Se anche il capo delle carceri chiede meno carcere di Angela Stella Il Riformista, 1 ottobre 2022 Il carcere è una emergenza e con la nuova maggioranza politica rischia di essere dimenticato. Per questo ieri il Congresso dell’Unione camere penali italiane a Pescara si è aperto con un focus sull’esecuzione penale. Per nulla scontato l’intervento del direttore del Dap Carlo Renoldi, che ha detto: “Il carcere non è l’unica pena. Questo è un dato acquisito dal punto di vista normativo ma non dal punto di vista culturale. Non esistono sistemi che si fondano solo sul carcere. Qualunque politica penale, che pure pone al centro esigenze di tutela della collettività, non può fare a meno di un sistema di sanzioni che deve lasciare spazio a misure diverse dal carcere”. “Occorre evitare di rimanere ostaggi degli slogan e delle semplificazioni”. Il carcere è una emergenza e con la nuova maggioranza politica rischia di essere dimenticato o addirittura riportato indietro, rispetto ai passi avanti fatti da Cartabia e Renoldi. Per questo ieri il Congresso straordinario dell’Unione Camere Penali italiane in corso a Pescara è stato aperto con un focus sull’esecuzione penale. Ha esordito il Segretario dell’Unione, Eriberto Rosso: “Negli ultimi 10 mesi vi sono stati 65 suicidi. È necessario che la politica ritrovi la consapevolezza istituzionale per operare secondo Costituzione, abbandonando l’idea carcero-centrica della sanzione penale e le ostatività. Debbono essere valorizzate le forme alternative alla detenzione, il potenziamento di percorsi di reinserimento, l’ampliamento dei casi di oblazione e il ricorso a condotte riparatorie. Fondamentale è da parte del Legislatore una concreta opera di depenalizzazione. L’intervento riformatore dovrà avere ad oggetto l’intera materia dell’esecuzione penale; in questa prospettiva è necessario recuperare il prezioso lavoro svolto dagli Stati Generali dell’Esecuzione Penale promossi nel 2017”. Per l’avvocato Rosso “La custodia cautelare in carcere non può che assumere la di misura residuale, dovendosene limitare il ricorso solo alle ipotesi di gravi reati e per esigenze di cautela che non possono essere affrontate con altre modalità. La riforma della Ministra Cartabia qualche segno ha dato; quella sull’esecuzione è certamente la parte più interessante della delega, unitamente ad un nuovo approccio della direzione del DAP, ma ovviamente ciò non basta”. Anche per il professore Giovanni Fiandaca “la Ministra avrebbe potuto più attenzione normativa al carcere”. Secondo il Garante dei diritti dei detenuti siciliani “dinanzi a tale scenario politico un interrogativo che non può non incombere è ‘che vogliamo fare del carcere nell’immediato futuro’? Vogliamo attribuire al carcere la funzione retributiva o ritentare di recuperare, di rivitalizzare la funzione rieducativa? Nel dibattito preelettorale la responsabile giustizia del Pd, Anna Rossomando, ha affermato che dobbiamo restituire al carcere la sua funzione costituzionale, alludendo alla finalità rieducativa. Ma anche nel centrodestra non tutte le posizioni sono state carcerocentriche in senso forte. È vero che il responsabile giustizia di Fratelli d’Italia ha sintetizzato la loro politica criminale con l’espressione ‘siamo garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione penale’. Tuttavia ho apprezzato quanto detto da Carlo Nordio che vedrei bene come Ministro della giustizia. L’ex magistrato ha infatti detto: la destra deve rivedere il concetto di pena, il carcere deve essere extrema ratio”. Un intervento per nulla scontato è stato quello del capo del Dap Carlo Renoldi che già la Lega ha messo in bilico ma a cui tutti i penalisti hanno augurato di rimanere al suo posto con un affettuoso applauso: “Il carcere non è l’unica pena - ha evidenziato il magistrato Questo è un dato acquisito dal punto di vista normativo ma non dal punto di vista culturale. Non esistono sistemi che si fondano solo sul carcere. Qualunque politica penale, che pure pone al centro esigenze di tutela della collettività, non può fare a meno di un sistema di sanzioni che deve lasciare spazio a misure diverse dal carcere”. In tal senso “l’ultima riforma voluta dalla ministra Cartabia ha consegnato al giudice di cognizione più strumenti che gli consentono fin dalla prima fase del processo di modellare la misura sanzionatoria. Questo è un dato che caratterizza tutti gli ordinamenti ed è un dato su cui anche la nuova maggioranza dovrà fare le sue valutazioni: se il carcere resta irrinunciabile, per risolvere le problematiche dell’esecuzione occorre pensare anche alle sue alternative. Occorre evitare di rimanere ostaggi degli slogan e delle semplificazioni”. Ha concluso Rita Bernardini, Presidente Nessuno Tocchi Caino: “Con la Cartabia c’è stato un cambiamento. Prima gli interventi erano tendenti a ridurre, adesso ci sono i concorsi. Tuttavia i 50 nuovi direttori riusciranno a malapena a coprire quelli che andranno in pensione, ma ben vengano. In passato quando leggevo le circolari del Dap mi annoiavo per l’estremo linguaggio burocratico. Invece le ultime fatte, in particolare quella su maggiori numeri di telefonate a cui ho collaborato, a leggerle davvero si scopre che non si usa il linguaggio burocratico ma è vestita da riferimenti ai principi fondamentali, che purtroppo sono costantemente negati. Nella realtà di oggi la nostra esecuzione penale ha dei profili di illegalità mostruosi. I 65 suicidi dicono molto del grado di disperazione”. Renoldi: “Il carcere non è l’unica pena, la politica non può ignorarlo. Servono misure diverse” di Valentina Stella Il Dubbio, 1 ottobre 2022 Si è aperto ieri a Pescara il Congresso straordinario dell’Unione delle Camere penali che terminerà domani. Il titolo è: “La giustizia oltre il populismo”. “I penalisti sono stati l’unica opposizione sui temi della giustizia penale dopo il buio che ci avvolto dopo il congresso di Sorrento”, ha esordito Massimo Galasso, presidente della Camera penale di Pescara, riferendosi al periodo in cui Alfonso Bonafede ha guidato Via Arenula. I temi che riecheggiano nella sala del teatro Circus sono separazione delle carriere, inappellabilità delle sentenze di assoluzione, eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale. C’è ottimismo vista la maggioranza politica. E proprio oggi interverranno oltre a Gian Domenico Caiazza, i politici: Lucia Annibali, Enrico Costa, Francesco Urraro, Anna Rossomando, Andrea Delmastro delle Vedove, Francesco Paolo Sisto. Ma non tutti condividono i desiderata dei penalisti italiani, come la presidente della Corte di Appello dell’Aquila, Fabrizia Ida Francabandera: “Ho letto interviste per cui sarebbe maturo il tempo per portare a termine certe riforme. Temo una nuova stagione di conflitti”. Ma è stato il carcere il tema principale della prima giornata. Un intervento coraggioso, visto il nuovo clima politico e per gli attacchi già subìti, è stato quello del capo del Dap Renoldi: “Ringrazio l’Unione per l’invito. Ho sempre avuto considerazione per la categoria degli avvocati e per la figura dell’avvocato. Come giudice, ho sempre coltivato il dubbio e gli avvocati sono instancabili dispensatori di dubbio”. Da qui pieno “riconoscimento per il ruolo sociale ed istituzionale dell’avvocato”. Venendo al carcere il capo del Dap ha detto: “Il carcere non è l’unica pena: questo è un dato acquisito dal punto di vista normativo ma non dal punto di vista culturale. Non esistono sistemi che si fondano solo sul carcere. Qualunque politica penale, che pure pone al centro esigenze di tutela della collettività, non può fare a meno di un sistema di sanzioni che deve lasciare spazio a misure diverse dal carcere”. In tal senso, “l’ultima riforma voluta dalla ministra Cartabia ha consegnato al giudice di cognizione più strumenti che gli consentono fin dalla prima fase del processo di modellare la misura sanzionatoria. Questo è un dato che caratterizza tutti gli ordinamenti ed è un dato su cui anche la nuova maggioranza dovrà fare le sue valutazioni: se il carcere resta irrinunciabile, per risolvere le problematiche dell’esecuzione occorre pensare anche alle sue alternative. Occorre evitare di rimanere ostaggi degli slogan e delle semplificazioni”. È intervenuto poi il professore Giovanni Fiandaca, garante detenuti della Sicilia: “Dinanzi a tale scenario politico un interrogativo che non può non incombere è “che vogliamo fare del carcere nell’immediato futuro”? Vogliamo attribuire al carcere la funzione retributiva o vogliamo ritentare di recuperare, di rivitalizzare la funzione rieducativa? Nel dibattito pre elettorale la responsabile giustizia del Pd, Anna Rossomando, ha affermato che dobbiamo restituire al carcere la sua funzione costituzionale, alludendo alla finalità rieducativa. Ma voglio evidenziare che anche nel centrodestra non tutte le posizioni sono state carcerocentriche in senso forte. È vero che il responsabile giustizia di Fratelli d’Italia ha sintetizzato la loro politica criminale con l’espressione “siamo garantisti nel processo e giustizialisti nell’esecuzione penale”. Tuttavia nello stesso centrodestra ho apprezzato quanto detto da Carlo Nordio che vedrei bene come ministro della Giustizia. Egli ha espresso un orientamento vicino a quella concezione della pena costituzionalmente orientata condivisa da Rossomando. L’ex magistrato ha infatti detto: la destra deve rivedere il concetto di pena, il carcere deve essere extrema ratio”. Ha concluso la radicale Rita Bernardini: “Con Cartabia c’è stato un cambiamento. Prima gli interventi erano tendenti a ridurre, adesso ci sono i concorsi. Tuttavia i 50 nuovi direttori riusciranno a malapena a coprire quelli che andranno in pensione, ma ben vengano. In passato quando leggevo le circolari del Dap mi annoiavo per l’estremo linguaggio burocratico. Invece le ultime fatte, in particolare quella su maggiori numeri di telefonate a cui ho collaborato, a leggerle davvero si scopre che non si usa il linguaggio burocratico ma è vestita da riferimenti ai principi fondamentali, che purtroppo sono costantemente negati. Nella realtà di oggi la nostra esecuzione penale ha dei profili di illegalità mostruosi. I 65 suicidi dicono molto del grado di disperazione”. Una Commissione per costringere i partiti ad aprire gli occhi sulla tragedia carcere di Gianpaolo Catanzariti* Il Dubbio, 1 ottobre 2022 La XVIII legislatura sta per chiudere i battenti, cedendo il passo a quella nuova che, probabilmente, non eserciterà rivendicazione alcuna di eredità politiche e legislative davvero fallimentari, specie sul suo buco nero più evidente: il carcere. La drammatica “conta” dei detenuti suicidi e il suo andamento progressivo, purtroppo, rappresentano una indegna conferma. Se solo consideriamo i giorni complessivi di ciascuna delle cinque legislature che si sono succedute dal 2001 ad oggi possiamo affermare, senza ombra di dubbio, che i 1.634 giorni dell’attuale siano stati davvero giorni “orribili”. In questi 4 anni e mezzo siamo stati costretti, nel silenzio dei più, ad assistere al suicidio di 3 detenuti ogni 4 giorni (1,3 detenuti al giorno). Il più alto tra le legislature di quest’ultimo ventennio. Nemmeno durante i drammatici mesi della improvvisa pandemia il legislatore, pronto per essere archiviato, ha saputo dedicare un’adeguata attenzione al pianeta carcere. Non è un caso se proprio il carcere ha registrato, in questi ultimi anni, episodi di particolare violenza e improvvise rivolte, in numerosi istituti penitenziari, che si pensava appartenessero a un lontano passato. Eppure, nello stesso periodo, per affrontare al meglio le criticità presenti, non sono mancati momenti di studio, di approfondimento, di analisi, a tutti i livelli, anche se, come in un maledetto “gioco dell’oca”, ogni volta ci si è ritrovati, improvvisamente, al punto di partenza. Così il materiale scientifico offerto dagli Stati generali dell’esecuzione penale e il corposo documento conclusivo della commissione ministeriale presieduta dal professor Glauco Giostra, all’ultimo miglio, hanno dapprima subito una dolosa interruzione della gestazione, ad opera dell’allora ministro Andrea Orlando, quindi lo smaltimento definitivo ad opera del suo successore grillino, Alfonso Bonafede. Siamo, così, giunti all’iniziativa, sicuramente meritoria, dell’ultima (e attuale) ministra della Giustizia, la professoressa Marta Cartabia, che ha tentato di rimettere in circolo, in parte, quelle idee attraverso ulteriori commissioni ministeriali (dall’architettura penitenziaria affidata all’architetto Luca Zevi, all’innovazione penitenziaria presieduta dal professor Marco Ruotolo). Insomma, il materiale di studio e l’elaborazione scientifica non mancano. Ne abbiamo pure troppi. Se solo volessero i nostri partner europei, potremmo esportare i nostri voluminosi studi. Adesso esiste un solo obiettivo: approvare interventi di sistema in grado di mettere la parola fine all’illegalità