14 anni sarebbe nullo) e l’emissione di una misura per tenerlo in carcere alla luce della escalation di rapine. Sabato tocca al giudice stabilire chi ha ragione e se in caso di esami controversi Bilal debba attendere in cella il suo destino. Quello di Bilal è un caso limite. Ma non isolato. Ma resta una questione di fondo. Sia che abbia 14 anni, sia che ne abbia 12, è possibile che la sola risposta per toglierlo dalla strada sia affidata al carcere? Il collocamento in comunità s’è dimostrato insufficiente perché Bilal non vuole volontariamente restare nelle strutture. Ma è un bambino (o poco più), beve, assume psicofarmaci, droghe e ha la scabbia. Possibile che la sola via per fermarlo e salvarlo debba passare da un carcere? Emilia Romagna. Numeri dei detenuti in diminuzione: negli ultimi vent’anni calo del 20% forlinotizie.net, 22 ottobre 2022 Offrire opportunità di cambiamento e reinserimento sociale alle persone recluse soddisfa un doppio obiettivo: garantire il pieno rispetto della dignità delle persone all’interno delle strutture penitenziarie e, al contempo, preservare il bene collettivo della sicurezza sociale intervenendo sui fattori più strettamente correlati alla recidiva, attraverso interventi di prevenzione, cura e reinserimento sociale. In Commissione per la parità e per i diritti delle persone, presieduta da Federico Amico, i funzionari dell’esecutivo regionale hanno esposto la relazione sulla clausola valutativa rispetto alle disposizioni per la tutela delle persone ristrette negli istituti penitenziari dell’Emilia-Romagna (per il triennio 2018-2020), rilevando la necessità, come evidenziato dagli assessorati guidati da Donini e Schlein, di garantire all’interno delle strutture penitenziarie, per la popolazione carceraria, un’esistenza dignitosa e rispettosa nonché offrire opportunità di cambiamento e reinserimento sociale e lavorativo. Negli ultimi anni sono state molte le disposizioni in materia penitenziaria che hanno interessato in modo particolare il tema del sovraffollamento nelle carceri: dal 2010 al 2022, infatti, la popolazione carceraria italiana è passata da 67.961 a 55.835 (dati al 30 settembre), per l’attuale capienza che arriva a 50.942 unità. Nei dieci istituti della regione si contano 3.379 detenuti (dati sempre al 30 settembre 2022), di cui 1.633 stranieri e 146 donne, per una capienza di 3.013 unità. Il calo record, anche per alcuni interventi della corte europea, è stato del 17,8 per cento a livello nazionale tra il 2013 e il 2014. Anche nell’arco del triennio preso in considerazione da questa relazione l’indice di sovraffollamento ha segnato un calo importante, pari al 10 per cento in Emilia-Romagna (a fronte della riduzione del 7,4 per cento a livello nazionale). La Regione Emilia-Romagna sostiene i percorsi collegati alle misure di esecuzione penale esterna. Per la giunta regionale resta poi centrale il tema della salute in carcere, il benessere della persona deve essere promosso non solo con interventi di cura ma anche favorendo il rafforzamento e consolidamento delle capacità personali di empowerment, attraverso un percorso di responsabilizzazione sul proprio stato di salute e stili di vita. Gli investimenti fatti dalla Regione sono e rimangono rilevanti e, cosa altrettanto importante, continuativi nel tempo, dando così la possibilità alle diverse amministrazioni di programmare con una prospettiva temporale almeno di medio periodo. “Si apprezza un grande sforzo anche se restano alcune criticità: non possiamo rimanere indifferenti in particolare riguardo ai problemi psichiatrici, spesso collegati a dipendenze, che riguardano la popolazione carceraria. L’emergenza è sia sanitaria sia sociale e c’è una sproporzione rispetto alla presenza di detenuti stranieri”, ha evidenziato Valentina Castaldini (Forza Italia), che ha chiesto “forme di sostegno per le persone più fragili, alle quali deve essere consentito un punto di ripartenza”. “Serve una governance efficace, gli obbiettivi di gestione collegati alla popolazione carceraria devono essere chiari, occorre dare risposte ai bisogni, ci sono dei limiti a livello regionale rispetto alle competenze, in concorrenza con il livello nazionale”, ha rimarcato Roberta Mori (Partito democratico). La consigliera ha poi ribadito “la necessità di rafforzare l’assistenza sanitaria rivolta ai detenuti”. Infine, sempre sul tema detenzione, ha chiesto “particolare attenzione per le minoranze”. Anche per Simone Pelloni (Lega) “i dati da analizzare sono quelli sulla popolazione carceraria straniera, evidentemente le politiche d’integrazione non hanno funzionato”. Lo stesso presidente Amico, che ha parlato anche della recente iniziativa sulla consegna del cosiddetto “codice ristretto” nelle carceri della regione, ha rilevato che nel sistema carcerario regionale sono presenti tutta una serie di problematiche rispetto alla gestione complessiva di tutto l’apparato. Campania. Lunedì relazione semestrale del Garante regionale dei detenuti askanews.it, 22 ottobre 2022 È in programma per lunedì 24 ottobre 2022, alle ore 10,30, presso l’aula del Consiglio regionale della Campania, la presentazione della relazione semestrale 2022 del Garante campano delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello. La relazione sarà introdotta dai saluti del presidente del Consiglio regionale della Campania, On. Gennaro Oliviero e dal portavoce della Conferenza nazionale dei Garanti regionali e territoriali, Stefano Anastasia. La relazione, elaborata dall’Osservatorio regionale sulla vita detentiva, ripercorre l’attività svolta dal Garante, nel semestre di riferimento gennaio-giugno 2022, e raccoglie ed evidenzia le criticità, ma anche le buone prassi, nei luoghi in cui vi sono persone private della libertà personale. Focus dell’attività del Garante, infatti, non è solo il carcere, per adulti e per minori, ma anche le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, i Servizi psichiatrici di diagnosi e cura (dove vengono effettuati i Trattamenti sanitari obbligatori), nonché tutta l’area penale esterna. “La presentazione della relazione semestrale, redatta in ottemperanza alla legge regionale del 2006 di istituzione dell’organo di garanzia dei detenuti in Campania, si presenta come momento di confronto per costruire un progetto comune, volto non solo alla tutela dei diritti delle persone private della