Nuove pene sostitutive al debutto: più spazio al lavoro di pubblica utilità di Fabio Fiorentin Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2022 Semilibertà e detenzione domiciliare al posto della reclusione fino a 4 anni. Le novità, se più favorevoli all’interessato, si applicano anche ai giudizi in corso. Debuttano le nuove pene sostitutive delle pene detentive brevi, che prendono il posto delle sanzioni sostitutive, per renderle più effettive e di pronta esecuzione, ma anche meno afflittive e più attente alla rieducazione. A prevederle è la riforma del processo penale voluta della ministra della Giustizia, Marta Cartabia, contenuta nel decreto legislativo che attua la legge 134/2021, approvato definitivamente dal Consiglio dei ministri il 28 settembre. Le novità, se più favorevoli all’interessato, si applicano (dal giorno di entrata in vigore del decreto legislativo, in pubblicazione in queste ore in Gazzetta Ufficiale) anche ai processi in corso in primo grado o in appello. Nuovi strumenti - Il decreto legislativo interviene sul Codice penale e sulla legge 689/1981 per introdurre (al posto delle poco usate “sanzioni sostitutive”, la semidetenzione e la libertà controllata) nuove “pene sostitutive delle pene detentive brevi”, che attingono all’esperienza delle misure alternative alla detenzione (semilibertà e domiciliaci, previsti dalla legge 354/1975). Le nuove pene sostitutive sono infatti la semilibertà (con programma elaborato dall’Uepe e approvato dal giudice), la detenzione domiciliare (con un tempo minimo di permanenza all’esterno di quattro ore al giorno e licenze premio), e poi il lavoro di pubblica utilità e la pena pecuniaria (su cui si veda l’articolo a fianco). Raddoppiala durata massima della pena sostituibile: sale da due a quattro anni per la pena detentiva e da sei mesi a un anno per quella pecuniaria. Dunque: pene detentive fino a quattro anni si possono sostituire con la semilibertà o conia detenzione domiciliare; fino a tre anni, anche con il lavoro di pubblica utilità; fino a un anno, anche con la pena pecuniaria. Si allarga, poi, l’ambito del lavoro di pubblica utilità. Finora ristretto ad alcune violazioni del Codice della strada, viene esteso alla generalità dei reati e ai casi in cui si procede con decreto penale di condanna (un giorno di pena “vale” due ore di lavoro di pubblica utilità, che si può prestare per un minimo di sei e un massimo di otto ore al giorno). Si estendono anche le condizioni soggettive per la sostituzione, con l’eliminazione delle preclusioni legate a condanne a pena detentiva per fatti precedentemente commessi e la sterilizzazione degli automatismi della legge 689/1981, ma restano ferme le preclusioni legate a condanne peri reati più gravi (come terrorismo, mafia, corruzione e gli altri previsti dall’articolo 4-bis dell’ordinamento penitenziario), a revoca di altra pena sostitutiva per inosservanza delle prescrizioni, se il nuovo reato è stato commesso nei tre anni successivi (in tal caso si può applicare una pena sostitutiva più grave di quella revocata) e all’applicazione di una misura di sicurezza. In generale, il sistema ha una maggior flessibilità operativa e un minor tasso di afflittività, anche rispetto alle omologhe misure alternative: ad esempio, non è prevista la sospensione della patente e, dopo l’espiazione di metà pena, potrà essere concesso l’affidamento al servizio sociale mentre il lavoro di pubblica utilità sostitutivo, se integrato da condotte riparatorie, può condurre alla revoca della confisca. Inoltre, si rafforza il ruolo del giudice: per pene detentive entro i due anni, sarà il giudice a scegliere se applicare la sospensione condizionale o sostituire la pena detentiva (in questo caso, se l’imputato non si oppone), individuando discrezionalmente la pena sostitutiva alla luce del criterio del minor sacrificio perla libertà personale e della maggiore idoneità rieducativa. Gli effetti Nel medio termine, gli effetti della riforma dovrebbero condurre a un riequilibrio, sotto il profilo applicativo, tra pene sostitutive e misure alternative alla detenzione, oggi decisamente prevalenti: al 31 maggio 2022 i condannati in esecuzione di misure alternative erano 34.720, mentre le persone sottoposte a sanzioni sostitutive solo 89e il lavoro di pubblica utilità era applicato a 9.292 condannati. Non sono, invece, prevedibili gli effetti sulla diminuzione della popolazione carceraria, che al 30 settembre scorso contava 55.835 persone. In altri ordinamenti, infatti, le misure di probation hanno paradossalmente favorito il ricorso all’incarcerazione all’esito del significativo numero di revoche. Carcere e pregiudizio di Claudia Diaconale L’Opinione, 17 ottobre 2022 L’Associazione “Gruppo Idee” nasce nel 2007, all’interno del carcere romano di Rebibbia - Nuovo Complesso, dalla volontà di un gruppo di detenuti di dimostrare alla società che gli sbagli e la privazione della libertà non impediscono la capacità di rinnovarsi. Seguendo questo principio l’associazione opera ogni giorno, con i suoi volontari, all’interno degli Istituti Penitenziari per aiutare chi ha voglia di rimettersi in gioco, cercando di recuperare un suo ruolo all’interno della società civile. E lo fa concretamente attraverso la realizzazione di corsi di formazione, attività di sostegno a detenuti in permesso premio e familiari, attività di reinserimento per detenuti in misura alternativa, attività culturali e sportive, di sostegno alla persona e alle categorie svantaggiate. L’associazione “Gruppo idee” è apolitica, persegue esclusivamente finalità di solidarietà sociale e non ha scopo di lucro. Massimiliano Baldoni, vicepresidente dell’associazione, si dimostra da subito molto disponibile. Al punto che mi viene spontaneo iniziare la nostra intervista con una domanda estremamente personale: come si è avvicinato al mondo del carcere? Immagino per amicizia. Quando ero ragazzo frequentavo realtà dal contesto non facile, quindi ho conosciuto diverse persone che poi hanno passato una serie di guai giudiziari. In alcuni casi perché avevano commesso reati, in altri perché erano incappati nelle maglie della cattiva giustizia seppur innocenti: questo mi ha fatto pensare che chiunque poteva finire in un vortice senza uscita, che sarebbe potuto succedere anche a me. E mi ha consentito di avere meno pregiudizi a priori, per questo poi mi sono avvicinato all’associazione. In qualità di vicepresidente di “Gruppo Idee”, attività che ormai svolge da quasi 14 anni, ha visto un’evoluzione sia all’interno degli istituti penitenziari che all’esterno, nella società, per tutto quel che concerne il famoso reinserimento? La situazione interna è rimasta sostanzialmente inalterata, con i suoi alti ed i suoi bassi. Sicuramente, da questo punto di vista, Rebibbia rappresenta un esempio positivo di istituto penitenziario: attraverso la sorveglianza dinamica (che consente ad un detenuto di muoversi all’interno del proprio reparto e di svolgere attività lavorative), con l’intento di non tenere il detenuto solamente rinchiuso in cella, grazie a progetti lavorativi e corsi di studio, è un esempio di buon funzionamento. Naturalmente poi ci sono delle situazioni critiche date anche dagli eventi esterni: questi due anni di Covid sono stati devastanti perché sono state imposte delle limitazioni molto forti per tutte le attività, al fine di tutelare la salute. Però, generalizzando, la situazione è rimasta stabile nonostante tutte le differenze a livello nazionale delle varie strutture. Per quel che riguarda la società civile, per me purtroppo, c’è un regresso enorme. Pensiamo banalmente agli interessi mediatici: basta un’intercettazione o un semplice sospetto per invertire il nostro assioma di base del principio di giustizia. Invece di dover dimostrare la propria colpevolezza, a livello mediatico, devi dimostrare la tua innocenza: si ribalta quindi il principio “meglio un colpevole fuori che un innocente in carcere” (principio ribadito anche da molti magistrati). Oggi purtroppo questo concetto è stato ribaltato e c’è un approccio solamente punitivo e colpevolista. Viene a mancare la consapevolezza che i detenuti sono esseri umani che, una volta scontata la pena, dovranno essere capaci di tornare all’interno della società in maniera positiva. Nel migliore dei casi, c’è un totale senso di disinteresse nei confronti del carcere. Salvo poi quando una persona incappa personalmente in problemi legati alla giustizia (banalmente, pensiamo alla questione delle multe non pagate!) e ci si rende conto che la Giustizia Giusta è un’altra cosa. Di questo è colpevole anche la politica, che ha cavalcato tale pregiudizio. Si ribalta quindi il connubio media-politica, dove la politica non crea più la comunicazione ma rincorre lo share dei media dato dal giustizialismo... Pensiamo ai casi di cronaca nera. C’è stato una sorta di lasciapassare per quel che riguarda la libera interpretazione e soprattutto la pubblicazione delle intercettazioni in nome del diritto di cronaca. I media naturalmente hanno assecondato il gossip e il voyerismo insito negli esseri umani, falsando così il racconto di un fatto, dandogli un taglio colpevolista a priori. Forse il punto di rottura c’è stato nel periodo di Mani Pulite e Tangentopoli: da quel momento in poi l’approccio garantista è stato colpevolizzato a prescindere dai fatti. Come associazione, avete avuto modo di girare per vari istituti su tutto il territorio nazionale e di interagire con le varie direzioni (che spesso di sono dimostrate illuminate perché, in questo periodo di giustizialismo spinto, portavano comunque avanti progetti di apertura e reinserimento costituzionalmente previsti). Eppure sembra che ci siano grandi differenze per quanto riguarda i singoli istituti. Quanto influiscono le convinzioni personali della direzione e del personale penitenziario per un buon funzionamento degli istituti penitenziari e che impatto ha la politica, a prescindere dei partiti, nella gestione direzionale di queste stesse strutture? Diciamo che alla risposta ci si arriva per deduzione! Cominciamo con il dire che tutti gli istituti sono diversi e non in tutti vengono messi in pratica i dettami costituzionali. Basta l’esempio del carcere dell’Asinara che oggi fortunatamente è chiuso: lì venivano messe costantemente in atto violazioni dei più basilari diritti umani. Molti detenuti, oggi, chiedono di essere trasferiti proprio perché ancora ci sono strutture che li tengono chiusi in cella anche per 22 ore al giorno. Anche se sicuramente nelle strutture c’è stato un miglioramento rispetto agli anni ‘80, basta guardare i casi di cronaca per rendersi conto che c’è ancora molto da fare. L’approccio della direzione e del personale penitenziario è fondamentale, ma non si puoi mai prescindere dal contesto. Facciamo l’esempio di Regina Coeli che sembra rimasta a 50 anni fa: è una tipologia di istituto penitenziario di passaggio che modifica totalmente l’approccio della sua stessa gestione ma soprattutto cambia la tipologia di popolazione detenuta. Un conto è il detenuto condannato a 20 o 30 anni: quelle persone si approcciano in maniera diversa perché il fattore temporale gli dà un certo tipo di approccio mentale per cui il carcere diventa una sorta di casa. Totalmente diverso è il caso di detenuti con pene brevi, magari di pochi mesi, o pochi anni: quelle persone in carcere si comporteranno anche peggio di quanto fatto fuori perché sanno che di lì a breve usciranno comunque. Questo crea la maggior parte dei problemi sia con gli altri detenuti che con il personale penitenziario. Le direzioni sono sicuramente influenzate dalle opinioni politiche e dalle posizioni governative, anche perché spesso - ma non sempre per fortuna - queste cariche istituzionali sono viste come funzionali ad un avanzamento di carriera. Ovviamente però ogni direzione deve tener conto sia del proprio personale che della composizione della popolazione detenuta. Nel caso di Rebibbia, per esempio, la direzione ha invitato la nostra associazione (come tutte le altre) a riprendere le proprie attività appena si è stabilizzata la situazione del covid: questo proprio perché c’è la consapevolezza che questa chiusura estremizzata ha causato situazioni di malessere che hanno raggiunto limiti estremi. Le direzioni, anche quelle migliori, sono comunque costrette ad un costante gioco di equilibrio tra le esigenze reali dell’istituto che coordinano e le indicazioni politiche governative. Facciamo un po’ di chiarezza sulle differenti catalogazioni che si danno all’interno del carcere stesso. Vorrei un suo commento sulla notizia di qualche settimana fa che ha creato tanto scalpore, ovvero il passaggio di Cesare Battisti dal regime di alta sicurezza a comune... Nel caso di Cesare Battisti sono state applicate le tempistiche che la legge prevede. Facciamo un passo indietro: quando si entra in carcere