costituzionale dell’esecuzione penale. È inutile ciurlare nel manico. Solo così possiamo davvero sperare di aggredire i nodi strutturali della crisi penitenziaria. Ma lo si può fare solo attraverso una presa di posizione politicamente condivisa. Come sostenuto dal professor Emilio Santoro in una recentissima intervista, “senza un grande atto di civiltà di tutti i partiti che dovrebbero condividere il principio costituzionale che sancisce il dovere dello Stato di non infliggere trattamenti contrari al senso di umanità, di garantire i diritti fondamentali di tutte le persone detenute e configurare una pena che miri al loro reinserimento sociale” è assolutamente impossibile proporre una grande riforma del carcere, necessaria per rinsaldare la nostra democrazia dal passo incerto. Una sorta di patto costituente tra le forze politiche presenti in Parlamento, oggi non più in campagna elettorale, come già avvenuto agli albori della nostra Repubblica. Anche allora il carcere mostrava un volto decrepito e tragico. Senza riforme, con strutture ereditate dal regime fascista, impermeabili e isolate rispetto alle vicende della società libera. Con una popolazione detentiva raddoppiata, sino ai limiti insopportabili. Sanguinose rivolte avevano percorso l’intera penisola già tormentata dagli eventi bellici. Roma (Regina Coeli), Venezia (con due morti), Milano (San Vittore), Tonino (Le Nuove) e ancora Milano (San Vittore) avevano registrato le rivendicazioni di detenuti e agenti di custodia. Lentezza dei processi, scarsezza del vitto, condizioni igienico- sanitarie indecorose. Sembra davvero di rivedere il film dei giorni nostri. E così che, proprio con la I legislatura repubblicana, venne istituita, su proposta dell’illustre giurista e deputato Piero Calamandrei, nel dicembre del 1948, una commissione parlamentare sulle “condizioni dei detenuti negli stabilimenti carcerari” composta da cinque senatori e cinque deputati. Una commissione che, all’insegna del motto turatiano dei primi del ‘ 900 “Bisogna aver visto”, avrebbe dovuto, appunto, “vedere” attraverso ispezioni a sorpresa e non preannunciate e con i più ampi poteri istruttori sul personale di polizia penitenziaria e sui reclusi, senza controlli e senza sorveglianza, mutuando proprio le parole dell’onorevole Calamandrei. Un lavoro intenso che si concluse con una lunga relazione al Parlamento in cui venivano affrontati i principali problemi del settore carcerario e prospettate specifiche soluzioni di riforma. Un lavoro di grande spessore che aveva visto coinvolta e protagonista ogni forza politica. Nessuna esclusa. Oggi come allora, abbiamo bisogno di una commissione parlamentare di indagine sul sistema penitenziario italiano. Per vedere e toccare con mano, capire e conoscere cosa sia il trattamento detentivo altalenante e a macchia di leopardo, il tempo perduto trascorso, l’ozio forzato, la convivenza asfissiante, la carenza di assistenza sanitaria e psicologica, lo strisciante e mai denunciato regime psico- farmacologico imposto, le condizioni del personale di polizia e di quello amministrativo e tanto altro. Insomma, aprire gli occhi su un mondo poco conosciuto, ma tanto abbandonato. Perché il “pubblico”, oggi come allora, “non sa abbastanza” e invece avrebbe bisogno di una corretta informazione su un tema ritenuto scabroso. Un lavoro intenso, ma concentrato in sei mesi, in grado di costituire una granitica base politica per un patto costituente sulle carceri, supportando, con riforme legislative adeguate, anche l’azione del prossimo governo, che in tanti auspichiamo più deciso sulla questione. Forse proprio così si potrà offrire una diversa sensibilità al cosiddetto mondo degli uomini liberi, ovvero al mondo, secondo la definizione dell’azionista- socialista Vittorio Foa, “degli uomini che presumono di giudicare del loro prossimo e che sono subito costretti a chiudere disgustati gli occhi sul frutto delle loro malefatte che chiamano giudizi”. *Responsabile Osservatorio Carcere Ucpi Carceri, in Italia sale il numero dei suicidi. 65 nel 2022 di Chiara D’Incà triesteallnews.it, 1 ottobre 2022 “Non si ferma la strage nelle carceri italiane”. Un inizio netto, senza mezzi termini, quello della nota, firmata da diverse organizzazioni e realtà, che fa il punto su un tema estremamente delicato, ovvero i suicidi all’interno delle carceri. Dall’inizio del 2022, infatti, sono sessantacinque le persone che si sono uccise nelle proprie celle in Italia: sedici avevano tra i 20 e i 37 anni, otto avevano oltre cinquant’anni, tra loro si contano quattro donne. Una persona, ogni quattro giorni, ha infilato la testa attorno a un cappio o ha inalato il gas del fornellino; nel solo mese di agosto, una persona si è suicidata ogni due giorni. Numeri non indifferenti che segnano la fine di molte vite, probabilmente a causa della solitudine, della paura, della disperazione, dell’angoscia. “Morti di galera”, come si legge nella nota. “Persone diventate vittime di un sistema carcere mantenuto in piedi, nonostante i suoi risultati spesso fallimentari, da chi non vuole vedere e da chi non sa gestire il disagio con i giusti strumenti di una società civile, che dovrebbero essere innanzitutto medici, educatori, insegnanti” prosegue serrata la nota, sottolineando come non tutte le carceri siano uguali, ma che, comunque, “il dolore è tanto ovunque, e anche la solitudine, e la scarsa attenzione per gli affetti delle persone detenute”. Con questa nota congiunta - alla quale aderiscono Associazione (R) esistenza Anticamorra, Movimento madri doppiamente disperate, Associazione Loscarcere OdV, Happy Bridge Odv, Associazione Recidiva Zero, Associazione il Viandante, Associazione Il Coraggio, Gioco di squadra OdV, Cooperativa Sociale Overland - le organizzazioni desiderano sia denunciare “la disumanità di un sistema che non riesce ad avere attenzione e cura degli esseri umani che gli sono affidati” sia “che la società non si volti dall’altra parte (non tutta ma tanta parte lo fa). Allo stesso tempo chiediamo che sia finalmente applicato l’articolo 27 della Costituzione al secondo e al terzo comma dove si afferma che ‘l’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva e che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato’”. All’interno della nota viene richiesto che si combatta in tutti i modi l’isolamento del sistema carcere, favorendo sempre di più l’ingresso negli istituti della società civile; che le donne in carcere siano rispettate e non schiacciate in un sistema e una organizzazione prettamente maschili; che diventi realtà l’affermazione che nessuna mamma con bambino deve più stare in cella; che sia agevolata l’organizzazione di corsi e laboratori gestiti dalle associazioni di volontariato, e la vita delle carceri non finisca alle tre del pomeriggio, “come succede ancora in moltissimi istituti”; che “il sistema sanitario prenda in carico le persone e le curi come meritano” e che ci si ricordi sempre “che chi è malato gravemente non deve stare in carcere”; che vengano aumentate le ore di colloqui settimanali e liberalizzate le telefonate come accade in molti paesi d’Europa, con telefonini personali per ciascun detenuto abilitati a chiamare parenti e avvocati; che vengano assunti in misura adeguata operatori, come psicologi ed educatori, che oggi sono del tutto insufficienti; che venga “depenalizzato il consumo di sostanze stupefacenti, perché la legge attuale sulle droghe porta spesso in carcere persone che non ci dovrebbero stare”. Che venga posto un limite all’uso della custodia cautelare, “un vero e proprio abuso visto che l’Italia è il quinto Paese dell’Unione Europea con il più alto tasso di detenuti in custodia cautelare, il 31%, ovvero un detenuto ogni tre” si legge nella nota; che venga rispettato lo stesso Ordinamento penitenziario, “che a più di quarant’anni dalla sua emanazione è ancora in parte inapplicato, come ad esempio là dove parla di Consigli di aiuto sociale, che dovrebbero occuparsi del reinserimento delle persone detenute nella società e non sono mai stati istituiti”; che vengano sviluppati e rafforzati programmi per il reinserimento delle persone che escono dal carcere con le misure di comunità. Diverse richieste per portare avanti il messaggio che, in questa nota, chiude e chiarifica la volontà delle organizzazioni: “la sicurezza si raggiunge facendo prevenzione, la prevenzione si fa migliorando la qualità di vita nelle carceri”. “Al comunicato ha aderito anche la Conferenza Regionale Volontariato Giustizia del Friuli Venezia Giulia” dichiara Elisabetta Burla, Garante dei diritti dei detenuti del Comune di Trieste, “che evidenzia come nella medesima data è stata pubblicata la circolare del Dap (dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria) sul tema colloqui, telefonate e videochiamate con la quale si afferma che lo strumento della videochiamata - introdotto in via sperimentale durante l’emergenza Covid - diventerà un modo ordinario, per assicurare il diritto costituzionale di tutti gli individui a mantenere relazioni socio familiari. Questo è sicuramente un primo passo verso un’esecuzione della pena più rispondente ai dettami costituzionali ma si confida che questa, come altre riforme, possano finalmente essere approvate in via definitiva per assicurare il miglior percorso trattamentale; in modo che il tempo della pena non sia più solo un tempo sospeso ma un percorso di crescita volto a garantire un effettivo inserimento socio lavorativo” termina la Garante. FdI s’infuria, ma Battisti declassificato fa parte delle regole di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 1 ottobre 2022 Hanno declassificato Cesare Battisti da Alta Sicurezza (AS) a regime di media scurezza e subito Fratelli d’Italia, il partito di maggioranza dell’imminente governo, grida alla vergogna. La campagna elettorale però è finita, quindi non avrebbe più senso cavalcare uno scandalo che non c’è. Come prevede l’ordinamento penitenziario, ogni sei mesi andrebbe svolta una verifica su ogni detenuto recluso nel regime di alta sicurezza per valutare se abbia raggiunto i requisiti per ricevere una carcerazione più tenue. Tutto qui. Non significa restituirgli la libertà, nemmeno abbassargli la pena, ma applicare le regole penitenziarie. Una delle peculiarità delle destre, è il rispetto ferreo delle regole. Nel caso di Battisti, è avvenuto ciò. Prima di parlare della declassificazione, bisogna partire dal fatto che all’interno del carcere la popolazione detenuta è divisa tra categorie cosiddette “omogenee” in termini di pericolosità. Tutti i detenuti generalmente sono considerati di media sicurezza. Invece, per una categoria considerata maggiormente pericolosa, sono creati dei circuiti che garantiscono elevati livelli di sicurezza. Come ha ben spiegato il Garante nazionale delle persone private della libertà tramite un rapporto tematico dell’anno scorso, questi circuiti sono definiti con un atto amministrativo e non con una norma di carattere primario. La decisione di prevedere tre sotto- circuiti nasce, nel 2009, dall’esigenza, specificata nella circolare Dap 3619/ 6069, di rispondere alla eterogeneità dovuta alle differenti connotazioni di natura criminale alla base della presenza delle persone nell’allora circuito “Elevato indice di vigilanza” (Eiv), da quel momento sostituito dal circuito dell’Alta sicurezza. La previsione di ben tre sotto-circuiti, pertanto, originariamente risponde proprio all’esigenza di differenziazione, “garantendo che la popolazione carceraria sia suddivisa per categorie omogenee”, pur prevedendo che questa non si riverberi in una minore pregnanza trattamentale, ma che, al contrario, consenta di finalizzare meglio il percorso rieducativo sulla base di un’azione mirata per ciascuna categoria. In questa prospettiva, la circolare stabilisce che al sotto- circuito di Alta sicurezza 1 (As1) siano assegnate le persone detenute “appartenenti alla criminalità organizzata di tipo mafioso, nei cui confronti sia venuto meno il decreto di applicazione del regime di cui all’articolo 41- bis o. p.” ; al sotto- circuito di Alta sicurezza 2 (As2) i “soggetti imputati o condannati per delitti commessi con finalità di terrorismo, anche internazionale, o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza” ; al sotto-circuito dell’Alta sicurezza 3 (As3) le persone imputate o condannate “per i delitti previsti dal primo comma primo periodo dell’articolo 4- bis della legge 354/ 75 (ad eccezione di quanti siano detenuti per delitti commessi per finalità di terrorismo anche internazionale o di eversione dell’ordine democratico mediante il compimento di atti di violenza, ovvero per coloro che provengano dal circuito 41- bis o. p.)”