La Lega prepara la sua controriforma penitenziaria di Valentina Stella Il Dubbio, 20 ottobre 2022 Puntano a sostituire il capo del Dap Renoldi, vorrebbero un Garante degli agenti e l’abolizione di quello dei detenuti. Quasi in sordina si sta delineando, pezzetto dopo pezzetto, una controriforma penitenziaria della Lega. L’ultimo segnale in ordine di tempo è una nota diffusa due giorni fa dal Carroccio: “Al di là del nome del ministro, la Lega avrà certamente un ruolo nel dicastero della Giustizia guidato dal centrodestra. Tra i primi dossier da affrontare, anche alla luce dell’arresto del garante dei detenuti del Comune di Napoli, la necessità di un garante per le donne e gli uomini in divisa che lavorano nelle carceri italiane, troppo spesso in condizioni inaccettabili”. Queste poche righe ci dicono due cose importanti: la prima è che appunto un leghista entrerà a Via Arenula, ad esempio con la qualifica di Sottosegretario, se a fare il vice Ministro andasse, ad esempio, il forzista Francesco Paolo Sisto. Questa figura potrebbe essere quella di Jacopo Morrone, rieletto alla Camera e che ha già ricoperto questo ruolo nel governo di Giuseppe Conte. Lui al momento non commenta anche perché il suo destino e quello di tanti altri è sicuramente legato alle diverse caselle che verranno riempite nei prossimi giorni. La seconda cosa che quel comunicato ci trasmette è che una delle priorità sarà quella di creare un Garante degli agenti di polizia penitenziaria. Posto che, come diceva Marco Pannella, bisogna sempre lavorare per migliorare le condizioni di vita e lavoro dell’intera comunità penitenziaria - di “detenuti e detenenti” parlava il leader radicale - certo l’idea di un garante dei “secondini” appare forse un po’ bizzarra, considerato che essi godono già della tutela da parte dei sindacati e che comunque, spiace dirlo e senza sottovalutare le aggressioni che pure subiscono, nella maggior parte delle volte in cui si verificano disordini sono i detenuti ad avere la peggio e non viceversa. Un esempio su tutti: la violenza di massa nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Questa proposta, comunque, viaggia in parallelo con l’altra, più volte esplicitata dai leghisti, di voler abolire la figura del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale. Nel 2020 fu proprio Igor Iezzi a dichiarare: “Palma ancora una volta si schiera dalla parte dei delinquenti contro i cittadini che rispettano la legge e contro gli agenti della polizia penitenziaria. L’unico emendamento che va subito approvato è quello che presenteremo come Lega e che riguarda l’abolizione di questa assurda figura, quella del Garante dei detenuti”. A proposito di questo, il mandato di Mauro Palma scade a febbraio 2023. Che cosa succederà allora? Il Carroccio potrebbe far riemergere la vecchia proposta? Intanto, sempre fonti della Lega, stanno facendo circolare l’ipotesi che la poltrona del capo del Dap, Carlo Renoldi, potrebbe saltare: troppo orientato a una pena costituzionale il suo peccato. A questo scenario si aggiunge lo slogan utilizzato dal centrodestra in campagna elettorale: “più taser per tutti”. Sia dalla Lega che da Fratelli d’Italia era venuta la richiesta, pure attraverso interrogazioni alla ministra della Giustizi, Martaa Cartabia, di fornire anche alle guardie carcerarie le pistole elettriche. Ma un altro fronte su cui la Lega potrebbe voler agire - e dove troverebbe anche la sponda del Movimento Cinque Stelle - è la modifica, o con correttivi previsti dalla delega al governo o con procedimento legislativo, della parte della riforma di mediazione Cartabia del processo penale nel capitolo riguardante le pene sostitutive delle pene detentive brevi per condanne fino a 4 anni, che verranno applicate ora direttamente dal giudice di cognizione. Ma tutto questo quadro mal si concilia sicuramente con la figura del nuovo ministro della Giustizia. Che sia Carlo Nordio, Francesco Paolo Sisto o Maria Elisabetta Alberti Casellati sarà sicuramente una figura di spiccata connotazione garantista. Il primo ricordiamo è stato tra i promotori del referendum per limitare gli abusi della custodia cautelare, il secondo è “amico” dell’Unione delle Camere Penali e ha sempre sostenuto la visione costituzionale del carcere della Cartabia, la terza quest’anno, durante la presentazione annuale della Relazione al Parlamento del Garante dei diritti delle persone private della libertà personale Mauro Palma, non ha fatto un semplice saluto istituzionale ma una vera denuncia delle condizioni delle nostre carceri, a partire dal sovraffollamento carcerario. Tale indecoroso scenario disse, “oltre a generare disagio, malessere e amplificare la percezione del carcere come luogo di degrado ed emarginazione” rappresenta “uno dei principali ostacoli alla salvaguardia di diritti fondamentali della persona, come quello all’istruzione, al lavoro o alla sfera degli affetti”. Si trattava, per la senatrice, di “diritti che non sono solo guarentigie di una dignità umana che il carcere non può sopprimere, ma anche strumenti irrinunciabili per trasformare la pena in un’occasione di riscatto, recupero e rinascita sociale, come prescrive la Costituzione”. Insomma vita dura per giustizialisti dell’esecuzione penale con ministri del genere. Da ex vertice del Dap dico: servono linee guida per i Garanti di Roberto Piscitello* Il Dubbio, 20 ottobre 2022 Spero davvero - e su questo la presunzione di innocenza di cui all’art. 27 della Costituzione mi incoraggia - che il garante dei detenuti di Napoli non abbia commesso i fatti che gli vengono contestati, seppure valutati nella gravità indiziaria necessaria per l’emissione di una misura cautelare. Il carcere è luogo di dolore. Perimetro difficile da visualizzare dall’esterno, che non si presta ad essere compreso del tutto; ma è materia su cui molti - forse anche troppi - pretendono di discutere, sottintendendo per sé sicure capacità e competenze. In questi anni chi ai più alti livelli politici ha avuto nelle diverse contingenze, la responsabilità di governare il carcere - senza necessariamente entrare nel merito di proposte e moduli organizzativi, spesso confliggenti nei turn over del potere - sicuramente non ha dato prova di ferma coerenza, dimostrando all’evidenza soltanto una superficiale capacità di navigare a vista sulle onde alte di un’emergenza continua. È in questo contesto che lo stesso legislatore ha finito per delegare il governo del carcere, facendo sempre più spesso ricorso - in maniera disordinata (e qualche volta scomposta) - a figure terze all’amministrazione penitenziaria per venire in ausilio della conduzione del carcere; quando non per affidare del tutto a tali figure la gestione di rilevanti incombenze. In qualche modo, lo Stato ha parzialmente abdicato alle sue funzioni sovrane e forse allo stesso dovere impostogli dall’art. 27 della Costituzione che grava l’amministrazione statuale della finalizzazione della pena: il trattamento e la rieducazione. Tutto ciò in una con un crescente discredito - veicolato anche attraverso la stampa più scandalistica - degli Operatori Penitenziari che invece, aldilà di spiacevoli episodi per i quali è interesse di tutti fare giustizia, mostrano quotidianamente un instancabile senso del dovere ed una eccezionale professionalità che molti paesi occidentali ci invidiano. In questo contesto la figura dei Garanti dei Detenuti ha assunto proporzioni sempre più eccessive, sia in ordine al loro numero: garanti regionali e garanti comunali; sia in ordine alla modalità con cui le varie amministrazioni locali li hanno selezionati; sia, infine, ai poteri che si è preteso di attribuire loro. Può trattarsi in molti casi di figure istituite da organi amministrativi estremamente periferici, senza alcuna codificazione delle procedure di nomina e senza la previsione di minime garanzie condivise quanto a caratteristiche soggettive e requisiti dei nominandi. In non pochi casi è già accaduto che anche la delicatissima materia della gestione dei detenuti in regime di 41 bis O. P. sia stata in qualche modo trattata dai garanti dei detenuti istituiti localmente, ai quali - per esempio - è stato consentito di svolgere colloqui riservati con detenuti sottoposti al regime detentivo speciale di cui all’art. 41 bis O. P., senza le ordinarie forme di controllo previste dal medesimo articolo, minando così alla base l’efficacia dell’istituto stesso perché svuotato di contenuto nella sua essenza principale: quella di impedire forme surrettizie di comunicazione tra i reclusi in regime speciale ed i sodali appartenenti alle medesime associazioni criminali ancora in libertà La conseguenza è stata che tali garanti hanno fatto accesso a colloqui non registrati e senza vetro divisorio con i più pericolosi soggetti appartenenti alle associazioni criminali, con il rischio di divenire essi stessi oggetto di pericolose - e finanche inconsapevoli - strumentalizzazioni. Tali considerazioni, soltanto occasionalmente sollecitate dalla cronaca, inducono comunque a fare riflettere su cosa è il carcere oggi e su ciò che deve essere fatto. E se lo stesso Mauro Palma - Garante Nazionale dei Detenuti, persona di straordinaria professionalità e risorsa forse insostituibile per il sistema penitenziario italiano, insieme a Rita Bernardini e a moltissimi altri silenti e disinteressati operatori volontari - ha ritenuto di dovere manifestare “sconcerto sul piano istituzionale”, finendo per dire che grava su tutti i Garanti dei Detenuti il rischio di discredito, il problema c’è, è serio e il nuovo corso politico non può non affrontarlo responsabilmente nell’ottica del superiore interesse nazionale, senza per questo strumentalizzare la vicenda di cronaca odierna e mantenendo desta l’attenzione sui problemi del carcere, mai negando sentimenti di gratitudine verso quelle persone che fuori dagli schemi istituzionali hanno fatto del carcere la loro missione. *Procuratore della Repubblica facente funzioni di Marsala. Già direttore generale dei detenuti e trattamento Garante arrestato, non si usi Pietro Ioia per svilire chi si adopera per la tutela dei detenuti di Viviana Lanza Il Riformista, 20 ottobre 2022 La misura cautelare, il tempismo dell’inchiesta, le accuse ipotizzate dagli inquirenti: la notizia dell’arresto di Pietro Ioia, garante dei detenuti della Città metropolitana di Napoli, arriva come un terremoto. Scuote, coglie alla sprovvista, lascia attoniti. Ioia è accusato di essersi fatto corrompere accettando di far parte di un’associazione a delinquere che lucrava facendo entrare droga e telefoni cellulari in carcere, nel carcere di Poggioreale. Appena ventiquattro ore prima dell’arresto, Ioia era alla Conferenza nazionale dei garanti regionali e territoriali tenutasi a Napoli e aveva preso la parola per fornire il proprio contributo di idee e denunciare le criticità nella gestione del vitto e del sopravvivo in alcuni istituti penitenziari. Adesso è al centro di accuse gravissime, aggravate dal fatto di aver agito sfruttando il suo ruolo di garante e la possibilità, che da tale ruolo deriva, di entrare nelle carceri e avere contatti con i detenuti. Se queste accuse non dovessero trovare alcuna conferma processuale ci troveremmo dinanzi a un ennesimo caso di gogna mediatica e giudiziaria, se invece la conferma dovesse arrivare si tratterebbe della responsabilità del singolo che non deve intaccare né svilire la figura del garante dei detenuti. In ogni caso, tuttavia, appare ancora una volta evidente quanto fallimentare sia il sistema carcere così come è strutturato. Il carcere genera violenza, produce aberrazioni, distorce i rapporti tra le persone che lo popolano, siano essi reclusi o chi all’interno di quelle strutture ci lavora. Il grande rischio, in questo momento, è di fare di tutta l’erba un fascio e demolire non solo la figura del garante ma anche la funzione della pena che è poi la sua stessa natura, cioè la funzione di recupero del condannato ai fini della sua rieducazione, di un suo reinserimento nella società. Pietro Ioia ha incarnato proprio tutto questo, diventando una sorta di simbolo del riscatto dopo il carcere, della seconda chance per cambiare vita, obiettivi e frequentazioni. Da ieri mattina è in carcere, e ironia della sorte proprio a Poggioreale, e, assistito dall’avvocato Raffaele Minieri, oggi comparirà davanti al gip per l’interrogatorio di garanzia. I carabinieri di Castello di Cisterna, coordinati dalla Procura di Napoli, hanno intercettato per mesi, a cavallo tra giugno dell’anno scorso e gennaio di quest’anno, il suo telefono e quelli di altri sette indagati e hanno ripreso, con intercettazioni ambientali, i colloqui che da garante cittadino aveva con alcuni detenuti. Accusano Ioia di esseri fatto corrompere per “i soldi per il motorino, i soldi per Natale, i soldi per il primo dell’anno”. È duro il gip nel ritenere le esigenze cautelari gravi al punto da non poter scegliere altra misura se non il carcere: “Ioia, sfruttando il suo ruolo di garante dei detenuti, piuttosto che agire nell’interesse della collettività ne approfittava per trarne occasione di ingenti guadagni”. “È una notizia sconvolgente - commenta Rita Bernardini, presidente di Nessuno Tocchi Caino - Vedremo a cosa porteranno le indagini e se l’accusa sarà provata. Constato che anche in questo caso poteva essere evitata la custodia cautelare in carcere”. Si dice “attonito” il garante regionale Samuele Ciambriello: “Ho piena fiducia nella magistratura e spero che il garante Ioia possa dimostrare la sua estraneità ai fatti. Questo episodio non può e non deve delegittimare l’operato di tutti noi garanti”. Anche il portavoce della conferenza