con una pena prestabilita, in certi casi può esserci anche l’elemento dell’ostatività. Ostatività vuol dire che c’è un impedimento nella normale applicazione della pena perché ci si porta dietro una condizione di pericolosità maggiore (vedi i casi di terrorismo e associazione a delinquere di stampo mafioso): questo implica un periodo più lungo di osservazione in alta sorveglianza (e quindi alta sicurezza), che vuol dire stare in isolamento. Il superamento dell’ostatività - tempistica stabilita dalla sentenza di colpevolezza del magistrato - implica che il detenuto può tornare a scontare la propria pena insieme agli altri: in gergo diventa un detenuto comune. Ma sempre all’interno della stessa struttura carceraria e con la stessa pena: l’unica differenza è che può avere contatto con gli altri detenuti. Contatto necessario nel più ampio processo di reinserimento sociale. In tanti Paesi del nord Europa, per esempio, il processo del reinserimento viene inteso ed applicato mettendo subito il detenuto nella condizione di svolgere un’attività lavorativa: questo consente di tenere occupati in maniera propositiva i detenuti, che si abituano da subito ad un cambio di vita quotidiana e che, a lungo termine, dimostrano anche i più bassi tassi di recidiva una volta usciti. Lo scalpore sul caso di Battisti dipende dal discorso di prima, su quanto i media cavalcano un certo tipo di giustizialismo. Quanto è importante il benessere del personale penitenziario per il buon funzionamento del mondo carcere? Lo chiedo perché spesso ci si dimentica di tutte le persone che lavorano all’interno degli istituti di pena... È fondamentale. Credo sia uno dei mestieri con il più alto tasso di suicidi. Gli stessi detenuti dicono che un unico agente penitenziario svolge in realtà almeno 3 lavori differenti: lo psicologo, l’educatore e l’agente. Questo a causa della drammatica mancanza di personale. Questo sovraccarico lavorativo non può che portare ad un innalzamento del livello di frustrazione che va ad impattare negativamente non solo sui detenuti, ma anche sui colleghi. Quando non si crea questo tipo di meccanismo, perché si può svolgere la propria mansione senza sovraccarichi dati da mancanze varie, è più semplice che si mantenga il rispetto dei ruoli e quindi un equilibrio generalizzato. Equilibrio che, non scordiamo mai, ha un impatto significativamente positivo sulla società intera. Lanciamo un appello al nuovo governo: quali sono le priorità da affrontare il prima possibile? La riforma dell’ordinamento penitenziario è la prima cosa: sono 30 anni che non ci si mette mano. Accanto alla riforma è necessaria una presa di coscienza su quello che la stessa Ue ci chiede (e per cui ci ha già sanzionato) ovvero il sovraffollamento delle carceri. Basterebbe rivedere il meccanismo della custodia cautelare per iniziare: ossia tutte le persone in carcere in attesa di processo. Oppure i detenuti affetti da patologie, quindi con condizioni non compatibili con il carcere e che, invece, sono lì. Andrebbero potenziate le misure alternative per tutti i reati minori. E serve aumentare in generale il livello di vivibilità all’interno del carcere: non scordiamo che quest’anno il tasso di suicidi ha raggiunto un livello altissimo. “Parlami dentro”, un invito a scrivere ai detenuti di Emiliano Moccia vita.it, 17 ottobre 2022 È la “chiamata alle parole” promossa da Fondazione Vincenzo Casillo e Liberi dentro - Eduradio & Tv, che invitano cittadini e cittadine a scrivere lettere ai detenuti entro l’11 dicembre. Un modo per creare connessioni, per mettere in circolo narrativa di resistenza e far sentire un po’ meno sole le persone in carcere. “Quello delle parole è un potere immenso. Eppure anche piccolo, semplice. Con le parole muoviamo emozioni, pensieri, raggiungiamo luoghi, disegniamo immagini, talvolta percepiamo addirittura suoni e odori. Unite alle intenzioni, le parole possono invertire l’ordine del mondo. Possono schiudere un sorriso pure davanti al buio”. Ed il buio a cui fanno riferimento queste parole, è quello dei detenuti della Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna, che come tanti ristretti nelle carceri, aspettano con ansia l’arrivo di parole, lettere, comunicazioni da famigliari o amici per sentirsi un po’ più vivi. Per sentire di essere ancora parte della comunità, anche se dentro si portano colpe e sbagli per i quali stanno scontando una condanna, con la speranza che da quel periodo di detenzione si possa uscire migliori. Che quel tempo sospeso dietro le sbarre possa produrre percorsi di rieducazione, di riscoperta di sé stessi e della vita che si immagina di condurre una volta fuori. Per questo, in occasione del Natale la Fondazione Vincenzo Casillo e Liberi dentro - Eduradio & Tv lanciano il progetto “Parlami dentro”, una chiamata alle parole, un invito a condividere un gesto narrativo di resistenza: scrivere una lettera. “Esiste una moltitudine di persone che fa delle parole la ragione di ogni giornata. Che solo alle parole può tenersi aggrappata per tentare di sopravvivere. Sono quelle persone che hanno perso la libertà: di uscire, di fare, ma non di sperare. Sono quelle persone che hanno commesso un errore, ma che continuano ad impegnare ogni energia per trasformare, per evolvere” spiega Marilù Ardillo, responsabile Comunicazione della Fondazione Vincenzo Casillo, che ha ideato e sta seguendo l’iniziativa. Di qui, l’invito rivolto a grandi e bambini, a uomini e donne, a scrivere una lettera all’indirizzo mail parlamidentro@gmail.com entro l’11 dicembre 2022. Scrivere ad una persona detenuta sconosciuta per farla sentire meno sola, per darle una carezza, per far sentire che la comunità è pronta a sostenerla e darle una seconda opportunità. “Possiamo raccontare l’esito di una giornata, un proposito buono del risveglio, il resoconto di un viaggio, la crescita di un figlio, una passeggiata nel verde, il frammento del libro che stiamo leggendo, una traccia musicale appena scoperta, una ricetta sperimentata insieme alle persone care” aggiunge Ardillo. L’iniziativa lanciata da Fondazione Vincenzo Casillo e Liberi dentro – Eduradio & TV non è solo una chiamata alle parole, un invito ai cittadini ad avvicinarsi attraverso il testo scritto a chi vive nelle carceri. È qualcosa di più. “Vogliamo creare delle connessioni. Vogliamo mettere in circolo buone parole, spogliate di ogni pregiudizio o pietismo. L’intento è quello di mettere nelle mani di una persona isolata, e spesso anche giudicata, un frammento della nostra vita libera, che sia uno stimolo, un’ispirazione, un auspicio, o anche solo un abbraccio”. Anche per questo, alcune lettere saranno selezionate e lette durante il programma radio-televisivo Liberi Dentro a cura di Eduradio & TV, visibile in differita su questo canale YouTube e seguito potenzialmente dai 750 detenuti della Casa circondariale Rocco D’Amato di Bologna su canali televisivi regionali (Icaro TV canale 18, Lepida TV). Da Nord a Sud Italia, dunque, i cittadini posso prendere carta e penna e scrivere le loro lettere, immaginare degli scambi epistolari, riscoprendo così la bellezza della ricerca delle parole e del fermarsi per riprendere in mano il proprio tempo. “Le lettere fanno bene” conclude Ardillo. “Scriverle o riceverle ci riconcilia con una speranza atavica e profonda. Ci trascinano su un treno notturno che, pure chiusi nella nostra stanza, ci fa sentire in cammino”. Riforma Cartabia, cercasi certezza del diritto penale di Fabrizio Valerio Bonanni Saraceno L’Opinione, 17 ottobre 2022 Con uno stato di diritto italiano, sia civile che penale, che arranca in un’anomica stagnazione sconcertante, dove la sua certezza è sempre più latitante, il legislatore continua a reiterare diversi tentativi di riforma per rendere più efficiente l’attività giudiziaria, anche e soprattutto per non venire meno agli impegni prefissati con il Pnrr e per non perderne i relativi fondi europei. Verso questo indirizzo si rivolge il Decreto legislativo di attuazione della legge delega n. 134 del 2021 per la riforma della giustizia penale nell’ambito processuale e sostanziale e lo sviluppo della giustizia riparativa, tutto questo affinché venga velocizzata la definizione dei procedimenti giudiziari. Nello specifico, il succitato decreto legislativo (cosiddetta riforma Cartabia), che consta di 99 articoli, tramite i quali si attua un significativo intervento di riforma tanto del Codice penale quanto delle leggi complementari, anche allo scopo di creare una disciplina organica della giustizia ripartiva, si fonda su determinati principi e criteri direttivi, come quelli della accelerazione, della deflazione e della digitalizzazione, finalizzati a rendere più celere e di conseguenza più efficiente la giustizia penale, come stabilito dallo stesso Pnrr. A tale riguardo, è importante evidenziare che l’intervento sul processo penale telematico, tramite la riforma della disciplina della forma documentale informatica degli atti, con la previsione che il deposito degli atti e dei documenti, nonché delle richieste e delle memorie, venga eseguito con modalità esclusivamente telematiche. Inoltre, la riforma prevede che i fascicoli informatici debbano essere costituiti, conservati e trasmessi con modalità funzionali a garantirne l’integrità e la loro autenticità, facilitandone la stessa accessibilità e garantendone la consultazione telematica, rispettando il criterio della interoperabilità. La nuova disciplina, oltre a incentivare l’utilizzo dello strumento digitale audiovisivo per svolgere da remoto sia le udienze e sia il compimento degli atti, è altresì informata all’innovativo criterio secondo il quale le notificazioni debbano essere effettuate con procedure telematiche presso il domicilio digitale e che quelle successive alla prima notificazione nei confronti dell’imputato non detenuto, salvo la fissazione dell’udienza preliminare e la citazione in giudizio e la notificazione del decreto penale di condanna, siano eseguite esclusivamente tramite la consegna al difensore di fiducia o a quello nominato d’ufficio. Per quanto riguarda le indagini preliminari è prevista una ridefinizione dei termini per la conclusione delle indagini preliminari e dei presupposti, nonché della durata della loro proroga. Per la riduzione dei numerosi procedimenti penali sono stati statuiti dei nuovi presupposti per l’archiviazione ed una nuova regola di giudizio per l’udienza preliminare, finalizzati ad indurre il pubblico ministero ad archiviare l’indagine quando i suoi elementi non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna o di applicare una misura di sicurezza diversa dalla confisca e, invece, per quanto riguarda la regola del giudizio per l’udienza preliminare è prevista l’archiviazione quando gli elementi acquisiti non consentono di formulare una ragionevole previsione di condanna. Riguardo al giudizio, la riforma introduce nel procedimento davanti al Tribunale in composizione monocratica un’udienza di comparizione predibattimentale, che può concludersi con una sentenza di non luogo a procedere. Una novità rilevante per l’attuazione delle garanzie di matrice costituzionale è la riforma inerente alla Notitia criminis, in cui viene garantita la certezza e la celerità delle iscrizioni, anche a tutela dell’indagato, prevedendo la possibilità per la parte di richiedere al giudice l’accertamento della tempestività dell’iscrizione nel registro delle notizie di reato e l’eventuale retrodatazione della stessa, prevedendo anche che la mera iscrizione nel registro non determini effetti pregiudizievoli di natura sia civile che amministrativa per il soggetto indagato. Per i casi nei quali non ci sia stata una perquisizione in un sequestro e non sia esperibile il riesame è stato introdotto un rimedio specifico, ossia l’opposizione al decreto di perquisizione emesso dal pubblico ministero. Per ovviare agli effetti pregiudizievoli causati dalle decisioni adottate in violazione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e rendere esecutive le decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo è stato introdotto un innovativo e specifico rimedio legislativo (ex articolo 628-bis del Codice di procedura penale). Per i casi di condanna alla reclusione o all’arresto non superiori a quattro anni o a tre anni o a un anno, dopo lo svolgimento di un giudizio di cognizione, è stata legiferata una nuova disciplina organica delle pene sostitutive brevi. Mentre, ai delitti puniti con la pena non superiore nel minimo a due anni, salvo quelli espressamente esclusi dalla riforma, si estende la disciplina della causa di non punibilità per particolare tenuità del fatto, attribuendo alla condotta successiva al compimento del reato una rilevanza valutativa. Infine, il suddetto decreto legislativo statuisce una disciplina organica della giustizia riparativa, declinandola con specifiche disposizioni di natura