Suicidi in cella: strage nel buio di Marina Corradi Avvenire, 16 ottobre 2022 Storia di Dahou. Questa è la storia del numero 66. Del sessantaseiesimo suicida nelle carceri italiane da inizio anno. Non è l’ultimo: l’ultimo a oggi è il numero 70, secondo Ristretti Orizzonti (ristretti.org) una delle associazioni che seguono puntualmente le vicende delle carceri. Dunque, questo numero 66, uno fra i tanti, si chiamava Dahou e aveva 26 anni. Era arrivato dal Marocco dieci anni fa, quando ne aveva 16, un ragazzino. (Arrivato, si può supporre, per mare). Tentava la fortuna. Senza documenti, senza lavoro, aveva finito con lo spacciare. Dentro, fuori, dentro di nuovo. L’ultima volta l’hanno beccato con la roba a bordo di un motorino. Un pesce piccolo. Da qualche mese dava segni di squilibrio mentale. Non appena è stato arrestato ha chiesto di telefonare alla madre, in Marocco. La chiamava tutti i giorni ormai. Chiamava la mamma come un bambino che si è perso. Finché a settembre un giorno si è impiccato in cella. L’hanno soccorso quasi in tempo, l’hanno portato in ospedale. Coma farmacologico, è morto il 1° ottobre. 26 anni. Avete un figlio di quell’età, avete in mente i suoi occhi? Non vi sembra ancora un ragazzo? Dieci anni passati a tentare, da solo, la fortuna in Occidente: irregolarità, lavori in nero, fame, droga, carcere, carcere ancora. Speranza, zero. Nella cella di una galera sovraffollata e invivibile Dahou si è arreso. Il numero 66, dal 1° gennaio 2022. L’identikit dei detenuti suicidi somiglia spesso a quello di Dahou. Giovani audaci che ci hanno provato, sfidando il mare. Che sono finiti nel caporalato, o nella bassa manovalanza dello spaccio. (Alcuni, anche, italiani: figli difficili, persi di vista, figli naufragati). La vita li ha travolti. Il carcere ha chiuso il cerchio: il mondo come un inferno. Aspettare di uscire? Per rifare quella vita miserabile? Pare difficile ammazzarsi in una cella nuda, ma se si è disperati davvero basta un lenzuolo, e una sbarra. A volte, come nel caso di Dahou, i secondini se ne accorgono in tempo, e finisci in coma. I più avvertiti allora tappano la serratura con della plastica (quasi un cartello su una porta d’albergo: “Non disturbare”). E così muoiono subito. Come il numero 70, marocchino anche lui, anni ne aveva 29. “Una strage di cui non si vede la fine”, per la Uilpa, sindacato di polizia penitenziaria. “Un sistema carcerario alienante e incivile”, per il garante per le carceri della Regione Toscana. Vero dev’essere, se dal 2000 a oggi nelle nostre carceri si sono ammazzati in 1.291. Ma quanto scivolano via veloci le notizie di questi morti sul web non le cucca nessuno, sui giornali e in tv non trovano quasi mai spazio - e non per rispetto. Le quaranta paia di scarpe che Ilary Blasy rivuole indietro da Totti, quelle sì interessano. Non queste storie oscure di ragazzi bruni, spesso stranieri (stranieri sono il 35 % dei detenuti), facce guardate fin dall’inizio con sospetto: altri da noi, invasori da rispedire indietro. Se poi finiscono dentro, fatti loro. Se poi alla fine si ammazzano, nell’indifferenza dei più non mancherà qualcuno che pensa: uno di meno. Non è, quasi invisibile, una guerra anche questa? Gli indesiderati, i “clandestini”, i messi al margine - come i rifiuti spinti dal vento nelle insenature della costa - abbiano il destino che vogliono. Il destino che, per qualcuno, si meritano. Quell’elenco di morti su ristretti.org, se lo andate a vedere, toglie il fiato. Solo in agosto, nel torrido agosto di quest’anno, sedici: uno ogni due giorni, nelle celle sovraffollate. E guardate, leggete gli anni. 26, 24. Certo, anche adulti: ma quanti ragazzi. (Li avete in mente, a quell’età, i loro occhi?). Dicevamo, è una faccenda di cui in realtà non importa quasi a nessuno, se non ai soliti generosi e ai cappellani e ai volontari. Una faccenda che non fa audience. Però, se il ministro della Giustizia di questo nuovo governo di destra si chinasse su questa strage nel buio. Darebbe un segno: di che governo è, oltre le parole, davvero, di che idea ha di quanto vale un uomo. “Così i miei compagni si suicidavano in carcere, erano i più coraggiosi di noi” di Manuela D’Alessandro agi.it, 16 ottobre 2022 Carmelo Musumeci sa cosa significa pensare di togliersi la vita in cella. Sa della notte senza ritorno che ha attraversato la mente dei 70 carcerati che dall’inizio del 2022 lo hanno fatto, un numero ormai vicino al macabro record di morti in un anno dall’inizio del millennio. E crede che, almeno tra chi è destinato a un fine pena mai, “sono i più forti a suicidarsi, i più deboli invece sopravvivono non riuscendo a sottrarsi alla morte al rallentatore che li aspetta da reclusi”. Lui in carcere avrebbe dovuto starci fino al ‘31/9999’, cioè per sempre. Poi una lunga battaglia, con l’aiuto della Corte europea dei diritti dell’Uomo e della Consulta, l’ha fatto diventare il primo ergastolano ostativo a diventare un uomo libero. “Allarme rosso!” - Ricorda il grido “allarme rosso!” delle guardie quando qualcuno provava a farla finita. “Io ho passato un quarto di secolo al 41 bis, quindi in cella stavo da solo - racconta all’AGI - ma ho conosciuto tanti compagni che si sono tolti la vita e posso dire, per la mia esperienza, che chi l’ha fatto spesso non lo diceva, mentre chi lo annunciava poi non lo faceva”. Torna a quella volta, a Spoleto: “Era notte e sentii un forte rumore accanto alla mia cella. Pensai fosse il giovane ergastolano vicino a me che faceva casino ma le guardie iniziarono a gridare ‘Allarme rosso!’, così aprii il piccolo foro che c’è sulla porta blindata, grande giusto per far passare un piatto col cibo, e chiesi: ‘Ivan, ci sei?’. ‘Sì, ci sono, non sono io. È Nicola che si è impiccato’, rispose”. Allora, prosegue, i detenuti cominciarono a urlare, come accade in questi casi. “Gridavamo ai dottori e agli infermieri di fare presto. Dallo spioncino vidi Nicola sulla barella: il segno sul collo, gli occhi chiusi, il viso da morto ed ero in dubbio se augurargli di salvarsi o di andarsene. Mi sono immedesimato e ho pensato che, se mi avessero salvato, forse mi sarei arrabbiato ma poi pensai che qualche giorno prima avevo visto Nicola in sala colloqui parlare con la madre e la figlia e mi convinsi che si doveva salvare per l’amore della famiglia”. “In carcere non si ragiona come uomini” - Nicola si salvò ed è ancora in carcere. Il tema del suicidio viene affrontato spesso tra i carcerati. “I giovani ergastolani ne parlano molto, sostengono che invece che invecchiare lì vogliano uccidersi. Penso che il suicidio sia una forma di lotta, io ho sempre difeso chi lo fa e chi ci prova. Un cappio al collo è un modo per attirare l’attenzione. Il carcere è un luogo dove non si ragiona come uomini”. Ricorda un altro compagno all’Asinara che “non aveva mai dato segni di debolezza e poi lo fece”. Secondo Musumeci, diventato un testimonial della legalità coi suoi libri e nei dibattiti in cui si confronta anche coi magistrati, “di tanti suicidi non si sa nulla. Molti sono extracomunitari entrati con un falso nome, non si sa nemmeno come si chiamino, altri non hanno famiglie che vogliano sapere come sono morti. E poi ci sono i casi dubbi, persone che muoiono prendendo farmaci o inalando gas: se non ci sono pm illuminati si conclude per la morte naturale. La spazzatura va tenuta sotto al tappeto”. Pone una domanda sui tanti suicidi di quest’anno: “Com’è possibile che accada nel posto in cui in teoria sei più controllato? Ora si avvicina il Natale, un altro periodo, come l’estate, in cui la nostalgia per le persone care può acuire il disagio. Basta poco a volte per salvarsi. La socialità. Una telefonata, una chiacchierata con un compagno. Il carcere dovrebbe toglierti la libertà, non la voglia di vivere”. I nati carcerati di Sabrina Pisu L’Espresso, 16 ottobre 2022 Il destino segnato, il tempo sospeso, la voglia di riscatto, gli errori commessi e la paura di tornare alla vita di sempre. Viaggio nell’istituto minorile di Palermo, che vorrebbe non essere solo prigione. L’eco di pugni che battono su porte di metallo e grida spezza il canto monotono delle cicale: è il suono dei giovani detenuti che raggiunge il giardino nel complesso che ospita il carcere minorile Malaspina di Palermo. E l’immagine racconta la frattura che divide, come una ferita, il dentro e il fuori. A fare strada è Clara Pangaro, da trent’anni al Malaspina, da educatrice e negli ultimi quattro da direttrice dell’Istituto penale minorile che è solo maschile e ospita ventisei ragazzi dai 14 ai 25 anni. Hanno commesso soprattutto reati contro il patrimonio, (furti, rapine, spaccio di droga) e qualcuno anche omicidi. Nel lungo corridoio, i colori di disegni e murales non nascondono muffa e pareti scrostate. “Cerchiamo di organizzare tante attività affinché il tempo in carcere non sia sospeso, ma di lavoro e formazione, e revisione delle scelte, fatte a volte senza consapevolezza”, spiega la direttrice. Dopo minuziosi controlli, chiavi grandi quanto mani aprono l’enorme cancello di sicurezza. A varcarlo doveva esserci anche la celebre fotoreporter Letizia Battaglia, scomparsa il 13 aprile scorso. La figlia, e fotografa, Shobha stringe tra le mani, come un testimone, la macchina fotografica della madre: è la sua presenza qui. Quando si entra nell’area detentiva, la libertà è a un passo, ma inarrivabile. Quando la porta con sbarre di acciaio si apre, quelle mani strette nei pugni rivelano un volto. I ragazzi cercano i nostri occhi, si avvicinano, ridono e poi si allontanano restando uniti come uno sciame di api, hanno magliette firmate e tatuaggi che sono manifesti su carne di cose vissute o del credo con cui viverle. Alcuni hanno accettato l’incontro con L’Espresso e scelgono nomi di fantasia. “La mia testa se resto qui se la mangia il carcere”: Gabriele è seduto sulla finestra e guarda oltre le grate che miniaturizzano l’orizzonte, negli occhi si leggono le ombre e le luci che lo abitano. Ha 18 anni, viene dalla Sicilia nord-orientale, ed è da un anno al Malaspina per rapina aggravata: “Ero diventato una vittima del sistema di spaccio che dove vivo è gestito da alcune famiglie, io prendevo 50 euro, chi gestiva lo spaccio, e non era neanche il più grande, anche tremila al giorno. Facevo lo “scopino”, spacciavo e mi lasciavano fumare il crack tutto il giorno in una casa chiusa”. La droga all’inizio era un gioco: “Non conoscevo i rischi, sentivo di avere potere, volevo essere come gli altri che grazie allo spaccio potevano comprarsi bei vestiti e tutto quello che desideravano. Chi aveva un lavoro onesto era visto male. Un’idea distorta, l’ho