dei garanti territoriali, Stefano Anastasia interviene su questo punto: “I garanti svolgono un lavoro prezioso nella tutela dei diritti dei detenuti che è parte della legalità penitenziaria e non può essere messo in ombra dall’eventuale abuso dei propri poteri da parte di uno di loro”. Intanto il Comune di Napoli ha avviato la procedura per revocare a Pietro Ioia l’incarico di garante cittadino. Scintille nell’ombra. La questione femminile in carcere di Angela Chiodo intersezionale.com, 20 ottobre 2022 La presenza femminile in carcere assume i connotati atipici dell’anomalia: le strutture, le regole e l’organizzazione interna, infatti, sono plasmate su un modello monolitico, declinato al maschile. Soltanto quattro istituti in Italia sono stati pensati esclusivamente per le donne; nella maggior parte dei casi, invece, queste ultime fanno il loro ingresso in sezioni femminili ubicate all’interno di carceri popolate da detenuti. Nel tessuto normativo dell’ordinamento penitenziario, poi, le norme che rivolgono la propria attenzione alle persone private della libertà personale di genere femminile, senza un focus espresso sulla funzione riproduttiva, sono di carattere residuale. Infatti, soltanto negli articoli 14 e 42 bis si fa un preciso riferimento alle donne detenute (seppur per aspetti relativi all’organizzazione penitenziaria): il primo introduce un principio di separazione tra uomini e donne, contemplando istituti differenti o, al più, la permanenza delle donne all’interno di apposite sezioni; il secondo richiede l’assistenza di personale femminile durante la traduzione di detenute da un luogo esterno all’altro. Maggiore attenzione alle esigenze femminili, sul fronte dell’igiene e della cura della persona, viene prestato dal D.p.r. 30 giugno 2000 n. 230 (Cd. Regolamento di esecuzione): gli articoli 7 e 8 infatti ammettono, per le donne, la possibilità di usufruire dei servizi di parrucchiere e del bidet; soprattutto, per attenuare la spersonalizzazione e assicurare il giusto spazio all’espressione della personalità femminile anche dietro le sbarre, è consentito l’utilizzo di prodotti cosmetici e di piccoli accessori. L’identikit femminile approntato dal legislatore del ‘75 è prevalentemente quello della madre, tanto da dedicare una vasta gamma di disposizioni alla cura del minore e al mantenimento della relazione genitoriale. Rispetto al ruolo di lavoratrice, tuttavia, lo sforzo immaginativo lascia molto a desiderare: da un lato, le posizioni lavorative ricoperte dalle donne detenute hanno prevalentemente connotazioni domestiche (pulizie, lavanderia, aiuto cuoco, sartoria); dall’altro, i protocolli attivati per questa fetta di popolazione reclusa lasciano poco spazio alla sfera creativa femminile, instradandosi prevalentemente sulla traiettoria della cura e dell’assistenza alla persona. La sottorappresentazione normativa nei confronti della specificità della detenzione femminile non è, però, una prerogativa nazionale. A livello sovranazionale, infatti, riferimenti ad hoc per le donne autrici di reato occupano un posto marginale nelle Standard Minimum Rules for the Treatment of Prisoners del 1955; sarà con le note European Prison Rules del 2006 che viene reclamata una maggiore attenzione nei confronti della condizione femminile: l’articolo 34 .1, non a caso, prevede che le decisioni che riguardano aspetti della detenzione femminile non possano prescindere da un’attenzione rivolta ai bisogni fisici, professionali, sociali e psicologici delle donne. Il salto di qualità, tuttavia, è costituito dalle Bangkok Rules adottate nel 2010 dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, proprio per colmare tale lacuna normativa: pur trattandosi di uno strumento di soft law, esso si rivolge agli Stati affinché assicurino programmi di trattamento penitenziario conformi alle differenze di genere e incentivino sanzioni di natura non detentiva. Nel tentativo di allinearsi agli standard internazionali e di accogliere e riconoscere la complessità femminile, soprattutto sotto il profilo simbolico e valoriale, nel 2008 il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha adottato una circolare contenente il prototipo di un regolamento interno per gli istituti e le sezioni femminili, ad esclusione dei circuiti di Alta Sicurezza. Come evidenziato dalla stessa circolare, le disposizioni contenute nel regolamento-tipo rappresentano un contributo alla modificazione dei modi e dei tempi della vita detentiva, in modo da avvicinarli ai bisogni della popolazione femminile, con particolare attenzione alla dimensione affettiva (artt. 19 e 20), alle specifiche necessità sanitarie (art. 16, 23 e 25), al diverso rapporto con le esigenze della propria fisicità (art. 9, 10, 16 e 24) e alla necessità di offrire pari opportunità di reinserimento sociale (art. 30 e 33). Il corpus normativo tuttavia, ad avviso di chi scrive, è ancora lontano dall’assimilazione di una visione non stereotipata della donna: quando si richiede che gli operatori penitenziari, nello svolgimento del lavoro, stimolino “il senso di responsabilità delle detenute, in modo che l’attività lavorativa sia svolta con impegno idoneo ad assicurare risultati economicamente utili” o, ancora, si consente “l’attività sportiva negli spazi all’aperto, purché sia “svolta in modo da non recare molestia alla restante popolazione detenuta”, si sta di fatto appiattendo la valutazione complessiva su giudizi di natura morale. Anche per tali ragioni, è da accogliere con slancio positivo la recentissima sigla del Protocollo “Atena Donna” da parte dell’Amministrazione Penitenziaria e della Fondazione di cui il protocollo prende il nome, in cui spicca una attenzione trasversale per il benessere femminile (di recluse e agenti di custodia) e per la donna globalmente intesa. Nonostante la presenza femminile nei luoghi di detenzione sembri passare sotto silenzio (oscillando tra il 4 e il 5% della popolazione detenuta), il potenziale trasformativo che si porta dentro diventa motore trainante dello sviluppo di una coscienza critica dietro le sbarre: a questo proposito, ad esempio, grande risonanza ha avuto l’appello lanciato dalle detenute della III sez. femminile del carcere di Torino “Lorusso-Cotugno” e indirizzato anche alla nostra Associazione, con cui si chiedeva alla Ministra della Giustizia Cartabia la reintegrazione della liberazione anticipata speciale al fine di diminuire la capienza interna degli istituti, compromessa da alte percentuali di sovraffollamento carcerario, in epoca pandemica; in particolare, proprio per “riconoscere a tutti (i ristretti) la dignità di essere cittadini e non numeri” chiedevano, come segno tangibile di una presa di posizione che evidenziasse civiltà e rispetto dei diritti, di estendere tale misura anche ai detenuti condannati per reati ostativi. Sulla stessa linea di coesione e solidarietà dal tocco femminile, le lettere indirizzate dalle detenute del carcere delle Vallette a Nicoletta Dosio: si tratta, questa volta, di uno sciopero della fame a staffetta per sensibilizzare sull’allarmante aumento dei suicidi all’interno delle carceri. Un modo per manifestare la propria indignazione dinnanzi all’assordante silenzio politico sul tema. Affinché questo spirito vitale non si riduca a una scintilla sempre più fioca, occorre sforzarsi di dare voce alle testimonianze delle “sconquassate solitudini” che popolano il carcere femminile, soprattutto incentivando le attività di esplorazione del sé attraverso la scrittura. Oltre a ciò, l’auspicio è che il modello carcerario declinato al maschile ripensi sé stesso con progetti e risorse umane maggiormente aderenti ai bisogni delle donne e alla complessità dell’universo femminile. Del resto, di un carcere “a misura di donna” ha parlato anche il giudice Semeraro in un’intervista rilasciata al quotidiano “Repubblica”, in occasione della tristemente nota vicenda di Donatella Hebdo: un’altra esistenza, la sua, soffocata prematuramente da un sistema che, nel suo complesso, amplifica a dismisura la fragilità e la marginalità esistenziale. Indispensabile, a tal fine, è non soltanto investire sulla formazione globale degli operatori penitenziari, affinché vengano tenute in considerazione le specificità della detenzione femminile e il trattamento rieducativo possa a tutti gli effetti essere individualizzato e rispondere ai bisogni della persona; essenziale, infatti, risulta anche un maggiore coinvolgimento delle detenute in percorsi scolastici e di formazione: il reinserimento sociale di donne vulnerabili ed economicamente svantaggiate non può prescindere da una maggiore attenzione nella costruzione di percorsi condivisi, che garantiscano un’ autonomia personale e professionale. I detenuti di 5 Regioni lavoreranno nei cantieri delle opere pubbliche di Sara Monaci Il Sole 24 Ore, 20 ottobre 2022 Il protocollo d’intesa è stato siglato da ministero della Giustizia, Commissario per la ricostruzione, la Cei, Anci e Ance ed è finalizzato al reinserimento sociale. Le persone detenute in dieci province delle regioni Abruzzo, Lazio, Molise, Marche e Umbria lavoreranno nei cantieri di oltre 5mila opere di ricostruzione pubblica e in quelli di 2.500 chiese danneggiate dal terremoto 2016. Lo stabilisce il Protocollo d’intesa siglato oggi, nella sede del Ministero della Giustizia, tra il Commissario Straordinario alla Ricostruzione, Giovanni Legnini; la Ministra della Giustizia, Marta Cartabia, il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana, Cardinale Matteo Maria Zuppi, il Presidente del Consiglio nazionale dell’Anci, Enzo Bianco, e il Vicepresidente Ance con delega per la ricostruzione del Centro Italia Piero Petrucco. Era presente anche il capo del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi. L’obiettivo del Protocollo è quello di favorire il reinserimento sociale di chi sta scontando una pena detentiva in 35 istituti del Centro Italia. Il numero dei detenuti coinvolti dipenderà dal programma dei lavori e dai cantieri individuati. Le modalità di inserimento lavorativo verranno definite in base ai profili dei singoli detenuti e alle esigenze delle aziende. Al Commissario Straordinario spetterà la funzione di raccordo delle attività, mentre il Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria individuerà gli idonei e favorirà il loro inserimento in cantieri vicini alle strutture detentive, in accordo con la Magistratura di sorveglianza. La Cei promuoverà, presso le imprese impegnate nella ricostruzione degli edifici di culto, l’utilizzo di manodopera da parte dei detenuti valutati idonei. Ance diffonderà alle proprie strutture territoriali e, per il loro tramite, anche agli enti bilaterali del sistema, i contenuti del Protocollo; allo stesso modo, anche Anci nei Comuni che ospitano strutture penitenziarie. Con il Protocollo viene definito anche un Comitato paritetico di gestione, composto dai rappresentanti dei firmatari, che sarà istituto entro 15 giorni, con il compito di promuovere e monitorare le attività previste dal documento e di coordinare le azioni degli enti e dei soggetti che hanno aderito. Per la ministra Marta Cartabia: “Ricostruire gli edifici, per ricostruire anche le proprie vite e sentirsi parte della comunità: ha un fortissimo significato simbolico il protocollo che permetterà ad alcune persone di uscire dal carcere, per lavorare nei cantieri dei paesi feriti dai terremoti. Attraverso il lavoro, il tempo della detenzione si orienta verso l’obiettivo costituzionale della rieducazione e del reinserimento sociale. Il lavoro in carcere è stata una delle mie priorità in questo anno e mezzo al ministero. E sono particolarmente felice di questa firma, a conclusione del mio mandato, perché progetti come questo o come l’accordo siglato con il ministro Colao con le aziende di telecomunicazione per la posa della fibra permettono di guardare al carcere anche come una risorsa per l’intera collettività”. Giustizia, le riforme fatte e quella ancora attesa di Gerardo Villanacci Corriere della Sera, 20 ottobre 2022 In un tempo da primato rispetto alle consuetudini del nostro legislatore, sono state approvate importanti riforme della giustizia. Ultima in ordine di tempo, dopo quella Penale e Tributaria, è la riforma nel settore civile. Pur considerando il forte e tutt’altro che infondato dissenso espresso dalla magistratura e dall’avvocatura, è necessario coglierne l’essenza considerando che la loro approvazione è stata posta dall’Unione Europea quale condizione per la concessione dei fondi stanziati con il Pnrr. Soltanto in questa ottica è possibile proiettarci in una dimensione propositiva considerando che, se adeguatamente interpretate e attuate, le riforme potranno effettivamente consentire la realizzazione dei presupposti che le hanno ispirate, vale a dire la riduzione del 40% dei tempi di durata dei processi civili e del 25% di quelli penali a partire dal 2026. Per altri versi, le riforme attuate potrebbero avere, almeno in alcune materie, una portata che non è eccessivo definire storica. Nel diritto di famiglia, per esempio, come è stato ben evidenziato da Carlo Rimini (Corriere, 19 ottobre), si tratta della riforma più importante dal 1975 posto che le novità introdotte riguardano l’istituzione di un nuovo Tribunale per le famiglie che, nel sostituire quello per i minorenni, si occuperà, con profili di alta specializzazione, di tutte le problematiche familiari. Nondimeno, il percorso non può certo dirsi completato poiché accanto alle riforme già attuate nel settore civile e penale e, prima ancora, quello tributario, non è ulteriormente differibile la riforma della magistratura. Verosimilmente quella