sostanziale e processuale, prevedendo sia l’istituzione di Centri per la giustizia riparativa presso gli enti locali e sia l’istituzione della Conferenza locale per la giustizia riparativa presso ciascun distretto di Corte di Appello. Infatti, la riforma, in primis, definisce, all’articolo 42 del Decreto legislativo, la giustizia riparativa come “ogni programma che consente alla vittima, alla persona indicata come autore dell’offesa e ad altri soggetti appartenenti alla comunità di partecipare liberamente, in modo consensuale, attivo e volontario, alla risoluzione delle questioni derivanti dal reato, con l’aiuto di un terzo imparziale, adeguatamente formato, denominato mediatore” e in secundis, all’articolo 43 dello stesso decreto legislativo, prevede che la giustizia riparativa debba conformarsi ai principi della partecipazione attiva e volontaria delle parti, del coinvolgimento della comunità e della riservatezza e dell’indipendenza dei mediatori. Così il processo diventò vittima collaterale dell’emergenza terrorismo di Giorgio Spangher* Il Dubbio, 17 ottobre 2022 Credo sia difficile delineare - anche solo parzialmente - la direttrice lungo la quale si è venuto evolvendo il sistema della giustizia penale, anche se lo si volesse limitare al processo penale. Ciò non significa che, seppure con i riferiti limiti, qualche riflessione non possa essere sviluppata. È dato acquisito che la bonifica del codice di procedura penale avviata dalla Corte costituzionale si sia in qualche modo arenata con il dispiegarsi del fenomeno terroristico di matrice domestica. In quel tempo è chiaramente emersa la consapevolezza che significativi risultati in termini di accertamento di responsabilità potevano ottenersi non tanto con l’inasprimento delle pene e la creazione di nuove ipotesi criminose (o di aggravamento circostanziato di quelle esistenti) quanto attraverso lo strumento del processo. È la cosiddetta stagione dell’emergenza, alla quale deve riconoscersi (o attribuirsi) il fatto di essere stata l’incubatrice delle modifiche sostanziali, ma soprattutto processuali, relativamente ai reati di criminalità organizzata. Nascono e si sviluppano in questa stagione - dello stragismo e del terrorismo - le espressioni “lotta”, “contrasto” e “fenomeni criminali”. Inevitabilmente il processo subisce una “torsione” finalistica. Certamente vengono ridefinite le ipotesi delittuose, man mano che i fatti criminali evidenziano significative manifestazioni fattuali, ma è il processo, rimodulato nei suoi sviluppi e nei suoi strumenti, ad assumere rilievo. È inevitabile che la tenuta democratica del Paese, e la stessa tenuta delle istituzioni, siano messe a dura prova da una criminalità così strutturata se anche lo Stato, la magistratura, gli organi investigativi, l’intelligence, operando in sinergia, non affrontano con la legalità (le leggi del Parlamento) le diffuse e radicate questioni criminali che rischiano di minare la stessa sopravvivenza del Paese. È inevitabile che, fermi i confini invalidabili tracciati dalla Corte costituzionale, spetti al Parlamento affrontare l’emergenza con leggi che mettono in tensione princìpi e garanzie. Democrazia e diritti, processo e criminalità. Su questo elemento, in qualche modo fisiologico del rapporto tra criminalità e giustizia penale si è inserito, spesso molto al di là del dato “fisiologico”, un elemento finalistico: l’azione di lotta e di contrasto, tesa non già al solo accertamento, ma per così dire finalizzata a piegare il processo al risultato di argine, non già al reato, ma al fenomeno, in una dimensione che, collegando i due elementi oggettivo e soggettivo, altera la natura e l’essenza del processo penale, strumento di verifica di responsabilità e di esistenza del fatto delittuoso. Certo il processo, nato per verificare fatti isolati, spesso oggetto di semplice accertamento di responsabilità, si deve misurare con la struttura del reato che trascende l’individuo per collocarlo nella dimensione associativa, nonché nell’espansione territoriale dei fatti che supera gli ambiti ristretti delle competenze storicamente ritagliate per una diversa tipologia di reati. Tutto ciò non poteva lasciare indifferente la politica, il Parlamento, la legge. Della predisposizione di questo strumentario, votato all’acquisizione di questo arsenale (ancorché non sacro ma egualmente funzionale) si è impadronita la politica, una larga parte della politica, mossa da esigenze securitarie, definite anche sovraniste e populiste, in quanto originate e alimentate dal cortocircuito tra politica (parte della società) e popolo (parte di esso) che lo ha progressivamente esteso e ne fa fatto una prospettazione sempre più ampia. In altri termini, il meccanismo ha progressivamente contagiato larghi settori della fenomenologia criminale, in una dimensione non rispettosa del principio di proporzionalità. Non sono mancate lungo questo percorso che ha attraversato la fine e l’inizio di questo secolo anche delle controspinte, evidenziatesi da interventi sulla Costituzione (art. 111), sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo e della Corte costituzionale, con varietà di effetti che non hanno alterato, tuttavia, il non marginale retrogusto di sapore autoritario della nostra legislazione e della sua interpretazione giurisprudenziale. È facile attribuire a queste situazioni - vere o comunque di non agevole quantificazione - la responsabilità di una progressiva attenuazione delle garanzie processuali dell’imputato, accentuata dallo spostamento del baricentro del processo nella fase investigativa delle indagini preliminari e da un progressivo rafforzamento del ruolo della polizia giudiziaria e del pubblico ministero, non adeguatamente bilanciato da un significativo potere di controllo e di garanzia del giudice delle indagini preliminari che troppo spesso asseconda la Procura avallandone acriticamente le iniziative. Sarebbe, tuttavia, riduttivo in contesti così complessi, attribuire solo a questo elemento la matrice del progressivo indebolimento dell’impianto garantista, al di là del vulnus di sistema determinato dalle notissime decisioni della Corte costituzionale del 1992, figlie della ricordata stagione. In altri termini, non sono solo le spinte e le propensioni riferite, a incidere sul sistema delle garanzie, ma altre visioni della funzione delle regole finiscono per intaccare, erodendole, quelle forme consolidate di tutela dei diritti non solo individuali, ma che pur sotto questa dimensione incidono su aspetti di garanzia più ampi. Il riferimento è alle istanze sempre più accentuate tese alla semplificazione, all’economicità, alla compressione temporale, alla dimensione sostanzialistica, alla smaterializzazione in una dimensione ispirata ad una logica di funzionalità della macchina giudiziaria. Gli attori della giurisdizione, ispirati da una logica che potremmo definire, a volte, proprietaria della stessa, nella volontà di gestire i percorsi processuali, dettano un’agenda di riforme mascherate da esigenze di funzionalità degli uffici, attraverso azioni organizzative che non sono mai solo tali, essendovi sottese scelte processuali valoriali; governata dalla giurisprudenza cosiddetta creativa, finiscono per modellare il processo in termini di efficienza, pur nell’affermata esigenza, ritenuta però in qualche modo subvalente, delle garanzie. Invero, non è un elemento inedito, al quale sono funzionali istituti come le sanatorie, la mera irregolarità, il raggiungimento dello scopo, gli oneri a carico delle parti private, la natura ordinatoria dei termini, la sanzione di inammissibilità. Sono tutte occasioni per adeguare il rito, come - ecco il riferimento al virus - nel caso dell’emergenza epidemiologica, colta quale occasione per adeguare i comportamenti alle mutate situazioni ambientali, per poi trasformare le eccezioni, destinate alla temporaneità, in regole permanenti. Al rispetto formale delle regole, si affianca una interpretazione meno rigorosa, sfocata che tende a fare del giudice il codificatore delle regole attraverso la prassi e i comportamenti formalmente non irrituali, spesso delineati attraverso correzioni attuate anche con la softlaw (normativa secondaria). La logica si attua anche attraverso percorsi processuali acognitivi e induzioni a comportamenti che pongono alternative da “soave inquisizione” suggerendo adesioni vantaggiose a fronte di incerti esiti processuali. La logica dell’accertamento investigativo, del resto, non si innesta in una fase a forte connotazione garantista, come era alle origini del modello accusatorio, ma in un percorso ibrido, con accentuati recuperi del materiale d’accusa e da marcati interventi del giudicante. C’è sicuramente diversità tra una consapevole - ancorché agevolata - accettazione delle proprie responsabilità, alla quale non è estranea anche una funzione rieducativa, ed una scelta indotta da molteplici fattori condizionanti (economici, sociali), oltre a quelli più strettamente processuali. Inevitabilmente, l’accentuazione dell’autoritarismo favorisce logiche ispirate a deformare il processo dei suoi connotati storici per collocarlo in una dimensione efficientista, spesso ispirata ad altri modelli processuali dalle cui impostazioni siamo lontani per la forte diversità dei contesti storici, politici e strutturali di quelle giurisdizioni. Entro questa tenaglia - da un lato pulsioni autoritarie e dall’altro propensioni efficientiste, anche variamente combinate tra loro - si snatura il senso “classico” e “storico” del processo penale, che spesso smarrisce la propria essenza. Per un verso, in relazione alle emergenze criminali (o presunte tali) si accentuano le spinte repressive; dall’altro, per la criminalità a medio-bassa intensità si pregiudica la sua natura sostanziale-qualitativa che le è propria, considerati i valori in gioco, per approdare a una burocratico-quantitativa di impostazione quasi aziendalista che dovrebbe esserle estranea, sempre considerati i beni coinvolti. *Emerito di Procedura penale all’università di Roma “La Sapienza” Giustizia chiama social: sempre più richieste Per l’Italia poche risposte di Bianca Mazzei Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2022 Terrorismo, diffamazione, rapimenti molestie, pedo-pornografia. È lungo l’elenco dei reati per i quali le autorità giudiziarie e investigative, nel corso di indagini e processi, chiedono dati ai social network e provider. E le richieste sono in continuo aumento, a testimonianza dell’incremento della criminalità informatica ma anche del rilievo crescente delle informazioni presenti sui social per le attività investigative e giudiziarie (le domande possono riguardare qualsiasi reato). Il Sole 24 Ore del Lunedì ha elaborato i dati forniti dai Transparency Report messi a punto dai social network, relativamente a un campione di sei Stati occidentali (cinque europei - Italia, Francia, Germania, Regno Unito, Spagna- più gli Usa). Dall’analisi emerge che, dal 2019 al 2021, la crescita complessiva di richieste per Meta (Facebook, Instagram, Messanger e Whatsapp) è stata di quasi il 40% e per Google di oltre il 67 per cento (per Tiktok si è passati addirittura da 243 a 4.592 perché si tratta di un social più recente che ha avuto un’espansione rapidissima). Ma le risposte spesso non arrivano. I social non sono infatti sempre obbligati a fornire le informazioni in loro possesso, né sono previste sanzioni se non lo fanno. I dati variano da Paese a Paese ma non superano ma il 90 per cento. In Italia e in Spagna le percentuali più basse. La fotografia - In Europa, il tasso più elevato di risposte lo ottiene il Regno Unito (nel 2021 l’88-89% per Google e Meta e il 63,4% per Tiktok), in linea con gli Usa. Percentuali molto più basse per l’Italia: sempre nel 2021, le richieste inviate dal nostro Paese hanno ricevuto una risposta (sono stati cioè forniti alcuni dati) in poco più della metà dei casi (52%) per quel che riguarda Meta, nel 65% per Google e in appena il 25% per Tiktok. Situazione simile in Spagna, mentre la Germania e, soprattutto la Francia, hanno tassi più alti (si veda il grafico). In Italia, il numero totale delle domande è inferiore rispetto a Germania, Francia e Regno Unito. In linea con gli altri Paesi, le richieste sono comunque in crescita: rispetto al 2019 l’aumento è stato di oltre il 40% per Meta e di quasi il 30% per Google. I nodi - Quella sulla collaborazione tra social network e autorità giudiziarie e investigative è una partita sulla sicurezza online lontana dall’essere conclusa. In Italia, l’obbligo di fornire risposte all’autorità giudiziaria vige, ad esempio, per gli operatori telefonici con sede nel nostro Paese che, se non forniscono i dati, rischiano anche la revoca della concessione. Ma questo non vale per i social o per gli operatori telefonici come whatsapp, poiché la loro sede è altrove. Mentre il Regolamento europeo