. Ma veniamo al punto. Il detenuto collocato in un circuito di Alta Sicurezza può presentare alla Direzione del carcere la “richiesta di declassificazione” che significa passare ad un circuito di Media sicurezza. Fino a più di dieci anni fa, la Direzione del carcere aveva il potere di decidere sulle declassificazioni, dopo aver sentito il parere del Gruppo di Osservazione e Trattamento del carcere e dopo aver letto le informazioni assunte presso la Procura Antimafia competente sull’attualità dei collegamenti con l’organizzazione criminale di appartenenza. Queste informazioni, così come per le proroghe del regime del 41 bis, spesso risultavano nel tempo una ripetizione della formula, che “non si può escludere la persistenza dei collegamenti”. Di fronte a simili informazioni spesso sprovviste di elementi concreti, in alcuni casi le Direzioni hanno iniziato a declassificare persone che dimostravano di avere una buona condotta in carcere, nonché ruoli marginali nella commissione dei reati. Dopodiché hanno inasprito le regole. Il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, anni fa, ha deciso di togliere la competenza alle direzioni delle carceri e centralizzare le decisioni nella Direzione Generale detenuti, a Roma. Da allora, l’analisi delle informazioni - spesso ferme ad una fotografia lontana del condannato - e la conseguente mancanza di una conoscenza diretta dell’evoluzione del percorso della singola persona - che solo lo staff del carcere poteva avere - hanno reso le declassificazioni uno scoglio burocratico difficile da superare. Infatti le declassificazioni sono rarissime. Ciò crea in realtà un problema. Spesso, al rigetto delle richieste di declassificazione, si ricorre al magistrato di sorveglianza che quasi sempre respinge il ricorso con la formula: “Non soffre di limitazioni nel trattamento penitenziario”. In realtà, c’è inevitabilmente la postilla: “Salvo le eventuali “cautele” nell’applicazione di tale trattamento”. Di fatto, in AS il percorso di rieducazione è limitatissimo. Le restrizioni sono evidenti. A ciò si aggiunge - come denunciato dal Garante nazionale nel rapporto tematico già citato - che in questi regimi differenziati si determina un microcosmo detentivo, separato dal resto dell’Istituto e da ogni praticabilità di obiettivi diversi dal trascorrere il tempo, segnando oltretutto una disparità di trattamento rispetto alle altre sezioni. Il riferimento è soprattutto all’As2 dove non di rado si ritrovano ex terroristi di sinistra o anarchici assieme alle persone condannate per reati legati al radicalismo violento islamico: a volte in disparità numerica e si rischia un ulteriore isolamento visto lo scontro tra due mondi diversi. Lo abbiamo visto proprio con Battisti quando era recluso in As2 al carcere calabrese di Rossano. Il Garante, sempre riferendosi ai circuiti di AS, ha sottolineato che tutto ciò è in contrasto con la circolare che afferma: “È sempre utile ribadire che la ratio giustificatrice che impone all’Amministrazione una gestione particolarmente attenta di tali detenuti, sotto gli evidenziati profili di sicurezza attiva e passiva, non implica una differenza nel regime penitenziario in relazione ai loro diritti e doveri e alla possibilità di applicare le regole e le opportunità del trattamento penitenziario, se non quelle espressamente previste dalla normativa con riferimento alla natura del titolo di detenzione”. Essere declassificati a detenuti comuni di media sicurezza significa non rimanere perennemente nei circuiti di Alta Sicurezza che sono il deserto, significa poter lavorare fuori dalla sezione, cominciare ad intraprendere seriamente un percorso proiettato verso la libertà. E questo vale anche per un ergastolano, mafioso o ex terrorista nero o rosso che sia. Non c’entra la questione “ideologica”, nessun “soccorso rosso”, ma significa semplicemente tenere a mente gli ideali della nostra tanto evocata costituzione italiana. Molto spesso bistrattata anche da chi la indica come via maestra. Ma nessuno si occupa degli altri detenuti che attendono la declassificazione da anni e anni? di Ruggiero Capone L’Opinione, 1 ottobre 2022 Per Cesare Battisti le tempistiche, calendario alla mano, sono risultate abbastanza celeri per i tempi previsti dalla legge. Quanto dovremmo aspettare per gli altri? Partiamo dalla fine: il regime carcerario dell’ex terrorista rosso, Cesare Battisti, è stato declassificato da “alta sicurezza” a “comune”. Il provvedimento dell’Amministrazione penitenziaria sarebbe stato notificato nei giorni scorsi al diretto interessato, che dal giugno del 2021 è nella struttura circondariale di Ferrara, in una sezione d’alta sicurezza dove si trovano detenuti che hanno una condanna per reati di tipo associativo e che sono sottoposti a una sorveglianza più ristretta rispetto ai detenuti comuni. Nel parere inviato al Dap (Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria) viene segnalato che, da parte di Battisti, c’è una dissociazione dalla lotta armata, che il gruppo dove militava, i Pac (Proletari armati per il comunismo), si è disciolto e che non risulterebbero indagini in corso nei suoi confronti. Il nuovo regime carcerario non inciderà, in sostanza, sulla pena - Battisti, per la cronaca, proseguirà a scontare l’ergastolo - o sugli eventuali benefici carcerari. L’ex terrorista, trasferito a Parma, va ricordato che viene arrestato dopo 37 anni di latitanza. E nel corso degli interrogatori avvenuti nel marzo del 2019, di fronte al capo del pool antiterrorismo, avrebbe confessato gli omicidi commessi, oltre a mostrare la sua dissociazione dall’esperienza vissuta nel gruppo armato. Le reazioni non sono mancate. Alberto Torregiani, figlio del gioielliere ucciso nel 1979 dai Pac - nel corso della sparatoria lo stesso Torregiani resta ferito e perde l’uso delle gambe - ritiene “spudorato e fuori da ogni logica” aver accettato la richiesta presentata dagli avvocati di Battisti, ossia di declassare il regime carcerario. Con l’aggiunta: “Non sono d’accordo con questa decisione. Poi farà altre richieste che potrebbero venire approvate, come quella del lavoro sociale prima in carcere e poi all’esterno”. Maurizio Campagna, fratello di Andrea, agente ucciso da Battisti sempre nel 1979 a Milano, nota: “Basta che sconti la pena che gli è stata inflitta per i reati che ha commesso e per me va bene”. L’avvocato di Cesare Battisti, Davide Steccanella, sostiene invece che il provvedimento del Dap “ha posto rimedio dopo due anni a una errata classificazione della pericolosità del detenuto. Battisti era stato considerato pericoloso in quanto condannato per terrorismo, ma non è più attuale dato che l’ultimo reato commesso da Battisti risale al 1979. Questa classificazione era applicabile quando il reato di terrorismo di matrice politica, che ora non c’è più. Battisti cosa mai potrebbe fare, tornare a fare la lotta armata da solo a 40 anni di distanza? Era solo un errore di classificazione e chi vuole fare delle polemiche, lo fa in modo strumentale”. Più duro l’intervento di Andrea Delmastro Delle Vedove, responsabile Giustizia di Fratelli d’Italia: “Ultimo soccorso al terrorismo rosso. Una aberrazione! Dopo anni di latitanza, appena assaggiato il regime carcerario italiano il criminale terrorista ottiene la declassificazione a detenuto comune. Una vergogna! Ancora più una vergogna che il Dap stia prendendo questa gravissima e scellerata decisione a pochi giorni dal cambio del Governo. L’impunità del terrorismo rosso non è certamente la politica che il governo di centrodestra intende mettere in campo”. Detto ciò, la questione emerge sulla scorta della legge Gozzini, che in sostanza tratta la possibilità di graduare la pena nel corso dell’esecuzione, in modo tale da favorire il processo rieducativo del condannato. Tutto giusto, ma allora si pone la domanda: ma gli altri? Già, gli altri. Ossia i detenuti che finora non possono dire di aver goduto dell’iter ricevuto, invece, da Battisti. Parlare di casi di Serie A e di Serie B, nell’ambito di una visione garantista, è quantomeno fuori luogo. Eppure, il caso in questione rischia di avanzare delle perplessità. Soprattutto, tenendo conto di altre situazioni che, dopo anni, ancora non sono passate in esame. Mentre per Battisti le tempistiche, calendario alla mano, sono risultate abbastanza celeri per i tempi previsti dalla legge. Quanto dovremmo aspettare per gli altri? Perché invocare più carcere non serve: i rimedi sono altri, il caso del detenuto di Aversa di Angela Stella Il Riformista, 1 ottobre 2022 Dal carcere di Aversa arriva la notizia di un’aggressione, da parte di un detenuto, nei confronti di un medico e di agente della polizia penitenziaria. Il detenuto ha lanciato una sedia contro il medico e un estintore contro l’agente ferendo, per fortuna in maniera non grave, entrambi. La notizia è stata diffusa con un comunicato dall’Uspp, Unione sindacati della polizia penitenziaria. Colpisce che la notizia di questo episodio di violenza, che come tale è sicuramente un fatto allarmante, sia stata abbinata alla richiesta di misure più giustizialiste: “Niente benefici di legge”, si legge nel comunicato diffuso ieri. Ma come? Di fronte a una realtà penitenziaria che è oggettivamente al collasso, di fronte a un numero di suicidi e di atti di autolesionismo in cella impressionante, di fronte a drammi continui e a negazioni dei più elementari diritti si chiede di inasprire misure che si sono in gran parte già rivelate fallimentari? Sorprende che una simile richiesta arrivi proprio dagli agenti della polizia penitenziaria, i quali vivono anch’essi l’inferno del mondo dietro le sbarre perché di fatto lavorano negli stessi ambienti malsani e spesso inumani in cui sono reclusi i detenuti. Finora il carcere della privazione, il carcere della reclusione fine a sé stessa, il carcere del giustizialismo e del “buttiamo la chiave” ha prodotto soprattutto violenza, recidive nella commissione di reati, drammi umani. Ha davvero senso, alla luce di tali dati, proseguire su questa strada? Non sarebbe il momento di invertire la tendenza e rendere il carcere più umano, offrire ai detenuti (tutti) un percorso di reinserimento e di responsabilizzazione, fare più ampio ricorso alle misure alternative ed evitare che in cella ci finiscano persone con problemi di salute o di salute mentale? Nel comunicato del sindacato Uspp si legge: “Quanto successo (il riferimento è all’aggressione nel carcere di Aversa, ndr) dimostra l’urgenza dell’inasprimento delle pene per i reati di aggressione al personale di polizia penitenziaria. Chiediamo al Governo che tra poco si insedierà una legge che annulli i benefici di legge per i detenuti che si rendono protagonisti di aggressioni ai colleghi”. Ma una legge già c’è, già ci sono misure disciplinari o penali per chi si rende autore di aggressioni, atti di violenza, violazioni varie. Che senso ha invocare una legge per una legge che già esiste? Ah saperlo. “Non servono leggi speciali per casi speciali - commenta il garante regionale Samuele Ciambriello -, serve piuttosto progettualità”. E qualcosa in tal senso si sta facendo proprio in relazione al carcere di Aversa, che fino al 2016 era ospedale psichiatrico giudiziario ed è stato poi riconvertito in dimora di reclusione con tutte le criticità tipiche di molti istituti di pena campani tra sovraffollamento e carenza di personale sanitario ed educativo. Il primo ottobre, infatti, saranno istituite borse lavoro per trenta detenuti della dimora di reclusione affinché vengano impegnati in lavori all’interno dell’istituto di pena stesso o in corsi di formazione. Già da alcuni mesi, inoltre, otto detenuti, scelti tra quelli reclusi nella sezione dimora lavoro di Aversa in quanto ritenuti socialmente pericolosi pur avendo terminato di scontare la pena, lavorano, per alcune del giorno, nella tenuta agricola e nella mensa della Caritas, mentre altri cinque detenuti sono impiegati in un lavoro di catalogazione dei dati scritti a penna relativi ai malati di mente passati per l’ex Opg. Non vi sembra questo un modo più umano, oltre che più fedele al dettato costituzionale, con cui lo Stato può occuparsi dei detenuti? “Niente scontri con le toghe”: l’ordine che lascia in bilico Nordio e Bongiorno di Errico Novi Il Dubbio, 1 ottobre 2022 Un coro dal centrodestra: “Nella prima fase il nuovo governo non darà priorità alla Giustizia. E Meloni non vuole conflitti inutili con l’Anm”. La giustizia? Sì, certo: è una priorità, sul piano ideale. Ma se si tratta del calendario, la storia cambia. “Nei primi cento giorni ci dovremo occupare di legge di Bilancio, bollette, economia, di seguire gli sviluppi della guerra e della crisi energetica. Non è ipotizzabile il lancio di un pacchetto di riforme sulla giustizia come atto d’esordio di un governo Meloni”. Ecco: sono considerazioni che un’autorevole fonte di maggioranza preferisce esprimere in forma riservata, ma condensano idee in circolazione da giorni. In altre parole: non si può aprire un fronte sulla giustizia subito. Diventerebbe incandescente. E porterebbe via energie all’azione di governo. E quindi, tutto questo vuol dire retromarcia sulla separazione