Giuliano Amato un giudice per la dignità dei detenuti di Simonetta Fiori La Repubblica, 19 ottobre 2022 “Non smettete mai di difendere la vostra dignità e di reclamare i diritti”. Il presidente emerito della Consulta a San Vittore parla di Costituzione. Qualcuno si domanda: ma la mia voce chi la sente? Elena chiede gli abbracci del marito e dei figli, “sfiorarsi la punta delle dita non basta a tenere unita una famiglia”. Tutti citano la Costituzione, o forse sarebbe meglio dire s’aggrappano agli articoli della Carta, perché nel naufragio d’una vita è il solo bene sopravvissuto, lo scudo protettivo che garantisce l’ultimo residuo di libertà. “La Costituzione è stata scritta per i più deboli, non per chi ha già potere”: il monito dei padri costituenti sembra incarnarsi nelle facce di Alessandro, Munir, Adele e di molti altri detenuti a San Vittore, mentre fuori avanza un’Italia vincente pronta a liquidarla come un libro invecchiato. Per sentire la Carta viva, farsi corpo e anima d’una comunità, bisogna venire nel penitenziario ottocentesco nel cuore di Milano. L’idea è nata quattro anni fa dalla Corte Costituzionale, un viaggio dentro le carceri per dare speranza a chi non ce l’ha più. Oggi tocca al presidente emerito Giuliano Amato rinnovare una consuetudine interrotta dalla pandemia. E se è vero che il carcere trasforma chiunque vi si affacci, questo vale anche per i giudici della Consulta. Solitamente controllato, lo statista avvezzo ai mille agguati della politica sembra cedere all’affettività, chiama ciascun detenuto per nome, ascolta le domande, non sempre asseconda. “La prima cosa che dovete difendere è la vostra dignità”, dice nella rotonda dove confluiscono i sei bracci del carcere. “Non dovete arrendervi nel reclamare i diritti”. Il suo ragionamento arriva al cuore dei detenuti. “Esiste un meraviglioso sistema di norme e provvedimenti che è in technicolor, ma la quotidianità del carcere è rimasta in bianco e nero. Bisogna spingere perché sia ridotta al minimo la distanza tra regola e realtà”. Nessuno ce l’ha con voi, aggiunge. Non c’è una intenzione punitiva. Ma mancano le risorse e gli uomini perché lo Stato faccia il suo dovere. È già stato a Nisida, nel carcere minorile. E là ha raccontato che suo padre lo sognava giudice ma lui scelse un’altra strada “perché io il potere di togliere la libertà non lo volevo”. I detenuti presenti all’incontro sono una cinquantina, la maggior parte in attesa di giudizio, con un’ampia rappresentanza di donne, che San Vittore sono solo 71 su 940, e molti immigrati. Sono dentro generalmente per reati legati alla droga, tra piccolo spaccio e criminalità organizzata, ma delle loro colpe ora non si parla, perché il carcerato non è il suo reato, come ricorda Antonio Casella, un vecchio professore di filosofia che da venticinque anni fa il volontario a San Vittore. È stato lui a prepararli a questi incontro insieme a Michele Massa, professore di Diritto pubblico alla Cattolica. “Ma scriva dei detenuti, non di noi”, si raccomandano entrambi minimizzando il loro contributo. “Sono un pezzo importante di società civile, non la discarica. Gli abbiamo detto di non leggere, ma di trovare le parole per raccontarsi”. Non ha difficoltà a trovare le parole Amedeo, il giovane che indossa la felpa con il simbolo della Nave, il reparto all’avanguardia nelle cure riabilitative. Va alla radice di tutti i problemi, quello del sovraffollamento che toglie ai carcerati sonno, respiro, spazio vitale. “La legge presentata da Manconi e Tronti proponeva il numero chiuso. Non sarebbe una misura coerente con la Costituzione?”. Amato gli dà ragione, ma non incoraggia facili illusioni. “Quella proposta legislativa fu accolta da alcune forze politiche come una follia”. Il presidente emerito non lo dice, vuol tenere l’attualità politica distante, ma quel partito era Fratelli d’Italia. “Però di recente il comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa ha proposto il numero chiuso nelle carceri. L’Italia da sola non può farcela, ora meno che mai. Ma se si crea una spinta europea c’è qualche possibilità”. Man mano che si va avanti, i busti dei detenuti inclinano in avanti, come succede a teatro quanto lo spettacolo ti cattura. Questa va volta va in scena un uomo delle istituzioni che riconosce l’ingiustizia di certa giustizia, e che quindi sta dalla loro parte, facendosi carico di disagio e sofferenza. “Le carceri bisogna conoscerle”, disse Calamandrei in uno dei suoi primi discorsi in Parlamento nel 1948. Bisogna conoscere “questo mistero inesplicabile della vita umana che è il dolore”. C’è il dolore di chi non si sente ascoltato fino in fondo. “I giudici sono troppo pochi e hanno troppe cause”, argomenta Luca. “Il giudizio cartaceo è terrificante”, lo asseconda Amato. “La giustizia fondata sulle carte e non sulle persone mi ricorda il meccanismo assurdo degli algoritmi quando si sostituiscono alla decisione degli esseri umani”. Evoca la schedatura fatta al confine sulle facce degli immigrati che chiedono asilo politico: se ne è ricavata un’immagine standard di chi mente. E chi fa la faccia da mentitore viene fermato. “Un criterio dissennato e disumano”, dice Amato mentre la rotonda esplode in un applauso. Silvano ha l’aria di un professore di liceo, mentre pone la questione della pandemia. “Ha avuto un costo pesantissimo per i detenuti: celle chiuse, attività interrotte, esposizione al rischio di contagio. Ansia, paura, incertezza. A tutti gli italiani è stato dato un riconoscimento. Perché non definire un rimedio anche per noi, concedendo una liberazione anticipata speciale?”. Amato lo segue nel ragionamento: “Se altrove è stato concesso un risarcimento economico, a voi dovrebbe essere riconosciuto quello che avete perso in questi due anni nella possibilità di esercitare libertà e diritti. Occorre che il nuovo ministro della Giustizia ascolti la vostra richiesta”. Nel corso dell’incontro, cresce l’agenda per il nuovo ministro: l’assistenza per chi entra in carcere - “si rischia di impazzire”, dice Antonietta emozionandosi - i reparti per le donne in maternità, i troppi vecchi che affollano le carceri, il permesso di soggiorno che scade, l’aiuto sociale per chi ritrova la libertà. Il professor Amato non può dirlo, la cronaca politica deve restare fuori: ma questa destra va in direzione contraria, invocando una concezione autoritaria della pena. Il disagio mentale è la piaga che più fa male. Stanno chiusi in sei dentro una cella, basta poco per alterare equilibri precari. Se uno urla di notte, nessuno dorme. E l’indomani a gridare saranno in due o tre, perché se i matti sono un problema fuori dalle sbarre, dentro la sofferenza psichica esplode contagiosa, dolore irreparabile. Quest’anno sono stati quattro i suicidi dentro San Vittore - due nello stesso braccio - con esiti squassanti per tutta la comunità. Vengono in mente le parole consegnate dall’ergastolano Salvatore al giudice Elvio Fassone, lo stesso che l’aveva condannato. “L’altra settimana ne ho combinato una delle mie, mi sono impiccato”, gli scrive Salvatore, come se anche togliersi la vita fosse un crimine di cui giustificarsi. Amato spiega ai detenuti che nelle Rems (strutture per chi ha disturbi psichiatrici), in tutta Italia, ci sono solo seicento posti, mentre chi ne ha bisogno supera il migliaio. “Mancano le risorse, ma non bisogna arrendersi. Esiste un giudice: non è a Berlino, neppure a Milano, ma lo trovate a Strasburgo, dove ci si può appellare al tribunale dei Diritti dell’uomo”. Al momento dei saluti, nessuno se ne vorrebbe andare. Il presidente emerito s’accomiata col ricordo degli ebrei a San Vittore nel 1944, quando lasciarono il carcere nazifascista per essere spediti nei lager. “Gli altri prigionieri li scortarono con la loro razione di carne tenuta da parte: sapevano che gli sarebbe servita per sopravvivere”. Una volontaria commenta a bassa voce: “Anche oggi i detenuti fanno la colletta alimentare per i poveri, lo scriva mi raccomando”. Solidarietà e dignità a San Vittore, oggi come allora. Suicidi, nuovi psicologi, caso Ioia. Tre storie nel mondo del carcere. Perché regni la quiete di Francesco Lo Piccolo vocididentrojournal.blogspot.com, 19 ottobre 2022 1. Qualche giorno fa ha tentato il suicidio in carcere uno dei tanti detenuti che conosco personalmente e che partecipano ai laboratori di Voci di dentro. Un ragazzone inquieto, appena 25 anni, la vita non gli è stata molto tenera e il carcere è stato per tanto tempo il suo pezzo di mondo. Con noi ha fatto un bel lavoro e ha recitato in uno spettacolo teatrale che abbiamo messo in scena il 23 giugno di quest’anno. Bravissimo a dispetto di chi lo definiva inaffidabile e borderline. Dopo il tentato suicidio - poche ore dopo il gesto - è stato trasferito. Succede sempre così. In tutte le carceri: uno tenta il suicidio a Roma, lo mandano a Velletri. E se succede a Velletri ecco che l’autore del gesto viene trasferito a Roma o in qualsiasi altro carcere. Invece di affrontare i problemi, invece di governarli e curare, la soluzione del sistema carcere è ancora sempre la stessa: rimozione del problema, allontanamento di chi rompe la quiete, quiete solo apparente, come ovvio. 2. Da qualche settimana è al lavoro nelle carceri italiane una pattuglia di giovani laureati. Sono psicologi e criminologi e sono entrati in organico come collaboratori esterni ex articolo 80. Nessuno è a tempo determinato, tutti precari, 64 ore al mese per un periodo di due mesi (massimo tre). Per poter lavorare hanno dovuto aprirsi una partita Iva, il compenso è di 17 euro l’ora lordi. Fino al 31 dicembre, cioè fino ad esaurimento dei fondi trovati dal ministero della Giustizia. Poi tutti a casa a meno che non vengano trovati altri fondi. Anche qui la logica del sistema carcere è sempre la stessa: tamponare il problema, affrontare l’emergenza con quattro soldi trovati nei rimasugli di bilancio. Soluzione del momento. Senza alcuna idea di carcere, non quella della cura che richiede lavoro e risorse, tanto lavoro e tante risorse, ma semplicemente quella della “governance”, per mantenere la quiete, quiete solo apparente, come ovvio. 3. Ieri ho appreso che è stato arrestato il garante comunale dei diritti dei detenuti di Napoli Piero Ioia. Mi spiace, perché è un uomo che si è sempre battuto per i diritti dei detenuti. Ha alle spalle 22 anni di reclusione, è autore di un libro denuncia sulla “cella zero”, una stanza del carcere di Poggioreale utilizzata per pestaggi e violenze sui detenuti. Il suo arresto non era necessario, non c’era rischio di inquinamento delle prove e neppure rischio di fuga. E per evitare il rischio di reiterazione del reato bastava - come è subito accaduto - la revoca della nomina di garante. Ma è stato arrestato comunque. Così purtroppo si fa, e il clamore e la sentenza (di condanna) sono arrivate prima di tutto, prima del diritto della difesa, entrambi ben cavalcati da certa politica e soliti media. Staremo a vedere. Certo, non c’è bisogno del garante, di un garante come Ioia - garante che dà fastidio per le battaglie che fa - per far sì che in carcere entrino droga e telefonini. Spesso si hanno queste notizie, alle volte sono parenti, altre volte sono agenti… e non solo. Non per questo si eliminano parenti o agenti... ma con i garanti certa politica non ci penserebbe due volte. Anche qu, in realtà, si ignora il nocciolo del problema ovvero il sistema carcere, fallito e sbagliato, e la sua “governance” che è quella - ancora - di mantenere la quiete, quiete solo apparente, come ovvio. Dall’inizio dell’anno siamo a 800 tentati suicidi in carcere e a 70 suicidi (ma io non li chiamo suicidi). Intanto la politica tace e il sistema carcere non cambia. Come sempre incapace e impossibilitato a vedere un palmo oltre il proprio naso. Sbatti il mostro in prima pagina: il garante Pietro Ioia, il “colpevole perfetto” di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 19 ottobre 2022 In galera perché indagato di aver abusato della sua posizione per introdurre droga e telefonini. Il garante nazionale chiede una linea guida, quelli territoriali temono la messa in ombra della loro funzione. Sono giunti alle cinque di martedì mattina per notificare l’arresto preventivo nei confronti di Pietro Ioia, Garante per i diritti dei detenuti di Napoli. Ironia della sorte, il giorno prima ha partecipato al convegno organizzato dalla Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà. Proprio quel giorno ha denunciato diverse criticità che persistono al carcere di Poggioreale. Secondo l’ordinanza di custodia cautelare, Ioia avrebbe abusato - in concorso con altre undici persone - della sua funzione di garante per introdurre in quel carcere i telefonini e la droga dietro un corrispettivo in denaro. Un’accusa che però, attraverso i mass media, si traduce già come un fatto certo. Già condannato da sindacati di polizia penitenziaria e da alcuni partiti - I sindacati di polizia penitenziaria, partiti politici come la Lega - all’epoca critici per l’elezione di Ioia a Garante - già lo condannano. E questo nonostante la riforma Cartabia abbia rafforzato la presunzione di innocenza. Ricordiamo che la critica nei suoi confronti è stata trasversale visto la polemica avuta con il neodeputato dei Verdi Francesco Emilio Borrelli solo perché durante il primo lockdown dovuto all’emergenza Covid, insieme al garante regionale Samuele Ciambriello, si batteva per la tutela della salute anche nelle carceri. Ed è lo stesso Borrelli che ora afferma: “Va rimosso dal ruolo e condannato severamente”. Anche i Verdi hanno già emesso la sentenza prima ancora della formulazione dell’accusa e dell’esito di un eventuale processo. È stato testimone chiave nel processo sulla “cella zero” - Pietro Ioia è il colpevole perfetto, visto il suo passato da narcotrafficante tanto da aver scontato ben 22 anni di carcere tra Spagna e Italia. Nel 2002, finito di scontare la pena, ha iniziato la sua battaglia per i diritti dei detenuti, tanto da essere stato il testimone chiave per il processo sulla “cella zero” di Poggioreale, ovvero dove avvenivano le torture. Eletto garante di Napoli dall’allora sindaco De Magistris e confermato anche dall’attuale nuova amministrazione, ha fatto emergere diverse criticità e mai si è risparmiato nel denunciare più volte le condizioni atroci che si vivono dietro le sbarre. L’accusa, se provata, è certamente gravissima. In primis perché metterebbe a rischio la credibilità di una istituzione importante come quella dei garanti. A tal proposito, interviene il garante nazionale delle persone private della libertà precisando che, come è noto, non esiste una connessione istituzionale tra il suo ruolo e quello delle figure che territorialmente le singole Amministrazioni nominano. Ma nonostante ciò ha più volte sollecitato negli anni l’adozione di “Linee guida” per indicare parametri di indipendenza, professionalità e integrità che le Amministrazioni stesse potessero seguire nella delicata individuazione di tali figure. “Indipendentemente da ogni valutazione sull’indagine in corso che ha portato oggi ai provvedimenti restrittivi e nella forte speranza istituzionale che il Garante del Comune di Napoli possa mostrare la sua estraneità ai fatti, nonché, ovviamente, nel pieno rispetto dell’autonomia degli Enti locali, il Garante nazionale auspica che si giunga a una strutturazione organica dei rispettivi compiti e perimetri delle relazioni Istituzionali che dia all’esperienza positiva portata avanti in questi anni una riconoscibile fisionomia di responsabilità istituzionale”, chiosa il Garante Nazionale. Il garante campano Ciambriello: “Spero che dimostri la sua estraneità” - Interviene anche il garante della regione Campania Samuela Ciambriello, sottolineando la sua piena fiducia nella magistratura che con gli interrogatori di garanzia sarà chiamata a valutare il quadro accusatorio. “Spero che, in questa circostanza o nelle future fasi, Pietro Ioia riesca a dimostrare la sua estraneità ai fatti. Intanto, la mia posizione non può che essere orientata verso la presunzione di innocenza”, sottolinea il garante campano. Nello stesso tempo auspica che l’arresto di Pietro Ioia non deve delegittimare o sminuire l’operato di tutti i Garanti, regionali, provinciali e comunali. “Il Garante - chiosa Ciambriello - è una figura istituzionale, che viene eletta o nominati dai rispettivi Consigli. Questo episodio non può e non deve compromettere il lavoro di chi, ogni giorno, si muove nella direzione di garanzia dei diritti dei detenuti. Garantire i diritti non equivale assolutamente a rendersi complici. Accanto