libertà personale, ma soprattutto alla partecipazione dei soggetti esterni al carcere, nel costruire percorsi alternativi alla detenzione, affinché il carcere non rappresenti una risposta semplice a bisogni complessi “- ha dichiarato il garante campano Ciambriello. Saluzzo (Cn). Detenuto per reati di stampo mafioso muore suicida in carcere di Devis Rosso La Stampa, 22 ottobre 2022 Un detenuto è stato trovato morto nel carcere “Morandi” di Saluzzo (Cuneo). Si gratta di Agostino Matassa, palermitano d 64 anni, condannato a 14 anni e mezzo di carcere al processo. Si sarebbe suicidato usando lacci delle scarpe legati all’inferriata della finestra della cella. Era stato condannato in via definitiva, nel marzo scorso, dalla Cassazione nel procedimento nato dall’inchiesta della Dda “Apocalisse” che riguardava le cosche mafiose palermitane di Tommaso Natale, Resuttana, Partanna Mondello, San Lorenzo e Acquasanta. Secondo quanto si è appreso, Matassa si trovava in una cella singola doveva aveva chiesto di essere spostato per avere ricevuto minacce da altri detenuti, al rientro dopo un periodo passato nel reparto infermeria per avere tentato il suicidio ingerendo medicinali. Era stato salvato dagli agenti di polizia carceraria. Modena. Morì nella rivolta al carcere, la Cedu chiede chiarimenti di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2022 La Corte europea ha comunicato al governo italiano il ricorso presentato dalla famiglia di Chouchane Hafedh, uno degli otto detenuti morti a marzo 2020, aprendo così la fase di pre-contenzioso. La Corte Europa di Strasburgo ha comunicato al governo il ricorso presentato dalla famiglia di Chouchane Hafedh, uno degli otto detenuti morti a marzo 2020 durante la rivolta scoppiata nel carcere di Modena. Si è quindi superato il primo vaglio e aperta la fase di pre-contenzioso, che si concluderà il 21 dicembre.La famiglia di Chouchane è assistita in questa iniziativa dall’avvocato Luca Sebastiani e dalla professoressa Barbara Randazzo. Tutto nasce dall’archiviazione a Modena del fascicolo penale - che ipotizzava l’omicidio colposo e morte e lesioni come conseguenza di altro delitto - dopo che le autopsie avevano rilevato in overdose da metadone e psicofarmaci le cause delle morti. I legali hanno presentato il ricorso direttamente alla Cedu, poi è seguito un filtro iniziale. Si tratta di un iter complesso che coinvolge gli esperti della cancelleria che verificano se ci sono gli estremi delle violazioni. Il ricorso ha superato questo filtro ed è stato registrato, fino ad arrivare alla realizzazione del secondo passo: la comunicazione al governo italiano. Ora si avvierà il contraddittorio ed è l’occasione per conoscere in che modo il governo intende difendersi dalle doglianze. Per gli altri otto detenuti morti, ricordiamo, è stato presentato il ricorso alla Cedu da parte dell’avvocata Simona Filippi di Antigone. Nel frattempo a Modena sono state aperte altre inchieste, dopo esposti di detenuti, anche per il reato di tortura. Come anticipato da Il Dubbio il 31 marzo scorso, dalle testimonianze di alcuni detenuti raccolti dalla procura, emergerebbe che nel carcere Sant’Anna, il giorno della rivolta, diversi detenuti sarebbero stati ammassati in una stanza: obbligati con lo sguardo a terra, alcuni sarebbero stati denudati con la scusa della perquisizione, e via a una violenta scarica di manganellate e ceffoni. Dalle testimonianze raccolte emergerebbe un vero e proprio massacro che ha luogo in un locale situato in un casermone attiguo al carcere di Modena, prosegue durante il viaggio notturno in pullman e non si esaurisce quando i detenuti giungono al penitenziario di Ascoli Piceno. Tanti di quei reclusi denudati e picchiati nel casermone dell’istituto carcerario Sant’Anna di Modena erano già in stato di alterazione dovuto da mega dosi di metadone assunte durante la rivolta dell’8 marzo 2020. Tutte le testimonianze raccolte convergono su una vera e propria “macelleria messicana”, tanto che - come ha testimoniato un detenuto - c’è stato un agente penitenziario, una volta entrato nella stanza del casermone, che avrebbe urlato: “Adesso facciamo un altro G8!”. Il ricordo va inevitabilmente ai terribili fatti della scuola Diaz avvenuti a Genova nel 2001, quando la polizia fece irruzione e al grido “Adesso vi ammazziamo”, picchiò i ragazzi del coordinamento del Genoa Social Forum. Parma. Il Comune cerca un nuovo Garante dei detenuti La Repubblica, 22 ottobre 2022 Pubblicato l’avviso per la presentazione di candidature per la nomina. È stato pubblicato l’avviso pubblico per la presentazione di candidature per la nomina a Garante dei diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Parma. La candidatura dovrà pervenire entro e non oltre le ore 12 del 10/11/2022. Il Garante rimane in carica cinque anni e può essere rieletto per una sola volta. Viene scelto tra cittadini italiani con comprovata competenza nel campo delle scienze giuridiche, dei diritti umani o nel campo delle attività sociali negli Istituti di prevenzione e pena e nei Servizi sociali, oltre che con esperienze acquisite nella tutela dei diritti. Il Garante opera in piena libertà e indipendenza, senza essere sottoposto a alcuna forma di controllo gerarchico e funzionale, per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale anche mediante: la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene; la promozione di iniziative volte a affermare per il pieno esercizio dei diritti delle persone private della libertà personale, comportanti relazioni e interazioni operative anche con altri soggetti pubblici competenti in materia. Si tratta di una figura importante per lo sguardo che dedica in particolare alle condizioni detentive, affinché non venga mai meno la dignità della persona né il rispetto del dettato costituzionale. Nello svolgimento del suo ruolo è coadiuvato dalla collaborazione con la Rete dei Garanti; in primis con il proprio corrispondente regionale e poi con gli altri Garanti comunali e il Garante Nazionale. Anche nelle situazioni critiche, che possono nascere all’interno delle realtà detentive, il Garante Comunale può svolgere un compito significativo di mediazione tra le persone detenute e le autorità, grazie alla conoscenza della realtà del Carcere e dal dialogo instaurato. L’avviso, la modulistica e i dettagli sono scaricabili al link: https://bit.ly/3Dieaq6. Info: l.squeri@comune.parma.it. Bologna. L’officina dentro la Dozza, “qui è come la libertà” ansa.it, 22 ottobre 2022 “Qui è come la libertà, non è come essere in cella”. Così un detenuto albanese del carcere della Dozza a Bologna descrive l’esperienza lavorativa a Fare Impresa in Dozza srl, impresa sociale specializzata in metalmeccanica che sorge proprio all’interno della Casa circondariale di via del Gomito, dove un tempo c’era una palestra. Passato l’ex caseificio, si entra in una “realtà nella realtà”, in tutto e per tutto simile - e di fatto lo è - a un’officina, con i muletti, gli attrezzi, gli utensili da lavoro. Qui lavorano dal lunedì al venerdì 13 detenuti affiancati da cinque tutor (operai in pensione) a cui ha fatto visita una delegazione di politici e imprenditori tra cui il ministro del Lavoro Andrea Orlando, il commissario europeo Nicolas Schmit e il vicepresidente di Confindustria, Maurizio Marchesini. Che spiega: “La scommessa è dare ai detenuti un futuro, oltre che un presente”. Un futuro anche per Moses, 31enne nigeriano in carcere dal 2012 per tentato omicidio. Mentre mostra la cellofanatrice che ha appena finito di realizzare racconta: “Il carcere è un’esperienza unica. Mi ha insegnato che tutto dipende dalle scelte che fai nella vita. Puoi continuare a essere un delinquente, oppure imparare qualcosa”. Bologna. Giustizia riparativa, nasce il primo sportello per aiutare i detenuti di Nicola Maria Servillo Il Resto del Carlino, 22 ottobre 2022 Apre in via Polese 15 il primo sportello pubblico dedicato alla giustizia riparativa. Ieri è stata inaugurata la sede del progetto ´Territori per il reinserimento: servizi per la giustizia riparativa e a favore delle vittime di reato´ dall´assessore al welfare Luca Rizzo Nervo affiancato da Stefano Brugnara, amministratore unico di asp Cittá Bologna, Lorenzo Cipriani, presidente del quartiere Porto Saragozza e Claudia Landi, presidentessa dell´associazione Cimfm Bologna. L’iniziativa ha lo scopo di fornire aiuti e servizi ai cittadini che escono da situazioni giudiziarie che le hanno segnate negativamente e intendono riprendere il controllo della propria vita. L’altro obiettivo è quello di spargere la voce, informare e promuovere la cultura della riparazione a scapito dell’idea che la giustizia dovrebbe solo punire e non riabilitare. Tra le tante proposte, anche quella di organizzare incontri tra vittima e autore di un reato per poi attuare percorsi di riparazione. “Alla base di questo progetto giusto e ambizioso c’è un cambio di paradigma in materia di giustizia, perché l’obiettivo di mediare il conflitto tra la vittima e l’autore del reato nasce da un approccio molto diverso da quello classico della giustizia penale” ha spiegato l’assessore. Landi ha inoltre sottolineato che “è fondamentale avere un luogo fisico dedicato alla giustizia riparativa”. Sulla stessa lunghezza d’onda Brugnara e Cipriani, quest’ultimo ha fatto notare come “in una società incattivita come quella in cui viviamo, questo piano va molto controcorrente”. Milano. Progetto scuola-carcere: i Lions in visita al penitenziario di Bollate leccotoday.it, 22 ottobre 2022 Il Club Lecco Host ha incontrato i detenuti del gruppo di Arteterapia all’interno dell’iniziativa che ha coinvolto anche alcuni alunni dell’istituto Bertacchi. I Lions del Club Lecco Host hanno fatto visita al carcere di Bollate in qualità di sostenitori del progetto di incontro tra i ragazzi di diverse classi del Bertacchi e alcuni detenuti ed ex detenuti del gruppo di Arteterapia del penitenziario milanese. Grazie al contributo dei Lions, all’interno del libro “Avevano calcolato tutto tranne l’Imprevisto” verrà aggiunto un capitolo dedicato proprio all’esperienza di incontro tra i ragazzi della scuola superiore di Lecco e i detenuti all’interno del carcere. Scuola-carcere è un progetto attivo in Italia grazie alla partecipazione di docenti, studenti, dirigenti, associazioni e volontari. “Ci riteniamo costruttori di ponti, che mettono in relazione la popolazione che vive all’interno del carcere e tutta la società che ruota attorno ad esso e viceversa, in uno scambio utile alla crescita di entrambe le parti - ha dichiarato la lecchese Luisa Colombo, presidente dell’associazione Xsperienza e fondatrice del gruppo di arteterapia, impegnata nelle scuole e presso le carceri di Opera e Milano/Bollate - Questo progetto ha una duplice valenza, quella di adempiere a quanto indicato nell’articolo 27 comma 3 della Costituzione riguardo il recupero e reinserimento del condannato, e quella di portare avanti nelle scuole iniziative di sostegno alle fragilità e di prevenire tutto ciò che, a causa di scelte sbagliate, potrebbe sfociare in reato”. Il format e gli obiettivi dei progetti scolastici - Il format base dei progetti scolastici prevede tre incontri per ogni singola classe in cui il percorso si svolge, per un totale di 12 ore, con l’aggiunta di 3 ore per presentare il percorso alle famiglie: “Giusto coinvolgere i genitori per l’importanza e la delicatezza dei temi affrontati”. Nello specifico, lo scorso anno scolastico, solo all’istituto Bertacchi, Xsperienza ha svolto un totale di 29 incontri, rispettivamente nelle classi 3A e 3B scienze umane, un percorso di 30 ore per classe, nella classe 4B economico sociale un percorso di 12 ore e incontri suk tema carcere ed inclusione, in altre classi. Il progetto vedrà la sua conclusione nel prossimo mese di novembre, con l’incontro al carcere di Bollate per le classi 4Asul e 5Bsue. Chiara Boniotti nuova presidente del Lions Club Lecco Host - “Attraverso l’Arteterapia e la comunicazione terapeutica, ma soprattutto grazie all’ascolto di storie di vita vissuta da parte di alcuni detenuti in regime di detenzione alternativa, i ragazzi delle scuole hanno potuto affrontare un percorso che ha consentito loro di lavorare sul sostegno alle fragilità e di acquisire criteri e capacità di critica e autocritica per una maggiore consapevolezza dei propri comportamenti” - ricordano i Lions del Club Lecco Host. Gli incontri in carcere, svolti in via straordinaria in reparto, hanno permesso inoltre agli studenti di lavorare sulla sconfitta dei pregiudizi nei confronti dei detenuti e di dar voce alle loro emozioni, attraverso l’ascolto, il confronto e la condivisione. L’ascolto delle storie di detenuti ed ex detenuti - Durante la visita i soci del Lions