più importante per recuperare la fiducia nella giustizia, sul presupposto che proprio alla magistratura è demandato il fondamento compito di applicare le leggi attraverso una loro interpretazione coerente alla propria funzione di garante dell’ordine sociale e del rispetto del principio di certezza del diritto. Risiko giustizia nel Governo: ipotesi Sisto per la vicepresidenza del Csm di Bepi Castellaneta Corriere del Mezzogiorno, 20 ottobre 2022 Da sottosegretario alla Giustizia (con la ragionevole fiducia in una conferma) a possibile vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura. Potrebbe essere questa la parabola di Francesco Paolo Sisto, barese, noto penalista ed ex avvocato di Silvio Berlusconi, principe del Foro e della tastiera (memorabili le sue esibizioni al piano in via Argiro, a Bari), eletto con Forza Italia al Senato grazie a una valanga di voti. L’ipotesi di Sisto vicepresidente del Csm sembra prendere consistenza proprio nelle ore in cui il risiko della giustizia rischia di trasformarsi in una prova di forza tra alleati, o presunti tali. E in ogni caso trattative e tensioni attorno al ministero chiave del centrodestra ridisegnano equilibri e scompaginano caselle che sembravano più o meno acquisite nella squadra del governo che verrà. Proprio in questo scenario frastagliato spunta la figura di Sisto. Il quale, nel caso in cui Giorgia Meloni non arretrasse di un millimetro sulla scelta di Carlo Nordio a ministro della Giustizia mettendo da parte il forcing berlusconiano per Elisabetta Casellati, potrebbe diventare il nuovo vicepresidente del Csm. Del resto proprio Sisto, giurista di lungo corso, eloquio acuto e pungente, mai però sopra le righe, gode peraltro di un riconoscimento bipartisan se si parla di competenza in un settore così delicato. Al punto che un sondaggio condotto dal sito web del Dubbio, il quotidiano del Consiglio nazionale forense, lo ha incoronato come ministro della giustizia ideale, con il doppio delle preferenze rispetto a Nordio e addirittura il quadruplo della sua collega Giulia Bongiorno. Ma l’auspicio di buona parte degli avvocati è destinato a rimanere tale. Non è un mistero che Meloni voglia discontinuità rispetto al governo Draghi. Senza contare tra l’altro che il penalista è tra quelli che non hanno votato Ignazio La Russa alla presidenza del Senato. Ecco allora che per il giurista barese potrebbero chiudersi le porte del ministero di via Arenula e spalancarsi quelle (di assoluto prestigio) della vicepresidenza del Csm. Nelle prossime settimane sarà convocato il Parlamento in seduta comune per procere con la scelta dei dieci membri laici, individuati tra docenti universitari ordinari o avvocati con almeno 15 anni di esercizio dell’attività forense. E uno di loro diventerà vicepresidente. Considerato il risultato elettorale, al centrodestra dovrebbero finire sette seggi, tre a Fratelli d’Italia e due ciascuno a Lega e Forza Italia mentre è previsto un seggio a testa per Pd, Movimento Cinque Stelle e Azione-Italia viva. In ogni caso, visto tra l’altro che è fissato un quorum dei tre quinti del totale di deputati e senatori, avranno un peso trattative e accordi trasversali. Nel frattempo i riflettori sono puntati sul ministero della Giustizia. Poi toccherà al Parlamento. Ma per Sisto, comunque vada, potrebbe essere un successo. Gli esposti dei cittadini contro le toghe? Ora (finalmente) non saranno cestinati di Paolo Comi Il Riformista, 20 ottobre 2022 C’è voluto l’intervento dei 5 togati progressisti di Area che hanno fatto approvare una delibera ad hoc. Prima non si aveva alcuna certezza che fosse effettuata la benché minima attività istruttoria. Domanda secca: ma che fine fanno gli esposti inviati dai cittadini al Consiglio superiore della magistratura per segnalare, ad esempio, il comportamento scorretto di un magistrato o di un ufficio giudiziario in genere? Prima di questa settimana, ma nessuno ovviamente lo ammetterà mai, il cestino era la probabile destinazione finale. C’è voluto l’intervento dei cinque togati progressisti di Area, che hanno fatto approvare ieri in Plenum una delibera ad hoc, per mettere fine alla prassi di “archiviare” gli esposti indirizzati al Csm di default. Le disposizioni adesso abrogate, infatti, prevedevano che gli esposti indirizzati al Csm venissero preventivamente sottoposti al vaglio del Comitato di presidenza di Palazzo dei Marescialli. Il Comitato, composto dal vice presidente del Csm e dai capi di Corte, il primo presidente della Cassazione ed il procuratore generale, a suo insindacabile giudizio decideva allora se archiviarli se trasmetterli alle Commissioni competenti, ad iniziare dalla prima, incaricata proprio di valutare i comportamenti tenuti dai magistrati. In questo modo, senza il vaglio delle Commissioni e quindi del Plenum, un esposto aveva ad oggetto “censure” nei confronti di una toga poteva finire direttamente in archivio. In altre parole, il cittadino che si era rivolto al Csm per chiederne l’intervento, non aveva alcuna certezza che fosse stata effettuata la benché minima attività istruttoria. Dalla prossima settimana, come detto, tutti gli esposti (tranne gli esposti anonimi che non verranno presi in considerazione) dovranno invece essere “obbligatoriamente” trasmessi alle Commissioni per le attività più opportune. Dopo il Csm, la “trasparenza” dovrebbe adesso estendersi anche alla Procura generale della Cassazione, titolare dell’azione disciplinare nei confronti dei magistrati. Si dà il caso, infatti, che una circolare dell’allora procuratore generale Giovanni Salvi impedisca al cittadino che ha segnalato un illecito a carico di un magistrato di avere la copia del provvedimento di archiviazione se non è stata esercitata l’azione disciplinare. Il pg si è riservato il potere assoluto di rilasciare o meno copia di qualsiasi archiviazione. Anche se a chiederla è lo stesso Csm che in quel momento si trova a valutare il magistrato finito sotto disciplinare per un incarico o una promozione. Un eccesso di privacy che non ha eguali. È sufficiente ricordare che nel processo penale i provvedimenti di archiviazione sono accessibili a chiunque ne abbia interesse. Un “oblio tombale” di migliaia di archiviazioni l’anno che è stato stigmatizzato dagli stessi magistrati, i primi a voler conoscere come viene esercitato il potere disciplinare da parte del pg della Cassazione. Un riserbo che stride con quanto avviene nelle professioni ordinistiche: le archiviazioni emesse dai competenti Ordini forensi nei confronti degli avvocati sono comunicate d’ufficio a coloro, i clienti, che hanno presentato la denuncia. L’Ocse contro i giudici italiani: “Troppe assoluzioni” di Simona Musco Il Dubbio, 20 ottobre 2022 L’Organizzazione bacchetta l’Italia per il caso Eni. Ma le sue conclusioni si basano sull’appello dell’accusa, cassato come infondato dalla procura generale. L’Organizzazione per la cooperazione internazionale e lo sviluppo economico (Ocse) entra a gamba tesa sull’indipendenza dei magistrati italiani. E lo fa in due modi diversi: con un report nel quale bacchetta l’Italia per il basso numero di condanne nei processi per corruzione internazionale e una inusuale lettera scritta dal presidente del Gruppo di lavoro, Drago Kos, a sostegno di Fabio De Pasquale e Sergio Spadaro, l’accusa nel caso Eni-Nigeria, oggi a processo per rifiuto d’atti d’ufficio. Due documenti che partono da un assunto: i giudici italiani - e quelli milanesi in particolare - non hanno lavorato bene nel valutare i grandi casi di corruzione, avendo avuto l’ardire di assolvere gli imputati. Perché basta formulare l’accusa, secondo quanto emerge da tale documento, a certificare l’esistenza di un accordo corruttivo. Poco importa se il processo dimostra il contrario. Le critiche dell’Ocse riguardano soprattutto il procedimento contro Eni per la presunta tangente da oltre un miliardo nell’affare Opl245, fascicolo in mano a De Pasquale e Spadaro e naufragato oltre un anno fa con una sentenza che ha, di fatto, demolito il lavoro dei due magistrati. Quella tangente, secondo i giudici del Tribunale di Milano, non è infatti mai stata provata. Ma c’è di più: molte delle prove portate a processo sono risultate “manipolate”, mentre altre, ritenute estremamente utili alla difesa, sono state tenute nel cassetto, tanto da costare a De Pasquale e Spadaro una richiesta di rinvio a giudizio a Brescia. Dove adesso arriva la mano dell’Ocse, con la lettera - a titolo personale - del numero uno del Gruppo di lavoro, depositata da De Pasquale in vista dell’udienza preliminare del 2 novembre. Kos esprime contrarietà nei confronti della pg Celestina Gravina, che ritirò l’appello contro Eni riducendo a “chiacchiere e opinioni generiche” l’intero processo. “Non c’è prova di nessun fatto rilevante”, aveva affermato la pg, secondo cui motivi d’appello presentati da De Pasquale erano “incongrui, insufficienti e fuori dal binario di legalità”. Parole, quelle di Gravina, “improprie e contrarie alla Convenzione Ocse”, secondo Kos, che invece indica De Pasquale e Spadaro come “esempi luminosi per altri pm in tutto il mondo”. Le critiche del rapporto Ocse - Ma quali sarebbero le colpe dei giudici italiani? Intanto aver assolto troppa gente: gli ultimi sette processi si sono chiusi con cinque assoluzioni, una sesta parziale e una condanna. Troppo poco, dunque, partendo evidentemente da un presupposto: la tesi dell’accusa è sempre corretta. Ciò, probabilmente, senza aver analizzato l’enorme mole di atti che porta con sé ogni processo, compreso Eni-Nigeria, che ha richiesto tre anni di udienze per giungere al termine. Nonostante, dunque, l’Italia abbia “rafforzato la sua legislazione” e mostrato “un livello significativo di applicazione della corruzione all’estero con un ritmo in aumento dal 2011”, a sbagliare sono i giudici, colpevoli di non aver considerato “contemporaneamente la totalità delle prove fattuali”, valutando “ciascun elemento di prova solo singolarmente”. Parole che ricalcano in maniera quasi pedissequa le considerazioni fatte mesi fa da De Pasquale nel proprio appello contro le assoluzioni. È infatti proprio il magistrato che, a pagina 7 della sua impugnazione, parla di una valutazione “atomistica e parcellizzata degli elementi di prova acquisiti”. E nella stessa pagina cita proprio la posizione del gruppo di lavoro dell’Ocse, che da tempo collabora con il magistrato. C’è poi un altro “difetto”, secondo l’Ocse: pretendere “uno standard di prova molto pesante”. Standard che, verrebbe da dire, consente di superare la soglia dell’oltre ogni ragionevole dubbio ed evitare clamorosi errori giudiziari. De Pasquale, invece, a pagina 10 dell’appello “confonde” fatti penalmente rilevanti con questioni etiche: “Il Tribunale non esprime un giudizio preciso sulla responsabilità di Eni e Shell (e i loro dirigenti) nell’ipotizzata attività di pressione - si legge - e neppure valuta se un simile comportamento corrisponda agli standard di etica degli affari richiesti dalla comunità internazionale”. A novembre dello scorso anno era stato un gruppo di 15 magistrati e giuristi di dodici nazioni a sollecitare l’Ocse ad accendere un faro su De Pasquale. “La procura di Milano - scrivevano le toghe - è ora sotto attacco per aver perseguito casi di corruzione internazionale”. La critica era diretta ai magistrati di Brescia, che avevano “osato” indagare i due magistrati del caso Eni per rifiuto d’atti d’ufficio. Una lettera dal tenore completamente diverso rispetto a quella di 27 colleghi milanesi, che il 3 marzo 2020 “puntavano il dito” contro il trattamento di favore riservato al dipartimento di De Pasquale, che poteva contare su un “carico di lavoro significativamente inferiore” rispetto a colleghi che pure si occupavano di reati gravi. Una sorta di “privilegio” contestato all’allora procuratore Francesco Greco, che si vide bocciare il progetto organizzativo della procura da parte del Csm. E dopo il suo pensionamento, fu lo stesso De Pasquale ad essere “bocciato” dal reggente Riccardo Targetti, che espresse parere non positivo sul magistrato per la riconferma a capo del pool affari esteri. Valutazione che, casualmente, è stata espressa proprio nella giornata in cui gli ispettori dell’Ocse si trovavano in missione in tribunale a Milano, lo scorso 6 aprile. Le critiche della difesa - “La posizione assunta dal signor Kos, peraltro sembrerebbe a titolo “personale” e che di fatto sintetizza la tesi espressa dal dottor De Pasquale sia in primo grado sia nei motivi d’appello, mi ha sorpreso per vari motivi - spiega al Dubbio Enrico De Castiglione, legale di Paolo Scaroni, ex numero uno di Eni -. In primo luogo per esprimere un parere autonomo e fondato sul processo Eni Nigeria il signor Kos avrebbe dovuto leggere e studiare tutte le carte e le prove di un processo (che ha comportato anni d’istruttoria dibattimentale) nonché tutti gli argomenti sviluppati dalle difese. Cosa che ritengo difficile possa essere avvenuta”, premette il legale. Che poi rileva come a “demolire l’impianto accusatorio non siano stati solo il procuratore generale e prima ancora il Tribunale di Milano”, ma anche la Corte d’Appello, nel parallelo processo riguardante alcuni coimputati. Decisioni coerenti con quelle assunte dall’Alta Corte di Giustizia Inglese e l’Alta Corte Federale Nigeriana. Dunque, “il grave errore in cui mi sembrano essere caduti il signor Kos e il suo gruppo di lavoro - conclude - sta nell’equiparare l’ipotesi accusatoria - che deve essere verificata e validata nel corso di un processo che in Italia, come nel resto del mondo democratico, soggiace a ben precise regole - con la verità dei fatti”. “Vietato