alla correttezza individuale di ognuno è necessario mostrare anche una correttezza istituzionale, questo soprattutto per garantire una tutela più soddisfacente e, quindi, impedire che alle esigenze dei detenuti si risponda con l’illegalità”. Fa da eco anche Stefano Anastasia, portavoce dei garanti territoriali, sottolineando che “I Garanti nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni, da vent’anni svolgono un lavoro prezioso nella tutela dei diritti dei detenuti che è parte della legalità penitenziaria e che non può essere messo in ombra dall’eventuale abuso dei propri poteri da parte di uno di loro”. Bernardini: “questo episodio non metta in discussione l’opera dei garanti” - Rita Bernardini di “Nessuno Tocchi Caino”, ricorda che ogni giorno ci sono notizie riguardanti il traffico di cellulari e stupefacenti all’interno delle carceri. A volte sono i familiari, altre volte è il personale (soprattutto agenti), altre volte ancora il traffico si fa con i droni o con pacchi gettati nell’intercinta dell’istituto. Sottolinea che pochi giorni fa è stato arrestato il cappellano del carcere di Enna accusato di portare droga in carcere. “Mai faremo abbastanza - osserva Bernardini - per contrastare il proibizionismo sulle sostanze stupefacenti che è criminogeno a tal punto da arrivare a corrompere interi apparati statali”, e mette in guardia: “Non sia questo episodio a mettere in discussione l’opera preziosissima in termini di conoscenza e vigilanza che i garanti svolgono quotidianamente nei quasi 200 istituti carcerari italiani”. Ma ritorniamo a Pietro Ioia. Secondo l’ordinanza di custodia cautelare avrebbe commesso i fatti - almeno così si evince osservando le date - nell’arco dei primi del mese di dicembre 2021 fino ai primi di gennaio del 2022. In concorso con altri soggetti, avrebbe dapprima consegnato illegalmente due cellulari dietro un compenso di 600 euro, poi altri apparecchi per 500 euro, infine tra il 30 dicembre e l’8 gennaio 2022 avrebbe consegnato a due detenuti un imprecisato quantitativo di hashish dal valore di 10mila euro, i quali poi lo cedevano a terze persone non identificate. Secondo le indagini, un detenuto e sua moglie sarebbero i capi, promotori e organizzatori, con il compito di programmare tali traffici, avvalendosi della complicità del garante Ioia avendo appunto la facoltà di visitare il carcere di Poggioreale. Ioia è attualmente in carcerazione preventiva. Preventivamente è stato subito rimosso dal suo incarico da Gaetano Manfredi, l’attuale sindaco di Napoli, colui che ad aprile scorso lo ha riconfermato garante comunale riconoscendone le sue qualità. “Era stato individuato precedentemente come garante - ha commentato a caldo il sindaco - e noi non eravamo intervenuti su questa nomina, ma adesso provvederemo subito alla revoca. È molto grave che chi deve tutelare i detenuti possa essere oggetto di un’inchiesta giudiziaria”. La vicenda di Ioia è ancora tutta da capire, così come è ancora da apprendere cosa dirà in sua difesa. Ma non si può sbattere subito il mostro in prima pagina. Il mondo penitenziario è complesso, c’è un sottobosco poco inesplorato e dove basta poco per perdersi dentro. Il giro di droga e cellulari non è una novità. “Alcuni detenuti mi hanno detto che ci sono istituti penitenziari dove vige un vero e proprio tariffario per droga, cellulari o altri oggetti proibiti. Forse non è vero, ma è verosimile”, racconta la storica radicale Rita Bernardini. “Telefoni e droga a Poggioreale”, arrestato il garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia di Eleonora Martini Il Manifesto, 19 ottobre 2022 Mauro Palma: “Da tempo sollecito l’adozione di Linee guida. Ora bisogna cambiare passo”. Ci sarebbero anche dei video e delle intercettazioni nelle mani dei carabinieri di Castello di Cisterna che ieri hanno arrestato, insieme ad altre sette persone, il Garante dei detenuti di Napoli, Pietro Ioia, accusato di aver introdotto illegalmente e dietro compenso telefoni cellulari e sostanze stupefacenti nel carcere cittadino di Poggioreale. Ioia si sarebbe avvalso proprio del suo ruolo, che gli permetteva di entrare liberamente e senza permesso negli istituti penitenziari, per partecipare a quella che la procura e il Gip del Tribunale di Napoli ipotizzano essere una associazione a delinquere al soldo delle famiglie dei criminali detenuti a Poggioreale, la cui esistenza sarebbe emersa attraverso mesi di indagini svolte da giugno 2021 a gennaio 2022. Una notizia, questa, che è piombata come un macigno su un’istituzione - quella dei Garanti dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale - da sempre bersaglio delle destre politiche e di sindacato, soprattutto negli ambienti della polizia penitenziaria. Tanto più perché Pietro Ioia è un ex detenuto di 63 anni con alle spalle 22 anni di carcere, e Poggioreale lo conosceva bene. Fu proprio questo suo back ground e la sua storia di “riscatto” dopo aver pagato per i suoi crimini (raccontata in un libro che lo ha reso famoso dove denunciava anche le violenze sui detenuti, “Cella zero”, pubblicato dagli editori napoletani Marotta e Cafiero), più che le sue reali capacità e attitudini, a renderlo un simbolo per il sindaco di Napoli Luigi de Magistris che nel 2019 lo volle a tutti i costi Garante territoriale della sua città. Una scelta che anche ieri ha rivendicato spiegando che “il garante comunale dei detenuti è una figura non prevista dalla legge” che invece contempla il garante regionale. “Scegliemmo - ricorda De Magistris - Pietro Ioia per dare un segnale di fiducia soprattutto al principio costituzionale della funzione rieducativa della pena”. Eppure va detto che in molti, all’interno del mondo dei diritti penitenziari, non vedevano di buon occhio non tanto la persona quanto proprio il simbolo: un ex detenuto, così come anche un ex poliziotto, è figura troppo interna al sistema per apparire come parte terza, e può perfino essere ricattabile. E dunque - è stato detto e ribadito in molte occasioni - sarebbe stato meglio evitare certe scelte populiste e demagogiche. Fermo restando, naturalmente, che le accuse contro Pietro Ioia e gli altri sette arrestati ieri sono tutte da provare. E che, in ogni caso, in ogni istituzione si può annidare un fuorilegge. “Una vicenda che colpisce e che obbliga a cambiare passo”, esorta però Mauro Palma, Garante nazionale delle persone private della libertà personale che ricorda di aver “più volte sollecitato negli anni l’adozione di “Linee guida” per indicare parametri di indipendenza, professionalità e integrità che le Amministrazioni stesse potessero seguire nella delicata individuazione di tali figure”. A tal fine, ricorda Palma, nel luglio scorso il suo ufficio ha sottoscritto un Protocollo d’intesa con l’Associazione nazionale Comuni italiani “per la definitiva redazione e diffusione” di tali Linee guida, ora in via di definitiva approvazione. “Nella forte speranza istituzionale che il Garante del Comune di Napoli possa mostrare la sua estraneità ai fatti, nonché, ovviamente, nel pieno rispetto dell’autonomia degli Enti locali - si legge nel comunicato di Palma - il Garante nazionale auspica che si giunga a una strutturazione organica dei rispettivi compiti e perimetri delle relazioni Istituzionali”. Affinché non si confonda il ruolo del Garante nazionale - “designato dalla legge italiana anche come proprio “Meccanismo nazionale di prevenzione” in ambito Onu” - con quello dei garanti territoriali. Nelle carceri si traffica di tutto, il problema è il proibizionismo di Rita Bernardini Il Riformista, 19 ottobre 2022 A volte sono i familiari, altre gli agenti. Pochi giorni fa è stato arrestato un cappellano per aver portato droga ai detenuti. Vediamo se le accuse a Ioia saranno provate. Ma nessuno metta in discussione il lavoro dei garanti. In tanti siamo stati raggiunti dalla sconvolgente notizia dell’arresto del nostro amico Pietro Ioia con l’accusa di traffico di stupefacenti e di telefoni cellulari all’interno del carcere di Poggioreale. Lo avrebbe fatto approfittando del suo ruolo di garante e ciò, se fosse provato e vero, sarebbe gravissimo. Vedremo a cosa porteranno le indagini e se l’accusa sarà provata. Constato che anche in questo caso poteva essere evitata la custodia cautelare in carcere. Ogni giorno ci sono notizie riguardanti il traffico di cellulari e stupefacenti (droghe illegali, perché quelle legali sono profuse a gogò) all’interno delle carceri. A volte sono i familiari, altre volte è il personale (soprattutto agenti), altre volte ancora il traffico si fa con i droni o con pacchi gettati nell’intercinta dell’istituto. I mezzi sono i più fantasiosi. Pochi giorni fa è stato arrestato il cappellano del carcere di Enna accusato di portare droga in carcere. Alcuni detenuti mi hanno detto che ci sono istituti penitenziari dove vige un vero e proprio tariffario per droga, cellulari o altri oggetti proibiti. Forse non è vero, ma è verosimile. Mai faremo abbastanza - come dovremmo - per contrastare il proibizionismo sulle sostanze stupefacenti che è criminogeno a tal punto da arrivare a corrompere interi apparati statali. Non sia questo episodio a mettere in discussione l’opera preziosissima in termini di conoscenza e vigilanza che i garanti svolgono quotidianamente nei quasi 200 istituti carcerari italiani Qualche benpensante dovrebbe poi spiegarmi come mai le illegalità sistematiche dello Stato nei confronti della popolazione detenuta non vengano mai sanzionate. Palma: “Rischio discredito su tutti i Garanti dei detenuti se Ioia non prova la sua innocenza” di Liana Milella La Repubblica, 19 ottobre 2022 Il Garante nazionale dei detenuti interviene sul caso di Napoli e chiede che i Comuni si attengano a criteri rigidi nella scelta di queste figure. Con l’Anci già sottoscritto un protocollo. Ioia aveva una pena accessoria interdittiva ai pubblici uffici che avrebbe potuto escluderlo. Sono le otto di mattina quando Mauro Palma legge WhatsApp e scopre la notizia dell’arresto a Napoli del Garante dei detenuti Pietro Ioia. E il primo sentimento che prova è “sconcerto sul piano istituzionale”. Quando Repubblica lo chiama per sapere cosa pensa della vicenda il Garante nazionale dei detenuti e delle persone private della libertà ormai la notizia è diffusa ovunque e Palma ha già reagito con un comunicato. Adesso al telefono dice subito che “si augura che Ioia possa dimostrare la sua piena innocenza”. Ma è proprio convinto che questo Garante di Napoli ce la faccia a provare di non aver fatto quello che gli contestano? “Non lo so perché non conosco niente dell’indagine. Ma mi auguro che possa farlo”. Perché se lo augura? “Perché, anche se impropriamente, il suo caso porterebbe un discreto su tutti i Garanti territoriali che di certo non lo meritano”. Beh, una storia così, se venisse confermata, getterebbe davvero una luce oscura su tutti i Garanti che ogni giorno entrano nelle patrie galere. “Vediamo un aspetto positivo...”. Davvero ce ne sarebbe uno? E quale mai sarebbe? “Quello di regolarizzare la nomina dei Garanti locali da parte dei Comuni, secondo linee guida che con un accordo con l’Anci noi abbiamo già predisposto”. Dica la verità, lei aveva già avvertito qualche crepa nel sistema di scelta di queste figure che hanno indiscutibilmente un ruolo molto delicato? “Sicuramente ho riscontrato molta disomogeneità, per cui il mio protocollo con l’Anci prevede regole rigorose per tutti nella scelta dei Garanti”. Senta, ma visto il passato di Ioia, secondo lei l’ex sindaco de Magistris è stato...diciamo... un po’ superficiale nell’affidargli questo incarico? “Certamente il sindaco avrà fatto una valutazione complessiva tenendo presente la vicinanza di Ioia a molte associazioni che si occupano di carcere. Forse andava considerata di più quella che mi risulta essere una pena accessoria interdittiva ai pubblici uffici che lui aveva avuto”. E questa avrebbe potuto essere una causa di esclusione per lui? “È ovvio che la nomina dei Garanti dev’essere al di là di ogni possibile dubbio. Indipendente dal loro passato. Devono garantire assoluta indipedenza e professionalità. Detto questo va sempre considerato che il Garante nazionale è un’istituzione e realtà diversa dai Garanti territoriali. E quindi il mio potere di interferenza è inesistente”. Mi sta dicendo che lei comunque non avrebbe potuto dire a De Magistris questo Garante non va bene? “No, non avrei potuto farlo. In un caso precedente, in cui una Garante aveva messo su Facebook la foto del presidente del Consiglio Draghi paragonandola a quella di un detenuto per fatti di terrorismo, ero intervenuto con il sindaco dicendogli che il consiglio comunale avrebbe dovuto riflettere sulla capacità istituzionale di questa Garante. Ma più in là non sono potuto andare. Ma il consiglio comunale l’ha poi rimossa”. Ammetterà che proprio in questo momento politico, con il governo di centrodestra in via di definizione, e con partiti che sposano la linea dura sulle carceri, una storia come quella di Napoli rischia di avere consegue... “Non credo. Come Garante nazionale mi misuro con tutti i governi di qualunque colore riconoscendo la loro funzione istituzionale. E quindi sono certo che anche con il futuro Esecutivo si potrà trovare la volontà comune di far funzionare al meglio il carcere”. Divisioni e potenziali scontri: le solite ombre sulla giustizia di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 19 ottobre 2022 Da trent’anni la delega crea problemi qualunque sia l’esecutivo e la maggioranza chiamata a sostenerlo. Arrivati alla stretta finale sulla composizione del nuovo governo, la tessera che fa più fatica a incastrarsi nel mosaico è ancora quella del ministero della Giustizia. Sembrava l’ultimo ostacolo, ma ieri le nuove dichiarazioni e proposte di Berlusconi e altri esponenti di Forza Italia e Lega hanno reso improvvisamente più impervio il percorso per la formazione dell’esecutivo. T uttavia la difficoltà a scegliere il futuro Guardasigilli conferma che la “questione giustizia” resta foriera di divisioni e potenziali scontri, qualunque sia l’esecutivo e la maggioranza chiamata a sostenerlo. Accade da trent’anni, dal terremoto di Mani Pulite che sconvolse il sistema politico italiano e da quando — subito dopo — per il suo primo governo Berlusconi pensò di nominare Antonio Di Pietro ministro dell’Interno e Piercamillo Davigo Guardasigilli (con la mediazione di Ignazio La Russa). Designazioni a cui oggi si faticherebbe a credere, ma ci provarono davvero. Oggi lo stesso fondatore di Forza Italia reclama con insistenza quella poltrona per un candidato del proprio partito, come a voler rivendicare una sorta di primazia e titolarità su una sterzata “garantista”, o comunque la si voglia chiamare, che la nuova maggioranza dovrebbe imprimere nei rapporti con la magistratura e sulle leggi che regolano lo svolgimento dei processi. Richiesta a cui la premier in pectore Giorgia Meloni pare resistere non tanto per i nomi proposti dal suo alleato-rivale o per i programmi da attuare, quanto per l’ombra che potrebbe gravare su quella scelta. Non ci sono obiezioni sulla qualità delle persone, bensì sull’opportunità di assegnare il ministero a un esponente di Forza Italia dopo un trentennio segnato da leggi ad personam e conflitti d’interesse che potrebbero riproporsi, com’è inevitabile anche solo ipotizzare quando ci sono di mezzo imputazioni e processi in corso (e ancora oggi Berlusconi si trova in questa situazione). Il nome indicato da Giorgia Meloni, l’ex magistrato Carlo Nordio a cui è stato chiesto di candidarsi alle elezioni proprio per sottoporlo a una sorta di investitura popolare anche in vista di quell’incarico, non esprime posizioni contrarie o diverse da quelle sostenute da Forza Italia. Anzi, su alcuni punti — ad esempio l’abrogazione della legge Severino o di alcune norme sulla custodia cautelare, in occasione dei referendum falliti a giugno — s’è schierato al fianco degli azzurri mentre Fratelli d’Italia era contraria. Dunque non dovrebbero esserci dubbi sulla linea che la neo-maggioranza intende perseguire, eppure resta il dissidio su chi debba guidare, dal ministero di via Arenula, la nuova stagione. Che anche in virtù di questa disputa non si annuncia semplice. Il caso vuole che mentre si discute del nuovo Guardasigilli quello ancora in carica, Marta Cartabia, abbia dato il via libera ai decreti attuativi delle riforme faticosamente approvate nell’ultimo anno e mezzo. Ma c’è da credere che su molti punti sui quali la ministra aveva raggiunto difficili mediazioni all’interno dell’ampia e contraddittoria maggioranza