compreso qui”. La dipendenza psichica era dietro l’angolo: “Fermavo la gente per strada con un coltello per rapinarla, i soldi non mi bastavano mai, la droga mi ha fatto perdere le staffe”. Gabriele è cresciuto con sua madre e i nonni, il padre non c’è mai stato: “La mia infanzia è diventata brutta a sette anni, quando i nonni sono morti per un tumore”. A casa, quando uscirà, lo aspetta un figlio che è appena nato. Dovrà cercare, lui che è poco più che un bambino, di essere il padre che non ha avuto: “Sono cresciuto in mezzo alla strada senza una figura paterna che ti insegna a essere un uomo giorno dopo giorno. Ho spacciato perché non sapevo come guadagnare i soldi e nessuno mi dava un lavoro. Lo Stato ci lascia commettere reati, fino a quando arriva quello grave, perché non ci fermano e aiutano prima? Se mi ributtano per strada a 22 anni, senza aiuto, cosa farò? Chiedo la libertà vigilata, e, con un supporto psicologico fuori, la possibilità di dimostrare che sono cambiato, altrimenti impazzisco”. Quando don Carlo Cianciabella, parroco al Malaspina da un anno e per sua richiesta, arriva e apre la piccola cappella, Gabriele lo segue, lo abbraccia e, seduto, tiene a lungo la testa appoggiata sul suo braccio. Si stringono al cappellano anche molti altri, dopo essersi fatti il segno della croce e aver baciato la statua della Madonna all’ingresso. Li segue l’educatrice Maria Mercadante: “Avere la loro fiducia è la cosa più difficile. In passato sono stati traditi e cercano relazioni autentiche, coerenza e regole mai avute, anche se poi le rigettano, per provocare”. Qui dentro giudizi e certezze si azzerano ogni istante. “Non sono mostri, è la società che a volte è un mostro e crea ghetti senza Stato e istituzioni”, dice don Carlo Cianciabella. “Sono solo ragazzi, spesso più maturi di quelli della loro età perché arrivano da contesti disagiati in cui hanno imparato a difendersi, meritano attenzione perché se sono qui, non è solo colpa loro. È come se fossero nati carcerati e la parte sana della società ha un debito nei loro confronti”. “Nati carcerati”, sono in molti ad aver conosciuto il padre in prigione. Un destino che si ripete anche per Carlo, che scrive il nome di suo figlio, che ha appena sei mesi, su un foglio di carta e lo scarabocchia con dei cuori. Ha 23 anni, viene dal quartiere Zen di Palermo dove “i bambini devono saper sopravvivere nella strada”. Nel futuro si vede un buon padre, lui che il suo lo ha visto solo dietro le sbarre: “Ora mia moglie mi porta mio figlio ma non voglio che lui faccia la stessa fine”. Ha sei anni e otto mesi davanti per una rapina commessa a 14 anni: “Del reato sono solamente io il responsabile, ho fatto quello che ho visto fare in alcuni film. Non ho avuto paura perché chi rapina è visto come uno tosto e volevo esserlo anche io e fare molti soldi, come gli altri”. È stato facile reperire l’arma: “Dove vivo basta pagare. Al massimo 400 euro”. A chiudere e aprire i cancelli, della “gabbia”, come i ragazzi chiamano questo posto , ci sono gli agenti di Polizia penitenziaria. “Cerchiamo di far comprendere il valore delle regole a ragazzi cresciuti in contesti senza legalità e spesso di abbandono familiare”, spiega Francesco Cerami, dirigente della Penitenziaria. La maggior parte di questi giovani, alcuni a 17 anni, riceve in carcere, per la prima volta cure mediche e dentistiche. “Non possiamo fare miracoli, i ragazzi quando escono ritornano in zone in cui lo Stato manca ed è sostituito dal potere criminale. È anche una scelta politica”. Le giornate sono descritte senza fine, con due ore d’aria la mattina e due il pomeriggio, e il diritto a sei colloqui al mese con la famiglia: “Sono grato delle attività che ci fanno fare, ma alcuni giorni nella stanza restiamo anche venti ore, giochiamo a calcio solamente una volta a settimana”, racconta Messak, 19 anni, che sogna, o sognava, di fare il calciatore, e dice di essere bravo: “Ma quando uscirò avrò trent’anni, non sarà più possibile”. Anche lui ha conosciuto suo padre in galera: “Sono cresciuto neí colloqui del carcere. Lo vedevo come un idolo, mi vantavo con gli altri amici che avevano anche loro i padri in prigione. Non do la colpa a lui per i reati che ho commesso, però se uno ti dice di non fare una cosa e poi la fa, non è un esempio”. Messak viene da Pesaro dov’è nato da una famiglia di origine marocchina e spera di diventare cittadino italiano. È passato in nove istituti prima di arrivare a Palermo, alle spalle ha 49 reati commessi da minorenne: “L’ho fatto per rabbia, sofferenza, per necessità di soldi per me e la mia famiglia”. La violenza come abitudine: “Picchiavo qualcuno e non avevo più emozioni, paura. Ora ho capito, mi addormento con il senso di colpa”. Qui ha la possibilità di studiare: “Prima nelle scuole ci andavo solo per spacciare”. La scuola dentro il Malaspina cerca di farsi inchiostro per storie nuove. “Le classi sono miste, i ragazzi hanno un diverso livello, alcuni imparano qui, a 14 anni, a leggere e scrivere. Si vergognano per questo”, racconta l’insegnante d’italiano Valeria Pirrone, arrivata nel 2012. “La didattica tradizionale resta fuori, qui serve amore. Quando i ragazzi non venivano in aula li andavo a prendere nelle stanze”, aggiunge Tiziana Basile, per tutti la “maestra Tiziana” che al Malaspina ha insegnato per trent’anni: “Sono ragazzi con una sensibilità incredibile, nessuno crede al bello che hanno dentro”. È lei che ha dipinto con i giovani tutto il carcere, rifatto il murale di Banksy con la bambina e il palloncino rosso a cuore, trasformato le pareti in lavagne permanenti per parlare di educazione civica, Europa e legalità, e che nell’aula ricreativa ha fatto scrivere sui muri quali sono i doveri e i diritti. I diritti, come quello all’infanzia negato a molti di loro. Ora vorrebbero muovere con una diversa consapevolezza i fili della loro esistenza, come muovono quelli dei pupi siciliani, le marionette antimafia del laboratorio iniziato nel 2018. “Sono fragili e con una voglia di fare e un talento incredibile”, dice l’ideatore Angelo Sicilia. “Il progetto prevede che alcuni ragazzi, una volta usciti lavorino con noi, purtroppo qualcuno è tornato qui, non riusciamo a fare concorrenza economica al welfare mafioso”. Ragazzi con un’energia difficile da contenere, che vorrebbero fare più sport, nuotare o imparare a farlo nella piscina del Malaspina, che però non è agibile. “Non riusciamo da alcuni anni ad avviare i lavori a causa della pandemia e della difficile e costosa manutenzione che richiede una piscina di questo tipo”, dice la direttrice Clara Pangaro. Messak indica la vasca: “È abbandonata. Sono disponibile come volontario per rimetterla a posto”. “Anche io”, dice Silver, 22 anni, di Mazara del Vallo. Lui ha già scontato una condanna di dieci anni: “Una bravata a 15 anni, un incidente con l’auto in cui è morta una persona”, racconta. “Bisogna togliere la droga dalla strada. Quella sintetica è ovunque, con cinque euro un bambino compra una dose di crack. Noi abbiamo sbagliato ma questo non si può accettare”. Per don Carlo Cianciabella è necessario “rompere i muri” e concepire un carcere con le porte aperte: “Serve uno scambio maggiore tra dentro e fuori. Il muro alto fa sentire al sicuro chi non si sente responsabile, chi guarda dall’alto in basso questi ragazzi che si incattiviscono perché si sentono messi ancora ai margini. Ci sono percentuali alte di suicidi o tentati suicidi negli istituti minorili. Il sistema giudiziario si dovrebbe interrogare molto a livello nazionale”. “Serve una trasformazione del sistema e della società, e questo richiede un cambio culturale”, sottolinea il vicedirettore del Malaspina, Salvatore Pennino. “Servono ingenti investimenti nel sociale per toglierli dalla strada e più risorse per offrire opportunità adeguate una volta usciti”, aggiunge Clara Pangaro, “qui piantiamo semi, sperando che nascano fiori”. “Fiori dal nulla”, “diamanti chiusi in una vetrina”: sono stati i giovani detenuti a definirsi così in una canzone scritta in un progetto per mettere in musica le loro urla. Messak appoggia la testa al cancello, guarda degli adolescenti in cortile nell’ora d’aria: “Le carceri minorili devono esistere?”, si chiede. “I minorenni non devono arrivare a fare reati, ci sono tanti bambini abbandonati là fuori, come lo ero io. Noi siamo considerati gli ultimi, siamo invisibili. Ma noi vogliamo essere visti, vogliamo esistere”. Giustizia, Berlusconi insiste su Casellati. Meloni: “Non sono ricattabile” Il Fatto Quotidiano, 16 ottobre 2022 Silvio Berlusconi non molla. Umiliato dalla due giorni di elezioni dei presidenti delle Camere, vuole il ministero della Giustizia per Forza Italia, anche a costo di tirare la corda con Giorgia Meloni e rendere pubblico, nella maniera più fragorosa, il pessimo stato della coalizione. Provocando però la replica di lei, che in serata sbotta: “Non sono ricattabile”. Il casus belli un foglio pieno di appunti scritti a mano che Silvio, due giorni fa, porgeva a favore di teleobiettivi mentre sedeva sul suo scranno in Senato. Inclinato il giusto e adeguatamente zoommato, il pezzo di carta (isolato per prima da Repubblica) restituisce parole impietose: “Giorgia Meloni, un comportamento 1) supponente 2) prepotente 3) arrogante 4) offensivo 5) ridicolo (poi cancellato con un rigo, ndr). Nessuna disponibilità ai cambiamenti, è una con cui non si può andare d’accordo”. Meloni, dopo l’ennesima giornata di tensioni, si sfoga con toni da rottura: “All’appunto di Berlusconi mancava un punto: che non sono ricattabile”. Non è servita quindi la sgangherata smentita per conto terzi, ovvero di Ignazio La Russa, sicuro che quel foglio fosse “un fake”: “Ma non posso dirlo io, lo deve dire Berlusconi”. Libertà da neo presidente del Senato peraltro per nulla apprezzate dal dem Andrea Orlando: “Ma sbaglio io o è un po’ improprio che il garante di tutti i senatori entri così in una vicenda tra esponenti politici di una parte? Se inizia a dire ai suoi (e non uno qualunque) cosa devono fare, che farà con quelli dell’opposizione (compresi quei furbacchioni che lo hanno votato)?”