delle carriere, sul doppio Csm e sul sorteggio per eleggerne i componenti togati? Significa congelare l’auspicata (da tutto il centrodestra) legge sulla inappellabilità delle sentenze di assoluzione? Semplicemente, non ci sarà una corsa a occuparsi di temi così impegnativi. E il punto successivo è: in che modo, questa necessità di “calibrare le tempistiche”, come dice ancora la fonte interpellata dal Dubbio, potrà influire sulla scelta per il ministero della Giustizia? E qui si entra in un campo inesplorabile, o quasi. Perché persino gli interlocutori che pretendono l’anonimato preferiscono non sbilanciarsi troppo. Argomenta un altro parlamentare eletto al Senato con la maggioranza FdI-Lega-FI: “Voglio proprio vederle, le riforme della giustizia. Finché non ci saranno, non ci scommetterei. E comunque Giorgia Meloni non ha la visione che ha sempre avuto Silvio Berlusconi, in questo campo. La considera un nodo importante ma non una materia di scontro. E a chi come lei potrebbe avere la responsabilità della premiership, non farebbe certo comodo litigare un giorno sì e l’altro pure con il presidente dell’Anm”. Altra considerazione suggerita sempre dietro richiesta di anonimato: “Non c’è la volontà di rompere con la magistratura. Non in Fratelli d’Italia. L’obiettivo di qualsiasi riforma è migliorare l’efficienza della giustizia. Assicurare ai cittadini decisioni credibili. Ma qualunque soluzione, anche la separazione delle carriere in cui certamente crediamo, non può esser letta come un’arma da sferrare contro i magistrati. Nessuna volontà di rompere, né di approfittare di una loro debolezza. È una prospettiva che non interessa, in questo momento”. Si tratta di riflessioni in fondo di buonsenso. Pensare che con la guerra e le provocazioni del Cremlino che inquietano le cancellerie dell’intero occidente, con la crisi energetica che ha già pesantemente inciso sulla vita quotidiana degli italiani, il Parlamento e il governo possano disperdere forze in una contesa con le toghe, è ipotesi del tutto irreale. E si ripresenta l’interrogativo: qual è il guardasigilli più adatto, in una fase del genere? Può esserlo Carlo Nordio? O la sua storia di magistrato controcorrente può diventare un ostacolo? Possibile che la stessa presidente del Consiglio in pectore possa decidere di orientarsi su una figura diversa, per evitare che si crei un clima teso, con la magistratura, ben prima del necessario? A quest’ultimo quesito, gli interlocutori rispondono in modo vago, preferiscono glissare. Il più loquace arriva a osservare: “Nordio è una figura affidabile. Lo sarebbe anche Giulia Bongiorno”. Vero. Ma nei giorni scorsi, altre voci raccolte dal Dubbio hanno fatto notare come sia l’ex procuratore aggiunto di Venezia, sia l’avvocata rieletta con la Lega abbiano profili impegnativi, seppur per ragioni diverse. Nordio è considerato uno storico “contraltare” dell’Anm. Bongiorno ha a propria volta posizioni molto “radicali” sulle riforme della giustizia, lo ha dimostrato anche nella dialettica con Marta Cartabia. Inoltre, l’ex ministra della Pubblica amministrazione potrebbe trovare complicato coniugare un eventuale incarico alla Giustizia con i processi importanti che segue come avvocato penalista, inclusi quelli che vedono sotto accusa Matteo Salvini. In un rebus di cui per ora non si intravedono soluzioni immediate, vanno considerati altri due aspetti. Primo, che riforme di rango costituzionale come separazione delle carriere e sorteggio per il Csm potrebbero essere inserite nel più ampio progetto che ha come cardine il semipresidenzialismo. Inoltre, il ministero della Giustizia, come fa notare un altro deputato appena rieletto col centrodestra, è tra quelli sui quali il Quirinale si riserva una valutazione più incisiva. E questo è un altro motivo che giustifica la prudenza sulla partita di via Arenula. Tra le più importanti ma anche tra quelle dall’esito meno facilmente prevedibile. Anche in Italia è arrivata la “polizia predittiva” per fare sicurezza urbana di Lucilla Gatt Il Domani, 1 ottobre 2022 L’Italia si sta muovendo con applicazioni come XLAW: si tratta di un sistema tra i più avanzati al mondo per l’attività di sicurezza urbana perché si basa sullo studio della conformazione del territorio e delle dinamiche socio - urbane che lo caratterizzano, individuando le “riserve di caccia” dei criminali. In questi ultimi anni si è parlato spesso di polizia predittiva, intendendo con questa l’analisi di fenomeni criminali per prevenire i reati attraverso l’impiego dell’intelligenza artificiale. Non consiste nel punire le persone prima del reato, come suggerirebbe il film Minority Report, ma ottimizzare il lavoro della Polizia per arrivare a prevenire più efficacemente i crimini in modo da contenerli e stabilizzarli nel tempo e nello spazio. Principalmente si vuole intervenire in flagranza di reato: non prima, che sarebbe pericolosissimo, non dopo che è parzialmente inutile, ma durante. È in questa direzione che l’Italia si sta muovendo con applicazioni come XLAW: si tratta di un sistema tra i più avanzati al mondo per l’attività di sicurezza urbana perché si basa sullo studio della conformazione del territorio e delle dinamiche socio - urbane che lo caratterizzano. Il sistema attraverso sofisticate operazioni di data mining individua le c.d “riserve di caccia” che per i reati predatori sono quelle aree prescelte dai criminali che presentano alcune caratteristiche che non solo favoriscono il disegno criminoso ma facilitano il reo nel raggiungere il successo e l’impunità. I crimini predatori urbani sono tutti quegli illeciti posti in essere da soggetti che hanno bisogno di un profitto che deve essere soddisfatto in un arco temporale breve. Possono essere definiti quindi crimini professionali perché alla loro base vi è una strategia ben definita. Le caratteristiche del luogo dove i reati avvengono sono di due tipi: 1) la prima è di tipo oggettivo: presenza di prede e target appetibili; 2) la seconda è di tipo soggettivo: presenza di vie di fuga, rifugi e copertura criminale del luogo. In base a queste caratteristiche il reo stabilisce il proprio disegno criminoso nel luogo a lui più confortevole in cui agisce con sequenze regolari ed in concomitanza di fasi e operazioni che anch’esse regolarmente fanno parte della vita cittadina di tutti i giorni, come l’entrata e l’uscita dalle abitazioni, da uffici, da scuole, da mercati, dagli esercizi commerciali si pensi ad esempio all’arrivo di treni, autobus, navi da crociera e così via. Crimini e dinamiche - Se si sovrappongono i crimini a queste dinamiche, ci si accorgerà che i delitti avvengono a fasi ed operazioni regolari in concomitanza delle fasi ed operazioni regolari nel territorio. Grazie a questo metodo è possibile arrivare non solo decodificare il disegno criminoso alla base di ogni singolo illecito ma anche a percepire le singole sequenze, pertanto, attraverso un’adeguata logica di previsione, è possibile arrivare a prevedere i delitti nel tempo e nello spazio. Questo è ciò che fa XLAW, un’intelligenza artificiale dotata di un algoritmo di tipo euristico il quale sulla base d’ informazioni socio ambientali del territorio desunte dai cosiddetti open data e delle informazioni sui delitti consumati e scoperti grazie alle denunce dei cittadini o ad altre informazioni di Polizia desunte da altri tipi di attività come quella di prossimità con i cittadini e ad altre rilevazioni come quelle desunte dai media o dai social network, ricerca e scopre modelli criminali abbinando ad essi tutti quegli illeciti che in maniera ciclica e stanziale si configurano sul territorio prevendendone quindi la puntuale e precisa ricollocazione nel tempo e nello spazio. XLAW - Uno strumento rivoluzionario per fare sicurezza urbana perché in questo modo non è più il poliziotto che insegue il ladro ma il primo che limita l’azione del reo evitando i danni irreparabili che i crimini normalmente generano. XLAW è stato sperimentato con successo a Napoli, Prato, Salerno, Venezia; a Napoli i crimini predatori sono diminuiti del 22%, mentre denunce e arresti in flagranza di reato sono aumentati del 24%. Anche in altri Paesi si stanno sperimentando modelli di polizia predittiva e alcuni di essi hanno sollevato molte critiche sulla loro efficacia e correttezza etica, tuttavia l’Italia può dirsi molto avanti. Il sistema XLAW a differenza di altri modelli di Polizia Predittiva non si concentra sulla cattura del reo ma si pone come primo obiettivo la Prevenzione dei reati, compito principale delle istituzioni, prefiggendosi di spostare il costrutto strategico dell’azione di controllo da una visione riparatoria del danno ad una visione probabilistica del rischio; quindi, da una logica di rincorsa dei problemi e degli effetti che essi generano tipica della permanente emergenza, ad una che lavora sugli schemi della prevenzione. Per questi motivi il sistema non rischia di violare alcun diritto della persona, come ad esempio il diritto alla privacy, infatti, il metodo di analisi adottato non prevede la raccolta di dati personali ma solo di dati anonimi perché ciò che si intende perseguire non sono le singole azioni illecite da parte del singolo soggetto ma tutto ciò che favorisce il reato in modo da poter scardinare il disegno criminoso dietro ogni singolo delitto e ridurne la portata nel tempo e nello spazio. Mentre tutte le altre soluzioni tendono a concentrarsi sui cosiddetti Hot Spot per poter inasprire i controlli sia di soggetti che di luoghi, XLAW si focalizza sul fenomeno e sul contesto dove tra le normali attività sociali rientrano anche le attività criminali che grazie al metodo di analisi adottato possono essere svelate e pesantemente limitate. Bene l’ufficio del processo, ma noi professionisti rimaniamo inascoltati di Antonio De Notaristefani Il Domani, 1 ottobre 2022 L’architrave di qualunque riforma del processo civile è il giudizio di primo grado. È molto dubbio che le innovazioni introdotte sul tema, riesumando in larga misura quel che nel passato era fallito, possano davvero ridurne i tempi. La riforma della giustizia civile è (quasi) legge. Non viene riformato solo il processo: è un intervento di sistema, che riguarda sia il rito che l’organizzazione. Per la prima volta vi sono stanziamenti significativi, e questo aumenta la responsabilità di tutti nel cercare di farlo funzionare al meglio. Difficile dire se funzionerà, perché nessuno crede che davvero possa ridurre i tempi dei processi del 40 per cento e l’arretrato del 90 per cento in pochi anni: è semplicemente un obiettivo impossibile da raggiungere. Alcune scelte sicuramente sono utili. Lo è l’Ufficio del processo, perché fornire un supporto operativo ai magistrati potrà migliorarne la produttività, se lo sapranno utilizzare al meglio, senza scaricare la responsabilità di decidere su quei giovani collaboratori. Ed è in questa prospettiva che l’Unione Nazionale delle Camere Civili aveva proposto al Ministro Bonafede un forte potenziamento dell’Ufficio del processo sin dal settembre 2020. Egualmente condivisibili sono alcuni interventi sul rito. La nuova disciplina dell’appello ha cercato di trarre lezione dal passato: ha soppresso formalismi inutili, e forse qualche effettiva semplificazione l’ha introdotta. Anche il rinvio pregiudiziale in Corte di Cassazione, se gestito bene, potrebbe produrre benefici importati, specie nelle cause seriali. I Tribunali e le Corti sono ingolfati da migliaia di questioni su anatocismo, mutui, riflessi sui contratti della disciplina della pandemia, ecc: perché non far sapere subito a tutti cosa ne pensa la Corte? In un momento in cui si introducono sanzioni, ed anche pesanti, su chi si vede dar torto, può essere di grande aiuto capire in anticipo come è probabile che andrà a finire. Certo, così si impedisce quella dialettica tra giudici di merito e Corte di legittimità che spesso è stata determinante ai fini del progredire di tutele e diritti; ma bisogna prendere atto che questa è una riforma dettata da esigenze e pressioni di carattere economico, non da un desiderio di equità e giustizia. Con le sanzioni, si apre il capitolo delle note dolenti. È da sottoscrivere senza alcuna riserva - e così si smentisce una volta per tutte la tesi secondo cui gli avvocati sarebbero contrari alla riforma per ragioni corporative - l’affermazione, sul punto, del Consiglio Superiore della Magistratura, secondo cui è ingiusto prevedere che qualcuno possa essere multato per il solo fatto che abbia agito in giudizio, persino quanto non vi sia né mala fede né colpa grave. Si confida che la Corte costituzionale elimini rapidamente un’ingiustizia del genere: l’art. 24 della Costituzione costituisce un vincolo anche per il Legislatore. il giudizio di primo grado - L’architrave di qualunque riforma del processo civile è il giudizio di primo grado. È molto dubbio che le innovazioni introdotte sul tema, riesumando in larga misura quel