La destra sa già come cambiare la Costituzione: cominciare dal carcere, renderlo più affollato e più duro di Federica Olivo huffingtonpost.it, 21 ottobre 2022 La proposta di Cirielli per cambiare l’articolo 27 e avere meno rieducazione e più punizione in nome della sicurezza. Il percorso è difficile, lo spirito è chiaro. L’allarme degli esperti. Per scovarla bisogna spulciare per bene sul sito della Camera. Ma basta un po’ di attenzione ed eccola lì, la proposta di modifica della Costituzione, firmata Edmondo Cirielli di Fratelli D’Italia, che vorrebbe cambiare l’articolo 27 della Carta. Quello che riguarda i diritti dei detenuti. E stabilisce principi fondamentali, basilari, di civiltà. La proposta, che era stata fatta anche nel corso della precedente legislatura quando FdI era partito d’opposizione e non forza principale del governo prossimo venturo, intacca direttamente il principio di rieducazione della pena. Vale a dire, quel principio secondo cui il condannato andrà in carcere laddove considerato colpevole di alcuni reati, ma avrà il diritto di andare oltre la sua pena. Di essere aiutato nel percorso di reinserimento nella società. Intendiamoci: questo principio non viene cancellato. Ma viene ristretto in una serie di paletti, che lo renderebbero più difficile da applicare e non garantito a tutti. La proposta - il testo ancora non è disponibile sul sito della Camera ma, come ci ha confermato lo stesso Cirielli, è uguale a quello presentato nella precedente legislatura - è considerata di bandiera e difficilmente potrà essere portata a compimento. Anche perché il procedimento per rivedere la Costituzione è lungo e necessita di maggioranze importanti. È significativo però che un esponente del partito della futura premier abbia deciso di presentarla alla Camera come uno dei primi atti della legislatura. Perché sottointende la visione che FdI ha delle carceri e del trattamento da riservare ai detenuti. Se si pensa che Giorgia Meloni ha indicato come ministro della Giustizia in pectore il magistrato Carlo Nordio - volto del garantismo - allora proposte del genere diventano ancora più sorprendenti. Partiamo dalla norma. Attualmente l’articolo 27 della Costituzione prescrive: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non è ammessa la pena di morte”. Se la proposta Cirielli andasse in porto diventerebbe così: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. La pena, che non può consistere in trattamenti contrari al senso di umanità, assicura la giusta punizione del reo per il fatto commesso e la prevenzione generale e speciale del reato e deve tendere, con la collaborazione del condannato, alla sua rieducazione. Sono stabiliti con legge i limiti della finalità rieducativa in rapporto con le altre finalità e con le esigenze di difesa sociale.?Non è ammessa la pena di morte.?La legge determina, secondo princìpi conformi alle disposizioni di cui al presente articolo, le finalità e le modalità delle misure di sicurezza”. Cosa comporterebbero queste modifiche? Il giudizio di Giorgio Spangher, professore emerito di Diritto processuale penale all’Università Sapienza di Roma, è impietoso: “È un testo che non mi piace - dice ad HuffPost - perché trovo ci sia uno spostamento dalla funzione rieducativa della pena alla giustezza della sanzione. Insomma, nel dna di questa proposta di modifica c’è un retrogusto inquisitorio e sanzionatorio. L’articolo 27 della Costituzione è uno dei pilastri della nostra Carta, lasciamolo così com’è”. Il professore non condivide l’idea di mettere in questi termini i limiti alla funzione rieducativa della pena. “Lo ha detto anche la Corte costituzionale: il detenuto deve poter fare tutto ciò che faceva nella sua quotidianità, tranne ciò che davvero pregiudica la sicurezza della società”. Quanto all’espressione ‘giusta punizione’ Spangher tiene a ricordare che la condanna è giusta in quanto la decide un giudice “in nome del principio di legalità”. “Sembra - conclude - che questa proposta di legge faccia il paio con il rapporto Ocse sulle sentenze sulla corruzione internazionale in Italia. Lì si dice ‘assolvete troppo’. Qui, invece, si dice ‘condannate meglio’“ C’è un inciso molto significativo in questa proposta di legge: quello che riguarda la ‘collaborazione del condannato’ alla sua rieducazione. Chi frequenta il mondo delle carceri sa bene che, al di là del consenso del detenuto, il percorso di allontanamento dai reati compiuti passa da una serie di fattori: la presenza di educatori nei penitenziari, la possibilità di lavorare e di fare altre attività definite ‘trattamentali’. In molte carceri queste opportunità ancora non ci sono. E allora come si pensa di risolvere la questione? Non introducendo servizi, ma facendo ricadere un’ulteriore responsabilità sulle spalle del detenuto. Una logica, questa, che Stefano Anastasia - Garante dei detenuti di Lazio e Umbria nonché tra i relatori a un panel sul carcere in programma al festival Parole di giustizia in corso tra Urbino, Pesaro e Fano - assolutamente non condivide: “Sembra che si voglia introdurre un obbligo di prestazione. È come se si dicesse che il condannato deve fare qualcosa per accedere al percorso di reinserimento nella società. Invece questa opportunità deve essere offerta a tutti”. Per Anastasia è molto significativo, e anche un po’ preoccupante, che si chieda di stabilire, in maniera così esplicita, dei limiti alla rieducazione sulla base “delle esigenze di difesa sociale” Cosa significa ciò? Si chiede Anastasia, parlando con HuffPost. “Con una formulazione del genere potrebbero considerarsi legittimi anche trattamenti inumani e degradanti, come l’isolamento prolungato o il divieto di tenere colloqui con i familiari. Questa proposta di legge, io credo, mette in discussione non solo il principio di rieducazione della pena ma anche l’universalità dei diritti umani. Che prescinde dalla gravità del reato”. Anastasia ci tiene a sgombrare il campo dagli equivoci: “La pena è sicuramente una reazione a un fatto di reato. Non si può cancellare la sua natura retributiva. Ma non si può neanche restringere in questo modo la rieducazione”. Molto preoccupato Patrizio Gonnella, presidente dell’associazione Antigone: “L’articolo 27 della Costituzione va difeso in Parlamento e nella società contro ogni proposta di modifica. Esso indica alla comunità intera quale debba essere la mission del servizio penale e penitenziario e costituisce un limite al potere punitivo dello Stato”, premette, parlando con HuffPost. La norma, continua, “fu scritta da chi aveva subito l’esperienza tragica della carcerazione durante il fascismo. Per questo si parla di umanità e di finalità rieducativa della pena. Altro era il sistema carcerario durante il regime. Dunque chiediamo di lasciar fuori dal dibattito politico una norma che è alla base della nostra democrazia costituzionale”. Il tema, in effetti, è quasi più politico che giuridico. Perché dietro alla modifica di una norma fondamentale c’è la visione di un mondo in cui la sicurezza a ogni costo prevale sull’inclusione e sul diritto a ricominciare a vivere dopo aver sbagliato. Modificare in questo senso la Costituzione avrebbe poi tutta una serie di conseguenze sulle leggi ordinarie. Su quella sull’ergastolo ostativo - il carcere a vita senza possibilità di accedere alla liberazione anticipata, se non si collabora con la giustizia - ad esempio. La Corte costituzionale l’ha dichiarata incostituzionale guardando proprio all’articolo 27. Se cambia la Costituzione, va da sé che cambiano anche i parametri con cui giudicare le leggi. “Quando quella decisione è arrivata - ricorda Anastasia - coloro che erano contrari dicevano che se la norma era incostituzionale bastava cambiare la Costituzione. Era il pensiero anche di FdI, ma ai tempi era all’opposizione. Ora stanno per andare al governo, resta la speranza che abbassino queste bandiere”. Più galera e meno rieducazione. Le mani di Fratelli d’Italia sulla Costituzione di Simona Musco Il Dubbio, 21 ottobre 2022 Il deputato Edmondo Cirielli depositata una proposta di legge per modificare l’articolo 27 della Carta: “Salvaguardare e garantire il concetto di certezza della pena”. “Limitare la finalità rieducativa” e “salvaguardare e garantire il concetto di certezza della pena”. Sono questi gli scopi principali della proposta di legge costituzionale depositata dal deputato di Fratelli d’Italia Edmondo Cirielli il 13 ottobre scorso. Una proposta che il deputato meloniano aveva già presentato nella scorsa legislatura e nel 2013, con lo scopo di smantellare uno degli articoli della Costituzione più importanti dal punto di vista dell’impianto dello Stato di diritto, ma mai pienamente attuato. La proposta si collega alla netta contrarietà di Fratelli d’Italia a una modifica della norma sull’ergastolo ostativo, a seguito della pronuncia della Corte costituzionale che, ad aprile dello scorso anno, ha stabilito l’illegittimità parziale della disciplina ostativa, in contrasto con gli articoli 3 e 27 della Costituzione e con l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, laddove fa della collaborazione la sola via, per il condannato, di recuperare la libertà. La Consulta ha concesso oltre un anno di tempo al Parlamento per adeguare le norme, con “interventi che tengano conto sia della peculiare natura dei reati connessi alla criminalità organizzata di stampo mafioso, e delle relative regole penitenziarie, sia della necessità di preservare il valore della collaborazione con la giustizia in questi casi”. Ma finita la legislatura, le Camere hanno lasciato il lavoro incompiuto: non sono riuscite ad approvare una nuova disciplina, lasciando la palla di nuovo in mano alla Consulta, che nel frattempo, scaduto l’anno concesso al legislatore, ha rinviato ulteriormente la trattazione delle questioni di legittimità dell’articolo 4 bis al prossimo 8 novembre. La decisione del giudice delle leggi è, dunque, dietro l’angolo. Ma l’intenzione della premier in pectore Giorgia Meloni è quella di scardinare l’impianto della Costituzione, per evitare che “mafiosi conclamati e assassini, invece di rimanere in galera, come vorrebbe il carcere ostativo, possano tornare in libertà a fare i loro comodi perché hanno avuto una buona condotta in carcere, che è una cosa indegna. A me, se hai avuto una buona condotta in carcere, non frega niente”. Tutto ruota intorno alla concezione che Fratelli d’Italia ha della pena, a partire da quelli che il partito considera “evidenti limiti” della finalità rieducativa e riallacciandosi alla teoria della prevenzione generale positiva, secondo cui “la forte disapprovazione sociale favorisce e stabilizza l’identificazione della maggioranza dei cittadini con il sistema di valori protetto dall’ordinamento giuridico”. Scopo della pena, in buona sostanza, è una sorta di emarginazione che induca il reo a non commettere lo stesso errore e gli altri a non “rischiare”, proprio per evitare di finire ai margini della società. Il diritto penale, dunque, assolve “una funzione di socializzazione, allo stesso modo di istituzioni quali la famiglia, la scuola, il gruppo e la comunità”. Ma per far sì che ciò avvenga, sottolinea Cirielli nella sua relazione, è necessario garantire il “principio di certezza della pena”. Il principio di prevenzione, infatti, sarebbe vanificato dalla possibilità che gli autori dei reati possano rimanere “impuniti”. Proprio per tale motivo, l’articolo 27, che al momento enuncia tre principi fondamentali - la responsabilità penale è personale, l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva, le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato - andrebbe smantellato, inserendo il concetto di “giusta punizione del reo”. La pena, dunque, recupera una dimensione principalmente retributiva e di “prevenzione generale e speciale del reato”, tendendo alla rieducazione solo “con la collaborazione del condannato”. L’esatto contrario, insomma, di ciò che ha stabilito la Consulta. In tal modo, continua il deputato, “uno dei limiti del vigente articolo 27, e cioè quello relativo all’impossibilità da parte del giudice di erogare pene esemplari che fungano da ammonimento per i consociati, verrebbe automaticamente eliminato”. La finalità rieducativa, ormai “in crisi” - affermazione che non tiene conto delle responsabilità della politica, che ha sempre “dimenticato” di intervenire per rendere effettiva la possibilità di risocializzazione ed il reinserimento lavorativo per i detenuti - verrebbe così subordinata e limitata con legge “e in rapporto stretto con le altre finalità di interesse collettivo nonché con le esigenze di difesa sociale”. E sempre con legge, sulla base di tali principi, vengono stabilite “le finalità e le modalità delle misure di sicurezza”. Una visione securitaria che Meloni, nelle sue dichiarazioni pubbliche contro modifiche che renderebbero più compatibile con la Costituzione l’ergastolo ostativo, ha sintetizzato col classico garantismo a intermittenza: “Garantista nella fase dello svolgimento del processo e giustizialista per l’applicazione della pena”. Quell’Assemblea che nel 1948 decise per l’umanità di qualsiasi pena di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 21 ottobre 2022 Erano cattolici, liberali e socialisti. Fu un incontro tra personalità che avevano sperimentato il carcere. Il divieto di misure contrarie al senso di umanità è il senso più alto della nostra Costituzione. Ed è contenuto nell’articolo 27, quello secondo cui le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. È il senso più alto, proprio perché la nostra “Carta più bella del mondo” è ispirata ai principi della difesa massima dei diritti individuali, delle libertà civili e politiche negate nell’esperienza del ventennio fascista. La nostra Costituzione è esattamente nata da una coscienza unitaria e lo si evince dalla triplice firma apposta alla sua promulgazione del 27 dicembre 1947. Personalità provenienti da visioni politiche differenti e soprattutto da una dura esperienza carceraria: la firma di Enrico De Nicola, capo provvisorio dello Stato, erede della tradizione liberale; la firma di Umberto Terracini, presidente dell’Assemblea costituente e fondatore con Gramsci e Togliatti del Partito comunista italiano; la firma di Alcide De Gasperi, presidente del Consiglio e già primo successore di don Luigi Sturzo alla segreteria del partito popolare. E l’unione di tali visioni rappresenta un carattere compromissorio che, lungi dall’essere una connotazione negativa, rappresenta anzitutto un elemento ineliminabile della nozione stessa di patto (con- promettere, cioè permettere insieme, impegnarsi su qualcosa) tra forze sociali e politiche diverse, come dato storicamente incontrovertibile. Parliamo di un punto di incontro tra diversi umanesimi: cattolico, liberale e socialista. Quando la commissione per la Costituzione ha votato l’articolo 27, c’è stato un dibattito che oggi paradossalmente sarebbe impensabile. Un vero paradosso, visto che le personalità politiche della commissione erano appena reduci da dittatura, carcere, violenza e morte. Eppure la loro discussione non era sull’innalzamento della qualità delle pene. Basta leggere il resoconto stenografico della seduta del 25 gennaio 1947. C’è Umberto Nobile del Partito comunista, al quale sembra che parlare di “trattamenti crudeli e disumani” dia quasi il pretesto per usarli e ritiene perciò molto più rispondente ed ampia la formula: “Le pene e la loro esecuzione non possono essere lesive della dignità umana”. Spiega che nell’articolo proposto dal Comitato di redazione si dice che “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ha creduto di dire in modo più chiaro ed esplicito: “Esse devono avere come fine precipuo la rieducazione del condannato allo scopo di farne un elemento utile alla società”. Interviene però Mario Cevolotto del gruppo parlamentare “Democrazia del lavoro” che intende chiarire perché - a parte le formule che possono essere accettate o meno - in seno alla prima Sottocommissione non si è voluto risolvere la questione della finalità della pena. Spiega che la pena ha - secondo alcuni - un fine di intimidazione; secondo altri, un fine di prevenzione; per altri ancora, deve avere soltanto il fine della rieducazione del colpevole. Dice che si è voluto evitare di accettare nella Costituzione una di queste teorie, trattandosi di materia di Codice penale. Ecco perché si è usata la parola “tendere”, perché si è voluto dire, in un senso altamente sociale e umano, che una delle finalità della pena in tutti i casi deve essere la rieducazione del condannato. Aldo Bozzi pensa che la formula proposta dagli onorevoli Umerto Nobile e Umberto Terracini non sia molto felice, perché il fatto stesso della pena è già qualche cosa che intacca questo patrimonio morale che è la dignità umana. Secondo lui il concetto che si deve esprimere riguarda, quasi direbbe, il trattamento fisico, cioè che la pena deve essere scontata con modalità tali che non siano disumane, crudeli. In sostanza, leggendo il dibattito, non c’è discordia sulla necessità di tale articolo in Costituzione, ma sul fatto di renderlo più “umanitario” possibile. Oggi, invece, c’è chi vorrebbe modificarlo in senso peggiorativo. La dolorosa e inaccettabile realtà dei suicidi in carcere di Antonio Fresa mentinfuga.com, 21 ottobre 2022 Il numero di suicidi nelle carceri italiani è un dato davvero inquietante. Nella recente campagna elettorale pochissimo spazio è stato destinato a questa problematica e a quelle ad essa collegate. Emergenza fra le emergenze, mai messa davvero sotto la luce dei riflettori, è quella dei suicidi in carcere: nel 2022 si contano già 70 episodi. L’ultima vittima di una lunga serie è una donna di cinquant’anni detenuta nel carcere bresciano di Verziano che si è tolta la vita qualche giorno fa. Gli interventi del Papa e del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Mauro Palma, - il suo mandato scade a febbraio 2023 - non hanno risvegliato una classe politica che nel corso della recente campagna elettorale non ha mostrato attenzione e sensibilità, salvo pochissime eccezioni, per un tema così inquietante. Gli interventi del Garante sono stati sempre più duri negli ultimi anni per denunciare le drammatiche situazioni che si vivono in molti luoghi di pena. Intanto si allargano le voci, secondo un vecchio progetto leghista, di arrivare ad un’abolizione del garante dei detenuti - accusato di prendere le difese “dei delinquenti” - per sostituirlo con un garante delle donne e degli uomini in divisa che lavorano nelle carceri. In discussione anche il progetto per fornire anche alle guardie carcerarie le pistole elettriche. Tra volontà di inasprimento delle pene e rimandi alla certezza delle stesse, senza troppe distinzioni, il dibattito pubblico ha del tutto escluso il tema delle carceri e della condizione dei detenuti. Nessuna attenzione è stata, quindi rivolta alle cause che portano a così tanti suicidi. Per rendersi conto della drammaticità della situazione è sufficiente seguire il rapporto “Morire di carcere” di Ristretti orizzonti e quello dell’Associazione Antigone (per i diritti e le garanzie nel sistema penale) “Suicidi. Persone, vite, storie. Non solo numeri” che in qualche modo si intrecciano e si integrano l’uno con l’altro. Secondo i dati proposti dal dossier “Morire di carcere” di Ristretti orizzonti dal primo gennaio 2022 ad oggi i suicidi dietro le sbarre sono ben 70 su un totale di 132 morti in regime detentivo. Non si tratta di parlare solo di numeri, questa è l’impostazione che ritroviamo anche nel dossier “Suicidi. Persone, vite, storie. Non solo numeri” dell’Associazione Antigone (per i diritti e le garanzie nel sistema penale), che precisa, infatti: “Ovviamente ogni caso di suicidio ha una storia a se?, fatta di personali sofferenze e fragilità?, ma quando i numeri iniziano a diventare cosi? alti non si può non guardarli con un’ottica di insieme. Come un indicatore di malessere di un sistema che necessita profondi cambiamenti”. Non