In 10 mesi, 68 detenuti suicidi: è uno stillicidio immorale di don Vincenzo Russo* Il Fatto Quotidiano, 18 ottobre 2022 Non si può più rimanere spettatori davanti al dramma che si consuma quotidianamente nelle carceri. A Sollicciano (Fi), in soli tre mesi, tre persone si sono tolte la vita. Poche ore fa l’ultima tragedia, che porta a 68 il numero dei suicidi negli ultimi 10 mesi in Italia. Una media impressionante che, se proiettata sull’intera popolazione, farebbe segnare un numero di suicidi di circa 84.000 all’anno, corrispondente a quello degli abitanti di una città come Grosseto. Il fatto che una percentuale così alta di suicidi si rilevi nelle carceri non sembra invece destare alcuna preoccupazione, né sollevare indignazione nell’opinione pubblica, come se la morte di un detenuto che si toglie la vita possa essere trattata come una disfunzione di natura meramente burocratica nel sistema carcerario piuttosto che come una irrisarcibile tragedia umana. Tranne quelli che ci vivono o ci lavorano, quasi nessuno conosce le condizioni reali in cui si trovano le persone detenute a Sollicciano: d’estate l’aria diventa irrespirabile, d’inverno le celle sono fredde e umide, i letti sono spesso infestati da cimici, alcune parti dell’edificio ospitano colonie di topi, i servizi rieducativi e sanitari sono carenti. A scadenze regolari si fanno annunci di cambiamento e progetti di riforma, ai quali però non fanno mai seguito miglioramenti nelle condizioni di vita dei detenuti. In tale situazione di degrado, non poche volte le persone più fragili perdono ogni motivazione alla vita e decidono di levare la mano contro se stesse. L’ultimo detenuto suicida era un cittadino marocchino inseguito da diversi provvedimenti giudiziari e già segnalato per fragilità psichiatriche. Era arrivato a Firenze da pochi giorni, proveniente da un altro carcere. A Sollicciano ha posto fine alla sua vita, a un’esistenza di miseria e privazione, resa oltremodo dolorante dalla solitudine della vita carceraria. La sua tragica sorte ci deve interpellare e chiamare alla responsabilità. Se questo fratello ha perso ogni speranza è anche perché, nel momento di maggiore sofferenza, ha trovato il vuoto intorno a sé. Non possiamo permettere che questo dramma si perpetui. Il carcere non deve diventare luogo di annientamento della dignità umana. In uno Stato di diritto ai detenuti deve essere garantita una condizione di vita decorosa. Se malati devono essere curati, se fragili seguiti e protetti. Il grado di civiltà di una nazione si vede soprattutto dal trattamento che essa riserva alle persone chiamate a scontare una pena. Da questo punto di vista la nostra nazione, avendo dimenticato l’insegnamento di Beccaria, sembra precipitare in un preoccupante vortice oscurantista. Di fronte allo stillicidio di suicidi in carcere bisogna indignarsi, smettere di restare in silenzio, reagire, insorgere, esigere che i nostri fratelli detenuti, proprio perché tali, paghino il loro tributo alla società in condizioni massimamente dignitose. Lasciare che la vicenda umana di questi uomini si consumi nell’indifferenza non segna solo il regresso della società, ma segnala anche la condizione di deresponsabilizzazione morale e civile in cui ognuno di noi rischia di precipitare, condizione che Hannah Arendt ci ha da tempo insegnato a chiamare “banalità del male”. *Cappellano nella Casa circondariale di Sollicciano (Firenze) In carcere “in attesa” di una Rems: aumentano i casi pendenti alla Cedu di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 18 ottobre 2022 Nella relazione del governo al Parlamento si evince che tra i casi all’esame della Corte europea, quelli di maggior rilievo riguardano le persone illegalmente recluse che aspettano di essere ricoverate. Aumentano i casi pendenti alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo (Cedu). Di particolare rilievo si segnalano i ricorsi in materia di applicazione di misure di sicurezza detentive nei confronti di soggetti affetti da infermità psichica. Aumento anche le azioni di rivalsa, visto che a causa della crisi pandemica e non solo, mancano i soldi per pagare le condanne. Parliamo della relazione che permette al Parlamento di avere un quadro sulle inadempienze dell’Italia e sulla necessità di modifiche legislative alle quali, però, non sempre si dà seguito. Come detto, tra i ricorsi pendenti dinanzi alla Corte europea che meritano di essere segnalati in ragione della rilevanza e della natura della materia trattata, della loro incidenza numerica sul totale dei casi e dell’interesse che potrebbero dispiegare anche in futuro, ci sono quelli in materia di applicazione di misura di sicurezza detentive nei confronti di soggetti affetti da infermità psichica, ovvero il mancato ricovero presso le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza (Rems). Lo Stato italiano ha violatogli articoli della Convenzione Cedu - Dalla relazione annuale al Parlamento, si apprende che la Cancelleria della Cedu ha comunicato al governo i ricorsi n. 11791/20 Seydou c. Italia e n. 42627/20 Preuschoff c. Italia con i quali i ricorrenti hanno lamentato la violazione da parte dello Stato italiano degli articoli 2 (diritto alla vita), 3 (divieto di tortura e di trattamenti e pene inumani e degradanti) e 5 (diritto alla libertà e alla sicurezza personale e diritto ad un’equa riparazione) della Convenzione chiedendo altresì, ai sensi dell’articolo 39 del Regolamento della Corte, l’adozione in via cautelare di misure urgenti dirette a tutelare a loro integrità psico-fisica. La difficoltà di ricoverare i soggetti con gravi condizioni psichiatriche - Entrambe le vicende traggono origine alla difficoltà - fondamentalmente per profili disfunzionali organizzativi - di dare tempestiva esecuzione alle misure di sicurezza detentive disposte dall’autorità giudiziaria nei confronti dei ricorrenti, soggetti socialmente pericolosi dichiarati incapaci di intendere volere a causa di gravi condizioni psichiatriche, mediante ricovero presso una Rems. La scarsezza di posti disponibili nelle suddette residenze ha determinato la situazione di fatto dedotta dinanzi alla Corte europea dai ricorrenti, che al momento del deposito delle loro domande si trovavano ancora detenuti presso strutture carcerarie ordinarie. Nel comunicare i ricorsi, la Corte ha sottoposto al governo una serie di quesiti, volti, in particolare, a chiarire se le autorità abbiano adottato tutte le misure necessarie per tutelare il diritto alla vita dei ricorrenti, se siano stati loro garantiti trattamenti medici adeguati durante la permanenza in carcere e se le condizioni di detenzione del ricorrente fossero conformi al loro stato di salute. Le Rems non appaiono in grado di far fronte alle necessità del sistema - Le Rems, strutture destinate all’accoglienza e alla cura degli autori di reato affetti da disturbi mentali ritenuti socialmente pericolosi alla luce dei criteri delineati dall’articolo 133 c.p., sono state introdotte per sostituire gli ospedali psichiatrici giudiziari (Opg) soppressi dalla legge n. 9 del 2012 e dalla legge n. 81 del 2014. Le nuove residenze si fondano sui principi della territorializzazione della sanitarizzazione, nel senso che le Rems sono destinate ad accogliere, di regola, soggetti provenienti dal territorio regionale di ubicazione delle stesse e sono chiamate a svolgere eminentemente funzioni terapeutico-riabilitative, orientate a dare effettiva prevalenza al profilo della cura rispetto a quello della custodia, ragione per la quale il legislatore ha deciso di sottrarle dal circuito penitenziario affidandone la gestione al sistema sanitario regionale, all’interno del quale operano i servizi territoriali dei Dipartimenti di salute mentale, responsabili della presa in carico e degli interventi terapeutici. Tuttavia, le strutture, organizzate come presidi di tipo sanitario, non appaiono in grado di far fronte in tempo reale con i posti disponibili alle concrete necessità del sistema, con la conseguenza che soggetti psichiatrici, come i ricorrenti, si trovano di fatto a permanere in carcere. Nel comunicare i ricorsi, la Corte ha sottoposto al governo una serie di quesiti, volti, in particolare, a chiarire se le autorità abbiano adottato tutte le misure necessarie per tutelare il diritto alla vita dei ricorrenti, se siano stati loro garantiti trattamenti medici adeguati durante la permanenza in carcere e se le condizioni di detenzione del ricorrente fossero conformi al loro stato di salute. Con riferimento ai ricorsi pendenti dinanzi alla Corte di Strasburgo, il governo ha ritenuto di esprimere avviso favorevole alla definizione non contenziosa dei casi, formulando proposte di regolamento amichevole. Resta però il fatto che il problema rimane, e i ricorsi sono in continuo aumento. Il ricovero nelle Rems sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio - Che fare? Il problema è da ridursi all’insufficienza dei posti delle Rems? La scelta di creare una rete di Residenze dimensionata al ribasso in termini di posti-letto non è stata casuale o dettata esclusivamente da ragioni finanziarie ma si poneva in linea con il presupposto politico, oggi concretizzato nel noto art. 3-ter, co. 4, d.l. 211/2011 ma già da tempo conosciuto nella giurisprudenza costituzionale riferita agli Opg, secondo cui il ricovero in Rems sarebbe dovuto realmente diventare una extrema ratio, cui ricorrere solo nel caso in cui qualsiasi altra misura non detentiva si fosse rivelata inappropriata o inefficace nei confronti del singolo paziente autore di reato; ciò posto, le Residenze di nuova istituzione non avrebbero dovuto considerarsi sic et simpliciter come dei sostituti dei vecchi Opg. Il problema è la previsione normativa del principio della Rems come extrema ratio non è stata accompagnata da adeguati investimenti nei servizi psichiatrici territoriali: nella maggior parte dei casi e per lo meno nell’ambito di alcune realtà regionali, le Autorità giudiziarie si sono trovate nella pratica impossibilità di prendere in considerazione valide alternative ai ricoveri in Rems, cui ricorrere nei casi in concreto portati alla loro attenzione. Altra criticità è ben argomentata nel penultimo rapporto di Antigone: gli operatori della salute mentale che lavorano nelle Rems, segnalano una crescente presenza dei c.d. “cripto-imputabili”, cioè di persone che non presenterebbero gravi patologie psichiatriche, ma problematiche diverse e non strettamente sanitarie (dipendenza da sostanze, marginalità sociale, biografie criminali) che vengono comunque ricoverate in Rems, eludendone la funziona terapeutico-riabiliativa. Antigone ha sottolineato che si tratta di un effetto collaterale della bulimia diagnostica che ha segnato gli ultimi decenni di sviluppo della psichiatrica, raggiungendo il suo apice nell’ultima versione del manuale diagnostico internazionalmente riconosciuto (DSM V), ove sono indicate un numero di patologie e disturbi psichiatrici mai così grande. La questione dei cripto-imputabili chiama direttamente in causa il ruolo dei periti e dei consulenti tecnici, che, in sede processuale, devono pronunciarsi sulla capacità di intendere e volere della persona: al loro sapere esperto si “affida” infatti il giudice per decidere se la persona presenti un “vizio di mente” o meno. Per minimizzare la questione dei cripto-imputabili, molto sentita dagli operatori delle Rems, secondo Antigone occorre arrivare ad un bilanciamento tra diritti procedurali e questioni operative: “È auspicabile che i periti, tramite il giudice, entrino in contatto fin dall’affidamento della questione peritale con gli operatori della salute mentale affinché prospettino soluzioni trattamentali condivise, che non vengano “calate dall’alto” dei servizi di salute mentale solo al momento della sentenza?”, chiosa l’associazione. Bimbi in cella. Siani (Pd): “Assurdo rieducare le madri tenendo i figli reclusi” di Viviana Lanza Il Riformista, 18 ottobre 2022 Il numero dei bambini “reclusi” con le mamme detenute è aumentato nell’ultimo mese in Campania. All’Icam di Lauro da dieci i bambini sono diventati tredici e il numero sembra destinato a salire se si considera che l’effetto pandemia (unico periodo in cui le reclusioni sono diminuite) può dirsi passato. Parliamo di bambini in tenera età, da zero a sei anni. Figli di donne che hanno commesso reati contro il patrimonio, non reati di criminalità organizzata, ma anche figli di un degrado sociale mai affrontato da chi negli anni si è alternato al governo del nostro Paese e della nostra realtà territoriale. L’indifferenza della politica rispetto a questo tema l’aveva squarciata Paolo Siani qualche anno fa, facendosi promotore di una proposta di legge per consentire alle donne detenute con figli piccoli al seguito di scontare la pena all’interno di case famiglia protette e non di istituti di reclusione. Il percorso per arrivare all’approvazione di questa proposta di civiltà umana e giuridica non è stato facile e nemmeno breve, ma a maggio scorso si era riusciti ad avere l’approvazione quasi all’unanimità della Camera. Mancava il Senato, c’erano state rassicurazioni per definire il tutto a settembre. Poi