. La sostanza però non cambia e gli appunti di Berlusconi testimoniano un umore nero nei confronti della leader di FdI. Ieri Silvio si è chiuso in un insolito silenzio. Non si è nemmeno congratulato con Lorenzo Fontana eletto presidente della Camera. Dall’altra parte, Meloni ha lavorato tutto il giorno alla Camera, ma davanti ai suoi fedelissimi ha dato prova di non voler cedere: “Su La Russa, Berlusconi ci ha tradito”. E quindi le trattative non possono riprendere, dicono da FdI: interrotte. Deve essere lui a tornare a Canossa per un chiarimento. Prima non si può parlare di alcun ministero, nemmeno quello della Giustizia. Il riferimento di Meloni alla “non ricattabilità” riguarda il governo: Berlusconi nelle ultime ore ha fatto trapelare lo scambio ministeri-fiducia balenando l’ipotesi dell’appoggio esterno o di andare alle consultazioni da solo. D’altronde Berlusconi va dicendo: “Dovrà passare da me”. La strategia di Meloni però è anche quella di spaccare FI in due, aprendo una linea di comunicazione con Tajani, l’anti-Ronzulli. I guai sono iniziati giovedì mattina, quando Meloni ha chiesto a B. nomi condivisi e di “alto profilo” per i ministeri. Categorie in cui, secondo Meloni, non rientra Ronzulli. Dopo il pasticcio su La Russa, giovedì sera Silvio ha riunito i senatori annunciando che FI avrebbe votato Fontana, senza però stemperare i toni rispetto all’alleata. Anzi: seduta accanto a Berlusconi c’era Maria Elisabetta Alberti Casellati. Di fronte a B., un foglio con le caselle dei ministeri chiesti da FI in cui alla Giustizia era segnata proprio la ex presidente del Senato. Il niet di Meloni non è personale: non ha nulla contro Casellati, papabile per altri ministeri. Ma per il Guardasigilli, la Meloni ha ben altri progetti. Non vuole assecondare l’ex Cav, il quale invece insisterà anche nei prossimi giorni: “L’unico modo per ricucire - è il senso dei suoi ragionamenti - è che Giorgia ci dia la Giustizia”. Sul tavolo rimane questo, dato ormai per insuperabile il veto meloniano su Ronzulli. Ma per Berlusconi non sarà facile spuntarla. Per via Arenula, Giorgia Meloni ha in mente da tempo Carlo Nordio. Anche la Lega ambiva alla Giustizia con Giulia Bongiorno, ma Salvini dovrebbe essere accontentato altrove e il quieto vivere raggiunto con FdI suggerisce di non impuntarsi. Tutt’altra aria rispetto a quella che tira in FI. Bianco: “Modificare l’abuso d’ufficio per proteggere i sindaci dalla gogna mediatica” di Davide Varì Il Dubbio, 16 ottobre 2022 Il presidente del Consiglio nazionale dell’Anci: “Avere le mani legate per norme farraginose porta alla paralisi”. “L’ho detto tante volte e continuerò a ripeterlo. Con Anci da tempo chiediamo una riforma dell’abuso d’ufficio che protegga i sindaci quotidianamente esposti alla gogna mediatica quando finiscono nel registro degli indagati e che poi, ricevuta l’assoluzione, ritrovano la stessa notizia relegata in un trafiletto in ultima pagina. Lungi dai sindaci e dall’Anci mettere un bavaglio alla stampa ma la norma sull’abuso d’ ufficio va rivista per eliminare queste storture e auspichiamo che il prossimo governo ci ascolti”. A dirlo, a margine del panel sul potere giudiziario organizzato al Festival delle città di Ali in corso a Roma, è Enzo Bianco, presidente del Consiglio nazionale dell’Anci. “Negli ultimi anni la responsabilità degli amministratori locali si è accresciuta nella percezione dell’opinione pubblica, con conseguente stillicidio di indagini, spesso assurde, che ne minano la credibilità e il lavoro. Chi si appropria delle risorse pubbliche deve pagare. E duramente. Ma non è tollerabile il pubblico ludibrio quando nel 97% dei casi l’azione penale si risolve in un nulla di fatto”. Dalla sicurezza urbana alla Protezione civile, dal contrasto all’evasione fino all’evasione fiscale e alla lotta alle ludopatie, “i sindaci hanno competenza o responsabilità. Una responsabilità divisa con le altre istituzioni dello Stato che però sovraespone direttamente i primi cittadini nei confronti della giustizia e dell’opinione pubblica”, ha continuato. “Chiediamo solo che gli amministratori locali siano messi in condizione di poter lavorare serenamente. Avere le mani legate per norme farraginose porta alla paralisi dei provvedimenti e alla disaffezione a impegnarsi nel “mestiere” di sindaco. Non chiediamo un salvacondotto. Chiediamo solo di essere messi nelle condizioni di svolgere il nostro lavoro al servizio delle comunità”. Rocco Femia, ostaggio della giustizia per 11 anni: “Un teorema giudiziario…” di Simona Musco Il Dubbio, 16 ottobre 2022 La Cassazione assolve l’ex sindaco di Marina di Gioiosa, di professione professore, che ha subito in tutto otto gradi di giudizio, tra un’accusa e l’altra. Undici anni di vita in sospeso. Undici anni trascorsi tra carceri e tribunali. Poi il colpo di spugna definitivo: Rocco Femia era ed è un uomo innocente. Lo era per quanto riguarda l’accusa di aver fatto parte di una cosca di ‘ndrangheta, lo era nella seconda versione di quell’accusa - il concorso esterno - e lo era anche per quanto riguarda quella manciata di palme piantate lungo il corso della città di cui è stato sindaco, piante che avrebbe piazzato lì solo per aiutare i clan. Nulla di tutto ciò è accaduto, ora è un dato di fatto, un dato che finirà negli archivi giudiziari. L’ultimo capitolo di questa storia allucinante è stato scritto giovedì, quando la Cassazione ha pronunciato l’ennesima sentenza nella vita dell’ex sindaco di Marina di Gioiosa, di professione professore, che ha subito in tutto otto gradi di giudizio, tra un’accusa e l’altra. Assoluzione che è arrivata anche per l’ex assessore Vincenzo Ieraci, cancellando dunque le precedenti sentenze con le quali erano stati condannati a tre anni di carcere. Anche questa volta il fatto non sussiste. E il fatto è un’accusa di abuso d’ufficio aggravato, stralciata dal processo principale per associazione mafiosa, che gli è costato cinque anni e 10 giorni di custodia cautelare in carcere, salvo poi vedere riconosciuta la sua innocenza. Tutto ruota attorno ad una gara d’appalto per la fornitura di 40 palme: sindaco e assessore, secondo l’accusa, avrebbero agevolato una ditta in odor di ‘ndrangheta dando in subappalto la piantumazione delle palme sul corso principale. Ma non era vero nulla: agli atti del Comune non c’era alcuna delibera di subappalto, né una determina da parte dell’ufficio tecnico. Ma soprattutto, non c’era agli atti la fattura da 1500 euro che la procura sosteneva fosse stata pagata. La difesa - rappresentata dagli avvocati Eugenio Minniti e Marco Tullio Martino - ha portato in aula, sin dal primo grado, il responsabile del procedimento, che ha spiegato analiticamente l’iter del procedimento. Facendo notare che la ditta, poiché in ritardo con la consegna dei lavori, era stata anche costretta a pagare una multa da 700 euro. Nonostante questo, in primo grado sindaco e assessore, assieme agli imprenditori coinvolti, sono stati condannati a tre anni con l’aggravante del metodo mafioso. Condanna ribadita dalla stessa Corte d’Appello che, dopo un calvario giudiziario dolorosissimo, aveva riconosciuto l’innocenza di Femia nel troncone principale del processo “Circolo formato”. In Cassazione, però, il procuratore generale ha chiesto l’assoluzione perché il fatto non sussiste, evidenziando l’assoluta inconsistenza dell’accusa. “Si è chiusa definitivamente questa tragedia architettata a tavolino - spiega Femia al Dubbio -. C’è grande soddisfazione, ma anche grande rabbia. Sono passati 11 anni per avere giustizia, anni in cui ho gridato la mia innocenza, dopo una vita distrutta, una famiglia che ha sofferto come non auguro a nessuno e una comunità che ha dovuto subire tutto questo. Ho dovuto aspettare tanto per vedere nei fatti che ciò che dicevo era vero. Erano gli altri, quelli che rappresentavano la giustizia, ad infangarmi. Ma c’è sempre un giudice a Berlino”. Femia, finalmente uscito dal girone infernale della giustizia, chiederà ora il conto allo Stato per i cinque anni trascorsi dietro le sbarre. “Sono pronto a ripartire. Me lo merito”, dice sorridendo al telefono ancora emozionato. “La Corte di Cassazione, nell’annullare senza rinvio la decisione della Corte d’Appello di Reggio Calabria - commenta al Dubbio l’avvocato Minniti - ha ritenuto l’assoluta legittimità dell’operato del professore Femia e della sua amministrazione, che ha guidato dal 2008 al 2011 (fino all’arresto, ndr). Con questa sentenza, si conclude definitivamente il calvario giudiziario di quest’uomo, che da giovedì, finalmente, torna ad essere per tutti quello che è sempre stato: un cittadino senza alcuna macchia”. Il troncone principale del processo si era chiuso il 10 marzo del 2021, con l’assoluzione nell’appello bis. Sentenza che la procura generale non ha impugnato, confermando, dunque, che quello ai suoi danni è stato un vero e proprio errore giudiziario. Arrestato nel 2011 con l’operazione che svelò gli interessi della cosca Mazzaferro sulle elezioni amministrative del 2008, Femia fu condannato sia in primo grado sia in appello a dieci anni di reclusione per associazione mafiosa, indicato dai giudici come “partecipe consapevole” di tutte le dinamiche della cosca che ne avrebbe supportato l’elezione. Una certezza prima ritenuta inossidabile e che ha iniziato a vacillare in Cassazione, nel 2018, quando i giudici, escludendo categoricamente che l’ex sindaco potesse ritenersi un affiliato al clan, rispedirono gli atti alla Corte d’Appello, invitando i colleghi a capire se fosse quantomeno un concorrente esterno alla cosca e se, dunque, ci fosse stato un patto tra le due parti. Ma nella sentenza d’appello anche quell’accusa si è sbriciolata: i giudici, infatti, hanno contestato la presenza di “un quadro probatorio del tutto privo di significatività ai fini del giudizio di colpevolezza dell’imputato per una contestazione di estrema gravità, quale quella di concorso esterno in associazione per delinquere di stampo mafioso”. Insomma, il processo non avrebbe fatto emergere alcuna prova concreta a carico dell’ex sindaco. Anzi, sarebbero state diverse le evidenze di come l’amministrazione Femia, stroncata dopo tre anni con l’operazione che fece finire in carcere anche tre assessori (poi tutti assolti), si fosse impegnata nel senso opposto a quello evidenziato dall’accusa. I giudici hanno infatti valorizzato “una serie di attività dell’amministrazione guidata dal sindaco Femia Rocco (documentate dalla difesa e non contrastate da alcuna emergenza processuale di segno contrario) finalizzate a contrastare il fenomeno mafioso ed improntate al rispetto della legge, del tutto confliggenti con gli interessi del gruppo criminale”. Ora è una verità per tutti. Tutti i punti oscuri che rimangono sul caso di Hasib di Giovanni Tizian e Nello Trocchia Il Domani, 16 ottobre 2022 Deputati e senatori si sono insediati, il nuovo Parlamento è fatto, ma il deputato Riccardo Magi ha chiuso la precedente legislatura aspettando invano una risposta del governo sul caso di Hasib Omerovic, l’uomo di origine rom, sordomuto, precipitato dalla finestra dell’appartamento