Club Lecco Host, hanno potuto sperimentare una parte dell’esperienza che hanno vissuto anche i ragazzi del Bertacchi: l’ascolto delle storie di detenuti ed ex detenuti, un momento emozionate, sia per i soci sia per i ragazzi della casa di reclusione. “Durante l’incontro sono intervenuti anche Angelina Quattrocchi, funzionario giuridico della struttura e Giorgio Leggieri, Direttore del carcere di Bollate. Entrambi hanno sostenuto la scelta trattamentale del penitenziario, che non considera i detenuti numero di matricola, ma persone con bisogni e necessità da prendere in considerazione e su cui va steso un progetto educativo individuale, il tutto secondo il principio per cui il detenuto non è il reato che ha commesso. Il carcere di Bollate consente ai detenuti di non dover restare chiusi tutto il giorno in cella, offrendo la possibilità di accedere ad attività formative e culturali, di svago e lavorative, sia all’interno che all’esterno del carcere, con anche l’opportunità di frequentare dai corsi di alfabetizzazione, ad alcuni indirizzi della scuola superiore e dell’Università”. Questa metodologia operativa ha portato al conferimento al carcere di Bollate del primato di minor numero recidive sul territorio nazionale. I soci del club hanno infine cenato al ristorante stellato “InGalera”, unico ristorante al mondo situato all’interno di un istituto penitenziario, dove lavorano alcuni detenuti. “Strategicamente, come ci è stato spiegato da Silvia Polleri, titolare del ristorante, l’ubicazione all’interno della struttura ha consentito di offrire un’ulteriore sostegno ai detenuti, in termini di opportunità lavorativa e di indirizzare i clienti, accompagnandoli durante il pranzo o la cena, con una serie di proposte volte a far riflettere su una realtà che nella maggior parte dei casi, la società comune non conosce e che troppo spesso, ancora è vittima di pregiudizi”. La serata si è conclusa con il ringraziamento reciproco tra il carcere di Bollate e i soci del Lions Lecco Host, con la speranza che questo progetto scuola-carcere, possa estendersi in un numero sempre maggiore di scuole, anche nella città di Lecco. Cremona. Gherardo Colombo lunedì in carcere con i detenuti-scrittori cremonaoggi.it, 22 ottobre 2022 “Residenza provvisoria, racconti dal carcere di Cremona” è il titolo di una raccolta di scritti i cui autori sono alcuni dei detenuti del penitenziario di via Cà del Ferro. Gli scritti, frutto di un percorso di gruppo di parola condotto dagli operatori del progetto Restart 3.0 del Comune di Cremona e dell’Asst di Cremona, saranno presentati lunedì 24 ottobre alle 9,30 all’interno della casa circondariale. Sarà un momento pubblico organizzato dalla direzione del carcere in collaborazione con il Comune, Asst e Regione Lombardia in cui sono stati invitati istituzioni ed enti del territorio. Particolarmente significativa sarà la presenza di Gherardo Colombo, ex magistrato, giurista e autore di saggi sui temi della giustizia e del carcere, che commenterà gli scritti dei detenuti. Foggia. La voglia di rivalsa dei carcerati nel libro “Al di là delle sbarre” foggiatoday.it, 22 ottobre 2022 Costruire un dibattito per capire anche quanto si è fatto e quanto si può ancora fare. Con la presentazione del libro di Luigi Talienti “Al di là delle sbarre”, si è voluto aprire un confronto con le associazioni che, quotidianamente, seguono i carcerati o chi ha appena finito di scontare la pena. Luigi Talienti, insegnante carcerario presso la casa circondariale di Foggia per 16 anni, racconta nel libro ‘Al di là delle sbarre’ la sua esperienza con i carcerati, quanto ci sia, in alcuni casi, la voglia di rivalsa e quanto si possa fare per il reintegro dopo la reclusione. Emarginazione e abbandono istituzionale sono le prime testimonianze che si è voluto evidenziare, nei confronti di chi ha espiato la propria pena. Oltre a Luxuria, che ha moderato l’incontro, interverranno il magistrato presso la Procura di Foggia Vincenzo Maria Bafundi, il presidente della cooperativa Salute Cultura e Società Antonio Vannella, il presidente Anpis Puglia Antonio Lo Conte e il segretario dell’associazione Libertà civile Giammarco di Biase. “Dopo alcune fortunate presentazioni letterarie e compositi interventi effettuati con alcune associazioni del territorio, dopo giornate dedite al tema della pace e altri interventi in cui abbiamo portato la nostra voce e la nostra identità, torniamo a occuparci di libri che stimolano dibattiti e riflessioni - argomenta Alessio Lusuriello, presidente dell’associazione Libertà civile. Torniamo con l’intento di proseguire da dove avevamo lasciato, ovvero dalla necessità quasi drammatica di riavvolgere il nastro delle idee e delle buone intenzioni, di ricominciare a instillare in questa città il sano dubbio che ci siano ancora spazi per il dialogo, per il confronto, per la crescita e l’elevazione del dibattito urbano e sociale. Dobbiamo stimolare un dibattito civile che provi ad andare oltre la delusione e lo scoramento collettivi Foggia ha bisogno soprattutto di autostima, per ripartire e ritrovare lo spessore che merita”. Messina. Un’ora di Arcobaleno al carcere di Barcellona messinatoday.it, 22 ottobre 2022 Si chiama “Un’ora di Arcobaleno” ed è ‘ennesimo progetto targato Crivop Italia ODV, associazione no-profit presieduta dal messinese Michele Recupero, che su impulso dell’articolo 28 della legge sull’ordinamento penitenziario che recita “Particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie” organizza nella casa circondariale di Barcellona Pozzo di Gotto un progetto in cui verranno coinvolti i figli dei detenuti. L’appuntamento è per oggi, sabato 22 ottobre, dalle 9 alle 12. Sei volontari della Crivop della sezione di Barcellona, insieme a sei giovani del gruppo di animazione “L’Arca delle Meraviglie” di Olivarella, intratterranno con vari giochi le famiglie dei detenuti, che, nell’occasione, sono state autorizzate dal magistrato di sorveglianza a trascorrere questi momenti di spensieratezza e di libertà nell’area verde dell’istituto. L’obiettivo è quello di diffondere amore e speranza. Sono stati autorizzate a partecipare a questa giornata dodici mamme, con diciannove bambini, che avranno la possibilità di stare sulle gambe del papà ristretto. Si inizierà con un corposo rinfresco, con dolci, patatine e bevande, offerte dalla Crivop. Subito dopo, entrerà