sappiamo come è andata a finire: il governo è stato sciolto e addio legge per i bambini in cella. “Provo un grande dispiacere al pensiero che la mia legge non sia ancora incardinata al Senato”, racconta Paolo Siani, deputato non rieletto, pediatra con un impegno nel sociale e per la legalità che nasce anche dalla vicenda personale: è il fratello del giornalista Giancarlo Siani, assassinato dalla camorra a Napoli nel 1985. “Debora Sarracchiani (esponente del Pd, ndr) mi ha detto che la proposta di legge a sua firma sarà ripresentata a breve alla Camera e lo stesso dovrebbe fare Bazoli che era capogruppo Pd in Commissione giustizia e ora è al Senato, per cui se la presentano tutti e due potrebbe darsi che si arrivi ad avere la legge prima o poi”. Ma perché è così grave che un bambino piccolo viva in un istituto di reclusione? “È vero che l’Icam è un carcere a misura attenuata ma è pur sempre un carcere che ha i ritmi di vita del carcere. Una mamma che incontrai a Lauro mi raccontò che la prima parola pronunciata da suo figlio lì non fu “mamma”, come dicono tutti i bambini, ma “apri” che è la parola più spesso pronunciata all’interno dell’istituto - ricorda Siani. Basta solo questo - aggiunge - per far capire quanto il cervello di un bambino sia influenzato in modo negativo o comunque non naturale nel vivere i primi anni della propria vita in un carcere. Già questo la dice tutta. Inoltre, i bambini che sono nell’Icam, quando vanno a scuola, sono i primi a salire sul pulmino e gli ultimi a scendere per evitare che gli altri possano vedere che entrano in qualcosa che non è una casa ma un carcere vero e proprio. Tutto questo il cervello del bambino lo assorbe e lo vive in modo patologico ed è sufficiente per dire che tenere i bambini un istituto di reclusione è un’assurdità”. Un’aberrazione del nostro sistema, riteniamo. Del resto, già esiste una legge secondo cui, in caso di reato non grave contestato alla mamma, il bambino deve stare non in un Icam ma in una casa famiglia. Il problema è che in Italia ci sono soltanto due strutture del genere: una a Roma e una a Milano. L’iniziativa politica di Siani aveva consentito di sbloccare fondi per un milione e mezzo di euro da destinare alle Regioni dove già ci sono Icam, quindi anche alla Campania, distribuendoli nell’arco di tre anni. Una prima parte di questi soldi, quindi, è stata già stanziata ma le Regioni attendono che la proposta di Siani diventi legge. “A giugno avevo chiesto alla ministra Cartabia di iniziare a far utilizzare quei fondi”, spiega Siani. Ma poi tutto si è fermato. Ed è sospeso chissà fino a quando. Sappiamo bene che la questione riguarda una dozzina di mamme e una ventina di bambini e dunque non può attirare la politica nazionale interessata ai consensi su larga scala. ma fosse anche un solo bambino non meriterebbe di vivere la propria infanzia come tutti gli altri? Che colpe ha? “Il paradosso sa qual è - conclude Siani. È che mentre si prova a rieducare la mamma si rischia di deviare il bambino, di educarlo a sua volta a vivere in un carcere. Cosa farà quel bambino una volta uscito? Dobbiamo chiedercelo perché con questo sistema stiamo educando una donna facendo crescere suo figlio nel posto meno adatto per un bambino”. Per i Garanti territoriali ci vuole un viceministro ad hoc per le carceri consiglio.regione.lazio.it, 18 ottobre 2022 La Conferenza dei Garanti territoriali si prepara alle imminenti interlocuzioni politico-istituzionali, in vista della formazione delle commissioni parlamentari e del nuovo governo e approva le linee guida per l’istituzione dei Garanti comunali. La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà si è riunita oggi in assemblea a Napoli, nella sede del Consiglio regionale della Campania, per aggiornare la piattaforma delle proposte da presentare ai nuovi interlocutori politico-istituzionali, scaturiti dal rinnovo delle Camere. Il Portavoce della Conferenza, Stefano Anastasìa, ha ricordato le criticità del sistema carcerario, ricordando il dato impressionante di 70 suicidi, un numero senza precedenti in questo momento dell’anno. Dopo diversi interventi in presenza e di Garanti collegati da remoto, l’assemblea ha stabilito di rinnovare la richiesta di un viceministro della Giustizia ad hoc, nel nuovo governo che si andrà a formare, che si occupi dell’esecuzione penale. La Conferenza dei Garanti territoriali ha inoltre approvato e fatto proprie le linee guida per le delibere istitutive dei garanti comunali, elaborata dai Garanti comunali della Conferenza, che sarà alla base di un apposito protocollo d’intesa con l’Associazione nazionale comuni italiani (Anci). All’assemblea ha portato i saluti il presidente del Consiglio regionale della Campania, Gennaro Oliviero, il quale ha recentemente assunto la delega al Coordinamento degli organi regionali di garanzia istituito all’interno della Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative regionali e delle province autonome. In tale veste Oliviero ha incontrato il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali, Anastasìa, il Coordinatore dei difensori civici regionali e Difensore civico della Regione Lazio, Marino Fardelli, e una delegazione di garanti per l’infanzia e l’adolescenza, di garanti territoriali per i diritti delle persone private delle libertà, per riprendere i lavori intrapresi negli scorsi anni e valutare l’avvio di nuove forme di collaborazione. La rete dei Garanti delle persone private della libertà - La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, istituita presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Ne fanno parte 72 Garanti, di cui 16 di regioni e province autonome, sei di province e aree metropolitane e 50 di comuni che hanno istituito garanti delle persone private della libertà ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza elegge un Portavoce: ricopre tale carica Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. La sede operativa della Conferenza attualmente è nella sede del Consiglio regionale del Lazio, in via della Pisana, 1301. A cura dell’Ufficio stampa del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale. I Garanti territoriali: “Sconcerto e amarezza per l’arresto del Garante del Comune di Napoli” consiglio.regione.lazio.it, 18 ottobre 2022 I Garanti nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni svolgono un lavoro prezioso nella tutela dei diritti dei detenuti che non può essere messo in ombra dall’eventuale abuso dei propri poteri da parte di uno di loro. “La denuncia del coinvolgimento del Garante dei detenuti del Comune di Napoli in un traffico di cellulari e droghe in carcere suscita sconcerto e amarezza. Innanzitutto nell’interesse delle istituzioni, speriamo possa dimostrare la sua estraneità ai fatti”. Così il Portavoce della Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, Stefano Anastasìa, dopo aver appreso la notizia dell’esecuzione da parte dei Carabinieri di un’ordinanza di custodia cautelare a carico di otto persone, tra le quali Pietro Ioia, Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale del Comune di Napoli. “I Garanti nominati dalle Regioni, dalle Province e dai Comuni - prosegue Anastasìa -, da vent’anni svolgono un lavoro prezioso nella tutela dei diritti dei detenuti che è parte della legalità penitenziaria e che non può essere messo in ombra dall’eventuale abuso dei propri poteri da parte di uno di loro”. La rete dei Garanti delle persone private della libertà - La Conferenza dei Garanti territoriali delle persone private della libertà, istituita presso la Conferenza dei presidenti delle assemblee legislative delle regioni e delle province autonome, rappresenta gli organismi di cui si sono dotati regioni ed enti locali, in base alla legislazione nazionale e regionale. Ne fanno parte 72 Garanti, di cui 16 di regioni e province autonome, sei di province e aree metropolitane e 50 di comuni che hanno istituito garanti delle persone private della libertà ovvero ne hanno formalmente affidato le funzioni ad altri organi di garanzia a competenza multipla. La Conferenza elegge un Portavoce: ricopre tale carica Stefano Anastasìa, Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio. La sede operativa della Conferenza attualmente è nella sede del Consiglio regionale del Lazio. Il banco di prova della Giustizia di Stefano Folli La Repubblica, 18 ottobre 2022 L’incontro tra Meloni e Berlusconi nel quadro di una gestazione complicata per un governo che nascerà. Non è la prima volta che la gestazione di un governo è complicata e di sicuro non sarà l’ultima. In parte dipende dalla nostra legge elettorale (ma in Germania, dove si vota in modo diverso, ci son voluti due mesi per inaugurare l’esecutivo del cancelliere Scholz). E in buona misura si tratta di screzi abbastanza prevedibili tra le diverse fazioni. Questa volta lo psicodramma è un po’ più vibrante del solito: conta senz’altro il cambio generazionale in atto a destra, dove una giovane donna dal temperamento poco addomesticabile ha messo all’angolo l’anziano padre padrone. Il quale recrimina con l’argomento tipico delle persone d’età: “E pensare che l’ho creata io, quanta ingratitudine”. Ma è una tesi debole, peraltro sostenuta a suo tempo anche da una grande figura come Helmut Kohl, che non aveva pace di fronte al “tradimento” di Angela Merkel, da lui considerata una vera e propria figlia politica. Di sicuro Berlusconi non è Kohl e soprattutto Giorgia Meloni non è sua figlia, in termini politici. C’è un partito, FdI, che ha avuto il 26 per cento e un altro, Forza Italia, che è sceso al 8. Il rovesciamento dei rapporti di forza è nelle cose, testimoniato ieri da un Berlusconi che fa buon viso a cattivo gioco e si reca nella sede meloniana di via della Scrofa. Chi lo conosce, sa quanto può essergli costato. Ma il finale era già scritto e non prevedeva colpi di scena. Rimane l’inimicizia, ormai non sanabile, tuttavia Berlusconi non ha più l’energia e nemmeno l’interesse di mettere a soqquadro la coalizione di cui non sarà mai più il signore incontrastato. E la giovane impertinente che lo ha mortificato, nemmeno lei ha motivo di calcare la mano. Il tramonto di Forza Italia è da tempo inevitabile e dove andranno a sistemarsi in futuro i suoi parlamentari e quadri dipenderà dai prossimi eventi. In primo luogo da come prenderà forma e si muoverà il governo Meloni. Che il ministero sia destinato a nascere tra pochi giorni, non ci sono dubbi. Che abbia un futuro luminoso, è da vedere e al riguardo le perplessità sono legittime. Per rimettere tutto in discussione, Berlusconi avrebbe dovuto rompere in maniera plateale il centrodestra e, diciamo, passare all’opposizione. Solo così il presidente della Repubblica avrebbe avuto motivo di negare il mandato alla vincitrice del 25 settembre. Per il resto, vale la formula rituale: il presidente del Consiglio incaricato “accetta con riserva”. Come dire che a quel punto s’impegna a verificare l’esistenza di una maggioranza solida. La relativa novità è che sui ministri si discute e si litiga prima dell’incarico, nel tentativo di essere più o meno pronti quando Mattarella deciderà. Ma questo è solo un aspetto del problema, nemmeno il più importante. Il vero tema riguarda il profilo dell’esecutivo e l’idea di Paese che riuscirà a esprimere. Le promesse di un livello alto dei vari ministri per adesso sembrano lettera morta. Si sta andando verso un ministero senza lampi degni di nota. Ma c’è ancora da capire come si risolverà il nodo della Giustizia: nello scontro con il fondatore di Forza Italia Giorgia Meloni ha saputo dar prova di leadership, ma la scelta del Guardasigilli sarà il vero spartiacque. Lì si vedrà se Berlusconi ha ottenuto qualcosa di sostanziale o se, al contrario, la premier in pectore ha chiuso un capitolo per aprirne un altro. Poi c’è il programma, o meglio l’idea di quale Italia vuole la destra. La priorità è la drammatica situazione economica e sociale. Ma la cornice è il rapporto con l’Europa. Di fronte all’evidente diffidenza di Francia e Germania, nonché della Commissione, il governo Meloni ha due opzioni: rassicurare i partner, nostalgici di Draghi, sulla volontà di restare nel solco tradizionale. Oppure contrapporre una diversa visione nel segno del nazionalismo. Dalla via imboccata si capiranno molte cose, a cominciare dalle prospettive di durata dell’esecutivo. Meloni-Berlusconi, dal vertice un nome per la Giustizia: Casellati di Errico Novi Il Dubbio, 18 ottobre 2022 Via Arenula a Forza Italia: è tra i punti dell’intesa Meloni-Berlusconi. Non è ancora una scelta definitiva, come non lo è quella di indicare, quale guardasigilli, l’ex seconda carica dello Stato. Ma certo da oggi è un’ipotesi che si rafforza parecchio. Intesa. Non facile da costruire. Ma c’è. Sul punto essenziale: l’alleanza Fratelli d’Italia-Forza Italia non si discute. Non si discute il centrodestra. La sintesi del vertice blindato fra Giorgia Meloni e Silvio Berlusconi è innanzitutto questa. C’è ovviamente un sottotitolo, importante: il ministero della Giustizia può essere attribuito al partito del Cavaliere. E ora il nome più quotato è Maria Elisabetta Alberti Casellati. “Non c’è