è facile individuare con certezza le cause di un fenomeno così tristemente diffuso e non è ovviamente facile pensare con certezza alle possibili soluzioni. I dati diventano impressionanti quando si osserva che in carcere la probabilità di levarsi la vita è molto più alta che tra la popolazione libera e che gli elementi di disagio si amplificano all’eccesso: disagio psichico e dipendenze si riscontrano in tanti casi ed eventi. Se si allarga lo sguardo ai dati che partono dal duemila, sempre secondo il rapporto “Morire di carcere”, i morti nelle carceri italiane sono 3.461; di essi 1.294 sono legati a suicidi. Numeri impressionanti per un fenomeno che colpisce nell’immediatezza della diffusione delle informazioni ed è poi destinato a svanire dagli echi della cronaca. Anche i sindacati della Polizia Penitenziaria sono intervenuti più volte per segnalare le croniche carenze di personale e le difficili condizioni in cui vivono una buona parte dei detenuti italiani e gli stessi agenti. In tema di morti in carcere, e nello specifico quando si tratta di suicidi, non si può semplicemente parlare di statistiche, numeri e problematiche: sono storie, amare e dolorose, fatte di mille componenti e andrebbero tutte raccontate e tutte seguite. I dossier, gli studi e le analisi sono utili per avere una base di partenza quanto più ampia possibile sulle condizioni di vita negli istituti di pena, sulle prospettive di vita dei detenuti e su tutti gli elementi sui quali sarebbe possibile intervenire per rimuovere le cause di eventi davvero tragici. Per analizzare tutte le difficoltà e per trovare una chiave per narrare le vite “parallele” di quanti vivono il carcere, è nata a Padova presso la casa di reclusione fin dal 1998 la rivista Ristretti orizzonti diretta da Ornella Favero. La rivista è un bimestrale che fornisce materiali e riflessioni sulla vita “parallela” in carcere e i suoi problemi come il sovraffollamento o i difficili processi di reinserimento sociale. Il dossier Morire di carcere, non fermandosi ad una pur necessaria messe di dati, sottolinea anche quali siano al momento le condizioni e i limiti della sanità in carcere e invita, quindi, a leggere i numeri che mette a disposizione in una maniera più ampia e organica. Seguendo le parole degli estensori del documento si comprende che il dossier è fatto di centinaia di pagine che raccolgono tutto quello che sappiamo sui detenuti morti, sulla loro vita precedente all’arresto, sui motivi del suicidio, e così via. I “numeri” servono alla completezza del dossier, ma non sono la sua parte essenziale. Non solo numeri significa calarsi poi nella dolorosa e concreta esperienza delle singole persone che hanno un volto, un nome e un percorso da indagare. Meloni ci dica se sta con Nordio o coi manettari che ricattano la politica di Errico Novi Il Dubbio, 21 ottobre 2022 Com’è possibile spingere per un guardasigilli garantista come l’ex pm e presentare, nello stesso tempo, una proposta di legge costituzionale che attenua il principio di umanità della pena? È una contraddizione da spiegare. E che mortifica un evidente merito della premier in pectore: aver affrancato la lista dei ministri dal mito dei “tecnici di alto profilo”, mito che sa di antipolitica e incrocia, a ben guardare, il populismo giudiziario. Nordio: il nome chiave. Il favorito nel ballottaggio con Casellati alla Giustizia, forse l’ultima variabile sopravvissuta alla semplificazione di Meloni, giustamente passata dal miraggio dei ministri “di alto profilo” al pragmatismo di una compagine tutta, o quasi, politica. Sull’ex magistrato forse Meloni piegherà il Cavaliere. Però Carlo Nordio è anche il simbolo della contraddizione. Perché in effetti Fratelli d’Italia dovrebbe spiegare com’è possibile spingere con tanta energia per un guardasigilli di limpida ispirazione garantista qual è certamente l’ex procuratore aggiunto di Venezia e, negli stessi minuti, presentare una proposta di legge costituzionale che stempera il fine rieducativo, risocializzante della pena, che ne intacca l’ideale immunità da qualsiasi tratto disumano. Dovrebbe spiegarlo, Fratelli d’Italia, perché quel progetto di riforma dell’articolo 27 è un colpo pesantissimo all’architettura dei diritti. È un grimaldello che rischia di corrodere il più importante principio del diritto penale liberale, secondo cui a chiunque, anche al più reprobo, anche al peggiore dei criminali, deve poter essere lasciato un residuo di speranza, uno spiraglio non solo di redenzione ma anche di possibile libertà. Deve spiegare, Fratelli d’Italia, com’è possibile colpire fino a questo punto, fino a stanarlo nel guscio protetto della Costituzione, il principio dell’umanità della pena. Perché l’attacco porta con sé di tutto, conseguenze persino difficili da calcolare. Può rendere non più incompatibile con il nostro sistema dei diritti quella “morte per pena”, come la definiscono i radicali, che differisce davvero di pochissimo dalla pena di morte. Chiediamo chiarezza su questo, al partito di maggioranza relativa e alla presidente del Consiglio in pectore, non solo perché è giusto capire da che parte stanno: se dalla parte di Nordio e delle garanzie o dei “buttatori di chiave”, dell’ossessione per la pena certa che in realtà si traduce nel carcere certo, senza alternative extramurarie. Non è questo il solo interrogativo, perché dietro una contraddizione così lampante si nasconde anche il rischio che la giustizia diventi una cosa poco seria, in questa legislatura. Che finisca per essere il campo aperto delle contraddizioni, il terreno del tutto e del contrario di tutto, del garantismo e delle riforme liberali auspicate da molti, dai penalisti innanzitutto (inappellabilità delle assoluzioni, separazione delle carriere, tutela mediatica di chi è sotto accusa), ma anche delle solite elargizioni al popolo giustizialista. Ora, sappiamo bene che un partito di destra deve tutelare se stesso. Anche nell’identità di garante del principio “legge e ordine”. Non ci sfugge che per Fratelli d’Italia sia difficile riconvertirsi all’improvviso in una sorta di Partito radicale di destra. Ma ci piace insinuare un dubbio, concedeteci il giochino, in una leader di grande intelligenza e visione come Meloni: siamo sicuri che la battaglia garantista in fondo non sia già di per sé nell’ispirazione del nascente governo? Perché attenzione: Meloni sta appunto per proporre a Mattarella una lista di ministri che, con la sola probabile eccezione di Nordio, è politica tout court, e questa è una grandissima lezione per la retorica dell’antipolitica, del presunto marciume che sarebbe connaturato alle istituzioni, su cui il populismo ha fatto fortuna. Sa bene, Meloni, che quella retorica e quella fortuna devono moltissimo al populismo giudiziario. E distaccarsi una volta per tutte dal populismo giudiziario, a costo di una pur impegnativa riconversione garantista, sarebbe uno straordinario puntello per il ritorno al primato della politica, che il governo Meloni sembra meritoriamente accingersi ad incarnare. Non si tratta di arrivare a Pannella, cara Meloni, questo no, ma di cancellare con un tratto liberatorio di penna una stagione che, con la scusa delle mani pulite, ha legato le mani alla politica e dunque ai cittadini. Chi è Carlo Nordio, possibile ministro della Giustizia di Giulia Merlo Il Domani, 21 ottobre 2022 Di lui si ricordano soprattutto le posizioni di minoranza: depenalizzazione di molti reati, la necessità di una legge sul suicidio assistito, il ritorno all’immunità parlamentare e la discrezionalità dell’azione penale. Con il rischio dell’eterogenesi dei fini: che per la destra Nordio diventi subito una spina nel fianco, anche se è a un passo da via Arenula. Del carattere veneto ha la giovialità. Carlo Nordio l’ha mantenuta anche durante i durissimi scontri con i colleghi della procura di Milano, a cavallo di Tangentopoli. Magistrato fuori dagli schemi correntizi, è stato presenzialista in tv e loquace sulla carta stampata, ma anche sempre pronto ad andare contro l’opinione dominante, tanto da inimicarsi equamente sia una parte della magistratura che i politici sui quali ha indagato. Nato nel 1947 a Treviso, laureato in Giurisprudenza a Padova nel 1970 e dal 1977 procuratore a Venezia, la sua vita professionale si è svolta in un triangolo di 80 chilometri quadrati che oggi è diventato il suo collegio elettorale. Il Veneto, infatti, rimane la terra della seconda vita di Nordio: quella in politica, da capolista di Fratelli d’Italia alla Camera nel collegio plurinominale Veneto 1 - che comprende per l’appunto Treviso, Padova e Venezia - e nell’uninominale che corrisponde a Treviso. La sua candidatura non ha stupito, come non stupisce che Fratelli d’Italia lo voglia al ministero della Giustizia. Tra i pochi magistrati apertamente di destra - anche se lui ha sempre preferito definirsi liberale ed elenca nel suo pantheon Immanuel Kant, William Shakespeare e Winston Churchill - non si è mai sottratto a incarichi politici come, ad esempio, la presidenza della fallita commissione Castelli per la riforma del codice penale. Né ha fatto mistero di guardare alla politica una volta smessa la toga. Chi lo conosce lo avrebbe collocato nell’alveo di Forza Italia, ma il tramonto del berlusconismo non avrebbe potuto offrirgli un collegio sicuro. Fratelli d’Italia invece gli ha promesso - oltre a un posto a Montecitorio - anche la possibilità di sognare il ministero della Giustizia. La vita in procura - Silenziosamente c’è chi si interroga: non sarà troppo indipendente per un partito così rigorosamente gerarchico? Nel foro veneziano, notoriamente non tenero con la controparte in magistratura, lo descrivono come “un magistrato anche troppo libero. Uno che non ha mai sgomitato, ma che nello stesso tempo si notava”. Non troppo diverso il controcanto tra le toghe: divisivo sì, ma tutti riconoscono che “non era una carrierista”. Nei suoi quarant’anni di magistratura di cui buona parte vissuti sotto i riflettori Nordio ha legato la sua carriera a una città - Venezia - rinunciando a incarichi direttivi. Fino a 65 anni è rimasto sostituto procuratore, è diventato aggiunto solo nel 2009 e ha gestito la procura veneziana come facente funzioni nell’anno del pensionamento, nel 2017, prima della nomina del nuovo capo. “Mettermi a dirigere un ufficio sarebbe stato come mettere un pilota da guerra dietro una scrivania. A me piaceva fare i processi”, dice lui. Eppure, una delle malignità di procura è che Nordio non sia mai stato uno stakanovista e che la luce del suo ufficio alle 17 fosse spesso spenta. Voci che Nordio quasi conferma: “Sono del parere che un magistrato non debba mai lavorare troppo. Sa quanti magistrati stanchi ho visto commettere errori tremendi? Meglio prendersi del tempo, piuttosto che fare danni”. Del resto, non ha mai vissuto la magistratura come una missione o un sacerdozio e, al momento della pensione, ha consigliato ai giovani colleghi: “Leggete qualche libro in più e qualche saggio giuridico in meno”. Le inchieste - La carriera di Nordio è legata a due grandi inchieste, che hanno colpito una a sinistra e l’altra a destra. La prima, nel 1993, ha riguardato le cosiddette “coop rosse”. In realtà l’indagine per finanziamento illecito nasceva a carico dei vertici veneti del Psi e della Democrazia cristiana, con le condanne di Gianni De Michelis e Carlo Bernini, e solo dopo si è allargata anche ai comunisti. Partendo dai fallimenti di alcune cooperative agricole venete, Nordio aveva ipotizzato che il meccanismo fosse di creare coop agricole per ottenere finanziamenti pubblici, dirottare il denaro al partito e poi farle fallire. Nordio si è mosso con grande clamore mediatico: ha sequestrato i bilanci delle feste dell’Unità delle sette federazioni del Pds veneto e l’operazione è stata ribattezzata “Braciola pulita”, perchè si indagavano le spese per polenta, vino merlot, salsicce e bigoli. Specularmente, a Milano, lavorava sulla stessa traccia Titti Parenti, la magistrata che nel 1994 lascerà il pool e la toga per candidarsi con Forza Italia. L’uomo chiave è Alberto Fontana, dirigente regionale delle coop venete, che poi è stato condannato a tre anni e otto mesi. Ma a fare più scalpore sono gli avvisi di garanzia a Massimo D’Alema, appena diventato premier, Achille Occhetto e Bettino Craxi. I tre vengono sentiti a Roma e D’Alema liquida l’inchiesta in modo caustico: “È stato un momento importante del dibattito sul surrealismo”. Intanto, il Pds attaccava furiosamente Nordio, accusandolo di aver costruito un teorema sul “non potevano non sapere”. Alla fine, tutto si è sgonfiato ed è finito in rivoli secondari. È stato Nordio stesso a chiedere l’archiviazione per i vertici del Pds, scrivendo che “è inaccettabile l’assioma che chi stava al vertice non potesse non sapere”. Lo strascico finale è stato da commedia all’italiana: agli imputati non è stata mai comunicata l’archiviazione e, nel 2006, D’Alema e Occhetto hanno chiesto un risarcimento per ingiusto ritardo. L’altra grande inchiesta a cui è legato il nome di Nordio è quella sul Mose, il progetto architettonico per proteggere Venezia dall’alta marea. L’indagine del 2014 ha portato a 35 arresti e i domiciliari per l’allora sindaco della città, Giorgio Orsoni (poi assolto). Giancarlo Galan, che per 15 anni era stato presidente della regione Veneto in quota Forza Italia, ha scontato due anni ed è stato condannato al risarcimento di 5,8 milioni di euro. L’inchiesta ha decapitato i vertici politici veneti e rinverdito il filone dei processi per corruzione. Eppure, quella che Nordio ricorda con più orgoglio è una delle sue prime inchieste. Aveva 35 anni e indagava sulle sulle Brigate rosse, azzerando la colonna veneta: tutti i brigatisti condannati e poi pentiti. “Giravo scortato e armato, ricevevo lettere con la stella a cinque punte ma ricordo che sentivo che erano in gioco lo stato e la democrazia”, dice. Gli scontri - Mai avaro di dichiarazioni pubbliche, il vero terreno di scontro tra Nordio e i colleghi, in particolare la procura di Milano, è stato il dibattito su Tangentopoli e la sua eredità culturale. Sul piano processuale la guerra tra lui e Paolo Ielo è arrivata fin davanti al Csm. Milano aveva intercettato Craxi al telefono con il suo avvocato, Salvatore Lo Giudice, che gli diceva che Nordio era un giudice fidato. Ielo aveva avvertito Nordio che era stato tirato in ballo e poi una fuga di notizie aveva portato l’intercettazione sui giornali: Nordio aveva difeso l’avvocato Lo Giudice, sostenendo che l’intercettazione era illegittima perché violava il divieto di ascolto dei colloqui tra legale e assistito, e aveva attaccato l’operato di Milano, che così rischiava di sabotare la sua indagine sulle coop. Milano si era difesa, sostenendo di non sapere che Lo Giudice fosse un avvocato e che l’intercettazione era stata mandata a Nordio per tutelarlo da illazioni. Lo scontro era finito al centro del dibattito pubblico e poi a palazzo dei Marescialli, che aveva archiviato ma senza mai risolvere l’inimicizia tra le due procure. Su quello culturale, Nordio si è scontratp soprattutto con Antonio Di Pietro quando ha proposto di chiudere la stagione di Mani pulite con una frase: “Chi vuole l’amnistia la paghi”. Ovvero, la possibilità per gli imputati di evitare il carcere confessando il reato commesso e pagando ai danni. Il garantismo - La sua cifra di oggi è quella del garantismo, ma l’etichetta non gli è stata sempre propria. Negli anni di Tangentopoli è stato tra quelli che hanno utilizzato in modo diffuso la custodia cautelare in carcere e ha firmato un documento insieme ad altri 200 magistrati contro le norme che restringevano la possibilità di disporla. Solo anni dopo ha ammesso: “Anche io ho fatto i miei bravi arresti e i miei bravi errori giudiziari”. A trent’anni di distanza, Nordio fissa il momento della svolta con un suicidio: un maestro di Treviso, da lui arrestato e poi scarcerato, che un mese dopo si è suicidato. “Mi portò a riflettere su quante misure cautelari potevano essere evitate”. Non a caso lui, magistrato di destra, su questi temi ha scritto il libro “In attesa di giustizia”, a doppia firma con l’avvocato di sinistra Giuliano Pisapia. Un altro volume lo ha dedicato a “Calogero Mannino e alle altre vittime di errori giudiziari”. Di lui si ricordano soprattutto le posizioni di minoranza, che ribadisce anche ora che corre in un seggio blindato per il partito dato per vincente: depenalizzazione di molti reati, la necessità di una legge sul suicidio assistito, il ritorno all’immunità parlamentare e la discrezionalità dell’azione penale. Con il rischio dell’eterogenesi dei fini che per la destra Nordio diventi subito più una spina nel fianco che un vantaggio strategico. E che proprio questo gli precluda via Arenula. “Cominciamo bene”, pm preoccupati per Nordio alla Giustizia di Conchita Sannino La Repubblica, 21 ottobre 2022 Se non è una partenza col piede storto, poco ci manca. “Cominciamo bene”, è il messaggio più lieve. Si infiammano le chat dei magistrati di fronte ai resoconti sull’incontro ufficiale tra Carlo Nordio e Silvio Berlusconi di quarantotto ore fa. Ma la questione va ben oltre la eventuale levata di scudi di questa o quella corrente dei magistrati, per ora ufficialmente silenti. Da un lato il ministro della Giustizia in pectore che bussa direttamente a Villa Grande, dall’altro il leader-imputato per eccellenza che teme una condanna nel suo processo a Milano, e vuole demolire la legge Severino. Il fondatore di Forza Italia continua a insistere per ottenere la casella di via Arenula, Giorgia Meloni da settimane respinge gli assalti, non vuole cedere quel terreno che riporterebbe la lancetta indietro di venti anni. La leader di Fratelli d’Italia non può permettersi una falla sulla Giustizia, concedere all’alleato una o un fedelissimo che risponda direttamente a lui, significherebbe consegnarsi a conflitti e anomalie incendarie, oltre che negare clamorosamente quel principio di “governo di alto profilo” a cui la quasi premier ha deciso di tener fede. Così per sciogliere il braccio di ferro, Nordio decide per due cedimenti: incontrare il suo avversario, e non in una sede istituzionale. L’ex magistrato prende la strada di Villa Grande. Meloni ne è sicuramente informata: non compare, non interviene, ma non stoppa quell’irrituale dialogo privilegiato. Gioca a favore della singolare mossa, il fatto che tutti i riflettori siano puntati sull’altro B.: quello che nel frattempo, in voce, attraverso gli audio dello scandalo, ormai straparla di guerra, solidarizza con Putin, accusa Zelensky e gli ucraini, getta il Paese nel tritarcane. Fuori c’è la tempesta. Dentro, il rendez-vous tra il neodeputato nonché papabile Ministro e il leader sotto accusa - che a Milano risponde dell’accusa di aver corrotto le ragazze testimoni di giustizia. Così il fatto non oltrepassa le poche righe di aggiornamento nel flusso dello sconcerto internazionale e della precocissima crisi della neo maggioranza. “Con Berlusconi c’è stato un incontro cordiale”, confermerà Nordio, all’uscita dalla residenza berlusconiana, aggiungendo “Credo condivida le mie idee”. Il riferimento è all’abolizione della legge Severino? Quindi, alla norma incubo per Berlusconi, che già una volta lo ha espulso dal Senato, perché scatta come una scure sui deputati e senatori che siano stati condannati in via definitiva. Non si sa. L’ex magistrato si è espresso già contro quelle norme in passato, in questo è molto distante dalla posizione di Meloni che invece nello scorso referendum si era posta contro la richiesta di abolire quelle severe restrizioni. Ma Nordio, a scanso di equivoci, comunica ora che le emergenze per il prossimo governo saranno ben altre. Già a Repubblica l’ex pm veneziano, ad agosto, aveva sottolineato: “La legge Severino per ora può restare dov’è”. Per ora. Ed è quindi del timing che hanno parlato lui e Berlusconi a tavola? Quando dovrebbe o potrebbe cadere, quella norma: magari in relazione agli anni che impiegherà il processo milanese del Ruby Ter per arrivare a sentenza definitiva? Nordio sorride, comunque, dopo il pranzo con Silvio. Si dice “pronto” a fare il Ministro della Giustizia. Scelta evidentemente maturata in seguito alle interviste estive, in cui da candidato alla Camera, si diceva interessato solo “alla Commissione Giustizia” “Cominciamo bene”, battono le tastiere dei magistrati nelle chat. Ma l’ex toga che si appresterebbe a diventare Guardasigilli non dovrebbe incarnare, oltre all’autonomia e all’indipendenza della magistratura, anche l’uguaglianza dei cittadini (compresi quelli mandati sul banco degli accusati) di fronte alla legge? E la sorpresa è che a stupirsi di un tale vis-à-vis non sono solo le cosiddette toghe rosse, i giudici progressisti di Area o di Md, ma anche autorevoli nomi di area di centrodestra, distanti però dall’agone politico. Un procuratore mette in fila: “Il quasi ministro incontra il politico mandato a processo per un reato contro l’amministrazione della giustizia, per cercare il suo assenso: premessa illuminante”. Un giudice: “Bella partenza come senso istituzionale”. Un pm: “Sapete il nostro futuro ministro su quali promesse si è impegnato?”