che sosteneva il governo Draghi, il centrodestra intenda ritornare per conseguire finalmente i risultati che non è riuscito a ottenere finora, prima ancora di vedere gli effetti delle norme appena varate: uno su tutti, la separazione delle carriere tra giudici e pm, quasi realizzata di fatto dalla riforma Cartabia. E su molte questioni, a cominciare da questa, la maggioranza che sosterrà il governo Meloni potrà contare sull’appoggio del gruppo di Renzi e Calenda, più vicino a quella parte che al centrosinistra in materia di giustizia. Siccome quando si toccano certi argomenti le tensioni sono sempre dietro l’angolo, i magistrati hanno messo le mani avanti chiedendo a chi si appresta a governare di non cedere alle “pulsioni di mettere in riga l’ordine giudiziario ravvivate in questi anni recenti”. E di nominare al prossimo Consiglio superiore della magistratura componenti “laici” di alto profilo, che non siano solo frutto della spartizione fra i partiti. Le toghe temono interventi punitivi o regolamenti di conti, non auspicabili da chi abbia davvero a cuore un reale buon funzionamento del sistema giudiziario. Che dovrebbe essere il vero obiettivo del nuovo ministro della Giustizia. Chiunque sarà. Il manifesto di Nordio sulla giustizia: “Costituzione autoritaria, pm fuori controllo” di Giuseppe Salvaggiulo La Stampa, 19 ottobre 2022 “L’unità delle carriere tra magistrati giudicanti e requirenti è una delle patologie del nostro sistema penale”. Come da ogni altra “malattia”, anche da questa “emergono tutte le altre disfunzioni collaterali di un codice ormai decrepito: l’obbligatorietà dell’azione penale, l’abuso della custodia cautelare, l’autoreferenzialità e irresponsabilità dei magistrati, via via fino alla chiusa obbligatoria della lentezza dei processi”. Nel giorno in cui Carlo Nordio viene designato da Giorgia Meloni ministro della Giustizia, il suo pensiero sulla giustizia viene stampato nella prefazione al libro “Non diamoci del tu. La separazione delle carriere” scritto da Giuseppe Benedetto, presidente della fondazione Luigi Einaudi, e pubblicato (nella collana “Problemi aperti”) dall’editore Rubbettino. Ecco dunque il Nordio-pensiero. La carriera dei magistrati - “È davvero il pm una parte imparziale? Ed è per questo che, come si legge nell’articolo 358 del codice di procedura penale, svolge altresì accertamenti su fatti e circostanze a favore dell’indagato? L’autore del libro definisce la norma la quintessenza del fariseismo. È vero. (…) In effetti i pm raramente vanno a cercare le prove a discolpa del sospettato, e talvolta fanno il contrario, al punto da occultare queste prove. L’esempio più recente è emerso a Milano, dove il tribunale ha bacchettato aspramente la Procura per non aver depositato atti favorevoli all’imputato”. In realtà, argomenta Nordio citando la “teoria della falsificazione che è stata forse il risultato più rivoluzionario dell’epistemologia contemporanea”, la norma che impone al pm di cercare prove a favore dell’imputato altro non è che “un tranello verbale”. In realtà il pm cerca solo riscontri alle sue ipotesi di accusa, “così evapora anche il concetto ambiguo di parte imparziale. Il pm è parte, perché assume l’iniziativa di indagine, e rimane tale, senza diventare imparziale come il giudice, perché la ricerca della smentita degli indizi accusatori non è altro che lo strumento dialettico per la loro conferma”. Il codice e la Costituzione - Nordio attribuisce al libro “il grande merito di aver finalmente rilevato le contraddizioni di un codice tendenzialmente liberale ma pesantemente ipotecato da un retaggio autoritario, che risiede non solo nella mentalità di molti magistrati, ma altresì nella stessa Costituzione cui intendeva adeguarsi. Perché, paradossalmente, è stata proprio quest’ultima a recepire molti principi del codice voluto da Rocco e da Mussolini”. L’unicità della carriera dei magistrati è appunto “uno degli elementi di politica e tecnica giudiziaria tipici del sistema inquisitorio”, come del resto “l’obbligatorietà e l’irretrattabilità dell’azione penale, l’identità tra il giudice del fatto e quello del diritto, tra il verdetto e la sentenza, e tanti “idola” duri a sparire, come la possibilità di impugnazione di una sentenza di proscioglimento, e magari l’irrogazione dell’ergastolo senza neanche l’intervento di nuove prove”. La Corte Costituzionale - Per dimostrare la tesi del paradossale cortocircuito di una Costituzione democratica che adotta un modello giurisdizionale autoritario, Nordio focalizza il ruolo di Giuliano Vassalli. “Decorato della Resistenza e padre di questo codice di procedura penale (del 1989, ndr) asseritamente antiautoritario, una volta vestita la toga di giudice costituzionale, ha contribuito a demolire la sua creatura, rivelatasi incompatibile con la Carta fondamentale”. La copiosa giurisprudenza costituzionale sulla formazione, conservazione e utilizzazione della prova appare agli occhi di Nordio “una vera e propria retrocessione verso i principi dell’istruttoria scritta e segreta del codice Rocco” introdotto sotto il fascismo. Dunque “senza una radicale revisione costituzionale ogni altra legge ordinaria sarebbe inidonea”. Il pubblico ministero - “L’aspetto più illogico e più allarmante” è che il pm è tutelato dalle stesse garanzie del giudice, “anche dopo l’immenso allargamento del potere conferito alle Procure proprio con il nuovo codice Vassalli. Perché il pm è diventato non più solo il monopolista, ma il dominus assoluto dell’indagine penale, con una discrezionalità che sconfina nell’arbitrio. Egli dirige la polizia giudiziaria, con tutto ciò che ne consegue, senza responsabilità e senza controlli. Un’anomalia intollerabile e irrazionale, aggravata, al limite della demenzialità, dal fatto che militando nello stesso sindacato, e operando nello stesso Csm, i pm che controllano la polizia condizionano in parte la giurisdizione”. Dunque la necessità di separare le carriere di pm e giudici non nasce dal desiderio di spezzare “un’intimità amicale”, ma dalla “perniciosa integrazione professionale tra gli uni e gli altri, con l’effetto sbalorditivo che ai Consigli giudiziari e soprattutto al Csm ci si vota a vicenda. E anche prescindendo dagli intrallazzi correntizi e dalle baratterie di cariche emerse dai recenti scandali, la ragione si rifiuta di ammettere che il pubblico accusatore possa promuovere o bocciare un giudice davanti al quale, un attimo prima, ha perorato una tesi che magari gli è stata respinta”. Le riforme - La chiosa della prefazione è dedicata al metodo per arrivare al traguardo della separazione delle carriere e del ridimensionamento dei pubblici ministeri. Quanto alle “apocalittiche obiezioni che l’Anm ci propina in occasione anche delle più moderate proposte riformatrici, come l’ultima della ministra Cartabia”, per “smentirle definitivamente” è sufficiente analizzare, come fa il libro, “i più importanti sistemi delle democrazie occidentali”. E per superare “le petulanti litanie di molte toghe”, Nordio ha le idee chiare: “Semmai la colpa è di chi chiede il loro parere. La lente deformante dei nostri pregiudizi, e soprattutto dei nostri interessi, ci fa veder le cose secondo la nostra convenienza. E chiedere a molti pm di rinunciare a questo immenso e incontrollato potere è come chiedere al tacchino di preparare il pranzo di Natale”. Se le toghe chiedono alla politica di salvarle dal correntismo di Alberto Cisterna Il Riformista, 19 ottobre 2022 Non può sottacersi che il discorso pronunciato dal presidente Santalucia al XXXV Congresso dell’Anm abbia un ordito fine e contenga spunti di un certo interesse per comprendere la postura che la magistratura italiana intende assumere a fronte dello tsunami minacciato dal prossimo governo di centrodestra. Dalle parole pronunciate nell’assise delle toghe ancor di più, quindi, si capisce che la nuova maggioranza sia chiamata a breve a scelte decisive. La composizione laica del Csm, e in essa la scelta del prossimo vicepresidente, e la nomina del ministro della Giustizia sono due snodi imprescindibili ai quali la corporazione dei magistrati guarda con comprensibile preoccupazione. Nella sua prolusione il presidente dell’Anm si è ben guardato, ovviamente, dall’esprimere una qualunque indicazione, finanche per linee generali, circa il profilo che dovrebbe connotare il prossimo inquilino di via Arenula. Troppo delicata è la partita in corso tra le forze politiche che hanno vinto le elezioni e troppo ingombrante la figura del ministro uscente (Cartabia) per azzardare anche solo un cenno sul punto. Mentre Santalucia non ha mancato di formulare un auspicio sulla scelta dei prossimi dieci componenti laici del Csm che il Parlamento in seduta comune dovrebbe, a breve, nominare: “siamo fiduciosi che il Parlamento saprà nominare una componente laica di alta statura che, per cultura giuridica e sensibilità istituzionale, agevolerà nel Consiglio che da qui a breve si insedierà il compimento di un processo di rinnovamento che, come sempre è accaduto, non può prescindere dalla buona volontà di donne e uomini”. Ora è noto che il requisito della “sensibilità istituzionale” non è tra quelli che la Costituzione elenca per la nomina al Csm, posto che l’articolo 104 impone che i componenti laici siano individuati “tra professori ordinari di università in materie giuridiche ed avvocati dopo quindici anni di esercizio”. È chiaro il messaggio: eviti la politica di spedire “guastatori” e “provocatori” a palazzo dei Marescialli e, soprattutto, eviti di replicare il metodo adoperato per la scelta dei vertici di Camera e Senato in cui è stata forte l’opzione per una chiara connotazione ideologica e identitaria. Sarebbe interessante comprendere, allora, quali più specifici requisiti dovrebbe avere la pattuglia parlamentare all’interno del Csm, posto che - poco prima - il presidente dell’Anm non aveva mancato di stigmatizzare proprio il contegno della componente laica dell’organo di autogoverno nella gestione degli affari di sua competenza e proprio in relazione alle vicende emerse dall’affaire Palamara: “Non può negarsi però che l’analisi delle patologie sia stata condotta spesso a senso unico, che ad esempio nelle molte riflessioni critiche sulle degenerazioni all’interno del Csm si siano evidenziate soltanto le responsabilità della magistratura e che poco spazio sia stato dedicato alla comprensione delle ragioni per le quali la cd. componente laica non ha esercitato con la necessaria continuità, come il Costituente si attendeva, quella benefica opera di interdizione delle possibili distorsioni corporative della maggioranza togata”. Nel discorso manca la risposta a un quesito che - posto in questi termini - assegna alla componente laica del Csm l’inedita funzione di operare da “cane da guardia” delle degenerazioni correntizie e spartitorie cui la magistratura sembrerebbe, addirittura per sua vocazione, naturalmente portata. È questa, invero tra altre, la partizione politicamente e ideologicamente più rilevante dell’allocuzione di Santalucia. Si tratta di uno snodo che segna un approfondimento interessante nella lunga e decennale discussione sulle ragioni poste a fondamento dell’equilibrio che il Costituente ha inteso realizzare all’interno del Csm con la composizione mista del suo organo di autogoverno. Due terzi di togati e un terzo di esponenti di nomina parlamentare al fine di garantire che il Csm non si trasformi da autogoverno in autogestione della magistratura italiana e perché tra le sue mura si realizzi l’indispensabile mediazione tra le istanze di indirizzo politico delle forze parlamentari e quelle di terzietà e indipendenza delle toghe. Ma in quelle parole, naturalmente, c’è dell’altro. Si intravede una chiara chiamata in correità verso la politica che, una volta entrata a palazzo Marescialli, si sarebbe acquietata, se non accodata, alle prassi clientelari e spartitorie senza esprimere alcuna funzione di “interdizione” verso i comportamenti e le opzioni più disinvolte. Si impongono un paio di riflessioni. Certo non si può sgranare oltre misura la filigrana sottile di queste considerazioni del presidente dell’Anm, ma è intuitivo che si intenda ricordare alla politica che la mala gestio corporativa non ha trovato un adeguato contrappeso nell’azione della componente laica del Csm che solo in rarissime occasioni ha mostrato compattezza e unità (si pensi alla nomina di Cantone alla procura di Perugia), e non si sarebbe sottratta alla tentazione di far quadrato con le correnti ideologicamente più affini. E, soprattutto, avrebbe abdicato a un’azione di controllo e di denuncia delle degenerazioni più evidenti. Un tale assunto, ovviamente, contraddice la tesi negazionista secondo cui quella dell’hotel Champagne sarebbe stata la conviviale di pochi infedeli e che tutta la questione si ridurrebbe alla presenza di poche mele marce. Se l’intera azione delle correnti nel Csm dovrebbe essere passata al setaccio fine di un controllo dei laici, allora le dimensioni del problema non possono essere in alcun modo circoscritte a singoli episodi. E, invero, se così stanno le cose, anche la “sensibilità istituzionale” rischia di essere endiadi equivoca nel ragionamento che si intendeva sviluppare. È chiaro che sarebbero necessari avvocati e professori universitari poco o per nulla sensibili verso le istanze della corporazione e, piuttosto, saldamente convinti dell’esigenza di premiare merito, trasparenza, efficienza, a dispetto di ogni convenienza di parte. Ma un ostacolo si frappone a questo condivisibile auspicio di Santalucia e lo ha ricordato Luigi Ferrarella il 12 ottobre scorso sulle colonne del Corriere della sera (“Giustizia: i confini dell’ipocrisia”) annoverando gli esiti di un complesso studio sull’organizzazione giudiziaria in Italia e le sue più vistose criticità: “Il primo è la concreta difficoltà nel giudicare i curricula dei candidati, dovuta all’eccessiva quantità di dati e indicatori in realtà scarsi per qualità, con pareri provenienti dai Consigli giudiziari tutti sempre positivi e privi di sfumature che permettano reali valutazioni, sicché Catino si sente confessare dai suoi intervistati che “a volte la strada più efficace sembra davvero quella di fare una telefonata ai colleghi dell’ufficio del candidato e chiedere pareri espliciti”“. È un circuito informativo che, come le toghe ben sanno, opera in maniera possente e, a volte, totalmente arbitrario e opaco. In fondo molte delle chat di Palamara non sono che il risvolto di questo metodo disinvolto nell’acquisizione di notizie, informazioni, se non pettegolezzi e veleni. Alcuni hanno pagato, moltissimi altri - in circuiti alternativi e paralleli - l’hanno fatta franca. Ora i componenti laici del Csm sono totalmente, o quasi, fuori da questo perimetro. Operano, spesso, alla cieca, senza disporre di referenti interni alla corporazione per cui o attivano (tramite i partiti di provenienza e nel loro interesse, se del caso) canali similari di comunicazione ovvero si affidano interamente alle indicazioni dei gruppi correntizi, al più cercando di influenzare questa o quella scelta. La componente laica è un’anatra zoppa, poiché del tutto asimmetriche sono le interlocuzioni possibili con la magistratura italiana rispetto alla componente togata. È vero, la riforma Cartabia ha previsto un paio di illeciti disciplinari proprio per contenere queste prassi distorte e sanzionare anche i membri del Csm che vi incorrano. Ma il punto vero è come assicurare a Palazzo dei marescialli informazioni attendibili, notizie affidabili sulle toghe in valutazione e per qualsivoglia fase della loro carriera. Ma qui la questione si complica e ha ragione Santalucia quando stigmatizza uno snodo importante della legge Cartabia a proposito delle cosiddette pagelle di valutazione: “Non si è compreso che un discorso sulla responsabilità della magistratura non si sviluppa utilmente imboccando la direzione di una revisione dell’organizzazione in senso accentuatamente gerarchico, con pagelle, fascicoli delle valutazioni onnivori ove si trova di tutto per poter dire di tutto”. Eppure in ciascun tribunale e in ciascuna corte, tutti, ma proprio tutti sanno chi sono i magistrati attenti e scrupolosi e chi sono i neghittosi, chi attende con diligenza e professionalità al proprio compito e chi svogliatamente smaltisce carte. L’emersione di questa cifra oscura della vera professionalità dei magistrati è il compito immane che attende chi voglia riformare davvero la magistratura italiana, sottraendola dalle nebbie di una omologazione che tanto si nutre di una sorta di sinistra