fumare? Sì, ma non in cella” di Vincenzo Brunelli luccaindiretta.it, 20 ottobre 2022 Gli agenti contro il fumo passivo portano il caso al Consiglio di Stato. I poliziotti chiedono di bandire le sigarette dai luoghi comuni, i giudici di Palazzo Spada vogliono andare a fondo: attesa per la sentenza. Vietato fumare? Sì, ma non ovunque. In cella il divieto che ormai è esteso ad ogni locale ed esercizio pubblico non vale. Con delle conseguenze che non ricadono soltanto sui fumatori, ma anche su chi, per lavoro, è costretto, quel fumo a respirarlo. Il caso del fumo passivo nel carcere di Lucca è una problematica sollevata da alcuni dipendenti del San Giorgio e che 10 anni fa era finita sul tavolo del Tar di Firenze che aveva rigettato il ricorso degli agenti penitenziari che avevano richiesto provvedimenti e risarcimenti. Ma ora il consiglio di Stato vuole approfondire la vicenda e in un’ordinanza pubblicata oggi (19 ottobre) sull’appello proposto nel 2015 alla precedente sentenza dei giudici fiorentini ha richiesto una serie di documenti prima di pronunciarsi nel merito. Una sentenza quella dei giudici di Palazzo Spada destinata in ogni caso a diventare fondamentale per tutti gli altri ricorsi simili in Italia. Nelle celle infatti ad oggi non è previsto il divieto di fumo, e se da un lato i detenuti fumatori hanno tutto il diritto di fumarsi una sigaretta è pur vero che esiste anche il diritto alla salute di chi non fuma. Una questione irrisolta dal legislatore quella del fumo passivo nelle carceri che ora vedrà una decisione in ogni caso storica del consiglio di Stato a partire dagli agenti penitenziari del carcere di Lucca. Lo stesso Tar di Firenze nella sentenza del 2012 aveva affermato in sentenza che in Italia non c’è il divieto di fumo nelle celle per i detenuti. Si legge infatti in quella decisione di primo grado che aveva rigettato i ricorsi degli agenti di Lucca: “sotto il profilo organizzativo interno dell’Istituto, risultano, infatti, ben tre ordini/avvisi di servizio (precisamente si tratta degli ordini di servizio del 9 gennaio 2002, 10 agosto 2010 e del 2013) finalizzati all’imposizione del divieto di fumo in una serie di locali utilizzati da tutta la comunità carceraria (corridoi, corsie d’ospedale, biblioteche, locali adibiti a sala riunione; ecc.) e di una serie di prescrizioni ritenute idonee a ridurre le problematiche derivanti dal fumo nei locali in cui non era possibile apporre il divieto di fumo (come nelle celle di detenzione)”. I giudici del Consiglio di Stato, invece, vogliono andare più a fondo e hanno ordinato: “Ritenuto che sia necessario acquisire dal dipartimento dell’amministrazione penitenziaria una relazione, corredata da tutti i documenti relativi, sulle direttive che sono state fornite agli istituti di pena per affrontare il problema dell’esposizione al fumo passivo degli appartenenti all’amministrazione che ivi prestano servizio e sulle iniziative assunte, in particolare con riferimento a quanto è stato fatto presso la casa circondariale di Lucca. Ritenuto che anche la direzione della casa circondariale di Lucca debba riferire sulle iniziative assunte nel corso degli anni per affrontare il problema dell’esposizione al fumo passivo, il consiglio di Stato in sede giurisdizionale, sezione quarta, ordina che si dia esecuzione a quanto disposto in parte motiva dando termine alle amministrazioni di depositare le relazioni richieste entro quaranta giorni dalla comunicazione della presente ordinanza. Trasmette gli atti al presidente della Sezione per la fissazione dell’udienza per la prosecuzione del giudizio”. Nelle prossime settimane la storica decisione del consiglio di Stato destinata a far discutere in ogni caso. Foggia. 30enne muore in cella pochi giorni dopo l’arresto: i genitori chiedono chiarezza di Cinzia Semeraro Corriere del Mezzogiorno, 20 ottobre 2022 Osama Paolo Harfachi, foggiano di origini marocchine, era stato arrestato il 13 ottobre per una rapina. Il padre e madre del giovane: “Un detenuto ci ha detto che era tutto spezzato”. Chiedono chiarezza sulla morte del figlio 30enne, trovato morto il 18 ottobre scorso nel letto della sua cella della casa circondariale di Foggia e per questo hanno presentato una denuncia ai carabinieri. Arika Mouhib e Iakbir Harfachi sono rispettivamente la madre e il padre di Osama Paolo Harfachi, foggiano di origini marocchine, arrestato il 13 ottobre per una rapina. A quanto si apprende, da una prima ispezione sul cadavere il 30enne sarebbe morto per arresto cardiaco, ma i genitori sottolineano che il figlio “non aveva alcun problema di salute”. Inoltre i familiari affermano di “aver ricevuto, il giorno successivo all’arresto di Osama Paolo, alcuni messaggi da un altro detenuto”. Quest’ultimo ha inviato i messaggi una volta uscito dal carcere dicendo che, poco prima di essere liberato, avrebbe incontrato il 30enne. E avrebbe riferito ai genitori di Osama di averlo visto “tutto spezzato” (molto sofferente). I genitori, sulla base di quanto riferito dal detenuto negli sms, temono che il figlio “possa essere stato picchiato”. Torino. Undici detenuti ricevono la certificazione di inglese Cambridge torinoggi.it, 20 ottobre 2022 La cerimonia in programma oggi al penitenziario Lorusso e Cutugno. Il 20 ottobre a Torino, presso il Teatro della Casa Circondariale Lorusso e Cutugno, avrà luogo la cerimonia di consegna delle certificazioni di lingua inglese Cambridge agli undici detenuti, allievi del Cpia1 Paulo Freire e del Primo Liceo Artistico, che hanno seguito i corsi organizzati dal Cpia1 e poi superato l’esame, avvenuto in carcere lo scorso giugno. Si tratta di un progetto unico nel suo genere nel nostro Paese. “Il nostro Istituto, come noto, si occupa di istruzione per gli adulti, tra i quali anche persone con uno svantaggio sociale. Questo progetto in particolare è stato premiato dall’Agenzia Nazionale Erasmus+ Indire con il Label Europeo delle Lingue, e vuole rispondere alle aspirazioni di formazione e reinserimento lavorativo della popolazione detenuta. Abbiamo intenzione di riproporlo anche quest’anno, insieme ad altre iniziative culturali e sportive a favore dei nostri allievi in carcere” spiega Paolo Tazio, dirigente Cpia1. Volterra (Pi). Un detenuto in servizio alla biblioteca comunale pisatoday.it, 20 ottobre 2022 Un progetto finalizzato a far sperimentare ai detenuti azioni volte alla riparazione del danno recato alla collettività con il reato tramite l’impegno in funzioni di supporto agli operatori della biblioteca. Prosegue la collaborazione tra la casa di reclusione e il Comune di Volterra. Dal 4 ottobre infatti un detenuto del carcere lavora presso la Biblioteca Guarnacci. La Biblioteca comunale di Volterra da sempre accoglie collaborazioni volontarie esterne e, nel corso degli anni, ha ospitato inserimenti socio-terapeutici, studenti partecipanti ai progetti di alternanza scuola/lavoro, volontari del Servizio Civile. In analogia a quanto previsto per il lavoro di pubblica utilità denominato ‘Decoro Urbano’ - già avviato attraverso la collaborazione tra il Comune di Volterra e l’Istituto Penitenziario - il progetto ‘Più Libri Più Liberi’ è finalizzato a far sperimentare ai detenuti azioni volte alla riparazione del danno recato alla collettività con il reato tramite l’impegno in funzioni di supporto agli operatori della Biblioteca comunale Guarnacci. “Risulta opportuno non trascurare il valore aggiunto che tali iniziative comportano - dichiarano la direttrice del carcere, Mariagrazia Giampiccolo, e l’assessore alle Culture del Comune di Volterra, Dario Danti - si tratta di una sinergia e uno scambio positivo tra ‘il dentro’, rappresentato dall’Istituto penitenziario, e “il fuori”, la comunità locale esterna di Volterra che accoglie il carcere, riconoscendone oltremodo aspetti di risorsa da integrare fattivamente nel tessuto sociale”. Nello specifico, l’attività principale della persona individuata, in servizio dal 4 ottobre scorso, è quella di riordinare i volumi in ordine alfabetico e collocarli sugli scaffali in modo da garantire un rapido reperimento delle opere. A seconda delle esigenze, comunque, la persona potrà essere impiegata anche in altre mansioni tra le quali il front-office e il riordino dei locali. Palermo. Un futuro lavorativo dopo il carcere: le aziende incontrano i detenuti monrealepress.it, 20 ottobre 2022 Oltre quaranta le aziende che hanno incontrato le persone in esecuzione di pena. Si è tenuto negli spazi di Scalo 5B a Palermo, il primo Jail Career Day del progetto “Svolta all’Albergheria” coordinato da “Rigenerazioni Onlus” e sostenuto da Fondazione con il Sud. Oltre quaranta le aziende che hanno incontrato le persone in esecuzione di pena che, a seguito dei percorsi di professionalizzazione realizzati con Next - Nuove Energie per il Territorio, sono state preparate a partecipare all’incontro. Sono state più di cinquanta persone coinvolte nei percorsi e che si sono sedute ai tavoli dei colloqui con imprese del territorio che hanno scelto di partecipare all’evento, condividendo l’importanza di un dialogo proficuo tra sistema penitenziario, imprenditoriale e comunitario. Un incontro unico nel suo genere in cui imprese di diversi settori, dalla ristorazione all’agricoltura, ma anche turismo, automotive ed edilizia, hanno incontrato esclusivamente persone profilate per competenze ed esperienze pregresse. Ad aprire il pomeriggio di matching è stata Nadia Lodato, mediatrice penale e responsabile del progetto. “Questa giornata rende concreta la sinergia, il grande lavoro svolto in questi mesi con gli enti istituzionali coinvolti che hanno in carico le persone in esecuzione di pena e con le realtà del territorio che hanno sentito vivo il dovere e il desiderio di dare un contributo per una comunità attenta, responsabile e accogliente, un luogo in cui ciascun soggetto è portatore di bisogni ma anche di risorse. È anche un’occasione per le aziende di interfacciarsi con le persone profilate”. A seguire, il saluto ai partecipanti da parte di Carlo Borgomeo, Presidente di Fondazione con il Sud, che supporta il progetto ed Enrico Foglia, di Bip Consulting, società di consulenza internazionale. Continua Antonio Balsamo, Presidente del Tribunale di Palermo: “Il progetto Svolta all’Albergheria acquisisce ogni giorno sempre più valore ed è diventato davvero importante per il nostro territorio”, dice ai partecipanti. A dare il via al momento di matching è stato proprio Maurizio Giambalvo di Next - Nuove Energie per il territorio che ha seguito i partecipanti in ogni fase di preparazione alla giornata di matching. “Questa non è solo un’occasione per scoprire diverse posizioni lavorative, ma è, prima di tutto, un momento in cui ci misuriamo con le dinamiche del mondo del lavoro e impariamo, concretamente, cosa si deve fare durante un colloquio”. Sono quattro le testimonianze aziendali che il pubblico ha ascoltato. Quella di Giovanni Rizzuto di “Colori del Sole” e quella di Gaetano Salpietro di “Progetto Olimpo” due realtà che hanno già intrapreso percorsi di inserimento lavorativo con persone in esecuzione di pena. E ancora quella di Francesco Gambino chef del bistrot Al Fresco. Lo chef lavora quotidianamente con le persone coinvolte nel progetto Svolta all’Albergheria e ha sottolineato alla platea la professionalità e la cura nel lavoro di quelli che sono, oggi, validissimi colleghi, lanciando un invito alle aziende presenti nel concretizzare proposte di lavoro che diano seconde possibilità. A chiudere l’incontro, Giuseppe, uno dei quattro assunti della cooperativa Rigenerazioni. Le sue, sono parole di gratitudine e speranza verso il futuro. “Sono un ex detenuto e non avrei mai creduto di avere la possibilità di realizzare il sogno mio, e della mia famiglia, di avere un lavoro”. Pescara. Pentito morto sotto protezione, indagati 8 medici delle carceri di Maurizio Cirillo Il Centro, 20 ottobre 2022 Domenico Cricelli era malato: morì nell’abitazione di Montesilvano, dov’era in segreto, a maggio 2019. Secondo la Procura, i professionisti avrebbero omesso diagnosi e trattamenti terapeutici adeguati. Per il pm Gabriella De Lucia non avrebbero agito secondo quando raccomanda l’’ars medica’, avrebbero omesso la diagnosi e trattamenti terapeutici adeguati: si tratta di otto medici delle carceri di Prato e Pescara, indagati per omicidio colposo in relazione alla morte di Domenico Cricelli, pentito della ‘ndrangheta che per anni ha vissuto sotto protezione in Abruzzo, prima nel Teramano, poi a Montesilvano (Pescara) dove è deceduto a 51 anni il 13 maggio 2019. Degli otto imputati, che nel febbraio 2023 dovranno presentarsi davanti al gup di Pescara, sei avevano avuto modo di rendersi conto delle condizioni di salute del detenuto nel carcere di Pescara, due lo avevano visitato quando era in Toscana. Il giorno prima di morire, si legge nell’articolo, Cricelli aveva lasciato un biglietto, che il figlio consegnò poi alla Polizia di Pescara. in cui chiedeva di essere sottoposto ad autopsia per accertare le cause della sua morte ed eventuali responsabilità. “Una richiesta cui venne dato seguito dalla Procura di Pescara”, con il pm Salvatore Campochiaro che dispose l’autopsia. Cricelli morì per l’aggravarsi di una malattia che lo aveva colpito molti anni prima e che, a detta dei familiari “che con la loro denuncia hanno fatto scattare l’inchiesta appena conclusa con la richiesta di processo per gli otto medici, sarebbe stata sottovalutata se non addirittura trascurata”. Milano. Faccia a faccia con Bilal, il rapinatore seriale 12enne di Cesare Giuzzi e Pierpaolo Lio Corriere della Sera, 20 ottobre 2022 “Scappo perché voglio essere libero. Nessuno