. E ancora: “Non l’hanno nemmeno nascosto: tutto alla luce del giorno, e neanche le opposizioni sono sorprese. Incredibile”. O anche: “Ricordo che sei consiglieri del Consiglio Superiore dovettero dare le dimissioni per essersi incontrati con dei politici, per la nomina di un procuratore”, è il riferimento netto agli accordi dell’hotel Champagne, scena ormai iconica del disastro Palamara. Se la linea Meloni era improntata a maggior fermezza e sventolata “certezza della pena”, il pranzo Nordio-Berlusconi turba parecchio la narrazione. E la scelta di quel frugale tête-à-tête pesa come una sgrammaticatura non di poco conto. Il secondo round tra Pd e centrodestra è sul vicepresidente del Csm di Giulia Merlo Il Domani, 21 ottobre 2022 I laici dovrebbero essere eletti a inizio dicembre, 3 a FdI, rispettivamente 2 a Lega e Forza Italia e uno a testa per Pd; Terzo Polo e Movimento 5 Stelle. L’ago della bilancia saranno le toghe centriste di Unicost. Il Pd punta su un nome tecnico che potrebbe ottenere i voti anche dei magistrati moderati. Il Transatlantico, il lungo corridoio davanti all’aula di Montecitorio, è una fiera delle vanità e rimbalzano le voci più varie e negli ultimi giorni la Giustizia è tornata argomento di conversazione. Gli occhi di tutti guardano in due direzioni: via Arenula e palazzo dei Marescialli. Al ministero non c’è partita, perchè l’esito elettorale lo assegna al centrodestra ed è ormai certo nelle mani dell’ex magistrato Carlo Nordio, manca solo l’ufficialità del passaggio al Quirinale. La leader di Fratelli d’Italia, Giorgia Meloni, lo ha candidato con la promessa di un ruolo centrale e sta mantenendo la parola data, nonostante lo scontro violento con Forza Italia, che reclamava il dicastero per l’ex presidente del Senato e avvocata, Elisabetta Casellati. Al Csm, invece, il centrosinistra e in particolare il Pd cercherà di riconquistare la vicepresidenza sulla base delle peculiari dinamiche interne dell’organo. Il Csm - La nomina dei laici avverrà nella prima seduta comune del parlamento, che con tutta probabilità non si terrà prima dell’inizio di dicembre. La legge, infatti, prevede almeno 40 giorni di preavviso per la convocazione dei corpi elettorali. Tuttavia, le quotazioni dei papabili salgono e scendono in base alla distribuzione dei ruoli di governo, sottogoverno e di Camera e Senato. Sulla base degli esiti elettorali, la ripartizione sarà di 3 posti per Fratelli d’Italia, che ritorna al Csm con i suoi eletti dopo che nel precedente consiglio aveva passato la mano a Forza Italia; rispettivamente 2 a Lega e Forza Italia e uno a testa per Pd; Terzo Polo e Movimento 5 Stelle. I laici, che diventano 10 dopo la riforma Cartabia, si sommano ai 20 togati già eletti il 19 settembre. Il nuovo sistema elettorale misto ha prodotto una maggioranza incerta: 7 eletti di Magistratura indipendente; 6 di Area; 4 di Unicost; 2 di Magistratura democratica (di cui uno indipendente) e un indipendente e non collegato a nessun gruppo associativo. Tradotto: la corrente centrista di Unicost è determinante per regalare la maggioranza ai conservatori di Mi - che culturalmente dovrebbero essere più vicini ai 7 laici di centrodestra - o ai progressisti di Area, cui dovrebbero sommarsi i 3 laici delle opposizioni. Questa maggioranza oscillante rende incerto anche l’esito della votazione sul vicepresidente, che deve essere scelto tra i laici. Le ipotesi nel centrodestra - Sul fronte del centrodestra, si sta facendo strada un disegno. Per via Arenula era in corsa anche l’attuale sottosegretario alla Giustizia, Francesco Paolo Sisto, avvocato barese di Forza Italia. Stimato sia dagli avvocati che dai magistrati, negli ambienti di centrodestra il suo nome è stato avanzato per puntare alla vicepresidenza del Csm. Ha il carattere e anche la competenza, difficilmente potrebbe aver voglia di un secondo giro da sottosegretario alla Giustizia e al Csm serve un nome di chiara fama. In teoria tutto fila, in pratica ambienti di FI la definiscono poco più che un’ipotesi di scuola, con scarsa probabilità di andare in porto. Sisto, infatti, è considerato un politico fondamentale nella compagine azzurra al Senato e come rappresentante pugliese. Costringerlo in una posizione pur prestigiosa ma esterna alla politica non convince. Insieme al suo, torna poi anche il nome di Pierantonio Zanettin, forte anche dell’esperienza pregressa al Csm nel quadriennio 2014-2018. Inoltre, anche Fratelli d’Italia avrebbe in mente un nome per la vicepresidenza: dei tre posti, infatti, uno potrebbe andare a Giuseppe Valentini, penalista calabrese, ex senatore e presidente della fondazione Alleanza Nazionale. La risposta del Pd - A fronte di questa indecisione, il Partito democratico si sta muovendo. Se prima del voto il nome più probabile era quello della senatrice e responsabile Giustizia, Anna Rossomando, ora l’ipotesi di un suo passaggio a palazzo Marescialli è fuori discussione, visto che è stata eletta vicepresidente del Senato. Per tentare di attrarre i voti di Unicost, il Pd sta ragionando di un nome tecnico da proporre, che possa piacere anche alle toghe moderate. Quello dell’ex ministra Marta Cartabia è scartato, anche perchè la diretta interessata ora sarebbe decisa a tornare alle aule universitarie. Anche quello dell’avvocato e costituzionalista Massimo Luciani sembra difficile, perchè significherebbe lasciare cattedra e e ufficio. Si è al lavoro per individuare un profilo adatto, però, in modo da provare a insidiare il centrodestra dirottando sul candidato della minoranza laica i voti determinanti dei togati. Esattamente come successe nel 2018 con l’elezione di David Ermini. In quel caso, però, la vicepresidenza rischiava di finire nelle mani del laico del Movimento 5 Stelle e proprio questo avrebbe convinto i magistrati a dirottare i propri voti verso il parlamentare dem. Il tentativo di Ferri - Al netto delle operazioni per la vicepresidenza, qualcosa si sta muovendo anche nel Terzo Polo di Azione e Italia Viva. L’ex magistrato Cosimo Ferri non è stato rieletto in parlamento e dovrebbe tornare a svolgere le sue funzioni di giudice penale a Massa. Tuttavia, in ambienti vicini a Italia Viva si ipotizza il colpo di scena: lui, che era entrato da togato al Csm nel 2006 potrebbe provare a venire eletto ora da laico, approfittando di un cavillo. Per venire eletti consiglieri laici, bisogna essere avvocati con 15 anni di attività oppure professori universitari in materie giuridiche. Ferri, prima di entrare in magistratura nel 1997, si era iscritto all’albo degli avvocati e potrebbe chiedere di equiparare gli anni di esercizio della professione legale con quelli di permanenza nell’ordine giudiziario. A sostenere la tesi ci sarebbe una precedente interpretazione, ma la strada è angusta e l’operazione spericolata. Tuttavia, Ferri è uomo dalle mille risorse e determinante sarà la decisione politica del suo partito di riferimento. Csm, il centrodestra verso l’en plein e la vicepresidenza grazie a Italia Viva di Giovanni M. Jacobazzi Il Dubbio, 21 ottobre 2022 Il partito di Renzi e Calenda sarebbe determinante per raggiungere il quorum di 360 voti. “Urge insediare il nuovo Consiglio superiore della magistratura”. A dirlo è stato ieri dalle colonne del Giornale Matteo Renzi. Il leader di Italia viva, commentando l’assoluzione questa settimana dei suoi genitori davanti alla Corte d’appello Firenze, ha rivolto l’invito ai presidenti di Camera e Senato affinché convochino quanto prima le aule per eleggere i dieci componenti laici di Palazzo dei Marescialli. I venti togati, come si ricorderà, sono già stati eletti. La nuova consiliatura si sarebbe dovuta insediare alla fine dello scorso mese di settembre ma a causa della crisi del governo Draghi, e con il successivo ricorso alle elezioni anticipate, il passaggio di consegne è slittato a data da destinarsi. Al momento, dunque, il Csm sta operando in regime di ‘prorogatio’. Sulla assegnazione dei posti per la prima volta la maggioranza di centro destra potrebbe fare l’en plein. Il Dubbio aveva riportato nelle scorse settimane alcune indiscrezioni secondo cui, grazie proprio all’appoggio di Renzi, ci sarebbero i numeri per non lasciare al Pd e ai 5stelle alcun posto. Al momento, senza l’accordo con i renziani, la suddivisione dei 10 posti è 7 alla maggioranza e 3 all’opposizione. Per essere più precisi, 3 a Fratelli d’Italia, 2 ciascuno a Lega e Forza Italia, uno a testa per Pd, Italia viva - Azione e M5s. La legge prevede che ogni eletto debba ricevere i tre quinti dei voti dell’intero Parlamento. Su 600 votanti, il quorum necessario è quindi di 360. Il centrodestra ha 352 seggi, non sufficienti per poter eleggere tutti i componenti laici. Per evitare di dover scendere a patti con il Pd e con il M5s, sarebbe allora necessario un accordo preventivo con Italia viva - Azione che ha 30 seggi e potrebbe così incassare tutti i posti destinati all’opposizione. In cambio Italia viva - Azione avrebbe 3 posti. Se si realizzasse questo scenario, il centrodestra potrebbe anche conquistare la vice presidenza del Csm, da decenni appannaggio esclusivo di esponenti della sinistra o, comunque, di centrosinistra. A quel punto, però, la partita è destinata a complicarsi. Fra i vari partiti della coalizione di centrodestra, solo Forza Italia ha oggi i candidati maggiormente spendibili: Francesco Paolo Sisto, Elisabetta Alberti Casellati e Pierantonio Zanettin. Tutte figure autorevoli e in grado di ricoprire senza problemi il ruolo di vice del capo dello Stato che è appunto il presidente del Csm. Sisto e Casellati sono stati entrambi sottosegretari alla Giustizia. Zanettin, come anche Casellati, è stato componente del Csm nel 2014- 2018. Il problema risiede nel fatto che i tre sono senatori e che quindi dovrebbero dimettersi da Palazzo Madama. Per quanto riguarda Sisto e Caselatti bisognerebbe anche indire delle elezioni supplettive, essendo stati eletti nell’uninominale. Elezioni non necessarie per Zanettin che è stato invece eletto nel plurinominale. Una decisione, quella delle dimissioni, che non potrà non avere il via libera di Giorgia Meloni visto che i numeri Senato sono alquanto risicati. Per quanto riguarda gli altri componenti, oltre ai nomi già circolati come Francesco Urraro per la Lega e Lucia Annibali per Italia viva, negli ultimi giorni starebbe prendendo piede l’ipotesi Pieremilio Sammarco, avvocato romano e professore di diritto all’università di Bergamo. Il padre di Sammarco, Carlo, era stato presidente del tribunale di Roma. La sua sarebbe una di quelle candidature di ‘alto profilo’ e non strettamente politiche reclamate dal presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. L’Ocse contro i giudici che assolsero i vertici Eni: interrogazione di Costa di Valentina Stella Il Dubbio, 21 ottobre 2022 Le reazioni della politica al rapporto che “sgrida” i giudici del caso Eni. “Ingerenza inammissibile”. Come raccontato sul Dubbio da Simona Musco, l’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico (Ocse) “è entrata a gamba tesa sull’indipendenza dei magistrati italiani”. E lo ha fatto “in due modi diversi: con un report nel quale bacchetta l’Italia per il basso numero di condanne nei processi per corruzione internazionale e una inusuale lettera scritta dal presidente del Gruppo di lavoro, Drago Kos, a sostegno di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, l’accusa nel caso Eni-Nigeria, oggi a processo per rifiuto d’atti d’ufficio”. Nonostante la gravità delle affermazioni contenute nel report, non ci sono state reazioni immediate né dal mondo della politica né da quello della magistratura. Solo su sollecitazione del Foglio, il presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, ha minimizzato la questione sostenendo che “per noi non si pone un problema di lesione dell’indipendenza dei giudici”. Di parere opposto Andrea Reale, esponente dell’Anm con i 101: “Premetto che non ho avuto ancora tempo di leggere il rapporto dell’Ocse e la lettera del presidente Kos. Ma se quello che ho letto sui giornali corrisponde al contenuto del report, ritengo che quelle dichiarazioni siano assolutamente inopportune perché rischiano di delegittimare la giurisdizione italiana, sia per quanto riguarda l’operato dei giudici sia per quanto concerne quello dei pubblici ministeri”. Reale fa riferimento al fatto che la Procuratrice generale di Milano ha ritenuto di non dover appellare la sentenza di assoluzione di primo grado del processo per la presunta maxi-tangente Eni: “Essendo quello della Procura generale l’organo deputato all’impugnazione, qualora la sua decisione fosse quella di non fare ricorso nei gradi successivi di giudizio, essa andrebbe rispettata perché è una prerogativa prevista nel nostro sistema giuridico. Certo, contro il nostro sistema si possono esprimere delle critiche, anche da parte di organismi internazionali non governativi, ma esse non dovrebbero mai riguardare procedimenti specifici”. Sul versante politico, l’onorevole Enrico Costa, vicesegretario e responsabile giustizia di Azione, ha annunciato che presenterà “una interrogazione al nuovo Guardasigilli non appena sarà insediato per evidenziare le singolari prese di posizione provenienti dall’Ocse, decisamente lesive dell’autonomia e indipendenza dei magistrati italiani. Non sta né in cielo né in terra che un organismo internazionale si permetta di contestare il numero di assoluzioni per il reato di corruzione internazionale, attribuendo la responsabilità al nostro ordinamento perché richiede una “prova solida” del fatto di reato (vorrebbero forse una prova flebile) ed ai giudici nella valutazione degli elementi di prova”. Il parlamentare poi stigmatizza la mancata reazione del “sindacato delle toghe”: è ancora più grave da parte dell’Ocse “l’intromissione su procedimenti penali specifici con giudizi che solo l’Anm (forse abituata a difendere solo chi accusa e chi condanna) non ritiene lesivi dell’autonomia e indipendenza della magistratura”. Dello stesso parere il senatore di Forza Italia Pierantonio Zanettin: “Si tratta di una ingerenza inammissibile dell’Ocse nel nostro ordinamento giudiziario interno. L’efficienza della magistratura non si misura certamente nel numero di condanne emesse in merito ad una specifica tipologia di reato”. Quindi per Zanettin tale anatema dell’organizzazione internazionale nei confronti dell’Italia “va respinto con forza al mittente. Noi siamo ben contenti di vivere in un sistema basato sull’oltre ogni ragionevole dubbio. Non si condanna se la prova non è solida. Un Paese come il nostro, di grande tradizione giuridica garantista, è inaccettabile che venga messo sotto accusa in questo modo”. A proposito di accusa, il senatore conclude: “La critica da parte dell’Ocse è rivolta chiaramente alla magistratura giudicante. Invece dovrebbero chiedersi perché siano state mandate avanti delle imputazioni da parte della magistratura requirente che ha istruito un processo poi rivelatosi inconsistente, tanto che la stessa Procura generale ha rinunciato all’appello”. “Non c’è prova di nessun fatto rilevante”, aveva affermato la pg, secondo cui i motivi d’appello presentati da De Pasquale erano “incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità”. Per l’onorevole Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile giustizia di Fratelli d’Italia, “il tema è complesso. Per fortuna l’Ocse ha espresso delle considerazioni del tutto ininfluenti per il nostro sistema giudiziario”. Il professor Giorgio Spangher, ex membro laico del Csm, ci dice: “Ormai da troppo tempo l’Europa, attraverso i suoi vari organismi, ci sta dicendo come dobbiamo amministrare la giustizia: dalla legge spazza-corrotti all’ultima riforma per diminuire l’arretrato, e ora ci accusano di assolvere troppo. Sono allibito, siamo sempre più un Paese a sovranità limitata. Quella dell’Ocse è una pesante ingerenza nell’autonomia e indipendenza della magistratura, che è un potere dello Stato. Noi abbiamo un grande sistema di legalità, a partire dalla nostra Costituzione. E quando si assolve, lo si fa spesso dopo il controllo di tre gradi di giudizio. Noi non siamo come gli Stati Uniti dove si patteggia per non rischiare il peggio”. Spangher in conclusione si pone due domande, forse anche un po’ retoricamente: “Esistono troppe assoluzioni o c’è una assoluzione che a qualcuno non è piaciuta? E chi tira le fila di questi discorsi, chi è la manina che ha spinto l’Ocse a fare quelle dichiarazioni?”