omertà che alligna qua e là tra le toghe, ma anche tra gli addetti ai lavori, avvocati e personale amministrativo incluso. L’unica riforma da fare è separare le carriere tra civile e penale di Davide Varì Il Dubbio, 19 ottobre 2022 Il commento di Pasquale Grasso, ex presidente Anm. Il nuovo processo civile è pieno di aporie e insensatezze: con la nuova procedura i convenuti risultano “stritolati” e i giudici costantemente a rischio disciplinare. Riportiamo di seguito l’intervento che Pasquale Grasso, giudice ed ex presidente dell’Anm, ha diffuso sulle mailing list della magistratura a proposito delle nuove norme sul processo civile, appena completate dal decreto legislativo pubblicato ieri in Gazzetta Ufficiale. Sto studiando la riforma nella parte in cui rinnova il processo civile di primo grado, e ritengo che ci siano più previsioni lesive dell’autonomia e indipendenza dei giudici in questa riforma che in tutti i provvedimenti della politica che i magistrati hanno contestato (flebilmente) nel corso degli anni passati. Non riesco a esprimere in modo adeguato il mio dissenso nei confronti di questa riforma. Consapevole del fatto che alla redazione della stessa hanno partecipato, equamente distribuiti tra le correnti, magistrati ritenuti (immagino in sede ministeriale) più esperti della media. No comment. Mi crea scoramento l’incapacità assoluta dei magistrati (e quindi dei cittadini) di contrastare in modo efficace le aporie e insensatezze di questa inutile riforma. Tra le centinaia, evidenzio che - con il nuovo immaginifico elenco di adempimenti e scadenze inutili, con correlate fantascientifiche previsioni simil-divinatorie - le nuove norme sottoporranno i colleghi a rischi disciplinari immanenti, soprattutto negli uffici con grandi carichi di lavoro. Senza aggiungere una virgola a favore degli utenti, dei cittadini, né in termini di qualità né in termini di vera rapidità della risposta di giustizia. Dal lato dei magistrati, come detto, ci sarà un affannoso tentativo di rispetto di inutili forme e scadenze, nella paura del disciplinare. Paura giustificata perché sappiamo bene quanto l’umoralità delle decisioni disciplinari possa essere oscillante. E questo porterà i colleghi a coprirsi le spalle e a cercare rassicurazioni. E per converso i colleghi “strutturati” saranno ben lieti di offrire consiglio e appoggio ai giovani. Con buona pace di tutti discorsi sulla pervasività delle correnti e sull’esigenza di rinnovamento. Dal lato dell’avvocatura, la mancata rivolta mi appare incomprensibile. Il convenuto con la nuova procedura mi appare stritolato. L’attore si studia la causa e la relativa strategia per un anno magari. Poi il convenuto ha 50 giorni per preparare tutte le difese e poi iniziare uno slalom tra successivi termini: si costituisce; aspetta 15 giorni per vedere se il giudice conferma l’udienza; se la conferma, dopo 15 giorni deposita la prima memoria; dopo 20 giorni la memoria istruttoria; dopo 10 giorni la memoria di replica. Dopo altri 10 giorni va in udienza con il proprio assistito. Bahhh. E i cittadini si fanno illudere dall’ennesima riforma di bandiera. Dovremmo davvero protestare in modo epocale. Ma è appena finito un congresso Anm di autoincensamento. Devo confessare una cosa. Da tempo sono consapevole del fatto che la giustizia civile non conta nulla sia mediaticamente sia politicamente sia associativamente. E ne pagano le conseguente soprattutto le imprese, le famiglie, i cittadini inconsapevoli. Forse è arrivato per i magistrati il momento di chiedere la separazione delle carriere tra civile e penale. Così da recuperare il ruolo tecnico del giudice civile e magari evitare queste assurdità. Ho scritto separazione tra civile e penale, non tra giudice e pm. La riforma, ancora una volta come negli ultimi 20 anni, sottintende una visione fortemente burocratizzata della funzione del giudice civile e - diciamolo - una sfiducia sostanziale della sua capacità di gestione del processo.Visione che di fatto tanti giudici, forse per le problematiche sopra esposte, finiscono per condividere. Altrimenti saremmo tutti d’accordo nel dire che l’unica riforma sensata sarebbe applicare il cautelare uniforme a qualsiasi tipo di controversia: il giudice, tecnico del processo, lo fa procedere assegnando i termini che sono necessari e opportuni in relazione alla complessità della controversia nel rispetto del contraddittorio. Insomma, una riforma moderna doveva andare nella direzione opposta, potenziando - come detto da un collega che stimo - il case manegement, in base alla caratteristiche (contenuto, complessità, ecc.) del singolo processo. Rimaniamo invece il Paese ben descritto da Tomasi di Lampedusa. Liberiamo i pm dal “giogo” dell’appello alle assoluzioni di Alessandro Parrotta* Il Dubbio, 19 ottobre 2022 Il tema dell’inappellabilità delle sentenze di assoluzione da parte dell’Accusa è tema che coinvolge, a più livelli, molteplici interessi e visioni del processo penale. Dibattito che - drammaticamente, si direbbe - ritorna sempre attuale in tutti quei casi in cui, complice anche l’abnorme durata dei processi, un soggetto si veda assolto con una doppia conforme perché il pm ha appellato la sentenza di assoluzione di primo grado. Come noto, la disciplina dell’appellabilità delle sentenze penali era stata profondamente modificata con la legge 46/ 2006 (cd. Pecorella), poi cassata un anno dopo dalla Corte Costituzionale per asserita violazione del costituzionalizzato principio di “parità delle parti”. La legge aveva operato un massiccio ridimensionamento del potere d’appello del pm contro le sentenze di proscioglimento, in particolare prevedendone tout court la loro inappellabilità. Questo perché si era cercato di rimediare, probabilmente con una soluzione un po’ troppo radicale ma condivisibile nei fini, alle incongruenze che effettivamente sussistono nel caso di condanna per la prima volta in appello di un imputato assolto in primo grado: di fatto all’imputato verrebbe sottratto un grado di giudizio di merito, e quindi la possibilità di proporre appello, perché non potrebbe impugnare nel merito la pronuncia che lo ha condannato in secondo grado ma solo ricorrere per cassazione. Ad oggi, si è invertito il paradigma: la legge Pecorella dichiarava inappellabili tanto da parte del pm quanto da parte dell’imputato le sentenze di proscioglimento, tranne nei casi di emersione di nuove prove, sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado; oggi, le sentenze dibattimentali di proscioglimento rimangono sempre appellabili tranne alcune eccezioni che coinvolgono tanto il pm quanto l’imputato. Da più osservatori, oggi, si lamenta - condivisibilmente - la deriva che ha assunto l’istituto dell’appello del pm contro le sentenze di assoluzione in primo grado, ormai sempre più “personalistico” e sempre meno deputato al ruolo che gli compete, e cioè quello di censura di errori in fatto e/ o in diritto compiuti dal giudice di prime cure. Come osservato da Gian Domenico Caiazza, la ragione di tale cortocircuito risiede nel fatto che “sul piano professionale, si è quasi costretti a non rassegnarsi al verdetto assolutorio. Il magistrato dell’accusa che accetta la sentenza di proscioglimento - a loro dire - dichiara implicitamente che le sue ipotesi erano sbagliate”. Circostanza che, unita con gli altri grandi “mali” del processo penale (primo tra tutti, quello che sono diventate le misure cautelari), contribuisce a rendere sempre più distante l’idea di Giustizia da parte del cittadino, sentimento non biasimabile se solo si pensa a tutti quei soggetti che, sottoposti ad indagini a rilento e destinatari di una doppia conforme (a seguito di appello del pm), hanno sacrificato ingiustamente tempo, occasioni e - talvolta - una carriera, imbrigliati (quasi) ad infinitum nelle maglie della giustizia penale. La proposta di un ritorno alla legge Pecorella accolta con favore dall’Unione delle Camere Penali Italiane e con maggior diffidenza da parte dell’Anm (che boccia in pieno la proposta, già cassata - a suo dire - dalla Consulta), avrebbe come terreno di ispirazione la Relazione della Commissione Lattanzi la quale, istituita dalla uscente ministra Cartabia, aveva già (re) immaginato l’introduzione di una generale inappellabilità da parte del pm delle sentenze di assoluzione in primo grado con l’ovvia previsione di contraltari, tali da non pregiudicare il principio di “parità delle parti” tanto caro alla Consulta del 2007. La Commissione Lattanzi, prendendo le mosse proprio dalle recenti indicazioni della giurisprudenza costituzionale in materia di impugnazioni, rimarca con forza la “diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art 112 Cost. - e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti - quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. - e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi - quello dell’imputato” (sent. 34/ 2020). E ancora, “il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost”. La soluzione, coraggiosa, immaginata dalla Commissione sarebbe dunque quella di rendere solamente ricorribile per Cassazione, da parte del pm, una sentenza assolutoria di primo grado, mezzo di impugnazione ritenuto ugualmente e maggiormente in grado di attivare il controllo di legalità (sulla corretta applicazione della norma sostanziale), di legittimità (su eventuali errores in procedendo) e di razionalità del giudizio di fatto (sulla corretta applicazione delle regole della logica) della decisione. Come già osservato su queste pagine, anni addietro, i tempi sono maturi per una profonda riflessione intorno ad una tema così delicato, con il quale, sulla scorta dello spirito riformatore che ha ispirato la Riforma Cartabia, il nuovo Esecutivo dovrà necessariamente confrontarsi. *Avvocato, direttore Ispeg Gratuito patrocinio, niente revoca per il reddito di cittadinanza taciuto se la variazione non è rilevante di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 19 ottobre 2022 La norma sanziona la violazione dei termini per comunicare, ma solo per modifiche significative o per il superamento della soglia. Con l’ammissione al gratuito patrocinio l’imputato si impegna a comunicare le eventuali variazioni rilevanti di reddito, entro i termini di legge. Ma se li supera od omette l’obbligo di comunicazione è sanzionato, ma non con la revoca del beneficio se la variazione omessa o comunicata in ritardo non è “rilevante”. Così la Corte di cassazione - con la sentenza n. 39028/2022 - ripercorre l’indirizzo delle sezioni Unite penali secondo cui non qualsiasi variazione reddituale non comunicata determina la revoca del beneficio. E spiega, integrando il contenuto dell’articolo 112 del Dpr 115/2002 che sanziona l’omissione, come il rinvio della norma all’articolo 79 del Dpr determina che la revoca punisce solo le variazioni letteralmente rilevanti e non comunicate. Quindi la Cassazione prevede tre ipotesi e relative conseguenze: 1) la variazione non rilevante non obbliga alla comunicazione e quindi non è sanzionata tout court e men che mai con la revoca; 2) la variazione rilevante va comunicata entro i termini di legge per cui il mancato rispetto di essi determina la revoca; 3) la variazione rilevante accertata se determina il superamento della soglia di ammissione fa venir meno il beneficio. La rilevanza della variazione di reddito che non comporti il superamento della soglia di ammissione, ma che fa scattare comunque la revoca si valuta in base a fattori oggettivi di cui la Cassazione fa tre esempi: 1) l’entità dell’aumento del reddito; 2) il numero di annualità in cui si è verificata la variazione; 3) la prossimità del reddito effettivo alla soglia di non ammissibilità al beneficio. In effetti, il ricorrente, di cui la Cassazione accoglie il ricorso contro la revoca disposta, tacendo per due annualità la sopravvenuta percezione del reddito di cittadinanza ha omesso nei fatti l’indicazione di una variazione reddituale di soli 500 euro rispetto all’ultima dichiarazione dei redditi oggetto dell’iniziale autocertificazione per l’ammissione al gratuito patrocinio. Avellino. Suicidio in carcere di Luigi Della Valle, l’Asl riconosciuta responsabile civile di Vinicio Marchetti avellinotoday.it, 19 ottobre 2022 Il 18 luglio 2017 Luigi Della Valle, detenuto presso l’Istituto di Reclusione di Avellino, decide di togliersi la vita impiccandosi nella sua cella. Luigi Della Valle, originario di Montoro, 44 anni, un passato di tossicodipendenza e alcooldipendenza, era detenuto per reati di maltrattamenti in famiglia. L’11 ottobre scorso, il legale della famiglia Della Valle, l’avvocato Rosaria Vietri ha chiesto l’intervento del responsabile civile. Sono trascorsi più di cinque anni, ormai, dal drammatico gesto di Luigi ma la famiglia del 44enne continua a chiedere giustizia. L’avvocato Vietri, infatti, ha chiesto al magistrato di autorizzare la citazione dell’Asl di Avellino quale responsabile civile; in quanto l’imputato è dipendente della struttura sanitaria di via Degli Imbimbo. Asl di Avellino riconosciuta responsabile civile - Nella giornata di oggi il Giudice, Dott.ssa Zarrella, ha accolto la richiesta di parte civile di chiamata in causa del responsabile civile, individuato nell’Asl di Avellino 2, dove è presente il dipartimento di tutela della salute in carcere di cui l’imputato era dipendente. Per la costituzione in giudizio del responsabile civile e per iniziare a sentire i testi del Pubblico Ministero (tre, della sua lista di 20 N.d.R) ha rinviato al 20 dicembre 2022. Il medico generico del carcere di Bellizzi Irpino è accusato di omicidio colposo - Le accuse nei confronti del medico generico del carcere di Bellizzi Irpino sono di omicidio colposo per non aver valutato in modo corretto il caso del 44enne, affetto da patologie psichiatriche. Luigi Della Valle, infatti, aveva già tentato due volte ti togliersi la vita e fu salvato dal proprio compagno di cella. L’uomo, inoltre, era in cura psichiatrica mediante psicofarmaci a causa della sua totale incapacità di gestire la rabbia. Roma. Il mistero del detenuto che dorme da 4 mesi. Gli altri carcerati lo chiamano “il simulatore” di Alberto Infelise La Stampa, 19 ottobre 2022 Ha 28 anni ed è originario del Pakistan. Non si muove né di giorno né di notte. Ha un catetere e gli viene cambiato il pannolone. Alle udienze per il suo caso, viene portato in barella. I medici dicono: “Non ha nessuna patologia”. Nel carcere di Regina Coeli c’è “l’uomo che dorme”, da almeno quattro mesi non si sveglia. Ha 28 anni, è originario del Pakistan, ed è soprannominato dal personale “il simulatore”. A raccontare la storia Susanna Marietti, coordinatrice dell’associazione Antigone, che ha incontrato l’uomo a giugno scorso. “In questi mesi ho chiesto notizie, spiegazioni, soluzioni. Ma non sono riuscita ad arrivare a capo di nulla”, spiega Marietti. “L’ho incontrato in una stanza di degenza del centro clinico del carcere. Dormiva. O comunque era sdraiato sul letto, a occhi chiusi e immobile. L’infermiere mi ha spiegato che il ragazzo dorme sempre. Lui gli svuota il catetere, gli cambia il pannolone, gli infila un po’ di cibo liquido in bocca che l’uomo deglutisce in maniera meccanica. Gli ho domandato da quanto tempo il ragazzo si trovasse in quelle condizioni. Alcuni mesi, mi è stato risposto”, dice Marietti che ha raccontato questa storia nel suo blog su Il Fatto Quotidiano e che è stata rilanciata da Antigone in un post su Facebook. “Il personale del carcere che mi accompagnava in visita si riferiva a lui con l’appellativo di “simulatore”. Ho chiesto il perché e mi è stato detto che i vari controlli medici - molti, anche esterni al carcere, presso l’ospedale Sandro Pertini dove il ragazzo è stato più volte ricoverato - non hanno mai riscontrato nulla di oggettivo. Ho provato a dire - sottolinea Marietti - che la simulazione è un comportamento che viene messo in atto intenzionalmente e che nessuno simulerebbe mesi di morte apparente”. “Il ragazzo - aggiunge Marietti - non ha ancora una sentenza definitiva e nelle settimane passate, secondo quanto mi è stato raccontato durante la mia visita, si erano tenute alcune udienze del processo che lo riguarda. Ma il ragazzo dorme. Quando gli viene domandato se intende rinunciare a presenziare in tribunale, lui semplicemente dorme. Non risponde, né afferra una penna per firmare il modulo apposito. Dorme e basta. E la presenza al processo è un diritto procedurale che non si può negare se non su esplicita rinuncia. L’uomo veniva quindi adagiato su una barella, portato in tribunale e fatto stare lì, nell’aula dove