che nel passato era fallito, possano davvero ridurne i tempi, seppur in minima parte: tutti concordano sul fatto che quei tempi dipendono dal numero di coloro che decidono, e non dal rito. È invece sicuro che la nuova disciplina prevede oneri estremamente gravosi per tutte le parti, e ritmi eccessivamente penalizzanti per il convenuto. Insomma: in questo modo, si rischia di pregiudicare i cittadini senza rendere i processi di primo grado più rapidi. Obiezioni simili sono state esposte più e o meno da tutti, a partire dal CSM per finire all’Associazione degli Studiosi del processo e all’Avvocatura: con rammarico si deve constatare che non sono state prese in considerazione. Non è condivisibile l’ambiguità della formulazione di alcune norme in tema di chiarezza e sinteticità, che si ripetono con insistenza un po’ ossessiva: c’è il rischio che qualcuno ne faccia cattivo uso, e che si soffermi su aspetti di forma piuttosto che decidere chi ha ragione e chi ha torto. Rispetto ai metodi alternativi di risoluzione delle controversie (ADR), bene la previsione degli incentivi fiscali: ma perché riservarli soltanto alla mediazione, senza lasciare ai cittadini la possibilità di operare una scelta usufruendo dello stesso trattamento fiscale? In conclusione, sicuramente bisogna mostrare apprezzamento per lo stanziamento di risorse, e per quel di buono che è stato fatto, che è importante; spiace però che su alcune scelte fondamentali non si sia tenuto conto dei suggerimenti concordi di tutti coloro che si occupano professionalmente del processo. La riforma diventerà pienamente operativa in tutti i suoi profili soltanto a partire dal 30 giugno 2023: bisogna sperare, perciò, che prima di quella data venga prestato ascolto a quelle voci unanimi che si levano da più parti. Ascoli Piceno. “Il carcere del Marino? Una morte civile” di Peppe Ercoli Il Resto del Carlino, 1 ottobre 2022 Visita di Nessuno tocchi Caino e della Camera Penale: “Un’unica direttrice per Ascoli e Fermo che viene in città due volte a settimana”. “Essere detenuti nel carcere di Ascoli equivale a una morte civile: non ci sono attività, gli spazio sono angusti, l’igiene è scarsa e c’è un direttore a mezzo servizio”. E’ il quadro emerso giovedì dopo che una delegazione dell’associazione ‘Nessuno tocchi Caino’ e degli avvocati della Camera Penale Ugo Palermi di Ascoli ha visitato l’istituto di pena di Marino, discutendone poi in un incontro sul tema ‘Carceri, misure alternative per contenere la recidiva’, moderato dall’avvocato Rita Occhiochiuso. Nel carcere di Ascoli che ospita un centinaio di detenuti la situazione “è allarmante”. “Col nuovo governo avremo molto da fare ma non ci perderemo di coraggio; quel coraggio, però, che viene a mancare quando si visitano strutture come quella di Ascoli - ha detto Rita Bernardini, presidente di ‘Nessuno Tocchi Caino’-. Non c’è un direttore titolare; la direttrice viene due volte a settimana, per il resto sta nel carcere di Fermo, che dirige. Così non può svolgere bene il suo lavoro né a Fermo né ad Ascoli”. Tra i problemi rilevati quello del lavoro che non c’è. “Ad Ascoli è la morte civile e non solo perché solo quest’anno ci sono stati 5 suicidi: non ci sono attività, nemmeno la scuola e non mi era mai capitato di entrare in un carcere dove non ci fosse nemmeno un corso di alfabetizzazione” ha accusato Bernardini. “Ci sono i lavori interni, ma pochi e i detenuti denunciano che le ore lavorate sono molte di più di quelle pagate. Succede un po’ in tutta Italia anche perché un carcerato piuttosto che stare in cella preferisce anche lavorare gratis, ma è ingiusto. L’unica cosa che fanno i detenuti nel carcere di Ascoli è passeggiare in un corridoio vuoto. Nell’alta sicurezza stanno chiusi in cella 20 ore al giorno, con due ore d’aria al mattino e due al pomeriggio. Stanno con le reti sopra le loro teste, una parte completamente coperta; non riescono a vedere la luce diretta dal cielo. Solo una volta a settimana possono andare al campo sportivo, più adatto a mio avviso a far pascolare le pecore, ma loro sono contenti di andarci, perché non c’è altro”. Riguardo al ruolo dei magistrati di sorveglianza il giudizio di ‘Nessuno tocchi Caino’ è severo: “Singolarmente saranno persone squisite, ma non assolvono al loro compito che è quello di far fare al detenuto un percorso individualizzato di trattamento che lo porti all’uscita e al reinserimento sociale. Eppure - ha concluso Bernardini - è dimostrato che chi ha goduto della possibilità prevista dalle norme di scontare pene alternative al carcere ha una percentuale di recidiva solo del 10% e questo deve far riflettere”. “La situazione è peggiorata: per la disperazione si soffocano legandosi al termosifone” Alla visita in carcere di giovedì c’era anche la Camera Penale di Ascoli, che ha focalizzato l’attenzione sulla situazione dell’istituto di pena e sull’assenza di pene alternative. “Non visitavo il carcere di Marino da quando c’erano i 41 bis, andai con alcuni parlamentari; dopo esserci tornato sono stato colpito in senso gravemente peggiorativo” ha detto l’avvocato Mauro Gionni, presidente della Camera Penale. “Il carcere di Ascoli consente solo di passeggiare, in una sorta di girone dantesco nella sezione “giudiziaria”. Chi sta nell’ex sezione del 41 bis, regime all’epoca di massima sicurezza, vive in un budellino con due o 4 letti con un piccolo tavolinetto, un piccolo spazio per passare, con materassi in gomma piuma che hanno molto colpito negativamente, in condizioni igieniche discutibili. Hanno un piccolo ripostiglio e un fornelletto da campeggio ma i servizi igienici non separati da dove vengono preparati i pasti” ha aggiunto Gionni. Sergio D’Elia, segretario di “Nessuno tocchi Caino” ha ricordato che “nelle celle dove c’erano Riina e Bagarella nella sezione 41 bis e ora ci sono altri detenuti. Ma nei lavori in corso non c’è idea di realizzare docce nelle celle. Di fatto, ci sono detenuti che si stanno facendo il 41 bis perché così quella sezione era stata concepita e così è rimasta. Lo Stato purtroppo ha abbandonato l’idea di un carcere che possa servire a redimere e riabilitare”. “Quello che ho osservato è allarmante” ha aggiunto l’avv. Felice Franchi, tesoriere della Camera Penale. “A Marino ci sono condizioni disastrose da un punto di vista igienico e sanitario. Detenuti che bivaccano, chi gioca a carte, nessuno impegnato in alcuna attività rieducativa. Abbiamo il dovere di far sapere quello che succede nelle carceri italiane, compreso Ascoli e ancora di più quello che succede nelle carceri minorili. Il legislatore - ha ricordato - interviene con palliativi e i magistrati non applicano le norme. Quando si parla di salute, quando un soggetto psichiatrico ha tentato più volte il suicidio va valutato se il carcere è compatibile: ma per avere una risposta passano 6 o 7 mesi e lui continua a cercare di togliersi la vita. Per la disperazione si soffocano al termosifone: pensate che volontà di morire c’è in queste persone”. Pestaggio di Achille Mestichelli: “Gli agenti avvisati dai detenuti” L’avvocato Franchi: “C’è una causa contro il ministero ma è difficile dimostrare le reponsabilità”. La delegazione di ‘Nessuno tocchi Caino’ e degli avvocati penalisti giovedì ha visitato anche la cella numero 7 del carcere di Marino dove il 13 febbraio 2015 fu pestato Achille Mestichelli, ascolano deceduto tre giorni dopo a seguito delle gravissime lesioni riportate in una lite avuta con un tunisino. Per la sua morte è stato condannato con sentenza definitiva a 10 anni Mohamed Ben Alì, tunisino di 30 anni colpevole di omicidio preterintenzionale. In primo grado fu condannato a 16 anni, pena poi ridotta a 10 dalla Corte d’Appello di Ancona che ha rimosso l’aggravante dei futili motivi; questo pronunciamento è stato confermato dalla Cassazione nel 2019. Della vicenda si sta ora occupando il tribunale civile di Ancona sollecitato dalla moglie e dal figlio di Mestichelli; assistiti dall’avvocato Felice Franchi hanno infatti citato il ministero della Giustizia, tre agenti in servizio quel giorno nel carcere di Marino e il direttore dell’epoca, chiedendo un risarcimento danni di un milione di euro. Obiettano, infatti, che la tragedia si sia consumata anche a causa di un mancato controllo degli agenti in servizio quel giorno nel carcere di Ascoli. “Durante quel pestaggio nessuno è intervenuto, nonostante ci sia una regola chiara in base alla quale gli agenti di polizia penitenziaria devono controllare le celle ogni 20 minuti. Sono stati i detenuti ad avvisare gli agenti” ha raccontato l’avvocato Franchi. “C’è una causa civile in corso contro il ministero, ma capite che è difficile dimostrare la responsabilità”. Salerno. Carcere di Fuorni, è allarme acariasi: “Detenuti e poliziotti abbandonati” di Petronilla Carillo Il Mattino, 1 ottobre 2022 È passata ormai una settimana da quando, presso il carcere di Fuorni, un detenuto ha avuto una infezione cutanea che ha costretto la direzione alla chiusura (con evacuazione) della cella in attesa di sanificazione e al trasferimento in isolamento del malcapitato. Ora, a distanza di sette giorni, sulle vicenda interviene il sindacato Sappe con una nota nella quale viene espressa “grande preoccupazione in carcere a Salerno, tra i poliziotti penitenziari e gli stessi detenuti, per un focolaio di sospetta acariasi, una dermatosi prodotta dagli acari, tra le sbarre”. Il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria esprime nella nota il proprio “sdegno” perché, “nonostante le reiterate richieste, nessun dermatologo si è ancora visto in carcere”. Per Donato Capece, segretario generale del Sappe, “la promiscuità nelle celle favorisce la diffusione delle malattie, specie quelle infettive, anche tra il personale della penitenziaria che vive e lavora, 24 ore al giorno, nella prima linea delle sezioni detentive. Se si considera che un terzo della popolazione detenuta è straniera, autorevoli consessi impegnati nella sanità in carcere, come la Simpse, hanno constatato che con il collasso di sistemi sanitari esteri e con il movimento delle persone, si riscontrano nelle carceri tassi di tubercolosi latente molto più alti rispetto alla popolazione generale”. “Se in Italia - continua Capece - tra la popolazione generale si stima un tasso di tubercolosi latenti, cioè di portatori non malati, pari al 1-2%, nelle strutture penitenziarie ne abbiamo rilevati il 25-30%, che aumentano ad oltre il 50% se consideriamo solo la popolazione straniera”. Capece ricorda come l’epatite C sia tuttora l’infezione maggiormente presente nella popolazione detenuta in Italia. Per il Sappe, dunque, “è indispensabile monitorare costantemente la questione e predisporre ogni utile intervento a tutela dei poliziotti e degli altri operatori penitenziari”. Una denuncia, quella del Sappe, in linea con il rapporto diffuso questa estate dall’associazione Antigone: in un terzo degli istituti non sono garantiti gli spazi per i detenuti. Il report, ovviamente, riguardava il peggioramento delle condizioni di vivibilità con il caldo ma - conseguenziale - è anche quello relativo alla situazione sanitaria. Secondo Antigone, nel 58% delle celle non c’è la doccia (anche se il regolamento penitenziario del 2000 prevedeva che ci fossero docce in ogni camera entro il 20 settembre 2005) e nel 44,4% degli istituti ci sono celle con schermature alle finestre che impediscono il passaggio di aria, cosa questa che favorisce anche la più semplice trasmissione delle infezioni. Saluzzo (Cn). Il carcere è teatro, biscottificio, orto. Così il “Morandi” dialoga con la città di Amedea Franco La Stampa, 1 ottobre 2022 Un gigantesco televisore vintage occupa la scena. Sullo schermo scorrono immagini di “Carosello”, scene dai film “Johnny Stecchino” e “School of mafia”. Tra uno spezzone e l’altro sul palco di un’altra grande “scatola” vanno in scena ballo, recitazione e canto con successi come “Rumore” di Raffaella Carrà o “Figli delle stelle” di Alan Sorrenti. Al termine un monologo in siciliano. Al pubblico che non ha colto il significato di tutte le parole, l’attore spiega: “Cose nostre”. Lo spettacolo, che ha come tema la mafia, è andato in scena martedì mattina nel teatro del carcere Morandi di Saluzzo, a cura dell’associazione di formazione e produzione teatrale Voci Erranti, con la regia di Marco Mucaria e Grazia Isoardi. Protagonisti una trentina di detenuti. Fra il pubblico, oltre ad amministratori, rappresentanti delle Vallette di Torino e del carcere di Genova, la direttrice Giuseppina Piscioneri, il comandante commissario Lorenzo Vanacore, Valentina Dania, referente settore Cultura della Fondazione Crc, l’ente che ha contribuito alla realizzazione dello spettacolo. E ancora la dottoressa Antonella Giordano in rappresentanza del provveditore dell’amministrazione penitenziaria del Piemonte e Bruno Mellano, garante regionale dei detenuti. Il nuovo spettacolo di Voci Erranti rientra nel progetto