della casa popolare nella periferia ovest di Roma, dopo una perquisizione senza mandato da parte di quattro agenti del commissariato di zona. La ministra dell’Interno ancora in carica, Luciana Lamorgese, ha preferito il silenzio e non ha fornito alcuna spiegazione sui fatti. Ma cosa sappiamo del caso Omerovic e a che punto sono le indagini della procura di Roma? Il caso Omerovic Lo scorso 25 luglio quattro poliziotti - tre uomini e una donna- sono entrati nella casa di Hasib nel quartiere di Primavalle, area periferica nel quadrante ovest della capitale, senza disporre di un mandato della magistratura. La visita degli agenti mirava all’identificazione dell’uomo. Non si sono fermati sull’uscio, ma sono entrati senza autorizzazione dell’autorità giudiziaria all’interno dell’abitazione. Hasib in quel momento era in casa solo con la sorella, pure lei affetta da disabilità, unica testimone dell’accaduto. La motivazione della visita a casa di Hasib potrebbe essere stata un post scritto su una pagina social del quartiere: un utente ha pubblicato la foto di Hasib indicandolo come un presunto molestatore e invocando un intervento. Il post è stato poi rimosso. Il controllo Di certo sull’uomo non ci sono precedenti di alcun genere. Hasib durante quel controllo illegittimo precipita dalla finestra, è stato in coma per settimane e ancora oggi non è in grado di comunicare. Si trova ancora in ospedale, al Policlinico Gemelli di Roma. Per la sorella di Hasib non ci sono dubbi, la colpa sarebbe dei poliziotti che dice che lo avrebbero picchiato e spinto. “Lo hanno picchiato con il bastone, hanno iniziato a dargli i calci quando è caduto, Hasib si è chiuso in camera, ma i poliziotti hanno rotto la porta, gli hanno dato pugni e calci per poi buttarlo giù”. I buchi neri nella storia sono diversi. A partire da cosa sia realmente successo all’interno dell’abitazione, ma non solo. Il primo è relativo alle ragioni di quel controllo illegittimo, guidato da un agente più alto in grado, di nome Andrea, in passato alla squadra mobile e poi a lavoro nei commissariati di zona. Perché non identificarlo in strada? Perché non aprire un fascicolo e ascoltare la donna del post? Perché non avvisare la magistratura? Sulle modalità di quell’accesso si è consumato uno scontro tra procura e vertici del commissariato che a seguito delle interlocuzioni con i pubblici ministeri sono stati trasferiti, commissario e vice, per volere del questore. All’interno del commissariato operano ancora i tre agenti mentre un quarto, di nome Fabrizio, ha chiesto e ottenuto il trasferimento. Il secondo punto oscuro riguarda un fatto sollevato durante la conferenza stampa indetta, qualche giorno fa, da familiari e avvocati di Hasib. Alla famiglia sono stati riconsegnati abiti diversi da quelli che indossava l’uomo quando è precipitato sul selciato. Il terzo punto da chiarire è relativo a un video in possesso della sorella minore di Hasib, già consegnato in procura, nel quale la giovane con i genitori si reca, all’indomani dell’accaduto, in commissariato per chiedere spiegazioni. Un poliziotto, potrebbe essere proprio il più esperto, le mostra due foto di Hasib e parla di un terzo scatto che non può esibire perché “macabro”. Chi era quel poliziotto? E perché ha fotografato un soggetto incensurato dopo essere entrato, senza mandato, in casa sua con altri tre agenti? Il cerchio sembra chiudersi attorno al poliziotto più alto in grado che ha guidato quel controllo. Potrebbe aver picchiato Hasib Omerovic. E il ragazzo, sordomuto, terrorizzato dall’incursione e dalle botte, per fuggire si sarebbe lanciato dalla finestra del suo appartamento. Questa prima ricostruzione è una pista che ha bisogno però di riscontri che potrebbero arrivare dall’interrogatorio degli altri tre poliziotti. È l’unica strada per loro per alleggerire la loro posizione, dato che sono tutti e quattro indagati per falso e tentato omicidio. Caso Hasib: “Facciamo luce sulla verità” di Eleonora Martini Il Manifesto, 16 ottobre 2022 Una fiaccolata al Campidoglio. Ancora mistero su quanto accaduto al giovane rom precipitato dalla finestra. “Su quanto accaduto a Hasib ci sono ancora troppo punti oscuri ed è per questo che siamo qui, insieme alla sua famiglia, per chiedere che venga accertata la verità”. A parlare è Carlo Stasolla dell’associazione 21 Luglio che insieme ai genitori e alla sorella d Hasib, al deputato di +Europa Riccardo Magi e a una serie di associazioni ha indetto ieri una fiaccolata davanti al Campidoglio per chiedere di fare finalmente luce su quanto accaduto al giovane rom. Sono passati infatti due mesi e mezzo dalla mattina del 25 luglio quando Hasib è precipitato dalla finestra della sua abitazione a Primavalle dove in quel momento si trovavano anche quattro agenti di polizia in borghese entrati nell’appartamento senza un mandato. Due mesi e mezzo senza che l’accertamento della verità su quanto può essere accaduto abbia fatto concreti passi in avanti. Anzi, prosegue Stasolla, “non si capisce perché solo ora è stato sequestrato l’appartamento dove è avvenuto un tentato omicidio o perché dopo il ricovero in ospedale di Hasib ai familiari sono stati riconsegnati indumenti diversi da quelli che indossava quando è caduto dalla finestra”. Hasib, sordo dalla nascita, dal 25 luglio è ricoverato all’ospedale Gemelli. “Le sue condizioni sono gravi e i medici hanno detto che non si riprenderà prima di molto tempo”, ha spiegato ieri Fatima Omerovic, la madre. La famiglia ha ottenuto da poco una nuova abitazione ma non si sente al sicuro e vorrebbe trovare una nuova sistemazione. Va detto che il silenzio mostrato finora dal Viminale non aiuta certo nella ricerca della verità e un’interrogazione parlamentare presentata da Magi non ha avuto risposta: “Ho pronta una nuova interrogazione da presentare al nuovo ministro dell’Interno”, spiega il deputato di +Europa. “Si chiede di sapere che tipo di interventi sono stati fatti fino a oggi, se c’è stata un’indagine interna e se sono stati adottati dei provvedimenti disciplinari”. Voglia di mafia: quando i clan diventano agenzie di servizi di Sandro De Riccardis, Dario del Porto, Salvo Palazzolo La Repubblica, 16 ottobre 2022 A Palermo, un candidato alle ultime Regionali ha fatto contattare da un intermediario un boss scarcerato, per ottenere un pacchetto di voti. A Napoli, la camorra si occupa della distribuzione degli alloggi popolari. A Milano, i padrini offrono false fatture a imprenditori che vogliono evadere il Fisco. Storie dell’Italia che non disdegna di parlare con le mafie, oggi attente a riconquistare consenso e territori. Si allunga giorno dopo giorno la lista di insospettabili alla ricerca delle mafie, che sembrano ormai diventate un’agenzia di servizi. Per commercianti, imprenditori, professionisti. E anche politici in cerca di voti facili. L’ultimo a farsi avanti in Sicilia è stato Salvatore Ferrigno, candidato in corsa alle Regionali siciliane con i Popolari Autonomisti di Raffaele Lombardo, lista che sosteneva il candidato del centrodestra Renato Schifani. Per prudenza ha mandato avanti una fidata intermediaria per contattare il capomafia di Carini Giuseppe Lo Duca, boss della vecchia guardia tornato in libertà dopo avere scontato il suo debito con la giustizia. L’ennesima storia che racconta quella drammatica voglia di mafia che sembra impazzare da Sud a Nord, nell’Italia dove le organizzazioni criminali vengono colpite da continui arresti e processi, ma sembra che per un pezzo di società non sia affatto un problema. Tutt’altro. “Una persona educata” - A Palermo, un commerciante si rivolse ai mafiosi di Brancaccio perché aveva subito delle rapine. Invece di presentarsi alla stazione dei carabinieri o in commissariato preferì cercare gli uomini di Cosa nostra. Che aprirono subito un’indagine e individuarono i responsabili: vennero picchiati a sangue. E la refurtiva restituita. Un altro commerciante palermitano voleva invece recuperare dei crediti, un altro ancora puntava al monopolio della vendita di una marca di jeans nel suo quartiere. A tutto pensa Cosa nostra, solerte agenzia di servizi. E allora il pizzo non è più una tassa imposta, è invece il pagamento di un servizio richiesto. Perfetta rappresentazione di quel paradigma che lo storico Salvatore Lupo ha chiamato “bisogno di mafia”. Bisogna rileggere le parole di certi commercianti di Palermo per capire davvero. Giuseppe Amato, titolare di un famoso ristorante nel centro storico, si lanciava in grandi lodi per l’amico boss Giuseppe Calvaruso, suo socio occulto: “Tu hai avuto quello che hai avuto. Diciamo che tu sei mancato, le persone come te mancano, Peppe. Le persone perbene come te mancano. Capito?”. Parola accorate dopo la scarcerazione di Calvaruso. Il giovane padrino era compiaciuto per tante lodi: “E lo so”. Amato ribadiva: “Le persone come te mancano. A noi ci sei mancato... Io, mio fratello... siamo sbandati... ora ci sei tu di nuovo... abbiamo bisogno perché sei una persona educata, una persona di fondamentale... di etica, di certi principi... Questo è il discorso. E purtroppo... bisogna sempre andare a migliorare nella vita. E gli amici ci vogliono, Peppe”. Parole che valgono più di un trattato di sociologia criminale. Il boss Calvaruso, “una persona educata, di certi principi”. Sentite cosa diceva il fratello di Giuseppe Amato, Benedetto, finito pure lui indagato per intestazione fittizia dalla procura di Palermo: “Peppe, quello che vogliamo fare insieme a te casomai è creare veramente un impero. E poi consolidarlo, e campare di rendita”. Diceva ancora Benedetto Amato: “Come si dice... squadra che vince non si cambia. Praticamente noi dovremmo conservare i soldi, di questa miniera che ci ha lasciato mio nonno e praticamente se è il caso costruire altre situazioni... e questo mai abbandonarlo”. Per la mafia che prova in tutti i modi a riorganizzarsi, le parole di chi la cerca sono un moltiplicatore di crescita, purtroppo. Ecco come parlava Calvaruso dopo tutte quelle lodi dei suoi amici commercianti: “È venuto adesso il momento di fare tesoro, anche e soprattutto degli errori... e di mettere a frutto i sacrifici... Appena scendo ci facciamo una bella chiacchierata, tra fratelli però”. Era il 2017, Calvaruso era ancora al soggiorno obbligato a Riccione, ma presto sarebbe tornato a Palermo. E puntava a riprendersi un pezzo di Cosa nostra: l’anno successivo, sarebbe diventato il reggente del potente mandamento di Pagliarelli, mentre continuava a fare affari fra il Brasile e la Sicilia. Il prototipo del boss manager sostenuto da un nuovo consenso sociale. Una casa in prestito - Chiamano