sul trattamento dei dati personali si applica anche ai social, in campo penale non esiste una normativa che obblighi sempre i social a collaborare con l’autorità giudiziaria: e, a fronte di un diniego, non sono previste né sanzioni né procedure che rendono eseguibile il provvedimento di richiesta. Del tutto residuale è infatti il ricorso a rogatorie internazionali sia per la complessità della procedura che per la lunghezza dei tempi (6-12 mesi) superiore a quella di conservazione dei dati (60-90 giorni). La messa a disposizione delle informazioni si basa su una collaborazione volontaria con le autorità dei diversi Paesi regolata da policy ad hoc. D’altro canto le piattaforme sono tenute a proteggere le informazioni degli utenti e nelle loro policy indicano i criteri con cui forniscono i dati, sottolineando che ogni domanda viene esaminata e valutata. Gli utenti, tranne in casi particolari, vengono inoltre informati della messa a disposizione dei dati (pratica che le autorità giudiziarie non vedono di buon occhio). Nella prassi, recuperare velocemente informazioni e flussi digitali è spesso difficile, se non impossibile. L’impasse è evidente soprattutto nei casi di diffamazione che negli Stati Uniti (dove la maggior parte delle piattaforme ha sede) non è reato ma un illecito civile: molti procedimenti penali avviati in Italia vengono quindi archiviati per assenza dei dati identificativi degli utenti. A mancare è una normativa internazionale, che esiste invece per il trattamento dei dati. L’Italia ha firmato, insieme ad altri 23 Stati (fra cui gli Usa ma non la Francia, la Germania e il Regno Unito) il secondo protocollo addizionale alla Convenzione di Budapest sulla criminalità informatica. Prevede l’accesso diretto ai dati di contenuto soprattutto nelle procedure di emergenza (quando c’è, ad esempio, pericolo di vita), ambito su cui il nostro Paese si è molto battuto. Ma i tempi per l’operatività sono tutt’altro che brevi. Per i giudici di pace competenze più ampie su incidenti e contratti di Bianca Mazzei Il Sole 24 Ore, 17 ottobre 2022 Campo d’azione più largo per i giudici di pace. Il decreto legislativo di riforma del processo civile, approvato definitivamente dal Consiglio dei ministri, ha innalzato le soglie di valore per le liti di loro competenza, portando da 5 a 10mila euro il limite per le cause relative a beni mobili e da 20 a 25mila quello per le controversie che riguardano il risarcimento dei danni da incidenti stradali o nautici. L’obiettivo è alleggerire il numero dei fascicoli che pesano sui giudici ordinari e velocizzare i tempi di definizione dei procedimenti, in modo da raggiungere entro il 2026 il taglio del 40% della durata dei processi civili previsto dal Pnrr. Prosegue intanto il percorso di stabilizzazione della magistratura onoraria individuato dalla legge di bilancio 2021 (la 234). In estate si è tenuto il concorso per coloro che avevano una maggiore anzianità di servizio. Ma le acque restano agitate. Il 15 luglio scorso la Commissione europea ha inviato un’altra lettera di messa in mora, secondo la quale ci sono ancora elementi di non conformità con il diritto Ue. L’Italia ha tempo fino a metà novembre per mettersi in regola, altrimenti può scattare il parere motivato. La questione andrà quindi affrontata dal nuovo governo. L’estensione - L’incremento dei fascicoli che arriveranno sui tavoli dei giudici di pace potrebbe riguardare soprattutto le cause relative ai beni mobili (il valore soglia che definisce la competenza è raddoppiato) che comprendono diverse voci fra cui, la materia contrattuale (inadempimenti, difetti eccetera), le liti relative a insidie (ad esempio le buche stradali) e l’opposizione a decreti ingiuntivi. Stime esatte non ce ne sono ma, nel 2021, i procedimenti iscritti per queste materie sono stati oltre 183mila. Di meno (circa 108mila) quelle sul risarcimento danni per incidenti, stradali o nautici, per le quali la soglia sale da 20 a 25mila euro. L’anno scorso, alle due voci era riconducibile quasi il 38% dei fascicoli civili di competenza dei giudici di pace (291mila su 779mila). L’estensione scatterà dal 30 giugno 2023. La stabilizzazione - Le modalità con cui la legge di bilancio 2021 ha cercato di regolarizzare i magistrati onorari (oltre ai giudici di pace, giudici onorari di tribunale e viceprocuratori onorari) non hanno spento le proteste. Le nuove regole prevedono il superamento di un concorso e l’inquadramento come funzionario per chi sceglie l’attività esclusiva. “Ma bisogna rinunciare a tutto il pregresso, come ferie e previdenza - dice Mariaflora Di Giovanni, presidente di Unagipa (Unione nazionale giudici di pace). E non possiamo essere considerati amministrativi, poiché emettiamo sentenze”. Di fronte a nuove denunce, il 15 luglio scorso la Commissione ha inviato un’altra lettera di costituzione in mora (la prima, del luglio 2021, contestava il non riconoscimento dello status di lavoratore). La risposta dell’Italia dovrà arrivare entro metà novembre, altrimenti la Commissione valuterà se inviare un parere motivato. “Speriamo nel nuovo Governo - continua Di Giovanni - poiché in passato molti esponenti di Fratelli d’Italia, fra cui Giorgia Meloni, hanno condiviso le nostre battaglie”. Rita Cucchi, la gentilezza e la forza di una madre che ha chiesto giustizia per il suo Stefano di Giovanni Bianconi Corriere della Sera, 17 ottobre 2022 La donna è morta dopo una lunga malattia. Nel chiedere di sapere la verità sull’omicidio del figlio è sempre stata in prima fila, minuta e determinata come sanno essere le mamme che hanno imparato da giovani ad affrontare le asperità della vita. La tragedia di Stefano Cucchi comincia da lei, da Rita, la mamma che una mattina di tredici anni fa, il 22 ottobre 2009, si vide arrivare a casa un carabiniere, mentre era sola in casa con la nipotina. Le disse che avrebbe dovuto seguirla in ufficio per una notifica, ma lei non poteva uscire per via della piccola a cui doveva badare. Allora il carabiniere procedette nel piccolo soggiorno di quella casa piccolo-borghese di Tor Pignattara: da giorni Rita aspettava notizie su Stefano , arrestato per possesso e spaccio di piccole dosi di droga e improvvisamente scomparso: da Regina Coeli l’avevano portato all’ospedale Fatebenefratelli, poi al reparto detenuti del Pertini dove invano i suoi genitori - la signora Rita e il marito Giovanni - avevano tentato di incontrarlo. Giovanni, quella mattina, era uscito per andare a far timbrare l’ultimo permesso, e forse in giornata sarebbero riusciti a vedere il ragazzo. S’era alzata con quella speranza. Ma la notifica del carabiniere, che prima di procedere alla notifica a Rita ebbe cura di farle mettere nel box la bambina che teneva in braccio, la fece improvvisamente piombare nell’incubo: il foglio era un invito a nominare un consulente di parte per assistere all’autopsia sul cadavere di Stefano, morto poche ore prima. Così, attraverso questo assurdo passaggio burocratico dopo una settimana di unitili sforzi per avere qualche notizia, Rita Cucchi seppe di aver perso suo figlio per sempre, quella mattina di tredici anni fa. E da allora ha cominciato insieme a Giovanni e Ilaria, la figlia maggiore, la sua battaglia per la verità che l’ha vista sempre in prima fila, minuta e determinata come sanno essere le mamme che hanno imparato da giovani ad affrontare le asperità della vita. E Stefano, con i suoi trascorsi turbolenti, gliene aveva riservate parecchie. Niente però che potesse incrinare l’amore e per un figlio e la voglia di aiutarlo a superare le difficoltà in cui s’era cacciato. Un amore e una voglia di sostenerlo che l’hanno accompagnata anche dopo la sua morte senza perché, fino a ottenere le risposte esatte arrivate solo dopo tanti anni e tante altre sbagliate, a cui la famiglia Cucchi non s’è mai arresa. Ilaria, Giovanni e lei, Rita, apparentemente la più fragile e indifesa ma forse la più forte per la gentilezza e la disponibilità di carattere che non sono mai state sopraffatte dallo sconforto e dalla disperazione. Quando andavo in casa sua per parlare con Ilaria e i suoi genitori di Stefano e della sua storia difficile, era Rita ad aprire la porta di quell’appartamento pieno di ricordi, dove la stanza di Stefano era rimasta uguale all’ultima volta che c’era entrato lui, a offrire un sorriso di ben arrivato e un caffè. E negli anni della lunga battaglia giudiziaria condotta al fianco della Procura di Roma, insieme all’avvocato Fabio Anselmo che poi è diventato un altro membro della famiglia, Rita Calore Cucchi è sempre stata in prima fila. Per pretendere verità e giustizia da uno Stato che aveva lasciato morire un giovane uomo mentre lo teneva in custodia. Senza nascondere le debolezze e gli errori di Stefano, ma anche senza mai pretendere niente di meno che il rispetto per la memoria un figlio che avrebbe dovuto pagare le proprie colpe, certo, ma non certo con la vita. Quel rispetto passava per l’accertamento dei fatti, per la scoperta di ciò che era accaduto la sera dell’arresto e nei giorni bui della detenzione, e poi ancora negli anni in cui sono state nascoste e manomesse le prove di quanto era accaduto. In tutti i processi, quello sbagliato contro imputati innocenti, e poi quelli giusti contro colpevole accertati o condannati con sentenze non ancora definitive, Rita è stata sempre seduta al fianco del marito e della figlia nei primi banchi, in attesa delle risposte che dovevano arrivare dai giudici. Quando sono arrivate, però, non c’era già più, costretta a rimanere a casa dalla malattia, che ieri se l’è portata via per sempre. Ma la consapevolezza di essere riuscita a dare giustizia a Stefano ha almeno in parte ripagato Rita di quello che aveva passato, e di ciò che la vita aveva ancora in serbo per lei. Ha affrontato anche le ultime prove con la mitezza e la gentilezza che le hanno permesso di sopravvivere alla morte di un figlio, e di lottare per lui. Finché ne ha avuto la forza, fino alla fine. Ilaria Cucchi: “A Voghera fu omicidio. Youns come Stefano, giustizia negata” di Fabrizio Guerrini La Provincia Pavese, 17 ottobre 2022 La senatrice: “La vicenda mostra come la legge non sia uguale per tutti. A parti invertite lo sparatore sarebbe in cella”. “L’ex assessore Adriatici avrebbe ucciso Youns per eccesso di legittima difesa? Significa che la legge non è uguale per tutti”. Ilaria Cucchi, neo senatrice (eletta come indipendente nella lista Alleanza verdi e sinistra) commenta, così, la chiusura, per ora, della vicenda legata alla morte di Youns El Boussettaoui ucciso, in piazza Meardi, il 20 luglio del 2021 da un colpo di pistola sparato dall’allora assessore leghista, Massimo Adriatici. Non fu, per la procura, omicidio volontario, come sostengono i legali di parte civile, ma un eccesso colposo di legittima difesa: l’assessore sparò perché si “sentiva o minacciato dopo essere caduto a terra”. Sta di fatto che quella notte morì un uomo di 39 anni: la sorella, Bahija, non si è più data pace. Nel novembre scorso incontrò Ilaria Cucchi divenuta, dopo la morte del fratello Stefano per le botte ricevute in una caserma dei carabinieri di Roma, icona dei diritti civili. La morte di Youns evocava quella di Stefano. Senatrice Cucchi, cosa ricorda di quell’incontro con Bahija e cosa le direbbe ora? “Mi aveva cercato lei evocando proprio la morte di mio fratello Stefano. Fu molto toccante. Rividi nei suoi occhi la mia determinazione nel volersi ribellare a un sistema che voleva a tutti i costi ridimensionare l’uccisione di suo fratello sminuendo il valore della sua vita. Deve mantenere quella determinazione: per avere giustizia occorre tanto coraggio. Quasi una follia. È una lotta impari”. Il legale di parte civile dice che la decisione della procura mostra quanto valga, poco, la vita di un immigrato. C’è un problema di pesi diversi nella giustizia? “Ha ragione. Questa è la chiave di lettura. La legge non è uguale per tutti. Il nodo del problema non sta solo nell’uso delle armi, ma nel fatto che, in quella vicenda drammatica, la presunta situazione di pericolo l’ha creata proprio colui che poi ha sparato e ora invoca la legittima difesa. Non può quindi ora volersene avvantaggiare. Mi sa, che in questo Paese conta chi sei. A posizioni invertite, lo sparatore ora sarebbe ancora in galera”. Per la parte civile la decisione della procura crea un precedente pericoloso: di fronte a qualcuno un po’ aggressivo, chiunque potrebbe sentirsi autorizzato a sparare. Ma non si pone anche un problema nell’uso delle armi? “Il problema non è il precedente pericoloso. Non posso accettare che la morte di Youns sia ridotto al caso di un precedente pericoloso. Il nodo, come ho detto, non sta solo nell’uso delle armi: anche se mi chiedo se, per caso, non pensiamo di poter essere sceriffi solo per un credo di appartenenza politica. No, il problema è che qui si deve parlare di omicidio. Stop. E