si teneva l’udienza, addormentato e immobile, con il suo catetere e il suo pannolone, mentre i magistrati facevano il loro lavoro, per poi essere riportato nella sua stanza del carcere”. “Figure apicali del carcere in queste settimane si sono dedicate con grande impegno a cercare di individuare una soluzione praticabile. Ma sembra non esserci. E il ragazzo è lì, che dorme. Da mesi e forse per mesi. “Hai cambiato il pannolone al simulatore?”, “va pulita la cella del simulatore”, “il simulatore deve andare all’udienza”. “La colpa non è di nessuno in particolare. Ma in un sistema che può tollerare la presenza dell’uomo che dorme in una cella al centro di Roma c’è qualcosa che non funziona”, conclude Marietti. Parma. Il carcere scoppia ma in via Burla manca il Garante dei detenuti da otto mesi di Christian Donelli parmatoday.it, 19 ottobre 2022 Dopo la nomina, a febbraio, di Roberto Cavalieri come garante regionale manca una figura essenziale per la mediazione delle situazioni più critiche. Dopo l’episodio dell’olio bollente la penitenziaria torna a chiedere nuovi strumenti di difesa. La situazione nel carcere di massima sicurezza di Parma, dopo gli ultimi episodi di violenza, è esplosiva. Da otto mesi però il carcere parmigiano non ha un Garante dei detenuti. Il ruolo è stato infatti ricoperto, fino a febbraio del 2002, da Roberto Cavalieri, poi scelto per svolgere il ruolo di Garante regionale dei detenuti per tutta l’Emilia-Romagna. Da quel momento in poi manca la figura del Garante dei detenuti di Parma, che potrebbe mediare in numerose situazioni di tensione che si verificano all’interno del penitenzario di Parma e che svolge un ruolo di sensibilizzazione rispetto alle condizioni di vita e all’inserimento sociale dei detenuti. I sindacati degli agenti della polizia penitenziaria, intanto, sono tornati a denunciare le carenze di organico e a chiedere strumenti di difesa, come il taser (L’INTERVISTA). Per sostituire il vecchio Garante dei detenuti il Comune di Parma deve pubblicare un avviso per la presentazione delle candidature e poi votare in Consiglio comunale per l’elezione di uno dei candidati. Il ruolo, svolto gratuitamente e quindi senza alcun compenso, prevede una serie di azioni da effettuare, come scritto nel regolamento approvato nel 2018 dal Consiglio comunale. Dopo l’elezione a sindaco di Michele Guerra ora spetta all’Amministrazione cercare un sostituto per un ruolo che, soprattutto dopo l’episodio del lancio di olio bollente contro un poliziotto, è di fondamentale importanza per tutto il territorio Garante dei detenuti: ecco cosa dovrebbe fare - “Il Garante - si legge nel regolamento approvato - opera per migliorare le condizioni di vita e di inserimento sociale delle persone private della libertà personale mediante: la promozione di iniziative di sensibilizzazione pubblica sui temi dei diritti umani e dell’umanizzazione delle pene delle persone comunque private della libertà personale; la promozione di iniziative volte ad affermare per le persone private della libertà personale il pieno esercizio dei diritti comportanti relazioni ed interazioni operative anche con altri soggetti pubblici competenti in materia. Il Garante, svolge le sue funzioni anche attraverso intese e accordi con le Istituzioni interessate volti a consentire una migliore conoscenza delle condizioni delle persone private della libertà personale, mediante visite ai luoghi ove esse stesse si trovino, nonché con associazioni ed organismi operanti per la tutela dei diritti della persona. Il Garante partecipa agli incontri periodici del Comitato Locale per l’area dell’Esecuzione Penale Adulti (C.L.E.P.A) istituito in attuazione del “Protocollo d’Intesa tra il Ministero di Grazia e Giustizia e la Regione Emilia Romagna per il coordinamento degli interventi rivolti ai minori imputati di reato e agli adulti sottoposti a misure penali restrittive della libertà”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Torture in carcere, nuove indagini su altri 67 agenti di Attilio Nettuno casertanews.it, 19 ottobre 2022 La Procura ha chiesto ed ottenuto una proroga dell’attività investigativa sulla mattanza. Si allarga la cerchia degli agenti della polizia penitenziaria finiti nel mirino della Procura di Santa Maria Capua Vetere per le torture del 6 aprile del 2020 e per le condotte successive. Sono stati identificati altri 67 agenti che avrebbero preso parte al pestaggio dei detenuti per i quali i pm hanno chiesto ed ottenuto dal gip Alessia Stadio una proroga delle indagini preliminari per ulteriori 6 mesi. Alcuni di loro erano stati indagati inizialmente con le posizioni che erano state stralciate dalla Procura. A quei nomi se ne sono aggiunti altri, quelli degli agenti che sono stati man mano identificati tra gli artefici della mattanza. I 67 indagati sono residenti quasi tutti nel casertano tra Santa Maria Capua Vetere, San Felice a Cancello, Macerata, Caserta, Grazzanise, San Prisco, Alife, Piedimonte Matese, Sessa Aurunca, Marcianise, Recale, Lusciano, Teano, Teverola, Pontelatone, Aversa, Castel di Sasso. Le accuse per tutti sono di abuso di autorità contro i detenuti, maltrattamenti e lesioni. Intanto, ad inizio del prossimo mese ci sarà la prima udienza a carico di 105 imputati - tra agenti, funzionari dell’amministrazione penitenziaria e medici - rinviati a giudizio mentre solo due imputati - Angelo Di Costanzo e Vittorio Vinciguerra, difesi dagli avvocati Gerardo Marrocco e Massimiliano Di Fuccia - procederanno con l’abbreviato, con l’udienza che è slittata dalla prossima settimana a gennaio del prossimo anno. Gli imputati nel maxi processo per la mattanza rispondono, a seconda delle loro rispettive posizioni e partecipazioni alla rappresaglia in carcere, dei delitti di tortura pluriaggravati ai danni di numerosi detenuti, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico (anche per induzione) aggravato, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale, rivelazioni indebite di segreti d’ufficio, omessa denuncia e cooperazione nell’omicidio colposo ai danni del detenuto Hakimi Lamine, deceduto in carcere il 4 maggio 2020. Ancona. Detenuti in cura, a Torrette lo “spazio detentivo” è realtà anconatoday.it, 19 ottobre 2022 È stato realizzato a nell’ospedale regionale il “reparto detentivo”, spazio idoneo per i detenuti in cura. Lo conferma il vice segretario regionale Uil-pa Polizia penitenziaria Gianluca Scarano, dopo i diversi incontri che si sono tenuti tra Regione e organizzazioni sindacali di polizia penitenziaria. Il reparto detentivo è stato consegnato, dopo interventi strutturali, all’amministrazione penitenziaria. “Sarà adesso cura dei sindacati vigilare sulla reale operatività del servizio che verrà messo a disposizione degli istituti di pena anconetani - spiega Scarano - restano da raggiungere altri obbiettivi come il protocollo d’intesa tra Regione e Provveditorato dell’amministratore penitenziaria per l’impiego della popolazione detenuta al lavoro, con l’aiuto del Garante e le varie associazioni, e le visita nei penitenziari da parte del Presidente del consiglio Regionale di concerto con il Provveditore dell’amministrazione penitenziaria e le compagini sindacali”. Milano. Detenuti, magistrati, giovani: lotta contro la leucemia. Una sfida per la ricerca di Elisabetta Soglio Corriere della Sera, 19 ottobre 2022 La seconda edizione del Torneo di Calcio di beneficenza in San Vittore: “Mettiamoci in gioco e aiutiamo i bambini malati a sognare un futuro più felice”. Metti un sabato pomeriggio, trovarsi per giocare a pallone: cosa ci sarebbe di più normale? Eppure certe volte diventa un ritrovo particolare. Per esempio se a trovarsi per giocare insieme è un gruppo che comprende magistrati, detenuti, poliziotti, avvocati. E giovani usciti da un reparto di oncologia pediatrica dopo avere lottato e vinto contro la leucemia. Se poi questo incontro avviene dentro un carcere, a scopo benefico, con le famiglie a fare il tifo a bordo campo, forse anche per chi non vi ha assistito è facile immaginare la botta emotiva che invece ha provato chi c’era. È successo a Milano nel carcere di San Vittore sabato scorso, 15 ottobre. Per la seconda volta. E il merito di questo che potrebbe anche apparire come un piccolo miracolo, se non fosse appunto per l’atmosfera di calda “normalità” che lo ha caratterizzato e porterebbe invece a chiedersi “ma perché non lo fanno più spesso?”, è di una Fondazione nata a seguito di un grande dolore ma cresciuta nel segno della speranza e dell’amore per la vita: la Fondazione Alessandro Maria Zancan - in forma breve Grande Ale Onlus - costituita nel 2014 dai genitori in memoria del loro Alessandro mancato all’età di dieci anni per leucemia linfoblastica acuta di tipo T. La sfida di San Vittore è stata solo la più recente tra le innumerevoli iniziative della Fondazione, che con la Casa circondariale milanese aveva già avuto occasione di collaborare più volte. Questa l’origine del 2° Torneo di Calcio di beneficenza in San Vittore “Mettiamoci in gioco e aiutiamo i bambini malati a sognare un futuro più felice”. Il torneo si è svolto presso il campo da calcio “Candido Cannavò” all’interno dell’istituto di piazza Filangieri, con l’obiettivo di sostenere la ricerca scientifica per le leucemie infantili e promuovere ogni utile iniziativa a sostegno dei bambini leucemici o colpiti da altre malattie, e di sostenere attività benefiche a favore delle famiglie di bambini in condizioni di povertà. Ad affrontarsi sono state cinque formazioni: in primo luogo “I Mitici”, squadra dei ragazzi guariti dalla leucemia del reparto di oncologia pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza, quindi una rappresentativa della Polizia Penitenziaria di San Vittore, e poi Nazionale Magistrati, Ordine degli Avvocati e Camera Penale di Milano, quindi naturalmente una selezione dei detenuti del carcere. Con l’aggiunta di una sfida extra, in una singola partita tutta al femminile, tra una formazione della Guardia di Finanza e una ulteriore della Polizia penitenziaria: che per la cronaca ha vinto con sette gol di vantaggio. A vincere il torneo, sempre per la cronaca, è stata invece la squadra dei Mitici. Ma la verità è che questa volta hanno vinto tutti. Quando una cosa la si fa per i bambini, in effetti, va così. Potenza. Un workshop di teatro e danza per detenuti e studenti Gazzetta del Mezzogiorno, 19 ottobre 2022 Dal 20 al 22 ottobre all’interno del carcere, iniziativa del Teatro Oltre i Limiti e del liceo coreutico di Montalbano Jonico. Al via la quarta edizione di “Teatro Oltre i Limiti”, la rassegna di promozione del teatro in carcere curata dalla Compagnia teatrale Petra in partenariato con la Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza e rivolta ai detenuti della sezione maschile del penitenziario. In programma dal 20 al 22 ottobre, la prima tappa dell’azione “Artisti in Transito”, che prevede un workshop intensivo condotto dal danzatore, coreografo e insegnante Manfredi Perego, in collaborazione con il Città delle 100 Scale Festival, e destinato ai detenuti/attori del laboratorio teatrale in carcere e ad una rappresentanza di alunni del Liceo Musicale-Coreutico dell’ISIS “Pitagora” di Montalbano Jonico, con la partecipazione dello staff di Petra. “Artisti in transito” è uno dei momenti cardine di apertura e di riflessione del lavoro artistico di “Teatro Oltre i Limiti”, che ha lo scopo di mettere in relazione detenuti e mondo teatrale. Si tratta di incursioni artistiche, laboratori intensivi condotti da artisti del panorama nazionale, fruibili dagli attori/detenuti del laboratorio teatrale, da un gruppo di allievi e/o attori provenienti dall’esterno e dagli studenti delle scuole secondarie di II grado. “Teatro Oltre i Limiti” è un’attività di teatro sociale in carcere promossa dalla Compagnia teatrale Petra con la stretta collaborazione della direzione della Casa Circondariale di Potenza, dott.ssa Maria Rosaria Petraccone, del comandante Giovanni Lamarca e dell’area sicurezza e trattamentale del carcere. Il progetto è stato avviato nel 2018, grazie alla stipula di una convenzione per la gestione dello spazio teatrale presente all’interno della Casa Circondariale, con l’obiettivo di farne uno spazio culturale della città e per la città di Potenza, con un’offerta culturale sia di formazione che di presenza di artisti del panorama nazionale. Alla base del progetto c’è l’assunto del teatro come linguaggio capace di superare il concetto di “limite”, nel luogo stesso a cui viene automaticamente abbinato dall’immaginario collettivo. Mettendo insieme teatro, carcere e società civile, “Teatro Oltre i Limiti” ribalta la concezione detentiva a favore di una nuova visione: da luogo di reclusione a luogo (anche) di cultura. Giunto alla sua quarta edizione, “Teatro Oltre i Limiti” intende consolidare quel “ponte” costruito negli anni tra gli abitanti “di dentro”, che si relazionano in un modo nuovo grazie al teatro, e quelli “di fuori”, che scoprono l’interno delle mura del contesto carcere: il carcere si apre alla città (e i detenuti diventano attori). Da ottobre 2022 a giugno 2023, i detenuti della sezione maschile della Casa Circondariale di Potenza potranno seguire un percorso formativo di pratica delle discipline teatrali, attraverso un laboratorio condotto da Antonella Iallorenzi, esperta in teatro sociale, e Mariagrazia Nacci, coreografa e danzatrice. “Teatro Oltre i Limiti” è un progetto prodotto dalla Compagnia teatrale Petra, con il contributo di Otto per Mille dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, il partenariato della Casa Circondariale di Potenza e la collaborazione del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, del Città delle 100 Scale Festival, dell’Ateneo Musica Basilicata, della Compagnia teatrale L’Albero, di UniversaMusica e di Multietnica. La direzione artistica è di Antonella Iallorenzi, la direzione tecnica di Angelo Piccinni. Perugia. Domani spettacolo teatrale realizzato da 14 detenuti del carcere di Capanne trgmedia.it, 19 ottobre 2022 I detenuti della Casa circondariale di Capanne tornano in scena grazie al progetto “Per Aspera ad Astra - Come riconfigurare il carcere attraverso la cultura e la bellezza” promosso da Acri, l’Associazione delle Fondazioni di origine bancaria e declinato sul territorio grazie al supporto di Fondazione Perugia e al contributo artistico e organizzativo del Teatro Stabile dell’Umbria. La quarta edizione del progetto, pensato per contribuire al recupero dell’identità personale e alla risocializzazione dei detenuti, sarà illustrata in occasione di una conferenza stampa in programma giovedì 20 ottobre alle ore 11.30 nella sede di Fondazione Perugia a Palazzo Graziani in Corso Vannucci, 47. Parteciperanno: Daniela Monni, presidente Commissione welfare di Fondazione Perugia, Bernardina Di Mario, direttrice della Casa Circondariale di Capanne, Nino Marino, direttore del Teatro Stabile dell’Umbria e la regista Vittoria Corallo. Modera Fabrizio Stazi, direttore di Fondazione Perugia. Paola (Cs). Il Club Alpino in carcere per educare i detenuti al rispetto per l’ambiente di Francesco Frangella cosenzachannel.it, 19 ottobre 2022 Per la prima volta, il Club Alpino Italiano (Cai) ha avuto accesso ad un istituto penitenziario per trasmettere istanze ambientaliste, un’iniziativa molto rilevante sul piano rieducativo-trattamentale, che pone la casa circondariale di Paola all’avanguardia nell’ambito del reinserimento di quanti stanno scontando una pena. “Camminare per conoscere, conoscere per amare e amare per proteggere”. Presentandosi con questo motto, il Cai ha fatto visita ai detenuti della casa circondariale di Paola, dando avvio di una serie di iniziative volte alla sensibilizzazione necessaria a rieducare gli ospiti della struttura al rispetto per la natura e alle buone pratiche da seguire una volta tornati in libertà. “Far conoscere quello che abbiamo intorno a noi. Solo nella nostra Calabria - ha detto Roberto Mele a nome del Cai - ci sono dei paradisi terresti. Sono posti spettacolari, a un passo da casa, che magari non conosciamo per pigrizia. Eppure basterebbe una passeggiata in una faggeta o una pineta, per rendersi conto di quanto sia facile entrare in sintonia col nostro ambiente. Senza particolari sforzi - ha proseguito Mele - ognuno è messo in condizione di comprendere quanto sia necessario un approccio diverso a tutto ciò che ci circonda, quanto sia doveroso il rispetto per l’ecosistema in cui viviamo. Una passeggiata, niente di più facile per capire quanto sia opportuna l’armonia, che ispira il senso