una decisione definitiva, sul punto”, è la prima indicazione che arriva da via della Scrofa, al termine del confronto durato poco meno di due ore. Ma l’ipotesi di un guardasigilli azzurro si rafforza. E si rafforza la prospettiva dell’ex seconda carica dello Stato come nuova responsabile del dicastero. Un punto di equilibrio fra le aspettative di Berlusconi - che tiene alla Giustizia come elemento distintivo per Forza Italia, all’interno della coalizione - e le richieste di Meloni, che sollecita nomi dalla caratura istituzionale più alta possibile. In realtà si tratterebbe di un compromesso da entrambi i punti di vista, persino da quello dell’ex presidente del Consiglio. Che dietro la scrivania dove è tuttora al lavoro Marta Cartabia avrebbe considerato molto positiva anche la scelta di Francesco Paolo Sisto, sottosegretario anche lui ancora in carica, finché non giureranno i successori. Sia Casellati che Sisto incarnano la tradizione garantista di Forza Italia. Con la differenza, fanno sapere fonti riservate di FI, che la prima è difficile da definire un nome di bandiera. Ha una propria specifica autonomia, legata anche all’altissima carica di presidente del Senato appena ricoperta. “La sua elezione al vertice di Palazzo Madama”, viene fatto osservare, “avvenne quasi più su iniziativa di Salvini che del presidente”, cioè di Berlusconi. Interpretazioni. Certo a Meloni non dispiace che il suo governo possa annoverare qualcuno che passa da seconda carica dello Stato a responsabile della Giustizia. D’altronde Casellati sarebbe una ministra con cui tutti rischiano di trovarsi a discutere in condizioni meno agevoli che con una figura pure autorevole, ma già da tempo inserita negli ingranaggi di via Arenula, come Sisto. In ogni caso le quotazioni di Casellati alla guida del dicastero che fu di Togliatti salgono molto. E come era in parte acquisito, si profila un approdo diverso per Carlo Nordio, il nome che fino a poche ore fa era il più quotato come nuovo guardasigilli. Probabile che assuma la carica da lui stesso ipotizzata, forse con rito scaramantico o magari con profonda convinzione, di presidente della commissione Giustizia a Montecitorio. “È lì che si fanno le leggi”, ha detto più volte. E ha detto il vero. Anche se una ministra come Casellati non rinuncerebbe certo all’iniziativa. Csm, rebus vicepresidenza: rischio guerra fredda con le toghe di Valentina Stella Il Dubbio, 18 ottobre 2022 La partita per il ministero della Giustizia incrocia quella per Palazzo dei Marescialli. Dove potrebbe essere eletta Casellati, se l’ipotesi Via Arenula andasse in fumo. Con la difficile partita per la casella del ministro della Giustizia si intreccia anche quella per la vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura. Qualora per lei non si aprissero le porte di via Arenula, da ieri si dà per scontato che Maria Elisabetta Alberti Casellati farebbe comunque parte dell’esecutivo, come titolare delle Riforme istituzionali. Ma c’è una terza ipotesi: l’ex presidente del Senato potrebbe essere eletta a Palazzo dei Marescialli proprio nella prospettiva di essere indicata al vertice dell’organo di autogoverno. Il suo sarebbe un ritorno, considerato che Casellati era stata eletta “semplicemente” consigliera laica nel 2014. Questa ipotesi si potrebbe concretizzare solo se ci fosse ovviamente un accordo tra centrodestra e magistratura, senza trascurare che su una carica del genere lo sguardo del Colle è sempre particolarmente attento. Qualora si realizzasse l’elezione di Casellati a piazza Indipendenza, allora vorrebbe dire che ci troveremmo con Carlo Nordio ministro della Giustizia “associato” Francesco Paolo Sisto nelle vesti di viceministro. Questione di ore, se non di minuti: al momento di mandare queste pagine in tipografia non è ancora del tutto chiara quale scelta sia maturata, sulla Giustizia, dal vertice Meloni-Berlusconi. Ricordiamo che con la riforma Cartabia i consiglieri laici passano da otto a dieci. La loro elezione dovrebbe coincidere con la prima riunione in seduta comune delle Camere a metà novembre. La maggioranza ne reclamerebbe sette: tre a Fratelli d’Italia, due alla Lega e due a Forza Italia. Dai primi due azionisti di maggioranza non trapelano nomi al momento - “troppo prematuro parlarne adesso”, ci dicono fonti interne - anche se già si erano fatti almeno quelli di Francesco Urraro per la Lega e di Alberto Balboni per Fratelli d’Italia. Forza Italia punterebbe sui primi non eletti, tra cui l’ex senatrice Fiammetta Modena e gli ex onorevoli Mirella Cristina e Roberto Cassinelli. Tutti già componenti delle rispettive commissioni Giustizia dei due rami del Parlamento. E però il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia, nella sua relazione al congresso di qualche giorno fa, ha fatto capire che per il Csm sarebbe meglio non avere i non eletti alle Politiche: “Siamo fiduciosi sul fatto che il Parlamento saprà nominare una componente laica di alta statura che, per cultura giuridica e sensibilità istituzionale, agevolerà nel Consiglio il compimento di un processo di rinnovamento che, come sempre è accaduto, non può prescindere dalla buona volontà di donne e uomini”. Fonti di Forza Italia respingono al mittente il messaggio: “Santalucia non può dettare al Parlamento le regole di ingaggio dei prossimi consiglieri del Csm. Dopo gli scandali che hanno attraversato la magistratura negli ultimi anni non possono permettersi di dire nulla in merito. Le figure che noi indichiamo sarebbero, invece, una garanzia per tenere a bada possibili ingerenze da parte della componente togata”. All’opposizione andrebbe la scelta di tre consiglieri: uno per il Partito democratico, uno per il Movimento 5 Stelle, uno per il Terzo polo di Azione e Italia viva. Il Pd, passata la fase di avvio della legislatura, valuterà i profili più autorevoli per il Csm. Dal M5S bocce cucite ma rimane in piedi la candidatura dell’ex ministro Alfonso Bonafede, mentre per il Terzo polo la partita dovrebbe condurla Matteo Renzi: si fanno i nomi di Giuseppe Cucca e Lucia Annibali. I magistrati avvisano il futuro governo: “Pronti alla contestazione” di Ermes Antonucci Il Foglio, 18 ottobre 2022 L’Anm promette battaglia in caso di riforme sgradite alla categoria. Costa (Azione) al Foglio: “La politica non vuole ‘mettere in riga’ le toghe, ma solo introdurre meritocrazia”. L’Associazione nazionale magistrati lancia un messaggio chiaro al futuro governo: nessuno tocchi la giustizia, anzi, la magistratura. Nel corso del suo 35esimo congresso nazionale, svoltosi lo scorso fine settimana a Roma, il sindacato delle toghe ha inviato vari avvertimenti al prossimo premier e al prossimo ministro della Giustizia (Carlo Nordio?). Venerdì, alla presenza del capo dello stato, Sergio Mattarella, il presidente dell’associazione Giuseppe Santalucia ha espresso la “speranza che sia finalmente messa da canto la pulsione, che in questi recenti anni abbiamo visto invece ravvivata, di poter mettere in riga l’ordine giudiziario, profittando delle difficoltà e del calo di credibilità”. Poi Santalucia è tornato a criticare la riforma Cartabia dell’ordinamento giudiziario, approvata a settembre, auspicando che, “in sede di esercizio della delega legislativa, la politica ascolti attentamente ciò che abbiamo da dire”. Tradotto: il prossimo governo stia attento ad attuare i principi contenuti nella legge delega, volti a rendere più trasparenti i criteri di nomina dei magistrati ai vertici degli uffici giudiziari, a riformare le procedure di valutazione di professionalità delle toghe (oggi in sostanza inesistenti), anche attraverso l’istituzione di un fascicolo delle performance (così da poter considerare anche gli errori commessi dai magistrati), per finire con il riordino della disciplina dei fuori ruolo. Ancora più dirette, anche se passate sottotraccia, sono state le affermazioni del segretario generale dell’Anm, Salvatore Casciaro: “L’istituzione dell’Alta Corte per giudicare sui procedimenti disciplinari e sulle nomine contestate, la separazione delle carriere, il frazionamento (o lo smembramento) del Consiglio superiore, l’eliminazione dell’obbligatorietà dell’azione penale, l’introduzione di forme di responsabilità diretta dei giudici, il sorteggio per l’individuazione dei componenti del Csm sono solo alcune delle iniziative che, se introdotte, determinerebbero lo stravolgimento dell’attuale assetto costituzionale dell’ordine giudiziario”. “Si tratta di proposte - ha aggiunto Casciaro - che dovranno essere contrastate dall’azione unitaria della magistratura associata che deve trovarsi pronta a impegnarsi in difesa dei valori costituzionali e dei diritti dei cittadini”. Insomma, la magistratura è pronta a dare battaglia. “Sono rimasto sorpreso di fronte all’ennesima accusa rivolta alla politica di voler ‘mettere in riga le toghè”, dichiara al Foglio Enrico Costa, responsabile giustizia di Azione, anche lui presente al congresso. Fu proprio Costa a promuovere l’istituzione del fascicolo di valutazione dei magistrati. “Ricordo - aggiunge il deputato - che nelle more dell’approvazione della riforma del Csm, la magistratura fece uno sciopero, soprattutto contro il fascicolo per la valutazione. Io l’ho chiamato uno sciopero delle correnti, visto che i magistrati poi non aderirono molto all’iniziativa. Il testo comunque è stato approvato dal Parlamento e il prossimo governo dovrà adottare i decreti legislativi. Non so se quello dell’Anm fosse un avviso al prossimo governo per affievolire la portata della riforma in fase attuativa o una richiesta di ritornare sui propri passi. Penso però che tutto vada respinto al mittente”. “Lo spirito della riforma non è affatto quello di mettere in riga la magistratura, ma di introdurre meritocrazia”, aggiunge Costa, sottolineando la contraddizione delle toghe: “Da una parte dicono che c’è stato un periodo in cui non è stato rispettato il principio del merito e sul quale devono fare autocritica. Dall’altra parte, però, si scagliano contro il Parlamento che lavora perché venga rispettato il merito, cioè affinché vengano svolte valutazioni sulla base del lavoro svolto dai magistrati (successi e insuccessi). Anche perché gli errori dei magistrati hanno conseguenze sulla pelle dei cittadini. Non si può giocare sempre sull’irresponsabilità del magistrato, nel senso di assenza di conseguenze rispetto all’errore”. Cosenza. Detenuto morto in cella, i consulenti del pm: “Colpa di nessuno” di Marco Cribari cosenzachannel.it, 18 ottobre 2022 Consegnati i risultati dell’autopsia eseguita su Pasquale Francavilla, si attende ora la perizia dei consulenti di parte civile. La tragica fine del detenuto Pasquale Francavilla, risalente al 10 settembre del 2021, non sarebbe stata determinata da responsabilità umane, ma solo da una fatalità. È a queste conclusioni che sono giunti i medici legali incaricati dalla Procura di eseguire l’autopsia sul 46enne morto nel carcere di via Popilia. Alla loro perizia si affiancherà ora quella, di tutt’altro tenore, dei consulenti della parte civile. Solo allora il pm Battini deciderà cosa fare dell’inchiesta: se chiederne l’archiviazione o proseguire con le indagini. Il prologo alla tragedia - Il dramma di Francavilla ha inizio alla fine di agosto, quando è colpito da una trombosi a una gamba che determina il suo trasferimento dalla casa circondariale all’Annunziata. I medici riescono a salvargli la vita in extremis e, dopo una settimana in terapia intensiva, l’8 settembre l’ospedale dà il via libera alle sue dimissioni. “Non può tornare in cella” - Un provvedimento che il suo avvocato Mario Scarpelli reputa subito inopportuno: chiede che il suo assistito resti in corsia, che sia assegnato a un reparto, o che in alternativa vada ai domiciliari. La sua istanza non trova accoglimento, e così per il 46enne si spalancano nuovamente le porte di via Popilia. Vi resterà solo due giorni, il tempo che gli resta ancora da vivere. Le ultime parole - L’inchiesta si propone ora di accertare se, come ritengono i familiari, la situazione fosse già grave al punto da sconsigliarne il ritorno dietro le sbarre. Al riguardo, negli ultimi colloqui con la moglie, il diretto interessato si sarebbe espresso in termini più che allarmanti: “Sto malissimo, mi stanno facendo morire”. A fine mese ne sapremo di più. Il caso in Parlamento - All’epoca, Francavilla aveva quasi finito di scontare la sua condanna a sette per associazione a delinquere finalizzata al traffico di stupefacenti. Sarebbe tornato in libertà a dicembre di quest’anno. La sua morte è stata anche al centro di un’interrogazione parlamentare presentata dall’allora deputata Enza Bruno Bossio. Napoli: Arrestato il Garante dei detenuti, è accusato di aver portato droga e cellulari in carcere di Fulvio Bufi Corriere della Sera, 18 ottobre 2022 Nominato nel 2019 dall’allora sindaco de Magistris, Ioia ha un passato da narcotrafficante per cui ha scontato 22 anni di reclusione. Il Garante dei detenuti del Comune di Napoli, Pietro Ioia, è stato arrestato insieme ad altre sette persone nell’ambito di una indagine, condotta dai carabinieri e coordinata dalla Procura partenopea, mirata a fare luce