i boss anche per una casa, con la camorra funziona così. Nei rioni della periferia di Napoli o in alcuni insediamenti della provincia, gli alloggi popolari sono storicamente gestiti con la violenza dai clan. Per trasformare quegli insediamenti in piazze di spaccio, la criminalità organizzata sceglie persone di assoluta fiducia e sfrutta anche le necessità dei più deboli per garantirsi un tessuto connivente e omertoso. Spesso sono persone che non hanno legami diretti con le cosche e non sono neppure impegnate nelle attività legate alla droga, ma sfruttano una contiguità solo “ambientale” per procurarsi un luogo dove andare a vivere, come nel caso di giovani coppie che provano a mettere su famiglia. Parlano con il boss, concordano una somma da pagare e ricevono le chiavi. E pazienza se, per liberare quell’appartamento, è stata usata la violenza nei confronti dei legittimi assegnatari o di chi le occupava precedentemente. La scelta di rivolgersi alla camorra però alla lunga può rivelarsi controproducente. Quando cambiano gli assetti criminali e l’equilibrio del “sistema” si modifica, i nuovi capi si riprendono le case. Cacciano con la forza le famiglie e le assegnano nuovamente. Come accaduto recentemente a Scampia, dove un uomo e la madre, dopo 27 anni interrotti di occupazione abusiva di un alloggio sono stati buttati fuori con la forza per un debito di droga, o forse perché le dinamiche camorristiche del rione erano cambiate. In questo modo, il controllo del territorio si rafforza e si acquisisce consenso. Anche con la pandemia da Covid-19 i clan sono diventati un punto di riferimento. La fase più acuta della crisi economica, sottolineano gli analisti della Direzione investigativa antimafia, “ha avuto effetti piano sociale ed economico incrementando da un lato la povertà nelle aree più depresse della regione, dall’altro rappresentando un’occasione di affermazione e rinnovato consenso per i clan più potenti”. La distribuzione di generi alimentari nei vicoli e la disponibilità di denaro liquido da prestare a chi era in difficoltà, ha fatto aumentare la “voglia di camorra”. Ma come sempre, anche in questo caso la violenza è in agguato: con una mano le cosche prestano o regalano, nell’altra impugnano la pistola. Il vip del reality prestanome dei boss - Dietro la voglia di mafia si nascondono i prestanome più fedeli dei padrini. E’ la storia di Franco Terlizzi: dalla discreta notorietà quattro anni fa in tv, come naufrago all’Isola dei famosi, al sodalizio con Davide Flachi, figlio del boss della Comasina Pepè Flachi, morto a inizio anno. Terlizzi finisce nella retata della Guardia di Finanza di Milano e Pavia che, con la Dda di Milano, lo individuano come prestanome del boss, volto pulito dietro cui agisce il boss della ‘ndrangheta milanese. Per il suo ruolo di titolare fittizio di una carrozzeria, utilizzata per le frodi alle assicurazioni, e un negozio di abbigliamento, Terlizzi ha anche un regolare stipendio. Ex pugile ed ex pr alla discoteca Hollywood di Milano: nella sua palestra sfilano attori e cantanti, soubrette e veline, calciatori e allenatori, tutti immortalati sulle foto di Instagram. Ma la realtà è che Terlizzi è nella completa disponibilità del boss, da cui dipendono i suoi guadagni. “Se tu sei in piedi è grazie a me ma lo vuoi capire (...) qua se non ci sono io la baracca qua chiude (...) - lo minaccia Flachi, intercettato, esattamente un anno fa -. Ti ho portato due lavori che ti faccio stare in piedi solo con quei due lavori.. Tu non fai un caz.. e prendi il grano... ma ti rendi conto Franco? Se tu sei in piedi è grazie a me ma lo vuoi capire”. E ancora: “Coi sinistri guadagniamo (...) 70mila euro ce lo siamo portati a casa”, gli risponde l’ex pugile. Dal carcere Terlizzi finisce pochi giorni dopo l’arresto ai domiciliari, perché per il gip non è coinvolto nei fatti più gravi, il traffico di droga e le estorsioni contestate al clan. Ma restano le relazioni pericolose con il boss. Le cartiere del clan per l’evasione fiscale - Gli imprenditori brianzoli potevano invece contare sulle fatture false dei boss. Al centro ci stava Orlando Demasi, 46 anni, affiliato al “locale” di ‘ndrangheta di Giussano (Monza e Brianza), proiezione al nord del clan di Guardavalle, provincia di Catanzaro: imponeva tassi usurari fino al 30 per cento al mese, ma offriva anche una montagna di false attestazioni agli imprenditori bisognosi di creare fondi neri da sottrarre al Fisco. Tutto questo grazie a una rete di società cartiere. I due volti della mafia al nord: da una parte, la centrale del terrore per chi non restituiva i prestiti; dall’altra, le contrattazioni per le fatture false. Con conseguente clima omertoso degli imprenditori, come ha denunciato la gip Fiammetta Modica nell’ordinanza di custodia cautelare che ha accolto le richieste del pm della Dda di Milano Francesco De Tommasi: “Appare pacifico - scrive la giudice - come Demasi ponesse a disposizione di una platea di imprenditori le società cartiere e il sistema della false fatturazioni”. Il tratto distintivo “è quindi distante dallo stereotipo della vittima vessata, trattandosi piuttosto di soggetti che coltivano cointeressenze conseguendo a loro volta vantaggi”. La mafia buona - In Sicilia, è come se la mafia delle stragi fosse stata solo una parentesi. Dopo la stagione della repressione, i boss sono tornati all’essenza di sempre: la mediazione, la sostituzione rispetto al potere statale. In piena pandemia, il giovane capomafia dello Zen Giuseppe Cusimano ha distribuito la spesa alle famiglie meno abbienti, attraverso un’associazione intitolata a Padre Pio. All’epoca, non si sapeva ancora che fosse il padrino più autorevole della zona, aveva però un fratello in carcere per droga e lui stesso incontrava l’autorevole capomafia Calogero Lo Piccolo. Il giorno che svelammo, sulle pagine di Repubblica Palermo, che stava distribuendo la spesa nella periferia dello Zen durante il lockdown, ci affrontò con un post su Facebook: “Per aiutare e sfamare la gente sono orgoglioso di essere mafioso”. E ancora: “Signori, lo Stato non vuole che facciamo beneficenza perché siamo mafiosi, al posto di ringraziare mi fanno sti articoli”. Eccolo un giovane boss alla ricerca di consenso sociale: voleva ribadire la favoletta della mafia buona, tanto cara ai vecchi padrini. Una breccia, drammatica, riuscì a farla nel popolo dei quartieri: “Siamo tutti mafiosi”, scrisse un giovane per esprimergli solidarietà, quel giorno. “Giornalisti peggio del coronavirus - aggiunse una donna - Peppe continua la tua opera”. E per davvero il giovane boss proseguiva nella sua attività criminale. Mentre lanciava post appassionati, Cusimano meditava di uccidere quei “quattro fanghi”, così li chiamava, che disturbavano la gente del quartiere. “Senza il casco ci andrei - diceva - minchia l’infarto ci verrebbe”. E ancora: “Questi lo sai che vogliono? che ci arrestano a tutti e prendono campo loro”. “Picciuttazzi” che arrivavano da altri quartieri. Lui, ufficialmente solo un commerciante di bombole, si vantava dei suoi revolver: “Uno ce l’ho alla putia (al negozio - ndr). La 38 ce l’ho a Carini”. E non immaginava che il suo telefonino stesse registrando in diretta ogni parola, grazie al Trojan installato dai carabinieri del nucleo Investigativo. Qualche mese dopo, il 21 gennaio 2021, venne arrestato con l’accusa di essere il nuovo capomafia dello Zen. Nelle strade e sul web voleva essere il padrino vicino alla gente, prototipo del mafioso che ha abbandonato il clamore della strategia stragista e ora prova a riconquistare i quartieri. Ma non è una mafia nuova. Cusimano reinterpretava tutta la vecchia mitologia criminale in chiave 2.0. Anche quando c’era da entrare in campagna elettorale. La domenica in cui si votava per Camera e Senato, il 4 marzo 2018, mostrò il certificato elettorale su Facebook e scrisse: “Il mio dovere lo fatto forza M5S”. Sgrammaticature a parte, il giovane rampollo di mafia aveva mandato il suo messaggio: anche lui uomo del rinnovamento, attento ai bisogni della gente del quartiere. Magari, non aveva neanche votato per davvero Cinque stelle, il partito che ha fatto della lotta alla mafia uno dei suoi vessilli, ma al boss importava comunque apparire uomo del cambiamento. Per avere sempre un’immagine rispettabile. Ma era sempre un mafioso: “Non temo né morte, né fame, ma di più la gente infame”, scriveva sui social. E, ancora: “Papà, non temere non farò mai il carabiniere”. Il giovane boss ci teneva all’immagine di persona rispettabile (per il mondo del crimine). Sui social, meditava già nuove iniziative per aiutare la gente dello Zen. Ma, intanto progettava anche nuove imprese criminali, con l’obiettivo di rimpinguare le casse dell’organizzazione. “Appena metti un esplosivo nel mezzo ti faccio vedere se non apre”, sussurrava. Voleva organizzare l’assalto a un portavalori, con “l’esplosivo al plastico”. E continuava a mettere in guardia i ragazzi ribelli dello Zen. A uno disse, in modo chiaro: “Il sole spunta di qua”. Ma, evidentemente, l’interlocutore non voleva fare un passo indietro. “Non ha ancora capito niente”, sentenziò Cusimano. In realtà, la mafia non cambia. E non ha mai abbandonato l’opzione della violenza. Il prezzo del servizio - “Ferrigno mi piace, perché come politico non è male...