in azione il gruppo di animazione, che intratterrà i bambini, facendoli giocare con i loro papà e con le loro mamme. Un progetto diventato realtà, come sottolinea la Crivop, grazie anche alla grande disponibilità della direttrice del carcere di Barcellona Romina Taiani. Se Stranamore torna all’ordine del giorno di Marco Bascetta Il Manifesto, 22 ottobre 2022 Atomica e pacifismo. La minaccia di una guerra atomica non era più all’ordine del giorno da diversi decenni. Lo è tornata con insistenza. E poco importa con quanta concreta possibilità di essere messa in atto. Sembrava decisamente in declino, l’atomo, che nel dopoguerra era stato posto al centro degli equilibri internazionali, della pace armata tra i blocchi e investito del compito di assicurare la potenza energetica del futuro. Poi, arrivò la spropositata crescita quantitativa degli arsenali nucleari. Che fu percepita come una spirale. Non solo dai costi stratosferici, ma anche a forte rischio di finire fuori controllo. Nessuno ci voleva rinunciare, ma limitazioni e regole condivise, ispezioni e controlli congiunti furono ritenuti ormai indispensabili e inscritti nei trattati. Quanto all’energia, costi e incidenti cominciarono a raffreddare gli entusiasmi mentre il problema delle scorie, tutt’ora irrisolto, prometteva sviluppi minacciosi. Movimenti pacifisti ed ecologisti, sempre più estesi e diffusi in molti paesi sviluppati prendevano di mira e cominciavano a ostacolare la corsa dell’atomo, Non solo per le sue devastanti potenzialità, ma anche perché funzionale a un modello di potere tecnocratico e accentratore, monopolistico e irregimentato. Grandi eventi come l’esplosione del reattore 4 di Chernobyl nell’aprile 1986 e il disastro nucleare della centrale giapponese di Fukushima, causato da un maremoto nel marzo del 2011, assestarono colpi decisivi, anche se non definitivi, al mito del nucleare benefico e sicuro. Fukushima convinse perfino Angela Merkel a porre fine al programma atomico tedesco, difeso per decenni con le unghie, coi denti e con la polizia dai suoi numerosi contestatori. A 11 anni da quell’evento, l’atomo sembra essere tornato protagonista di primo piano tanto nella deterrenza militare quanto nella produzione di energia. Con la paradossale patente ecologica di non influire, diversamente da altre fonti energetiche, sul cambiamento climatico. Tanto che perfino Greta Thunberg, (non senza qualche ragione) nell’ attuale situazione di crisi vedrebbe meno dannoso l’impiego del nucleare, piuttosto che un massiccio ricorso al carbone, suscitando così suo malgrado l’entusiasmo strumentale dei fautori dell’energia atomica oggi alla riscossa. Sul prolungamento di attività delle tre principali centrali nucleari tedesche si è del resto appena concluso, con la decisione “d’imperio” del cancelliere Scholz, un lungo e aspro braccio di ferro interno alla coalizione di governo tra liberali e verdi con un discreto compromesso. I primi puntavano a un cospicuo prolungamento dell’attività di tutte e tre le centrali della Rft che avrebbero dovuto spegnersi entro l’anno, mentre i verdi ne auspicavano l’attività di due sole e fino alla metà di aprile del ‘23. Per Scholz lavoreranno tutte e tre, ma non oltre la data voluta dai Gruenen. Cosa accadrà, tuttavia, se, a quella data, la crisi energetica dovesse essere ancora in pieno corso? Lo scontro nella coalizione, allora, sarà destinato a riaccendersi anche perché sotteso da visioni assai divergenti. Il fatto è che nella crisi della globalizzazione e degli scambi, e in una costellazione fortemente conflittuale dei rapporti internazionali, il nucleare viene spacciato, con ben poco realismo economico e molta propaganda politica, come una scappatoia autarchica e un fattore di indipendenza nazionale. L’energia nucleare, soprattutto per i paesi poveri di materie prime, è in fin dei conti un feticcio nazionalista. Non è un caso che le destre ne siano da sempre affascinate e ne sostengano insistentemente lo sviluppo. Anche per il rapporto, neanche troppo sotterraneo, che collega il nucleare civile a quello militare e comunque a una rappresentazione di potenza. L’annoso conflitto tra Teheran e Washington sul nucleare iraniano (paese niente affatto indigente quanto a fonti energetiche) è un buon esempio di questo intersecarsi di piani, tra pretese di sovranità, volontà di potenza e gendarmeria globale statunitense. A Zaporizhzhia, la gigantesca centrale nucleare ucraina, oggi controllata dalle truppe di Putin, molti nodi vengono al pettine. La più grande centrale d’Europa è, al tempo stesso, una contesa fonte di energia e una eventuale bomba surrettizia, capace di provocare spaventose devastazioni sotto forma di evento accidentale, peraltro già più volte sfiorato. Zaporizhzhia mette la parola fine a qualunque fantasia sul “nucleare sicuro” nel sempre più labile confine tra atomo civile e guerra nucleare. La bomba è in casa e basta poco a farla deflagrare sfuggendo alla responsabilità di un’esplicita scelta bellica. La minaccia di una guerra atomica non era più all’ordine del giorno da diversi decenni. Lo è tornata con insistenza. E poco importa con quanta concreta possibilità di essere messa in atto. L’equilibrio del terrore in fondo ancora funziona, anche se, come ci ha insegnato il dottor Stranamore, una imprevedibile catena di equivoci, imprevisti e paranoie può finire, scivolando su un piano inclinato, con l’attivare la macchina “fine di mondo”. Quel che conta e inquieta è che la guerra nucleare è tornata nell’ordine del discorso, è diventata un argomento ineludibile della politica e delle relazioni internazionali in grado di condizionare scelte, decisioni e prese di posizione. Sicuramente un fattore che torna potentemente ad agire sull’immaginario collettivo. Sospingendo governi e nazioni verso un’idea di sicurezza intesa come potenza e come minaccia. Una tendenza che dovrebbe essere il principale bersaglio dei movimenti pacifisti, e dunque necessariamente anti-nazionalisti, in procinto di scendere nelle piazze. Giustizia climatica e sociale, movimenti in piazza di Giuditta Pellegrini Il Manifesto, 22 ottobre 2022 Ambiente, lavoro e diritti: oggi a la manifestazione nazionale promossa da Fridays for future e Collettivo di fabbrica Gkn. La lunga giornata di protesta terminerà sul luogo della futura autostrada a otto corsie. È stato un lungo percorso partecipato, costellato di incontri e condivisioni quello che ha portato all’organizzazione del grande corteo promosso da Collettivo di Fabbrica Gkn, Fridays for Future Italia, Assemblea NoPassante e Rete Sovranità Alimentare che oggi attraverserà le strade di Bologna, accompagnando col battito dei tamburi il grido di “Convergere per insorgere”. Riunendo i numerosi movimenti attivi nel rivendicare un’alternativa a un modello di vita sempre più asfissiante e precario, la manifestazione segue il sentiero pioniere aperto dal Collettivo più di un anno fa, quando proclamò l’assemblea permanente, riprendendosi la fabbrica di Campi di Bisenzio dopo aver appreso via email il licenziamento dei 422 operai che ci lavoravano. 