nazionale “Per Aspera ad Astra” promosso da Acri e sostenuto da 11 fondazioni bancarie. “Per noi oggi è un giorno di festa perché possiamo condividere questo momento con tanti amici che hanno creduto nei nostri “galeotti”. È un momento di “restituzione” alla comunità che ci ha supportati sia dal punto di vista spirituale che economico - ha esordito Grazia Isoardi -. Voci Erranti in questo carcere è entrata 20 anni fa”. “La realtà carceraria saluzzese ha un’anima creativa alla quale vanno i miei complimenti” ha detto Antonella Giordano. “Il Morandi - ha aggiunto Mellano - è tra le realtà più significative del Piemonte, e mi è particolarmente cara”. “Lo spettacolo, come sempre, è la conclusione di un percorso annuale, il cui obiettivo è fare teatro come opportunità lavorativa. L’impegno è notevole: oltre agli attori ci sono 5 tecnici luci, di cui uno è professionista esterno, e 5 scenografi”, spiega il regista. Al termine della rappresentazione un lungo applauso al talento di giovani che, sebbene abbiano preso la strada sbagliata, stanno cercando quella giusta: “Attraverso il teatro esprimo quello che non riesco a dire con le parole”, “Quando vai in scena hai sempre paura di fare brutta figura e quindi anche in cella continuo a ripetere la mia parte davanti allo specchio. Spesso le guardie, sentendomi recitare fino a tardi, controllano dallo spioncino per vedere con chi sto parlando”. Fino a domenica alle 15 e in replica alle 17 lo spettacolo sarà proposto a ingresso gratuito. Info: 3403732192 e 3939095308. E come sempre, anche quest’anno alcune rappresentazioni saranno riservate alle scolaresche: “Gli alunni entrano in carcere e interagiscono con i detenuti-attori. Sono incontri sempre molto forti” ancora il regista. Dopo lo spettacolo è seguita la visita al laboratorio dove nasce il “biscotto galeotto”. Anche questa iniziativa porta la firma di Voci Erranti: “Nel 2017 Voci Erranti diventa cooperativa sociale. I locali erano già predisposti. Quindi con l’aiuto della Fondazione Compagnia di San Paolo e di un pasticciere esterno abbiamo iniziato questa nuova avventura. Ad oggi il laboratorio ha 5 detenuti assunti, 2 con contratto a tempo indeterminato, due a determinato e uno in prova. Ci siamo aperti all’esterno grazie a punti vendita che espongono i nostri prodotti e stiamo valutando di ampliare il laboratorio. L’obiettivo è dare opportunità lavorativa, autosostenibilità” spiega Maria Andolina, capo area Educativa. Da qui anche il progetto dell’orto con due detenuti retribuiti, e i prodotti esposti a Terra Madre, “Fa la cosa giusta”, e mercato di Saluzzo, grazie al banco messo a disposizione dal Comune. Nell’orto c’è di tutto: dai lamponi, ai pomodori, a zucche giganti. Ma prima di raccogliere i frutti, sei mesi fa si è dovuto lavorare a lungo per preparare il terreno: “Era pieno di sassi e popolato da topi e conigli selvatici. Dopo aver tolto le erbacce, abbiamo preparato il terreno” spiega un detenuto-giardiniere che aggiunge: “Non ero mai entrato in un orto, non sapevo nulla di questo lavoro. Oggi ho imparato che non basta buttare il seme, bisogna prendersene cura, come si fa con i figli, giorno dopo giorno. Averne cura. Solo così si raccolgono i frutti”. “Le pene e il carcere”, di Stefano Anastasìa recensione di Francesco d’Errico Il Foglio, 1 ottobre 2022 Nella seconda metà del ‘900 gli studiosi scommettevano sulla decarcerizzazione e auspicavano una significativa umanizzazione dell’esecuzione penale. Le statistiche sugli odierni sistemi penitenziari e l’analisi della loro realtà materiale, tuttavia, conducono oggi a una conclusione opposta, quella della diffusa e tragicamente attuale mass incarceration. Le ragioni ed i fattori che hanno prodotto l’esplosione del ricorso alla privazione della libertà personale sono molteplici e, proprio per questo, vanno letti nella loro complessità, non limitandosi a una lettura giuridico-formale, che pur rappresenta un imprescindibile punto di partenza, ma ampliando la prospettiva d’indagine grazie a un approccio storico e sociologico. Questo è il metodo sposato da Stefano Anastasia (ricercatore di filosofia e sociologia del diritto all’Università di Perugia, nonché Garante dei diritti dei detenuti della regione Lazio e colonna portante dell’associazione Antigone) nel suo “Le pene e il carcere” (Mondadori, 200 pp, 15€), saggio in cui, tra le altre cose, l’autore riflette sul fenomeno dell’internamento di massa”. Per quali ragioni, dunque, dai primi anni 90, si è assistito a un aumento esponenziale delle persone recluse nel nostro paese? Quali passaggi ci hanno condotto alla quadruplicazione della domanda di controllo e di sanzione penale nell’ultimo trentennio? Due momenti chiave, due eventi fondamentali, uno di “importazione”, l’altro prettamente nostrano: le politiche della zero tolerance sbarcata da Oltreoceano e il portato nefasto di Mani pulite. Da un lato, infatti, l’ondata securitaria ha prodotto “scelte politico-normative ispirate al principio della massima severità penale” che, accompagnate “all’aggravamento delle pene di reati già esistenti” e “all’ampliamento degli illeciti penali produttrici di incarcerazione”, hanno rappresentato “un pilastro della crescita della popolazione detenuta”. Dall’altro, non a caso, Tangentopoli ha mutato profondamente la percezione comune degli istituti di clemenza: da “strumenti ordinari di governo del sistema penitenziario”, utilizzati con continuità dal legislatore e fin li assolutamente tollerati dal corpo elettorale, amnistia e indulto si sono trasformati in misure inaccettabili. D’altronde, è in quella fase che si sono affermate le “categorie della colpa e della pena come catalizzatrici delle domande di cambiamento a livello di massa”. E se il diritto penale è diventato lo strumento per combattere ogni male sociale, e il carcere la sua lugubre valvola di sfogo, solo un rigoroso rispetto dei principi garantisti può svolgere una “funzione di ecologia della politica”, per liberarla dal “fardello dell’individuazione della responsabilità penale per qualsivoglia insoddisfazione sociale diffusa”. La libertà, il voto e i giudizi sbagliati di Sabino Cassese Corriere della Sera, 1 ottobre 2022 In Italia non è a rischio la democrazia, e neanche le alleanze che ai “sovranisti” non conviene mettere in dubbio, perché così facendo danneggerebbero l’interesse nazionale. Preoccupa invece l’astensione, cresciuta repentinamente. D emocrazia e libertà non sono a rischio, in Italia, e coloro che temono attentati derivanti dalla polarizzazione asimmetrica uscita dalle elezioni (da un lato una coalizione, dall’altro frantumi) e dalla guida del governo affidata a una forza politica che ne è stata finora lontana, muovono da un giudizio errato sulla stabilità del nostro sistema politico-costituzionale. Una società abituata da tre quarti di secolo a democrazia e libertà non vi rinuncia facilmente; inoltre, non va sottovalutata la forza educatrice della democrazia e del suo indissolubile legame con il rispetto dei diritti. La Costituzione, i cui principi fondamentali sono immutabili (secondo un orientamento della Corte costituzionale che risale a molti anni fa), prevede presidi istituzionali alla partecipazione dei cittadini e al rispetto dello Stato di diritto, e contiene barriere sufficientemente alte alle sue stesse modificazioni. Il radicamento sociale di democrazia e libertà ha prodotto e produce anticorpi che consentono al sistema di autocorreggersi. La diffusione delle democrazie interne (8 mila comuni, 20 regioni, i cui vertici sono eletti) assicura un forte pluralismo istituzionale. La forza dei poteri indipendenti, che possono agire all’occorrenza da contropoteri, è indiscussa. Non dovrebbe neppure preoccupare la dis-proporzionalità prodotta dalla legge elettorale. Il numero di voti andato al centrodestra non è molto diverso da quello del 2018, e anche il centrosinistra non è molto distante dal 201 8; solo il M5S si è dimezzato. Tuttavia, secondo gli ultimi dati, la prima coalizione avrà 237 dei 400 seggi della Camera e 115 dei 200 seggi del Senato. Con il 44 per cento dei voti, avrà poco più del 59 per cento dei seggi. È un premio pari a quello previsto dalla legge del 1953, presentata da De Gasperi (anche se quest’ultima lo riconosceva alla forza politica che raggiungesse la maggioranza dei voti). Nel saliscendi della politica, quella che viene chiamata democrazia dell’alternanza — e che faceva ritenere la democrazia della cosiddetta Prima Repubblica una “uncommon democracy” perché un partito restava sempre al governo — stare all’opposizione rigenera e premia, come dimostrato dalle scelte elettorali a favore di FdI, che si è valsa anche di una leader donna e più giovane di tutti gli altri capi-partito, ma soprattutto della forza di rappresentare l’unico partito che non aveva avuto la guida del governo. Anche le dichiarazioni “sovraniste” non dovrebbero preoccupare. Le alleanze di cui lo Stato italiano fa parte sono dettate da reciproche convenienze. Se vogliamo bere birra tedesca, dobbiamo essere sicuri della sua sanità e qualità, e dobbiamo quindi affidare a una autorità europea il controllo della sicurezza degli alimenti. Se vogliamo spendere per la difesa meno della metà, rispetto al prodotto interno lordo, degli Stati Uniti, ci conviene affidare alla Nato la difesa comune. Se vogliamo esportare prodotti manufatturieri (l’Italia è il secondo Paese in Europa), abbiamo interesse ad abbattere le barriere commerciali, e quindi a fare parte dell’Organizzazione mondiale del commercio. Il “sovranismo” è mosso dalla difesa dell’interesse nazionale, ma questo si difende proprio cedendo una parte della sovranità, in alcuni campi, come fanno i membri di un condominio, che non rinunciano alla proprietà dell’abitazione, ma mettono in comune la gestione delle scale, la loro illuminazione, la retribuzione del portiere, e non hanno interesse a rinunciare ai benefici che traggono mettendo in comune beni, servizi e costi. Insomma, ai “sovranisti” non conviene mettere in dubbio le alleanze dell’Italia, perché così facendo danneggerebbero l’interesse nazionale. Infine, i “sovranisti” verbali, quelli che vorrebbero mettere il diritto italiano al di sopra di quello europeo, forse non sanno che sono anni che la Corte costituzionale italiana ha configurato la teoria dei controlimiti, per cui le norme internazionali da immettere nell’ordinamento italiano vanno rese compatibili con i principi irrinunciabili dell’ordinamento costituzionale nazionale. Il vero motivo per preoccuparsi, emerso il 25 settembre, è un altro: l’astensione. E non tanto perché è comparativamente alta (altri Paesi, come Regno Unito, Stati Uniti e Francia, registrano una partecipazione elettorale tra il 67 e il 49 per cento), quanto perché l’Italia era partita e si era mantenuta per qualche decennio ad un livello molto alto di partecipazione al voto (superiore al 90 per cento) e si era poi attestata poco al disopra del 70 per cento, con diminuzioni progressive, ma lente, mentre questa volta, a distanza di meno di cinque anni, la partecipazione al voto è diminuita repentinamente del 10 per cento circa. I significati di questa partecipazione improvvisamente tanto ridotta possono esser molti: sfiducia nella efficacia del sistema politico-costituzionale, debolezza della offerta politica dei partiti, rifiuto della formula elettorale, che lascia poca libertà di scelta, rigetto della classe politica, specialmente al Sud. La limitata partecipazione al voto non solo aumenta il distacco Stato-società e riduce il perimetro della base dei poteri pubblici, ma produce anche un effetto di rappresentatività di cui bisognerà tenere conto. Se gli aventi diritto al voto in Italia erano 46 milioni e solo circa 29 di questi ha votato, e se quelli che hanno dato il loro voto alla coalizione vincente sono poco più di 12 milioni, le forze politiche che andranno al governo dovranno tener conto che rappresentano soltanto un quarto dell’elettorato italiano. Questo ha due implicazioni. Da un lato, suggerisce una gestione temperata e dialogante del governo. Dall’altro consiglia di guardare con attenzione agli astenuti, cercando di interpretare il silenzio dei non votanti, che potrebbero divenire gli elettori di domani. Infine, questa osservazione ci riporta al punto critico della nostra democrazia, costituito dalla debolezza dei partiti e dal loro scarso radicamento sociale, con le conseguenze note della fluidità dell’elettorato, delle sue fluttuazioni, delle continue manifestazioni della sua insoddisfazione: negli ultimi decenni abbiamo visto forze politiche crescere sei volte in cinque anni, quadruplicarsi, triplicarsi, ma altrettanto rapidamente percorrere la strada opposta. Il nuovo lessico per rifondare la Sinistra di Massimo Recalcati La Repubblica, 1 ottobre 2022 Perché le sue parole sono apparse più che mai disossate, senza anima, anemiche? E da dove partire per dare un altro senso a