mi può arrestare”. Il giovane di nuovo in stazione Centrale dopo l’ennesima fuga da una comunità. Racconta del viaggio dal Marocco verso la Spagna, delle sue peregrinazioni per l’Europa e dell’ultima di una lunga serie di rapine. È partito da Fez, in Marocco, poi dal porto di Tangeri è riuscito a raggiungere l’Europa. Bilal ha viaggiato per la Spagna infilato tra il pianale e il motore di un camion. Aveva 9 anni. Racconta una storia che sembra incredibile: un anno in Spagna tra Malaga, Barcellona, Alicante, San Sebastian; poi un anno in Francia tra Parigi, Marsiglia e Tolosa, ma anche in Germania a Colonia e Francoforte, in Danimarca, in Olanda. “Lì mi hanno arrestato, mi hanno chiuso in un carcere. Ma un carcere non come in Italia, dove si può giocare alla Playstation”. L’ennesima fuga dalla comunità - Bilal è seduto sul gradone di un’aiuola della stazione Centrale. Sono le dieci di mercoledì sera. È appena arrivato da Genova con un Frecciarossa. È tornato a Milano dopo essere “evaso” per la quinta volta in otto giorni da una comunità. I carabinieri lo hanno portato meno di 24 ore prima, dopo averlo fermato proprio in Centrale per aver cercato di rubare l’orologio a un turista malese. I tagli sulle braccia - Indossa una tuta beige Puma, sotto ha una maglietta nera dei New York Yankees, ai piedi un paio di Vans. Dimostra almeno sedici anni, sul viso ha una sottile peluria. Sulle braccia i segni dei tagli che si è inferto qualche settimana fa con una bottiglia spaccata. “Ho dovuto fermarlo, è solo un ragazzino”, ricorda un connazionale che s’avvicina durante il racconto. I racconti improbabili - Fuma di continuo, fuma e offre sigarette agli altri amici marocchini (parecchio più grandi di lui) che gli stanno intorno. I capelli sono lunghi, ha delle meches bionde ormai quasi sbiadite. Bilal racconta storie che non sembrano vere, non sembrano possibili. Un bambino partito da solo dal Marocco (“I miei genitori non volevano, ma io desideravo solo l’Europa”) e sopravvissuto incredibilmente in una selva di città, notti in strada e guai. “Non dormo qui, ho una casa con alcuni amici a Rho. Volete andare?”. Il mix di lingue - Bilal dice di avere altri due appoggi a Milano. Il suo racconto è dettagliato. Potrebbe essere inventato, ma parla in modo fluente spagnolo, francese, tedesco: “Poco l’inglese”. Anzi le sue parole sono una sorta di esperanto: mischia termini di più lingue, ma in modo sempre preciso. Perché scappi? “Perché non voglio stare chiuso. Mi piace essere libero, girare. Non ho bisogno di niente”. La rapina in treno - Poi Bilal infila le mani sotto la tuta, dalle mutande sfila una mazzetta di banconote: “Non mi credete? Sono 600 euro. C’era un tizio sul treno che dormiva, glieli ho presi”. Dice che domani manderà 400 euro ai genitori a Fez, perché “tutto quello che rubo mi serve per mandare soldi a loro”. I 200 euro che restano “li spendo: mi compro le sigarette, da mangiare, i vestiti”. Su e giù per l’Italia - “La mia famiglia non vuole che rubi. Ma mio fratello più grande non aiuta la mia famiglia, mio papà ha un caffé, ma più piccolo dei vostri bar. Ha più di 50 anni, quando non riuscirà più a lavorare, come farà la mia famiglia?”. Dice di avere altri fratelli e sorelle. “Sono arrivato in Italia da tre mesi, forse quattro. Ho girato: Roma Termini, Napoli, Torino Porta Susa, Genova. Venezia Santa Lucia, bellissima”. “Cerco il mio amico Adil” - Le città hanno i nomi delle stazioni dei treni con cui si muove di continuo. A Torino lo hanno beccato con un amico dopo aver cercato di rapinare un 77enne. Il suo complice è stato arrestato, lui libero perché non imputabile. Ma non chiede di lui. La sua ossessione è Adil, 14 anni, anche lui marocchino. “Lo hanno arrestato più di un mese fa. Aiutatemi a trovarlo, è come mio fratello. Io sono qui a Milano per lui, posso pagargli l’avvocato, posso farmi mandare i soldi dai miei genitori per pagarglielo”. L’“indotto” dei furti e le amicizie - Il racconto di Bilal attraverso gli atti giudiziari è scarno, quasi indecifrabile rispetto alle parole di un ragazzo molto più sveglio della sua età. Non è chiaro se chi gli sta intorno lo faccia per affetto o se, invece, viva sull’indotto dei suoi furti. Lui ogni tanto allunga una sigaretta, oppure dallo zaino tira fuori pacchetti di patatine che distribuisce come se fosse un fratello maggiore. “La tuta l’ho presa ieri, pagata 130 euro. Vedi qui? I carabinieri me l’hanno sporcata, adesso devo comprarne una nuova”. “Nessuno mi può arrestare” - Bilal ruba, non lo nasconde. I furti commessi in questi mesi a Milano sono molti di più di quanti ricostruiti finora da polizia e carabinieri. Conosce bene i modelli degli orologi più preziosi. In via Manzoni ha tentato di sfilare un Rolex a un turista americano: “Quello era un bell’orologio, ci avrei fatto tanti soldi. Sai come mi hanno preso? Mi hanno inseguito due ragazzi in moto, mi sono venuti addosso”. È quasi strafottente quando racconta di come le forze di polizia italiane non possano fargli niente. “Mi devono lasciare andare, nessuno mi può arrestare”. Un lavoro per smettere di rubare - Poi però, quando un volontario di un’associazione si ferma a lasciargli un piatto che sembra gulash, lui accenna al futuro: “Trovatemi un lavoro, mille euro al mese. Mi bastano e non rubo più”. Bilal, sei troppo giovane per lavorare: “Ho un amico a Napoli, ha la mia età e lavora”. E la scuola? “Ci sono andato un anno, in Marocco: ho rubato una penna a un compagno, poi ho picchiato lui e l’insegnante. Ho fatto un casino”. Noi hai paura? Lo sguardo diventa fisso: “Paura, io?”. La scabbia e gli psicofarmaci - Il vociare intorno a lui si fa silenzioso. “Tutti dobbiamo morire, non si può vivere con la paura di morire”. Sul corpo ha i segni della vita in strada, chiede una pomata per curare la scabbia. Ai carabinieri hai detto che ti droghi ma in ospedale non hanno trovato tracce di stupefacenti. “Come no, prendo due pastiglie di queste al giorno. Bilal apre lo zaino e tira fuori un pezzo di blister di Rivotril, uno psicofarmaco. “Adesso quando ho finito vado a comprarne altre dieci, vado qui dietro alla Centrale”. Un caso unico - Prende un sorso di birra e le manda giù. La voce è impastata, le parole sono trascinate nella bocca. Poi si sdraia sul gradone dell’aiuola mentre intorno gli addetti dell’Amsa spazzano via un tappeto di rifiuti e bottiglie. “Lui è un caso unico - racconta il volontario, anche lui marocchino. Ne ho visti tanti in strada, mai un ragazzo così sveglio, con una storia così incredibile alle spalle”. Bilal si volta, sorride. Gli allunga una sigaretta. “Bilal va salvato” - Saresti disposto a farti aiutare? “Sì, però non voglio stare chiuso in comunità. Voglio anche essere libero di stare qui, di uscire. Questa è la mia vita”. “Bilal ha bisogno di una persona che lo guidi, che lo conquisti e conquisti la sua fiducia. Ma va salvato”, aggiunge il volontario. Con sé ha anche un borsello a tracolla: “È del mio amico che hanno arrestato con me martedì sera. Ha detto che tempo un giorno ed è fuori, devo darlo a lui”. Lo custodisce con attenzione. Com’è Milano? “Bella, ma andrò via. Sto qui solo perché voglio rivedere Adil, finché non lo liberano io lo aspetto qui”. Milano. Il corso di teatro? In carcere con i detenuti di Roberta Rampini Il Giorno, 20 ottobre 2022 È la proposta della Cooperativa sociale “Le Crisalidi”, chi si iscrive dall’esterno avrà un permesso permanente per entrare nel penitenziario. Corsi di teatro in carcere insieme ai detenuti. Succede nell’istituto di pena di Milano Bollate, all’avanguardia per il trattamento dei detenuti, ma anche per progetti che danno la possibilità a chi sta fuori, i cittadini liberi, di entrare in carcere. È il caso del ristorante InGalera, ancora oggi unico in Italia, dei mercatini di Natale aperti al pubblico dove i detenuti che lavorano nelle cooperative sociali vendono i loro manufatti, del vivaio di Cascina Bollate dove il pubblico può accedere nei giorni e orari indicati e acquistare piante e fiori. Ora la Società Cooperativa “Le Crisalidi” che dal 2020 opera all’interno del carcere con laboratori e attività teatrali per detenuti ha organizzato corsi di teatro rivolti ad un gruppo integrato di detenuti ed esterni. Ogni martedì sera nel teatro interno del carcere di Bollate, dalle 19 alle 22, si tiene il corso base incentrato su un lavoro di movimento, di testo e di improvvisazione. “Il ciclo di laboratori è già partito ma ci si può iscrivere in qualsiasi momento acquistando lezioni singoli o un pacchetto da 10 incontri, in questo caso chi si iscrive dall’esterno avrà una sorta di “permesso permanente” ad entrare in carcere per partecipare al corso”, racconta Serena Andreani che insieme a Beatrice Masi nel settembre 2021 hanno ripreso le attività teatrali con i detenuti dopo lo stop a causa della morte di Michelina Capato, attrice e regista che per prima aveva intuito il potere del teatro in carcere, per ridare vita e dignità ai detenuti. “Durante le lezioni di teatro ci si diverte, si sta insieme, si impara a stare in gruppo - aggiunge Serena - sicuramente è un’esperienza che arricchisce sia gli interni che gli esterni, che stimola il confronto, il dialogo e un continuo scambio di vita. Per chi viene da fuori è anche un modo per conoscere il carcere e magari abbattere qualche pregiudizio”. Per gli appassionati di teatro e non, interessati al corso, è necessario iscriversi inviando una mail a info@lecrisalidi.org. Intanto dopo il successo dello spettacolo “Ci avete rotto il caos” che lo scorso agosto ha portato i detenuti della Compagnia Teatrale articolo 27 - Figli di Estia anche sul palcoscenico del Castello Sforzesco di Milano, nella sala teatro del carcere si sta preparando un nuovo spettacolo, “questa volta non porteremo in scena testi di altri autori, ma parleremo di galera con storie e aneddoti di detenuti che il carcere lo hanno vissuto o lo vivono ancora oggi”. Milano. Bruno Palamara e la start-up 41 bus: “L’ho ideata perché so cos’è il carcere” di Claudia Benassai Gazzetta del Sud, 20 ottobre 2022 Il giovane imprenditore, figlio di un emigrato di Bova Marina: “Trasporto i familiari dei detenuti, come lo fu mia moglie”. Le sbarre le ha conosciute perché a 23 anni è stato arrestato per droga, e sa cosa significa davvero la parola ricominciare. Bruno Palamara, classe 1992, ha giurato che una volta varcata la soglia di quel tempo “congelato” a scontare la sua pena avrebbe fatto qualcosa per tendere una mano. Come? Piantando semi e mettendo in piedi iniziative per agevolare gli incontri fra i detenuti e i loro affetti lontani. E così nasce “41 bus”, che cambiando una vocale, fa tutta la differenza nel mondo. E oggi Bruno ricorda con occhi nuovi gli insegnamenti di papà Giuseppe, di Bova Marina, che ha sempre portato avanti la famiglia facendo l’operaio, collezionando esperienze tra estero e Nord Italia. Come molti emigrati calabresi. L’insegnamento più importante? “Che a volte per andare avanti si deve fare un passo indietro per permetterci di guardare meglio e da un’altra prospettiva in che direzione realmente si sta andando”. Chi è Bruno Palamara? “Un ragazzo come tanti che non ha niente di speciale. Forse l’unica cosa che mi contraddistingue è che mi sono sempre fissato degli obbiettivi e mi sono impegnato con tutte forze per raggiungerli. E li ho avuti anche nei momenti più difficili. In carcere la speranza è quella che ti salva e deve essere l’ultima a morire, almeno così dicono. Io ho avuto il coraggio di guardare in faccia la realtà e la situazione era quella di un carcerato di 24 anni con 2 bambini e una moglie e 3 processi da affrontare e il rischio di passare una buona parte della mia vita lì dentro. L’unica cosa intelligente da fare non è aspettare e sperare, come si dice, ma accettare la situazione e sfruttarla in qualche modo. Va dato un senso alla sofferenza”. Hai origini calabresi, da parte di tuo padre. Di dov’è tuo papà? Che rapporto hai con la Calabria? “Papà è di Bova Marina. E nella vita si è sempre dato da fare. E prima di andare a Milano ha fatto una capatina in Germania dove ha conosciuto mia madre. Ho tanti ricordi in Calabria a me cari. Non dimentico le estati passate indimenticabili della mia infanzia: il mare, i parenti e tanti cuginetti. La Calabria, per me una seconda casa, è una terra bellissima incompresa, fatta da persone brave e di cuore”. Cos’è il “41 Bus” e come nasce l’idea? “41bus.it è un servizio di supporto ai familiari dei detenuti, e al momento li aiuta a raggiungere il carcere che ospita il loro caro. A breve partirà un ulteriore servizio rivolto soprattutto alle donne e mamme dei tanti bambini figli di detenuti”. Hai giocato molto sull’ironia e sulla simpatia con lo slogan: “Non è stato mai così facile andare in carcere”. E hai dato così un’impronta familiare al progetto. Qual è stato il complimento più bello che hai ricevuto dai parenti dei detenuti? “L’obbiettivo che mi sono dato fin dall’inizio era di creare leggerezza in un contesto veramente pesante, a volte drammatico. Volevo strappare un sorriso alle tante donne e ai tanti bambini che continuamente devo entrare in carcere per trovare il proprio caro. Il complimento più bello? Siete come una famiglia, ci avete cambiato la vita”. Hai provato in prima persona la sofferenza causata dalla lontananza forzata dai tuoi cari. Sei stato recluso prima a Busto Arsizio, poi a Voghera. Per un totale di 4 anni. Come sono stati per te questi anni? Come trascorrevi le tue giornate? “Busto Arsizio poi Monza e infine Voghera dove ho passato la maggior parte della mia detenzione. Sono stati anni difficili per me ma anche soprattutto per mia moglie che