sull’introduzione di droga e telefoni cellulari nel carcere di Poggioreale. Sì tratta di episodi che sarebbero avvenuti tra il giugno del 2021 e il gennaio di quest’anno. A gestirli quella che gli investigatori hanno individuato come una strutturata associazione per delinquere (reato contestato a tutti gli indagati nell’ordinanza di custodia cautelare firmata dal gip) composta da alcuni reclusi e dalle loro mogli, oltre che dal garante. Secondo le indagini Ioia avrebbe approfittato del suo ruolo, e della facilità di accesso alla casa circondariale che questo comportava, per incontrare i detenuti coinvolti nell’organizzazione e consegnare la droga e i cellulari. Hashish e cocaina venivano poi spacciati in carcere fruttando all’organizzazione un guadagno che successivamente era ripartito tra i vari partecipanti. Pietro Ioia, 63 anni, ha un passato da narcotrafficante che lo ha portato a scontare 22 anni di reclusione. Da molto tempo sembrava aver abbandonato ogni tipo di attività illecita e si era a lungo impegnato per i diritti dei detenuti. Nel dicembre del 2019 l ‘allora sindaco Luigi de Magistris lo nominò Garante dei diritti delle persone private o limitate nella libertà personale. Ioia è anche autore di un libro sulla cosiddetta “cella zero”, una stanza del carcere di Poggioreale che sarebbe stata utilizzata per pestaggi e violenze sui detenuti. Sulla “cella zero” ha indagato a lungo la Procura senza però accertarne la reale esistenza. Siracusa. Detenuto in coma dopo essere stato aggredito dal compagno di cella srlive.it, 18 ottobre 2022 Da dieci giorni è ricoverato in coma al reparto di rianimazione dell’ospedale Umberto primo di Siracusa, a causa delle gravissime e diffuse lesioni subite a seguito di un’aggressione in carcere. Si tratta di un detenuto di 34 anni, di nazionalità moldava, il cui quadro clinico è ritenuto critico dai sanitari. L’aggressione è avvenuta in una cella della casa circondariale di Cavadonna la notte tra il 4 e il 5 ottobre. Da quanto è stato possibile apprendere, il malcapitato, la cui fine pena è fissata per il 2024, era stato posto a regime d’isolamento e sorveglianza a vista a causa del suo stato depressivo. Condivideva la cella con un altro detenuto, proveniente dai paesi dell’Est europeo, con problemi psichici. Questi, utilizzando un corpo contundente, avrebbe dapprima assestato al compagno di cella un colpo alla nuca tramortendolo per poi accanirsi con ferocia al punto che, all’arrivo dei soccorritori, il detenuto era incosciente e presentava lesioni anche interne oltre che a fratture entrambi i femori al bacino. La vittima dell’aggressione non ha alcun parente o amico in Sicilia. La sua famiglia, indigente, si trova in Moldavia. Alla madre e alla moglie, che vive prendendosi cura di due figli piccoli, giungono notizie attraverso una mediatrice culturale. L’aggressore, che, subito dopo il fatto, è stato sottoposto a trattamento sanitario obbligatorio ed è stato trasferito in un altro penitenziario, non sembra essersi reso conto della gravità dell’accaduto. La Procura aretusea ha aperto un’inchiesta per ricostruire l’intera vicenda e accertare le responsabilità. “Forse non si riesce ad afferrare la parte debole e critica del caso - afferma Giovanni Villari, garante dei detenuti che ha depositato una relazione al Comune di Siracusa - ma se l’azione di monitoraggio e la presenza dello psichiatra (figura specialistica molto carente in area sanitaria penitenziaria) fossero state efficaci, la gravità della patologia psichiatrica dell’aggressore non sarebbe stata sottovalutata. Nel caso specifico, a un uomo che soffriva di disturbi depressivi che lo avevano già portato a tentare il suicidio per ben quattro volte (il detenuto aggredito), sono stati applicati tutti i protocolli prevedibili a salvaguardia della sua incolumità. Al contrario, per l’aggressore, le cui patologie erano già state individuate, non si è messa in atto un’azione di monitoraggio specifica, né, tantomeno, si è ricorsi all’isolamento per proteggere gli altri detenuti”. Sulla vicenda è intervenuto il sindacato Sippe, organizzazione degli agenti di polizia penitenziaria. “Quanto accaduto al detenuto - afferma il presidente del sindacato polizia penitenziaria, Alessandro Di Pasquale - purtroppo, non può essere considerato un fatto isolato ma rappresenterebbe la conseguenza del fallimento del sistema penitenziario. Più volte, ai vari governi di turno, abbiamo chiesto strategie concrete nella gestione delle carceri, puntando sulla sicurezza degli stessi”. Spoleto (Pg). Carcere al top nel reinserimento di Donatella Miliani La Nazione, 18 ottobre 2022 Su 75 detenuti, 60 sono impegnati tra officine, sartoria e falegnameria della struttura penitenziaria. Un carcere all’avanguardia nei progetti finalizzati al reinserimento nel mondo del lavoro dei detenuti nonostante alcuni problemi di ordine pubblico che si sono registrati più volte nei mesi scorsi. Il sindaco Roberta Tardani, insieme all’assessore alle politiche sociali Alda Coppola e all’assessore alla sicurezza Gianluca Luciani, ha incontrato la direttrice della casa di reclusione Anna Angeletti, per fare il punto sul progetto e sui risultati ottenuti. Accompagnata dal comandante del reparto di polizia penitenziaria, Enrico Gregori, e dal segretario regionale del Sappe, Fabrizio Bonino, la delegazione ha effettuato una visita all’interno della struttura di via Roma soffermandosi in particolare sulle officine per il lavoro del ferro, del legno e dei tessuti dove vengono impiegati i detenuti. Si tratta del progetto “Lavoro quindi produco” avviato negli anni scorsi dalla Casa di reclusione per promuovere e potenziare il lavoro intramurale e favorire il recupero sociale e il reinserimento lavorativo dei detenuti stessi. Nell’Istituto orvietano si trovano una falegnameria e un’officina per la produzione di armadi, letti in ferro e scaffalature metalliche, una sartoria e una tessitoria per la produzione di lenzuola. Il materiale realizzato è commissionato dal Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e destinato a coprire il fabbisogno di tutti gli Istituti penitenziari italiani. Nelle officine vengono attualmente impiegate 43 unità alle quali se ne aggiungono 17 che si occupano dei cosiddetti lavori domestici per un totale di 60 detenuti lavoranti sui 75 ospitati dalla struttura. “L’iniziativa che porta avanti la direzione della casa di reclusione - commenta Tardani - rappresenta un unicum a livello nazionale. Non esistono infatti in Italia altri Istituti che garantiscono questa attività a livelli paragonabili a quelli industriali. Si parla molto della necessità di percorsi efficaci di recupero e reinserimento, ovvero l’obiettivo della pena, ma qui a Orvieto si ha la testimonianza concreta e quotidiana di quello che è possibile fare per recuperare le professionalità delle persone detenute o trasmetterne delle nuove necessarie a garantire loro una continuità lavorativa nel momento del ritorno alla libertà”. L’assessore Luciani spiega che “con questo progetto sarà attivato nei prossimi giorni un percorso lavorativo per un detenuto che per tre mesi sarà destinato al Centro servizi manutentivi in attività di cura del verde, pulizia e restauro del decoro urbano nei parchi e nei giardini pubblici del nostro comune”. Genova. La direttrice del carcere di Marassi: “Al Governo chiedo più personale” di Silvia Isola primocanale.it, 18 ottobre 2022 Intervista a Tullia Ardito dopo i suoi primi mesi alla direzione della Casa circondariale genovese. Sono stati due anni e mezzo complicatissimi per tutti, anche per le persone detenute che con la pandemia hanno visto cambiare diverse regole all’interno delle strutture penitenziarie. Il Covid ha imposto una settimana di quarantena dopo ogni giorno di permesso, restrizioni alle visite e norme più stringenti. Tutto questo in una situazione già complessa determinata dal sovraffollamento delle strutture, come nella casa circondariale di Genova Marassi dove “rispetto alla capienza regolamentare di 456 detenuti, sono ristretti circa 710 persone”, secondo quanto denunciato dai sindacati di polizia penitenziaria. E anche se in passato ci sono stati momenti peggiori, con anche più di 800 reclusi, i numeri fanno capire le difficoltà di gestione e le proteste rumorose delle ultime settimane. “Stiamo tornando lentamente alla normalità, ma manteniamo la prudenza: le attività sono riprese, ma le regole come nelle case di cura e negli ospedali restano in quanto si tratta pur sempre di un luogo chiuso”, commenta a Primocanale la direttrice Tullia Ardito, arrivata a marzo di quest’anno, a margine della presentazione della stagione del Teatro dell’Arca, il teatro aperto anche alla società civile nel cuore del carcere. E l’attenzione di Roma c’è - secondo la direttrice - per quello che è “uno degli istituti più importanti d’Italia, per cui anche il presidente Renoldi è stato di recente qui in visita, in quanto è anche uno dei più attenzionati”. Ma la richiesta resta sempre la stessa di quasi sei mesi fa. Bologna. Minori e carcere: al via percorsi di orientamento, tirocini e laboratori bolognatoday.it, 18 ottobre 2022 L’attività è rivolta a tutti i giovani ristretti nell’Istituto Penale minorenni di Bologna al Pratello nell’arco di tempo indicativamente dei prossimi 18 mesi, e complessivamente a 60 giovani in area penale esterna. Tre percorsi per l’inclusione socio-lavorativa di minori e giovani adulti sottoposti a procedimento penale dall’autorità Giudiziaria Minorile e in carico al Centro per la Giustizia Minorile dell’Emilia-Romagna. Così da acquisire, ed eventualmente recuperare, abilità e competenze individuali per rafforzare il percorso di inserimento nel mondo del lavoro. Per crescere, realizzarsi e, terminata la detenzione, poter operare attivamente nella società. L’attività, rivolta a tutti i giovani ristretti nell’Istituto Penale nell’arco di tempo indicativamente dei prossimi 18 mesi, e complessivamente a 60 giovani dai 14 ai 25 anni in area penale esterna, è sostenuta con un finanziamento della Regione di oltre 565 mila euro, risorse europee del Programma Fse Plus 2021/27. Le tre operazioni finanziate propongono interventi per l’inclusione e l’autonomia per i giovani ristretti nell’Istituto Penale minorenni di Bologna del Pratello, con misure di orientamento specialistico e percorsi di formazione laboratoriali e interventi per l’inclusione e l’autonomia per giovani in area penale esterna, con misure di orientamento specialistico e di accompagnamento individuale, percorsi formativi brevi e tirocini. “Una doverosa attenzione a ogni forma di fragilità, per contrastare l’emarginazione sociale e favorire, attraverso il lavoro, il reinserimento nella comunità. Con questi interventi la Regione- commenta l’assessore regionale al Lavoro e formazione professionale, Vincenzo Colla - approva i progetti formativi a sostegno dell’inclusione attiva delle persone svantaggiate, per promuovere le pari opportunità, la non discriminazione, la partecipazione e migliorare l’occupabilità. Si vuole offrire una occasione per acquisire, ed eventualmente recuperare, abilità e competenze individuali per potenziare le possibilità di inserimento nel mondo del lavoro, per crescere, per autorealizzarsi e soprattutto, terminata la detenzione, per poter operare attivamente nella società”. Trieste. Il sindaco leghista sfratta Marco Cavallo, la statua simbolo della rivoluzione Basaglia di Maria Novella De Luca La Repubblica, 18 ottobre 2022 La famosa scultura azzurra costruita a Trieste dai pazienti dell’ospedale psichiatrico, che la portarono in corteo abbattendo il muro del manicomio, è ospitata in un deposito a Muggia, quando non è in giro per il mondo. L’amministrazione ha deciso però che “l’ingombro” dev’essere rimosso. Peppe Dell’Acqua: “Atto finale e simbolico dello smantellamento della legge 180”. Marco Cavallo non ha più una casa. Oppure, simbolicamente, una stalla, se volete, visto che seppure di legno e cartapesta parliamo di un destriero azzurro, alto quattro metri, il cui soprannome potrebbe essere “libertà”. È nato nel 1973 Marco Cavallo, costruito dai pazienti del manicomio di Trieste, una scultura così grande e imponente che per farla uscire da quel luogo di reclusione Franco Basaglia dovette spaccare, materialmente, con una panchina di ghisa, un pezzo del muro di cinta dell’ospedale psichiatrico “San Paolo”. Il significato - Dietro Marco Cavallo, era il 25 febbraio del 1973, uscirono dal manicomio oltre seicento pazienti, infermieri, medici, i familiari dei degenti, in un corteo (incredibile) di facce impaurire e facce felici, di occhi non più abituati al “fuori”, all’orizzonte. Tutti coloro che per un anno intero avevano partecipato al primo laboratorio teatrale di quell’istituto, simbolo di internamento, di cui Basaglia era diventato direttore nel 1972, l’artista Vittorio Basaglia e lo scrittore Giuliano Scabia, i ragazzi dell’Accademia di Belle arti di Venezia, i “matti” e i sani come si diceva allora, percorsero le strade di Trieste per raccontare, concretamente, cosa voleva dire la riforma voluta da Basaglia che avrebbe portato alla legge 180 e alla chiusura dei