termini come famiglia, identità, patria, che sono le parole d’ordine della Destra? Il carattere sempre più de-ideologizzato del voto è il fondamento dei grandi spostamenti elettorali verificatesi negli ultimi anni del nostro Paese. La fedeltà ad un ideale o ad una causa non esiste più. In ogni elezione viene tendenzialmente premiato chi rappresenta il nuovo, il difforme, la deviazione rispetto alla politica vissuta come un mondo separato dal mondo e moralmente degradato. Prima di Meloni è stato il turno del M5S e di Salvini e prima ancora di Renzi e di Berlusconi. Incarnare agli occhi degli italiani la dimensione immacolata dell’opposizione, dell’outsider, della critica al sistema, ottiene una fiducia fondata più sul giudizio di condanna della politica istituzionalizzata che sui contenuti del programma proposto. Con l’aggiunta che la crescente diserzione delle urne rivela chiaramente il disagio dei cittadini nei confronti di una classe politica accusata di essere del tutto indifferente alla loro sorte. In questo contesto che ho recentemente definito, in estrema sintesi, come quello dell’evaporazione della politica, cosa resta della sinistra? Perché le sue parole sono apparse più che mai disossate, senza anima, anemiche? Queste elezioni hanno mostrato innanzitutto come l’antitesi fascismo-antifascismo che aveva ispirato il conflitto politico nel nostro Paese sino al ventennio berlusconiano compreso, sia irreversibilmente tramontata. Se gli italiani hanno votato per Giorgia Meloni non significa che essi desiderino il ritorno del fascismo, ma, al contrario, che non lo considerino affatto possibile. Ne consegue che il grande collante dell’antifascismo non è più sufficiente a definire l’identità politica e culturale della sinistra. È quello che il Pd non ha compreso sino in fondo impostando tutta la campagna elettorale sulla scelta dilemmatica, anche simbolica, tra il rosso e il nero. È indubbio che le parole d’ordine della Destra (Dio, Patria e Famiglia) appaiano vincolate ad una ideologia patriarcale al tramonto. Ma è altrettanto indubbio che nei tempi di grande crisi e di smarrimento collettivo la conservazione degli ideali consolidati offre un rifugio apparentemente sicuro: difesa degli interessi nazionali, presidio dei suoi confini, tutela dell’ordine sociale. Quello che Freud ha definito una volta “nostalgia del Padre”. Ma non è solo con questa nostalgia che la Destra ha vinto le elezioni. Piuttosto con la coerenza della sua opposizione di fronte ad una sinistra che ha invece governato per lungo tempo sacrificando in questo sforzo, in più occasioni, la propria identità ideale. Ma cosa resta oggi di questa identità? Per esempio, quale idea alternativa di Dio, di Patria e di Famiglia la sinistra nutre? Quale Dio, innanzitutto? Essere di sinistra dovrebbe significare contrastare ogni forma di fanatismo compreso quello che fu storicamente e, purtroppo, continua spesso ad essere, espressione deleteria della versione più ideologica e autoritaria della sinistra stessa. Significa, per esempio, rinunciare all’idea “religiosa” di una sua superiorità morale riconoscendo piena dignità politica dei propri avversari. Ma significa soprattutto credere nella ricerca, nell’istruzione, nel pluralismo contro ogni forma idolatrica di dogmatismo. Ma perché in questa campagna elettorale non c’è stato nessun pensiero profondo da sinistra sulla scuola se non quello, tra l’altro condivisibilissimo, del tempo pieno e dell’aumento dello stipendio degli insegnanti? La prima parola di un nuovo lessico della sinistra dovrebbe essere quella di “cultura” come apertura della vita alla differenza delle lingue. E quale sarebbe poi la nostra idea di Patria? Il destino dell’Italia coincide con quello dell’Europa. I grandi problemi del lavoro e dell’ecologia, per non parlare di quelli di politica estera, vanno iscritti necessariamente in questo orizzonte. La patria non si può identificare con il suolo e con il sangue. Senza pensare all’allargamento dei nostri confini l’idea stessa di vita nazionale rischia di morire non solo politicamente, ma anche economicamente. Europa non significa però la violenza della globalizzazione, né un atlantismo passivo privo di iniziativa autonoma. È in grado la sinistra di ripensare radicalmente l’Europa come nuova patria? Infine, quale Famiglia? Nella cultura della sinistra la famiglia è innanzitutto un legame che si istituisce sul libero fondamento dell’amore. I conservatori evocano la necessità di una mamma e di un papà seguendo stereotipi retorici, ma l’esperienza clinica con le famiglie ci ricorda che per creare un legame famigliare fecondo per la crescita di un figlio la condizione eterosessuale dei genitori non è né necessaria, né sufficiente. Pensare il legame familiare da sinistra significa emanciparlo dalla logica materialistica della biologia: senza amore e senza cura non c’è ambiente familiare sufficientemente buono. Lo stesso dicasi per il grande tema dell’identità sessuale. Su questo la psicoanalisi insegna da tempo che il sesso non è solo un dato anatomico, ma una scelta inconscia del soggetto che può anche divergere dall’anatomia. Pensare la famiglia significa anche pensare più in generale il legame sociale. Qui sarebbe necessaria una profonda rettificazione lessicale: il richiamo all’accoglienza, all’inclusione e alla solidarietà senza la sicurezza e la tutela delle nostre città, è divenuta una retorica ideologica vuota e insostenibile. Allo stesso modo nessuno da sinistra, almeno in questa campagna elettorale, ha osato porre con forza la centralità di una legge sul fine vita. Battaglia di civiltà che è necessario imporre nell’agenda politica del nostro Paese. Sarebbe uno dei presupposti etici fondamentali per un nuovo lessico della sinistra: come la vita biologica non può essere l’ultima parola sulla vita della famiglia o sull’identità del sesso, allo stesso modo il respiro della vita non può essere confuso con la sopravvivenza a tutti i costi della vita. Donare la morte può essere, infatti, un modo, in una situazione di estrema sofferenza e disperazione, per rispettare la vita sino alla sua fine. Perché in Italia si continua ancora a morire di droga? di Vanessa Roghi Il Domani, 1 ottobre 2022 Se si parlasse seriamente di dipendenze, e non a mezza voce, tra risatine e stupida (stupita) sorpresa, forse le persone smetterebbero di morire. Soltanto un terzo di chi fa uso di sostanze riesce a uscirne da solo. I tentativi di aiutare gli altri sono passati dalle misure psichiatriche e coercitive alle comunità terapeutiche ai centri, con alterne fortune. Nel 1984 Daniela Costantini, allora giovane psicologa del team di Luigi Cancrini, pubblicava una serie di riflessioni su un fenomeno relativamente nuovo, almeno in Italia: quello delle comunità terapeutiche. L’espressione, tuttavia, non era nuova, almeno per chi si interessava di psichiatria: richiamava gli esperimenti messi a punto dallo psichiatra Maxwell Jones nell’Inghilterra degli anni Cinquanta. Il movimento delle “porte aperte” nei reparti dove i “malati di mente” erano stati fino ad allora reclusi, la messa a punto di una nuova concezione nella cura della malattia mentale, l’idea che per superare l’istituzionalizzazione di un soggetto, ovvero la sua definizione entro uno schema rigido fissato dall’istituzione che lo ospita, bisognasse lavorare nella comunità in cui questo soggetto si trovava a vivere e, spesso, ad ammalarsi. La comunità terapeutica, così intesa, in Italia era stata sperimentata da Franco Basaglia a Gorizia e, alla fine degli anni Sessanta, era uso riferirsi a ogni processo di trasformazione in atto a partire dal paradigma comunitario, soprattutto in ambito educativo (la comunità auto educante quando si parlava di scuola o della relazione fra scuola e città e così via). Ma, rileva Costantini nel suo volume dal titolo Le comunità terapeutiche per tossicodipendenti, a inizio anni Ottanta l’espressione ha acquisito un significato completamente diverso a partire dalla diffusione di luoghi autodefinitisi “comunità terapeutiche” che niente avevano a che vedere con il progetto di Maxwell Jones. Comunità per drogati - Questi luoghi erano le comunità per “drogati”, dove a volte vigevano contenzione, pratiche autoritarie e, sicuramente, una nuova istituzionalizzazione del soggetto. Mentre il malato di mente smetteva di essere “matto” alla fine degli anni Settanta e usciva dal manicomio, il soggetto dipendente da sostanze psicotrope diventava “drogato” e finiva in comunità. “Sembrava in quel periodo che fosse scoppiato un vero e proprio boom delle comunità: nel clima di sfiducia e di demoralizzazione per i tanti fallimenti, una schiera di volontari faceva sentire la propria voce affermandosi come coloro che, senza soldi, senza preparazione tecnica e senza un riconoscimento giuridico, sapevano cosa era necessario fare per opporsi all’incalzare del fenomeno droga”. Così, durante ogni iniziativa pubblica organizzata per discutere il preoccupante aumento degli “eroinomani”, non mancava mai lo scontro fra chi accusava i centri pubblici di essere “spacci di metadone” e quelli “privati” di essere luoghi dove si faceva il lavaggio del cervello ai giovani per allontanarli dall’eroina. Iniziava a farsi largo l’idea che le comunità fossero davvero, per usare un’espressione di Costantini, le “Lourdes della droga”. Un’idea ancora oggi ampiamente diffusa, anche grazie alla pervasività narrativa di alcuni modelli diventati paradigmatici, come quello di San Patrignano, per esempio. Fuori dalla comunità non c’era salvezza (né alternativa). E anche se non era così, si iniziava a dire che gli interventi pubblici messi in campo dalla legge 685 del 1975 non avevano funzionato. Il dilagare delle “tossicodipendenze” ne era la prova. Le misure coercitive - Ovviamente non possiamo sapere cosa sarebbero stati gli anni Ottanta senza i primi centri pubblici anti droga e l’assunzione di responsabilità in tema di dipendenze da parte del Servizio sanitario pubblico imposta dalla legge 685. Certo è, però, che a metà decennio serpeggiava uno scontento nell’opinione pubblica amplificato dai media grazie ad alcune prese di posizione eccellenti che invocavano misure coercitive, se non punitive, contro i “drogati”. I primi a chiedere il ricovero coatto erano stati i familiari stessi, esausti, disperati, come raccontano le tante lettere che venivano pubblicate sui quotidiani e che i quotidiani continueranno, per un decennio, a pubblicare in prima pagina. Nel 1981 nasceva a Torino Lenad, la Lega nazionale anti droga, che dava voce alle “famiglie”. Fra i fondatori Piera Piatti, psichiatra. Contrari all’uso del metadone, visto come un “perpetuatore di assuefazione”, propugnavano il ricovero obbligatorio. Questa posizione è diventata, poco a poco, prevalente nella società italiana, o quantomeno nei partiti al governo, al punto che nel 1990 è stata reintrodotta anche la punibilità per chi possedeva una modica quantità di sostanze. Una posizione che coincideva con una reazione epocale contro lo stato sociale. Una reazione (backlash) che giungeva da oltre oceano e spingeva verso una progressiva privatizzazione dei servizi che, anche se non si è mai realizzata, ha creato forti squilibri territoriali fra nord, centro e sud del paese. Si imponeva inoltre anche da noi il modello puritano così caro agli americani: il drogato deve fare mea culpa e riconoscere, nella comunità in cui va a rinchiudersi, l’autorità di un dio “superiore e amoroso” che lo guiderà fuori dalla dipendenza. Il capo carismatico. Il modello delle comunità terapeutiche di questo tipo si fondava sull’idea che esistesse un’autorità razionale che doveva essere esercitata progressivamente al fine di rendere autonome le persone. Un’idea che, a pensarci bene, pervadeva anche il discorso sulla scuola e sull’educazione più in generale. Sette e altro - Fra i primi e più controversi modelli di questo tipo c’è quello di Charles Dederich e di Synanon. Fondata nel 1958, Synanon è stata la prima comunità residenziale negli Stati Uniti, ma i suoi membri sono stati presto indicati come quelli di una setta. Tuttavia, a lungo, ha rappresentato la pietra angolare intorno a cui sono nate diverse comunità, piccole società alternative, che reagivano in modo “comunitario” alla crisi della società degli anni Settanta alla quale è attribuita l’origine della dipendenza. Nascevano però anche comunità autogestite. A Torino, per esempio, il Gruppo Abele, fra le prime realtà in Italia a operare in strada: poiché la comunità terapeutica tradizionale funzionava soltanto a partire dalla costatazione del fallimento individuale e della volontà di stabilire un nuovo percorso di vita, sul modello degli alcolisti anonimi, l’intervento in strada pareva a molti completamente inutile se non controproducente. Che senso aveva salvare la vita a chi non voleva essere salvato? Così facendo, invece, si introduceva una visione meno manichea e più