15 mesi fondamentali che hanno portato alla revoca della lettera di licenziamento da parte del Tribunale di Firenze, ma anche per il merito di aver spostato l’asse del dibattito pubblico dall’antica ottica del ricatto fra lavoro e salute a quella in cui non è più possibile separare i diversi fronti della crisi ecologica e sociale. Per questo il corteo, che partirà alle 15 da Piazza XX Settembre, si sposterà poi sulla tangenziale, luogo simbolo delle lotte sociali e ambientali della città emiliana. Qui infatti si dovrebbe sviluppare il progetto di allargamento dell’attuale tracciato di autostrada e tangenziale del cosiddetto “Passante di mezzo”, con un aumento previsto fino a 18 corsie, non lontano dal centro storico di Bologna. I gruppi ambientalisti hanno denunciato il consumo di suolo che ne deriverebbe e l’aumento di traffico stradale: numerosi studi hanno dimostrato infatti come questo tipo di progetti incoraggino di fatto gli spostamenti su mezzo privato, non rispondendo quindi affatto al modello di mobilità sostenibile auspicata per fronteggiare i cambiamenti climatici, soprattutto in una zona altamente inquinata come la pianura padana. Il passante, che l’amministrazione ha voluto dipingere come uno dei progetti di viabilità più sostenibili, nonostante le evidenti contraddizioni, è divenuto quindi “la miglior metafora della crisi climatica: le sue cause, infatti, sono legate a un sistema che privilegia i profitti rispetto ai diritti, che dà priorità al Pil invece che alla cura e alla salvaguardia dei luoghi che viviamo” si legge nel comunicato di una delle realtà promotrici della giornata, Bologna For Climate Justice : “Il Passante di Mezzo è il simbolo delle politiche energetiche che favoriscono le multinazionali, alle quali continuano a essere consentiti investimenti e profitti sulle fonti fossili e per le quali si scatenano guerre; rappresenta un modello nel quale le città diventano parchi tematici, e le fragili montagne luoghi dove massimizzare il profitto; perpetua un sistema economico in cui l’agricoltura non serve a produrre cibo di qualità per tutte/i, ma a garantire gli interessi dei grandi consorzi agroalimentari rivolti al mercato globale”. È per questo che oggi le numerose realtà che hanno aderito, tra le quali movimento No Tav, Convergenza Contadina e Agroecologica, Ari, associazione Rurale italiana, Reca, Rete per l’emergenza climatica e ambientale Emilia-Romagna, Fuori mercato - Autogestione in movimento, Genuino Clandestino Firenze, Mondeggi Fattoria Senza Padroni, Extinction Rebellion, Coordinamento migranti, Mujeres libres, Legambiente, sfileranno dietro allo striscione “fine del mese, fine del mondo: stessa lotta”, per portare la propria voce nella formulazione molteplice del conflitto sociale. La parola convergenza, come ha argomentato il Collettivo in un comunicato, non è infatti da intendere come “un’addizione delle singole parti” o “un’unità omologante”, ma una sfida in cui “lavoratrici e lavoratori, studenti e precarie, donne, migranti, persone Lgbtqiap+ si mettono in comunicazione, in cui percorsi molteplici possano confrontarsi e trasformarsi individuando terreni condivisi di lotta entro i quali dare forza alle proprie istanze oltre gli schemi dati e gli scenari già tracciati”. Oltre lo schema è possibile infatti abbracciare un’ottica di responsabilità collettiva e il potere che essa assume nell’avere un impatto sulla realtà. Migranti. L’Onu all’Italia: il governo Conte 1 ha violato i diritti umani dei rifugiati di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 22 ottobre 2022 Le conclusioni del Comitato delle Nazioni Unite per i Diritti Economici, Sociali e Culturali. Il Comitato delle Nazioni Unite per i diritti economici, sociali e culturali (Cescr) ha pubblicato le sue conclusioni su El Salvador, Guatemala, Lussemburgo, Mongolia, Tagikistan e anche l’Italia. Per quanto riguarda il nostro Paese ha espresso preoccupazione per l’approccio punitivo al consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di Riduzione del danno. Così come auspica una modifica del decreto immigrazioni attuato durante il Governo Conte uno, perché ha contribuito ad aumentare il numero dei migranti irregolari e quindi il loro sfruttamento. Il Cescr, ricordiamo, e un comitato dell’Onu composto da 18 esperti indipendenti che controlla l’attuazione del Patto internazionale sui diritti economici, sociali e culturali da parte dei suoi Stati parti. Il Comitato è stato istituito ai sensi della Risoluzione Ecosoc 1985/ 17 del 28 maggio 1985 per svolgere le funzioni di monitoraggio assegnate al Consiglio Economico e Sociale delle Nazioni Unite (Ecosoc) nella Parte IV del Patto. Tutti gli Stati parti sono obbligati a presentare relazioni periodiche al Comitato sulle modalità di attuazione dei diritti economici, sociali e culturali. Gli Stati devono presentare una relazione inizialmente entro due anni dall’accettazione del Patto e successivamente ogni cinque anni. Il Comitato esamina ogni rapporto e indirizza le sue preoccupazioni e raccomandazioni allo Stato parte sotto forma di ‘osservazioni conclusive’. Oltre alla procedura di segnalazione, il Protocollo Opzionale al Patto Internazionale sui Diritti Economici, Sociali e Culturali, entrato in vigore il 5 maggio 2013, attribuisce al Comitato la competenza a ricevere e prendere in considerazione le comunicazioni di soggetti che affermano che i loro diritti ai sensi del Patto hanno stato violato. Il Comitato può anche, in determinate circostanze, intraprendere indagini su violazioni gravi o sistematiche di uno qualsiasi dei diritti economici, sociali e culturali stabiliti nel Patto e prendere in considerazione