di applicazione diseguale della legge. Il problema non è la legge, ma di chi è chiamato ad applicarla”. La politica vogherese e la città si sono divise: chi si è mobilitato in ricordo di Youns e chi non ha nascosto la propria solidarietà all’ex assessore... “La solidarietà all’assessore sparatore è orribile e dà la misura di quanto a fondo può arrivare la coscienza civile e umana di taluni. Ci ho fatto i conti per tanti anni. Spesso nell’indifferenza della magistratura” Presto avremo un nuovo governo, di destra. Lei, da senatrice, teme che si possa porre un problema nel rapporto con gli immigrati e nella gestione della sicurezza? “Non credo che si tratti solo di questioni che toccheranno questo governo perché la responsabilità di questo obbrobrio disumano chiama in causa tutti”. Detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria e diritto alla NASpI di Sonia Gioia soluzionilavoro.it, 17 ottobre 2022 Il detenuto che presti attività lavorativa alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria ha diritto, in occasione della cessazione del rapporto di impiego, all’indennità di NASpI, al pari degli altri lavoratori subordinati. Nota a Trib. Siena 1 giugno 2022, n. 216. La Nuova Assicurazione Sociale per l’Impiego (c.d. NASpI) istituita dall’art. 1, D. LGS. 4 marzo 2015, n. 22 (concernente “Disposizioni per il riordino della normativa in materia di ammortizzatori sociali in caso di disoccupazione involontaria e di ricollocazione dei lavoratori disoccupati, in attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183”) per fornire una tutela di sostegno al reddito ai prestatori con rapporto di lavoro subordinato che siano rimasti involontariamente disoccupati, spetta, per i periodi di quiescenza dal lavoro, anche ai detenuti lavoratori subordinati dell’Amministrazione penitenziaria. Lo ha affermato il Tribunale di Siena (1 giugno 2022, n. 216) in relazione ad una fattispecie concernente alcuni detenuti che rivendicavano il diritto all’indennità di NASpI in seguito alla cessazione del rapporto di impiego alle dipendenze della struttura carceraria ove erano reclusi. All’esito del procedimento amministrativo, l’INPS aveva rigettato le domande di NASpI, proposte dai ricorrenti tramite patronato, ritenendo che il sussidio di disoccupazione possa essere erogato solo al termine di un rapporto di lavoro alle dipendenze di aziende diverse dagli Istituti penitenziari (Msg INPS 5 marzo 2019, n. 909). Ciò, dal momento che l’attività di impiego prestata dal detenuto all’interno del carcere ed al medesimo assegnata dalla Direzione dell’Istituto penitenziario “non è equiparabile alle prestazioni di lavoro svolte al di fuori dell’ambito carcerario e, comunque, alle dipendenze di datori di lavoro diversi dall’Amministrazione penitenziaria”, poiché tale attività prevede la predisposizione di una graduatoria per l’ammissione al lavoro ed è soggetta a turni di rotazione e avvicendamento, che non si configurano come licenziamento ma come sospensione dell’attività lavorativa e, in quanto tali, non danno diritto all’indennità di NASpI (Cass. n. 18505/2006). Di diverso avviso, invece, è stato il Tribunale di Siena, secondo cui la perdita di impiego alle dipendenze dell’Amministrazione penitenziaria integra a tutti gli effetti lo stato di disoccupazione involontaria richiesto dalla legge per l’accesso al trattamento di NASpI e non può, pertanto, essere ricondotta ad un’ipotesi di mera sospensione dell’attività lavorativa, poiché la cessazione del rapporto di lavoro è stabilita unilateralmente dalla Direzione del carcere e non vi è alcuna certezza e garanzia di ripresa del lavoro né tanto meno è possibile per il detenuto prevedere quanto sarà lungo il periodo di inattività. Pertanto, nel caso di cessazione del lavoro penitenziario per turnazione, il detenuto ha diritto all’erogazione dell’indennità di NASpI, così come già pacificamente riconosciuto ai reclusi impiegati presso un datore di lavoro esterno e al pari dei liberi cittadini, a condizione ovviamente che ricorrano i requisiti prescritti dall’art. 3, co. 1, D. LGS. n. 22 cit., vale a dire: a) lo stato di disoccupazione, ai sensi dell’art. 1, co. 2, lett. c), D. LGS. 21 aprile 2000, n. 181 e succ. mod. (recante “Disposizioni per agevolare l’incontro tra domanda ed offerta di lavoro”); b) la possibilità di far valere almeno 13 settimane di contribuzione nei 4 anni precedenti l’inizio del periodo di mancanza d’impiego; c) l’aver svolto - per i soli eventi di disoccupazione verificatisi prima del 1 gennaio 2022 - almeno 30 giornate di lavoro effettivo, a prescindere dal minimale contributivo, nei 12 mesi che precedono l’inizio del periodo di inattività. Una differente interpretazione, che non riconosca il diritto all’indennità di NASpI ai detenuti dipendenti dell’Amministrazione penitenziaria, configura una “palese” violazione del principio di parità di trattamento nonché degli obblighi, costituzionalmente previsti a carico dello Stato, di tutelare il “lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni” e di garantire ai prestatori “mezzi adeguati alle loro esigenze di vita (…) in caso di disoccupazione involontaria” (artt. 3, 4, 35 e 38 Cost. V. anche art. 20, L. 26 luglio 1975, n. 254, concernente “Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà personale”). Le peculiarità del lavoro svolto dai detenuti, derivanti dalla inevitabile connessione tra profili del rapporto di impiego e profili organizzativi, disciplinari e di sicurezza, propri dell’ambiente carcerario, e la circostanza che il datore di lavoro possa coincidere con il soggetto che sovrintende alla esecuzione della pena non valgono, infatti, “ad affievolire il contenuto minimo di tutela che, secondo la Costituzione, deve assistere ogni rapporto di lavoro subordinato” (Corte Cost. n. 158/2001). Sulla base di tali considerazioni, il Tribunale ha accertato il diritto dei ricorrenti alla percezione della NASpI, dichiarando che il comportamento tenuto dall’ente previdenziale deve ritenersi non “solo illegittimo e incostituzionale ma, prima di tutto, discriminatorio”. Molise. Lo sport nelle Case circondariali di Sergio Genovese quotidianomolise.com, 17 ottobre 2022 Molto spazio in questi giorni è stato dato alla notizia che in Regione il Coni risulta impegnato per portare un pallone o un bilanciere all’interno del carcere. Attività sempre da consolidare e da elogiare tuttavia non nuove considerando che negli anni novanta (cioè trent’anni fa) un gruppo di docenti di Educazione Fisica, misero in piedi una organizzazione che grazie alla disponibilità dell’allora Direttrice del Carcere Anna Maria Valerio, delle educatrici Giovanna Testa e Daniela Brancaleoni e dell’energico Cappellano Don Saverio Di Tommaso, ebbe una eco in campo nazionale al punto che si riuscì a portare al Campo Scuola tantissimi detenuti impegnati a sfidare in più di un’occasione, gli studenti del Liceo Scientifico di Campobasso nelle corse, nei lanci, nei salti nel calcio e nella pallavolo. Non passi sotto gamba la notizia poiché è facile immaginare quali siano le difficoltà burocratiche per portare decine di giovani fuori dall’Istituto in cui erano reclusi. Non furono manifestazioni in cerca di autori o di sciatta pubblicità progresso ma organizzazioni che partivano da lontano presupponendo un impegno settimanale all’interno delle celle gestito da esperti in regime di autentico e non finto volontariato. Una sponda organizzativa veniva fornita anche dall’indimenticabile Giovanni Di Risio, purtroppo scomparso qualche giorno fa, che abbandonando i copioni delle attività teatrali che tanto lo prendevano, una mano per lo sport che pure lo appassionava, l’assicurava sempre. A mio parere però non è sufficiente portare aria di sport nelle carceri se non si hanno preparazioni specifiche e soprattutto chiare predisposizioni nel materializzare la indole da educatore attento e propositivo. Nelle carceri non deve andare un istruttore che valorizzi solo la positività di un aspetto salutistico, versante questo sempre di più caratterizzante, ma soprattutto colui che nello sport deve ricercare quel corredo di valori per un compendio educativo e rieducativo che oggi persino il mondo accademico sembra voler abbandonare frustrato come è, ad idealizzare massicciamente la forma igienico/fisica. Percorso assolutamente non facile ma da percorrere altrimenti qualsiasi iniziativa rischia di servire solo per trovare spazio raffigurativo sulle copie dei nostri giornali. L’impatto dovrebbe avere sempre e solo l’obiettivo della rieducazione che a volte l’agonismo di una partita di pallone (per fare un esempio) non sempre facilita. Infine c’è da dire che le nostre strutture carcerarie non posseggono spazi idonei per fare sport, tutto quello che si è fatto e si continua a fare è frutto di adattamento trasformando le celle anche in piccole palestre.Al netto di tutto però, portare aria di vita tra le sbarre, è un evento sempre da condividere pur restando attenti a comprendere se tutto serva alle immagini o alla sostanza. Propendendo per la seconda ipotesi, ci aspettiamo che le attività crescano per ritrovare il Campo Scuola di Campobasso riempito di giovani che un giorno lo sport lo praticavano per strada e non chiusi tra le mura di austeri edifici di riabilitazione sociale. Lecce. Giovane detenuto si toglie la vita nel carcere di Borgo San Nicola di Andrea Tafuro quotidianodipuglia.it, 17 ottobre 2022 Il dramma nel pomeriggio di domenica 16 ottobre, vani i tentativi di soccorso al malcapitato. Il gesto estremo compiuto al momento del cambio della guardia. Una tragedia si è verificata nel pomeriggio di domenica 16 ottobre presso il carcere di Borgo San Nicola a Lecce. Da quanto si apprende dai media locali, in particolare da Nuovo Quotidiano di Puglia, l’uomo, un ragazzo di 32 anni, si sarebbe tolto la vita durante il cambio della guardia all’interno del penitenziario salentino. Per lui non ci sarebbe stato nulla da fare nonostante i soccorsi siano giunti tempestivamente sul luogo del fatto di cronaca. Al momento non sono noti i motivi per cui il 32enne avrebbe compiuto l’estremo gesto. Pare che al momento del cambio della guardia, come sovente accade in questi casi, non ci fosse nessuno a sorvegliare la cella in cui si trovava recluso il detenuto in questione. Per motivi di privacy le sue generalità non sono state rese note. Emergenza suicidi - Quella dei suicidi tra gli agenti delle forze dell’ordine e dei detenuti in carcere è una situazione che si fa di anno in anno sempre più seria. Con il suicidio di Lecce sale a 70 il numero delle persone che dall’inizio del 2022 si sono tolte la vita mentre erano recluse in carcere. Un fenomeno a cui le autorità guardano con preoccupazione. Tra l’altro si segnalano anche 4 casi di suicidi tra gli agenti di polizia penitenziaria, per non contare poi i suicidi che colpiscono le altre forze dell’ordine, come carabinieri, Polizia di Stato e Guardia di Finanza, nonché le altre forze militari. Per quanto riguarda il numero di morti tra gli agenti di polizia penitenziaria e i detenuti i numeri sono stati forniti dalla Uilpa Polizia penitenziaria. Nelle prossime ore si potranno conoscere sicuramente ulteriori dettagli su quanto accaduto presso il carcere di Borgo San Nicola a Lecce. La notizia ha fatto in breve tempo il giro dei media. Sul caso sono ovviamente in corso le dovute indagini volte ad accertare i motivi dell’estremo gesto del giovane detenuto. Milano. Ottanta sigarette e psicofarmaci, gli ultimi giorni in cella di Cosimo Di Lauro di Dario del Porto La Repubblica, 17 ottobre 2022 Era arrivato a fumare 60-80 sigarette al giorno e assumeva psicofarmaci per la schizofrenia. Qualche giorno prima di morire aveva detto di avvertire nausea e di non riuscire a mangiare da solo. Beveva caffè e latte, ingeriva qualche biscotto. Ma subito dopo vomitava. A cinquant’anni non ancora compiuti, dopo averne trascorsi diciassette in carcere, Cosimo Di Lauro, l’uomo considerato il “regista” della faida di Scampia che ha ispirato “Gomorra” era ridotto in queste condizioni il 13 giugno scorso, quando è stato trovato senza vita nella cella del carcere di Milano Opera dove era detenuto. La consulenza tecnica collegiale medico-legale, eseguita su disposizione della Procura del capoluogo lombardo e depositata nei giorni scorsi, propende per la morte provocata da cause naturali, in particolar modo una insufficienza cardiaca. Non sono stati riscontrati segni di violenza, né l’assunzione di sostanze stupefacenti. I consulenti (il medico legale Paolo Bailo e il tossicologo Domenico Di Candia) aggiungono però una postilla, evidenziando la possibilità di ottenere una diagnosi sulle cause della morte ancora più dettagliata attraverso un esame istologico. Gli avvocati Vittorio Giaquinto e Saverio Senese, che assistono la famiglia Di Lauro, hanno chiesto di procedere agli ulteriori