da un giorno all’altro si è trovata sola con due figlie da crescere. Vedere la sofferenza dei miei cari mi uccideva. In ogni caso per me i giorni da recluso erano stranamente indaffarati: avevo obbiettivi. E quella esperienza la dovevo trasformare in vantaggio per me. Allenamenti, tanti libri e scuola”. Quanta forza ti hanno dato i tuoi figli e tua moglie? Una volta tornato a casa, alla tua terza bimba, hai dato un nome emblematico, Vittoria... “Gli affetti per un detenuto sono tutto. Sono la leva che può innescare un cambiamento. E mia moglie e i miei figli lo sono stati per me. E per questo i colloqui sono così cruciali per la rieducazione e il reinserimento. Abbiamo passato momenti in cui pensavamo di non avere più possibilità di avere un altro bambino. Ma alla fine l’abbiamo avuta. Ed è una vittoria. E mi piace pensare che se non avessi affrontato così questa esperienza sarei ancora chiuso lì dentro”. Per te il carcere è stato riabilitativo e rieducativo. Come mai non lo è per tutti? Il fenomeno dei suicidi dietro le sbarre, ad esempio... “Le rispondo facendole io una domanda questa volta. Sarei mai stato capace fisicamente, mentalmente e spiritualmente di creare 41bus.it se avessi scontato 10 -15 o 20 anni di galera? La realtà è che sono stato fortunato ad avere una seconda opportunità e non tutti hanno la fortuna di potersi riscattare. Sento molto la responsabilità di dimostrare al mondo per così dire “libero” che il detenuto non è un mostro ma che si trova recluso a causa di qualche scelta sbagliata. E fuori può essere e diventare la persona più brava del mondo. Dopo 15-20 anni da rinchiusa in quattro mura una persona da un giorno all’altro viene accompagnata all’uscita con due sacchi neri e buttato fuori... no, non penso sia riabilitativo questo”. Che messaggio ti senti di mandare a tutti i giovani? Soprattutto a chi, come te, è inciampato, e cerca la forza per rialzarsi? “I problemi e la sofferenza fanno parte della vita e bisogna trovare la forza di accettarli e poi di sfruttarli a proprio vantaggio. Ci si deve concentrare più sulle soluzioni”. Quali sono i tuoi sogni nel cassetto e i tuoi progetti? “Un mio sogno è quello di portare 41bus davanti a ogni carcere d’Italia. Ci stiamo lavorando e ci siamo quasi. A breve saremo già in altre regioni in particolar modo al Sud”. Pescara. “Il pianeta carcere al tempo del Covid-19”, convegno all’Aurum ilpescara.it, 20 ottobre 2022 Si intitola “Il pianeta carcere al tempo del Covid-19” il convegno che si terrà venerdì 21 ottobre all’Aurum, organizzato dalla professoressa Emma Altobelli, ordinaria di epidemiologia e medicina preventiva del dipartimento Mesva dell’università dell’Aquila, in collaborazione con l’ordine dei medici chirurghi e degli odontoiatri della provincia di Pescara. L’incontro, cui parteciperanno autorevoli relatori provenienti da molte regioni italiane, sarà aperto con una lettura magistrale del vice capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), Carmelo Cantone. Sarà l’occasione per fare il punto sulla pandemia da Covid-19 negli istituti penitenziari in Italia, con interventi di importanti rappresentanti della medicina penitenziaria e delle Reti Servizi Sanitari Penitenziari della Regione Abruzzo. In molti paesi dell’Unione Europea la pandemia ha colpito duramente le prigioni, ambienti chiusi, spesso insalubri e già caratterizzati da molte restrizioni. L’Italia, uno dei paesi con gli istituti più sovraffollati, la pandemia ha acuito vari problemi strutturali preesistenti. Per quanto le carceri siano spesso pensate come ambienti isolati e quindi in un certo senso protetti dall’esterno, la loro condizione di sovraffollamento cronico ha infatti comportato molte difficoltà nella gestione del virus. Verranno presentati dati epidemiologici che consentiranno riflessioni atte al possibile miglioramento organizzativo-assistenziale, focalizzando ciò che la pandemia ha maggiormente fatto emergere relativamente alle problematiche legate a una situazione di sovraffollamento delle carceri e le politiche di contenimento del contagio. Perugia. Metti una sera a cena in carcere, tutti dentro per partecipare a “Golose evasioni” perugiatoday.it, 20 ottobre 2022 La sfida di Capanne, dove diciassette detenuti allestiscono una cena gourmet nel complesso penitenziario, in una location curata in ogni dettaglio. Tutti dentro per partecipare a “Golose evasioni”: questa sera, si cena in carcere. Sta tutta in un gioco di parole e in una provocazione, la nuova sfida nel carcere di Perugia che ha ospiterà all’interno delle mura un vero e proprio ristorante in occasione della settima edizione delle “Golose Evasioni”, cena evento organizzata nell’ambito del corso di “Addetto alla cucina”. Un corso speciale quello organizzato nel laboratorio del carcere di Capanne previsto nell’ambito del progetto “Opportunità Lavorative Professionalizzanti”, finanziato dal Ministero della Giustizia e gestito dalla cooperativa sociale Frontiera Lavoro. Il corso ha previsto 200 ore di lezione ed ha offerto a 17 detenuti la possibilità di apprendere un mestiere sotto la guida di esperti chef che hanno trasmesso tutti i trucchi per diventare professionisti a 360 gradi, capaci di soddisfare le richieste dei clienti più esigenti. E delle competenze acquisite gli allievi ne daranno un saggio giovedì 20 ottobre 2022 durante la cena “Le Golose Evasioni” che si svolgerà per un pubblico pagante proprio all’interno della struttura penitenziaria. Per la realizzazione di un menu d’autore, gli allievi saranno coordinati dai docenti del corso, gli chef Catia Ciofo, Antonella Pagoni, Donatella Aquili, Daniele Guerra, Paolo Staiano, tutti nomi tra i più importanti del panorama ristorativo italiano. In cucina, per l’occasione, a sostenere l’importante brigata lo chef stellato Marco Lagrimino. Una lettura poetica dell’attrice Emanuela Faraglia darà il via alla cena. Che avrà un menu e una carta dei vini che non hanno nulla da invidiare ai locali più celebri di Perugia. Cuochi e camerieri, istruiti e guidati in sala da Antonio Libonati, maître professionista dalla lunga carriera nella ristorazione di alto livello, che affronteranno questa nuova sfida con entusiasmo: “Qui si lavora con persone che hanno commesso degli errori e che stanno portando avanti un percorso di reinserimento, a cui bisogna insegnare tutto. Ma hanno molta umiltà e grande voglia di imparare”, spiega lo chef Daniele Guerra. “Tutti i dettagli della serata sono stati curati con la massima attenzione, prosegue lo chef, e per me è stata una bellissima esperienza partecipare a questa bella avventura”. Tavoli eleganti, tovaglie raffinate, candele accese, piatti di porcellana, sottopiatti, bicchieri di vetro e posateria di alta qualità. E la cura per il dettaglio arriva fino al piatto. Per Federico, 24 anni, uno degli allievi, una delle soddisfazioni più grandi è “sapere che il cliente gradisce non solo il cibo, ma anche la preparazione”. “Peso morto”, il docufilm su uno dei più gravi errori giudiziari di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 20 ottobre 2022 La storia di Angelo Massaro nel documentario dell’associazione Errorigiudiziari.com. Ventuno lunghissimi anni in carcere. Tanti ne sono trascorsi prima che Angelo Massaro venisse riconosciuto innocente per un delitto mai commesso. Quello che lo ha visto protagonista è uno degli errori giudiziari più clamorosi nella storia dell’Italia repubblicana. Un’odissea umana che rivive attraverso un viaggio fisico ed emozionale nei luoghi che hanno fatto da cornice alla sua ingiusta detenzione, al fianco di figure chiave della sua incredibile vicenda. Parliamo del docufilm “Peso morto”, scritto e prodotto i giornalisti Valentino Maimone e Benedetto Lattanzi con la loro associazione Errorigiudiziari.com. Dopo la fortunata esperienza con “Non voltarti indietro” (il primo docufilm sul fenomeno delle ingiuste detenzioni in Italia, menzione speciale ai Nastri d’Argento 2017), l’associazione Errorigiudiziari.com torna sul tema degli innocenti in manette. L’opera è stata presentata in anteprima mondiale il 18 settembre a Milano, nell’ambito del Festival internazionale del documentario ‘Visioni dal mondo’, ed è stato un successo: quattro minuti di applausi al termine della proiezione, seguita dal pubblico che ha riempito la sala in un silenzio partecipe, commosso, addolorato, indignato. Da poco proiettata anche al Matera Film Festival, ha appena intrapreso un percorso che la porterà nelle prossime settimane a toccare diverse località italiane (tra cui Roma, Lecce, Parma, Modena) tra festival cinematografici, proiezioni in università e altri eventi. Come detto, è la storia giudiziaria e umana di Angelo Massaro (21 anni in carcere da innocente per un omicidio mai commesso, per colpa di un’intercettazione trascritta male e interpretata peggio), vittima di uno degli errori giudiziari più gravi della storia italiana. Come già raccontato sulle pagine de Il Dubbio, lo hanno arrestato, processato e condannato per tre gradi di giudizio per un reato che non ha mai commesso: l’omicidio di un suo amico. A febbraio del 2017, dopo aver ottenuto la revisione del processo, i giudici di Catanzaro lo hanno riconosciuto innocente. Ma prima ha trascorso la metà degli anni che ha dietro le sbarre. La sua giovinezza l’ha passata a scontare una condanna per aver ammazzato Lorenzo Fersurella, ucciso il 22 ottobre 1995 in Puglia. Ne avrebbe dovuti scontare 24 di anni in cella, tre anni in più rispetto a quelli messi per riconoscere la propria innocenza. E tutti quegli anni in carcere li ha passati per una telefonata male interpretata dagli inquirenti. Per una consonante: gli investigatori che lo hanno intercettato hanno appuntato “muert”, che in pugliese vuol dire morto, al posto di “muers”, che significa, invece, oggetto ingombrante. Il caso si è riaperto solo nel 2012, dopo una lunga battaglia da parte del suo legale, Salvatore Maggio. La Corte d’appello di Potenza aveva infatti negato la revisione del processo, poi concessa dalla Cassazione nel 2015. Il processo è quindi finito in Calabria, a Catanzaro, che ha ordinato l’apertura della cella dopo 21 anni trascorsi lì da innocente. “Lo stesso procuratore generale di Catanzaro ha criticato la sentenza, definendola piena zeppa di errori”, ha raccontato Massaro a Simona Musco su Il Dubbio. Il docufilm scritto dai giornalisti di Errorigiudiziari.com è diretto dal regista Francesco Del Grosso, il quale è riuscito a raccontare con eleganza, realismo e grande sensibilità, il prisma di sentimenti vissuti da Angelo Massaro: la rabbia, la frustrazione, la determinazione, il coraggio con cui ha resistito al dolore e alla sofferenza per una condanna assurda e ingiusta, che gli ha tolto ventuno anni di vita che nessuno potrà mai ridargli; la gioia e la rinascita dopo l’assoluzione che gli ha permesso di tornare dalla sua famiglia iniziando a costruire insieme una nuova quotidianità; l’orgoglio e la lotta contro i pregiudizi di coloro che continuano a fargli scontare il fatto di essere stato in carcere. La lezione di Anna Politkovskaja. Chiamare le cose con il loro nome di Vera Politkovskaja Corriere della Sera, 20 ottobre 2022 Uscirà a gennaio per Rizzoli il libro della figlia della giornalista russa assassinata nell’ottobre del 2006. “Mia madre ha considerato la sua morte possibile come il prezzo da pagare per la scelta di vita che aveva fatto”. Sono passati sedici anni dall’omicidio di mia madre, la giornalista Anna Politkovskaja. Mia madre è sempre stata vista come una persona scomoda non soltanto dalle autorità russe ma anche da quanti, tra le persone comuni, semplicemente aprono i giornali e leggono gli articoli. Perché la maggioranza della popolazione russa crede purtroppo a tutto quello che viene diffuso dagli schermi dei canali di Stato, un mondo virtuale creato dalla propaganda dove, tutto sommato, ogni cosa pare andare bene. Mentre i problemi che vengono segnalati periodicamente alla popolazione sono soltanto i problemi imputabili invece per gran parte ai Paesi occidentali o, come si usa dire in Russia con un sorrisetto, “all’Occidente in decomposizione”. Nei suoi articoli mia mamma non parlava mai di cose piacevoli; quasi sempre, il suo ruolo era quello di portatrice di cattive notizie. Diceva la verità, nuda e cruda, sui soldati, sui banditi, sulla gente comune finita nel tritacarne della guerra. Parlava di dolore, sangue, morte, corpi lacerati e destini infranti. Ho cominciato a vivere con il pensiero che un giorno, prima o poi, mia madre avrebbe potuto non esserci più, molto tempo prima che venisse uccisa. “Vivere con il pensiero” non è però l’espressione più corretta. Meglio forse dire che, semplicemente, vivevo, come se la nostra famiglia fosse la più ordinaria del mondo, come se la vita che conducevamo fosse tra le più normali. E, in effetti, fino a un certo punto lo era, sebbene mia madre abbia sempre saputo che la sua sarebbe stata una fine violenta. Tuttavia, la guardava da una prospettiva puramente pratica, addirittura ci scherzava su e, comunque, ne parlava sempre con calma. Era una donna pragmatica, ed era spaventata dalla morte solo nella misura in cui l’avrebbe potuta cogliere all’improvviso, troppo presto, in un momento magari in cui noi, i suoi figli, non ci eravamo ancora “alzati in piedi”, non ci eravamo ancora stabilizzati e sistemati nella vita. Con lei però non abbiamo mai parlato della sofferenza che può provocare la perdita dei propri cari, o del suo stesso possibile destino. Nessun discorso pomposo e lacrimoso, nessune mani torte, anche perché con lei sarebbe stato inutile: con lei, l’unica possibile linea d’azione era guardare