manicomi. Buttato via, perché un ‘ingombro’ - Cinquant’anni dopo, mentre Marco Cavallo ancora galoppa per il mondo, richiesto da congressi, festival teatrali, carceri, ovunque si parli di “reclusione”, il sindaco leghista di Muggia, comune alle porte di Trieste, ha deciso che per la sua amministrazione quella statua è un “ingombro” e l’ha sfrattata dai depositi comunali dove Marco Cavallo era custodito tra un viaggio e l’altro. In una “stalla” protetta che era stata messa a disposizione dalla precedente giunta di centrosinistra. Il primo cittadino di Muggia è Paolo Polidori, noto perché quando era vicesindaco di Trieste, al grido “voglio pulita la città”, buttò orgogliosamente in un cassonetto il povero giaciglio di un clochard, coperte e stracci con cui il senzatetto romeno si difendeva dal freddo. Descrivendo poi minuziosamente la sua bravata su Facebook. Adesso tocca a Marco Cavallo, simbolo mondiale della chiusura dei manicomi, di quel “modello Trieste” ancora oggi studiato in tutto il mondo, come racconta Peppe Dell’Acqua, psichiatra, che di Basaglia è stato tra i principali collaboratori. “Nelle scorse settimane l’associazione “Franco Basaglia” che gestisce Marco Cavallo, i suoi viaggi, le sue trasferte, in questi giorni ad esempio è Castiglioncello, ha ricevuto una lettera protocollata in cui si annuncia che l’ingombro, sì, questa è la parola utilizzata dal sindaco, dovrà essere rimosso dai depositi comunali. Questo vuol dire che Marco Cavallo quando tornerà a casa, a Muggia, non sarà il benvenuto. Anzi troverà le porte chiuse del deposito”. Ritorno al passato - Un gesto che è plasticamente la conclusione, spiega Peppe Dell’Acqua, “del progressivo smantellamento della eccellente rete dei centri di salute mentale di Trieste, ad opera negli ultimi anni della giunta di destra e leghista, disarticolando così tutto il lavoro di Franco Basaglia, verso una progressiva re-istituzionalizzazione delle persone con problemi mentali”. Insomma lo sfratto di Marco Cavallo, che venne costruito con una porticina nella pancia, così decisero i pazienti, “perché lì dentro potessero mettere le lettere, i loro pensieri, i loro oggetti, portati finalmente fuori, nel mondo” rappresenta secondo gli psichiatri basagliani l’anticamera di un nuovo confinamento dei “matti” nell’apartheid della malattia. Il destriero blu, al quale sono stati dedicati libri e documentari, in realtà esisteva davvero e si chiamava, appunto, Marco. Era il cavallo che tirava un carretto all’interno del manicomio di Trieste sul quale venivano caricati i panni sporchi, gli oggetti pesanti, il materiale da cucina. I pazienti amavano quel cavallo, ormai troppo vecchio e destinato al macello. Così nel 1972, quando anche da quelle stanze iniziarono ad uscire le voci degli internati, i pazienti inviarono una lettera all’amministrazione regionale, firmata Marco Cavallo, chiedendo di non far abbattere il vecchio ronzino, ma di lasciarlo alle cure dei degenti del manicomio. Una storia ‘magica’ - Una presenza evidentemente così importante e domestica, per quei mondi a sé che erano gli ospedali psichiatrici, che i pazienti decisero poi di dedicare proprio a Marco Cavallo il primo laboratorio artistico mai entrato in quelle stanze. Il cavallo vero scampò al mattatoio e finì i suoi giorni tra i “matti” che per decenni lo avevano accudito. Peppe Dell’Acqua dice che Marco Cavallo è una storia magica. “Ovunque venga portato, sia il cortile di un carcere o un festival teatrale, Marco Cavallo rappresenta la libertà riconquistata dagli internati. Il diritto di essere nella società. Accanto a lui c’è sempre musica, arte, libertà. Basaglia buttò giù l’architrave del cancello con una sedia per farlo uscire, come a voler picconare la soglia del dentro e del fuori, nessuno è completamente sano, nessuno è completamente folle. Noi siamo tutti su una soglia, malattia e salute convivono. La rivoluzione di Basaglia è stata quella di aver considerato il folle una persona, una persona schizofrenica è prima di tutto una persona, poi è, anche, la sua schizofrenia”. Una profonda importanza - Che fine farà il destriero azzurro? Chi darà una casa a Marco Cavallo, affinché questo straordinario cantastorie non perisca all’addiaccio travolto dalla bora che soffia lassù? Scriveva Franco Basaglia: “Marco Cavallo, come simbolo della libertà da contrapporre alla miseria della psichiatria, fu un’esperienza unica. Potrebbe sembrare che il lavoro di Marco Cavallo sia stato un gioco fugace, come la costruzione di un castello di sabbia spazzato via dalla prima onda. Noi non sappiamo cosa sia stato Marco Cavallo, ma una cosa è certa: per noi ha avuto una profonda importanza”. Busto Arsizio. Si scrive cesto di Natale, si legge vita nuova per i detenuti varesenoi.it, 18 ottobre 2022 La Valle di Ezechiele, cooperativa sociale con sede legale nel penitenziario di Busto Arsizio, torna a proporre, per il terzo anno, i suoi Cesti di Natale, con prodotti alimentari delle imprese sociali che operano nel tessuto degli Istituti di pena di tutto lo stivale: da Palermo a Sondrio, letteralmente. In due anni di attività, ben 12 sono le persone detenute che abbiamo preso a lavoro, portandoli verso una vita nuova. Nessuno di loro ha commesso nuovi reati; tecnicamente si dice: tasso di recidiva di reato dello 0%! Si tratta di persone prossime al fine pena, meritevoli di fiducia per il loro virtuoso percorso carcerario, che il magistrato autorizza a terminare di scontare la parte finale della loro condanna esternamente al penitenziario. Vi sono tre cesti in sacchi di juta: ricordano una “refurtiva” di preziosi. Un quarto in una pregevole cassetta di legno. Portano i nomi dei Re Magi, compreso il 4o, che la leggenda dice essere arrivato tardi, per aver sperperato il regalo per i poveri. Ci piace. I Re Magi portarono doni a Gesù. Così questi sacchi vorrebbero portare i pensieri di Natale di quanti li acquisteranno ai loro cari. Non ci siamo accontentati, nella composizione dei cesti, di accogliere i prodotti che arrivano da tutt’Italia. Abbiamo voluto intessere qualche audace e promettente relazione con imprenditori del territorio. Così è nata la collaborazione con lo storico panificio “Colombo 1933” di Busto Arsizio: l’anno scorso ha accolto una persona a lavoro…e quest’anno, vinta ormai ogni remora grazie alla buona esperienza vissuta, sta per accogliere il secondo. Alle loro mani è affidata la creazione dei nostri panettoni. Il birrificio “The Wall” sta per accogliere una persona dal penitenziario bustocco nei suoi stabilimenti produttivi a Venegono Inferiore, per la nostra Birra di Natale. I nostri cesti sanno di Varese e dei progetti di rinascita che qui si celebrano. Papa Francesco, nel recente discorso ai membri della Fondazione Centesimus Annus, ha dichiarato: “La povertà non si combatte con l’assistenzialismo, no, così la si “anestetizza” ma non la si combatte. Come già dicevo nella Laudato si’, “aiutare i poveri con il denaro dev’essere sempre un rimedio provvisorio per fare fronte alle emergenze. Il vero obiettivo dovrebbe essere di consentire loro una vita degna mediante il lavoro” (n. 128). La porta è il lavoro: la porta della dignità di un uomo è il lavoro”. Ci sentiamo pienamente nelle parole del Santo Padre, per altro citate anche dal neo eletto Presidente del Senato, nel suo discorso di insediamento. In due anni questi cesti hanno inserito nel circuito delle cooperative carcerarie di tutto lo stivale ben 53.000 euro: valore investito non in assistenzialismo, ma in lavoro. Acquistando i nostri Cesti di Natale non si fa la carità: si dà lavoro! Il 25 ottobre sarà passato un anno dall’inaugurazione della nostra cooperativa, con il taglio del nastro operato dalla Ministra Cartabia. Ricevette il nostro cesto e la prima cassetta “Artaban”. Ci auguriamo di poter incontrare anche chi le succederà in via Arenula, certi di continuare a essere “ossigeno per il governo”, come lei definì allora la nostra piccola e speranzosa realtà. Con l’augurio di essere insieme un segno profetico di rinascita, che ben si accompagna al Natale del Bambino Gesù ed è per altro racchiuso nel nome della nostra cooperativa (la rinascita delle ossa inaridite, descritta nel capitolo 37 del Libro di Ezechiele). Il catalogo si può visionare qui: https://www.lavallediezechiele.org/cesti-di-natale/ Prenotazioni sempre alla stessa pagina del nostro sito rigorosamente entro il 31 ottobre (dobbiamo far arrivare la merce, confezionare, spedire). Si può prenotare come persone fisiche e come persone giuridiche. Quest’anno è possibile far inviare direttamente a noi i cesti, con un biglietto personalizzato (esigenza avanzata da molti l’anno scorso). San Cataldo (Cl). Malattie infettive, giornata di informazione per i detenuti di Umberto Triolo meridionews.it, 18 ottobre 2022 La salute dei cittadini anche dietro le sbarre perché le malattie infettive non conoscono barriere. Grazie al contributo incondizionato di Gilead Sciences e all’organizzazione di AJS connection, i detenuti del carcere di San Cataldo hanno partecipato ad una giornata di sensibilizzazione sulla tematica. Appuntamento fortemente voluto dalla direttrice della struttura di reclusione, Francesca Fioria, e che è stato supportato da esperti e medici come il professore Antonio Mistretta, coordinatore delle attività scientifiche della Presidenza dell’Istituto Superiore di Sanità e docente di Igiene presso l’Università di Catania, dalla dottoressa Daniela Segreto, direttore dell’Ufficio Speciale Comunicazione per la Salute dell’assessorato della Salute della Regione Siciliana, dal professore Giovanni Mazzola, primario Malattie Infettive all’Ospedale Sant’Elia di Caltanissetta, dal dottore Francesco Santocono, docente di Diritto Sanitario all’Università “Giustino Fortunato” di Benevento e Responsabile dell’unità Comunicazione Istituzionale Arnas Garibaldi di Catania. Circa ottanta i detenuti che hanno partecipato e seguito, con estrema attenzione, il cortometraggio dal titolo “Io e Freddie - Un Specie di Magia” sulla questione Aids. Una tematica particolarmente interessante anche alla luce dei dati emersi dalle recenti statistiche: nelle carceri italiane un’elevata percentuale di soggetti ha una malattia infettiva (epatite, Hiv, tubercolosi, sifilide) e, uno su tre non è consapevole del proprio stato di salute. L’infezione da Hiv e le epatiti sono ampiamente diffuse, con prevalenze che possono arrivare fino a dieci volte rispetto a quelle rilevabili nella popolazione generale a seconda della composizione demografica presente negli Istituti penitenziari. Inoltre, recenti studi hanno evidenziato che il virus dell’HIV e delle epatiti sta progressivamente perdendo quella caratterizzazione terrorizzante che aveva assunto negli anni Ottanta e Novanta. “Questo seminario - ha detto la direttrice Fioria - si inserisce nel nostro percorso annuale che punta alla formazione e all’informazione come trampolino di lancio verso l’esterno poiché le persone che si trovano qui hanno un fine pena breve e quindi saranno presto libere. La convivenza forzata in un luogo chiuso ci porta ad avere paura, fatto però che è spesso causato dalla mancanza, o sbagliata o sommaria, conoscenza dell’argomento. Oggi si è realizzata una bellissima opportunità per poter dissolvere questa paura”. La giornata, quindi, all’interno della casa di reclusione ha stimolato maggiore consapevolezza dei pericoli ma anche provato a superare le paure. “Un momento importante - ha precisato Francesco Santocono - perché fra i tanti posti nei quali è stato presentato il mio film, con un nuovo modo di fare comunicazione in sanità, qui si sente più forte il contatto umano con una valenza ancora più significativa”. Ad incrementare il valore educativo e conoscitivo dell’incontro sono stati pure il dottore Giuseppe Sportato, specialista in Malattie Infettive dell’ospedale Sant’Elia di Caltanissetta, la dottoressa Valentina Botta dell’ufficio Speciale “Comunicazione per la Salute” Assessorato della Salute della Regione Siciliana e il dottore Alfonso Cirrone Cipolla, dirigente medico dello staff Direzione Sanitaria Aziendale ASP Caltanissetta e direttore sanitario del Presidio Ospedaliero “Suor Cecilia Basarocco”. Parole e spiegazioni per illustrare le origini, le manifestazioni, le cure e la corretta prevenzione evitando così di essere contagiati. Civitavecchia (Rm). I detenuti raccontano le madri con un podcast di Raffaella Tallarico gnewsonline.it, 18 ottobre 2022 Voci dal carcere che raccontano il rapporto con la madre: sono i detenuti della Casa circondariale di Civitavecchia, protagonisti del podcast “Due Blu”. Ogni episodio è un racconto, il loro nome come titolo - Fabio, Maurizio, Gert, Vincenzo, Obi, Francesco, Mirko, Edoardo - e tutti parlano di come hanno vissuto una relazione tanto intima quanto universale. Il podcast è il culmine del progetto “La Scena invisibile”, creato dalla giornalista Federica Manzitti, in collaborazione con la Compagnia AdDentro dell’Associazione ‘Sangue Giusto’, che promuove da anni iniziative teatrali e artistiche negli istituti di Civitavecchia. I detenuti hanno seguito un vero e proprio laboratorio di podcasting, durante il quale