. Al momento nessun commento da parte di Pd e Movimento Cinque Stelle. Caso Ocse, i malumori delle toghe per il silenzio dell’Anm di Ermes Antonucci Il Foglio, 21 ottobre 2022 Magistrati in fibrillazione per il mancato intervento dell’Associazione nazionale magistrati a tutela dei giudici criticati dall’Ocse per le troppe assoluzioni nei casi di corruzione internazionale. Intanto interviene Costa (Azione). Sono diventate un caso le critiche rivolte dal Gruppo di lavoro anticorruzione dell’Ocse ai giudici italiani, accusati di assolvere troppo nei processi per corruzione internazionale, così come lo sono diventate le parole, rilasciate ieri al Foglio, dal presidente dell’Associazione nazionale magistrati, Giuseppe Santalucia, che anziché prendere posizione a tutela delle toghe italiane ha detto: “Per noi non si pone un problema di lesione dell’indipendenza dei giudici”. Nel rapporto di 180 pagine, gli esaminatori dell’Ocse non solo si dicono “seriamente preoccupati” dal fatto che negli ultimi anni “i processi in Italia sui casi di corruzione internazionale abbiano prodotto un alto numero di sentenze di assoluzione”, ma si spingono addirittura a contestare nel merito le valutazioni effettuate dai giudici italiani in alcuni processi di grande importanza, come il caso Eni-Nigeria (finito con l’assoluzione degli imputati). Secondo il gruppo di lavoro, i giudici italiani non solo avrebbero sbagliato metodo “esaminando le prove indiziarie solo individualmente, anziché nella loro totalità”, ma non avrebbero valutato in maniera adeguata gli elementi raccolti dall’accusa (addirittura rievocati nel rapporto come prova di corruzione). La mancata presa di posizione del presidente dell’Anm a tutela delle toghe ha prodotto profondi malumori nella magistratura. “Trovo sinceramente stupefacente la posizione espressa da Santalucia di fronte a un attacco frontale, condotto ai massimi livelli, contro un organo giurisdizionale italiano sol perché autore di una decisione ‘sgradita’”, dichiara al Foglio Andrea Mirenda, giudice del tribunale di sorveglianza di Verona, eletto componente togato del prossimo Csm. “L’Anm ha chiesto pratiche a tutela per i motivi più vari, anche di modesta consistenza - aggiunge - Dire qui, come fa il presidente Santalucia, che va tutto bene suscita profonda perplessità. Sarebbe interessante capire se la sua posizione è condivisa in seno alla giunta esecutiva centrale”. Per Pasquale Grasso, ex presidente dell’Anm, “le affermazioni del report manifestano una chiarissima indistinzione e confusione tra i piani della politica, della legislazione (vigente e sperata), della giurisdizione, in quest’ultima senza distinguere (o capire) lo specifico ruolo (e la separazione) rivestito da pm e giudici”. “Non è immaginabile nel nostro ordinamento - prosegue - prevedere standard probatori differenziati a seconda del bene giuridico protetto dalla norma penale, soluzione che invece pare suggerire tra le righe il report in esame. Non commento, poi, la lezione sul metodo di valutazione delle prove suggerito con fare professorale dall’Ocse, peraltro tradendo un consistente appiattimento su quanto riferito (in questionari al riguardo) da non meglio indicati pubblici ministeri, considerati quasi un soggetto indifferenziato rispetto ai giudici, tutti con il compito di perseguire la pubblica corruzione; il che, allo stato, non è”. Anche per Angelantonio Racanelli, procuratore aggiunto a Roma, “si tratta di una pericolosa interferenza sulla giurisdizione italiana. Spero che l’Anm batta un colpo”. Il risultato, se si vuole paradossale, è che a muoversi in difesa dell’indipendenza dei magistrati stavolta è la politica. “Presenterò un’interrogazione al nuovo Guardasigilli, non appena sarà insediato, per evidenziare le singolari prese di posizione provenienti dall’Ocse decisamente lesive dell’autonomia e indipendenza dei magistrati italiani”, ha annunciato il deputato Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione. “Non sta né in cielo né in terra - ha aggiunto - che un organismo internazionale si permetta di contestare il numero di assoluzioni per corruzione internazionale attribuendo la responsabilità al nostro ordinamento perché richiede una ‘prova solida’ del fatto di reato (vorrebbero forse una prova flebile) e i giudici nella valutazione degli elementi di prova. Per non parlare delle intromissioni su procedimenti penali specifici con giudizi che solo l’Anm (forse abituata a difendere solo chi accusa e chi condanna) non ritiene lesivi dell’autonomia e indipendenza della magistratura”. “Giustizia per Youns”. Sabato sit-in a Pavia di Giansandro Merli Il Manifesto, 21 ottobre 2022 Il caso dell’assessore-sceriffo di Voghera. Il pm mantiene l’imputazione per “eccesso colposo di legittima difesa” e nega agli avvocati della famiglia El Boussetaoui l’acquisizione del contenuto dello smartphone di Massimo Adriatici. L’avvocata Debora Piazza: “In questa vicenda sembra che gli indagati siamo noi”. “Chiedo a italiani e stranieri di venire sabato 22 ottobre alle 11 di fronte alla procura di Pavia. Ci sarà un presidio per la giustizia di mio fratello Youns e per dire all’Italia che la legge è uguale per tutti”. Bahija El Boussetaoui ha affidato a un video la convocazione di un sit-in a sostegno della battaglia per la verità sull’omicidio del fratello che sta conducendo con gli avvocati Debora Piazza e Marco Romagnoli. Non è giusto, continua, “che il più forte schiacci e uccida il più povero, lo straniero”. Il riferimento è a Massimo Adriatici, avvocato ed ex assessore leghista alla Sicurezza di Voghera che il 20 luglio 2021 nella piazza del suo comune avrebbe ammazzato a colpi d’arma da fuoco il 39enne di origini marocchine. Il dito, però, è puntato contro la procura che secondo la famiglia El Boussetaoui ha condotto indagini lacunose e ostacola i suoi legali. Per ultimo negando l’acquisizione della copia forense del cellulare di Adriatici, cioè l’intero contenuto del dispositivo estratto in modo certificato. Il pm Roberto Valli ha autorizzato gli avvocati della famiglia solo a consultarla nell’ufficio intercettazioni della procura. Senza poter acquisire le chat e sotto la sorveglianza di un carabiniere. “In questa vicenda sembra che gli indagati siamo noi”, denuncia l’avvocata Piazza che parla di “mortificazione e annientamento” della possibilità di difendere la persona offesa. Si tratta di una grande mole di materiale che i legali hanno bisogno di analizzare a fondo. Impossibile farlo nelle condizioni stabilite, che impediscono perfino di portare al giudice gli elementi ritenuti utili. Anche in fase di indagini preliminari la procura si era opposta alla consegna dei dati. Diniego confermato dal Gip, ma smentito dalla Cassazione. Adesso però le indagini sono chiuse, con la procura che ha mantenuto l’accusa originaria: “eccesso colposo di legittima difesa”. Anche dopo questo passaggio, però, il pm ha rigettato l’istanza di acquisizione motivandola con “esigenze di riservatezza”. Gli avvocati faranno opposizione al Gip e sono pronti ad arrivare nuovamente fino in Cassazione. Si tratta solo dell’ultima anomalia in ordine di tempo. Ce ne sono almeno altre quattro. Primo: l’autopsia realizzata a tempo record, 12 ore dopo l’omicidio, senza avvisare i familiari né i legali della vittima. Entrambi noti a tribunale e carabinieri di Pavia per vicende pregresse che avevano riguardato l’uomo. Secondo: il pm ha da subito ipotizzato l’”eccesso colposo di legittima difesa”. Solo successivamente l’ipotesi di reato è stata trasformata, a penna, in “omicidio volontario”, per ritornare a quella originaria nella richiesta di misura cautelare. “Mai vista una cosa simile. In genere il pm fa l’imputazione per omicidio volontario e poi spetta al difensore lavorare per cambiarla”, afferma Piazza. L’ipotesi meno grave è stata confermata anche nell’atto di chiusura indagini. Nonostante Adriatici abbia utilizzato proiettili vietati, di tipo espansivo e quindi più pericolosi, e l’autopsia stabilito che il colpo è stato sparato dall’alto verso il basso. “Cioè dopo che l’ex assessore si era rialzato”, ha dichiarato l’avvocato Romagnoli. Terzo: la procura non ha acquisito dei filmati che avrebbero potuto chiarire se Adriatici seguiva la sua vittima. Quando i legali li hanno richiesti erano stati cancellati. Quarto: Adriatici è stato lasciato aggirarsi indisturbato sul luogo del crimine con il rischio di inquinamento delle prove. Nelle prossime settimane il Gip dovrà decidere se avallare l’ipotesi di reato formulata dal Pm o modificarla. Poi si arriverà all’udienza preliminare per il probabile rinvio a giudizio. Perché l’arresto in carcere di Bilal è una sconfitta per tutti noi di Fabrizio Capecelatro fanpage.it, 21 ottobre 2022 Nessuna delle quindici comunità dove è stato ospitato è riuscita a convincere il giovane rapinatore che possa esistere per lui un futuro migliore dal delinquere. Che abbia dodici anni, come si credeva inizialmente, o quattordici come un nuovo esame osseo dimostrerebbe, l’arresto in carcere di Bilal è una sconfitta per tutti, innanzitutto per le istituzioni italiane. Autore di sei furti nel giro di neanche dieci giorni, il ragazzino, che si riteneva di non poter chiudere in galera perché più piccolo dell’età imputabile, è ora stato trasferito nel centro di prima accoglienza (Cpa) del carcere di Torino. Chi è Bilal - Arrivato in Italia da solo, come straniero minore non accompagno, Bilal è in fuga. Poco importa da cosa, se da qualche guerra o semplicemente dalla povertà. Ma per aver lasciato neanche maggiorenne la famiglia ed essersi recato, con chissà quale mezzo di fortuna, in Italia di sicuro è in fuga da qualcosa. Probabilmente sperava di poter avere un futuro migliore di quello che aveva in patria (il Marocco, probabilmente) e invece, arrivato qui, qualcosa deve avergli fatto pensare che non può avere nessun futuro da quello di fare il delinquente. Altrimenti non sarebbe scappato per ben quindici volte da altrettante comunità in cui era stato messo: dal Centro per minori dei servizi sociali di Genova addirittura dopo neanche tre ore. Eppure in nessuna comunità (e ne ha girate tante: da Salerno a Torino, passando per Roma e Milano) sono riusciti a convincerlo che ci potrebbe essere per lui un futuro migliore di andare a rubare. Così ogni volta è tornato a delinquere, fino a suscitare perfino indignazione perché, essendo convinti che avesse soltanto dodici anni, non poteva essere arrestato. E quindi, dopo essere stato trasportato in una nuova comunità, scappava e rubava di nuovo. Suscitando ancora più indignazione nel pubblico. L’arresto in carcere - Dopo l’ultimo furto, avvenuto il 20 ottobre a Milano, sono scattate le manette per Bilal, perché è emerso che il ragazzo non ha dodici ma “ben” quattordici e quindi può essere imputabile. Così ora è finito in carcere. Ma l’età di Bilal non è l’unica cosa che, in realtà, non si conosce su di lui. Lo stesso Bilal non è, infatti, un nome certo. Si sa, perché lo ha raccontato lui al Corriere della sera, che è da solo in giro per l’Europa da quando ha nove anni. Da Fez, dove vive la famiglia, si sarebbe imbarcato dal porto di Tangeri, per poi arrivare in Spagna. Lì ha viaggiato, da solo e senza avere neanche dieci anni, “infilato tra il pianale e il motore di un camion”. La sua età, non precisa, è stata ricostruita grazie a un esame osseo, quello che di solito viene realizzato ai cadaveri per capire quale fosse la loro età prima che morissero. A lui viene eseguito per sapere se può essere rinchiuso in un carcere o, invece, “soltanto” in una comunità per stranieri minori non accompagnati. E finalmente arriva l’esito per molti positivo: è imputabile e quindi può essere messo in cella. Da lì non potrà fuggire e, almeno per un po’, smetterla di essere un fastidio per i cittadini. Poco importa che, se nessuna comunità è riuscito a fargli credere nella speranza di un futuro, difficilmente ci riuscirà un carcere, da cui molto spesso si esce più delinquenti di quando ci si è entrati. Ma molti esultano perché finalmente un antipatico criminale è stato assicurato alla giustizia, quando in realtà un’altra giovane vita è stata sprecata, invece che recuperata, dall’incapacità delle istituzioni e dall’egoismo delle persone, che preferiscono rinchiudere un bambino in galera piuttosto che adoperarsi per salvare un essere umano. Bilal e le rapine a 12 anni: “Trovatemi un lavoro e smetterò di rubare. Aspetto che liberino Abdil” di Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 21 ottobre 2022 Il ragazzino, che dice di essere scappato di casa a 9 anni da Fez, in Marocco, è stato portato nel carcere minorile di Torino. È giallo sulla sua età: dalle analisi del polso ha al massimo 12 anni e mezzo. Bilal dice d’aver attraversato l’Europa. D’essere partito, scappando dalla sua casa di Fez, in Marocco, quando aveva 9 anni. D’aver viaggiato partendo dal porto di Tangeri aggrappato al pianale di un camion. E di essere qui, alle dieci di sera, nella penombra della stazione Centrale di Milano, circondato da un mondo di lingue e facce indecifrabile, per “essere libero”. Indossa una tuta beige Puma (“mi è costata 130 euro, l’ho presa ieri”), una maglietta nera dei New York Yankees, un paio di Vans ai piedi. Dimostra almeno 16 anni, anche se dice di averne solo 12. E gli esami ossei, eseguiti al Laboratorio di antropologia forense dell’istituto di Medicina legale dell’anatomopatologa Cristina Cattaneo, gliene attribuiscono al massimo 12 e mezzo. Meno di 14, l’età minima per essere accusato di un reato, arrestato, rinchiuso in un carcere. Così gli ultimi giorni di Bilal sono stati un’infinita fuga da polizia e carabinieri dopo furti e rapine e di “evasioni” dalle comunità per minori dove è stato affidato ogni volta. Bilal è diventato in poche settimane un caso quasi irrisolvibile, responsabile (sempre fermato in flagranza e con il bottino) di almeno una decina di rapine e furti solo a Milano e sempre rilasciato. Seduto sul margine di un’aiuola racconta una vita avventurosa, fatta di rapine, di un continuo peregrinare per Spagna, Francia, Olanda, Germania e Italia. Al termine di questo incontro, in cui parla della sua vita da diavolo e senza catene, Bilal finirà per la prima volta dietro le sbarre di un carcere minorile. Arrestato alle 2.30 di giovedì notte dalla polizia dopo aver rapinato collanine d’oro a due ragazzi proprio davanti alla Centrale. Secondo la Procura dei minori, adesso, non è del tutto certo che l’esame osseo abbia ragione e servono altri approfondimenti medici, perché invece gli anni potrebbero essere 14. Per questo, in attesa di una probabile liberazione, Bilal resterà rinchiuso nel Cpa del minorile di Torino. L’incontro avviene quattro ore prima. Nello stesso luogo della rapina. Bilal è appena tornato da Genova, dopo la fuga dalla comunità per minori in cui i carabinieri lo avevano portato dopo l’ennesima rapina del giorno prima. Lasciando il capoluogo ligure ha salutato così gli operatori: “Io qui non ci resto, ho delle cose da fare a Milano”. Mangia una specie di gulash che gli viene offerto dai volontari che sfamano le anime disperate della notte in piazza Duca d’Aosta. Dalle mutande sfila un rotolo di banconote. Sono 600 euro, il suo ultimo bottino razziato a un viaggiatore che poche ore prima s’era appisolato sul Frecciarossa dalla Liguria: “Guarda, non mi credi? Di questi, 400 euro li mando ai miei genitori. Il resto lo uso per le mie spese”. Dispensa sigarette, patatine, biscotti agli altri marocchini, più grandi di lui, che quasi lo coccolano. Bilal ruba, non può finire in carcere e mantiene un po’ tutti. “Qui lo rispettano: è sveglio”. Fuma una sigaretta dietro l’altra, la birra tra le mani, nella tasca dello zaino un pezzo di blister di Rivotril, uno psicofarmaco (ne ingurgita due, “adesso vado a comprarne altre dieci qua dietro”). Sotto i capelli lunghi sbiancati da vecchie meches fai da te, lo sguardo è serio, da “grande”, tradito solo da quel filo di peluria acerba sopra il labbro. “La mia famiglia non voleva, ma io sognavo solo l’Europa”, dice. È partito con un obiettivo: “Voglio aiutare i miei genitori. Mio padre ha un piccolo caffè, ha più di 50 anni, e quando non riuscirà più a lavorare, come farà la mia famiglia ad andare avanti?”. S’è lasciato alle spalle fratelli e sorelle, ma il più grande “non aiuta, non porta soldi a casa. Figurati che neanche saluta più mio padre”. Bilal parla una sorta di esperanto: mischia termini di lingue diverse, eredità dei suoi ultimi tre anni da vagabondo. Dal suo arrivo in terra europea è iniziato il suo infinito “Interrail”: la Spagna - Malaga, Barcellona, Alicante, San Sebastian -, la Francia - Parigi, Marsiglia, Tolosa -, la Germania - Colonia e Francoforte -, e poi l’Olanda, il Belgio, la Danimarca. In Italia “sono stato a Roma Termini, Napoli, Torino Porta Susa, Genova, Venezia Santa Lucia, bellissima”. La sua cartina è una sequenza di stazioni ferroviarie. Si muove sempre in treno, una frontiera dopo l’altra, tra un furto e una rapina, una “sosta” in comunità e una in carcere (“ci sono stato una volta, in uno olandese, ma è diverso dagli altri, si può anche giocare alla Playstation”). Bilal dice di vivere con alcuni “amici” in un appartamento a Rho, alle porte di Milano. Ma in città assicura di avere altri due appoggi. Ogni volta che è stato fermato, ai carabinieri e agli operatori dei servizi sociali del Comune ha detto di “non avere bisogno d’aiuto”. Di avere “contatti” a Milano e di non preoccuparsi per lui. In realtà non è mai rimasto in comunità per più di un giorno. Il suo racconto - in un costante frullatore di spagnolo, tedesco, francese e un po’ d’italiano che ricorda il Salvatore de “Il nome della rosa” - è dettagliato. E ricalca la biografia criminale che polizia e carabinieri aggiornano di continuo. L’orologio che hai strappato al turista americano in via Manzoni? “Quello era un bell’orologio, ci avrei fatto tanti soldi. Sai come mi hanno preso? Mi hanno inseguito due ragazzi in moto, mi sono venuti addosso”. È quasi strafottente quando racconta di come polizia e carabinieri non possano fargli niente. “Mi devono lasciare andare, nessuno mi può arrestare”. In realtà accade a cadenza quasi giornaliera: viene fermato e trasferito in qualche comunità, da cui regolarmente fugge. Perché scappi? “Perché non voglio stare chiuso. Mi piace essere libero, girare. Non ho bisogno di niente”. Quando un volontario di un’associazione si ferma e gli parla, lui accenna al futuro: “Trovatemi un lavoro, mille euro al mese. Mi bastano e non rubo più”. Bilal, sei troppo giovane per lavorare: “Ho un amico a Napoli, ha la mia età e lavora”. E la scuola? “Ci sono andato un anno, in Marocco, poi ho fatto un casino e ho smesso”. Saresti disposto a farti aiutare? “Sì, però non voglio stare chiuso in comunità. Voglio anche essere libero di stare qui, di uscire. Questa è la mia vita”. Mentre sulla stazione cala la notte lui barcolla e si stende sul gradone di un’aiuola. Ma che ci fai ancora qua? “Aspetto che liberino Adil”. Adil ha 14 anni, è un suo connazionale, è “il” suo amico, quasi un’ossessione: “Lo hanno arrestato più di un mese fa. Aiutatemi a trovarlo, è come mio fratello”, spiega mentre fa il gesto di stringerselo al petto. “Io sono qui a Milano per lui, posso pagargli l’avvocato”. Bilal, non hai paura? Lo sguardo diventa fisso: “Paura, io?”. Il vociare intorno a lui si fa silenzioso. “Tutti dobbiamo morire, non si può vivere con la paura di morire”. Non risarcito il reato prescritto di Dario Ferrara Italia Oggi, 21 ottobre 2022 Le sezioni unite della Corte di cassazione risolvono un contrasto di legittimità. Non risarcito il reato prescritto. Il giudice d’appello deve revocare le statuizioni civili quando dichiara il reato estinto e rileva che la relativa causa è maturata in epoca anteriore alla sentenza di primo grado. E ciò sia laddove compie una valutazione difforme rispetto al suo predecessore sia quando constata un errore in cui è incorso il primo giudice: è escluso, insomma, che in seconda istanza il giudice possa ugualmente decidere sull’impugnazione ai sensi dell’articolo 578 Cpp ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza che riguardano il risarcimento alla persona offesa dal reato che si è costituita in giudizio. Lo stabiliscono le Sezioni unite penali della Cassazione con la sentenza 39614/22, pubblicata il 19 ottobre, che risolve un contrasto nella giurisprudenza di legittimità. Bilanciamento diverso. Bocciato il ricorso proposto dalle parti civili, vittima di un’estorsione continuata e pluriaggravata. In appello la Corte pronuncia il non luogo a procedere perché il reato risulta prescritto in epoca anteriore alla sentenza di primo grado. E lo fa perché, diversamente dal Tribunale, riconosce all’imputato un’attenuante e ritiene le attenuanti generiche prevalenti sull’aggravante ex articolo 628, terzo comma numero 3, Cp. Ma lo stesso risultato si sarebbe prodotto, ad esempio, se il giudice del gravame rispetto al primo grado avesse escluso la recidiva qualificata, ritenuto insussistente un’aggravante o formulato un diverso giudizio di comparazione fra circostanze del reato. Estinzione a monte. Una volta che in appello si accerta che la prescrizione risulta maturata in epoca antecedente alla pronuncia di primo grado, non è possibile confermare le statuizioni civili perché mancano i presupposti che consentono al giudice dell’impugnazione di decidere sul risarcimento alle persone offese: l’articolo 578 Cpp non è applicabile a tutte le ipotesi in cui l’estinzione del reato si colloca a monte della sentenza di condanna in primo grado. E ciò perché non può ritenersi valida la condanna emessa per un reato che in realtà era già estinto, benché sia riconosciuto tale da una decisione successiva. Alla parte civile, dunque, non resta che promuovere l’azione di risarcimento nella sede naturale, quella civile. Senza patente c’è l’arresto di Andrea Magagnoli Italia Oggi, 21 ottobre 2022 La condotta di chi conduce un autoveicolo o un motoveicolo nonostante la precedente revoca della patente di guida a seguito dell’applicazione di una misura di prevenzione personale, è passibile di una sanzione di carattere penale. Lo afferma la Corte costituzionale con la sentenza n. 211/2022 emessa il giorno 12 settembre 2022 e depositata il giorno 17 ottobre 2022. Il caso di specie trae origine dall’ordinanza di rimessione degli atti alla Consulta