civico dal quale trarre spunto per maturare la determinazione necessaria a proteggere e preservare. Tutti sentimenti che, trasmetterli ai detenuti - ha concluso a nome del Cai - in questa sede, oggi, a Paola, mi emozionano molto più del solito”. Sulla necessità di ripristinare i cardini della sensibilità che occorre per riconoscere il bello, si è espressa anche la direttrice della casa circondariale paolana, Emilia Boccagna. “Da tempo, in questo istituto, sono in corso una serie di iniziative - ha detto la funzionaria ministeriale - improntate a saldare il filo che lega la società esterna a quanti stanno scontando una pena che prevede la detenzione inframuraria. Ultimo di una serie che prevediamo di allungare ulteriormente, l’appuntamento odierno rappresenta il coronamento di un impegno che i detenuti hanno già mostrato di sapersi assumere, contribuendo volontariamente a varie iniziative di carattere ambientalista”. All’incontro hanno preso parte anche la presidente regionale della Tam (Tutela Ambiente Montano), Mariuccia Papa, e Luigi Patitucci, accompagnatore di escursioni per conto del Cai, intervenuti sul palco per rendere tangibili le “visioni” proiettate sullo schermo. Parolin: “Il carcere ci riguarda perché l’uomo non è il suo reato” romasette.it, 19 ottobre 2022 Il cardinale firma l’introduzione a “Il carcere tra giustizia, perdono e misericordia” (Paoline): due giornalisti a colloquio con il cappellano di Regina Coeli padre Trani. “In una società che ha perso la capacità di perdonare e di riscoprirsi unica famiglia, di prendersi cura degli altri e di chinarsi sulle ferite, forse un libro sul carcere - scritto e letto in un’ottica cristiana - è necessario e doveroso”. Lo scrive il cardinale segretario di Stato vaticano Pietro Parolin nell’introduzione al libro “Come è in cielo, così sia in terra. Il carcere tra giustizia, perdono e misericordia”, in libreria dal 20 ottobre per le edizioni Paoline. Il libro - un colloquio tra due giornalisti, Agnese Pellegrini, del Gruppo editoriale San Paolo, e Stefano Natoli, con padre Vittorio Trani, cappellano di Regina Coeli da mezzo secolo - è una sorta di diario del carcere e sul carcere, che fa capire il senso profondo della giustizia e della pena. “Spesso - osserva Parolin - chi commette un reato lo fa perché c’è tutta una realtà distorta attorno a lui, che andrebbe ricostruita. Frequentemente, i detenuti provengono da situazioni di povertà sociale, materiale, economica, spirituale - aggiunge. Ciò non rende meno grave il crimine commesso, ci mancherebbe”. Questa consapevolezza però, è la tesi del cardinale, “interroga noi, soprattutto noi cristiani, su che cosa abbiamo fatto per evitare a quell’uomo di sprofondare nelle proprie miserie; su quanto ci siamo sporcati le mani; su come siamo stati capaci, al pari della Veronica, di asciugare il volto di quell’uomo e quella donna che salivano il monte del proprio Calvario. Se sapremo rispondere a queste domande, allora scopriremo che il carcere riguarda tutti noi, e non soltanto una parte della società, la peggiore, quella che alcuni vorrebbero chiudere per sempre, e buttare poi la chiave. Il carcere riguarda noi - prosegue - perché l’uomo non è il suo peccato, né il suo reato; riguarda noi, perché siamo i custodi dei nostri fratelli; perché nessuno si salva da solo”. Riferendosi al libro, Parolin rileva che “volti e nomi, storie e paure in queste pagine si susseguono: sembra quasi di vederli, questi detenuti, con i loro sbagli, i loro errori, ma anche con la loro voglia di ricominciare, di tornare a sperare”. Di qui la proposta di percorsi concreti e condivisibili, per una pena certa ma anche giusta ed efficace. “Europe For Peace”. La marea arcobaleno che non ti aspetti di Francesco Vignarca Il Manifesto, 19 ottobre 2022 Ora, come richiesta urgente, crediamo sia cruciale richiamare i prossimi passi necessari per provare a costruire la pace: fermare i combattimenti e negoziato aperto. La marea arcobaleno della Pace si sta alzando, prendendo energia e vigore ogni giorno che passa. E non si tratta solo della percezione ottimistica di chi coordina le Reti di organizzazioni che lavorano, da sempre e quotidianamente, in questo campo. Lo testimoniano i numeri: sono tantissime le adesioni in arrivo in queste ore. Alle iniziative di mobilitazione proposte da “Europe For Peace” per il weekend del 21 al 23 ottobre. Davvero è probabile che si arrivi a 100 città che si mobiliteranno per la pace: da Roma a Milano, da Firenze a Bari, da Palermo a Napoli, da Venezia a Bologna, da Torino a Verona… e in tantissime altri comuni grandi e piccoli. Ma lo testimonia anche il coro di voci che ha tratteggiato, nella conferenza stampa di presentazione ieri in Campidoglio, i contenuti della grande manifestazione in programma il 5 novembre a Roma. Una piazza di popolo che sia preannuncia oltre modo partecipata, forse come non se ne vedevano da anni, grazie al contributo di associazioni ed organizzazioni di diversa storia, provenienza, natura. Ma tutte concentrate sull’obiettivo di esplicitare un “No alla guerra” fondato su strade possibili - e concrete - di pace. A partire da un cessate il fuoco ormai necessario e non rimandabile che faccia da precondizione per negoziati seri all’interno di una Conferenza internazionale di pace. Solo un dialogo multilaterale potrà garantire una via di uscita ad una situazione non solo drammatica per le popolazioni civili sotto i bombardamenti (che sono “la parte” a fianco della quale si schierano da sempre i movimenti pacifisti) ma anche preoccupante per il rischio di escalation nucleare. Tutte le organizzazioni (la lista è impressionante e in continua crescita…) che convergono sul testo di convocazione della manifestazione del 5 novembre sono convinte che questi siano i due punti cruciali e da affrontare immediatamente. Ed è su questo che vogliono lavorare congiuntamente, anche superando alcune differenze di valutazione o di proposte avanzate negli ultimi mesi. Differenze che non si possono certo ignorare ma che al momento, a mio parere, devono essere superate proprio perché la situazione è ogni giorno sempre più insostenibile e servono vie di uscita, non discussioni filosofiche. Un caso su tutti: l’invio delle armi occidentali a sostegno della resistenza militare ucraina. La Rete Italiana Pace e Disarmo ha sempre avuto una posizione critica in tal senso (per vari motivi e sulla base del lavoro fatto in questi ultimi anni, non solo quindi per posizione “ideale”). Abbiamo ripetuto la nostra richiesta di stop in questi ultimi mesi e non a caso un passaggio sulle “armi che non possono portare pace” è presente nella convocazione delle manifestazioni del 21/23 ottobre proprio per richiamare questo aspetto, così come vengono ripetute le richieste di disarmo strutturale. Ma ora, come richiesta urgente, crediamo sia cruciale richiamare i prossimi passi necessari per provare a costruire la pace: fermare il combattimento e negoziato aperto. Concentrarsi quindi insieme su soluzioni nonviolente condivise aumentandone il sostegno e spingendo la politica a considerarli, al posto di continuare dibattiti e polemiche. Ma il lavoro dei movimenti pacifisti nonviolenti non si può misurare solo sugli eventi di piazza, che devono essere la punta visibile di un percorso quotidiano di proposte serie e in grado di fornire prospettive concrete soprattutto, alla politica e alle istituzioni. Sono belli i luoghi in cui si possono trovare i pacifisti ed è lì che non guardano quasi tutti i commentatori. Lo ha ricordato al meglio Giulio Marcon, intervenendo in conferenza stampa a nome di “Europe For Peace” e di Sbilanciamoci!, con le parole scritte dal beato Tonino Bello ormai trent’anni fa: “Voi lo sapete dove sono andati a finire i pacifisti. Li troverete negli innumerevoli laboratori d’analisi in cui si smaschera la radice ultima di ogni guerra e quella ultimissima del suo archetipo di sangue: il potere del denaro. Li troverete nei luoghi dove si formano le nuove generazioni a compitare le letture sovversive della pace, facendo loro capire che i cannoni non tuonano mai amore di patria, ma sillabano sempre in lettere di piombo la suprema ragione dell’oro. Li troverete là dove, scoprendo tutta l’impostura dell’antico mito della città che si fonda sul sangue, si mostra, invece, che è possibile fondarla sulla solidarietà (….). Li troverete là dove si svelano le intime connessioni tra i signori della guerra, élites di potere e faccendieri della grande finanza, che già stringono tra loro lucrosi patti sui nuovi conflitti”. Sembrano concetti scritti ieri, il che dimostra che le forze e le dinamiche che cercano di chiudere qualsiasi prospettiva di pace in una scatola di rapporti di forza, militari ed economici, continuano essere ben vigorose. Dimostrando che solo una montante marea arcobaleno di pace, che renda esplicita la posizione chiara dei popoli e delle comunità, ci saprà mostrare una strada nuova. Davvero necessaria. Previdenza. “Opzione uomo” aumenta la povertà di Elsa Fornero La Stampa, 19 ottobre 2022 Da circa un ventennio, in Italia il rapporto tra il numero degli occupati e la popolazione in età di lavoro (ossia tra i 15/16 e i 65 anni) è inferiore di quasi dieci punti percentuali rispetto alla media europea. La differenza sale a circa 15 punti con la Germania, e negli ultimi 10 anni soltanto la Grecia ha fatto peggio di noi. Se il dato italiano fosse pari a quello medio dell’Unione Europea, avremmo un Pil nettamente più elevato, meno povertà, minor disagio sociale e maggiore benessere. Pur con una bassa percentuale di lavoratori, se almeno il loro lavoro fosse più produttivo e anche meglio retribuito le cose andrebbero nettamente meglio. E invece no: la produttività ristagna in Italia da decenni - mentre è cresciuta, con poche altre eccezioni, nel resto d’Europa - e le retribuzioni sono anch’esse, in media, ferme o quasi da decenni. Bassa occupazione, quindi, e scarsamente retribuita. Come se non bastasse, le proiezioni demografiche ci dicono che avremo una diminuzione generale della popolazione di 5-7 milioni entro il 2050, tutta concentrata tra i giovani e le persone in età di lavoro (circa un quarto in meno!), mentre aumenterà in misura significativa la popolazione dai 65 anni in su. È l’effetto invecchiamento legato anche al saldo negativo, da diversi anni, tra il numero dei nati e quello dei morti: oggi ci sono 35 persone di 65 anni e più per ogni 100 in età di lavoro, nel 2050 saranno quasi raddoppiate. Per di più, chi è in età di lavoro non sarà necessariamente occupato: disoccupazione e non partecipazione, infatti, mostrano anch’esse valori percentuali più elevati della media europea, soprattutto nel Mezzogiorno, tra le donne e i giovani. Di fronte a questa situazione, dovrebbe essere chiaro a tutti che obiettivo primario della politica dev’essere l’aumento dell’occupazione e della sua produttività, con programmi che vanno dal miglioramento dell’istruzione e della formazione, agli investimenti pubblici, agli incentivi alle imprese per assunzioni nette (ovviamente dando per scontato che le misure contro l’emergenza energetica ne determinino una solida sopravvivenza). Al tempo stesso, occorrerà introdurre un salario minimo per evitare che si allarghi l’area del lavoro povero, che spinge molte famiglie a non superare la soglia di povertà. Non si comprende quindi come si possa pensare ancora a misure generalizzate di pensionamento anticipato, come “l’opzione uomo” ventilata in questi giorni, una copia della già sperimentata “opzione donna” che consente alle lavoratrici di ritirarsi con 35 anni di contributi e 58/59 anni di età ma con una pensione interamente calcolata sulla base dei contributi versati e dell’età al pensionamento, e perciò sensibilmente inferiore a quella riconosciuta in corrispondenza con i requisiti più stringenti della riforma del 2011. Quest’eventuale misura va valutata negativamente - insieme a “quota 41” (anni di contributi, senza vincolo di età) a cui fa spesso riferimento la Lega - perché l’esperienza dimostra che le uscite anticipate dal lavoro non portano affatto all’assunzione di un numero uguale o maggiore di giovani. Con minore occupazione, il paese continuerà a impoverirsi, costringendo il bilancio pubblico a destinare più risorse all’assistenza e, dato il debito, a sottrarle ad altre spese pubbliche, ben più efficaci nel promuovere il lavoro. Con scarse prospettive occupazionali in patria, continuerebbe l’emorragia di giovani verso altri paesi, il che peggiorerebbe le nostre chances di crescita. La seconda ragione riguarda gli effetti negativi sul bilancio dell’Inps, e quindi su disavanzo e debito pubblico, posto che non si voglia aumentare stabilmente la tassazione per ridurre l’età pensionabile. Con un minor numero di occupati e un maggior numero di pensioni in pagamento diminuiscono le entrate contributive e cresce la spesa, e proprio nel periodo in cui la demografia, da un lato, e l’inflazione, dall’altro, già ne determinano una cospicua crescita. Chi non ricorda la famosa gobba della spesa pensionistica in rapporto al Pil, guardata con forte preoccupazione dalle istituzioni internazionali e contro la quale si scagliavano generalmente i media prima della riforma del 2011? La gobba non è stata eliminata ma certo fortemente attenuata dalla riforma. Quota 100 l’ha rigenerata e misure che consentano ampia flessibilità nell’accesso al pensionamento non farebbero che aggravare il problema. È in ballo la sostenibilità a lungo termine del sistema, un rischio che ricade anzitutto sui giovani. La terza ragione è che si innescherebbe un circolo vizioso per cui non soltanto aumenterebbe la povertà di oggi ma si metterebbero le basi per aumentare anche quella futura: il pensionamento anticipato con calcolo contributivo della pensione comporta una pensione più bassa (diciamo del 3-3,5 per cento per anno di anticipo) che può magari bastare all’inizio del pensionamento ma rischia di divenire inadeguata con l’avanzare dell’età, allorché - tra l’altro - crescono i bisogni sanitari e di cura. Non dimentichiamo che le basse pensioni del nostro Paese, oggi, sono in larga misura il risultato dei pensionamenti a età ancor relativamente giovane del passato (anche dimenticando le baby pensioni). La politica, in definitiva, non può trascurare che le migliori garanzie di buone pensioni in futuro sono una vita lavorativa adeguata, un reddito da lavoro dignitoso e un’età di pensionamento più alta che tenga conto dell’aumento dell’aspettativa di vita. Forzature in nome dei diritti acquisiti sono miopi e rischiose. Tutto ciò non significa che non si debba fare nulla. Anzitutto, è giusto mantenere, e magari aumentare, gli interventi più solidaristici, come l’anticipo della pensione per i lavori usuranti e gravosi e come l’Ape sociale, e metterli a carico della tassazione generale e non dei contributi, che aumentano il costo del lavoro. In secondo luogo, si deve allargare l’area di copertura contributiva dei periodi di inattività forzata, per disoccupazione, cura di famigliari o anche riqualificazione professionale, in modo da far sì che i lavoratori - e, più ancora, le lavoratrici - riescano ad accumulare una ricchezza pensionistica sufficiente a finanziare una pensione che permetta loro di affrontare la vecchiaia con un po’ di serenità. E senza il senso di colpa che deriverebbe dall’averlo fatto, almeno in parte, a danno dei loro nipoti, sempre meno numerosi. Contro l’aborto arriva in Senato una proposta di legge di Gasparri. Pd: “Inaudito” di Matteo Pucciarelli La Repubblica, 19 ottobre 2022 Il senatore di FI vuole intervenire sulla capacità giuridica del concepito, introdurre il reato di surrogazione di maternità commesso all’estero e istituire la Giornata della vita nascente. Malpezzi: “Questa è la destra che ha a cuore la libertà delle donne?”