hanno imparato le tecniche di montaggio audio, l’uso dei software di audio editing e lo storytelling. “Volevo portarli a una narrazione di sé che non fosse la propria storia criminale e carceraria” racconta Manzitti. “Il tema della madre smuove questioni importanti per chi è detenuto: la colpa, l’innocenza e la necessità di ripercorrere il proprio vissuto in modo più profondo”. Il progetto di podcasting ha avuto ricadute positive, “un lavoro di relazione”, come sottolinea Manzitti. “Si è trattato di un incontro molto fortunato, con persone che hanno avuto la capacità di mettersi in gioco. L’idea di pubblicare questo lavoro è stata quasi consequenziale: sono stati loro stessi a volerlo”. Il podcast “Due Blu” è disponibile online dal 7 ottobre: https://www.spreaker.com/show/due-blu-la-scena-invisibile Livorno. Detenuti Alta Sicurezza recitano “Il dono necessario” ispirato al mito greco di Prometeo livornopress.it, 18 ottobre 2022 Si è svolto nei giorni scorsi, all’interno della Casa Circondariale di Livorno, uno spettacolo teatrale liberamente ispirato al mito greco di Prometeo, “Il dono necessario”. Lo spettacolo è l’esibizione finale di un laboratorio di teatro rivolto ai detenuti della sez. di Alta Sicurezza condotto da M. Teresa Delogu con l’assistenza di Lavinia Meo. Il laboratorio si è svolto in un’ottica inclusiva e partecipativa, tesa a recuperare e valorizzare le capacità espressive di ciascun partecipante, in un processo mirato alla riscoperta ed al rafforzamento di capacità sociali, relazionali tanto preziose nel difficile cammino del reinserimento nella società. Lo spettacolo coinvolgente ed emozionante ma al tempo stesso ironico e dissacrante ha appassionato e coinvolto il numeroso pubblico formato da detenuti ed oltre cinquanta ospiti esterni. Per la prima volta la rappresentazione si è svolta nelle ore pomeridiane-serali (dalle ore 19 alle 21) in uno dei cortili passeggio del reparto alta sicurezza. Coinvolti nel progetto teatrale oltre venti detenuti fortemente supportati dai compagni di reparto che non hanno fatto mancare sostegno e partecipazione. Il progetto si inserisce nel vasto panorama di attività trattamentali che l’area educativa dell’istituto mette a disposizione della popolazione detenuta, con il coinvolgimento fondamentale di Istituzioni e associazioni di volontariato e del terzo settore, con l’obbiettivo di mettere a disposizione dei detenuti strumenti di elaborazione e di protagonismo positivo finalizzati a percorsi di crescita individuale e collettiva. Milano. Scatti che aprono una finestra sul carcere di Antonietta Nembri vita.it, 18 ottobre 2022 Aperta fino al 6 novembre al Pac di Milano “Per me si va tra la perduta gente”, una mostra fotografica frutto di un nuovo progetto di Ri-scatti, l’associazione che dal 2014 propone la fotografia come strumento di riscatto sociale. Dietro gli obiettivi i detenuti e gli agenti della polizia penitenziaria delle quattro carceri milanesi. Una finestra aperta su un mondo sconosciuto ai più: il carcere. È questo l’ultimo progetto di Ri-scatti l’associazione di volontariato che da otto anni propone iniziative di riscatto sociale utilizzando la fotografia. Negli anni i workshop fotografici hanno indagato mondi diversi: dai senza dimora al Melting Pot milanese con “Multiculturalità e integrazione”, ma anche la ricerca di felicità degli adolescenti malati di tumore, il bullismo, i disturbi alimentari, la prostituzione. Quest’anno l’obiettivo della macchina fotografica è entrato nelle carceri milanesi grazie al nuovo progetto che vede accanto all’associazione il Pac -Padiglione d’Arte contemporanea di Milano. Il progetto è promosso dal Comune di Milano con il sostegno di Tod’s e il patrocinio del ministero della Giustizia e realizzato con il Politecnico di Milano e il Provveditorato Regionale Lombardia del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria. Al taglio del nastro della mostra con le 800 immagini selezionate e realizzate dai detenuti e dagli agenti della polizia penitenziaria dei quattro istituti di detenzione milanesi: Casa di Reclusione di Opera, Casa di Reclusione di Bollate, Casa Circondariale F. Di Cataldo - San Vittore, Ipm C. Beccaria tra le autorità, accanto al sindaco di Milano Giuseppe Sala anche la ministra della Giustizia Marta Cartabia che ha voluto sottolineare da un lato sia come il mondo del carcere resti “sconosciuto anche al ministro della Giustizia”, eppure in ogni istituto che ha visitato ci sono state “sorprese bellissime, iniziative nascoste, come sorprese brutte”. Cartabia ha inoltre ricordato come tra le cose peggiori vi sia “il tempo vuoto e senza senso”. Per la ministra della giustizia la mostra milanese offre un servizio: è una finestra “che permette a noi di sbirciare la vita quotidiana del carcere”, ma è anche frutto di un’iniziativa che vede “detenuti e polizia penitenziaria - due mondi distinti - che condividono la stessa quotidianità”. Le immagini in mostra sono frutto di quasi un anno di corso, 100 partecipanti (di cui 60 detenuti e 40 agenti di polizia) che ha prodotto oltre 50mila scatti fotografici realizzati, da cui sono stati selezionati gli 800 che sono esposti fino al 6 novembre al Pac di via Palestro. Quelle che i visitatori possono ammirare sono immagini che raccontano la realtà delle carceri dal punto di vista diretto di chi le abita e di chi le vive per lavoro. “Un lavoro di squadra”, ha sottolineato Federica Balestrieri, fondatrice di Ri-scatti che ha ricordato come il progetto non sia stato un “lavoro semplice, ma che ha avuto il supporto di tutti e da tutto il mondo del carcere: dai direttori, ai comandanti, dai detenuti agli educatori”. Quasi un anno di lavoro, dunque, per un risultato che stupisce, incuriosisce e spiazza. Immagini belle, sorprendenti e allo stesso tempo vere con un fil rouge: le finestre e i muri. Finestre che guardano fuori, immagini di cieli infuocati, tramonti e sbarre. E poi corridoi, particolari di persone e momenti della quotidianità con i visitatori della mostra che si trovano come a spiare un mondo chiuso e che rimane sconosciuto. Per chi non varca quella soglia che segna la linea di separazione tra il vivere e il sopravvivere, tra il tempo che passa e l’immutabilità dei giorni. Quello che è importante nel nostro quotidiano - si legge in una nota - diventa spesso privo di senso nelle sezioni detentive, e quello che invece è vitale dietro le sbarre è pressoché insignificante per noi. Una realtà che alimenta i peggiori fantasmi e che suscita sentimenti contrastanti di attrazione e di repulsione, di paura e di curiosità. Le carceri non sono solo affollate di detenuti, sono affollate di esseri umani che non possono essere lasciati soli, che devono essere aiutati a salvarsi dalla loro stessa “perduta vita”, dalla loro convinzione di non avere più alcuna possibilità di riscatto, da quella loro visione della “scomparsa del futuro”. Come nell’inferno dantesco cui si richiama il titolo della mostra “Per me si va tra la perduta gente”, l’ingresso in carcere rappresenta l’inizio di una discesa, tortuosa e inevitabilmente dura. Un percorso che, nell’interesse anche della collettività, dovrebbe concludersi con un’uscita “a riveder le stelle” (fisica o simbolica che sia per coloro che effettivamente dal carcere non usciranno mai), affinché il desiderio di giustizia non si trasformi in vendetta. Legata alla mostra, con la vendita dei cataloghi e delle fotografie, la raccolta fondi che finanzierà interventi architettonici per il miglioramento della qualità della vita nelle carceri. Attività che saranno gestite e coordinate dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano che, insieme al Dipartimento di Design, dal 2014 svolge ricerche di tipo partecipativo negli spazi detentivi attraverso Laboratorio Carcere. Il prossimo spazio di ricerca sarà l’Off-Campus San Vittore. La mostra al Pac di via Palestro a Milano è a ingresso gratuito (ore 10 - 19,30 - giovedì fino alle 22,30). Chiuso il lunedì. Roma. “La giustizia adotta la scuola”, aree verdi in memoria vittime anni di piombo comune.roma.it, 18 ottobre 2022 Sensibilizzare i giovani alla memoria delle vittime del terrorismo e della criminalità organizzata degli anni Settanta e Ottanta, per custodirne il ricordo e l’insegnamento. È questo l’obiettivo della terza edizione del progetto La giustizia adotta la scuola, promossa dalla fondazione Vittorio Occorsio (sostituto procuratore della Repubblica ucciso nel 1976 dal gruppo terroristico neofascista “Ordine Nuovo”). L’iniziativa mira a coniugare il tema della legalità con quello della sostenibilità ambientale, puntando sulla “memoria rigenerativa”. In quest’ottica è stata istituita la Giornata cittadina per la legalità ambientale, in collaborazione tra la Fondazione e Roma Capitale, affinché ogni anno vengano organizzate specifiche iniziative per intitolare alle vittime degli anni di piombo aree verdi e parchi urbani. A fare gli onori di casa, davanti a numerosi studenti, è stato il sindaco di Roma Roberto Gualtieri: “Questo progetto dà un contributo importante perché parte dalle scuole che sono il pilastro della nostra società. Avere legato il tema dell’ambiente a quello della legalità credo sia particolarmente opportuno, perché ridurre le emissioni e proteggere i beni ambientali è una delle sfide più importanti del nostro futuro”. Il primo cittadino ha voluto dedicare un pensiero a Vittorio Occorsio: “Gli operatori della giustizia e delle Forze dell’Ordine non devono essere mai lasciati soli. È fondamentale che si costituisca questo tessuto appassionato di coscienza, partecipazione civile e democratica”. Il progetto “La giustizia adotta la scuola” vede coinvolte oltre 100 istituti d’Italia e si svolge sulla base di un protocollo d’intesa, siglato nel 2020, tra la fondazione Vittorio Occorsio e il Ministero dell’Istruzione e dell’Università e della Ricerca. L’idea nasce per approfondire queste tematiche attraverso un nuovo percorso formativo basato non solo sull’interdisciplinarietà e la continuità ma anche su testimonianze dirette. Viene adottata una classe da parte di un tutor - magistrato o componente dell’Arma dei Carabinieri o della Polizia di Stato - per far conoscere a studenti e docenti la vita di una delle vittime e i motivi della sua uccisione. La classe, poi, prepara un elaborato multimediale che ricordi il personaggio studiato. Al termine, gli studenti incontrano i testimoni di quegli anni: familiari delle vittime o magistrati e Forze dell’Ordine che condussero all’epoca le indagini. All’iniziativa sono intervenuti, tra gli altri, la ministra della Giustizia Marta Cartabia; il presidente della Regione Lazio Nicola Zingaretti; il procuratore capo di Roma Francesco Lo Voi; il comandante scuola ufficiali dei Carabinieri, Claudio Domizi; la direttrice della Scuola Superiore di Polizia, Anna Maria Di Paolo; il consigliere per la Legalità di Roma Capitale, Francesco Greco; la consigliera di Roma Capitale Giulia Tempesta; i fondatori della fondazione Eugenio e Vittorio Occorsio; l’attore e regista Fabrizio Gifuni. Se la povertà si eredita di Chiara Saraceno La Repubblica, 18 ottobre 2022 Il Rapporto della Caritas contrasta con dati e fatti l’opportunità, sostenuta dal centro-destra, di ridurre o eliminare il Reddito di cittadinanza. Si tratta di uno strumento essenziale per garantire ai più poveri le risorse necessarie per vivere e per evitare spirali negative senza speranza. Il Rapporto Caritas 2022 sulla povertà dovrebbe essere letto con attenzione da chi si avvia a formare il nuovo governo e a definirne il programma. Il Rapporto, infatti, contrasta con dati e fatti l’opportunità, sostenuta dal centro-destra, di ridurre - se non eliminare - il Reddito di cittadinanza perché troppo generoso e abusato da non meritevoli. Riprende i dati forniti dall’Istat su un’incidenza della povertà assoluta che, dopo aver toccato un massimo storico nel 2020, non ha segnato alcun miglioramento nel 2021 e si avvia ad aumentare ulteriormente nel 2022 a seguito dell’impatto della crisi energetica. Si trattava, nel 2021, di 1 milione 960 mila famiglie, pari a circa 5,6 milioni di persone, tra cui 1,4 milioni di minorenni, la fascia di età in assoluto più esposta alla povertà, così come lo sono le famiglie numerose con figli minorenni. Solo una parte di questi poveri riceve il Reddito di cittadinanza, perché ne è escluso per disegno o perché non ritiene di poterlo chiedere o se ne vergogna. La parte più nuova riguarda la trasmissione intergenerazionale della povertà, basata su un’indagine su un campione rappresentativo di persone che si rivolgono ai centri Caritas. Conferma quanto era già emerso da indagini longitudinali, in Italia e a livello internazionale: essere poveri da bambini è altamente predittivo dell’esserlo anche da adulti. La povertà familiare è un pavimento appiccicoso - per riprendere un suggestivo titolo di un rapporto Ocse di qualche anno fa - che rende difficile ogni mobilità ascendente in un Paese, l’Italia, in cui non è mai stata molto forte e negli ultimi anni è fortemente rallentata, se non scomparsa. È così appiccicoso che anche molti di coloro che hanno provato a staccarsi