accertamenti, il pm Roberto Fontana si è riservato. Ma al di là di quelle che saranno le ulteriori verifiche, la fotografia scattata dai periti è quella degli ultimi giorni di un uomo devastato sia nel fisico, soffriva anche di una forma di sclerosi multipla, sia nella mente, a causa di un disturbo della personalità. Un crepuscolo amaro, per uno dei figli del boss della droga Paolo Di Lauro detto “Ciruzzo ‘o milionario”, che le indagini indicarono il principale protagonisti dello scontro con gli “Scissionisti” degli Amato-Pagano che provocò decine di vittime tra il 2004 e il 2005. L’istantanea con lo ritrae con lo spolverino nero il giorno dell’arresto, il 21 gennaio 2005, rappresenta una delle immagini più potenti di quella stagione di sangue. Diciassette anni dopo, il “regista” della faida era semplicemente un uomo che è morto da solo, chiuso in una cella, in preda a chissà quali demoni. Terni. Rivolta in carcere: 50 detenuti danno fuoco agli uffici. Dieci agenti feriti La Nazione, 17 ottobre 2022 Tutto è nato per il rifiuto da parte di un agente a un detenuto che chiedeva della vernice per ridipingere la cella. Il detenuto ha aggredito il poliziotto e istigato gli altri detenuti alla rivolta. Il reparto di Media sicurezza del carcere di Vocabolo Sabbione distrutto e inagibile. Una decina gli agenti di polizia penitenziaria che sono dovuti ricorrere alle cure dei medici dell’ospedale di Santa Maria, per le lesioni e i sintomi da intossicazione. Gli agenti in libertà, richiamati in servizio. È il bilancio della rivolta dei detenuti andata in scena poco dopo mezzogiorno. Tutto è nato per il rifiuto da parte di un agente a un detenuto che chiedeva della vernice per ridipingere la cella. Il detenuto ha aggredito il poliziotto e istigato gli altri detenuti alla rivolta a cui avrebbero partecipato in almeno cinquanta. Distrutti gli uffici, il quadro elettrico, le scale interne della sezione. Intatte solo le celle. I reclusi hanno dato fuoco a strutture e suppellettili, utilizzando le bombolette di gas che sono autorizzati a tenere in cella per la piccola cucina. I sindacati - Subito la rabbia dei sindacati: “Sono anni che ci battiamo per chiedere più personale - sottolinea Roberto Esposito, del Sarp. Quello che è accaduto oggi non ci sorprende purtroppo. Un problema che finora né la politica né il Parlamento hanno inteso affrontare lasciando la Polizia penitenziaria a lavorare da sola”. Fabrizio Bonino del Sappe: “Una situazione di altissima tensione. Si tratta di eventi già ampiamente preannunciati per la mancanza di personale e di una struttura inadeguata alla vita penitenziaria: ormai si tratta di una sezione inagibile sotto ogni profilo, chiediamo un sopralluogo tecnico da parte del Prap e una visita ispettiva da parte dell’Asl per valutarne l’idoneità sotto il profilo dell’igiene e della sicurezza dei luoghi di lavoro”. Bologna. Pratello sovraffollato: troppi detenuti e attività a rischio nel carcere minorile Corriere di Bologna, 17 ottobre 2022 L’allarme lanciato da Coalizione Civica: “Inserirli in altre strutture”. “Apprendiamo con grande preoccupazione che l’istituto penale minorile della città ha superato il numero di detenuti che possono essere accolti nella struttura. Su 40 posti garantiti e distribuiti su due piani, la presenza è aumentata a 49 giovani accolti in istituto. Già a luglio erano 47”. La condizione di sovraffollamento del carcere minorile di via del Pratello viene denunciata attraverso una nota da Coalizione Civica, il gruppo politico che fa parte della maggioranza a Palazzo d’Accursio. La microcriminalità minorile - Secondo gli esponenti della coalizione è ormai necessario, al fine di diminuire le presenze nell’istituto e di agevolare il lavoro degli educatori, trasferire alcuni dei detenuti presenti nella struttura, privilegiando il trasferimento di coloro che soffrono di disturbi psicologici o relazionali. “Chiediamo che si possa verificare la possibilità di inserire alcuni detenuti in strutture di accoglienza nel territorio della Regione per minori e giovani adulti con problematiche là dove ce ne fossero le condizioni - aggiungono - l’aumento del numero dei detenuti infatti è, nella maggioranza dei casi, dovuto all’aumento della microcriminalità minorile, sfruttata per piccolo spaccio di sostanze stupefacenti”. La proposta è accolta positivamente anche da Salvatore Bianco, responsabile Fp Cgil Bologna, secondo il quale il sovraffollamento dell’istituto mette a rischio le attività educative, anche per la carenza di personale. “La struttura così accentua oggettivamente il proprio tratto coattivo anziché quello rieducativo previsto della nostra carta costituzionale - sottolinea Bianco - bene quindi prese di posizioni che propongono la realizzazione di misure alternative e noi le condividiamo e le sosterremo nelle prossime audizioni che il Comune vorrà convocare sull’annosa questione”. Amplificate le fragilità - Il numero dei presenti nell’istituto è variabile e per norma di legge possono essere detenute massimo 44 persone, ma per ogni Ipm è prevista anche la possibilità di sforare, nel caso ci siano le condizioni. Secondo il garante per i diritti delle persone private della libertà personale del Comune di Bologna, Antonio Ianniello, il problema del sovraffollamento e delle sue conseguenze - tra cui le difficoltà crescenti nel garantire le attività educative ai minori - è iniziato a gennaio, con la decisione di utilizzare anche il secondo piano dell’edificio, portando la capienza massima da 22-23 persone alle oltre 40 di ora. Il numero degli educatori a tempo pieno, tuttavia, è rimasto lo stesso. Il 16 settembre Ianniello ha inviato una lettera ai vertici del dipartimento della giustizia minorile dove rinnovava la sua preoccupazione per le condizioni dell’istituto in seguito all’ampliamento dei posti. “Allo stato non risulta essere intervenuto alcun potenziamento dell’area educativa, il cui organico è rimasto numericamente immutato, prendendo comunque atto che c’è stata l’integrazione di due esperti con un monte ore predeterminato - spiega Ianniello - l’aumento della capienza regolamentare ha amplificato con tutta evidenza le fragilità presenti nei ragazzi, peraltro sottoponendo l’intero istituto nonché il personale a situazioni di maggiorata tensione che, se prolungate nel medio-lungo periodo, comportando un aumento dello stress correlato e si teme possano anche andare a incidere sull’adeguatezza degli interventi posti in essere da parte degli stessi operatori”. Ianniello, inoltre, ha ricordato come in questi anni, nonostante le difficoltà, all’interno dell’istituto si siano raggiunti buoni risultati in ambito educativo: “Il conseguimento del diploma da parte di alcuni ragazzi - conclude il garante - nonché l’iscrizione all’università di altri, sono indicatori che possono proprio essere letti come importanti risultati conseguiti anche da parte di tutto lo staff grazie al rapporto equilibrato che si è instaurato fra le varie aree”. Migliorare le condizioni - Mery De Martino, consigliera comunale del Pd, ha proposto nei mesi scorsi alcune udienze conoscitive sull’istituto minorile e ribadisce che anche nei prossimi mesi ci saranno delle proposte per migliorare le condizioni della struttura. “Secondo noi il numero massimo di detenuti per l’istituto è 34 - dice De Martino - poi crediamo che vadano aumentate le ore degli insegnanti che vanno a fare lezione e poi bisognerebbe dare anche la possibilità di iscriversi ad altri corsi, come ad esempio meccatronica, e non solo all’alberghiero”. Napoli. Scampia, apre la nuova Università di Chiara Marasca ed Elena Scarici Corriere del Mezzogiorno, 17 ottobre 2022 Il vescovo all’inaugurazione: “Qui giovani trovavano morte, ora sogni”. Sorge al posto della Vela H. Il taglio del nastro per la Facoltà di Scienze Infermieristiche della “Federico II”. Manfredi: “Vittoria contro il pregiudizio”. Polemica politica sulla “paternità” del progetto e protesta dei disoccupati. “Oggi Napoli si congiunge ad una delle sue periferie più dimenticate ed etichettate, oggi in un luogo dove molti giovani venivano a cercare la morte inizia una storia nuova, in questo quartiere i giovani verranno a costruire il proprio futuro”. Così il vescovo di Napoli, monsignor Domenico Battaglia durante la cerimonia di benedizione del polo universitario della “Federico II” a Scampia. I giovani, ha sottolineato il vescovo, verranno a “raccogliere sapienza e coraggio per servire coloro che hanno più bisogno di aiuto, i malati e i deboli”. “Vogliamo che il signore benedica questo luogo e che benedica i loro sogni di riuscita della loro vita ordinandoli alla giustizia e alla pace”, ha aggiunto. Stamane c’è stata l’inaugurazione della Facoltà di Scienze Infermieristiche. Ieri sera il sindaco di Napoli Gaetano Manfredi aveva salutato sui social la partenza delle attività universitarie nel quartiere dell’area Nord di Napoli parlando di un “progetto fortemente voluto e di cui abbiamo accelerato la conclusione perché crediamo possa avere un impatto positivo sia per il quartiere che per l’intera area Nord della città, cambiando la narrazione negativa di questi luoghi”. Al posto della Vela H - Il nuovo polo dell’ateneo nasce lì dove prima c’era la Vela H, uno dei simboli di un quartiere, Scampia, che da anni lotta per smettere di essere una delle più grandi piazze di spaccio d’Europa e per non essere più solo ed esclusivamente la terra di Gomorra. “La rigenerazione urbana di Restart-Scampia, il programma di riqualificazione del verde urbano, la realizzazione della pista ciclabile ed un’adeguata implementazione del sistema di trasporti hanno tutti l’obiettivo di rendere fertile un territorio dalle grandi potenzialità, portando formazione e sviluppo economico”, ha detto ancora Manfredi, per il quale “il valore di questa inaugurazione non è il successo di qualcuno, ma è la vittoria di una città, di un quartiere su un pregiudizio che Scampia fosse luogo di morte, di camorra, che fosse il posto in cui le cose non si fanno mai, dove si parla e non sia arriva mai al risultato, non è così”. I corsi, gli studenti e gli ambulatori - Un’aula magna da 520 posti, 33 aule per accogliere a regime 2660 studenti, 16 corsi di laurea triennale e 6 di laurea magistrale di Professioni sanitarie, 16 laboratori didattici, 16 ambulatori e stanze di degenza, un parcheggio sotterraneo da 90 posti auto e uno scoperto da 80 posti. Ecco alcuni dei numeri del complesso dell’Università Federico II di Napoli inaugurato oggi a Scampia. Lì dove sorgeva la Vela H, oggi hanno fatto il loro ingresso i primi studenti, circa un centinaio a cui progressivamente si aggiungeranno gli altri per arrivare a oltre 800 studenti nel secondo semestre. “Oggi è una grande emozione con cui proclamiamo l’ingresso della comunità di Scampia nella rete della cultura, della formazione universitaria d’eccellenza, della ricerca, dello sviluppo tecnologico, dell’assistenza medica avanzata - ha detto il rettore, Matteo Lorito - questo risultato è un orgoglio per Napoli, per la Campania e il Paese. Siamo consapevoli che la presenza dell’Università è strumento potente contro il rischio di degrado culturale e sociale per un quartiere che vuole liberarsi da un’immagine negativa ormai obsoleta e vuole sentirsi parte viva del contesto metropolitano”. L’edificio ha 7 piani di cui 1 interrato. Le aule si trovano dal piano interrato e fino al secondo piano. In particolare le aule collocate al secondo piano si caratterizzano per la loro potenziale modularità: possono avere la classica disposizione con sedie allineate o avere posti distribuiti attorno a scrivanie per lavorare in gruppo o per svolgere esercitazioni. Al terzo piano ci saranno i laboratori didattici e per attività di ricerca che sono in corso di allestimento, Pertanto al momento le attività di tirocinio pratico dovranno ancora essere effettuate presso il Policlinico Federico II. Nella sede di Scampia si svolgeranno non solo le lezioni dei corsi, ma anche le sedute di laurea. “La sede di Scampia è l’occasione per applicare nuove metodologie didattiche e formative ai primi anni dei corsi di laurea delle Professioni sanitarie - ha spiegato Maria Triassi, presidente della Scuola di Medicina dell’Ateneo - l’obiettivo è realizzare qui un polo didattico della medicina altamente tecnologico in cui grazie all’impiego di strumenti e attrezzature di ultima generazione si possa offrire ai nostri studenti, i futuri professionisti della sanità, una didattica avanzata e di altissima qualità che consenta un’interconnessione tra la teoria delle lezioni frontali e la pratica nei laboratori”. Il quarto e quinto piano della struttura saranno dedicati agli ambulatori per l’assistenza territoriale e dovrebbero essere operativi per l’inizio del 2023. Le prime attività assistenzialistiche saranno di specialistica ambulatoriale - ha spiegato il direttore generale