. Aborto, il centrodestra ci prova. Nonostante le smentite, sembra voler mettere mano, se non alla legge 194, alle norme che riguardano la materia. Il preannuncio di battaglia è in una proposta di legge firmata da Maurizio Gasparri e depositata in Senato. Un’iniziativa “inaudita”, protesta dal Pd la capogruppo Simona Malpezzi. Ma di cosa si tratta? Di una proposta di legge presentata il 13 ottobre, nella prima seduta di Palazzo Madama, dal titolo: “Modifica dell’articolo 1 del codice civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica del concepito”. Oggi il codice civile prevede che i diritti che la legge riconosce a favore del concepito “sono subordinati all’evento della nascita”. Su questa previsione Gasparri vuole intervenire. E ha già depositato altri testi sul tema. Uno per introdurre il “reato di surrogazione di maternità commesso all’estero”. Un altro per istituire la Giornata della vita nascente. Iniziative che ricordano nell’ispirazione il testo di Fratelli d’Italia, presentato e difeso nella scorsa legislatura, per la sepoltura dei feti, anche senza il consenso dei genitori. Il Pd, con la neo capogruppo Simona Malpezzi, sembra vedere nella proposta depositata da Gasparri l’annuncio di quel sarà. E lo denuncia. “In Senato FI ripresenta il ddl per modificare l’art 1 del Codice Civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica del nascituro. Questa è la destra che ha a cuore la libertà delle donne, la destra che dice che non toccherà la 194. Inaudito”, afferma la capogruppo. “Gasparri scherza col fuoco, l’Italia si opporrà”, aggiunge Chiara Appendino, deputata M5S. “Ci opporremo dentro e fuori il Parlamento, a difesa di tutte e di tutti”, sottolinea Riccardo Magi di +Europa. Sul campo dei diritti si prepara la battaglia. Questa volta c’è da avere paura di Loredana Lipperini La Stampa, 19 ottobre 2022 Consta di una sola frase, o quanto meno è la sola leggibile al momento: “Modifica dell’articolo 1 del codice civile in materia di riconoscimento della capacità giuridica del concepito”. È il disegno di legge (atto del Senato n.165, XIX legislatura) presentato da Maurizio Gasparri, Forza Italia, nonché primo attacco ufficiale alla legge sull’aborto, sferrato senza che il governo Meloni sia ufficialmente insediato. Non è vero, dunque, che la 194 non si tocca: si prova anzi a smantellarla prima che un solo ministro abbia giurato. Per chiarire: l’articolo uno del codice civile (“delle persone e della famiglia”), recita così: “La capacità giuridica si acquista dal momento della nascita” e “i diritti che la legge riconosce a favore del concepito sono subordinati all’evento della nascita”. A far saltare la legge attraverso la modifica di quell’articolo hanno provato in parecchi. Un anno fa, l’allora senatrice Udc Paola Binetti promuove una proposta di legge di iniziativa popolare che recita così: “Ogni essere umano ha la capacità giuridica fin dal momento del concepimento”. Prima ancora, nel 2019, un gruppo di deputati della Lega aveva presentato una proposta di legge sull’adottabilità del concepito come alternativa all’interruzione di gravidanza, nei fatti adombrando la possibilità di riconoscergli, appunto, capacità giuridica. È una vicenda che non finisce: c’è sempre un momento della storia in cui qualcuno prova a disfare quanto è stato fatto con una legge ottenuta dopo anni di morte per ferro da calza. Perché è inaccettabile, per costoro, che le donne abbiano diritto di decidere sul proprio corpo. Nel 1992 fu Giuliano Amato, presidente del Consiglio, a sostenere che la vita doveva essere protetta “una volta che si è formata”. Nello stesso anno, in commissione Giustizia veniva approvato un emendamento di Carlo Casini (leader del Movimento per la vita) che estendeva la “protezione dell’infanzia alla fase prenatale”. Corsi, ricorsi. Ma questa volta c’è da aver paura davvero, e non solo perché i tempi stanno cambiando e la stessa opinione pubblica si dichiara molto poco interessata ai diritti (qualcuno ha adombrato che la sinistra ha perso le elezioni perché si occupa troppo di quella faccenda “secondaria” che i diritti sono). Ma perché gli antiabortisti e i no-choice hanno fatto rete. A maggio, poco prima della decisione della Corte suprema degli Stati Uniti sull’aborto, un articolo apparso su The Guardian ha dato conto di una rete internazionale, Agenda Europa, composta da organizzazioni ultra-religiose e di estrema destra, che si incontrerebbe a cadenza regolare. Secondo il quotidiano inglese, in Italia avrebbe preso piede nel 2019, in occasione del Congresso mondiale delle famiglie cui intervennero Matteo Salvini e Giorgia Meloni, che allora dichiarò: “Molte abortiscono perché non hanno alternative, non c’è autodeterminazione quando si può fare un’altra scelta”. Infatti, com’è tristemente noto, nelle gran parte delle regioni italiane (specie quelle governate dalle destre) scegliere di interrompere la gravidanza è già quasi impossibile. È dunque tragicamente prevedibile questo primo atto di un governo che ancora non c’è, ma che già muove la prima pedina sulla scacchiera strizzando l’occhio a Polonia e Ungheria. Insieme contro le donne. Ma non sarà così facile. Non lo è mai, quando si prova a far briciole di un diritto. Migranti. Il parlamento europeo rifiuta di approvare il bilancio di Frontex di Anna Maria Merlo Il Manifesto, 19 ottobre 2022 “Non ha protetto i diritti di migranti e richiedenti asilo”. Troppe irregolarità nella passata gestione di Frontex a cui viene contestato soprattutto di non aver protetto i diritti di migranti e richiedenti asilo che cercavano di raggiungere l’Europa. Con questa motivazione il parlamento europeo si è rifiutato ieri di approvare il bilancio 2020 dell’Agenzia europea per il controllo delle frontiere. Nella risoluzione - che ha ottenuto 345 voti a favore, 284 contrari e 8 astensioni - i parlamentari hanno criticato “l’entità della colpa grave e delle altre irregolarità individuate” nel periodo in cui ai vertici dell’Agenzia c’era il francese Fabrice Leggeri dimessosi il 28 aprile 2022 in seguito alla pubblicazione della relazione dell’Ufficio europeo per la lotta antifrode (Olaf) e successivamente sostituto nel ruolo di direttore esecutivo dalla lettone Aija Kalnaja. Da tempo l’operato di Frontex è all’attenzione del parlamento europeo. Oltre alla mancata protezione dei diritti di migranti e richiedenti asilo sull’Agenzia c’è il sospetto, avanzato da alcuni media europei, di essere stata coinvolta in operazioni di respingimenti illegali nel mar Egeo di “almeno 957 rifugiati tra marzo 2020 e settembre 2021”. E non solo. I deputati si sono detti preoccupati fino a esprimere “sconcerto” per il suicidio di un membro del personale che sarebbe connesso a presunte pratiche di molestia sessuale, osservando che dei 17 casi di presunte molestie sessuali segnalati nel 2020, 15 sono stati chiusi senza ulteriore seguito. Nei mesi scorsi si è parlato molto della gestione, definita da alcuni troppo muscolare, di Frontex. A puntare il dito non sono stati solo gli europarlamentari, ma anche alcune organizzazioni umanitarie che hanno accusato l’Agenzia di praticare una sorta di tolleranza zero verso i migranti. “Frontex ha deliberatamente ignorato i comportamenti dei guardacoste greci che respingono i migranti in mare. Una pratica vietata”, ha scritto il quotidiano le Monde in un’inchiesta pubblicata lo scorso mese di luglio. In pratica la stessa accusa ribadita solo pochi giorni fa, il 10 ottobre, da sette ong che operano nell’isola greca di Samos secondo le quali Frontex non utilizzerebbe il suo meccanismo di monitoraggio e segnalazione per indagare su potenziali violazioni dei diritti fondamentali o degli obblighi di protezione internazionale”. Da qui la richiesta delle ong di sospendere le operazioni dell’Agenzia nell’area. Nella risoluzione approvata ieri i deputati giudicano positivamente la nomina della nuova direttrice esecutiva dell’Agenzia così come la richiesta rivolta al personale “di non aver paura di denunciare eventuali illeciti”. Ma chiedono anche la sospensione delle operazioni di rimpatrio dall’Ungheria “data la situazione dello stato di diritto nel Paese” esprimendo infine preoccupazione per le recenti rivelazioni secondo cui l’ex direzione esecutiva sarebbe stata a conoscenza di respingimenti illegali in Grecia, sostenendoli e partecipando al loro finanziamento”. La mancata approvazione del bilancio è stata commentata positivamente dalla europarlamentare del Movimento 5 Stelle Sabrina Pignedoli. “Da troppo tempo l’Agenzia è di fatto fuori controllo”, ha detto la deputata. “Frontex è l’agenzia con il maggior numero di osservazioni formulate dalla Corte dei Conti europea che critica in particolare l’assenza di controllo interno nella gestione del budget e delle risorse umane”. Droghe. L’Onu bacchetta l’Italia: “Approccio punitivo, leggi da rivedere” di Leonardo Fiorentini* Il Riformista, 19 ottobre 2022 Lunedì sera il Comitato per i diritti economici, sociali e culturali dell’Onu (Cescr) ha pubblicato le proprie osservazioni finali sull’Italia, al termine di un processo di revisione periodico sul nostro paese aperto nel 2019. I 18 esperti indipendenti che monitorano l’attuazione da parte degli Stati membri della omonima Convenzione hanno espresso “preoccupazione per l’approccio punitivo al consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione e del danno” e quindi raccomandato “che lo Stato riveda le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme internazionali sui diritti umani e alle migliori pratiche, e che migliori la disponibilità, l’accessibilità e la qualità degli interventi di riduzione del danno”. Si tratta di un’autorevole conferma di quanto la società civile italiana ha denunciato da anni nel Libro Bianco sulle droghe, e una diretta risposta alle note inviate al CESCR da Forum Droghe e Harm Reduction International, insieme a LILA, la Società della Ragione e Itanpud. Le osservazioni si concentravano proprio sulla criminalizzazione e stigmatizzazione del consumo e sulla negazione in gran parte del territorio nazionale - carceri comprese - delle politiche di riduzione del danno (RdD). La Riduzione del Danno, a partire dall’Organizzazione Mondiale della Sanità sino alle varie agenzie ONU, da ormai molti anni è riconosciuta come componente fondamentale del diritto alla salute. Purtroppo in Italia è garantita nominalmente come Livello Essenziale di Assistenza (LEA), ma senza un atto di indirizzo che obblighi le Regioni ad attivare servizi specifici. Il nuovo Piano d’azione sulle droghe, in cui è inclusa, a leggere le prime dichiarazioni della nuova maggioranza di governo non sembra aver un grande futuro. O almeno un futuro coerente con quanto emerso durante la Conferenza di Genova, in particolare per quanto riguarda decriminalizzazione e RdD. Il quadro italiano è desolante. Solo 5 regioni hanno una solida implementazione di politiche di RdD. Da una ricerca condotta dalle ONG, solo un terzo circa di tutti i servizi RdD è considerato “stabile”, il resto è esternalizzato al privato sociale e soggetto a rinnovi, spesso incerti e di breve durata. Ci sono ben 6 regioni in cui questi servizi sono totalmente assenti, altre in cui sono presenti solo in pochi luoghi. Anche nelle regioni in cui sono più diffusi, non tutti i servizi sono disponibili e accessibili in tutte le città. Solo 9 regioni hanno programmi di scambio-siringhe mentre la strategia della consegna del naloxone è garantita solo in 7. Il drug checking, pur divenuto servizio stabile, legale e pubblico, fa parte del pacchetto di interventi in solo 4 regioni. Preoccupanti anche i dati rispetto ai dati degli screening: solo il 28% delle persone assistite dai servizi pubblici è stato sottoposto al test dell’HIV, ancor meno (22%) a quelli per HBV e HCV. Alla terapia sostitutiva degli oppioidi accede solo il 30% della popolazione potenziale. In carcere è l’unico servizio disponibile per i detenuti, ma la continuità delle cure non è spesso garantita. Tutti gli altri non sono consentiti, perché l’uso di droghe in carcere è illegale e quindi ufficialmente “negato”. Sul piano della repressione il quadro non è certo migliore. Il 36% di coloro che entrano in carcere sono definiti “tossicodipendenti”. Il 35% dei detenuti in Italia è invece in carcere per reati legati alla legge sulle droghe. Il doppio della media europea e molto di più della media mondiale. Sette su dieci sono in carcere per reati minori. Anche se grazie al referendum del 1993 il consumo non è più punibile con il carcere, è rimasta la struttura repressiva della Jervolino-Vassalli. La distinzione stessa tra uso personale e spaccio è molto sottile. Sia a causa dei bassi limiti di detenzione, indeterminabili per i consumatori, che per gli indizi di spaccio, comunemente reperibili in qualunque casa italiana. Finisce spesso che siano gli imputati che devono dimostrare il consumo personale, con un’inversione dell’onere della prova a volte insuperabile per chi non si può permettere una difesa adeguata. Così, i più deboli finiscono per affollare le carceri. Le leggi sulle droghe, e lo stigma verso le persone che le usano, sono legate a doppio filo con numerosi decessi a seguito di fermi, arresto e detenzioni: si pensi ai casi noti, come Cucchi, Bianzino, Aldrovandi e Magherini. Anche quando è acclarata la detenzione per uso personale e la sanzione è solo amministrativa, la repressione colpisce duro. Non si tratta di una multa, ma di pesanti misure punitive ed emarginanti, come la revoca della patente e del passaporto, anche senza che la persona abbia tenuto una condotta pericolosa. La loro perdita in molti casi pregiudica il diritto al lavoro e allo studio, così come la possibilità di muoversi liberamente. Dal ‘90 ad oggi circa un milione e mezzo di italiani sono stati segnalati per questi provvedimenti, un milione per possesso di cannabis. Spesso alla perquisizione in strada ne segue una a casa. Con lo stigma che ne consegue, in famiglia e nel quartiere. Sono purtroppo ben noti diversi casi di suicidio legati alla repressione del consumo. La legge è talmente spietata che anche malati bloccati a letto, come Walter de Benedetto, finiscono sotto processo penale per coltivazione di cannabis. La loro colpa è quella esser stati costretti ad autocoltivarsi la pianta perché l’Italia non è in grado di garantire loro la continuità terapeutica, a causa di una inspiegabile incapacità di assicurare la quantità effettivamente richiesta di cannabis medica. Il CESCR ha deciso anche di iniziare il lavoro su un commento generale sull’”impatto delle politiche sulla droga sui diritti economici, sociali e culturali”. Un ulteriore passo avanti verso un approccio complessivo alla questione droghe, troppo spesso relegata a fatto criminale o - quando va bene - sanitario, senza mai indagare invece le sue dimensioni sociali, economiche e culturali. *Forum Droghe L’Onu e le droghe. L’Italia rispetti i diritti di Susanna Ronconi* Il Manifesto, 19 ottobre 2022 “Il Comitato esprime preoccupazione per l’approccio punitivo al consumo di droghe e per l’insufficiente disponibilità di programmi di riduzione e del danno. Il Comitato raccomanda che lo Stato riveda le politiche e le leggi sulle droghe per allinearle alle norme internazionali sui diritti umani e alle migliori pratiche, e che migliori la disponibilità, l’accessibilità e la qualità degli interventi di riduzione del danno”. Queste due tra le numerose richieste all’Italia del Comitato per i diritti economici, sociali e culturali delle Nazioni unite (Cescr) riunito nella sua 72esima sessione, il 14 ottobre a Ginevra, dedicata alla chiusura dei rapporti su El Salvador, Mongolia, Guatemala, Tajikistan, Lussemburgo e appunto Italia. Nella sua attività il Comitato - organo ONU composto da 18 esperti indipendenti che monitora l’attuazione da parte degli Stati della Convenzione sui diritti economici, sociali e culturali - valuta, paese per paese, se le norme della Convenzione vengono applicate e, in dialogo con gli Stati oggetto di revisione, cerca di indicare la strada affinché tutte le persone possano godere pienamente di questi diritti. Tra le fonti di conoscenza e monitoraggio delle situazioni nazionali, il Cescr include la voce delle organizzazioni non governative, osservatorio spesso cruciale per un quadro realistico della valutazione sui diritti, la loro esigibilità e la responsabilità e l’accountability degli Stati. La decisione del Cescr sull’Italia recepisce e accoglie quanto documentato nel 2019 da Forum Droghe e Harm Reduction International, insieme a Lila (Lega italiana lotta all’Aids), la Società della Ragione, Itanpud, circa la violazione dei diritti umani nell’ambito delle politiche delle droghe italiane. Nel testo le associazioni avevano infatti denunciato molte violazioni e discriminazioni subite dalle Persone che usano droghe (Pud), sottolineando e documentando soprattutto due ambiti: il diritto alla salute, che viene violato a causa del mancato accesso ai servizi di Riduzione del danno (RdD) in molta parte del paese, e il diritto alla giustizia, in quanto la legge italiana sulle droghe non rispetta il principio di proporzionalità delle pene, con riferimento soprattutto ai reati minori. Il sistema italiano, secondo la denuncia delle associazioni recepita dal Cescr, produce un abnorme incarcerazione di massa, causa