da quel pavimento, migliorando un poco la propria istruzione e possibilità di reddito, non ce l’hanno fatta, o solo parzialmente. Nelle storie di deprivazione intercettate dal circuito Caritas, i casi di povertà ereditaria pesano per 59,0%. Quasi sei persone su dieci vivono una condizione di precarietà economica in continuità con la propria famiglia di origine, sia pure con una incidenza diversa a livello territoriale: i poveri “ereditari” sono più frequenti nelle isole e nelle regioni centrali, meno frequenti nel Nord-Est e nel Mezzogiorno peninsulare. I motivi di questa ereditarietà sono molteplici: non solo la povertà economica della famiglia di origine, ma anche la bassa scolarità dei genitori, il lavoro poco qualificato e non sempre regolare del padre e una condizione di casalinga della madre. Come indicano diverse ricerche, la bassa istruzione dei genitori, infatti, spesso si trasmette in bassa istruzione dei figli, dispersione e abbandono precoce della scuola. Anche il mercato del lavoro non offre a queste persone occasioni di qualificazione, al contrario. Non solo in Italia vi è molto lavoro povero sia di remunerazione sia di contenuti; le poche iniziative di riqualificazione, aggiornamento e simili sono rivolte ai lavoratori più qualificati, confermando il senso di disvalore, di mancanza di fiducia nelle proprie capacità maturate negli anni formativi da chi è più svantaggiato, come emerge anche dalla ricerca qualitativa svolta sulle persone provenienti da contesti familiari in cui la povertà è stata trasmessa per almeno tre generazioni. Il Reddito di cittadinanza è uno strumento essenziale per garantire a chi si trova in povertà assoluta le risorse necessarie per vivere e per evitare spirali negative e senza speranza, come ha ricordato anche il cardinale Zuppi. Va tuttavia migliorato, come suggerito anche dal Comitato scientifico di valutazione del RdC, innanzitutto nei criteri di accesso, che al momento escludono una buona parte di poveri, in particolare famiglie numerose con figli minorenni, a motivo di una scala di equivalenza che le svantaggia fortemente, e stranieri, a causa di un requisito di residenza altissimo: proprio i due gruppi in cui l’incidenza della povertà è maggiore e, se non tempestivamente contrastata, ha effetti negativi di più lungo periodo. Va migliorato anche nelle misure di accompagnamento, sia sul piano dell’inclusione sociale sia delle politiche attive del lavoro e dell’eliminazione del disincentivo al lavoro regolare a causa di una assurda aliquota marginale altissima. Ma anche questo può non bastare, osserva Caritas, se non si costruiscono a livello locale reti di collaborazione e sostegno tra i diversi soggetti - pubblici, di terzo settore, anche privati - che offrano a chi si trova in povertà strumenti e occasioni di ricostruzione della fiducia e di senso della propria dignità. Viaggio nel voto: i giovani, poco eletti e poco elettori. Ecco perché i partiti li ignorano (ricambiati) di Claudio Bozza Corriere della Sera, 18 ottobre 2022 L’astensione più alta (42,7%) è stata nella fascia 18-34 anni. Che in maggioranza ha scelto il M5S. Pagnoncelli: “Il reddito di cittadinanza è molto attrattivo tra chi vede il lavoro come un miraggio”. La filosofa Cosenza: “Sono meno del 10%, non “pesano”. Il Parlamento è (o almeno dovrebbe essere) lo specchio dell’Italia. Questa affermazione, spesso, però non corrisponde alla realtà per le istanze che vengono perseguite rispetto al Paese reale. Oggi dal punto di vista anagrafico Camera, Senato e la politica in generale rappresentano quasi alla perfezione un’Italia sempre più anziana, con i giovani sempre meno protagonisti. Non è la solita retorica giovanilista, ma il frutto dell’analisi di dati sempre meno confortanti. La legislatura appena conclusa, con un colpo di reni rispetto al passato, era stata la più “giovane” della Repubblica: 44 anni l’età media degli eletti alla Camera e 52 quella al Senato. Ma l’esito del voto del 25 settembre ci ha riportati al passato: 5 e 4 anni in più le età medie rispettivamente di Montecitorio e Palazzo Madama. Tra i fattori chiave di questo risultato c’è, quasi certamente, l’appeal sempre più blando che ha la politica sui giovani. Andiamo per gradi. Alle ultime elezioni, il tasso di astensionismo più forte si è registrato tra chi ha 18-34 anni: il 42,7% di loro non è andato a votare. Un dato assai allarmante, specie se si considera che a questa tornata l’astensione è stata pari al 36% (16,5 milioni non hanno votato), la più alta nella storia della Repubblica. Il fattore occupazione-miraggio - Inoltre: tra gli elettori della medesima forbice anagrafica, il partito più votato risulta essere il Movimento Cinque Stelle con il 20,9%. Il motivo di questo rinnovato primato grillino - seppure con Giuseppe Conte al timone e dopo una dolorosa scissione - lo spiega in maniera chiara Nando Pagnoncelli, numero uno di Ipsos: “I Cinque Stelle vanno forte tra i giovani, tra i quali va considerato come la prospettiva occupazionale rappresenti un miraggio” osserva il sondaggista. “Perciò una forza politica che mette al centro del programma reddito di cittadinanza e salario minimo diventa molto attrattiva”. Non è infatti un caso che, tra i disoccupati, la forza più votata sia sempre il Movimento, che pur avendo perso quasi 6,5 milioni di voti rispetto alle precedenti Politiche ha conquistato un buon 15,6% grazie alla martellante campagna elettorale del leader Conte, che negli ultimi 15 giorni ha fatto 25 tappe al Sud, concentrandosi non a caso sul sostegno a “reddito” e salario minimo. Nel 2013 c’era il 40% dei ragazzi con i 5 Stelle - Il trend pro Movimento era iniziato nel 2013, anno dello sbarco in Parlamento: il 74,5% dei ragazzi nel 2013 andò alle urne e il 40,7% votò 5 Stelle. Lo stesso fenomeno confermato nel 2018, quando il partito di Grillo conquistò il 39% dei voti su un elettorato giovanile sceso al 73%. Tornando all’analisi anagrafica del voto, sempre tra i più giovani, dopo i grillini il gradimento più alto è per il Pd (18,7%) e a ruota per Fratelli d’Italia (15,8%) e Azione (8,5%). Mentre la forza meno votata è la Lega di Matteo Salvini, con solo 5,2% di simpatie tra i ragazzi. Tra gli over 65, il primato dei consensi va a Giorgia Meloni (28,2%), seguita a ruota da Pd (25,2%), Lega (9,2%) e Azione (8,8%). A livello complessivo va evidenziato che la “fascia giovane” è stata l’unica che ha premiato il centrosinistra (32,9%), mentre in tutti gli altri segmenti di età ha prevalso il centrodestra. Un libro sugli studenti fra i 18 e i 30 anni - Giovanna Cosenza, allieva di Umberto Eco e oggi docente di Filosofia e Teoria dei linguaggi all’Alma Mater di Bologna, ha da poco raggiunto il traguardo dei vent’anni di insegnamento all’università. Li ha raccontati in un libro: Cerchi di capire, prof (Enrico Damiani editore), che ha dedicato ai suoi studenti tra i 18 e i 30 anni. Un punto di osservazione strategico, visto il tema, quello della professoressa, che spiega a 7 i motivi dell’affezione ai Cinque Stelle, ma al contempo della disaffezione alla politica in generale. “Questo successo non mi sorprende affatto, nonostante le difficoltà con cui questa forza si è dovuta misurare negli ultimi tempi. Seguo il M5S da quando è nato e ne ho continuato ad analizzare il flusso” osserva Cosenza. “Sono a contatto quasi ogni giorno con i 6-700 ragazzi che frequentano i miei corsi, quindi credo di avere un termometro importante”. Una cartina di tornasole piuttosto rappresentativa, in effetti, quella di Bologna, sia a livello anagrafico, sia a livello “geografico” visto che è l’università con il maggior numero di fuorisede d’Italia: “Secondo me i ragazzi e le ragazze, nonostante i molti voti persi rispetto alle elezioni del 2018, scelgono ancora il Movimento perché continua a sembrare il partito più innovativo, con candidati che non vengono dai soliti percorsi. C’è un’impressione di innovazione che persiste, nonostante tutto”. La pochette di Conte e l’esser vicini ai ragazzi - La professoressa Cosenza è convinta che “non importa mettersi jeans sdruciti o la felpa” per cercare di essere percepiti come vicini ai ragazzi: “Anche perché Conte, pur essendo quasi sempre vestito in maniera elegante e con tanto di pochette, ci è riuscito” riflette. “Non dobbiamo dimenticarci del significato che le “cinque stelle” rappresentano (beni comuni, ecologia integrale, giustizia sociale, innovazione tecnologica ed economia eco-sociale di mercato, ndr). I giovani hanno ben presente, più di quanto possiamo immaginare, il significato di questo simbolo, che incarna istanze a loro molto più vicine rispetto a quelle degli altri partiti tradizionali”. Una verità scomoda - Ma nella disamina della professoressa Cosenza c’è soprattutto un fattore che proprio la retorica politica spesso non considera: “È una cosa che dicono in pochissimi: i giovani in Italia non ci sono. Tra i 18 e i 25 anni sono appena 4,7 milioni (dati Istat, ndr): meno del 10% rispetto ai 51 milioni di aventi diritto al voto. I giovani sono elettoralmente irrilevanti, quindi solo mera retorica cavalcata dalla politica. Se poi aggiungiamo che in Italia c’è una legge che vieta il voto fuori sede cosa vogliamo aggiungere in più per giustificare il tasso di astensionismo record proprio tra i 18 e i 34 anni?”. Sono lontani, insomma, i tempi in cui la Democrazia Cristiana raccoglieva il 40% dei consensi tra i ragazzi, attratti da nuovi processi di consumo e lavoro. Che poi coincideva con il periodo in cui i giovani credevano che il miglioramento della loro condizione fosse concepibile solo in una dimensione collettiva. Erano tempi, gli Anni 60, di vera competizione e sorpassi tra partiti, quando l’Italia era molto meno anziana e i giovani rappresentavano un core business su cui investire per conquistarne i consensi. Gli Anni 70 segnarono invece la svolta: il Pci diventa il più votato dagli under 30, stando all’opposizione proprio dello Scudo crociato. Un primato che verrà poi strappato alla sinistra solo con la discesa in campo di Silvio Berlusconi, spodestato con la vittoria di Romano Prodi alle Politiche del 2006: una polarizzazione che, almeno allora, mobilitava molto (anche) i ragazzi. Troppo “anziani” i parlamentari - Un’altra verità scomoda, tornando al nostro 2022, la professoressa Cosenza la snocciola riguardo la rappresentanza troppo “anziana” in Parlamento: “Pochi giovani tra Camera e Senato? È perché sono scoraggiati dalla politica” spiega l’allieva di Eco. “Se i ragazzi sono poco interessati alla politica passiva, figuriamoci a quella attiva. Quest’anno, poi, si è votato proprio quando l’anno accademico era appena iniziato: con il costo della vita esploso a questi livelli in quanti si sono potuti permettere di tornare a casa per votare?”. Anche Martina Carone, coordinatrice di comunicazione pubblica e marketing politico-elettorale di Quorum-YouTrend, sottolinea come i dati emersi dalle urne “raccontano un’Italia che non sarà pienamente rappresentata”. E poi, riflette Carone: “L’età media degli eletti è infatti di 50,6 anni, a fronte di 46,5 della popolazione italiana. A livello anagrafico ci sono differenze rilevanti tra i partiti: seppure per pochissimo, è il Movimento 5 Stelle l’unica formazione ad avere offerto una rosa di candidati la cui età media fosse under 50 (49,5 anni): gli altri partiti, vanno tutti oltre, con Noi Moderati che detiene il primato (52,7 anni)”. Tra gli eletti la situazione non migliora: la differenza di età media tra Camera e Senato (dove per essere eletti, bisogna avere almeno 40 anni) non ci restituisce una fotografia più giovanile; l’età media alla Camera è infatti di 49 anni contro i 56 dei senatori. “E se è vero che anche a Montecitorio serve aver compiuto 25 anni per poter guadagnare uno scranno, è anche vero che i “giovani” (e cioè le persone tra 25-34 anni) sono solo il 6%”. Cento migranti nudi al confine turco. L’Onu accusa Ankara: “Vergognoso” di Alessandro Fioroni Il Dubbio, 18 ottobre 2022 Respinti brutalmente dalla Turchia li ha trovati e soccorsi dalla polizia greca. Secondo Frontex provengono dall’Afghanistan e dalla Siria, molti i minorenni. Senza vestiti, con ferite sul corpo, denutriti. Quasi un centinaio di migranti è stato stato trovato così, venerdì scorso, dalla polizia greca al confine tra Grecia e Turchia. Un caso che rientra nel tragico computo delle persone che tentano di arrivare in Europa e che vengono respinte sia dalla difficile traversata nel mare sia, e questo preoccupa, dalle operazioni di pattugliamento delle frontiere. Questa volta però la vicenda è arrivata all’Onu, in particolare l’Agenzia per i rifugiati delle Nazioni Unite si e detta “profondamente angosciata” dalle immagini di questi uomini che sono diventate pubbliche in quanto twittate dal ministro greco dell’immigrazione. Una circostanza che ha immediatamente scatenato uno scambio di accuse con i vicini turchi. Per le autorità elleniche il comportamento della Turchia, dichiarazioni ufficiali, e “una vergogna per la civiltà”. La risposta di Ankara ha bollato le affermazioni dei greci come notizie false e li ha accusati di crudeltà. L Onu ha chiesto un’indagine per individuare le