emanata da parte dei giudici della sesta sezione penale della Corte di cassazione. Ad avviso dei giudici remittenti l’art. 73 del dlgs 6 settembre 2011, n. 159 (Codice delle leggi antimafia e delle misure di prevenzione) che prevede la sanzione dell’arresto da sei mesi a tre anni per coloro che, nonostante la revoca della patente di guida conseguente all’applicazione di una misura di prevenzione personale siano colti nell’atto di condurre un autoveicolo od un motoveicolo presenterebbe evidenti aspetti d’incostituzionalità. Ad avviso dei giudici remittenti la presenza di una sanzione penale in tali casi violerebbe in particolare gli articoli 27, comma 3 e 3 della Costituzione. Ad essere lesi sarebbero il principio del finalismo rieducativo della pena e della parità di trattamento delle situazioni identiche. In particolare la lesione del secondo di tali principi si evidenzia chiaramente con un raffronto con l’art. 115, comma 15 del Codice della strada che punisce la condotta di conduce un veicolo privo di patente di guida ma senza essere stato fatto oggetto di una precedente misura di prevenzione di carattere personale con una semplice sanzione di carattere amministrativo. Di ben diverso avviso sono invece i giudici della Consulta che ritengono la norma oggetto del giudizio conforme al dettato costituzionale. Osservano infatti nella motivazione della sentenza in commento, come la sanzione penale prevista possa ritenersi in ogni caso giustificata dall’ evidente gravità della condotta prevista dall’art. 73 del dlgs n.159 del 2011, realizzata da un soggetto connotato da un evidente pericolosità sociale che già in precedenza aveva portato all’ applicazione di una misura comunque sanzionatoria e che nonostante ciò abbia nuovamente violato la legge conducendo un veicolo in assenza di un titolo idoneo a consentirlo. Parimenti infondata viene ritenuta la presunta violazione del principio di uguaglianza, infatti anche se è pur vero che il Codice della strada, osservano i giudici della Consulta, sanziona coloro che conducono un veicolo privi di patente con una misura di diverso e minore carattere afflittivo, tale difformità di trattamento può ritenersi comunque giustificata sulla base del diverso e superiore disvalore espresso dalla condotta di chi sia pure realizzando un comportamento del tutto identico, sia già stato fatto oggetto di un giudizio di riprovazione che aveva portato all’ applicazione di una misura di prevenzione di carattere personale. Foggia. Muore in cella dopo l’arresto, l’appello dei genitori: “Vogliamo giustizia” di Valeria D’Autilia La Stampa, 21 ottobre 2022 Il fratello: “Era uno sportivo, non aveva problemi di salute”. La procura ha aperto un’inchiesta per fare piena luce sull’accaduto. Il timore dei parenti è che il giovane “possa essere stato picchiato”, ma solo l’autopsia potrà chiarire cosa è successo. “Chiedo giustizia. Voglio sapere cosa è successo”. Zakaria è il fratello di Osama Paolo Harfachi, il 29enne di origini marocchine nato in Italia, arrestato per una rapina e morto nel carcere di Foggia due giorni fa. I suoi familiari chiedono di accertare eventuali responsabilità. Al momento, presentata una denuncia contro ignoti. I genitori, Arika e Iakbir, vivono in Italia da 40 anni. Hanno cinque figli. “Siamo nati in Italia, abbiamo studiato qui” dice il fratello, di due anni più piccolo, che risiede nel piccolo comune foggiano di San Paolo di Civitate. Ad oggi, i parenti non hanno ancora potuto vedere la salma, neppure per il riconoscimento. “Chiediamo venga fatta chiarezza - spiega l’avvocato Michela Scopece che assiste Zakaria e i suoi genitori - su quanto accaduto dal giorno dell’arresto sino all’improvvisa morte di Osama Paolo Harfachi”. La procura ha aperto un’inchiesta per fare piena luce sull’accaduto. Il timore dei parenti è che il giovane “possa essere stato picchiato”, ma solo l’autopsia - non ancora fissata - potrà chiarire i contorni di questa delicata vicenda. E ci sarebbero dei messaggi in cui un ex detenuto avrebbe riferito loro di aver visto Osama “tutto spezzato”. Interviene anche il Sappe, il Sindacato autonomo di polizia penitenziaria: “Pur comprendendo il dolore, deve finire questa caccia al poliziotto penitenziario”. Il segretario, Federico Pilagatti, fa sapere che “l’allarme è stato dato dall’agente addetto alla sezione che, verso le ore 8, effettuando il giro di controllo, lo avrebbe visto steso sul materasso come se dormisse. Subito dopo è ripassato e, non ricevendo alcuna risposta dallo stesso, avrebbe dato l’allarme con l’intervento immediato dei sanitari che ne avrebbero constatato la morte”. Inoltre sottolinea che sia il personale in servizio che i compagni di stanza sono stati subito interrogati, “per eliminare qualsiasi sospetto”. Zakaria, lei ha affidato ai social un messaggio di denuncia nel quale parla di una morte in circostanze misteriose... “Mio fratello era sano. Un ragazzo atletico. È morto in cella, dicono per un arresto cardiaco. In alcuni messaggi, un detenuto che lo conosceva, e che avevano dimesso proprio il giorno in cui Osama ha varcato la porta del carcere, ci ha raccontato che era dolorante e gli avrebbe detto di essere stato picchiato dai poliziotti quando lo hanno fermato per la rapina. Adesso saranno le indagini a chiarire come siano andate realmente le cose”. Come vi state muovendo? “Abbiamo fornito tutta la documentazione alla Procura. Lui è stato arrestato martedì 13 ottobre, poi 5 giorni dopo l’hanno trovato morto. Io so solo che non aveva patologie, era uno sportivo: andava in palestra, giocava a calcio. Per questo vogliamo conoscere la verità. A noi risulta che non avesse alcun problema di salute. Ci stiamo mettendo in contatto con il Consolato, l’Ambasciata marocchina perché temiamo ci possa essere di mezzo anche la discriminazione. Mio fratello non ci ha mai chiamati dal carcere per dirci che era lì e nessuno di noi sapeva che era stato arrestato, neppure la sua compagna”. Osama che ragazzo era? “Faceva corsa, palestra. Era appassionato di calcio, giocava dove capitava: in spiaggia, per strada con ragazzi umili. Non ha mai sofferto di problemi di salute, era un leone. Poi si è sempre dato da fare come muratore, carpentiere o in campagna. Purtroppo c’è stata questa rapina. Era diventato papà da poco e conviveva con una ragazza italiana. Lascia la piccola Fatima di appena 7 mesi”. Modena. Rivolta in carcere, la Cedu comunica ricorso a Governo ansa.it, 21 ottobre 2022 Ha superato un primo vaglio il ricorso alla Corte europea dei diritti dell’uomo presentato dalla famiglia di Chouchane Hafedh, uno degli otto detenuti morti a marzo 2020 durante la rivolta scoppiata nel carcere di Modena. La Cedu ha comunicato infatti al governo italiano il ricorso e che si è aperta la fase di pre-contenzioso, che si concluderà il 21 dicembre. La famiglia di Chouchane è assistita in questa iniziativa dall’avvocato Luca Sebastiani e dalla professoressa Barbara Randazzo. Tutto nasce dall’archiviazione a Modena del fascicolo penale - che ipotizzava l’omicidio colposo e morte e lesioni come conseguenza di altro delitto - dopo che le autopsie avevano rilevato in overdose da metadone e psicofarmaci le cause delle morti. Nel frattempo a Modena sono state aperte altre inchieste, dopo esposti di detenuti, anche per il reato di tortura. Torino. Città e carcere: intesa per aiutare chi ha scontato la pena di Federico Dagostino comune.torino.it, 21 ottobre 2022 Sarà il settore Lavoro della Città di Torino a curare i rapporti con il sistema carcerario, in accordo con il Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Lo ha annunciato l’assessora Gianna Pentenero durante la riunione della commissione Legalità presieduta da Luca Pidello. L’Assessora ha sottolineato che, dopo le iniziali difficoltà dovute alla mancanza di personale, il Settore sta già lavorando con la Garante per la creazione dello sportello dimittendi che potrebbe avviare la propria attività in modo sperimentale entro un mese. Si tratta di un servizio dedicato a tutti coloro che stanno scontando gli ultimi mesi di pena e che dovranno affrontare la nuova vita fuori dal carcere. Lo sportello raccoglie le esigenze legate a questioni anagrafiche, rapporti con il mondo del lavoro, necessità di casa o assenza di reddito. Per questo, ha sottolineato l’Assessora, si sta definendo un protocollo d’intesa con la casa circondariale “Lorusso e Cutugno” che vedrà, oltre al coinvolgimento della Garante, anche quello del dipartimento di Giustizia dell’Università di Torino, nonché settori della Città stessa. Anche la Regione, che cura lo sportello lavoro all’interno del carcere, sarà coinvolta nel progetto. Pentenero ha quindi sottolineato come si stia lavorando per implementare alcune attività all’interno della struttura carceraria, in particolare per quanto riguarda la formazione sull’utilizzo delle nuove tecnologie e per il rilancio del progetto sportivo legato al rugby. Naturalmente, ha concluso l’Assessora, continuano ad essere attivi i protocolli di intesa con aziende come Amiat per inserimenti lavorativi mentre si sta cercando di ampliare l’offerta per i semi liberi. I consiglieri, che la settimana scorsa avevano effettuato una visita alla sezione femminile del Lorusso e Cutugno, hanno evidenziato da parte loro le criticità emerse durante il confronto con le donne presenti nella struttura. Il presidente Pidello ha ricordato come sia stato posto con forza il tema della casa che consentirebbe, a chi è ristretto, di accedere a pene alternative al carcere e a chi termina la pena di intraprendere un percorso di reinserimento nella società. Come altri consiglieri, ha sottolineato la centralità delle questioni sanitarie, soprattutto per quelle che attengono alla salute mentale. “Abbiamo riscontrato come, per diverse delle persone incontrate nella sezione femminile, il carcere non dovrebbe essere la soluzione, con conseguente fatica per loro e per il personale di sorveglianza. Occorre quindi che la Città si adoperi perché adeguate risorse vengano investite in questo ambito perché vi sia un’alternativa al carcere per chi non ha problemi di natura “criminale” ma di natura sanitaria”. Infine, ha evidenziato Pidello, occorre affrontare il problema di chi, una volta fermato, venga condotto in carcere e dimesso dopo pochi giorni. “Per queste persone, ha sottolineato, servirebbe una zona filtro che non sia il carcere ma un altro tipo di struttura che sgraverebbe il personale di sorveglianza, educativo e sanitario da una serie di incombenze che sottraggono energie utili in altri ambiti della struttura”. Bologna. Libri alla Dozza: parte la colletta per 140 detenuti che vogliono studiare dire.it, 21 ottobre 2022 Torna la gara di solidarietà tra i clienti delle librerie che porta testi e materiali scolastici alla scuola del carcere. Libri scolastici, dizionari (particolarmente graditi quelli bilingue: non c’è internet) ma anche comuni testi di narrativa. L’importante è che siano nuovi di zecca e non abbiano le copertine rigide. In carcere, infatti, queste sono bandite, insieme alle penne che non siano le classiche bic trasparenti. Ogni anno a Bologna parecchi scatoloni di materiale didattico, dizionari e romanzi varcano le soglie blindate della Dozza per permettere ai detenuti di frequentare la scuola del carcere. Sono libri acquistati in beneficienza dai clienti delle librerie che aderiscono alla colletta organizzata da Ascom Confcommercio: lo scorso anno sono stati raccolti circa 200 testi, più materiale di cartoleria per circa 3.000 euro. Quanto basta per garantire l’essenziale agli studenti (quest’anno sono 137, a cui si aggiunge una quarantina di iscritti a ragioneria e un’altra quarantina all’università), molti dei quali sono stranieri. “All’inizio non avevo niente, solo gesso e lavagna”, racconta Rossana Gobbi, che dal 2012 è docente di italiano per stranieri al carcere della Dozza. Per far sì che gli studenti avessero qualcosa su cui scrivere “chiedevo vecchie agende alle cartolerie oppure i quaderni già iniziati dei figli degli amici”. Gli studenti del carcere, di ogni età, non hanno la possibilità di procurarsi materiale di studio e sono spesso analfabeti “anche nella lingua madre”, come spiega ancora la prof. Ora con le donazioni è stata messa insieme una piccola biblioteca in aula 6, l’unica ad accesso libero della casa circondariale. Quest’anno la colletta del libro e della cartoleria, giunta alla nona edizione, è in calendario dal 24 ottobre al 31 dicembre. “I nostri clienti sono sempre propensi ad aderire, acquistando testi scolastici ma anche libri di narrativa”, spiega Alberta Zama, presidente dei librai Ascom. “Spesso fanno anche dediche sui libri che comprano, per dare un segnale di speranza a chi li riceverà. Anche i detenuti con 41 bis, che hanno il regime più duro di solitudine, hanno la possibilità di leggere”. “Ogni opportunità che possiamo dare a questi ragazzi è importante”, sottolinea Medardo Montaguti, presidente della federazione cartolai di Confcommercio. “I nostri colleghi- aggiunge- mettono a disposizione piccoli kit, da una decina di euro, con una discreta quantità di materiale. Ovviamente chi vuole può donare di più”. Il direttore generale di Ascom, Giancarlo Tonelli, è soddisfatto perchè “anche quest’anno 14 attività hanno aderito all’iniziativa, e tanti cittadini hanno capito questo gesto di attenzione nei confronti di chi è in carcere”. La Spezia. I detenuti di Villa Andreino per il decoro della città e la speranza di una nuova vita di Andrea Bonatti cittadellaspezia.com, 21 ottobre 2022 È stato firmato il protocollo che inserisce gli ospiti del carcere di Villa Andreino all’interno dei progetti “La città svelata” e “IntegrAzioni Starting Over”. La direttrice Bigi: “La Spezia, devo dire, ha sempre avuto particolare sensibilità sul tema: vedere uno spezzino che offre un caffè ai detenuti nella pausa lavoro, è un piccolo gesto che dà loro la sensazione di essere rientrato nella società”. Anche i detenuti della casa circondariale della Spezia potranno imboccare una strada di uscita dall’emarginazione sociale grazie ad un percorso lavorativo pensato per i soggetti più fragili. E’ stato firmato il protocollo che inserisce gli ospiti del carcere di Villa Andreino all’interno dei progetti “La città svelata” e “IntegrAzioni Starting Over”, entrambi attivi da tempo, promossi da Isforcoop e Associazione Mondo Nuovo Caritas con l’adesione del Comune della Spezia. Attivo da ottobre 2021, “La città svelata” ha permesso nell’ultimo anno di prendere in carico circa 120 persone, che hanno potuto partecipare a corsi di formazione, tirocini e percorsi di inclusione socio lavorativa (ex borsa lavoro). “Di questi 60 hanno trovato un lavoro oppure hanno terminato un percorso professionalizzante che gli permetterà di presentarsi sul mercato del lavoro con credenziali”, sottolinea l’assessora Patrizia Saccone. Tra le attività, anche lavori di pubblica utilità nella manutenzione del verde cittadino. Toccati nel corso del 2022 i quartieri del Canaletto, di Fossitermi, la zona della Maggiolina, Rebocco e Cadimare; nei prossimi mesi toccherà, tra gli altri, a Sarbia, Pitelli, la Chiappa e l’anfiteatro di Viale Alpi. Per la nuova fase, Palazzo Civico garantirà un contributo di 10mila euro. Ci saranno anche i detenuti. “Questo tipo di progetti sono la vera finalizzazione del nostro percorso, perché danno una reale speranza di poter rientrare all’interno della collettività - sottolinea la direttrice Maria Cristina Bigi -. Questo si attua solo attraverso il lavoro e la prospettiva di ottenere l’autonomia. Ma il bello di questo progetto è la rete che si è creata alla base, fatta di persone che si sono sempre occupate del disagio nella loro vita. E la Spezia, devo dire, ha sempre avuto particolare sensibilità sul tema: vedere uno spezzino che offre un caffè ai detenuti nella pausa lavoro, è un piccolo gesto che dà loro la sensazione di essere rientrato nella società”. La selezione degli individui ammessi al lavoro fuori dalla struttura è molto approfondita. Intanto sono ammessi solo coloro che abbiano già scontato una parte significativa della pena. Si parte poi con sei mesi di osservazione, che tengano conto del reato che ha portato alla carcerazione come dei comportamenti tenuti in occasione di eventuali precedenti condanne. Si stila una relazione di sintesi in cui si prospettano le attività in cui l’individuo potrebbe essere inserito. Si crea un progetto individuale su misura, si mette alla prova con permessi premi, si tiene conto della presenza del nucleo di riferimento al di fuori del carcere. Nel caso ci siano problemi di tossicodipendenza, tutto viene valutato con gli specialisti del Sert. Solo alla fine può partire un percorso all’esterno. “Non possiamo andare per tentativi, la speranza è un concetto razionale che va per obiettivi - sottolinea Bigi -. La buona riuscita dipende dalla capacità e dalla motivazione della persona inserita”. In partenza corsi professionali per aiuto cuochi, mentre in futuro un settore che può dare risposte è quello dell’edilizia. Si parla sempre di formazione certificata. “La città è l’unico spazio possibile dove sviluppare questi progetti - sottolinea Paolo Clemente di Isforcoop -. E il carcere è a tutti gli effetti un quartiere chiuso di essa. La città svelata si apre alla possibilità di integrazione in un percorso da cui la città stessa è ricambiata”. Don Luca Palei, al vertice della Caritas, ricorda i 1300 pasti al giorno serviti nella diocesi spezzina e le 21mila persone assistite ogni anno. Ringrazia la squadra dei suoi collaboratori (“operativa giorno e notte”) e ammonisce. “Questi progetti sono una risposta di speranza quantomai necessaria, soprattutto oggi che i centri di ascolta raccolgono un’ansia crescente anche di fronte all’aumento delle bollette e del costo della vita. Vediamo arrivare sempre più giovani che chiedono aiuto. Arriveranno tempi impegnativi e dobbiamo essere pronti”. Per questo, chiosa il sindaco Pierluigi Peracchini, “bisogna sostenere lo sforzo immenso che le associazioni sta portando avanti. Questo modello deve essere portato a Roma perché siamo indietro come Paese su certi aspetti. Questi percorsi devono diventare misure sistematiche e non appuntamenti occasionali”. Perugia. “Balera”, spettacolo con i detenuti attori della Casa Circondariale di Capanne umbriacronaca.it, 21 ottobre 2022 Va in scena mercoledì 26 ottobre alle 18 nella Casa Circondariale di Capanne e giovedì 27 ottobre alle 19 al Teatro Morlacchi di Perugia, lo spettacolo Balera di Vittoria Corallo, nato nell’ambito del progetto Per Aspera Ad Astra - riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza. Promosso da Acri, l’Associazione nazionale delle fondazioni di origine bancaria, realizzato con il sostegno di Fondazione Perugia e prodotto dal Teatro Stabile dell’Umbria, Balera è il terzo capitolo di una ricerca portata avanti insieme ai detenuti che via via hanno partecipato alle precedenti tre edizioni di Per Aspera ad Astra all’interno della Casa Circondariale di Capanne. In tutta Italia il progetto ha coinvolto 11 Fondazioni, 14 carceri e oltre 420 detenuti, di cui 30 a Perugia. La quarta edizione del progetto, pensato per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti, è stata illustrata in occasione di una conferenza stampa a cui hanno partecipato: Daniela Monni, presidente Commissione welfare di Fondazione Perugia, Bernardina Di Mario, direttrice della Casa Circondariale di Capanne, Nino Marino, direttore del Teatro Stabile dell’Umbria, la regista Vittoria Corallo e Fabrizio Stazi, direttore di Fondazione Perugia. Con Balera per la prima volta i detenuti si esibiranno in teatro. Nelle precedenti edizioni, infatti, la pandemia aveva imposto delle limitazioni ma non aveva fermato il progetto che si era concretizzato, tra le altre cose, nel cortometraggio Voliera, sempre con la regia di Vittoria Corallo, che era stato selezionato nella sezione Voci dal Carcere dal MedFilm Festival di Roma, Festival della Capitale dedicato