- diceva il boss di Carini Lo Duca - ha pure le forze economiche”. Erano soprattutto i soldi a interessare il mafioso di Carini, e lo diceva chiaramente all’intermediaria: “Tu pensi che noialtri che andiamo a fare una campagna elettorale senza guadagnare una lira? Noi dobbiamo guadagnare”. Parole chiarissime espresse da uno dei più autorevoli rappresentanti della mafia-agenzia di servizi. Lo Duca, classe 1972, padrino della nuova generazione, fece anche un prezzo all’intermediaria: “Minimo ci vogliono mille euro a paese”. E poi vendeva il suo prodotto più richiesto, un perfetto controllo del territorio: “Io posso corrispondere al momento di tre al massimo quattro paesi e basta. Sono Carini, Torretta, Cinisi, Terrasini... Da lì non mi sposto più perché non voglio più avanzare”. I soldi necessari per il servizio non erano solo per sé, ma anche per i rappresentanti locali di Cosa nostra. L’agenzia. “In ogni paese io gli devo lasciare la metà”. Come fosse il rappresentante di un’azienda ribadiva ancora la bontà del prodotto: “Non meno di duecento voti a paese”. E garantiva l’esecuzione del servizio, il bene più prezioso che di questi tempi i mafiosi assicurano è la riservatezza. Così, Lo Duca diceva di volere stare a distanza dal candidato: “Io non ci voglio parlare, tu per me sei il filo diretto”. Bologna. Tutelare legalità e condizioni dei detenuti di Antonio Ianniello* Il Resto del Carlino, 16 ottobre 2022 Le operazioni di ripristino della legalità all’interno del carcere hanno il fondamentale significato di affermare la presenza dello Stato. Altra faccia dell’affermazione della legalità in carcere deve comprendere necessariamente anche l’adeguatezza del contesto detentivo, profilo riguardo al quale è considerevole la distanza che resta ancora da percorrere. Quando parliamo di carcere, l’altro profilo della legalità riguarda le condizioni detentive in cui vivono le persone detenute la cui corrispondenza a quanto indicato dalla normativa di riferimento risulta, non di rado, (assai) mal praticata. Nel carcere di Bologna c’è una permanente condizione di sovraffollamento che comporta un drastico abbassamento della qualità della vita all’interno dell’istituto. C’è una precaria qualità delle condizioni detentive, anche aggravata dall’inadeguatezza della struttura dal punto di vista architettonico, ispirata da logiche ormai superate. C’è una carenza di organico nelle varie aree (la più preoccupante allo stato riguarda i professionisti medici). Un ragionamento analogo riguarda la precarietà delle condizioni di lavoro di coloro che esercitano la propria attività all’interno del carcere, infatti esiste un’intima connessione fra queste e le condizioni detentive in cui vivono le persone detenute. Così, in un simile contesto, non esiste nei fatti la possibilità di garantire la più completa e piena presa in carico delle vicende detentive affinché il percorso della carcerazione possa essere davvero orientato (per tutti) in senso costituzionale. E così appare evidente quanto ancora le attuali prassi detentive siano lontane dalla legalità. *Garante per i Diritti delle persone private della libertà del Comune di Bologna Venezia. Convegno su carcere e lavoro promosso dall’Ateneo Veneto di Roberto Rinaldi articolo21.org, 16 ottobre 2022 “Carcere e lavoro: una prospettiva per i detenuti e un’opportunità per le imprese e la società”: è il titolo del convegno promosso dall’Ateneo Veneto in collaborazione con il Sindacato giornalisti del Veneto che ha reso possibile la partecipazione di giornalisti per i crediti formativi che si è tenuta a Venezia il 5 ottobre scorso a cui hanno partecipato magistrati, funzionari del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, ufficiali e comandanti del Corpo di polizia penitenziaria, il capo dipartimento Carlo Renoldi, imprenditori nel settore turistico, alberghiero e industriale e giornalisti. Un dibattito che aveva l’obiettivo di sensibilizzare e promuovere attività di rinserimento lavorativo di ex detenuti nella società. Il convegno ha saputo affrontare tematiche a partire dall’importanza rieducativa e sociale che riveste il lavoro per i detenuti; il raccordo tra il fine pena e il rientro in società attraverso percorsi formativi e di lavoro dentro e fuori le carceri; i vantaggi della “Legge Carlo Smuraglia” (193 del 22 giugno 2000) e dedicato alla sua memoria - come ha spiegato la presidente dell’Ateneo Antonella Magaraggia -, che ha come fine quello di incentivare l’attività lavorativa dei detenuti con agevolazioni fiscali e contributive in favore di aziende e cooperative in grado di impiegare persone detenute. Le possibili connessioni con il mercato del lavoro. Una realtà ancora troppo poco conosciuta. Manca personale in molte aziende, soprattutto nel settore turistico e il convegno aveva anche lo scopo di sensibilizzare gli imprenditori e connetterli con le istituzioni deputate al reinserimento lavorativo per detenuti siano in semi libertà che, una volta scontata la pena, escono dal carcere. Strumenti efficaci per permettere ad un reale e produttivo ritorno alla vita civile, sociale, professionale, e umano, dove la dignità si riconquista attraverso il lavoro, come ha spiegato bene un detenuto intervistato dalla giornalista e documentarista Giovanna Pastega, (autrice insieme ad Andrea Basso di due cortometraggi realizzati nel carcere maschile di Treviso e quello femminile di Venezia- Giudecca). Testimonianze preziose in cui si afferma che senza lavoro si viene a mancare la dignità, fondamentale se si vuole ottemperare ad un principio della Costituzione. : “La dignità del lavoro è un diritto fondamentale, fondante di qualsiasi società civile. Fa parte delle libertà e dei diritti fondamentali dell’uomo, ed è un diritto enunciato all’articolo 23 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo”. Ad aprire i lavori la presidente dell’Ateneo Veneto, Antonella Magaraggia magistrato in servizio e attuale presidente del Tribunale di Verona. Un prologo in cui è stato affrontato l’argomento delle risorse messe a disposizione nel 2020 per il lavoro da implementare con le imprese: “8, 7 milioni di euro dove il Nord-Est fa la parte del leone, tra Veneto e Lombardia. Il 64% dei fondi nazionali. Un raccordo con le imprese e l’Ateneo che ha una vocazione sociale ben precisa e il suo mandato è quello di far connettere l’amministrazione carceraria con l’imprenditoria e le associazioni di categoria artigianali. L’intento è quello di far dialogare il dentro con il fuori con il mandato di inserire anche i detenuti come previsto dall’articolo 4 della Costituzione, ma è anche nell’interesse della società. Le recidive dei reati è molto bassa se gli ex detenuti trovano lavoro. L’imprenditoria veneta può essere d’aiuto”. Una realtà come quella del Veneto altamente produttiva e inclusiva. Carlo Renoldi il capo del Dap ha spiegato l’importanza di costruire una rete per condividere ideali e prospettive di lavoro. “Il carcere deve aprirsi ai territori e non chiudersi perché nel mondo contemporaneo la concezione moderna è che il carcere non è una realtà extraterritoriale. L’articolo 27 della Costituzione lo spiega bene: “La responsabilità penale è personale. L’imputato non è considerato colpevole sino alla condanna definitiva. Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, ha una finalistica che è rivolta verso la rieducazione dei detenuti. La connotazione costituzionale della funzione della pena è quella della sicurezza, ma non coglie l’attenzione sostanziale della pena. Il suo scopo è il lavoro e non solo la realizzazione della sicurezza - ha spiegato il magistrato - e la detenzione e l’esecuzione della pena serve a rimuovere le cause che hanno innescato il reato. Fondamentale è il trattamento rieducativo attraverso l’istruzione, la fomazione, il lavoro, le attività culturali e ricreative. L’articolo 20 si riferisce alla norma di riferimento dopo gli stati generali per l’esecuzione della pena. Non è obbligatorio il lavoro peniteniario ma è volontario come lo è la partecipazione alle attività trattamentali”. Maria Milano Franco D’Aragona, provveditore regionale dell’Amministrazione Penitenziaria per il Veneto, Trentino Alto Adige e Friuli Venezia Giulia, cita Papa Francesco: “Un uomo che non lavora non ha dignità e anche per i detenuti è doveroso farli partecipare al progresso morale”, per poi spiegare la realtà del carcere femminile della Giudecca: “Su 73 detenute 54 lavorano nella Casa di reclusione perché le altre materialmente non possono farlo”. Nel suo intervento Angela Venezia direttore dell’ Ufficio III detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria per la Toscana-Umbria e ad interim Veneto, Friuli Venezia Giulia e Trentino Alto Adige, ha tenuto una relazione significativa sul piano delle relazioni umane e sociali, nel ribadire che “dove c’ è del bello si può parlare di bellezza, cortesia, gentilezza e dobbiamo trasformare il paradigma su come viene visto il carcere per considerarlo invece una risorsa. È difficile parlare della società parlando di carcere solo come luogo di criticità al negativo. Non è solo quello che viene descritto dai mass media e dalla stampa in generale, quando diventa anche una risorsa di produttività. Nei detenuti che raccontano la loro esperienza (gli italiani si vergognano di apparire a differenza di quelli di altre nazionalità), la scelta di vita che li ha portati in carcere, ha fatto capire loro che esiste un’altra vita, una nuova visione. Noi non ci illudiamo di poter risolvere tutto ma offriamo delle opportunità per dare loro un’altra scelta, con l’impegno di sensibilizzare il territorio. Il carcere di Belluno, ad esempio, è un piccolo istituto dove il 70% dei detenuti lavorano grazie ad un’attività preziosa di rinserimento. Gli imprenditori sono venuti in carcere per fare formazione delocalizzata al fine di promuovere il lavoro in carcere. Nel 2015 è stato creato un catalogo con la regione Veneto che elenca le attività lavorative in carcere”. Paolo Armenio, vice presidente Confindustria Venezia Rovigo, ha spiegato come “sia fondamentale l’inserimento dei detenuti a fine pena e cosa si può fare per incentivare il lavoro all’esterno delle carceri. Il mondo delle imprese sta aspettando”. Sono seguiti interventi anche di Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro Regione Veneto e di Renato Mason, segretario della CGIA di Mestre. Flavia Filippi, fondatrice associazione “Seconda Chance” che ha come mandato il compito di trovare lavoro ai detenuti e agli ex detenuti coinvolgendo imprenditori, commercianti, artigiani, ha spiegato come sia stato possibile collocare 110 persone detenute nelle imprese grazie alla collaborazione ottenuta con i magistrati di sorveglianza e con gli imprenditori. Una ricerca mirata e finalizzata su tutto il territorio nazionale dove la sua associazione coinvolge le realtà professionali creando relazioni significative tra l’esterno e l’interno. Un impegno basato sul volontariato ma con dei principi che si rifanno al mandato costituzionale. Un progetto innovativo che trova lavoro ai detenuti e agli ex detenuti coinvolgendo imprenditori, commercianti, artigiani. Giovanna Pastega nel concludere un convegno molto partecipato, rivolto anche al ruolo della stampa che deve (o meglio dovrebbe) avere una responsabilità precisa nell’informare la realtà come quella del carcere, evitando di dare solo ed esclusivamente notizie negative, ha ribadito l’importanza della “dignità che deriva dalla nostra cultura giuridica. Una dignità che viene recuperata e si rifà alla parola dignitas”. Gorizia. Il cortile del carcere diventa teatro a cielo aperto di Luigi Murciano Il Piccolo, 16 ottobre 2022 La rappresentazione “Ho Risposto Sabbia” negli spazi dell’ora d’aria In “platea” anche le famiglie e c’è chi torna a riabbracciare la mamma. La corte interna destinata all’ora d’aria è esattamente come l’hanno raccontata decenni di cinema: un