a testa alta e dritto in faccia il proprio destino. Eppure, nonostante tutto, non abbiamo potuto evitare l’effetto sorpresa, quando è successo: è stata uccisa nel momento in cui meno me l’aspettavo. Il fatto è che mia madre non si è mai nascosta da nessuno, non ha mai smesso di lavorare, di aiutare le persone; ha sempre considerato la sua morte possibile come il prezzo da pagare per la scelta di vita che aveva fatto e per il percorso professionale che stava percorrendo. Il 7 ottobre 2006, il giorno in cui mia madre è stata uccisa, avevo ventisei anni e mi stavo preparando a diventare madre a mia volta. Fino a quel momento avevo voluto credere che la popolarità di Anna Politkovskaja in Occidente potesse in qualche modo proteggerla dagli eventuali rischi, da una morte violenta. Mi sbagliavo. I dittatori hanno bisogno di sacrificare persone per consolidare il proprio potere. L’unico modo per proteggere la libertà è combattere la menzogna e dire la verità. In Russia la libertà manca. Ho deciso di scrivere questo libro per ricordare la lezione che mia madre ci ha lasciato: chiamare sempre tutti con il proprio nome, compresi i dittatori. Alla Buchmesse il progetto nato in Italia - Sedici anni fa, il 7 ottobre 2006, la giornalista russa Anna Politkovskaja fu assassinata davanti alla porta di casa. Per la prima volta, la figlia Vera, oggi 42enne, fuggita dalla Russia e residente in una località sicura con la famiglia, ha scelto di raccontare la vita e le battaglie per la libertà della madre e il suo dissenso per la politica di Vladimir Putin. Lo farà in un libro, Mia madre l’avrebbe chiamata guerra, scritto con la giornalista Sara Giudice, che uscirà a gennaio per Rizzoli e di cui Vera Politkovskaja racconta la genesi nel documento che pubblichiamo qui sopra. Come ha annunciato Rizzoli, alla Fiera di Francoforte le offerte per l’acquisizione dei diritti internazionali del volume sono giunte da molti Paesi di tutto il mondo: un progetto nato dall’editore italiano che sta ottenendo un grande interesse internazionale. Spiega Massimo Turchetta, direttore generale e publisher di Rizzoli: “La vocazione di Rizzoli è sempre stata per la saggistica internazionale, abbiamo acquisito anche l’autobiografia di Angela Merkel che è un po’ il libro della Fiera di quest’anno. La cosa interessante è che un libro come quello di Vera Politkovskaja è un progetto che parte dall’Italia, in Rizzoli, e ha suscitato interesse in tutto il mondo. Esiste un territorio di progetti di livello mondiale che finora gli italiani hanno battuto solo in parte: ci sono personalità di grande rilievo che sono di enorme interesse per il pubblico internazionale. Gli editori italiani devono esplorare un mercato che copre tutto il mondo, dal Giappone alla Terra del Fuoco”. Cita l’esempio di un altro progetto nato in Rizzoli e che alla Fiera di Francoforte ha ottenuto successo, il libro Fratelli, di Santo Versace. E spiega che molto è cambiato in questi anni di pandemia: “La Fiera è una comunità che si ritrova, dopo gli anni del Covid, e quello editoriale è un mondo in cui ancora il rapporto personale ha una rilevanza estrema. Lo ha ancora di più visti i tempi che stiamo vivendo, la pandemia, la guerra, e che hanno cambiato il senso del ritrovarsi”. E conclude Turchetta spiegando il senso di questa visione globale dalle prospettive nuove: “Fare editoria, oggi, significa vedere il mondo in modo più empatico”. (ida bozzi) Il memoir - Vera Politkovskaja, oggi 42 enne; aveva 26 anni quando sua madre Anna, giornalista della “Novaya Gazeta”, nota per il suo dissenso nei confronti di Vladimir Putin, venne uccisa sulle scale della sua casa di Mosca. Il libro Mia madre l’avrebbe chiamata guerra, di Vera Politkovskaja (in collaborazione con Sara Giudice), uscirà per Rizzoli a gennaio 2023. Racconterà la vita e le battaglie della giornalista assassinata Alla Fiera di Francoforte i diritti internazionali del libro sono stati venduti in vari Paesi del mondo. La giornalista Anna Politkovskaja (1958-2006) su “Novaja Gazeta” e nei libri espresse critiche riguardo alla politica di Putin e alla guerra cecena. Fu assassinata nel 2006 a Mosca. Tra i suoi saggi: Cecenia. Il disonore russo (Fandango, 2003), La Russia di Putin (Adelphi, 2005), Un piccolo angolo d’inferno (Rizzoli, 2008). Crimini di guerra: col nuovo governo che fine farà la commissione? di Dino G. Rinoldi* Il Dubbio, 20 ottobre 2022 Mentre lasciamo alle spalle più di due anni di complicatissima convivenza con la pandemia, del resto non ancora svanita, dallo scorso febbraio siamo alle prese con la guerra di aggressione russa alle porte dell’Unione europea, con profezie di Apocalisse e svariati appelli alla pace. Una pace purchessia non sarebbe pace vera. Opus iustitiae pax (“la pace è opera della giustizia”) era il motto del Papa al tempo di quella per ora ultima guerra mondiale che terminava la lunga guerra civile europea iniziata nel giugno 1914 con l’assassinio di Sarajevo e chiusa coi primi (per ora unici) ordigni nucleari lanciati in conflitto (agosto 1945 sul Giappone). Oggi dobbiamo saldamente sostenere: no peace without justice (“non c’è pace senza giustizia”), un po’ per usare la lingua franca internazionale corrente ma assai di più per richiamare attività e intenzioni dell’associazione transnazionale omonima, costituita nel 1994. Così, oltre a condivisibili decisioni circa l’attività di sostegno all’Ucraina pure con l’invio di armi, nel rispetto del trattato istitutivo delle NU (dove all’art. 51 si dice che “nessuna disposizione… pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso in cui abbia luogo un attacco armato” contro uno Stato membro “fintantoché il Consiglio di Sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”), il governo Draghi si è occupato anche di giustizia internazionale: di quella miglior giustizia da contrapporre a condotte belliche capaci di tradursi in crimini internazionali nel quadro di aggressione armata, genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità. Con decreto del marzo scorso la Ministra della Giustizia ha istituito una commissione di esperti che ha elaborato un progetto di “Codice dei crimini internazionali”. Lo scopo è di completare l’adeguamento italiano (oggi parziale) allo Statuto della Corte penale internazionale dell’Aia, al cui giudizio Radicali Italiani chiede con forza e da tempo la sottoposizione anzitutto del Presidente della Federazione russa quale anello iniziale della catena di comando dell’intervento militare che dal 2014 (occupazione della Crimea) ha comportato gravi violazioni del diritto internazionale, in modo tutto particolare dal 24 febbraio 2022. L’appello “Putin all’Aja” si può firmare sul nostro sito radicali.it. La bozza di Codice riguarda crimini compiuti da individui anche in forma associata. Lo si coordina con altre fonti normative sia interne (Costituzione, codice penale e di procedura penale, codici penali militari di pace e di guerra …) sia esterne (diritto internazionale pattizio: trattati; diritto internazionale generale: disposizioni consuetudinarie; principi comuni agli ordinamenti statali richiamati dall’art. 38 del regolamento della Corte internazionale di giustizia delle NU, anch’essa con sede all’Aja …) e collegate al nostro ordinamento. Lo scopo è di provvedere a indispensabili integrazioni: 1) alla legge 232/ 1999 di autorizzazione alla ratifica e di esecuzione dello Statuto di Roma del 1998, istitutivo della Corte penale internazionale, in vigore dal 2002; 2) alla legge 237/ 2012 sulla cooperazione italiana con la Corte, rimasta carente sul punto di consentire l’esercizio della giurisdizione interna sui crimini di genocidio, di aggressione, di guerra e contro l’umanità in assenza della quale è la Corte ad assumere in proprio la giurisdizione secondo il principio di complementarità (o “di sostituzione”) nel caso in cui un’azione penale nazionale in materia sia carente per inerzia di volontà o per incapacità dello Stato di perseguire il crimine (art. 17 Statuto). L’azione di codificazione svolta dalla Commissione per colmare le lacune dell’ordinamento “è un esercizio complesso… di adattamento dell’ordinamento italiano al diritto internazionale in tema di crimini internazionali, in modo da affiancare la legislazione italiana a quelle più avanzate nello sviluppo progressivo del diritto penale internazionale” : così p. 2 della relazione della Commissione. La bozza offre pure soluzioni alternative circa una stessa problematica (ad es. sulle competenze di giudici ordinari o militari) che vanno sottoposte a governo e legislatore nazionale incaricati dell’adozione del Codice. Peccato che oltre alla relazione non sia dato reperire il progetto di articoli. Probabilmente si è voluta mantenere la riservatezza, fra l’altro allo scopo di poter tradurre quella bozza, anche con modifiche congruenti, in un disegno di legge governativo da sottoporre a Camera e Senato per la trasformazione in legge ordinaria. Tuttavia il governo Draghi dimissionario ha dovuto sovrintendere a una serie di incombenze, anzitutto economiche, necessarie a non interrompere, assieme alla legislatura chiusa anticipatamente, percorsi politico- normativi già intrapresi. È così stato interrotto l’iter di approvazione del Codice di cui parliamo… e la palla passa al nuovo governo! Il morbo infuria: non solo quello (sotto controllo?) del Covid 19 ma anche quello (che può far ben maggiori danni) della guerra alle porte di casa. Il piccolo ma importante tassello italiano dell’approvazione del Codice sui crimini internazionali va adeguatamente portato a termine. *Ordinario di diritto comunitario e membro del comitato dei Radicali Italiani Migranti. Lo scandalo di Frontex, scoperchiato dal parlamento europeo di Pietro Bartolo, Pierfrancesco Majorino, Massimiliano Smeriglio Il Manifesto, 20 ottobre 2022 Il rapporto descrive infatti abusi, omissioni e comportamenti distorsivi che potrebbero essere all’origine di alcune palesi violazioni dei diritti umani avvenute in occasione di missioni di soccorso. Martedì il Parlamento europeo ha votato contro l’approvazionel del cosiddetto discarico del bilancio 2020 di Frontex, l’agenzia europea che dal 2004 si occupa del servizio di guardia di frontiera e costiera dei confini della Ue. E lo ha fatto - a fronte di gravi inadempienze nel funzionamento dell’agenzia - con 345 voti favorevoli, e la contrarietà dei gruppi Ppe (Fi), Id (Lega) e Ecr (Fratelli d’Italia). Al voto si è giunti dopo numerose sollecitazioni di molti di noi, da tempo impegnati a sottolineare la gravità del “caso Frontex”, e a fronte delle rivelazioni riguardanti il rapporto dell´Olaf - l’agenzia antifrode della Ue - da parte di Der Spiegel e altre testate internazionali. Proprio le conclusioni del rapporto descrivono infatti abusi, omissioni e comportamenti distorsivi che potrebbero essere all’origine di alcune palesi violazioni dei diritti umani avvenute in occasione di missioni di soccorso. Violazioni gravissime, finanziate con i soldi dei contribuenti europei, e accompagnate da una vera e propria opera di disinformazione perpetuata offrendo alle istituzioni comunitarie “una visione parziale della dinamica degli eventi” e dimostrando mancanza di cooperazione e riluttanza alla collaborazione. Per questo il rapporto parla esplicitamente di “infedeltà” verso l’Unione europea confermando quanto già presente in tante segnalazioni nel corso degli anni, affondando il colpo nel ventre molle di un’agenzia che rivela tutta la sua colpevole inefficacia nell’affrontare un fenomeno complesso come quello delle migrazioni. “L’aereo ha girato sopra le nostre teste più volte, ma nessuno ci ha aiutato”, racconta Samuel Abraham, sopravvissuto, dopo essere partito con un gommone dalla Libia. Samuel ha raccontato l’orrore del suo viaggio, avvenuto sotto gli occhi di Frontex che ha assistito imbelle alle ripetute violazioni dei più elementari diritti umani. Sono numerose le testimonianze circostanziate raccolte dall’agenzia simili a quelle di Samuel. Da oltre due anni, del resto, le notizie del coinvolgimento di Frontex nei respingimenti erano già evidenti e come eurodeputati avevamo già chiesto le dimissioni dell’allora direttore esecutivo dell´Agenzia, Fabrice Leggeri, che ha lasciato il suo posto poi solo ad aprile scorso. Frontex del resto è uno scandalo a lungo lautamente tutelato, con sponsor notevoli fra Capi di Stato e di Governo, come tra i membri della Commissione europea. Uno scandalo denunciato da numerose Ong e confermato dal rapporto dell’Olaf il quale rivela l’esistenza di un sistema di sostanziale impunità nei confronti della stessa Frontex. Una costellazione di comportamenti per minimizzare, nascondere e perpetuare gravi violazioni dei diritti umani e del diritto internazionale. Casi gravissimi che si verificano costantemente alle frontiere dell’Ue, funzionali a consolidare un modello di gestione dei confini europei volto a gestire l´immigrazione come un “danno da ridurre” anziché come una condizione che riguarda i destini di persone in carne ed ossa. Per chi gestisce le politiche migratorie europee c’è evidentemente convenienza nel chiudere un occhio sulla pratica diffusa e inaccettabile dei rimpatri forzati ad opera della cosiddetta “Guardia costiera libica”, nell’arrivare tardi a fronte di una richiesta di soccorso in mare, nel dissimulare le pratiche coercitive messe in atto dai vari soggetti presenti sul campo. Non solo. Questa convenienza potrebbe perfino trasformarsi da occasionale in strutturale se l’asse dei Paesi in cui governa la destra nazionalista in Europa dovesse rafforzarsi. La sensazione è che chi ha fatto campagna elettorale sul “blocco