affollamento e crisi del sistema penitenziario, con nuove violazioni dei diritti di chi è detenuto/a, e, tramite il sistema delle sanzioni amministrative, espone le Pud a discriminazione e limitazione delle libertà personali. Le associazioni avevano anche sottolineato come le violazioni colpissero in particolar modo i migranti e i gruppi sociali più fragili. Il governo italiano dovrà dunque adeguare le proprie politiche dimostrando di agire concretamente per garantire l’accesso alla RdD a tutte le Pud in ogni angolo del paese, e adeguare le norme legislative nella direzione indicata, che è per altro la direzione del sistema Onu della Common Position, il più recente e avanzato testo internazionale delle Nazioni unite che sancisce come le politiche sulle droghe devono essere disegnate in modo coerente al sistema di tutela e promozione dei diritti umani. Le associazioni italiane potranno continuare a partecipare al processo attraverso il loro costante monitoraggio. Ma non c’è solo questo, tra i buoni esiti di questa 72esima sessione: l’”impatto delle politiche sulla droga sui diritti economici, sociali e culturali” diventa infatti uno specifico terreno di osservazione del Comitato, che così porta il proprio contributo al processo che da qualche anno vede le agenzie Onu sui diritti prendere parola sulle politiche delle droghe, limitando il fino ad oggi incontrastato dominio dell’approccio della criminalizzazione. I documenti citati sono disponibili qui: http://www.fuoriluogo.it/cescr *Forum Droghe Tunisia. Sulle Isole Kerkennah: dove gli scafisti hanno soppiantato i pescatori di Leonardo Martinelli La Repubblica, 19 ottobre 2022 Ma c’è anche chi si ribella al business della morte. Qui la bassa marea restituisce i corpi degli immigrati che non ce l’hanno fatta ad arrivare a Lampedusa, distante 160 chilometri. All’orizzonte il mare, piatto e lattiginoso, si confonde con le nuvole bianche del cielo. Ahmed Taktak, 44 anni, salta sulla barca e va a pescare. Qui a Ouled Yaneg, sulla costa di Chergui, l’isola principale delle Kerkennah, lo conoscono tutti. Per anni è stato uno dei migliori “passeur”, gli scafisti diretti a Lampedusa, a poco più di 160 chilometri al largo. “Ho iniziato a pescare da bambino. Ma a 18 anni feci la prima traversata, di notte, con la bussola. Osservavo le stelle e i venti, le nubi, l’umidità per prevedere il tempo. Oggi è così facile: mettono uno smartphone in mano a dei ragazzini per il Gps e guardano le previsioni meteo sui siti tunisini, che comunque spesso non c’azzeccano”. Ogni tatuaggio delle braccia di Ahmed ricorda una vita: lui ne ha avute tante, pure più di quattro anni di carcere in Italia per spaccio di eroina (“lì sono cambiato, ho studiato e perfino recitato a teatro”: ora declama in italiano i versi di “Antigone”, scrutando le onde). “Da una decina d’anni sono tornato nelle mie isole, faccio di nuovo il pescatore. Mi propongono di partire coi migranti, ma mi rifiuto. Noi lo facevamo con una decina di persone. Oggi riempiono barche inadatte, perfino con un centinaio di poveracci. I naufragi aumentano: lo scafista si fa salvare da qualche amico, con un’altra imbarcazione. Ma gli altri affogano. È diventata una mafia. Io non voglio lucrare sulla morte”. Il tempo è come sospeso alle Kerkennah, l’atmosfera pesante. Ampie le maree e quella bassa restituisce corpi di vite perdute, portati via dai camion della spazzatura. Sono 14 isole che si allungano verso Lampedusa su una distanza di 40 km. Troppi per essere controllati con cura dalla guardia costiera, che dipende da quella nazionale, la gendarmeria tunisina. “Senza contare che loro spesso chiudono un occhio - sottolinea Abdelhamid Fehri -. Non abbiamo le prove, ma qui nelle isole siamo sicuri che alcuni dei loro elementi siano corrotti dai passeur”. Fehri è il vecchio saggio delle Kerkennah. Storico e docente all’università di Sfax, è originario del villaggio di El Abassia, dove ha trasformato la sua casa di famiglia in un museo sulle tradizioni dell’arcipelago. E sul suo ecosistema fragile, che per secoli ha funzionato, ai ritmi di una vita dura ma dignitosa. “Oggi la pesca non rende più - ricorda -: i fondali sono stati devastati da quella a strascico”. Senza contare l’inquinamento, “dovuto alla piattaforma che si vede al largo, in prossimità di un giacimento di gas naturale”. La gestisce Perenco, società anglo-francese. Le spugne, un tempo altra ricchezza delle isole, sono praticamente scomparse, a causa delle perdite oleose, troppo frequenti. E da cinque anni imperversa la siccità, conseguenza del riscaldamento climatico: il palmeto che corre al centro dell’isola di Chergui, altra risorsa economica, è esangue. Al museo di Fehri si spiega come funziona la “charfia”, pesca tradizionale delle Kerkennah, che risale all’epoca punica. Sono labirinti realizzati con le foglie più resistenti della palma, conficcati sui fondali più bassi. Alla fine il pesce si ritrova intrappolato in una sorta di cesta. Lo utilizza anche Ahmed, ma stasera, al tramonto, vi ha trovato appena qualche spigola. Per il resto solo i “granchi Daech”, come li chiamano qui, in riferimento ai terroristi islamisti: arrivati pochi anni fa, forse su un mercantile sbarcato da lontano. “È vorace - spiega il pescatore -. Entra dentro e mangia tutti gli altri pesci”. Insomma, alla fine non resta che il business dei clandestini. “Quello dei passeur era un mondo artigianale, ora funziona a livello industriale - sottolinea Fehri -. Prima li guardavano con disprezzo: erano dei delinquenti. Oggi il fenomeno si è banalizzato: nel contesto della crisi economica attuale in Tunisia, appaiono come ragazzi che hanno saputo arrangiarsi”. E senza scrupoli: riempiono sempre più le loro carrette del mare, ogni passeggero paga quasi 2mila euro. Al largo di queste coste d’estate la Guardia nazionale ha intercettato più di 17mila migranti, quasi il doppio dell’estate 2021. Altri sono arrivati in Italia. Quanti se ne è portati via il mare? Al vertice delle organizzazioni ci sono giovani delle isole (“Andavano in bicicletta, poi un giorno arrivano con il Bmw: si sa chi sono”, osserva Ahmed). Spesso ex pescatori. Altri ex pescatori (pagati briciole) guidano le barche. A El Kraten, nell’estremità nord-ovest dell’isola di Chergui, vivono invece i pescatori più agguerriti contro gli scafisti. Sono i puri e duri delle isole: hanno creato un’Associazione per lo sviluppo sostenibile della loro terra. La dirige Ahmed Souissi, che è un impiegato pubblico, “ma il mio stipendio è troppo basso, devo andare anche a pesca”. Al porto di Kraten, alcuni graffiti variopinti ritraggono i famosi e succulenti polpi delle Kerkennah. Fra poco inizia la stagione, “ma in genere è preannunciata da piccoli polipi, che quest’anno non ci sono”. Souissi è preoccupato, non rassegnato ma stanco, teme che nuovi problemi spingano altri a scendere a patti con i passeur. “Loro hanno bisogno di barche. E ai pescatori propongono di comprargliele al doppio del prezzo. Questi dichiarano alla polizia che l’imbarcazione gliel’hanno rubata”. Boulbaba Souissi, amico di Ahmed, va a pesca ma ha creato anche un club di apnea. “Ci sto provando, ma il turismo in Tunisia è in crisi”. Nelle Kerkennah sui social s’informano sulla politica italiana: la conoscono meglio di quella tunisina. Boulbaba sa del progetto del “blocco navale” di Giorgia Meloni. “Gli italiani cosa faranno - si chiede -, navigheranno con le navi militari incontro alle piccole imbarcazioni piene di migranti? Le faranno affondare? Questa signora se la vedrà con la sua coscienza”. Per Ahmed Taktak, “è impossibile tirare su un muro di Berlino in mare. I pescatori delle Kerkennah passeranno comunque”. Scende la sera. Ma c’è la luna piena. Sul tratto di mare fra Ennajet e Alataya, all’estremità nord-est di Chergui, s’intravedono ombre fra le barche in secca. I furgoni della Guardia nazionale passano a terra, non vedono nulla. Da qui, un luogo isolato, scivolano via le imbarcazioni coi clandestini. Ad Alataya circolano molte donne velate e vestite di nero da capo ai piedi. Il villaggio è in mano a Ennahdha, il partito islamico. Alle Kerkennah in tanti sospettano che ad Alataya “coprano” i passeur. Sono le 22 ormai. A una ventina di km a sud da lì, a Ouled Yaneg, Mohamed smonta al bar dove fa il cameriere. Ha 58 anni ed è uno dei pescatori più abili della zona, una persona mite e rispettata. Di pesce ce n’è sempre meno e da un anno è costretto a lavorare nel bar e a pescare la notte fino alle sei di mattina. Un mese fa, però, gli hanno rubato la barca. “Ho pensato che l’avesse portata via il vento”. No, l’aveva rubata un ragazzo di Ouled per andare a Lampedusa con tre suoi amici. Hanno già chiamato, sono in giro per l’Italia. “L’avevo costruita nel 1986”, racconta. Non ha i soldi per comprarne una nuiva. Nel villaggio sono scioccati: come siamo potuti arrivare a tanto? Rubare l’imbarcazione al generoso e bravo Mohamed? I genitori del ragazzo manco gli hanno chiesto scusa. Lui si commuove. Ma trova solo la forza di dire: “Che Dio li perdoni tutti”. Egitto. 200 giorni di sciopero della fame per Alaa Abdel Fatah, icona della rivoluzione di Francesca Caferri La Repubblica, 19 ottobre 2022 L’attivista protesta per le condizioni di detenzione di migliaia di prigionieri. Per il governo una spina nel fianco in vista della conferenza sul clima Cop27. Duecento giorni di sciopero della fame. Li ha raggiunti oggi Alaa Abdel Fatah, il più importante attivista per i diritti umani egiziano, in cella con l’accusa, ultima di una lunga serie, di aver preso parte a un sit in non organizzato e di aver diffuso notizie false contro il governo. Abdel Fatah, 40 anni, volto e cervello delle rivolte di piazza Tahrir, incarcerato dai presidenti Hosni Mubarak e Mohammed Morsi e ora dal loro successore Abdel Fatah al Sisi, è entrato in sciopero per protestare contro le condizioni di carcerazione di migliaia di detenuti in attesa di processo e privati di molti dei più elementari diritti in Egitto: dalla possibilità di ricevere visite regolari, a quella di leggere, fare esercizio ed essere a conoscenza delle accuse che contro di loro vengono mosse. Nelle settimane scorse la sorella, Mona Seif, ha lanciato l’allarme per le condizioni del fratello, ridotto, nelle sue stesse parole a “uno scheletro”. La stessa Seif guiderà oggi un sit in di fronte al Foreign Office di Londra per chiedere al governo inglese di fare di più per ottenere la liberazione dell’attivista. A Seif così come al fratello e all’altra sorella (anche lei a lungo detenuta) è stata concessa nei mesi passati la cittadinanza britannica. Quella della famiglia non è l’unica protesta prevista per oggi: centinaia di persone in tutto il mondo stanno portando avanti uno sciopero della fame a staffetta in solidarietà con Abdel Fatah. L’iniziativa è appoggiata da Amnesty International e ha visto scrittori, giornalisti, insegnanti digiunare a catena anche in Italia. Abdel Fatah, ingegnere informatico, soprannominato “l’icona della rivoluzione” e considerato un punto di riferimento per tutti gli attivisti del mondo arabo. Per capire quale sia l’importanza del pensiero di questo uomo che ha passato sette degli ultimi otto anni in carcere per le sue idee, basta sfogliare le pagine di “Non siete stati ancora sconfitti”, il libro che raccoglie i suoi scritti e che è stato pubblicato in Italia da Hopefulmonster: “Siamo stati e poi siamo stati sconfitti e il significato è stato sconfitto con noi. Ma non siamo ancora morti e anche il significato non è stato ucciso”, recita la quarta di copertina. Quello di Abdel Fatah è il più clamoroso dei casi di violazioni dei diritti umani che l’Egitto deve affrontare in vista della conferenza internazionale sul clima COP27 che si svolgerà nelle prossime settimane a Sharm el Sheik. Un incontro che servirà al presidente Al Sisi per legittimare il suo ruolo e aumentare il prestigio del Paese ma che attivisti e politici progressisti contestano sin dall’assegnazione, un anno fa. Persone arrestate senza capi di imputazione certi, oppositori bloccati in patria senza poter partire e con i conti correnti bancari congelati: questa la situazione nel Paese ospite secondo le maggiori organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo. Per l’Italia il caso più famoso è quello del ricercatore Patrick Zaki, a cui dopo una lunga detenzione viene impedito di tornare a Bologna per completare gli studi. Iran. Evin, la prigione politica vergogna degli ayatollah di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 19 ottobre 2022 Anche sui detenuti in rivolta, la repressione è implacabile. Cosa sia realmente accaduto nella famigerata prigione iraniana di Evin riservata a dissidenti e prigionieri politici, non e ancora chiaro. La notte di sabato scorso una densa colonna di fumo si e alzata dal penitenziario e in molti hanno sospettato che si stesse consumando una carneficina. La censura dei media e l’isolamento dei prigionieri non permette di capire ancora la reale successione dei fatti e al momento resta la ricostruzione delle autorità. La cosa terribilmente certa e che nel’ incendio o forse nel corso della rivolta che ha provocato le fiamme sono morte almeno otto persone, a quanto sembra uccise dalle esalazioni e dalle bruciature. La magistratura iraniana ha fornito la versione secondo cui l’incendio è divampato in un laboratorio di cucito della prigione dopo una rissa tra detenuti. La tv di Stato invece ha parlato di un piano di fuga premeditato che sarebbe stato sventato dalle forze di sicurezza. Le versioni ufficiali dunque escludono che quanto accaduto nella prigione della capitale sia collegata alla rivolta che attraversa l’Iran da più di un mese dopo le proteste scoppiate per la morte della 22enne Mahsa Amini in custodia della polizia il 16 settembre. La giovane donna della provincia iraniana del Kurdistan era stata arrestata dalla polizia morale del paese per un hijab indossato impropriamente. Disordini che continuano anche se sembrano aver perso la forza iniziale a causa della repressione sanguinosa e delle restrizioni imposte domenica sera e che limitano quasi interamente l’accesso alle reti private virtuali (VPN) che i cittadini usano per organizzare le manifestazioni di piazza. Il carcere di Evin è tristemente noto perché oltre i detenuti comuni vi sono rinchiusi i prigionieri politici compresi molti di coloro che sono stati arrestati durante le proteste attuali. Le condizioni di detenzione sono state ripetutamente stigmatizzate dai governi occidentali e dai gruppi per i diritti umani e la prigione è stata inserita nella lista nera dal governo degli Stati Uniti nel 2018 per gravi violazioni dei diritti umani. Proprio per il clima di contestazione che sta vivendo la Repubblica sciita e per la natura “politica” del carcere diversi media indipendenti sono convinti che a Evin sia scoppiata una vera rivolta poi soffocata nel sangue. Alcuni testimoni dall’interno, anche se si tratta di voci non confermate, hanno riportato che sicuramente non sono stati i prigionieri a dare fuoco alla struttura. Si tratta pero di voci isolate raccolte soprattutto tra i parenti dei detenuti che si sono radunati sotto il penitenziario. Voci che hanno anche accennato a spari ed esplosioni che sarebbero stati uditi all’esterno. In ogni caso le forze di polizia, per negare ogni riferimento a una possibile sollevazione politica, hanno affermato che l’incidente si sarebbe sviluppato all’interno dell’ala che comprende le celle dove sono rinchiusi i detenuti per reati finanziari. Tutti gli otto reclusi deceduti sarebbero invece stati imprigionati per reati legati al furto, secondo la magistratura le famiglie sono state informate ma non è stata rivelata l’identità dei morti. Settanta sono state le persone salvate dalle fiamme mentre altri sei rimangono ricoverati in ospedale in condizioni stabili e in miglioramento. Lunedì scorso, l’Ue ha imposto sanzioni a undici persone e quattro organizzazioni in Iran, compresa la polizia morale, in risposta alla repressione delle proteste. Il responsabile della politica estera europea Borrel ha detto che la comunità internazionale si aspetta massima trasparenza su cio che e successo ad Evin in quanto “le autorità iraniane sono responsabili della vita di tutti i detenuti, compresi i difensori dei diritti umani e i cittadini dell’Ue.” Un riferimento non casuale visto che nel carcere si trovano uomini e donne con doppia cittadinanza e a quanto pare anche l’italiana Alessia Piperno, la ragazza arrestata per motivazioni ancora sconosciute in concomitanza con l’esplodere delle manifestazioni di piazza.