enorme quadrato protetto da mura altissime, opprimenti. Una sensazione acuita dal rumore del portone in acciaio che, greve, si chiude all’improvviso alle spalle, accompagnato da diversi giri di chiave. Guardare al cielo, unico squarcio di spazio libero davanti agli occhi - quadrato, appunto - diventa quasi istintivo. Ma che sia un po’ nuvoloso non importa a nessuno. Perché sabato il cortile dell’ora d’aria del carcere di via Barzellini è diventato qualcosa d’altro, e di bello: si è trasformato per la prima volta in un teatro aperto al pubblico. Ancor più speciali gli attori: cinque detenuti della casa circondariale, guidati - tenuti per mano - da Elisa Menon e lo staff di Fierascena, la compagnia di teatro sociale che li ha accompagnati per mesi in un progetto innovativo. Andare in scena, per l’appunto, mettendo a nudo le proprie paure e i propri sogni. Assumendo un ruolo e dunque una nuova consapevolezza di sé. Magia e terapia del palcoscenico. Tecnicamente si trattava di una replica, ma era la prima volta con un’audience. E ora il sogno è un altro: portare lo spettacolo, e dunque anche gli attori-detenuti, fuori di lì, in un vero teatro. Sarebbe un traguardo storico. Gradisca si candida, se ne riparlerà a dicembre. “Ho Risposto Sabbia”, reso possibile da Fondazione Carigo, Caritas diocesana ed Enaip, oltre che dall’amministrazione carceraria, più che uno spettacolo è stato un viaggio. Onirico e intriso di simbolismo: “Dall’altra parte del mare puoi vedere cos’eri e cosa sarai. E probabilmente la risposta non ti piacerà. Ma, se hai coraggio, guarda” invita Elisa all’inizio del viaggio. Le quinte sono le facciate stesse del cubo: le celle degli altri detenuti sembrano quasi occhi: qualcuno si affaccia e segue rispettosamente la performance dei cinque compagni. A “fondo sala” gli agenti di polizia penitenziaria sono schierati, stanno facendo il proprio lavoro di ogni giorno: eppure crediamo di non avere avuto un miraggio nel vedere un pizzico di emozione anche da parte loro. Certamente di commozione ve n’è in platea. E non solo per i genitori di uno dei cinque attori. “Non lo vediamo da nove mesi, sarà emozionatissimo” confida la mamma. Fra loro, protagonisti di età e in un caso anche di etnia diversa, c’è chi sarà fuori da quelle sbarre fra appena pochi giorni. Chi sogna di tornare a fare il cuoco, chi vorrebbe qualcosa della sua vita di prima e chi ne vorrebbe una nuova di zecca. Ciascuno ti racconta un pezzo di sé. “Dobbiamo viaggiare in direzione delle nostre paure” esorta Elisa Menon, e capisci che i “suoi” ragazzi l’hanno fatto. Si tolgono le scarpe e attraversano il mare per davvero, scalzi, in una pozzanghera. Dall’altra parte c’è la sabbia. È il simbolo di ciò che li attende dall’altra parte, una terra nuova, fuori da lì e dalle proprie paure. Quei granelli, a decine di migliaia, sono loro ansie di non farcela, gli errori, i dolori, i rimorsi. Ma anche i nostri pregiudizi, quelli chi sta dall’altra parte. I cinque si mescolano al pubblico, di quella sabbia te ne donano un po’. Quasi a chiederti di aiutarli a portare quel fardello, tutti assieme. Uno di loro regala quel mucchietto di sabbia alla sua mamma. E a quel punto anche la responsabile educativa del carcere, Margherita Venturoli, fatica a trattenere una lacrima. “Il teatro è esperienza di bellezza, aiuta a cambiare modo di essere e di pensare. Per progetti simili ci saremo sempre” commentano l’arcivescovo di Gorizia, monsignor Carlo Redaelli, il direttore di Caritas Renato Nucera e il presidente di Fondazione Carigo, Alberto Bergamin. La commozione si scioglie in un lungo applauso. I protagonisti si danno il “cinque”, è andata. Ma li aspettiamo fuori, per la replica più importante. Potenza. Teatro Oltre i Limiti: appuntamento in carcere con l’artista Manfredi Perego aise.it, 16 ottobre 2022 Al via la quarta edizione di “Teatro Oltre i Limiti”, la rassegna di promozione del teatro in carcere curata dalla Compagnia teatrale Petra in partenariato con la Casa Circondariale “Antonio Santoro” di Potenza e rivolta ai detenuti della sezione maschile del penitenziario. In programma dal 20 al 22 ottobre la prima tappa dell’azione “Artisti in Transito”, che prevede un workshop intensivo condotto dal danzatore, coreografo e insegnante Manfredi Perego, in collaborazione con il Città delle 100 Scale Festival, e destinato ai detenuti/attori del laboratorio teatrale in carcere e ad una rappresentanza di alunni del Liceo Musicale-Coreutico dell’ISIS “Pitagora” di Montalbano Jonico, con la partecipazione dello staff di Petra. Durante la tre giorni di sperimentazione sarà possibile, per un pubblico esterno, assistere ad una lezione aperta del workshop, che si svolgerà sabato 22 ottobre dalle ore 10, con ingresso alle 9.30. “Artisti in transito” è uno dei momenti cardine di apertura e di riflessione del lavoro artistico di “Teatro Oltre i Limiti”, che ha lo scopo di mettere in relazione detenuti e mondo teatrale. Si tratta di incursioni artistiche, laboratori intensivi condotti da artisti del panorama nazionale, fruibili dagli attori/detenuti del laboratorio teatrale, da un gruppo di allievi e/o attori provenienti dall’esterno e dagli studenti delle scuole secondarie di II grado. “Teatro Oltre i Limiti” è un’attività di teatro sociale in carcere promossa dalla Compagnia teatrale Petra con la stretta collaborazione della direzione della Casa Circondariale di Potenza, Maria Rosaria Petraccone, del comandante Giovanni Lamarca e dell’area sicurezza e trattamentale del carcere. Il progetto è stato avviato nel 2018, grazie alla stipula di una convenzione per la gestione dello spazio teatrale presente all’interno della Casa Circondariale, con l’obiettivo di farne uno spazio culturale della città e per la città di Potenza, con un’offerta culturale sia di formazione che di presenza di artisti del panorama nazionale. Alla base del progetto c’è l’assunto del teatro come linguaggio capace di superare il concetto di “limite”, nel luogo stesso a cui viene automaticamente abbinato dall’immaginario collettivo. Mettendo insieme teatro, carcere e società civile, “Teatro Oltre i Limiti” ribalta la concezione detentiva a favore di una nuova visione: da luogo di reclusione a luogo (anche) di cultura. Giunto alla sua quarta edizione, “Teatro Oltre i Limiti” intende consolidare quel “ponte” costruito negli anni tra gli abitanti “di dentro”, che si relazionano in un modo nuovo grazie al teatro, e quelli “di fuori”, che scoprono l’interno delle mura del contesto carcere: il carcere si apre alla città (e i detenuti diventano attori). Da ottobre 2022 a giugno 2023, i detenuti della sezione maschile della Casa Circondariale di Potenza potranno seguire un percorso formativo di pratica delle discipline teatrali, attraverso un laboratorio condotto da Antonella Iallorenzi, esperta in teatro sociale, e Mariagrazia Nacci, coreografa e danzatrice. “Teatro Oltre i Limiti” è un progetto prodotto dalla Compagnia teatrale Petra, con il contributo di Otto per Mille dell’Unione delle Chiese Metodiste e Valdesi, il partenariato della Casa Circondariale di Potenza e la collaborazione del Coordinamento Nazionale Teatro in Carcere, del Città delle 100 Scale Festival, dell’Ateneo Musica Basilicata, della Compagnia teatrale L’Albero, di UniversaMusica e di Multietnica. La direzione artistica è di Antonella Iallorenzi, la direzione tecnica di Angelo Piccinni. Milano. San Vittore, la sfida a calcio tra magistrati, poliziotti, detenuti e avvocati di Paolo Foschini Corriere della Sera, 16 ottobre 2022 Secondo torneo di beneficenza per sostenere la ricerca scientifica nel campo delle leucemie infantili. In campo anche “I Mitici”, ragazzi guariti del reparto di oncologia pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza. Non è frequente che un gruppo di magistrati, poliziotti, detenuti, avvocati, si trovi a trascorrere un sabato pomeriggio insieme per giocare a pallone. È successo a San Vittore. Per la seconda volta. E il merito di questo che potrebbe anche apparire come un piccolo stranissimo miracolo, se non fosse per l’atmosfera di calda “normalità” che lo ha caratterizzato e porterebbe invece a chiedersi “ma perché non lo fanno più spesso?”, è di una Fondazione nata a seguito di un grande dolore ma cresciuta nel segno della speranza e dell’amore per la vita: la Fondazione Alessandro Maria Zancan - in forma breve GrandeAle Onlus - costituita nel 2014 dai genitori in memoria del loro Alessandro mancato all’età di dieci anni per leucemia linfoblastica acuta di tipo T. L’incontro di San Vittore è stata solo la più recente tra le innumerevoli iniziative della Fondazione, che con la Casa circondariale milanese aveva già avuto occasione di collaborare più volte. Questa l’origine del 2° Torneo di Calcio di beneficenza in San Vittore “Mettiamoci in gioco e aiutiamo i bambini malati a sognare un futuro più felice”. Il torneo si è svolto presso il campo da calcio “Candido Cannavò” all’interno dell’istituto di piazza Filangieri, con l’obiettivo di sostenere la ricerca scientifica per le leucemie infantili e promuovere ogni utile iniziativa a sostegno dei bambini leucemici o colpiti da altre malattie, e di sostenere attività benefiche a favore delle famiglie di bambini in condizioni di povertà. Ad affrontarsi sono state cinque formazioni: in primo luogo “I Mitici”, squadra dei ragazzi guariti dalla leucemia del reparto di oncologia pediatrica dell’Ospedale San Gerardo di Monza, quindi una rappresentativa della Polizia Penitenziaria di San Vittore, e poi Nazionale Magistrati, Ordine degli Avvocati e Camera Penale di Milano, quindi naturalmente una selezione dei detenuti del carcere. Con l’aggiunta di una sfida extra, in una singola partita tutta al femminile, tra una formazione della Guardia di Finanza e una ulteriore della Polizia penitenziaria: che per la cronaca ha vinto con sette gol di vantaggio. A vincere il torneo, sempre per la cronaca, è stata invece la squadra dei Mitici. Ma la verità è che questa volta hanno vinto tutti. Quando una cosa la si fa per i bambini succede. Lanciano (Ch). La squadra dei detenuti si rimette in gioco di Stefania Sorge Il Centro, 16 ottobre 2022 Diciotto ragazzi del carcere parteciperanno al campionato di Serie D di calcio a cinque. Mettersi in gioco in campo e, soprattutto, nella vita. È questo l’obiettivo del progetto sociale “Mettiamoci in gioco” del comitato regionale Lega nazionale dilettanti (Lnd), primo in Italia a vedere la partecipazione dei detenuti di un penitenziario, quello di Lanciano, al campionato di calcio a 5 di Serie D con una loro squadra, la Libertas Stanazzo. Un’iniziativa