dell’Azienda ospedaliera universitaria Policlinico, Giuseppe Longo - “che è espressione del territorio”. I primi ambulatori saranno per disturbi nutrizionali, un Centro anti diabete e un Centro prelievi. Nella piazza, posta al centro dell’edificio, un albero di ulivo a simboleggiare la pace e la crescita dei giovani e del quartiere. Il ministro Messa: ci sia interazione con comunità locale - “Spero e mi auguro che la comunità accademica sia in forte interazione con la comunità locale. Ho letto di associazioni e comitati di zona a cui faccio i complimenti per quanto fatto, attendono forte questo rapporto”, ha detto nel corso del suo intervento il ministro della Ricerca e Università, Maria Cristina Messa. “Sappiamo bene che queste iniziative non vanno avanti da sole, hanno bisogno dell’attenzione collettiva che non è fatta solo di finanziamenti ma di processi, aspetti organizzativi, significa rendere il luogo vivibile per tutti, produttivo, forte”, ha concluso. La protesta dei disoccupati - Ma è stato un taglio del nastro preceduto a poi accompagnato da alcune polemiche e proteste. In piazza, stamattina, a Scampia, sono scesi i disoccupati. Poco prima dell’inaugurazione della sede universitaria gli attivisti del Comitato Vele, Cantiere 167 e Movimento disoccupati 7 novembre hanno esposto uno striscione con lo slogan “Siamo solo sognatori abusivi”. “La gente come noi non molla mai” urlano, rivendicando che quello che si è ottenuto a Scampia è anche merito della loro lotta. “Siamo stanchi di aspettare, noi vogliamo lavorare”, urlano. Nardella: sia fattore propulsivo - “Oggi si stanno determinando le condizioni per una reale rigenerazione urbana. L’Università sarà, in questo senso, un fattore propulsivo”, ha commentato Nicola Nardella, presidente della Municipalità 8 del Comune di Napoli, aggiungendo: “Immaginiamo, con riferimento all’idea di sviluppo, non una mera espansione cementizia lungo una traiettoria territoriale, per intenderci, dal margine della città alla conurbazione a nord di essa, ma una espansione della qualità dei servizi, dei parchi, delle strutture commerciali, in una parola: della vita nella sua interezza. In questo senso l’Università rappresenterà non solo uno spazio di produzione di saperi, con la sua vocazione alla ricerca, ma anche un punto di apertura alla ricchezza che il territorio esprime. L’Università vivrà interconnessa alle tante associazioni, in maniera tale da poter determinare la “Rete del Buon Futuro”. L’ex sindaco de Magistris: idea di Bassolino realizzata da noi - Ma nel giorno dell’inaugurazione non sono mancate le polemiche sulla genesi e sulla paternità del progetto: “La sottoscrizione dell’accordo risale al 2006, giunta Bassolino, poi i passaggi principali sono avvenuti sotto l’amministrazione che ho avuto l’onore di guidare, con un lavoro enorme fatto soprattutto dagli assessori Carmine Piscopo e Mario Calabrese”, dice l’ex sindaco di Napoli Luigi de Magistris, che ripercorre in una dichiarazione tutti i passaggi della realizzazione del progetto, che ha subito più di uno stop: “Per pochissimo, causa soprattutto Covid, non l’abbiamo potuta inaugurare noi”, commenta, e poi conclude: “Per quanto riguarda il ruolo centrale del Comune di Napoli in questa opera: a Bassolino l’idea di averla pensata, la Iervolino non pervenuta, a noi quella di averla praticamente realizzata in collaborazione con gli altri partners istituzionali (nel mio ultimo sopralluogo poco più di anno fa era praticamente completata), a Manfredi di tagliare il nastro”. Polemico anche il consigliere di opposizione ed ex pm Catello Maresca, che ieri ha scritto su Facebook: “Domani non andrò alla sfilata dei politicanti per l’inaugurazione della sede dell’Università a Scampia. Invece di raccontare favolette a cui ormai credete solo voi, pensate a risolvere i veri problemi della città. Altrimenti sarà l’ennesima cattedrale nel deserto dell’ipocrisia e dell’incapacità politica. E poi se c’è qualcuno che si deve ringraziare per questa opera è l’ex rettore Trombetti”. Povertà, rapporto della Caritas: nel 2021 aiuti aumentati del 7,7% La Stampa, 17 ottobre 2022 Cardinale Zuppi: “Il Reddito di cittadinanza aiuta poco i poveri assoluti”. Le persone supportate sono state 227.566. Sono soprattutto straniere. Sette richieste di sostegno su 10 riguardano il pagamento delle bollette. Una fotografia che preoccupa è quella scattata dal XXI Rapporto della Caritas italiana su povertà ed esclusione sociale dal titolo “L’anello debole”. “Nel 2021, nei soli centri di ascolto e servizi informatizzati, le persone incontrate e supportate sono state 227.566 persone - è scritto -. Rispetto al 2020 si è registrato un incremento del 7,7% del numero di beneficiari supportati (legato soprattutto agli stranieri); non si tratta sempre di nuovi poveri ma anche persone che oscillano tra il dentro fuori dallo stato di bisogno. Chiedono aiuto sia uomini (50,9%) che donne (49,1%). Cresce da un anno all’altro l’incidenza delle persone straniere che si attesta al 55%, con punte che arrivano al 65,7% e al 61,2% nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est; di contro, nel Sud e nelle Isole, prevalgono gli assistiti di cittadinanza italiana che corrispondono rispettivamente al 68,3% e al 74,2% dell’utenza. L’età media dei beneficiari si attesta a 45,8 anni. Complessivamente le persone senza dimora incontrate sono state 23.976, pari al 16,2% dell’utenza: si tratta per lo più di uomini (72,8%), stranieri (66,3%), celibi (45,1%), con un’età media di 43,7 anni e incontrati soprattutto nelle strutture del Nord (questa macroregione ha intercettato quasi la metà degli homeless d’Italia)”. “Si rafforza nel 2021 la consueta correlazione tra stato di deprivazione e bassi livelli di istruzione - continua il Rapporto -. Cresce infatti il peso di chi possiede al massimo la licenza media, che passa dal 57,1% al 69,7%; tra loro si contano anche persone analfabete, senza alcun titolo di studio o con la sola licenza elementare. Nelle regioni insulari e del sud, dove lo ricordiamo c’è una maggiore incidenza di italiani, il dato arriva rispettivamente all’84,7% e al 75%”. E poi: “Strettamente correlato al livello di istruzione è, inoltre, il dato sulla condizione professionale che racconta molto delle fragilità di questo tempo post pandemico. Nel 2021 cresce l’incidenza dei disoccupati o inoccupati che passa dal 41% al 47,1%; parallelamente si contrae la quota degli occupati che scende dal 25% al 23,6%. Risulta ancora marcato anche nel 2021 il peso delle povertà multidimensionali: nell’ultimo anno il 54,5% dei nostri beneficiari ha manifestato due o più ambiti di bisogno. In tal senso prevalgono, come di consueto le difficoltà legate a uno stato di fragilità economica, i bisogni occupazionali e abitativi; seguono i problemi familiari (separazioni, divorzi, conflittualità), le difficoltà legate allo stato di salute o ai processi migratori”. Il reddito di cittadinanza - “La misura di contrasto alla povertà esistente nel nostro Paese, il Reddito di Cittadinanza, è stata finora percepita da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%) - è ancora scritto nel Rapporto -. Sarebbe quindi opportuno assicurarsi che fossero raggiunti tutti coloro che versano nelle condizioni peggiori, partendo dai poveri assoluti. Accanto alla componente economica dell’aiuto vanno garantiti adeguati processi di inclusione sociale. Ma al momento una serie di vincoli amministrativi e di gestione ostacolano tale aspetto. Il Rapporto offre alcune proposte, di rafforzamento della capacità di presa in carico dei Comuni, anche attraverso il potenziamento delle risorse umane e finanziarie a disposizione e un miglior coordinamento delle azioni. Particolare attenzione va data ai nuovi progetti programmi in partenza, finanziati dal Pnrr, tra cui GOL (Garanzia Occupabilità Lavoratori), un programma pensato per rafforzare i percorsi di occupabilità di disoccupati, lavoratori poveri o fragili/vulnerabili (NEET, giovani, maturi), beneficiari di RdC e di ammortizzatori sociali in costanza o assenza di rapporti di lavoro; si tratta di 3 milioni di persone da formare o riqualificare entro il 2025, di cui il 75% saranno donne, disoccupati di lunga durata, giovani under 30, over 55. Per il tipo di profilo definiti, questo programma interesserà senz’altro persone che si rivolgono ai centri e servizi Caritas”. Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, è intervenuto con un videomessaggio alla presentazione del Rapporto della Caritas: “Una cosa che mi ha colpito - e speriamo che il governo sappia affrontarla con molto equilibrio - è il problema del Reddito di cittadinanza che è stato percepito da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti. Quindi - ha sottolineato l’alto prelato - c’è un aggiustamento da fare ma mantenendo questo impegno che deve essere così importante in un momento in cui la povertà sarà ancora più dura, ancora più pesante e rischia di generare ancora più povertà in quelle fasce dove si oscilla nella sopravvivenza, che devono avere anche la possibilità di uscire da questa “zona retrocessione”. Il caro bollette - “Più del 70 per cento delle richieste sono di carattere economico”, spiega, a margine della presentazione, il presidente di Caritas italiana, monsignor Carlo Roberto Maria Redaelli che aggiunge che sono drammaticamente aumentate le richieste di aiuto per far fronte al pagamento delle bollette. Più nel dettaglio, ecco i dati sulle risposte delle Caritas sul territorio italiano secondo il Rapporto: “Complessivamente risultano erogati nel 2021 quasi 1milione 500mila interventi, una media di 6,5 interventi per ciascun assistito (considerate anche le prestazioni di ascolto). In particolare: il 74,7% ha riguardato l’erogazione di beni e servizi materiali (mense/empori, distribuzione pacchi viveri, buoni ticket, prodotti di igiene personale, docce, ecc.); il 7,5% le attività di ascolto, semplice o con discernimento; il 7,4% gli interventi di accoglienza, a lungo o breve termine; il 4,6% l’erogazione di sussidi economici (per il pagamento di affitti e bollette), il 2,2% il sostegno socio assistenziale e l’1,5% interventi sanitari. L’analisi della conversione degli interventi in euro - si conclude quindi - mette in luce, tuttavia, che le erogazioni di sussidi economici pur rappresentando solo il 4,6% degli interventi assorbono oltre il 76% delle spese”. L’allarme Caritas: due milioni di famiglie vivono in povertà assoluta Il Dubbio, 17 ottobre 2022 Secondo il Rapporto il reddito di cittadinanza aiuta meno della metà delle persone. “Più inclusione sociale, chi nasce povero resta povero”. Quasi due milioni di famiglie nel nostro Paese sono in povertà assoluta. Lo certifica il nuovo Rapporto della Caritas italiana diffuso oggi in occasione della Giornata internazionale di lotta alla povertà. Il rapporto Caritas: 5,6 milioni di persone in povertà assoluta - Il 21esimo Rapporto su povertà ed esclusione sociale dal titolo L’anello debole prende in esame le statistiche ufficiali sulla povertà e i dati di fonte Caritas, provenienti da quasi 2.800 Centri di Ascolto Caritas su tutto il territorio nazionale. Ebbene, nel 2021 la povertà assoluta conferma i suoi massimi storici toccati nel 2020, anno di inizio della pandemia da Covid-19. Le famiglie in povertà assoluta risultano 1 milione 960mila, pari a 5.571.000 persone (il 9,4% della popolazione residente). L’incidenza si conferma più alta nel Mezzogiorno (10% dal 9,4% del 2020) mentre scende in misura significativa al Nord, in particolare nel Nord-Ovest (6,7% da 7,9%). In riferimento all’età, i livelli di povertà continuano ad essere inversamente proporzionali all’età: la percentuale di poveri assoluti si attesta infatti al 14,2% fra i minori (quasi 1,4 milioni bambini e i ragazzi poveri), all’11,4% fra i giovani di 18-34 anni, all’11,1% per la classe 35-64 anni e al 5,3% per gli over 65 (valore sotto il la media nazionale). Tra il 2020 e il 2021, registra il Rapporto Caritas, l’incidenza della povertà è cresciuta più della media per le famiglie con almeno 4 persone, le famiglie con persona di riferimento di età tra 35 e 55 anni, i bambini di 4-6 anni, le famiglie degli stranieri e quelle con almeno un reddito da lavoro. È cresciuta meno della media per le famiglie piccole, con anziani, composte da soli italiani. I dati di fonte Caritas offrono un prezioso spaccato sui volti di povertà del nostro tempo: nel 2021, nei soli centri di ascolto e servizi informatizzati, le persone incontrate e supportate sono state 227.566 persone. Rispetto al 2020 si è registrato un incremento del 7,7% del numero di beneficiari supportati (legato soprattutto agli stranieri); non si tratta sempre di nuovi poveri ma anche persone che oscillano tra il dentro fuori dallo stato di bisogno. Chiedono aiuto sia uomini (50,9%) che donne (49,1%). Cresce da un anno all’altro l’incidenza