alle cinematografie del Mediterraneo. Entrambi gli spettacoli sono gratuiti e aperti a tutta la cittadinanza. Per l’evento di mercoledì 26 ottobre alle 18 alla Casa circondariale di Capanne è possibile inviare una email all’indirizzo: promozione@teatrostabile.umbria.it. Per quello di giovedì 27 ottobre alle 19 al Teatro Morlacchi di Perugia è possibile registrarsi su Evenbrite a questo link: https://www.eventbrite.it/e/biglietti-balera-435672848217 “Il titolo del progetto Per aspera ad astra - ha spiegato Daniela Monni, presidente Commissione welfare di Fondazione Perugia - è evocativo, significa che per molti detenuti, attraverso questa parentesi della loro vita, c’è la possibilità di tornare a sperare, di uscire e tornare alla luce. Tutto questo non avviene per magia e non è sempre scontato, va fatto sempre un investimento. Fondazione Perugia ha creduto in questo progetto e lo ha sostenuto fortemente perché siamo convinti del suo valore sociale. Ad accompagnarci in questo percorso è stato il Teatro Stabile dell’Umbria che ha individuato e messo a disposizione le figure professionali per realizzare e portare in scena lo spettacolo. Durante il lavoro di preparazione di Balera i detenuti hanno potuto sperimentare non solo la recitazione, ma anche le professioni legate al mondo delle arti e dei mestieri teatrali”. “Il teatro è una forma d’arte - ha sottolineato Nino Marino, direttore del Teatro Stabile dell’Umbria - Vive attraverso l’incontro tra chi ascolta e vede e chi racconta. Il teatro non è una cura, ma può essere terapeutico. Diverse sono le esperienze e le pratiche teatrali rivolte al sociale che portano il teatro fuori dal teatro. Con il progetto Per aspera ad astra il teatro è entrato nella Casa circondariale di capanne e, dopo un lungo percorso di lavoro e formazione, ritornerà al Morlacchi per il progetto Balera di Vittoria Corallo con i detenuti attori per vivere insieme al pubblico un momento di condivisione e di creazione” “Abbiamo aderito con entusiasmo a questa iniziativa - ha detto Bernardina Di Mario, direttrice della Casa Circondariale di Capanne - perché il tempo della detenzione non può essere un tempo vuoto, ma un tempo che va riempito con cose importanti. I laboratori teatrali all’interno del carcere aiutano la persona a pensare, a farsi delle domande e a dare delle risposte che stimolano il cambiamento e alimentano la speranza. La funzione della pena è quella di ricostruire la dignità della persona e, grazie a queste attività, che peraltro consentono ai detenuti di venire a contatto con il mondo esterno, si dà un contributo importante nel ricostruirla”. “Se guardo l’esperienza a ritroso, giocando con il tempo, vedo che la materia studiata ha subìto una trasformazione mentre cercavamo ne Gli Uccelli di Aristofane il nostro racconto della libertà - ha raccontato Vittoria Corallo -. Abbiamo estratto da quell’opera alcuni temi che rivisti ora tutti in fila, dal futuro rispetto a dove avevamo iniziato, hanno una consequenzialità che assomiglia alla sublimazione dello stato della materia. In principio era il cemento, lo spazio urbano, i metri quadrati abitati dalle persone, il linguaggio della strada e la proporzione tra spazio fisico e spazio interiore; questo era Voliera, il nostro primo passo. In un secondo momento abbiamo avviato un processo creativo che ha coinvolto anche la partecipazione di cittadini volontari al dialogo artistico con i detenuti, utilizzando la corrispondenza. In questa fase ci siamo interrogati su tutto ciò che forma e forse condiziona la libertà individuale, come il mondo affettivo e sociale influenzano in maniera più o meno consapevole le nostre scelte; abbiamo provato ad interferire con i condizionamenti che sono emersi da quel confronto. Lenti e Abito Persona sono state le restituzioni del percorso, rispettivamente una serie di brevi video performativi e una mostra fotografica relazionale”. Balera - Breve descrizione - Balera nasce dallo spostamento di una lettera, un pretesto che apre a un gioco sui contenitori e sui contenuti, a indicare che il luogo di partenza sarà trasfigurato e abbandonato. Galera con la B è solo il primo spostamento, ne seguono altri che sono orientati verso spazi metafisici: in questo senso è stato un percorso di sublimazione. Ne Gli Uccelli di Aristofane ci si sposta dal mondo umano a quello degli uccelli, considerando anche quello degli Dei, i due protagonisti cercano di capovolgere l’ordine gerarchico di quei tre mondi per sfruttarlo anziché subirlo, cercano la libertà incondizionata nel potere incondizionato. L’autrice si è chiesta invece se fosse possibile sovvertire le regole del gioco, superando le gerarchie e le strutture conosciute per avvicinarsi ad un altro tipo di libertà: “Fino ad ora abbiamo esplorato il limite, abbiamo osservato come la libertà individuale si scontra con la realtà, siamo passati dalle circostanze concrete geografiche e sociali a quelle più astratte e inconsce, ma comunque condizionanti. Nella ricerca di una libertà più ampia o più pura ho avuto la sensazione che mi dovessi spostare dall’uomo, come se l’uomo per sentirsi più libero si dovesse spostare da sé. Mi sono rivolta ad altri testi per proseguire questo racconto: Genesi e Tempo di Guido Tonelli e L’ordine del tempo di Carlo Rovelli. Al Cern di Ginevra si studiano le particelle che hanno dato origine all’universo all’interno di un acceleratore, in Balera si cerca di sollecitare la relazione tra le persone in assenza di realtà, come a voler staccare chi siamo dal racconto stratificato di chi siamo. In Balera ci si proietta fuori dall’atmosfera, si cerca un luogo zero, la cifra dell’universo, dentro di noi”. I buoni fuori, i cattivi in cella: facce della stessa medaglia di Argia Di Donato Il Riformista, 21 ottobre 2022 Ho partecipato per la prima volta a un laboratorio di Nessuno tocchi Caino nel carcere di Secondigliano con i detenuti sottoposti al regime di alta sicurezza, quelli considerati dalla società “i più cattivi di tutti”. Rievoco gli occhi di quei “ragazzi” - perché ai miei occhi restano tali -, in cui si agitano oceani densi di luci e ombre di interminabili colori dalle mille sfumature, narratori sofferenti di realtà possibili e opportunità negate. Universi infinitesimali di mondi generati da illusioni, sogni e incubi, visioni e dolori, fede e speranza, cedimenti e ricostruzioni. Sono stati momenti molto intensi. Eravamo come immersi nello stesso fiume, le cui acque mutavano direzione di continuo. Abbiamo parlato di fede, speranza, autenticità, volontà, diritti, doveri, toccando le vette più alte del pensiero filosofico occidentale e orientale. E poi abbiamo parlato di farfalle. Ho chiesto loro se conoscessero il ciclo di una farfalla. Tutti hanno risposto che la farfalla vola. Libera, ha aggiunto qualcuno. Uno dei ragazzi, Giosuè, come per magia, si è alzato in piedi e ha detto “Io ho scritto una poesia su una farfalla” ed è scappato per andare a cercarla. È tornato con versi straordinari, come questi: “Ti sei appoggiata in queste quattro mura, qualcuno mi dice che mi porterai fortuna. Eri bella ondulante e profumata, ma io dalla mia cella fuori ti ho cacciata. Voglio che tu spieghi le ali e voli via. Qui troverai solo lamento e malinconia. Qui non c’è un campo fiorito e aromatizzato, c’è solo cancelli, cemento e ferro temprato.” Mentre osservavo i ragazzi interagire con noi, pensavo al fatto che se non si conoscesse il ciclo di vita di questo incredibile insetto capace di stravolgere completamente le proprie forma ed essenza, pochissimi riuscirebbero a ritenere come vera e possibile la sua metamorfosi. In effetti, basta osservare per bene un bruco. Egli è sgraziato, vorace, famelico e distruttore. In taluni casi è assai brutto e spaventoso da vedere. Davvero pochissimi crederebbero al fatto che la farfalla è la sua faccia “altra”. La nostra è una società ipocrita. Mira a sanzionare senza rieducare. Punire o privare qualcuno della libertà senza consentirgli di comprendere la natura del proprio errore per imparare dallo stesso, non ha alcun senso se non quello di generare altri tipi di mostri. Dentro e fuori le stesse mura che separano noi, qui, da loro, lì. La nostra società è una società malata. Non riesce a guardarsi allo specchio, non è capace di essere sincera con se stessa, non riesce a essere autentica. Siamo ancora tropo legati a una visione dualistica del mondo. Bene e male ci separano sia dall’”altro”, sia da noi stessi, nella nostra parte più autentica. E solo abbandonando questa schematica “opposizione” avviene il miracolo della trasformazione. Come le farfalle. Che muoiono strisciando per rinascere volando. Sono fermamente convinta che i detenuti degli istituti penitenziari siano la nostra parte nascosta a noi stessi, quella parte scomoda che non vogliamo vedere perché giudicanti e impauriti. È più facile chiudere i mostri in gabbia. Così evitiamo di vedere il nostro di mostro. Quel mostro che rifiutiamo, puniamo, giudichiamo. Quel mostro che rinneghiamo e che condanniamo. Perché non ascoltarlo? Vederlo per ciò che è? Accoglierlo? E perdonarlo? La storia della nostra civiltà è testimone che il genere umano, a livello collettivo, pensa per separazione. I grandi pensatori, i grandi artisti, i letterati, gli scienziati, i maestri spirituali ci dicono invece che siamo parte di un unico tutto. E che siamo tutti collegati. Gli uni con gli altri. Se guardiamo le stelle, il sole e la luna e gli astri del cielo, in essi c’è sia la parte illuminata sia la parte in ombra. Perché in ogni cosa respira la Luce e l’Ombra, e queste due realtà - necessarie per l’evoluzione dell’Anima dentro di noi si alternano danzando in una spirale possibilistica di estatica bellezza. Senza conflitto. Questo fa di tutti noi esseri unici e irripetibili. Bene e male sono soltanto termini inventati dalla nostra specie per “confinare” ciò che non può essere definito nettamente per nostra incapacità. Bene e male sono concetti che nascono per la nostra difficoltà a pensare in termini di unicità. Bene e male sono solo parole. Perché la sostanza delle cose resta quella che è. Ed il cambiamento, quello vero, è il grande miracolo. Anche se difficile, pericoloso e doloroso. Bruchi e farfalle. Noi, qui, e loro, lì. Non c’è differenza né separazione. Siamo l’uno specchio dell’altro, facce della stessa medaglia, petto e schiena dello stesso corpo. Noi siamo loro. E loro sono noi. È soltanto la fede nella Speranza a dare forza alle nostre ali e a sollevarci fin su nella parte più alta del cielo per guardare la luce delle stelle. Marco Cavallo e lo stalliere di Marinella Salvi Il Manifesto, 21 ottobre 2022 Da 50 anni simbolo della rivoluzione basagliana che da Trieste si è propagata nel mondo, è diventato “un ingombro” per il sindaco leghista di Muggia, paese ospitante. Marco era il nome del mulo che trainava il carretto della biancheria da lavare. Arrivava con le lenzuola pulite e si sentiva il profumo, i matti aggrappati alle grate per salutarlo. Quelli poco matti, giusto un poco, ché gli altri stavano legati al letto o dentro le gabbie o magari con gli elettrodi alle tempie per far passare un po’ di ampere ché le convulsioni fanno bene, dicevano. Entrava e usciva dal manicomio, lui, a mostrare quella libertà che i reclusi, i matti, sognavano o immaginavano o forse solo vedevano passare intuendo che c’era un altro, un altrove, chissà dove e chissà come fatto. Diventò vecchio Marco il mulo e si diffuse la voce che doveva essere abbattuto, ché tanto non serviva più. Dalle palazzine in fila lungo il grande viale, i padiglioni che dividevano i malati secondo immaginifiche patologie, le isteriche, gli schizoidi, i pericolosi, le sporche, si levarono voci, si sentirono rumori: Marco doveva restare, Marco era amico, era sogno, lui guardava tutti con occhi buoni. E Marco restò, nutrito e accudito, fino alla fine dei suoi giorni. Non si macellano i sogni. Poi venne Basaglia e in molti poterono uscire dal proprio reparto, andare al bar con le sedie sul prato o in uno dei laboratori a immaginare il teatro o a fare disegni e usare i colori, sedersi in mezzo tutti nell’assemblea quotidiana per discutere dell’oggi e del domani. Si raccontarono le storie, le proprie, le altrui e quella bella del cavallo Marco, ché il mulo era diventato cavallo, pronto a galoppare, senza carretti da tirare a capo chino. Si decise anche che occorreva lavorare assieme, condividere pensieri ma anche cose e che, allora, bisognava costruire davvero un qualcosa. Franco Basaglia aveva un cugino, Vittorio, che insegnava all’Accademia di Belle Arti di Urbino e Vittorio venne a Trieste e partecipò alle assemblee, ascoltò le storie e fece la sua proposta: ricostruire il cavallo Marco, ché era un simbolo di libertà, ricostruirlo con il legno e la cartapesta, colorarlo di blu come il cielo che non ha confini. Assieme, tutti, ovviamente. Il lavoro durò quasi un anno e Vittorio ci fu sempre, a fugare le paure, a indicare soluzioni, a ridere con gli altri di quei quattro metri di animale che prendevano forma. Era il 1973, dentro il comprensorio dell’Ospedale Psichiatrico di Trieste si lavorava, si aprivano porte, si lottava, credendo profondamente che prima di ogni altra cosa viene l’uomo, e gli uomini sono diversi ma con uguali diritti, e se qualcuno ne perde alcuni per strada perdiamo tutti qualcosa. Ci volle ancora tempo ma ecco la “legge Basaglia”: manicomi aperti, salute da garantire a tutti nelle strade, nei rioni, vicino alla gente per la gente. Centri dove trovare conforto e cura, appartamenti da condividere, reti sociali da costruire e far respirare. Marco Cavallo era lì, bello alto e azzurro, quasi sfrontato con quel collo dritto, il muso ad annusare l’aria, le lunghe zampe pronte a scalciare. Era il simbolo della libertà e la libertà doveva uscire, portare fuori i sogni, i desideri, le speranze che riempivano la sua pancia. Che giornata fu quella! Era così grande, Marco Cavallo, che si dovette abbattere la recinzione del Padiglione P per farlo uscire, perché la realtà sa essere più forte della metafora. E Marco Cavallo girò per la città e centinaia di ricoverati lo seguirono. “La testimonianza della povertà e della miseria dell’ospedale invase le strade della città portando con sé la speranza di poter stare insieme agli altri in un aperto scambio sociale, in rapporti liberi tra persone”, scrisse Franco Basaglia. “La città intuì per un giorno intero cosa significasse un manicomio e chi erano le persone che lo abitavano. Marco Cavallo fu, per dirlo con le parole di Marx, “il sogno di una cosa migliore”“. Sono passati gli anni e Marco Cavallo ha girato spesso, raggiungendo tanti angoli d’Italia per ricordare a tutti che è necessario essere continuamente critici e lui per primo nitrisce e scalpita ancora oggi davanti ai crimini di pace, ai pregiudizi, alle ingiustizie, alla banalità dei luoghi comuni. È il simbolo della rivoluzione psichiatrica e della sua storia ma, a buon titolo, è un simbolo anche della Storia di questo Paese. Per il sindaco di Muggia, paesino vicinissimo a Trieste, Marco Cavallo, invece, è “un ingombro”, un inutile manufatto ospitato illegalmente in un magazzino della “sua” cittadina. Vero, quando non è “in tournée”, il cavallo azzurro trova rifugio in un magazzino a Muggia, come volle l’allora sindaco Nesladek ma, con la nuova amministrazione di destra, si devono abbattere simboli e storia. “L’ignoranza fa anche questo. Non si accontenta di nutrirsi di arroganza, non si limita al pensiero concepito nella più totale malafede ma tenta di distruggere la memoria. E la devastazione generata dalla sua perdita equivale alla perdita dell’umanità”. Così scrive proprio Marco Cavallo sulla sua pagina Facebook. Mozioni, proteste, a Muggia e a Trieste ma la destra sembra coerentemente perseguire dovunque la sua opera distruttrice. In Comune a Trieste mozione urgente di Adesso Trieste, sottoscritta anche da Pd e 5Stelle, ma cade nel vuoto. L’urgenza non c’è. I posti dove ospitare Marco Cavallo invece sì, e tanti, ma ci si penserà, forse, chissà. “L’attuale sindaco, il leghista Polidori, determinato a ripulire con prepotente arroganza Muggia dagli scarti, dai devianti, dai poveri, dagli stranieri ha bisogno di spazio. Proprio di quello spazio nel deposito comunale. Per “l’ingombro Marco Cavallo” non c’è più posto. Brutto gesto, brutto segnale. Segno amaro dei tempi. Ma noi, che siamo dalla parte di Marco Cavallo, sappiamo che il cavallo azzurro, che in tanti viaggi ci ha accompagnato, troverà nuova ospitalità. Questo Paese non può permettere che si perdano le straordinarie conquiste che hanno restituito parola, visibilità e diritto ai matti”. Così Peppe Dell’Acqua, psichiatra, al fianco di Franco Basaglia già nel 1971 e per tanti anni direttore del Dipartimento di Salute mentale a Trieste. Da oggi cento città in piazza per la pace di Giulio Marcon Il Manifesto, 21 ottobre 2022 Verso il 5 novembre. Un messaggio al governo (che nasce), alle forze politiche, al parlamento per invitarli a prendere un’iniziativa autonoma nella direzione della via diplomatica: l’invio delle armi è una scelta sbagliata che invece di avvicinare la pace, fa incancrenire la guerra. Le guerre hanno fallito in questi anni: in Afghanistan, in Libia, in Medio Oriente, in Kosovo. Non ci sono alternative. La nonviolenza è una politica diretta a disarmare il conflitto e a costruire le condizioni di una pace giusta. Sarà una grande manifestazione per la pace, quella del 5 novembre a Roma. Una grande mobilitazione, lanciata da “Europe for Peace” contro l’aggressione di Putin all’Ucraina, per chiedere l’immediato cessate il fuoco e l’apertura di un negoziato su basi giuste. La continuazione della guerra sulla pelle della popolazione ucraina è inaccettabile. È l’ora della tregua e della via diplomatica, della trattativa, cui devono concorrere le Nazioni Unite e altri paesi che possono avere un ruolo di mediazione e di facilitazione del dialogo. Pensare che si possa “vincere la guerra” è completamente illusorio: senza l’avvio di una soluzione diplomatica, il conflitto armato continuerà tra offensive e contro-offensive, tra avanzate e ritirate, tra vittorie e disfatte delle forze in campo. A pagarne il prezzo le popolazioni civili in Ucraina, ma anche i pacifisti e gli obiettori di coscienza russi che vengono perseguitati e incarcerati. Con in più il rischio della guerra nucleare sullo sfondo. Di fronte a questo scenario c’è una sostanziale irresponsabilità della comunità internazionale, a partire dalla Nato che presta il fianco all’escalation della criminale aggressione di Putin all’Ucraina. E in Italia, il governo che sta nascendo non ha sicuramente le carte in regola: al di là delle vacue e roboanti dichiarazioni di fedeltà atlantica, almeno due forze politiche su tre che ne faranno parte, hanno vissuto (e forse stanno ancora vivendo) anni pericolosi sotto l’ombra o a fianco di Putin. Una specie di Frankenstein governativo, un mostro informe assemblato in parte a Mosca e in parte a Washington: con all’orizzonte una politica estera più atlantista (cioè filo-americana) che europeista. Si parla di tutto in questi giorni, tra via della Scrofa e Piazza Montecitorio, meno che della pace. Ecco perché, dopo i tre giorni di mobilitazione a partire da oggi 21 fino al 23 ottobre (iniziative in oltre 100 città, tra cui la presenza a Piazza san Pietro con papa Francesco, all’Angelus, domenica prossima) l’appuntamento del 5 novembre può essere uno snodo decisivo della mobilitazione per la pace nel nostro paese. Un messaggio al governo (che nasce), alle forze politiche, al parlamento per invitarli ad avere un sussulto, a prendere un’iniziativa autonoma nella direzione della via diplomatica: l’invio delle armi è una scelta sbagliata che invece di avvicinare la pace, fa incancrenire la guerra, in una prospettiva senza speranza. La piattaforma della manifestazione del 5 novembre in questo senso è chiara e si apre con due richieste: cessate il fuoco e negoziato. Si parlerà di prospettive di pace e non di