reclami interstatali. Il Cescr, tra i vari punti critici, aveva chiesto all’Italia di fornire informazioni sulla misura in cui lo Stato parte ha adottato misure legislative e istituzionali per migliorare la situazione dei diritti economici, sociali e culturali di migranti, richiedenti asilo e rifugiati. Ha pregato, inoltre, di fornire informazioni su tutte le misure adottate per garantire che la legge n. 132/ 2018 sull’immigrazione e la sicurezza non pregiudichi il godimento dei diritti al lavoro, all’alloggio, alla salute e all’istruzione da parte di migranti e richiedenti asilo, soprattutto in relazione all’abolizione della protezione umanitaria, all’introduzione di procedure accelerate e nuovi motivi di trattenimento dei richiedenti asilo e alle modifiche apportate al sistema di accoglienza. La risposta però non è stata convincente, tanto da concludere che rimane preoccupato per il limitato godimento dei loro diritti. Infatti contesta il decreto sicurezza del 2018, sottolineando ce ha contribuito ad aumentare il numero dei migranti irregolari in Italia e ne ha aumentato il rischio di sfruttamento. Inoltre, l’Onu è preoccupata per il fatto che una comunicazione poco chiara relativa a varie campagne di regolarizzazione abbia scoraggiato le domande di regolarizzazione. Per questo chiede al nostro Paese di rivedere la legge. Il Cescr esprime anche preoccupazione per l’approccio punitivo al consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione e del danno e raccomanda che l’Italia riveda le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme internazionali sui diritti umani e alle migliori pratiche, e che migliori la disponibilità, l’accessibilità e la qualità degli interventi di riduzione del danno. Il muro anti migranti di Sanna Marin che l’Europa non critica di Alessandra Muglia Corriere della Sera, 22 ottobre 2022 Quella tra Finlandia e Russia sarà la prima barriera anti profughi voluta in Europa da un governo progressista: effetto collaterale dell’aggressione russa dell’Ucraina. Sarà la prima barriera anti migranti in Europa voluta da un governo progressista. Correrà per 260 chilometri lungo il confine tra Finlandia e Russia. L’obiettivo è assicurare “un adeguato controllo delle frontiere negli anni a venire”, ha spiegato la premier socialdemocratica Sanna Marin, dopo aver annunciato l’ampio sostegno politico al piano, trasversale a maggioranza e opposizione. L’Ue, che in passato aveva sempre criticato apertamente i muri anti profughi costruiti in Europa, a iniziare da quello voluto dal premier ungherese, il sovranista Viktor Orbán, nel 2015 al confine con Serbia e Croazia per frenare gli arrivi dai Balcani, di fronte alla guerra di Putin non si è opposta. Piano bipartisan - Ora quello che è sempre stato un cavallo di battaglia della destra populista - la difesa dei confini anche con muri anti migranti - è diventato un progetto bipartisan in un Paese a guida socialdemocratica. Non tanto perché Sanna Marin - donna, giovane e aperta sui diritti civili - riscuote ampi consensi in Europa. Il fatto è che il muro anti migranti serve a rispondere alla minaccia di una guerra ibrida di Putin, con i flussi migratori usati come arma di destabilizzazione. Il suo “sdoganamento” a sinistra può essere considerato un “effetto collaterale” dell’aggressione russa dell’Ucraina. Il timore di Helsinki è che la Russia decida di spingere verso il suo territorio migliaia di migranti per mettere il Paese in difficoltà come accaduto in passato in Polonia e Lituania con i profughi bielorussi. Dall’inizio della guerra in Ucraina, il 24 febbraio, sono arrivati nel paese scandinavo oltre 40mila russi. Dopo la mobilitazione parziale, annunciata il 21 settembre scorso dal Cremlino, Helsinki aveva imposto il divieto di ingresso nel Paese ai “turisti russi” nel timore che possano mettere a rischio la sicurezza interna. Confini chiusi dunque a tutti i cittadini russi che cercano di entrare con il visto, con pochissime eccezioni: dissidenti, studenti e casi di ricongiungimento familiare. Recinzione metallica con sensori- Per agevolare i controlli alle frontiere, ecco dunque il piano del muro: una recinzione metallica sormontata da filo spinato, con sensori e telecamere di sorveglianza disseminati lungo il lato Sud della frontiera con la Russia: un quinto degli oltre 1.300 chilometri, dalla Norvegia al mar Baltico, il tratto considerato più a rischio di una futura “migrazione di massa” da Est. Scambio Nato-curdi - La compattezza dei partiti finlandesi sulla scelta di “proteggere” il confine orientale rispecchia la svolta della Finlandia rispetto all’assetto raggiunto dopo la Seconda guerra mondiale: l’abbandono della storica posizione di equidistanza tra i due blocchi e il prossimo inserimento nell’Alleanza atlantica. La svolta della politica estera di Helsinki è avvenuta il 28 giugno scorso quando la Turchia ha ritirato il veto all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato. Per entrare nella Nato Sanna Marin ha accettato di estradare in Turchia i curdi rifugiati in Finlandia, da Erdogan considerati “terroristi”, mentre sul campo sono stati alleati dell’Occidente nella lotta all’Isis. È passato in secondo piano, senza ricevere particolari critiche in Europa, anche questo scambio Nato-curdi a cui Marin è dovuta sottostare per proiettarsi nel futuro. Stati Uniti. 5 Stati al voto per abolire i lavori forzati dei detenuti Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2022 Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont al voto per l’abolizione. La forza lavoro praticamente a costo zero delle prigioni produce circa 2 miliardi all’anno in beni, ed oltre 9 miliardi in servizi per la manutenzione delle stesse prigioni. Negli Usa i detenuti sono circa due milioni. Oggi, nel 2022, sono ottocentomila i detenuti che negli Stati Uniti sono sottoposti ai lavori forzati. Una forma di schiavitù, perché in sette Stati i prigionieri-lavoratori non vengono pagati nulla, mentre a livello nazionale la paga media è di 52 centesimi all’ora, un guadagno già infinitamente minimo che viene ancora ridotto dalle ‘detrazioni’ compiute dalle amministrazioni carcerarie per tasse e spese. Ma le cose potrebbero cambiare in Tennessee, Alabama, Louisiana, Oregon e Vermont, che l’8 novembre votano - oltre che per il midterm - per abolire completamente ogni forma di schiavitù ancora ammessa