delle persone straniere che si attesta al 55%, con punte che arrivano al 65,7% e al 61,2% nelle regioni del Nord-Ovest e del Nord-Est; di contro, nel Sud e nelle Isole, prevalgono gli assistiti di cittadinanza italiana che corrispondono rispettivamente al 68,3% e al 74,2% dell’utenza. L’età media dei beneficiari si attesta a 45,8 anni. Complessivamente le persone senza dimora incontrate sono state 23.976, pari al 16,2% dell’utenza: si tratta per lo più di uomini (72,8%), stranieri (66,3%), celibi (45,1%), con un’età media di 43,7 anni e incontrati soprattutto nelle strutture del Nord (questa macroregione ha intercettato quasi la metà degli homeless d’Italia). Il reddito di cittadinanza aiuta meno della metà - Il reddito di cittadinanza va ad aiutare poco meno della metà dei poveri assoluti nel nostro Paese. “La misura di contrasto alla povertà esistente nel nostro Paese, il Reddito di Cittadinanza, - sottolinea il Rapporto - è stata finora percepita da 4,7 milioni di persone, ma raggiunge poco meno della metà dei poveri assoluti (44%). Sarebbe quindi opportuno assicurarsi che fossero raggiunti tutti coloro che versano nelle condizioni peggiori, partendo dai poveri assoluti”. Accanto alla componente economica dell’aiuto, dice Caritas, “vanno garantiti adeguati processi di inclusione sociale. Ma al momento una serie di vincoli amministrativi e di gestione ostacolano tale aspetto. Il Rapporto offre alcune proposte, di rafforzamento della capacità di presa in carico dei Comuni, anche attraverso il potenziamento delle risorse umane e finanziarie a disposizione e un miglior coordinamento delle azioni. Particolare attenzione va data ai nuovi progetti programmi in partenza, finanziati dal Pnrr, tra cui GOL (Garanzia Occupabilità Lavoratori), un programma pensato per rafforzare i percorsi di occupabilità di disoccupati, lavoratori poveri o fragili/vulnerabili (NEET, giovani, maturi), beneficiari di RdC e di ammortizzatori sociali in costanza o assenza di rapporti di lavoro; si tratta di 3 milioni di persone da formare o riqualificare entro il 2025, di cui il 75% saranno donne, disoccupati di lunga durata, giovani under 30, over 55. Per il tipo di profilo definiti, questo programma interesserà senz’altro persone che si rivolgono ai centri e servizi Caritas”. Chi nasce povero resta povero - Chi nasce povero resta povero. Non in assoluto, ma in una percentuale superiore al 50%. A pesare è sempre il grado di istruzione. Caritas Italiana ha condotto il primo studio nazionale su un campione rappresentativo di beneficiari Caritas al fine di quantificare le situazioni di povertà ereditaria nel nostro Paese. Complessivamente, spiega il nuovo Rapporto Caritas 2021 presentato oggi, nelle storie di deprivazione intercettate, i casi di povertà intergenerazionale pesano per il 59,0%; nelle Isole e nel Centro il dato risulta ancora più marcato, pari rispettivamente al 65,9% e al 64,4%; il nord-Est e il Sud risultano le macroaree con la più alta incidenza di poveri di prima generazione. “Il rischio di rimanere intrappolati in situazioni di vulnerabilità economica, per chi proviene da un contesto familiare di fragilità è di fatto molto alto”, registra Caritas italiana. Il nesso tra condizione di vita degli assistiti e condizioni di partenza si palesa su vari fronti oltre a quello economico. In primis, nell’istruzione. Le persone che vivono oggi in uno stato di povertà, nate tra il 1966 e il 1986, provengono per lo più da nuclei familiari con bassi titoli di studio, in alcuni casi senza qualifiche o addirittura analfabeti (oltre il 60% dei genitori possiede al massimo una licenza elementare). E, sono proprio i figli delle persone meno istruite a interrompere gli studi prematuramente, fermandosi alla terza media e in taluni casi alla sola licenza elementare; al contrario tra i figli di persone con un titolo di laurea, oltre la metà arriva ad un diploma di scuola media superiore o alla stessa laurea. Anche sul fronte lavoro, registra il Rapporto Caritas, emergono degli elementi di netta continuità: più del 70% dei padri dei nostri assistiti risulta occupato in professioni a bassa specializzazione. Per le madri è invece elevatissima l’incidenza delle casalinghe (il 63,8%), mentre tra le occupate prevalgono le basse qualifiche. Il raffronto tra le due generazioni mostra che circa un figlio su cinque ha mantenuto la stessa posizione occupazionale dei padri e che il 42,8% ha invece sperimentato una mobilità discendente (soprattutto tra coloro che hanno un basso titolo di studio). Più di un terzo (36,8%) ha, invece, vissuto una mobilità ascendente in termini di qualifica professionale, anche se poi quel livello di qualifica non trova sempre una corrispondenza in termini di impiego (data l’alta incidenza di disoccupati) o un adeguato inquadramento contrattuale e retributivo, vista l’alta incidenza dei lavoratori poveri. Scuola, i mali della pandemia e il prof in corridoio di Michela Marzano La Stampa, 17 ottobre 2022 Anche nella provincia di Novara, in alcune scuole paritarie, sta per arrivare l’educatore di corridoio, una figura di cui si è iniziato a parlare un paio di anni fa, quando a scuola si sono cominciati a toccare con mano i disastri prodotti (o amplificati) dalla pandemia. Sono d’altronde sempre più numerosi i ragazzi e le ragazze che fanno fatica a interessarsi allo studio, a trovare negli adulti punti di riferimento o anche solo a restare a galla. E allora si isolano e si attorcigliano su loro stessi. Sempre più connessi virtualmente, ma sempre più soli. Come se, all’improvviso, fosse sorto un muro capace di separarli dal futuro e dalla vita. Pensati come una sorta di ponte tra il mondo degli adulti e quello dei più giovani, gli educatori di corridoi avrebbero lo scopo di interagire con i ragazzi e le ragazze in maniera diversa, più autentica, amicale. Come l’indica il loro stesso nome, si tratterebbe di docenti piazzati nei corridoi e pronti a intervenire quando un’alunna o un alunno, usciti di classe per andare in bagno oppure buttati fuori da un insegnante, iniziano magari a vagare per la scuola, cercando un luogo dove fumare una sigaretta o perdere tempo. Ma è davvero possibile che un ruolo di questo genere possa essere svolto da un docente, come sembra suggerire il segretario generale della Fondazione Carolina, l’associazione che, in provincia di Novara, si è fatta promotrice dell’iniziativa? C’è davvero bisogno di aggiungere figure supplementari a quelle già presenti in ambito scolastico oppure basterebbe educare meglio gli educatori? E poi, se un ragazzo o una ragazza hanno bisogno di respirare, è veramente giusto appiccicargli addosso l’ennesimo adulto? Il disagio giovanile è una delle piaghe più profonde della contemporaneità. Forse anche perché, noi adulti, abbiamo da tempo smesso di ascoltare ciò che i nostri ragazzi e le nostre ragazze provavano a dirci. Convinti di sapere tutto, abbiamo sempre più tendenza a giudicare e a impartire le nostre lezioni di vita, evitando di fare lo sforzo di rimetterci in discussione. Soprattutto in classe, dove la disattenzione o il brusio non sono sempre e solo sinonimo di problemi da parte degli alunni, ma talvolta anche una risposta alla nostra incapacità di interessarli o di trasmettere loro insegnamenti adeguati. Quand’è l’ultima volta che abbiamo provato a metterci al posto loro domandandoci se quello che gli raccontiamo o spieghiamo è interessante? Quand’è che ci siamo chiesti se incarniamo ciò che insegniamo invece di limitarci a fare lezione srotolando una lista insulsa di saperi stantii? Per carità, ben venga ogni progetto di innovazione pedagogica. Ma evitiamo di confondere tutto e di peggiorare le cose. L’innovazione pedagogica, d’altronde, servirebbe soprattutto in classe. E non credo ci sia bisogno di occupare i corridoi scolastici per aiutare i più giovani a tornare a relazionarsi con gli altri senza il filtro del virtuale. Anzi. Spesso è proprio nei corridoi della scuola, e lontano dallo sguardo dei docenti, che le ragazze e i ragazzi hanno bisogno di ritrovarsi. Anche solo per poter fare spazio all’interno di loro stessi a tutte le cose che succedono in classe o durante la ricreazione, senza che qualcuno interferisca con la necessità che ogni tanto abbiamo tutti di essere lasciati in pace. Che si tratti di una lezione o di un problema, per elaborarli ci vuole tempo e tranquillità, più che l’ennesimo adulto che ci si piazzi davanti pronto a perorare una qualche causa e che, senz’altro con le migliori intenzioni, invece di aiutare spesso non può fare altro che confondere le idee. Se proprio si vuole introdurre qualche nuova figura adulta, allora forse sarebbe meglio un “educatore di stanza”, ossia qualcuno disponibile all’ascolto, e che si possa contattare in caso di bisogno, ma sempre e solo su richiesta dei diretti interessati. Come si fa a rendere le nostre ragazze e i nostri ragazzi autonomi se li si priva sistematicamente della libertà di venirci a cercare? Iran. Salgono a otto i morti nel carcere di Evin, Alessia Piperno sta bene ansa.it, 17 ottobre 2022 Nella prigione di Teheran rinchiusi attivisti e detenuti nelle manifestazioni. Sale il bilancio fornito dalle autorità giudiziarie - con otto detenuti morti - dell’incendio scoppiato venerdì sera nel carcere iraniano di Evin. ‘Tutti i morti erano rapinatori condannati’, ha detto la fonte dell’Afp. Nell’istituto di detenzione si trova anche Alessia Piperno, la ragazza italiana fermata il 28 settembre scorso nella capitale. Ieri la Farnesina, in contatto con l’ambasciata italiana a Teheran, ha riferito che la giovane sta bene. L’incendio sarebbe stato provocato da una rivolta dei detenuti nel famigerato carcere di Teheran dove vengono rinchiusi i detenuti i prigionieri politici. Centinaia di arrestati durante le proteste che hanno infiammato l’Iran dopo la morte della giovane Mahsa Amin sono rinchiusi in questo carcere, dove secondo le ong per i diritti umani viene anche usata la tortura. Alcuni attivisti politici, tra cui il regista Jafar Panahi e il riformista Mostafa Tajzadeh, così come cittadini con doppia nazionalità come l’iraniano-francese Fariba Adelkhah e gli iraniano-americani Siamak Namazi ed Emad Sharghi, erano detenuti nelle stesse celle in cui è scoppiato l’incendio. Namazi e Sharghi hanno informato le loro famiglie delle loro buone condizioni di salute. Lo ha riferito l’autorità giudiziaria iraniana riferendo i dettagli del rogo. Anche il regista Panahi si sarebbe messo in contatto con i familiari per tranquillizzarli Secondo l’ong basata a Oslo Iran Human Rights, il fuoco si è esteso nel carcere ed “è stata udita un’esplosione”. In un video diffuso dal canale social 1500tasvir si sentono persone che urlano “morte al dittatore”. Secondo diverse fonti, l’incendio è scoppiato dopo una rivolta di detenuti che ha interessato la sezione 7 del carcere. Testimoni hanno detto che si sono uditi spari e gruppi di persone si sono radunate nei pressi della prigione urlando slogan. Secondo l’agenzia ufficiale Irna, che cita un alto funzionario della sicurezza, l’incendio è partito dalla sezione 7, quella dove si scontravano detenuti e guardie carcerarie. I rivoltosi avrebbero dato fuoco ad un deposito di vestiti, causando un rogo che secondo le autorità è ora in fase di spegnimento da parte dei vigili del fuoco. Secondo questa fonte, i detenuti ammutinati sono stati separati dagli altri, che sono rientrati nelle loro celle. Secondo testimoni, nel carcere sono state udite esplosioni e colpi d’arma da fuoco. La polizia ha sparato gas lacrimogeni anche contro le famiglie degli attivisti e degli studenti che sono stati arrestati durante le proteste che dalla morte della giovane Mahsa Amini attraversano il paese, e che si erano radunate intorno alla prigione. La polizia ha intanto bloccato le strade di accesso al carcere. Il Dipartimento di Stato americano ha dichiarato che l’Iran è responsabile della sicurezza degli americani detenuti nella prigione di Evin. “L’Iran è pienamente responsabile della sicurezza dei nostri cittadini detenuti ingiustamente, che dovrebbero essere rilasciati immediatamente”, ha twittato il portavoce del Dipartimento di Stato Ned Price, aggiungendo che Washington stava seguendo i rapporti sull’incidente “con urgenza”. Il presidente Joe Biden, commentando la situazione, ha detto che la rivolta è scoppiata perché il “governo iraniano è opprimente”. “Ho un enorme rispetto per le persone che manifestano nelle strade”, ha detto Biden, parlando con i giornalisti al seguito in Oregon. Immediata la risposta di Teheran. “L’Iran non sarà indebolito dalle interferenze e dalle dichiarazioni di un politico ‘esausto’“, ha scritto il portavoce del ministero degli Esteri iraniano, Nasser Kanani, su Instagram. “La vostra abitudine è di abusare di situazioni di disordine, ma ricordate: qui c’è l’Iran”, ha intimato, rivolgendosi al presidente Usa.