strategia di guerra, di dialogo e trattativa e non di vittorie (e sconfitte) sul campo, di riconciliazione e non di “contrapposizione tra buoni e cattivi”, ricorda anche papa Francesco. Le guerre hanno fallito in questi anni: in Afghanistan, in Libia, in Medio Oriente, in Kosovo. La guerra non è uno “strumento” di politica estera, ma - come dice la Carta della Nazioni Unite - è un “flagello” da mettere al bando, da evitare alle future generazioni. L’Occidente invece di avere una politica della guerra - inseguendo Putin sul suo terreno criminale - deve avere una politica della pace capace di sminare il conflitto e di incanalarlo nella ricerca delle soluzioni possibili. La politica della guerra è quella dell’escalation, mentre la politica della pace è quella de-escalation. Non ci sono alternative. La nonviolenza - ce lo ricordava Aldo Capitini- non è semplicemente un’aspirazione, un modo di essere, un valore. No. È una politica diretta a disarmare il conflitto e a costruire le condizioni di una pace giusta. I pacifisti ovviamente non sono neutrali: stanno con la popolazione ucraina, con gli obiettori di coscienza e i pacifisti russi. Non sono equidistanti, ma sono “equivicini” a tutti quelli che soffrono le conseguenze di questa guerra. Ci sono e ci saranno. Ecco dunque dove stanno i pacifisti: nelle carovane di aiuti che vanno a Leopoli e a Kiev, nelle manifestazioni, nei presidi, negli incontri per la pace oggi in tutte le città italiane e a Roma il 5 novembre per chiedere che tacciano le armi e che si apra subito il negoziato. Per evitare conseguenze peggiori, l’allargamento della guerra e il rischio nucleare. È questo il momento di mobilitarci. L’elenco dettagliato delle oltre 100 manifestazioni che iniziano oggi fino a domenica 23 si trova su www.sbilanciamoci.info/europe-for-peace/ Il “laboratorio” per la pace c’è già: si chiama giustizia riparativa di Angelo Picariello Avvenire, 21 ottobre 2022 Un seminario ha messo insieme esperienze di riconciliazione in realtà conflittuali come la Palestina, i Paesi Baschi e l’Irlanda del Nord. “Ora anche in Italia la strada è tracciata”. La giustizia riparativa diventa laboratorio di pace. Questa estate, a Sassari, si è tenuto un Forum europeo che ha coinvolto esperienze - da Belgio, Germania, Irlanda del Nord, Inghilterra, Scozia, Israele e Palestina, e Paesi Baschi - di superamento della violenza politica e della lotta armata. Successivamente in Università Cattolica a Milano, tra fine settembre e inizio ottobre, i testimoni di azioni violente agìte e subite - cioè responsabili e vittime - accompagnati da mediatori e altri esperti di giustizia riparativa di vari Paesi d’Europa hanno dato vita a L’Incontro degli Incontri, un’esperienza aperta al pubblico e alle domande di tutti, nella convinzione che - un po’ come avvenuto per l’accordo per il Mozambico, di 30 anni fa - il percorso della giustizia riparativa, applicato su larga scala, introduca un metodo di pace “partecipata” in cui tutti, non solo diplomatici e governanti, possono dare un contributo. “Questo lavoro è solo all’inizio”, spiega Claudia Mazzucato, professore associato di Diritto penale e Giustizia riparativa all’ Università Cattolica del Sacro Cuore e componente del Gruppo di lavoro sulla giustizia riparativa in attuazione della riforma approvata lo scorso anno su proposta della ministra Marta Cartabia. Che cosa insegna la giustizia riparativa a chi cerca la pace e non sa come poter contribuire? Insegna innanzitutto che ciascuno può fare il primo passo, nelle piccole e nelle grandi vicende. Insegna che, più gli altri ci sono “difficili” e nemici, più ogni passo verso di loro marca una differenza sorprendente e disarmante. Muovere passi impensabili, pericolosi e “costosi” incontro agli altri li chiama a un “esodo” da posizioni chiuse sulle proprie ragioni, e li (s)muove verso la terra del confronto, in cui è possibile scoprire che il dolore - espresso nel nostro caso in sette lingue diverse - ha, per citare Umberto Saba, “una voce”. Percorso non facile, né scontato. Il cosiddetto “perdonismo” non c’entra... Nella sua disarmante semplicità, la giustizia riparativa ha un prezzo: non è neutrale davanti alle ingiustizie, ma chiede a chi ha subito un male - sempre ingiusto - di non sentirsi migliore di chi lo ha inferto; a chi ha compiuto violenza di non sentirsi indegno dell’incontro che gli offre; a chi ha inneggiato alla violenza, senza compierla, o a chi è rimasto a guardare, di uscire dal proprio “sepolcro imbiancato”, sostenendo con la propria vicinanza i passi costosi e pericolosi altrui. Nel governo Draghi alla Giustizia ha operato una ministra, Marta Cartabia, che crede molto in questa opportunità. Che prospettive si aprono ora? La strada è già tracciata. Proprio nei giorni in cui la Cattolica ospitava i dialoghi dell’Incontro degli Incontri veniva approvata in via definitiva la riforma della giustizia penale che contiene anche una “disciplina organica” della giustizia riparativa in materia penale. Quest’ultima entra così a pieno titolo nell’ordinamento giuridico e sarà finalmente accessibile, con il sostegno della legge, a chiunque voglia muovere passi incontro agli altri difficili. I vostri primi interlocutori sono i giovani, particolarmente esposti con i social al linguaggio di odio, ma anche meno vincolati allo stereotipo di una pena “vendicativa”, senza possibilità di riscatto, e più aperti alla pace... Uno dei dialoghi pubblici è stato dedicato proprio a loro, i giovani: relatori, testimoni della violenza politica che ha fatto irruzione nelle loro vite, più di un centinaio di ragazzi provenienti a loro volta dal mondo intero (Ucraina, Sudafrica, Messico, Colombia, Italia, per citarne alcuni) e non di rado testimoni o vittime essi stessi di violenze. Hanno narrato con impressionante lucidità gli effetti della violenza, i lutti e i silenzi che la accompagnano, le fatiche insormontabili a farsi strada nella vita anche a causa dei pregiudizi tremendi dei benpensanti i quali fanno ricadere la colpa e la vittimizzazione dei padri e delle madri sui figli, trascinandoli nel circolo vizioso del male di generazione in generazione. I loro interventi hanno rappresentato un vero e proprio “inno” alla pace, senza sconti sulla sua necessità e urgenza. Un inno che chi ha il potere di fermare le guerre e le violenze dovrebbe essere costretto ad ascoltare. Pubblichiamo qui di seguito la lettera commovente scritta da una delle ragazze che hanno partecipato al laboratorio Ci sono parole che scivolano, come gocce di pioggia, sul finestrino di un treno, in un venerdì sera come tanti. Ci sono parole che rimangono, parole che pesano, che segnano e disegnano i contorni di una storia, della storia di ciascuno. Poi ci sono le parole ricorrenti, quelle che ritornano, sempre, quasi ci tormentassero. E ci tormentano. Una tra queste è la parola coincidenza, spesso nient’altro che uno squallido alibi, giacché l’uomo sa essere un essere vile: “Non volevo, è stato un caso. Quell’uomo non doveva essere in quel luogo, in quel momento. È stata una tragica fatalità”. Ma, come si muore per coincidenza - perché, si sa, le bombe cadono sempre sopra qualcuno e le pallottole non si fermano mai nell’aria - si può anche sopravvivere per coincidenza e iniziare così, lentamente, giorno dopo giorno, a scontare una pena sorda e silenziosa, incomunicabile: “Sono vivo per caso, mentre gli altri… Gli altri non ce l’hanno fatta.” È la sorte dei papaveri che crescono lungo le ferrovie. Non vengono falciati dai convogli in corsa per pochi centimetri. E tu li vedi lì, i sopravvissuti, fragili, mossi solo da una leggera brezza, quasi consapevoli di essere scampati a quel treno per un soffio, un soffio di vita. Tuttavia, qualcuno potrebbe, giustamente, obiettare: non esiste coincidenza quando premo un grilletto, quando sgancio una bomba e gli uomini non sono papaveri. C’è sempre un’alternativa, ma le vittime questo non sempre lo sanno e, se lo sanno, possono facilmente dimenticarlo, perché le maglie della rete che le imprigiona si fanno sempre più strette: un senso di colpa soffocante, che finisce per eclissare il loro stesso diritto ad essere vittime. Ma allora, come reagire? Come sciogliere le membra intorpidite dall’immutabilità della coincidenza? Basta guardare questa sala gremita di donne e uomini da tutto il mondo. Nessuno parla la lingua dell’altro eppure, dice Robi Damelin: “Le nostre lacrime hanno lo stesso colore”. Lacrime che ora irrigano campi di pace, laddove un tempo scorreva solo sangue. Perché la violenza può essere il risultato di una coincidenza, ma una risposta non violenta è sempre frutto di una scelta, la scelta di “non restituire il colpo”, di tradire, se necessario, le proprie origini, se quelle origini ci allontanano dai nostri principi. Quale, dunque, il compito dei superstiti? Il racconto, certo, la testimonianza, elementi imprescindibili. Ma una volta raccolti e riordinati i cocci della nostra esistenza, bisogna passare alla ricostruzione, o meglio al restauro delle nostre vite. Ma, se ciò avviene, nuovamente, secondo i consueti canoni della retribuzione, siamo, fin da subito, destinati ad un altro imminente crollo. Ecco allora che ci sediamo in cerchio, che rompiamo gli schieramenti e gli schemi a cui siamo abituati, che ci lasciamo rapire dagli “occhi dell’altro” ed entriamo in una spirale di ascolto reciproco. Perché se vogliamo risposte diverse non possiamo continuare a porci le solite domande. È scritto in ogni abbraccio, in ogni sguardo, in ogni relazione nata dalle circostanze più improbabili: la giustizia riparativa è un’occasione unica, se non l’unica occasione, per rispondere ad una disumana coincidenza con la scelta di un incontro tra uomini.... Convinti che il male può avere artigli da cui è difficile divincolarsi, ma solo il bene ha radici. Italiani senza cittadinanza: le storie dietro il diritto di chiamare “casa” il posto in cui si vive di Eugenia Nicolosi La Repubblica, 21 ottobre 2022 Oltre un milione di bambini e ragazzi che vivono in Italia non hanno la cittadinanza italiana ma questo è l’unico Paese che conoscono (e amano): le loro storie si intrecciano con quelle di influencer e atleti che riescono a ottenerla e che sfruttano la loro posizione per tenere alta l’attenzione su questo diritto. Sono molte le proposte di legge bloccate in un limbo a causa delle elezioni anticipate, proposte che hanno iniziato l’iter parlamentare e - in alcuni casi - anche ricevuto l’approvazione di una delle due camere, ma non hanno raggiunto il via libera necessario per diventare leggi. Oltre alle proposte di depenalizzazione della cannabis, del diritto di voto ai fuorisede, suicidio assistito e al disegno di legge contro l’omolesbobitransfobia (il ddl Zan), a cascare nel vuoto c’è la proposta di istituire lo ius scholae. Se fosse approvata, per moltissime persone minorenni e straniere significherebbe ottenere la cittadinanza italiana: il nome significa letteralmente “ius”, diritto e “scholae”, scuola e basa il diritto di cittadinanza sulla frequenza scolastica (almeno 5 anni consecutivi). Con l’insediamento delle nuove camere questa e altre proposte di legge decadranno, a meno che non riescano a concludere l’Iter entro il 13 ottobre, giorno in cui si riunirà per la prima volta il nuovo Parlamento. I testi decaduti dovranno ricominciare tutto daccapo ed essere presentati da zero ripartendo dall’esame nelle commissioni. Sappiamo che i principali partiti della coalizione di centrosinistra vogliono introdurre lo ius scholae nella prossima legislatura e che il centrodestra affronta l’argomento da posizioni non allineatissime. Lo ius scholae è differente dallo ius sanguinis, attualmente in vigore in Italia, e dallo ius soli. Lo ius sanguinis prevede che chi nasce da almeno un genitore in possesso della cittadinanza ne “eredita il diritto di sangue”, dunque è italiano per nascita, per sangue. Le persone che arrivano da adulte possono chiedere la cittadinanza italiana per “naturalizzazione” dopo 10 anni di permanenza continuativa sul suolo italiano. I loro figli, invece, devono aspettare il compimento dei 18 anni, dimostrando di aver vissuto ininterrottamente qui dalla nascita. In base al principio dello ius soli, (“soli”: suolo, terreno) invece, il diritto di cittadinanza in uno Stato si sostanzia con la nascita in quello Stato, indipendentemente dalla nazionalità di appartenenza dei genitori. Si tratta di una formula applicata, anche se in modalità differenti, da Paesi come Regno Unito, Germania o Francia in Europa e anche Brasile, Canada, Stati Uniti e quasi tutti i Paesi del continente americano. Nel frattempo, le persone straniere che risiedono in Italia sono circa 5,2 milioni (dati 2021) e rappresentano l’8,7% del totale dei residenti lungo lo stivale. Quando si parla di “popolazione straniera residente” si fa riferimento alle persone prive di cittadinanza italiana che però vivono abitualmente in Italia, persone percepite come molte, ma molte di più dai cittadini italiani, come rivelano i dati di OpenPolis e lo studio “CiakMigracion” di Ipsos. “La percezione della presenza straniera nel Paese è sproporzionata: gli italiani credono che gli stranieri costituiscano il 31% della popolazione residente in Italia, una cifra nettamente superiore al dato reale” (8,7%). Ed è falsata anche la percezione della provenienza: buona parte delle persone straniere residenti in Italia sono europee e il gruppo più importante è quello originario della Romania (1.145.718 persone). Tra i 10 principali Paesi di origine, figurano due paesi dell’Africa settentrionale (Marocco ed Egitto, rispettivamente al terzo e al nono posto), tre gli europei (Romania, Albania e Ucraina) e cinque asiatici (Cina, Filippine, India, Bangladesh e Pakistan). Il primo Paese dell’Africa sub-sahariana per provenienza di persone straniere residenti in Italia è la Nigeria, al dodicesimo posto. Per tutte queste persone, ci sono vari modi per acquisire la cittadinanza ma solo nel caso in cui rispettino una serie di requisiti: se hanno risieduto in Italia continuativamente per almeno 10 anni (5 se si tratta di rifugiati o apolidi, 4 se si tratta di cittadini comunitari), se possono dimostrare di avere una fonte di reddito che sia sufficiente al sostentamento, se non hanno precedenti penali e nessun motivo ostativo per la sicurezza della Repubblica. Si tratta dell’acquisizione di cittadinanza “per residenza”. Jean Pierre Moreno: “In Italia ho trovato un rifugio” - Forse qualcuno si ricorderà di lui in quanto vittima di aggressione omofoba alla metro di Valle Aurelia, a Roma: Jean Pier Moreno è in Italia grazie allo status di rifugiato. Nato e cresciuto in Nicaragua, Jean Pierre faceva parte del movimento universitario che nel 2018 è stato protagonista di furiose repressioni. “C’è stata una rivolta sociale che ha scombussolato il Paese, tensioni mai viste da quando alla guida c’è Ortega, un dittatore”, racconta il ragazzo. “E sono qui da allora: ero venuto in vacanza ma mentre mi trovavo qui hanno iniziato a sequestrare, uccidere e imprigionare attivisti e amici con cui sono cresciuto”, spiega, “ho pensato fosse meglio restare qui chiedendo lo status di rifugiato e mi hanno dato l’asilo politico”, uno status il suo che a differenza del permesso di soggiorno non occorre rinnovare. “Non ho bisogno di dimostrare che nel mio Paese la situazione è ancora drammatica”. Ma c’è un “ma”. Non è il “sistema italiano a garantire la mia sicurezza, è il diritto internazionale”. E anche la sua mamma, che si trova qua da 17 anni, “non è ancora cittadina italiana: a parte il costo della pratica” (la richiesta di cittadinanza italiana comporta un costo di 250 euro più una marca da bollo da 16 euro), occorre avere un contratto di lavoro a tempo indeterminato “e qui chiaramente le cose si complicano, viste le condizioni di lavoro precario preminenti in Italia”, commenta. Jean Pierre si dice preoccupato in particolare per il fratellino. “Ha tre anni, è nato qui, conosce soltanto la cultura italiana e ritiene che questo sia il suo Paese. Eppure ha la cittadinanza del Nicaragua senza esserci mai stato”. Il bimbo dovrà aspettare di compiere 18 anni per avviare l’iter che gli consentirà di diventare cittadino, nel frattempo “non ha alcuna tutela”. Il ruolo degli influencer, partendo dal “re di TikTok” Khaby Lame Tra la campionessa di salto con l’asta Great Nnachi e la campionessa di boxe Pamela Malvina Noutcho Sawa, la lista di sportive diventate ufficialmente “azzurre” si allunga. Le origini dei genitori Nnachi sono nigeriane ma lei è nata in Italia e mentre l’atletica diventava la sua passione e batteva il record della categoria cadetti, la mancanza di cittadinanza italiana non le permetteva nemmeno di registrare il record italiano della categoria. A intervenire è stato direttamente il consiglio della Federazione italiana di Atletica leggera (Fidal) che aggiornando il proprio regolamento ha iniziato a permettere ad atleti stranieri ma residenti in Italia e tesserati con società italiane di veder riconosciute le prestazioni. Non cambiava invece nulla sul piano delle competizioni internazionali: l’atleta avrebbe potuto gareggiare per i mondiali e gli europei ma non avendo (ancora) la cittadinanza, le era impedito. Infine, con l’arrivo della maggiore età, è arrivata anche la cittadinanza. Khaby Lame è nato a Dakar, in Senegal e si è trasferito con la sua famiglia in provincia di Torino quando aveva un anno. Era lo scorso 23 giugno quando TikTok lo ha incoronato “re” grazie al numero incredibile dei suoi followers, aumentati di giorno in giorno da quando ha fatto i primi video dopo essere stato licenziato all’inizio della pandemia. “Non è giusto che una persona che vive e cresce con la cultura italiana per così tanti anni ed è pulita, non abbia ancora oggi il diritto di cittadinanza. E non parlo solo per me”, aveva raccontato a Repubblica prima che gli venisse conferita. “Ritengo che giovani influencer di origine migrante possano svolgere un ruolo politico importantissimo senza banalizzare l’impegno politico sui social”, commenta Fausto Melluso, responsabile Migrazioni di Arci Sicilia. “Naturalmente penso che ci debba essere un dialogo perché i sistemi sono tanti ma è bello che sui social si riesca a tenere alta l’attenzione sul tema grazie a influencer”. “Se alcune persone che hanno capacità di mobilitare le reti sociali che si trovano nell’orrenda condizione di subire le conseguenze di normative sulla cittadinanza paradossali e discriminatorie utilizzano la loro posizione per descrivere quanto sia grave, ingiusta e discriminatoria la loro condizione, è un bene che avvenga”, aggiunge Fausto Melluso. “Trovo invece che sia ridicolo, come è avvenuto in alcuni casi, che gli esponenti di una certa politica abbiano avuto fretta di annunciare sui social il conferimento della cittadinanza a Khaby Lame siano gli stessi esponenti politici che hanno ignorato il problema complessivo quando non addirittura ostacolato una soluzione complessiva delle cose”. Una legislazione durissima e antiquata - “È mortificante, mettendosi nei panni delle centinaia di persone che aspettano una legge sulla cittadinanza, come il tema è stato trattato dalla politica”, spiega il responsabile Migrazione di Arci Sicilia. “Tutte le forze politiche, ognuna con le proprie differenze, dicono che è un tema a cui mettere mano ma continua a non essere fatto e l’Italia mantiene una delle legislazioni sull’ottenimento della cittadinanza più dure di tutti gli Stati comparabili che produce soltanto mortificazioni, discriminazione e un aggravamento della vita per centinaia di migliaia di persone che sostanzialmente sono italiane, che non avrebbero dove altro andare, ma devono soggiacere a una discriminazione di Stato”. “Il movimento per la revisione della legge sulla cittadinanza, ed è la maniera in cui l’Arci si sta muovendo, non può essere un movimento paternalistico portato avanti da me: deve valorizzare la diretta esperienza e la diretta capacità di organizzarsi”, continua Melluso. A proposito