vere responsabilità. Al momento gli unici punti fermi sono emersi da una prima rilevazione compiuta dall’Agenzia europea Frontex che ha riportato la posizione geografica in cui sono stati trovati i migranti e cioè vicino al confine settentrionale con la Turchia. A quanto sembra gli uomini hanno attraversato il fiume Evros, in territorio greco, su gommoni provenienti dalla Turchia. Le autorità greche hanno comunicato che agli uomini è stato fornito vestiario, cibo e un primo soccorso medico. Secondo Frontex i migranti provenivano principalmente dall’Afghanistan e dalla Siria. Sebbene non è ancora stato chiarito il perché le persone soccorse si trovavano senza vestiti, l’accaduto sembra quasi certamente un respingimento operato con metodi brutali, una potenziale violazione di diritti della quale è stato informato il responsabile in materia dell’Agenzia europea delle frontiere. Alcuni particolari i sono stati forniti dal ministro greco per la protezione civile, Takis Theodorikakos: “La Turchia strumentalizza l’immigrazione illegale”. Sarebbe dimostrato proprio dalle dichiarazioni rilasciate dai migranti che hanno riferito di essere stati trasferiti presso il fiume Evros da tre veicoli dell’esercito turco. Secondo il governo di Atene Ankara dovrebbe indagare sulla vicenda invece di negare il fatto, quella che si aspettano in Grecia e infatti una “spiegazione operativa” che non è ancora giunta. Anzi se possibile la vicenda in Turchia ha coinvolto i più alti esponenti di governo con un tweet a nome dei vertici politici che non solo escludono ogni responsabilità ma incolpano la stessa Grecia per quella che definiscono una situazione “disumana.” Per la Turchia infatti con la pubblicazione delle foto sarebbero i greci a non rispettare i diritti e a spacciare fake news, un attacco in piena regola anche perché porta la firma di Fahrettin Altun, il principale assistente stampa del presidente Erdogan. Ma se è vero che l’Unhcr ancora non ha potuto parlare con i migranti, anche questo un segno della strumentalizzazione reciproca, il ritrovamento di questi uomini arriva pochi giorni dopo che un rapporto trapelato da ambienti dell’Ue nel quale si accusavano alcuni alti funzionari di Frontex per aver coperto i respingimenti illegali di migranti dalla Grecia verso la Turchia, cosa che Atene nega. Frontex ha affermato che tali pratiche da parte del suo personale appartengono al passato ma il sospetto rimane nell’aria. Il gasdotto che unisce Italia e Malta ai misteri del caso Caruana Galizia di Filippo Taglieri Il Domani, 18 ottobre 2022 Il Melita Gas Pipeline partirà da Gela e arriverà nella centrale maltese di Delimara. Un progetto che è anzitutto un’operazione di greenwashing ma che, secondo il figlio, è legato anche all’omicidio della giornalista uccisa nel 2017. Nell’immaginario collettivo Malta è vista come una gemma nel cuore del Mediterraneo, grazie alle sue spiagge meravigliose e alla natura incontaminata. Ma nel sud dell’isola c’è una località che è l’esatto contrario di questa narrazione. Marsaxlokk è un villaggio, una volta popolato da soli pescatori, dove ora si trova uno dei porti commerciali più grandi del Mare Nostrum. Di fronte al porto c’è una gigantesca nave gasiera (Floating Storage Unit) collegata a terra da un tubo che trasporta il gas liquido verso un rigassificatore. Una volta ritrasformato, il metano viene trasferito nel nucleo principale della Delimara Power Station, che lo brucia per produrre energia per l’isola. A pochi chilometri da Marsaxlokk, dall’altro lato della scogliera, è tutto un trionfo di spiagge e turismo. Melita Gas Pipeline - Non è detto che questo paesaggio, già di per sé piuttosto inquietante, non possa peggiorare ulteriormente. Proprio nell’area di Marsaxlokk, infatti, dovrebbe approdare il Melita Gas Pipeline. Un nuovo gasdotto che partirebbe da Gela, in Sicilia, per finire la sua corsa di 159 chilometri sull’isola e rifornire la già menzionata centrale elettrica. L’Italia potrebbe vendere a Malta 2 miliardi di metri cubi di gas metano l’anno. Quasi un paradosso, in un momento in cui il nostro paese è alla ricerca disperata di gas. Ma c’è anche il risvolto green. Melita dovrebbe gradualmente trasportare anche idrogeno verde, fino al 100 per cento della sua portata. Motivo per cui è entrato nella linea di finanziamento dei progetti di interesse comunitario. In questo caso il flusso sarebbe bidirezionale, ovvero di import ma anche di export. Peccato che nessuno sappia dove e come sarà prodotto l’idrogeno. Meno dubbi e incertezze ci sono sul fatto che per far registrare un ritorno sull’investimento il gasdotto potrebbe funzionare fino al 2050. I lavori non sono ancora iniziati, dopo la valutazione d’impatto ambientale in Italia sono state segnalate problematiche relative ai fondali di Gela che sarebbero fortemente inquinati anche con presenza di materiale radioattivo. Il progetto - Secondo i proponenti, però, la costruzione dovrebbe partire a inizio 2023, per una consegna dell’opera prevista nel 2024. Come è facile immaginare, l’italiana Snam è coinvolta nel progetto. Rispondendo alle nostre domande, prima dell’assemblea degli azionisti del 2021, la multinazionale italiana ha detto che “l’intervento di Snam riguarda la sola costruzione dell’impianto di interconnessione con l’opera promossa dal trasportatore maltese. L’opera, sostenendo il phase out dal carbone della generazione elettrica maltese, ha come obiettivo primario la riduzione delle emissioni climalteranti e inquinanti”. A Malta, però, non si brucia carbone, né è mai stato usato in passato. Non solo greenwashing - Purtroppo la gestione del gas a Malta non è solo un’operazione di greenwashing. Matthew Caruana Galizia è il figlio di Daphne Caruana Galizia, giornalista maltese assassinata esattamente cinque anni fa, oggi guida una fondazione che combatte la corruzione e contrasta le pressioni che i privati esercitano sugli stati. “Dopo aver iniziato a lavorare come programmatore, mi sono dedicato al giornalismo - dice - Mentre seguivo l’inchiesta sui Panama Papers insieme a mia madre, ci siamo imbattuti in una fuga di notizie che riguardava il settore dell’energia a Malta e, in particolare, la privatizzazione della società elettrica maltese”. Il progetto su cui stavano indagando era proprio quello relativo alla centrale a ciclo combinato di Delimara. “Mia madre - continua Caruana Galizia - ha sospettato fin dall’inizio che nel progetto fossero coinvolti la Socar, l’azienda statale azera del petrolio e del gas, e alcune persone di spicco del Partito laburista allora al governo, note per essere corrotte. Anche alcune famiglie di imprenditori di Malta, gli Apap Bologna, i Gasan e i Fenech, avevano le mani in pasta, sebbene fossero privi di esperienza nel settore dell’energia”. I Fenech sono particolarmente coinvolti nella vicenda dell’uccisione della giornalista, visto che Yorgen Fenech, arrestato nel novembre 2019 mentre cercava di lasciare l’isola sul suo yacht, è accusato di essere il mandante dell’omicidio. “Mia madre aveva trovato la pistola fumante della corruzione - dice il figlio a distanza di cinque anni dall’attentato - C’era una società di comodo, un’impresa usata solo per veicolare tangenti e nascondere denaro a Dubai per i politici maltesi. La scoperta di questa società, a nostro avviso, ha portato direttamente al suo assassinio nell’ottobre del 2017”. Purtroppo c’è ancora molta strada da fare per arrivare alla verità. “Ci sono tre procedimenti penali: nei confronti dei sicari, delle persone che hanno fornito la bomba e della mente che ha pagato per l’omicidio. Per noi tuttavia ci sarà vera giustizia solo quando saranno trovati i mandanti e coloro che si sono macchiati della corruzione su cui mia madre stava indagando. Altrimenti, si potrebbero ripetere altri omicidi”. Quanto accaduto ha almeno contribuito a smuovere le coscienze. “Durante questi anni ci sono state varie proteste, come nel 2019, quando in tanti sono scesi in piazza perché indignati per il modo in cui i politici locali sono del tutto subalterni agli interessi privati, in particolare delle famiglie di imprenditori che sono state collegate al progetto della centrale elettrica di Malta”, aggiunge Caruana Galizia. Le accuse - Sulla carta il Melita Gas Pipeline non è collegato agli scandali precedenti, ma per il figlio della compianta giornalista maltese non è così: “Il gasdotto è legato all’omicidio di mia madre. Anche a causa di quel progetto mia madre mi è stata portata via, perché parliamo di un’opera che non è stata ideata sei mesi fa a causa della guerra in Ucraina, faceva parte del piano fin dall’inizio. Malta non avrebbe mai avuto un progetto di gasdotto se non fossimo passati al gas. Prima sono arrivati la centrale a gas e poi la nave cisterna, che doveva essere una soluzione a breve termine, o almeno questo è quello che ci hanno detto. Di fatto è stato creato un mercato per giustificare il gasdotto. Quando le persone dietro l’affare hanno coinvolto Siemens e le famiglie d’affari maltesi, hanno fatto in modo di ottenere un pagamento di 100 milioni di euro da dividere tra loro allorché fosse stato realizzato il gasdotto”. Accuse che gettano un’ombra su un progetto che vede coinvolte aziende e interessi del nostro paese. Iran. Morti 8 detenuti nell’incendio del carcere di Evin. L’italiana sta bene Avvenire, 18 ottobre 2022 La Farnesina rassicura sulle condizioni di Alessia Piperno. Dall’Ue sanzioni a Teheran per la repressione violenta delle proteste contro il velo. Sale a 8 detenuti morti il bilancio dell’incendio di sabato nel carcere di Evin, a Teheran, dove finiscono anche gli attivisti e i dissidenti. Almeno una sessantina i feriti. Fortunatamente Alessia Piperno, la ragazza italiana detenuta in quelle celle dopo essere stata fermata il 28 settembre scorso, “sta bene” rassicura la Farnesina in contatto con l’ambasciata italiana a Teheran. Starebbero bene anche alcuni noti attivisti politici reclusi nell’area del penitenziario dov’è scoppiato l’incendio, tra cui il regista Jafar Panahi e il riformista Mostafa Tajzadeh. Da ieri la situazione è tornata alla normalità, dopo alcuni momenti di tensione davanti alla struttura, dove si erano radunate le famiglie di alcuni detenuti. Evin è tristemente nota per i maltrattamenti subiti dai prigionieri politici e ospita migliaia di persone con accuse penali. Secondo quanto riferito, centinaia di persone arrestate durante le manifestazioni per la morte di Mahsa Amini - la 22enne deceduta tre giorni dopo l’arresto da parte della polizia morale per non aver indossato correttamente il velo islamico - sono state mandate proprio lì. Le fiamme, le cui cause non sono ben chiare, hanno invaso parte del carcere. In alcuni video pubblicati sui social media, si odono colpi di arma da fuoco ed all’interno del vasto complesso a nord della capitale. I media statali sostengono che quanto accaduto nella prigione non è collegato alle proteste e citano un funzionario che punta il dito contro “elementi criminali”. Tuttavia alcuni giornalisti sui social media ipotizzano che siano state le stesse autorità iraniane a “dare intenzionalmente alle fiamme la prigione”, adducendo come spiegazione il rilascio, prima che le fiamme prendessero il sopravvento nella struttura, di un prigioniero politico di alto profilo, riporta la Bbc. Usa e Ue intervengono contro la repressione delle proteste - Sulla situazione di alta tensione in Iran è intervenuto anche il presidente statunitense Joe Biden che ha puntato il dito contro il “governo iraniano opprimente” esprimendo “enorme rispetto per le persone che manifestano nelle strade”. Frasi che non sono piaciute al regime: “L’Iran non sarà indebolito dalle interferenze e dalle dichiarazioni di un politico ‘esausto’“, ha ribattuto il portavoce del ministero degli Esteri, Nasser Kanani. “La vostra abitudine è di abusare di situazioni di disordine, ma ricordate: qui c’è l’Iran”, ha intimato Kanani. Secondo il Dipartimento di Stato americano, la Repubblica islamica è responsabile della sicurezza degli americani detenuti a Evin, che “dovrebbero essere rilasciati immediatamente”. Anche l’Europa è scesa in campo. Il Consiglio Affari Esteri dell’Ue (i ministri degli Esteri dei 27), riunito stamani a Lussemburgo, ha approvato un pacchetto di sanzioni all’Iran legato alle repressioni delle ultime proteste. Le misure restrittive colpiranno undici persone e quattro entità iraniane. Saranno soggetti al divieto di rilascio del visto e al congelamento dei beni da parte dell’Ue. Tra i destinatari delle sanzioni c’è “la cosiddetta polizia morale, una parola che non è davvero appropriata quando si vedono i crimini che vengono commessi”, ha detto la ministra degli Esteri tedesca Annalena Baerbock. Teheran ha minacciato una risposta “adeguata e proporzionata”. Forte preoccupazione anche dal gruppo non governativo Iran Human Rights (Ihr), con sede a Oslo. L’ong, che recentemente ha pubblicato un bilancio delle vittime delle manifestazioni (oltre 200), ha postato su Twitter alcune immagini delle proteste organizzate ieri in vari campus universitari iraniani. Un’ondata di protesta che non si ferma e prende sempre più piede nel Paese.