pragmatica sulla dipendenza da sostanze, che si è affermata soltanto molti anni dopo, e che possiamo semplificare con il concetto di “riduzione del danno”: ti aiuto a stare meglio, a stare bene, ad avere una vita dignitosa e in salute anche se non hai deciso, fino in fondo, di disintossicarti. Nelle prime comunità prevaleva un’opzione anti farmaco abbastanza diffusa: il metadone era visto con sospetto ed è stato così a lungo. Achille Saletti, per anni a capo di Saman, ricorda l’assoluta improvvisazione, lo sforzo di tanti volontari senza alcuna preparazione e soprattutto senza alcuno strumento: “Le strutture terapeutiche erano mandate avanti in modo empirico, improvvisato. In comunità per esempio non veniva dato niente, né farmaci né altro, si curavano le crisi di astinenza con la camomilla”. Al di là dei diversi modelli, fin dai primi anni Ottanta appariva chiaro a chiunque avesse davvero a cuore il problema che, comunque, non esisteva una ricetta buona per tutti e che nessuna comunità terapeutica garantiva al 100 per cento che non ci sarebbero state “ricadute”. Così ha iniziato a imporsi l’idea, soprattutto a partire dai primi anni Duemila quando lo spettro delle dipendenze si è allargato e non riguardava più soltanto l’eroina, che occorreva una visione “sartoriale” della terapia che prendeva in considerazione il soggetto, la sostanza di cui abusava e il contesto in cui lo faceva. Un approccio sistemico che richiedeva una formazione raffinatissima che, troppo spesso, non era quella che i servizi pubblici (ma nemmeno i privati) mettevano in campo. Come aiutare - Questo accadeva anche perché, mentre il problema droga diventava più complesso, si era per anni affermato un processo di unificazione dei servizi psichiatrici e per le dipendenze, tutto a discapito dei secondi. Un problema di non secondaria importanza in anni in cui le tipologie di abuso erano variate tantissimo. Oggi, per dire, è la cocaina la bestia nera per definizione. Perché non esistono farmaci sostitutivi e perché è molto difficile da individuare come problema finché non vi si è dentro fino al collo. Ma troppo spesso si continua a guardare la dipendenza da cocaina in modo anacronistico o assimilabile a quella da eroina. Ovviamente le persone che hanno bisogno di aiuto non sempre se ne rendono conto o sanno a chi rivolgersi, né hanno gli strumenti culturali per agire in modo coerente con l’obiettivo di stare meglio. Secondo uno studio recente sulle comunità terapeutiche a cura di Maurizio Coletti e Leopoldo Grosso, “il numero delle comunità e degli ospiti accolti è in continua, leggera e costante diminuzione. Le strutture del privato sociale sono 821 tra residenziali, semiresidenziali e ambulatoriali. Nei SerD, al 31 dicembre 2020, erano in carico 125.428 persone, di cui in comunità terapeutica 9.769. Confrontando diverse fonti, in comunità viene trattato il 6-7 per cento dell’utenza complessiva”. Questo significa che il resto dell’utenza passa dal Servizio sanitario nazionale, dai SerD. Eppure, secondo quanto scrive Anna Paola Lacatena, sociologa e studiosa del fenomeno, oggi “il nostro paese resta la realtà con il maggior numero di strutture presenti sul proprio territorio: 908 al 31 dicembre 2018, secondo il centro studi, ricerca e documentazione del dipartimento per le Politiche del personale del ministero dell’Interno”. Tra queste anche comunità sperimentali che propongono un mese di pausa dalla sostanza, particolarmente utile se il problema è la cocaina. Si prende il tempo per capire chi si ha di fronte, un tempo che i servizi spesso non hanno, o che non possono gestire al meglio visto che arrivano individui ai quali sono stati prescritti farmaci dal medico del carcere, da quello dell’ospedale, e da quello del SerD. Approccio sartoriale - Gli approcci sono molto diversi e variano, ovviamente, a seconda delle regioni e quindi degli investimenti pubblici (si passa dalle quattordici tipologie della Lombardia alle due della Calabria). Le regioni virtuose sono quelle dove ci sono comunità specifiche per il policonsumo, per gli alcolisti, per coppie (troppo spesso il lato affettivo è stato negato in comunità), madri con figli, doppie diagnosi. Dove si lavora o ci si concentra sulla psicoterapia. Diurne o residenziali. Servizi che appoggiandosi sul terzo settore hanno integrato pubblico e privato, soprattutto là dove esistono dipartimenti per le dipendenze. Gratuiti, aperti al trattamento farmacologico ove indicato, universalmente orientati a continuare la presa in carico negli ambulatori territoriali SerD, dopo la dimissione. In questi luoghi si realizza, in qualche modo, quella visione “sartoriale”, su misura, necessaria in ogni storia di dipendenza. Spesso capita, infatti, che venga inviata una persona in un contesto del tutto inappropriato alle sue esigenze (una donna giovane fra donne di mezza età) mettendo così in discussione i diritti stessi dell’individuo in difficoltà e l’efficacia dell’offerta terapeutica. Secondo Riccardo De Facci, presidente del Cnca, associazione che dagli anni Ottanta unisce una serie di comunità terapeutiche, “alcune regioni investono moltissimo, ma in questo momento i servizi non sono all’altezza delle richieste, siamo in una fase in cui gli operatori che hanno messo in piedi i servizi stanno andando in pensione e c’è un ricambio enorme della cultura dei servizi, che si rinnovano non sempre con le risorse adatte poiché non esiste una formazione adeguata e specifica all’università di medicina delle tossicodipendenze”. Di fronte a 150.000-200.000 persone dipendenti in modo patologico da sostanze, 20.000 vanno in comunità terapeutica, 90-100.000 vanno avanti con un farmaco sostitutivo da almeno dieci anni riuscendo a vivere in modo assolutamente funzionale alle loro necessità e aspettative. Questa cronicità è molto più diffusa di quanto pensiamo, ma la società (mezzi di informazione compresi) fatica a prenderla in considerazione, per cui continuano a esistere soltanto due tipologie umane: quelli che si drogano e quelli che non si drogano. E comunque dobbiamo domandarci: cosa ci aspettiamo da una persona che inizia un percorso di cura? Negli anni Ottanta la risposta sarebbe stata una e una soltanto: la sua disintossicazione definitiva. Il successo. Ma il successo cosa è? Chi ce la fa e chi no - Un terzo delle persone che usano sostanze ce la fa da solo, magari cambiando città, innamorandosi. Un terzo va avanti, fra alti e bassi, con dipendenze decennali: dopo il servizio terapeutico trova un equilibrio, magari aiutandosi con un po’ di alcol, ma ce la fa. Poi ci sono quelli che non ce la fanno mai, che vivono tra ricadute continue, schiacciati da un desiderio molto più grande di loro, infelicità, condizioni di vita insopportabili. La loro morte spesso è da considerare come un suicidio atteso. Sono i più fragili. Non sono marziani. Sono figli, amici, genitori, vicini di casa, il ragazzo che incontriamo al bar tutte le mattine, la madre di una compagna di scuola di nostra figlia. A volte sono persone celebri, che magari hanno solo “sfortuna” e che senza overdose avrebbero continuato a consumare saltuariamente droghe pesanti come hanno sempre fatto. Quando è morto il bravissimo attore Libero De Rienzo c’è stata una levata di scudi dei suoi amici affinché il suo nome non venisse associato in alcun modo al consumo di sostanze. Per vergogna. Ma vergogna di cosa? Se di droghe si parlasse seriamente, e non a mezza voce, tra risatine e stupida (stupita) sorpresa, forse le persone smetterebbero di morire. Certo, non abbiamo alcuna certezza in tal senso, ma varrebbe comunque la pena di provarci. Armi, una campagna da Nobel: “Se negoziamo il disarmo, avremo più sviluppo e sicurezza” di Vincenzo Giardina* La Repubblica, 1 ottobre 2022 Tagliare il 2% delle spese militari globali per liberare mille miliardi di $ da utilizzare per la crisi climatica, la salute e diritti. Ne parla Carlo Rovelli. “Premessa: non chiediamo a nessuno di ridurre il budget militare, ma di negoziare un accordo globale per spendere meno”. Meno cannoni, più scuole. Meno trincee, più ponti. Meno armi per fare la guerra, più risorse per contrastare i cambiamenti climatici. Un antidoto contro la paura e allo stesso tempo la ricetta per avere tutti più sicurezza. Che è alla fine il “dividendo della pace”, il suo valore vero. A sottolinearlo sono oltre 50 premi Nobel, dirigenti politici e accademici impegnati in una campagna di sensibilizzazione al tempo della guerra in Europa e delle nuove tensioni nell’Oceano Pacifico. Ucraina, Russia, Stati Uniti, Nato, Cina, Taiwan: protagonisti volontari o involontari di una nuova strategia della tensione che rischia, questo il monito dei Nobel, di divorarsi le residue possibilità dell’umanità di un mondo con meno vittime e più diritti. Negoziare un accordo globale. In ballo c’è l’Agenda 2030, con quegli Obiettivi di sviluppo sostenibile che fanno la differenza tra povertà e benessere, giustizia e ingiustizia, vita e morte. Con Oltremare ne parla Carlo Rovelli, fisico e saggista italiano, co-fondatore di The Global Peace Dividend Initiative, organizzazione no profit che sostiene la campagna insieme con Ong partner e più di 60mila cittadini di diversi Paesi. “Va fatta una premessa”, dice. “Non chiediamo né all’Italia né a nessun altro Stato di ridurre il proprio budget militare bensì di negoziare un accordo globale perché siano tutti a spendere meno per le armi”. L’obiettivo della campagna. è la firma di un trattato che impegni gli Stati a tagliare le spese per la “difesa” del 2% all’anno per un periodo di cinque anni. Si calcola che in questo modo si libererebbero oltre mille miliardi di dollari, fondamentali per trovare soluzioni alle emergenze dei cambiamenti climatici, delle pandemie e della povertà. La proposta nasce dall’esame delle tendenze internazionali in materia di armamenti. Secondo i promotori della campagna, la spesa militare mondiale è raddoppiata dal 2000, è in aumento in quasi tutti i Paesi del mondo, e si sta avvicinando a 2mila miliardi di dollari all’anno. La tesi è che i singoli governi siano obbligati ad aumentare le proprie spese militari perché altri, percepiti come avversari, aumentano le loro. “Questo meccanismo alimenta la corsa agli armamenti, con un costo immenso” denunciano i Nobel. “Nello scenario peggiore, è un percorso che porta a conflitti devastanti; in quello migliore, è uno spreco di risorse che possono essere usate più saggiamente” Tutte le risorse preziose che verrebbero liberate. Il punto chiave è che il taglio del 2% delle spese militari libererebbe risorse preziose senza compromettere la sicurezza. “Dal punto di vista di ciascun Paese, questa non solo non diminuisce, ma infatti aumenta, perché gli Stati percepiti come avversari riducono la loro capacità militare” riprende Rovelli. Deterrenza ed equilibrio verrebbero mantenuti e un accordo internazionale contribuirebbe a ridurre l’animosità, allontanando il rischio di guerra. “La storia mostra che accordi per limitare gli armamenti sono realizzabili” sottolinea il fisico. “I trattati Salt e Start fra Stati Uniti e Unione Sovietica hanno ridotto il numero delle testate atomiche ben del 90%”. La convinzione è che collaborare paga. Il “dividendo di pace” raggiungerebbe i mille miliardi di dollari entro il 2030, una cifra molto superiore a quella totale che oggi i Paesi destinano a tutti i programmi di cooperazione, tenendo nel conto anche le Nazione Unite e le sue agenzie. Il punto è evidenziato anche dal ricercatore Matteo Smerlak, pure co-fondatore di The Global Peace Dividend Initiative. L’occasione è il panel dal titolo Perché il disarmo è l’unica scelta possibile per salvare il nostro futuro? ospitato a Reggio Emilia dal festival di Emergency, una delle Ong sostenitrici dell’iniziativa. “I governi devono sedersi attorno a un tavolo e creare un ciclo di negoziati sul budget nazionale delle spese militari” l’appello di Smerlak. “Se riuscissimo a coordinare tutti i governi, potremmo gestire quel denaro diversamente, ad esempio per le scuole e per gli ospedali”. “Una grande tristezza e una grande speranza”. Ma che reazioni ha suscitato la campagna, lanciata in origine nel dicembre 2021, dunque in un momento carico di tensione, poche settimane prima dell’avvio dell’offensiva russa in Ucraina del 24 febbraio scorso? “La nostra proposta è caduta nel peggior momento possibile per via delle decisioni prese a Mosca e poi della scelta occidentale, imperniata su un aumento della spesa militare”, risponde Rovelli. “C’è una grande tristezza ma allo stesso tempo una grande speranza: alle reazioni insoddisfacenti dei governi ne corrisponde una dell’opinione pubblica di segno opposto, anche in Italia, dove la maggioranza è contraria a un aumento delle spese militare e vuole un accordo globale per una loro riduzione”. *Vincenzo Giardina ha scritto questo articolo per Oltremare, la rivista dell’Agenzia Italiana per la Cooperazione, AICS