navale” difficilmente potrà indignarsi di fronte ad un respingimento, ad un abuso, a un’omissione. Ecco dunque che, al di là delle documentate violazioni dei diritti umani, le perplessità afferiscono soprattutto all’essenza delle regole d’ingaggio di un organismo le cui modalità d’intervento lasciano a dir poco perplessi. Si deve allora ripensare la sua mission, modificare gli intenti di base passando dalla “protezione delle frontiere” al salvataggio delle vite in mare - così come fanno oggi molte organizzazioni non governative. Il Parlamento ha battuto un colpo scoperchiando un sistema marcio. Da Strasburgo è arrivato un segnale politico chiaro: utilizzare la leva del “discarico di bilancio” per affrontare i problemi strutturali sollevati dallo scandalo e magari tornare a discutere di corridoi umanitari e salvataggio delle persone che ogni giorno attraversano il Mediterraneo e i nostri confini terrestri. Germania quasi alla meta, la cannabis sarà legalizzata di Sebastiano Canetta Il Manifesto, 20 ottobre 2022 Svolta antiproibizionista. Chiusa la bozza finale della norma per la “vendita controllata” che potrebbe essere presentata già a fine dicembre: ogni maggiorenne potrà acquistare e detenere fino a 20 grammi di cannabis; sarà consentita la coltivazione in casa di massimo due piante per persona. Un anno dopo la promessa elettorale il governo Scholz finalmente prepara la legge per legalizzare la cannabis. Il ministro della Sanità, Karl Lauterbach (Spd) ha appena chiuso la bozza finale della norma per la “vendita controllata” che potrebbe essere presentata già a fine dicembre. Spiccano i tre punti-chiave: ogni maggiorenne potrà acquistare e detenere fino a 20 grammi di cannabis; sarà consentita la coltivazione in casa di massimo due piante per persona; i negozi autorizzati alla vendita (il governo non ha ancora deciso se sotto forma di coffee-shop o se saranno le farmacie) dovranno essere a distanza di sicurezza dalle scuole e non potranno in alcun modo farsi pubblicità. Dal punto di vista pratico la legalizzazione verrà coordinata da tutti i ministeri federali coinvolti nella svolta antiproibizionista. A cominciare da Giustizia e Interno: il primo coinvolto per depennare il reato dal codice penale, il secondo perché la nuova legge viene varata ufficialmente per combattere il mercato nero gestito dalle narcomafie. Il ministro dell’Economia Robert Habeck (Verdi) e il collega delle Finanze, Christian Lindner (Fdp) si occuperanno invece dei dettagli relativi alla messa in commercio e conseguente tassazione, ovvero dei 2,7 miliardi di euro all’anno che si stima entreranno nelle casse pubbliche (1,5 solo di imposte) grazie ai quattro milioni di consumatori di cannabis in Germania, come da calcolo dell’Associazione tedesca della canapa. Ma in prima fila ci sarà il ministero di Lauterbach che già gestisce la cannabis terapeutica da cinque anni acquistabile dietro ricetta medica: oltre 6,5 tonnellate annue importate dalle tre aziende nazionali autorizzate. La nuova legge conterrà anche lo stop preventivo alla vendita delle “megacanne” stile Amsterdam con percentuali di Thc fuori misura. La quantità massima di tetraidrocannabinolo ammessa nel prodotto non potrà superare il 15% con l’eccezione dei giovanissimi: i consumatori di età compresa fra 18 e 21 anni dovranno limitarsi al 10% massimo di principio attivo “per prevenire i possibili danni cerebrali” spiegano al ministero della Sanità che ha sempre sede nella vecchia capitale Bonn. Mentre i minori trovati in possesso di cannabis non finiranno più davanti al giudice ma verrà sequestrata loro la sostanza e saranno obbligati a frequentare un corso di prevenzione. Del resto l’uso in Germania è conclamato: la rilevazione del Centro federale per l’educazione alla Salute restituisce il 46,4% dei tedeschi tra 18 e 25 anni e il 10,4% tra i 12 e 17 che hanno fumato almeno una canna. Nell’ottobre 2021, nel pieno delle trattative per il governo Scholz, la coalizione Semaforo veniva battezzata come “la coalizione dei fattoni” (così la Bild) eppure tra i motivi della legalizzazione della “vendita per uso ricreativo” della cannabis c’è anzitutto la lotta alla criminalità organizzata che guadagna miliardi grazie al proibizionismo. Per Berlino viene prima della seconda buona ragione: il denaro pubblico gettato inutilmente per inseguire e perseguire migliaia di cittadini colpevoli di un reato che provoca zero allarme sociale mentre ingolfa i tribunali dei 16 Land. Infine, ma non ultima, insiste la questione sanitaria, nel senso della sicurezza del consumatore costretto dal mercato nero ad acquistare sostanze mediamente di scarsa qualità. “La vendita controllata garantirà lo standard minimo come per tutti gli altri prodotti di largo consumo” ricordano nel governo. Sotto il profilo culturale, invece, la nuova legge abbatterà il tabù penale secolare: la cannabis non verrà più inserita nella tabella delle sostanze stupefacenti. “Il consumo di marjuana fatto con moderazione e in sicurezza senza essere accompagnato dal reato di acquisto illecito è qualcosa che deve essere accettato. Fa parte della società moderna” riassume il ministro Lauterbach, laureato in medicina. Colombia. La procura di Roma vuole archiviare il caso Paciolla come suicidio Francesca De Benedetti Il Domani, 20 ottobre 2022 “Siamo sconcertati”, è il commento che arriva dalla famiglia di Mario Paciolla, il 33enne napoletano che era in Colombia come operatore delle Nazioni unite in missione di pace e che è stato trovato morto il 15 luglio 2020 nel suo appartamento a San Vicente del Caguan. Dopo oltre due anni di silenzi, resi ancor più impenetrabili dalla scarsa collaborazione dell’Onu e dalla debole azione del governo italiano, ora la procura di Roma conclude le sue indagini nel modo più indigeribile per Anna Motta e Giuseppe Paciolla: chiede l’archiviazione del caso ed emette un responso che accredita la versione del suicidio. Versione alla quale chi era vicino a Paciolla non ha creduto sin dall’inizio, e che appare seriamente delegittimata dalle operazioni di depistaggio emerse dopo la morte dell’operatore Onu. Cosa dice la procura - Questo mercoledì è stata notificata la richiesta di archiviazione dell’indagine sulla morte di Paciolla. I magistrati romani avevano aperto un fascicolo per omicidio contro ignoti, e sono state effettuate anche rogatorie per raccogliere informazioni sia dalla Colombia che dall’Onu. Ma con la richiesta di chiusura del fascicolo la procura conclude che “le verifiche svolte in questi anni non hanno portato ad elementi concreti su questa ipotesi”. Per gli inquirenti la strada più accreditata resta quella del “gesto volontario”. La reazione della famiglia - Questo il commento della famiglia Paciolla: “Siamo sconcertati nell’apprendere la notizia della richiesta di archiviazione depositata dalla procura di Roma per l’omicidio di nostro figlio Mario. Noi siamo certi, anche per le indagini che abbiamo svolto, che Mario non si è tolto la vita. Ci opporremo a questa richiesta di archiviazione e ad ogni altro tentativo di inibire o intralciare la nostra pretesa di verità e giustizia”. Contro l’ipotesi del suicidio - La famiglia ha respinto da subito l’ipotesi del suicidio. “Non ci crediamo, Mario era un amante della vita”, ha sempre ribadito il papà Giuseppe. “Ma la cosa più importante è che mio figlio aveva un biglietto in tasca di ritorno in Italia per il giorno 20 da Bogotà. Il volo era un volo umanitario vista la pandemia e solo l’Onu poteva preparargli i documenti per la partenza”. Il corpo di Mario viene trovato senza vita poco prima del rientro a casa dalla famiglia, dove Paciolla voleva tornare per paura. Prima di morire, aveva riferito ai genitori di essersi scontrato coi capi missione. Durante una telefonata con la famiglia, Paciolla raccontava di aver sbottato con alcuni suoi capi; riferiva di aver parlato chiaro e di essersi “ficcato in un guaio”. “Mi vogliono fregare, mi sono ficcato in un guaio”. Da qui il volo prenotato per tornare a Napoli. Ma la morte arriva prima. “Non erano passate 24 ore dalla consegna a New York dell’ultimo rapporto della missione di verifica delle Nazioni Unite in Colombia quando uno dei tuoi colleghi ti ha trovato morto, mio amico poeta”, scriveva l’amica e giornalista colombiana Claudia Julieta Duque due anni fa. La paura che Mario Paciolla prova nei giorni che precedono la sua morte è legata a quello che succede all’interno della sua missione Onu. “Mio figlio era terrorizzato”, riferisce la madre, Anna Motta, dall’estate 2020. L’inquietudine di Mario era legata a “qualcosa che aveva visto, capito, intuito”. Luglio 2020 è tempo di pandemia, e per poter volare fino in Italia bisogna appoggiarsi a un volo umanitario, servono i documenti per la partenza “e solo l’Onu poteva prepararli a mio figlio”, come ha raccontato Giuseppe Paciolla. Questo significa anche che “solo l’Onu sapeva che Mario aveva un biglietto in tasca per tornare in Italia il 20 da Bogotà”. Dopo la morte - L’Onu ha inquadrato subito, anche nei suoi registri, la morte di Paciolla come un suicidio. All’epoca il colonnello colombiano Oscar Lamprea riferisce che “la morte è avvenuta in circostanze poco chiare”, parla di lacerazioni sui polsi. Sui media locali rimbalza l’ipotesi del suicidio per impiccagione, ma ci sono molte incongruenze. “Le autorità continuano a non fornirci informazioni ufficiali su questa morte”, scrivono all’epoca i cronisti colombiani sul posto. Due anni fa è l’Onu a comunicare alla famiglia che il ragazzo “si è suicidato”, chiede l’autorizzazione per l’autopsia, dice che all’esame prenderà parte un certo Jaime Hernan Pedraza: ai familiari viene riferito soltanto che è un medico legale autorizzato, ma non che è il capo del dipartimento medico della missione Onu. A fine luglio 2020 anche la Farnesina dice a Domani che “all’esame ha partecipato un medico di fiducia della missione”. C’è quindi una prima autopsia, in Colombia, la pratica un medico colombiano ma assiste anche il medico Onu. L’autunno seguente l’esito filtra sulla stampa colombiana: “La morte è compatibile con il suicidio”, si parla di soffocamento. Il corpo di Paciolla arriva in Italia il 24 luglio 2020, e l’autorità giudiziaria a Roma dispone un’altra autopsia. Ma in Colombia il corpo è partito ricomposto, ricucito, svuotato degli organi e riempito. Il verbale dell’autopsia colombiana arriva in Italia con insolito ritardo; passano settimane prima che a Roma si possano leggere le note di chi ha effettuato la prima analisi. Il “depistaggio” - Uno degli ultimi contatti avuti da Paciolla è stato con il responsabile sicurezza della missione, Christian Thompson, di cui Mario non si fidava più. Dopo la morte comincia “il depistaggio dell’Onu”, come lo chiama la famiglia. “Violazione di domicilio, usurpazione di funzioni pubbliche, occultamento, alterazione e distruzione di prove” sono i termini della denuncia presentata dai genitori Paciolla nel luglio 2022 alle autorità colombiane. La denuncia coinvolge anche quattro poliziotti colombiani, per quel che a Thompson lasciano fare, e un altro funzionario Onu, Juan Vásquez García, anche lui sul posto. Il posto è l’appartamento di Paciolla, dove il corpo senza vita viene ritrovato. Non è un appartamento dato in dotazione dall’Onu, sottolineano i genitori, il che rende ancor più anomala la mossa di Thompson che, nei momenti cruciali per l’accertamento della verità, “tiene le chiavi della casa in suo possesso, mantiene il controllo dell’accesso alla casa, e lo fa fino a tre giorni dopo, nonostante gli fosse stato chiesto di lasciare il luogo”, recita la denuncia. Il gesto più eclatante di depistaggio da parte di Thompson è quello di ripulire con candeggina la scena, la casa di Paciolla. Ma le anomalie sono numerose, e vanno dalle tracce cancellate ai documenti sottratti. Elementi cruciali per un’indagine non vengono acquisiti nel modo appropriato dai poliziotti sul posto. La denuncia dei genitori ricostruisce che “il materasso e altri oggetti con liquido che sembrava sangue sono stati trasferiti in un veicolo ufficiale Onu fino a una discarica, dove sono stati fatti sparire di nascosto”. Risultano tuttora scomparsi l’agenda e i quaderni dove Paciolla annotava pensieri e fatti, magari anche ciò che “aveva visto, capito, intuito” e che lo aveva sconvolto. Sono rimasti almeno i dispositivi informatici? “Per quel che sappiamo - ha detto la mamma di Paciolla - il pc e il cellulare personali li ha la procura colombiana, ma quelli di servizio li ha l’Onu”. Il mouse è stato rinvenuto, insanguinato, nella sede della missione Onu, stando alla giornalista Duque. Il ruolo dell’Onu - Le Nazioni unite, che a Domani avevano detto di garantire “piena collaborazione”, a chi è dentro il caso non sono parse affatto collaborative. Quest’estate l’avvocata dei Paciolla lo ha detto pubblicamente, mentre la Farnesina lo ha fatto intendere nelle sue risposte a Domani: è stato necessario “sollecitare i competenti organismi delle Nazioni unite a una maggiore collaborazione da parte della missione in Colombia”. Nel 2021 Thompson è stato promosso a capo nazionale del Centro operazioni di sicurezza Onu, e da qui ha assunto ancor più margine di azione, anche in relazione a una vicenda che Duque ritiene cruciale. Nell’autunno 2019 l’allora ministro della Difesa colombiano si è dimesso dopo che un senatore ha mostrato le prove di un bombardamento che ha colpito anche bambini. Dalla ricostruzione di Duque, Paciolla avrebbe lavorato ai report che lo documentavano, e “per decisione di Raul Rosende, direttore della missione in cui era impegnato Mario, alcune sezioni del report sono finite nelle mani del senatore”.