degli influencer e delle persone migranti che oggi avrebbero tutto il diritto di ottenere la cittadinanza “bisogna che anche le infrastrutture politiche e le associazioni facciano un passo di maturazione nel mettere le proprie piattaforme a disposizione per tentare di rendere la loro voce più forte”. E aggiunge “la mia sensazione è che anche se ora si apre un momento politico gravissimo e durissimo, la questione della legge sulla cittadinanza è indifferibile: la normativa attuale crea solo disperazione e discriminazione. La battaglia è ancora tutta da condurre”. La legge sulla cittadinanza italiana è una legge vecchia di trent’anni: oltre un milione di bambini e bambine, adolescenti e persone adulte restano straniere sebbene per quasi tutte loro l’Italia sia l’unico Paese che conoscono e in cui si riconoscono, mentre vivono in bilico sul filo sottile del permesso di soggiorno. I principi su cui è stata fondata la legge sulla cittadinanza del 1992 sono antiquati “perché i legislatori di allora si erano dedicati più che altro a celebrare i discendenti italiani radicati a migliaia di chilometri, dimostrandosi incapaci di riconoscersi invece pienamente anche in chi già muoveva i primi passi o sarebbe arrivato ancora bambino nelle città italiane”, scrivono Fioralba Duma e Paula Baudet Vivanco dell’associazione Italiani senza cittadinanza su Valigia Blu. “Il nostro Paese continua a “produrre” nuove generazioni senza pieni diritti, come nel caso del romano Sonny, italiano per nascita e per crescita ma un estraneo per legge oppure della sarda Domenika, che ha aspettato tanto prima di avere il reddito necessario per chiedere la cittadinanza e dopo 4 anni ancora non ha ricevuto risposta, o di Rabia, che per un soffio non è nata in Italia, o infine di Clara, che in Italia sì ci è nata ma ha problemi con la residenza”. Le posizioni dei Partiti circa lo Ius Scholae - Il Partito Democratico di Enrico Letta propone lo Ius Scholae per “superare le ingiustificate discriminazioni che ancora oggi vediamo nelle classi italiane: chi è figlio di genitori stranieri e studia in Italia diventa cittadino italiano”. Si trovano d’accordo Sinistra Italiana e Verdi ma con una legge che sia comprensiva anche dello Ius Soli. Anche +Europa. il partito guidato da Emma Bonino aveva inserito lo Ius Scholae in programma ed è a favore anche il Movimento 5 Stelle, che nel programma sottolineava la sua importanza “per riconoscere la cittadinanza al minore straniero, che sia nato in Italia o vi abbia fatto ingresso, qualora abbia completato regolarmente uno o più cicli di studi”. Azione e Italia Viva lo proponevano per chi avesse frequentato le scuole per almeno 5 anni o completato gli studi universitari. Giorgia Meloni, leader di Fratelli d’Italia, ritiene che gli studenti stranieri debbano completare 10 anni di scuola dell’obbligo e Forza Italia pensa che il percorso di 8 anni con l’esame di terza media sia un buon compromesso. Gli altri partiti non menzionano la questione. Migranti. La bimba sola, i genitori in carcere: “Venivano per curare l’altra figlia” di Alessia Candito La Repubblica, 21 ottobre 2022 Un deputato tunisino sta seguendo la vicenda iniziata a Lampedusa: “Macché tratta di esseri umani, nello zaino di Linda le cartelle cliniche della sorella”. Linda adesso sta meglio. A quattro giorni dal suo arrivo a Lampedusa, dopo una spaventosa traversata di oltre trenta ore che a soli quattro anni ha affrontato da sola, ha ricominciato a dormire e a mangiare. Nella comunità educativa in cui è stata trasferita, inizia anche timidamente a relazionarsi con gli altri bambini, a giocare un po’. Poi però ci sono i momenti in cui si rabbuia. “Dov’è la mia sorellina, dove sono mamma e papà?”, chiede. “Perché - insiste - non sono ancora venuti a prendermi?”. Domanda assai difficile a cui rispondere per gli operatori. Perché i genitori di Linda non sono né morti, né dispersi. Anzi, se ne conosce perfettamente l’ubicazione. Da lì però non si possono muovere, perché dalla notte in cui il barcone è partito sono prigionieri nel carcere tunisino di Monastir. Quando, terrorizzati, si sono rivolti alle autorità per segnalare che la figlia di soli quattro anni era su una carretta del mare in quelle ore in viaggio verso l’Italia, sono finiti in manette. L’accusa? Abbandono di minore, inizialmente. Adesso però le contestazioni rischiano di diventare assai più gravi. “È una vicenda surreale, quello che sta succedendo, impensabile”, sbotta Majdi Karbai, deputato di Attayar, il partito socialdemocratico tunisino. È a lui che gli zii della bambina si sono rivolti quando i genitori della piccola sono finiti in carcere e di lei si è persa ogni traccia. “Tutto, a partire da quello che è successo quella notte, ha dell’incredibile”, dice. I genitori della piccola non hanno scelto di partire. Di fatto, sono stati costretti. La sorellina di Linda ha una grave forma di cardiopatia, ma in Tunisia c’è almeno un anno di attesa per un ricovero programmato. In più, la crisi economica che ha fatto schizzare alle stelle il prezzo di farina, olio e alimenti di base, ha quasi portato sul lastrico il padre, piccolo imprenditore del settore street food. Per lui, racconta Majdi Karbai, è diventato impossibile anche comprare le medicine per la bambina. Per questo insieme alla moglie ha deciso di tentare la traversata, portando con sé le bambine. Quella notte erano tutti insieme sulla spiaggia di Mahdia. Al segnale stabilito, sono entrati in acqua per raggiungere il barcone ormeggiato poco distante. Il papà era avanti, con la bimba di quattro anni sulle spalle. La moglie dietro, insieme all’altra figlia. Ma la donna subito ha iniziato ad avere difficoltà. Inzuppati d’acqua, i vestiti hanno iniziato a trascinarla a fondo, il marito ha raggiunto in fretta il barcone, lasciato lì la bambina, quindi è tornato indietro ad aiutare la moglie. Le sue urla però hanno messo in allarme gli scafisti che improvvisamente hanno tagliato gli ormeggi e spinto via il barcone. Chi era a bordo, ha pensato che l’imbarco fosse concluso, ha acceso il motore e si è allontanato. Linda è rimasta da sola. Disperati i suoi, appena tornati a riva si sono subito rivolti alle autorità. “Ingenuamente - spiega il deputato Karbai - hanno pensato che li avrebbero aiutati a individuare la bambina all’arrivo in Italia e a farla rimpatriare”. Invece si sono ritrovati con le manette ai polsi. A complicare la situazione, gli oltre 24mila dinari - circa 7mila euro, tutti i loro risparmi - che la coppia portava con sé. “Li hanno accusati di voler coprire un traffico di esseri umani, di aver venduto la figlia. Quel denaro per loro era frutto di quel traffico. Ma perché qualcuno dovrebbe fare denuncia dopo aver commesso un reato?”, osserva Karbai. Nel merito, il procuratore generale di Monastir non si è ancora pronunciato. L’udienza di convalida fissata per ieri è slittata e il fermo per i due è stato prolungato per altre 48 ore. “I familiari della coppia - racconta il deputato - mi hanno detto che nello zainetto della bambina ci sono tutte le cartelle cliniche della sorella. Quella è la prova che il racconto dei due genitori è vero, che stavano solo cercando di dare un futuro alla loro bambina che in Tunisia non avevano la possibilità di curare. Spero diventino una sorta di messaggio nella bottiglia e lo trovi qualcuno che abbia davvero voglia di dare una mano”. “La mia voce per Assange”: parte la campagna per la liberazione di Vincenzo Vita Il Manifesto, 21 ottobre 2022 Libertà d’espressione. Ieri la presentazione a Roma nella sede della Federazione della stampa. Ieri si è tenuta a Roma, presso la sede della federazione nazionale della stampa, la presentazione della campagna “La mia voce per Assange”, curata dall’omonimo comitato formato al momento da Paolo Benvenuti, Daniele Costantini, Marianella Diaz, Flavia Donati, Giuseppe Gaudino, Laura Morante, Armando Spataro, Grazia Tuzi (coordinatrice) e chi scrive. L’iniziativa ha avuto come riferimenti la stessa Fnsi, l’Associazione degli autori cinematografici, l’Archivio audiovisivo del movimento operaio e democratico, Free Assange Italia. Era presente Transfom Italia. E tre testate -il manifesto, Avvenire e il Fatto Quotidiano- daranno appoggio attivo all’attività. Sono stati mostrati alcuni dei 79 video di testimonianza fatti da personalità del mondo della cultura e dello spettacolo. Il materiale è visibile sul canale Youtube del comitato e l’intera conferenza si può rintracciare sulla pagina Facebook della Fnsi. Tutto partì dall’appello contro l’estradizione del fondatore di WikiLeaks lanciato dal premio Nobel per la Pace Pérez Esquivel e ampiamente sottoscritto. I messaggi audiovisivi rappresentano un mosaico assai interessante di presenze di voci: da Marriead Corrigan pure premio Nobel, al Pulitzer Ewen MacAskill, all’avvocato dei diritti umani e commentatore di The Guardian, a Davide Dormino, a Giuseppe Giulietti, Riccardo Iacona, a Gad Lerner, Gianni Marilotti animatore di iniziative importanti al senato; Ken Loach, John Malkovich, Peter Stein, Maddalena Crippa, Giuliana De Sio, Ginevra Bompiani, Marco Paolini, Stefania Casini, Valerio Magrelli, Fiorella Mannoia, Piero Pelù, Marco Bellocchio, Sergio Castellitto, Carlo Petrini, Daniela Poggi, Domenico Gallo, Luciana Castellina, Moni Ovadia, Giovanni Veronesi, Gianrico Carofiglio, Gianni Tognoni segretario generale del Tribunale permanente dei popoli, Sarantis Thanopulos presidente della Società psicoanalitica italiana, Corinne Vella Head of media della fondazione intitolata a Daphne Caruana Galizia. La lista è lunga e comprende coloro che hanno parlato alla conferenza stampa. Innanzitutto Stefania Maurizi, che da tredici anni segue la vicenda. La giornalista e scrittrice (è in uscita l’edizione in lingua inglese del suo testo Il potere segreto) ha raccontato i kafkiani passaggi di una tragedia shakespeariana il cui esito presunto potrebbe essere rovesciato da un nuovo clima di opinione. Assange e WikiLeaks hanno fatto un lavoro enorme di scandaglio nelle aree oscure delle guerre e dei crimini di stato, pur nel rispetto della segretezza delle fonti e delle aree sensibili, dell’incolumità delle figure evocate nei lanci delle notizie, del dovere di informare se si hanno notizie di interesse pubblico (Carlo Bartoli). Grande è la delusione per il comportamento delle democrazie anglosassoni, pur evocate come patrie dei diritti liberali e appoggio ad una campagna di chiarificazione così importante (Armando Spataro). Disagio per la scelta oscurantista di fare di Assange il capro espiatorio e la vittima sacrificale di politiche guerrafondaie (dall’Iraq, all’Afghanistan, alla Libia) e ciniche (Alberto Negri). Necessità di unire alla mobilitazione l’impegno nel processo con argomenti solidi e puntuali (Riccardo Noury). MA è emerso il retrogusto amaro delle disattenzioni, delle colpevoli omissioni, delle volute falsità propagate (ad esempio sul presunto rapporto con la Russia, del resto escluso dal procuratore speciale Robert Mueller) per costruire l’immagine di un nemico pubblico per di più in odore di spionaggio. Oltre a Negri sull’argomento ha parlato con efficacia il direttore di Avvenire Marco Tarquinio, che ha collegato la lotta specifica a quella generale per la pace. Sul tema ha parlato, poi, Gianni Barbacetto, sarcastico e critico verso tanta parte dello stesso giornalismo ufficiale che si è voltato dall’altra parte. Aderiscono alla campagna la rivista Left, che con la testata online Pressenza ha organizzato la 24 ore di mobilitazione internazionale tenutasi lo scorso sabato. E in quella sede Patrick Boylan suggerì di coordinare i vari comitati nati in questi anni, cui ieri ha dato voce - per Free Assange Italia - Marianella Diaz. Si entra, dunque, in una fase nuova, in cui - secondo Noury- si intravvede qualche luce. L’Interpol è diventata un problema. Russia e Cina la usano per perseguitare dissidenti di Claudio Cerasa Il Foglio, 21 ottobre 2022 Diverse organizzazioni internazionali continuano a denunciare l’abuso da parte di alcuni stati che ricorrono all’Organizzazione internazionale della polizia criminale per perseguitare difensori dei diritti umani, attivisti e giornalisti critici. È ora di un cambiamento. Due giorni fa si è aperta a Delhi la novantesima Assemblea generale dell’Organizzazione internazionale della polizia criminale, l’Interpol, inaugurata da un discorso del primo ministro indiano Narendra Modi, che ha detto: “Da quasi cento anni l’Interpol ha collegato la polizia in tutto il mondo in 195 paesi. Rendere un mondo più sicuro è una responsabilità condivisa. Quando le forze del bene cooperano, le forze del male non possono prevalere”. Parole ispirate. Ma nessuno ha avuto il coraggio di sollevare la domanda che tutti i paesi democratici e che si ispirano allo stato di diritto si fanno: l’Interpol è diventata uno strumento al servizio degli autoritarismi e delle dittature? I red notice, i cartellini rossi dei ricercati internazionali, sono serviti a far diventare collettivi gli sforzi per criminali come Osama bin Laden e Saadi Gheddafi. Ma per alcuni paesi servono a cercare dissidenti politici e oppositori. Secondo un rapporto del servizio esterno dell’Ue, pubblicato nel 2019, “diverse organizzazioni internazionali continuano a denunciare l’abuso da parte di alcuni stati del sistema di notifica dell’Interpol per perseguitare difensori dei diritti umani, attivisti della società civile e giornalisti critici, in violazione degli standard internazionali sui diritti umani”, di paesi i cui sistemi giudiziari non soddisfano gli “standard internazionali”. Russia, Cina, Iran e Turchia sono quelli più citati. Ieri all’Assemblea dell’Interpol è stato lanciato un nuovo piano di cooperazione che aiuterà i poliziotti internazionali a fermare crimini e criminali anche nel Metaverso, cioè nello spazio virtuale. Ma con un mondo sempre più diviso tra chi persegue lo stato di diritto e la trasparenza e le autocrazie, bellicose e vendicative, c’è da avere paura. Serve una riforma, profonda, definitiva, che adegui la sicurezza pubblica internazionale ai tempi che corrono. Per prima cosa, per esempio, si potrebbe permettere a Taiwan, una democrazia d’Asia, di prendere parte attiva alla sicurezza internazionale. Dove possono arrivare le donne iraniane di Karima Moual La Stampa, 21 ottobre 2022 Il volto della signora Gohar Eshghi, ottantenne, che si fa riprendere in un video che diventa virale mentre si toglie il velo, e scandisce le seguenti parole - per i nostri giovani, dopo 80 anni, mi tolgo il velo a causa di una religione che uccide le persone - è la sintesi perfetta di quanto sta avvenendo ormai da anni e di come si preannuncia il finale. Dalla rivoluzione del 1979 sono passati anni e una generazione, quella attuale, nata in un’epoca diversa e letteralmente sradicata da quegli eventi a livello emotivo ed ideologico. Ma il cambio di passo, è che la generazione di Mahsa Amini ventenne, e Gohar Eshghi ottantenne, stanno dalla stessa parte. Tutte e due vogliono la religione fuori dallo Stato. Una religione che si è trasformata negli anni con gli Ayatollah in un’arma che uccide senza pietà, e dove come al solito, essendo una religione patriarcale, sulle donne ci va giù ancora più pesantemente. Forse con le numerose mamme e nonne vicine alla causa delle iraniane tutte, una parentesi politica si avvia a chiudersi ancor più nel momento in cui, con coraggio e senza paura la si sta affrontando dalla sua radice. L’Islam. Il ruolo che ha una religione nella politica, lo Stato, la vita delle persone. I veli, vessilli della repubblica islamica, diventati gabbie e il più evidente simbolo di repressione dell’individuo vengono strappati dalla piazza per quello che si sono trasformati. Uno straccio, finalmente desacralizzato. Perché non si può arrivare ad uccidere per un pezzo di stoffa. Non si può avere una polizia della morale con il compito di controllare il dress code delle donne, in un paese schiacciato dalla crisi economica con ben altri problemi da risolvere. Le tante Gohar Eshghi, madri e nonne musulmane, hanno purtroppo rappresentato l’ostacolo maggiore per l’emancipazione delle donne più giovani perché si sono sottomesse per stanchezza o per indifferenza ad accettare che la loro fede le relegasse a un gradino più basso rispetto agli uomini, che gli stessi uomini abbiano le chiavi della loro libertà di movimento e successo, per come poi nella società si sono costruite le caselle di potere, anche se sono maggioranza e nonostante gli ostacoli qualche posto se lo sono viste riconoscere. In Iran sta avvenendo qualcosa di inedito. Perché oltre ai giovani nelle piazze uniti dalla stessa causa, c’è anche il supporto della generazione più anziana delle madri, e nel momento in cui si esprime anche con i padri, significa che per la prima volta e da Teheran si è riusciti a superare la linea rossa. Il tabù che ha creato una teocrazia che si è fatta forza da decenni per esplodere con violenza. Tra Khamenei che ripete come il velo sia l’essenza dell’Islam, e chi come la signora Gohar senza paura e custode della “storia” iraniana grida: mi tolgo il velo a causa di una religione che uccide le persone. Ecco, morire per la fede. Il “martirio” tanto osannato in quello che è diventato un racconto mitologico nella storia dell’Iran è morto. E non basta nemmeno raccontare che è colpa del nemico esterno che vuole creare disordini sociali. Per l’Islam, rappresentato simbolicamente dal velo delle donne con i loro capelli al vento e le ciocche tagliate, non si vuole morire. Sembra che avanzi l’individualità. L’essere cittadino, che chiede i propri diritti, semplicemente. Può sembrare una bestemmia per gli ayatollah, ma è semplicemente il grido di chi vuole vivere nella libertà, e ciò non poteva avvenire se non attraverso il corpo mutilato delle donne, che continuano ad essere discriminate. Se gli iraniani riusciranno a chiudere questa pagina per aprirne una nuova, avendo senza ipocrisie affrontato alla radice il principale squilibrio che risiede nella loro società, non è detto che anche in altri paesi islamici, la società civile non possa sentire fortemente la chiamata a quei diritti concessi a metà. Australia. Negato accesso a carceri ad ispettori Onu di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 21 ottobre 2022 Agli ispettori delle Nazioni Unite, martedì sera, è stato negato l’accesso a un centro di detenzione australiano nell’ambito di una prima missione anti-tortura nel Paese, hanno affermato le autorità del South Wales citando la mancanza di “permessi preliminari”. Ma il ministro delle carceri per il South Wales Geoff Lee ha spiegato alla radio 2GB i veri motivi della decisione: “Lo scopo del sistema carcerario è di mantenere le persone al sicuro, di proteggerci dai criminali che rinchiudiamo in cella ogni giorno. Di certo non di permettere a delle persone di girare per le strutture a loro piacimento” ha aggiunto. Anche lo Stato del Queensland sembrerebbe incline a limitare l’accesso degli ispettori agli Istituti di pena. Una decisione che è stata salutata con grande entusiasmo dal premier del South Wales Dominic Perrottet: “Abbiamo le condizioni carcerarie migliori del mondo”. L’Australia ha ratificato il Protocollo facoltativo alla Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura (Opcat) nel 2017, impegnandosi a riformare le politiche di protezione dei detenuti e sottoponendo le strutture a ispezioni. Le carceri australiane, i centri di detenzione per giovani e i complessi di immigrazione sono regolarmente accusati di violazioni dei diritti umani, in particolare contro le comunità aborigene. L’Australia ha tempo fino a gennaio 2023 per adempiere ai propri obblighi. Non ci sono sanzioni per il mancato rispetto di tale termine, ma il Paese potrebbe essere inserito in un elenco di nazioni non conformi per le significative preoccupazioni sui diritti umani. Gli ispettori potrebbero anche annullare le visite future, finora questa fattispecie è avvenuta solo in Ruanda, Azerbaigian e Ucraina.