dalla Costituzione. Il 13esimo emendamento con cui è stata abolita nel 1865 la schiavitù infatti la riconosce ancora possibile come punizione per un crimine. E nell’America della più grande popolazione carceraria al mondo - oltre due milioni secondo i dati del 2021, con un numero sproporzionato di afroamericani - la forza lavoro praticamente a costo zero delle prigioni produce circa 2 miliardi all’anno in beni, ed oltre 9 miliardi in servizi per la manutenzione delle stesse prigioni, secondo i dati dell’Aclu. I referendum presentati tendono ad eliminare nelle loro Costituzioni statali la formula che, sul modello del 13esimo emendamento, permette i lavori forzati. Finora solo tre stati - Colorado per primo nel 2018, seguito due anni dopo da Nebraska e Utah - hanno adottato legislazioni in questo senso. E secondo gli esperti i referendum del prossimo mese potrebbero essere “l’inizio di un’ondata, sospetto che da qui a dieci anni saremo inorriditi al pensiero che nel 2022 vi erano stati che permettevano questo cose”, come ha detto Sharon Dolovich, docente di diritto dell’University of California a Los Angeles. “Dobbiamo prendere coscienza del fatto che lo stesso emendamento che ha liberato gli schiavi ha una clausola che ha permesso di renderli di nuovo schiavi - aggiunge Robert Chase, docente della Stony Brook University che dirige il gruppo Historians Against Slavery - permettendo che uomini e donne afroamericani siano rimessi in schiavitù incarcerandoli e vendendo il loro lavoro alle corporation private”. I detenuti che si rifiutano di lavorare a queste condizioni vengono puniti, messi in isolamento o perdono la possibilità di avere la pena ridotta per buona condotta, spiega ancora Chase. Nel 2002 alla Corte Suprema è arrivato il caso di un detenuto dell’Alabama che era rimasto legato ad un palo sotto il sole per sette ore perché si rifiutava di lavorare alla ‘chain gang’, la fila di forzati, legati ad un’unica catena, che lavorano, nelle divise a righe, sui cigli delle strade, nei campi, sui binari delle ferrovie. Nel 2016 c’è stato anche il più grande sciopero delle prigioni d’America, con 24mila detenuti che si sono rifiutati di lavorare. Ed il mese scorso i detenuti dell’Alabama hanno scioperato ancora, paralizzando i servizi di pulizie del carcere. La questione centrale infatti è che il sistema delle carceri si basa sul lavoro praticamente gratuito fornito dai detenuti: nei mesi scorsi in California non è stata accolta la misura che avrebbe abolito la servitù involontaria, costringendo l’amministrazione statale a pagare ai detenuti il salario minimo. “Stiamo facendo ricorso” annuncia Dolovich spiegando che pagare i detenuti sotto il salario minimo è sempre “una specie di schiavitù”. “Donna, vita, libertà”: le parole nuove della rivolta iraniana di Gabriella Colarusso La Repubblica, 22 ottobre 2022 Una diversa grammatica sta spazzando via i vecchi slogan dei cortei del passato che chiedevano soprattutto pane e lavoro. In archivio le invettive contro l’America. “Donna, vita, libertà”. “Da Sanadaj a Zahedan, la mia vita per l’Iran”. “Morte al dittatore”, “Disonorevoli basiji”. “Teheran è diventata una prigione ed Evin un’università”. C’è una grammatica nuova nelle proteste che da cinque settimane attraversano l’Iran, un insieme di parole, simboli e gesti che segnano una differenza con le precedenti ondate di rivolta. Nel 2018 e poi ancora nel 2019, gli slogan delle piazze erano diretti soprattutto contro la corruzione del sistema, le diseguaglianze, gli investimenti militari all’estero mentre il Paese chiedeva pane e lavoro - “Non la Siria, non il Libano, solo l’Iran” - temi che sono stati al centro anche delle manifestazioni, la scorsa primavera, contro la mancanza d’acqua e i bassi salari. La morte di Mahsa Amini ha acceso proteste che sono innanzitutto politiche, trasversali, che uniscono classe media e working class, superando le divisioni etniche, di reddito, di genere. “Donna, vita, libertà” è uno degli slogan principali del movimento nato dalla rivolta contro i metodi brutali della cosiddetta “polizia morale” e l’hijab obbligatorio. “Jin, Jian, Azadi” - in farsi “Zan Zendeghi, Azadi” - è un canto di origini curde, come curda era Mahsa Amini, e porta con sé l’idea che la liberazione dell’Iran possa avvenire solo attraverso la liberazione delle donne. “Morte al dittatore” e “Morte a Khamenei” rovesciano la retorica tipica dei raduni governativi dove domina il vecchio slogan “Morte all’America” che era il grido di battaglia della rivoluzione islamica guidata da Khomeini nel 1979. Ma non è solo un rifiuto della teocrazia islamica, è una richiesta di democrazia contro tutti gli autoritarismi, compresa la monarchia: “Morte all’oppressore, che sia un re o un leader supremo”, è l’altra frase ripetuta nei cortei. È un movimento composto soprattutto da giovanissimi, cresciuti online e connessi col mondo esterno nonostante la censura, decentrato e senza leader, ma con un punto di riferimento: la società civile che in 40 anni si è battuta per i diritti civili e le libertà politiche. “Teheran è diventata una prigione, Evin un’università”, cantano riferendosi al carcere della capitale dove sono detenuti attivisti, intellettuali, avvocati. Il bersaglio della rabbia sono come da sempre i basiji, l’organizzazione paramilitare usata per la repressione nelle piazze che dipende dai Guardiani della Rivoluzione, ma con la rivendicazione di una forza nuova, il non avere più paura: “Cannoni, carri armati e pistole non funzioneranno più, dì a mia madre che non ha una figlia”, oppure “Non aver paura, siamo uniti”. Il sentimento di unità è l’altra grande direttrice delle proteste. L’Iran è un Paese esteso, con 80 milioni di abitanti e differenze etniche, linguistiche e culturali marcate, attraversato anche da sentimenti separatisti. “Da Sanadaj a Zahedan, la mia vita per l’Iran” scandiscono i manifestanti, un appello all’unità che parla ai curdi iraniani del Nord, da sempre un bastione di opposizione alla Repubblica Islamica e quelli che più pagano la repressione violenta, ma anche ai beluci iraniani del Sud, gli abitanti di una delle regioni più povere del Paese che anche ieri sono tornati in piazza. A Zahedan, il 30 settembre, c’è stato l’episodio più sanguinoso delle proteste, almeno 80 vittime. “Sanadaj, Zahedan, occhi e luce dell’Iran”, cantano gli studenti di Teheran.