nata nella stagione sportiva 2014/2015 e che proseguirà anche nella stagione 2022/2023. La formazione, composta da 18 detenuti e guidata dal mister Alessio Vittorio Di Meco, si appresta a disputare il nuovo campionato dal 5 novembre prossimo. La nuova partenza di questa avventura sportiva e sociale è stata presentata nel Piccolo teatro Fenaroli del penitenziario frentano, alla presenza di rappresentanti di Lega, Figc, Coni e della Regione Abruzzo con l’assessore Nicola Campitelli. “Da nove anni ci mettiamo in gioco, malgrado le difficoltà quotidiane che incontriamo per organizzare il tutto in un contesto così particolare”, dice il direttore del penitenziario, Mario Giuseppe Silla, “auguro ai ragazzi di vincere il campionato quest’anno”. Nelle stagioni passate i detenuti frentani hanno già vinto per ben due volte la Coppa Disciplina, nonché il prestigioso “Pallone d’oro” dalla Lega nazionale dilettanti. “Nella prossima candidatura di Lanciano come capitale della cultura”, fa sapere il vice sindaco Danilo Ranieri, “vogliamo inserire non solo i luoghi culturali ma anche esperienze come questa, perché lo sport è socialità ed ha a che fare anche con la cultura”. Il presidente della sezione arbitri, Aia, di Lanciano, Igor Yuri Paolucci, lancia invece la proposta di tesserare un detenuto anche come arbitro. “Il rispetto dell’altro, dell’avversario, la lealtà, la correttezza, il rispetto delle regole”, ricorda il consigliere nazionale Figc, Daniele Ortolano, “sono i valori cardine della Federazione, in questo contesto ancora più importanti”. “Sono tante le difficoltà superate, vi auguro”, dice rivolto ai detenuti il presidente del Coni Abruzzo, Enzo Imbastaro, “di utilizzare al meglio questa opportunità per il vostro futuro, per un futuro diverso”. Andrea Farabini, della Divisione calcio a 5, regala alla Libertas Stanazzo un pallone da calcio, mentre la Lega nazionale dilettanti dona le nuove magliette di colore azzurro, ispirate alla Nazionale. “È un progetto che merita attenzione, sostegno, condivisione e sviluppo”, conclude il presidente nazionale Giancarlo Abete, “è una testimonianza della dimensione sociale della Lnd. Il calcio appartiene a tutti, nessuno escluso, è una grande democrazia. Il nostro impegno è quello di trarre da questa vostra testimonianza la forza per far crescere il progetto, per far sì che altre persone in situazione di difficoltà possano vivere la bella esperienza di giocare una partita a pallone all’interno di un campionato”. La giustizia economica vera sfida dei progressisti di Maurizio Molinari La Repubblica, 16 ottobre 2022 La vittoria elettorale della destra e l’inizio della legislatura devono portare le forze progressiste e riformiste all’opposizione ad affrontare e comprendere l’inequivocabile sentimento di malessere espresso dall’elettorato nei confronti delle istituzioni repubblicane. Discutere il nome del nuovo segretario del Pd, eventuali convergenze fra Pd, M5S e Terzo Polo o anche la nascita di nuove formazioni politiche sono tentazioni di soluzioni tattiche che rischiano di far perdere l’occasione strategica di studiare la protesta che dilaga nel ceto medio, affrontare emergenze come i cambiamenti climatici e la sanità pubblica, rinnovare il concetto di sicurezza nazionale alla luce dell’invasione russa dell’Ucraina e rafforzare il nostro ruolo nella costruzione dell’Unione Europea. Trovarsi all’opposizione in questa fase di drammatica transizione, in Europa ed in Occidente, può essere una straordinaria opportunità a patto di non essere imprigionati dall’urgenza del fare e dedicare invece tempo e risorse alla necessità di conoscere cosa c’è alle fondamenta di un’opinione pubblica che nel settembre 2022 ha ripetuto la scelta del marzo 2018 premiando in maniera inequivocabile le forze anti-sistema. Questa è la riflessione che il nostro giornale ha iniziato ad ospitare dall’indomani del voto nelle pagine delle “Idee” e questa è la conversazione che ci proponiamo di sviluppare con i nostri lettori - su ogni piattaforma editoriale - nella consapevolezza che le risposte che cerchiamo non sono facili né possono essere immediate perché il ritardo della politica tradizionale rispetto ad una società in rapida trasformazione non può essere colmato da slogan seducenti, tweet aggressivi o messaggi banalizzanti. Il dato da cui partire è il malessere di un Paese come il nostro che - al pari di altre nazioni industriali avanzate - ha la maggioranza della popolazione che non si sente sufficientemente protetta dallo Stato. Sono milioni le famiglie che hanno difficoltà ad acquistare i farmaci di prima necessità ed hanno ancor più il problema di come gestire i propri anziani, sempre più bisognosi di tutti. Queste famiglie avrebbero bisogno di una Sanità pubblica in grado di occuparsi della salute degli anziani, dei malati gravi e dei più bisognosi anche perché la durata della vita si allunga. Ma lo Stato - né in Italia, né nelle nazioni più ricche, dagli Stati Uniti all’Australia - non ha risorse economiche sufficienti per fronteggiare questa richiesta di protezione collettiva. La risposta, dunque, deve essere non tradizionale, innovativa, frutto dello studio di una realtà drammaticamente nuova. Ma è chiaro che si tratta di ripensare completamente la spesa sanitaria, che è parte cruciale del bilancio pubblico. Lo stesso vale per l’istruzione: il numero-shock di giovani che rinunciano agli studi universitari, anche se non riescono a trovare lavoro, significa che le famiglie perdono educazione, si impoveriscono culturalmente, facendo avanzare il disagio. E che per convincere questi giovani a tornare a scommettere sullo studio bisogna ripensare il ruolo della ricerca come attraente strumento di emancipazione, di successo e di benessere. Un Paese dove i giovani non hanno fiducia nelle proprie Università è condannato al malessere perenne. E poi c’è il fronte del lavoro: la maggior fonte tradizionale di sicurezza per ogni famiglia è diventata il motivo di più seria insicurezza a causa delle innovazioni che modificano radicalmente il mercato, creano nuove professioni e obbligano a riqualificarsi anche chi è nel bel mezzo della propria vita. La somma fra incertezza sulla natura del lavoro, incertezza sulla credibilità degli studi e incertezza sulle garanzie sanitarie genera una situazione di sfiducia e preoccupazione destinata a nutrire ogni sorta di protesta, politica e sociale, con pericoli crescenti per le istituzioni e per la democrazia rappresentativa. Rispondere a questa sfida significa identificare una formula di giustizia economica capace di trasformare lo Stato nel garante tanto dei diritti che del benessere dei cittadini. Una giustizia economica che, per essere comprensibile alle nuove generazioni, deve includere anche politiche credibili per fronteggiare i cambiamenti climatici proteggendo la popolazione che vive lungo i corsi d’acqua, ammodernando le infrastrutture fatiscenti, soccorrendo gli agricoltori aggrediti dalla siccità e facendo leva sul taglio delle emissioni nocive per ridefinire il modello di sviluppo nazionale. Si tratta di sfide epocali ma, senza affrontarle, le diseguaglianze che sono fra noi si moltiplicheranno, il distacco fra cittadini ed istituzioni aumenterà e la politica si trasformerà in una costante rincorsa agli umori più negativi, facendo prevalere posizioni sempre più estreme. La necessità di formulare un’idea di giustizia economica al passo con il XXI secolo nasce anche dalla constatazione che per le nuove generazioni la questione dei diritti è fondamentale: per identificare e garantire i diritti degli utenti digitali sul web, i diritti di genere nel senso più ampio, i diritti climatici, i diritti di chi sceglie di diventare italiano come anche di dare risposte a questioni eticamente controverse come il diritto al fine vita. In ultima istanza si tratta di rispondere al bisogno di protezione dei cittadini su due fronti strategici: diritti e prosperità. Costruendo di conseguenza una nuova formula di cittadinanza repubblicana che, basandosi sui valori della nostra Costituzione, includa anche i doveri mazziniani dei singoli nei confronti della collettività: dal rispetto per il prossimo alla necessità di non mettere in alcun modo a rischio identità e sicurezza nazionale. Ecco perché le forze di ispirazione progressista e riformista che oggi si trovano nel campo dell’opposizione alla destra, dentro e fuori il Parlamento, hanno di fronte a loro un’occasione di valore: studiare a fondo le ferite dell’Italia per arrivare a definire una teoria di giustizia economica capace oggi di declinare l’unicità della cittadinanza repubblicana. Contribuendo così a rafforzare dall’interno e in maniera decisiva non solo l’Italia ma anche l’Unione Europea e la Comunità delle democrazie, assediate dalle sfide sempre più aggressive delle autocrazie del nostro tempo. Gli anziani sono una risorsa del Paese di Ferruccio de Bortoli Corriere della Sera, 16 ottobre 2022 Il grado di civiltà è tutto nella capacità di preservare la dignità di un anziano fragile o di un malato inguaribile. Sarebbe un grave errore se il nuovo esecutivo e il nuovo Parlamento gettassero nel cestino la proposta di legge delega. Le grandi questioni che riguardano il futuro, non immediato, della nostra società suscitano scarso interesse pubblico. Sembrano così lontane nella loro dinamica - in questo caso demografica - da indurre un senso di impotenza o persino di rassegnazione. C’è altro di più urgente. Anche se le sofferenze, le solitudini della popolazione anziana più fragile e debole - quella che ha pagato il conto maggiore, insieme ai giovani, alla pandemia - sono quotidiane. Lenite solo in parte dalla grande e insostituibile opera di molte istituzioni pubbliche e private e dei loro operatori. Un solo raffronto: in Italia abbiamo 1,9 posti letto ogni cento persone sopra i 65 anni, come la Grecia; la Francia è a 5; la media europea è superiore a 3,5. C’è molto da fare. La popolazione invecchia. Le malattie croniche e invalidanti crescono in misura allarmante, specie quelle legate alla demenza senile. Molte famiglie, soprattutto indigenti, non ce la fanno. In proiezione, sarà un autentico dramma sociale. È passato pressoché inosservato lo schema di legge delega approvato, il 10 ottobre, dall’ultimo Consiglio dei ministri del governo Draghi, in materia di assistenza alle persone fragili e non autosufficienti. Anche se sappiamo che non manca, sull’argomento, una particolare attenzione del presidente della Repubblica, Sergio Mattarella. Giorgia Meloni e il premier uscente ne hanno già parlato. L’auspicio è che quella proposta di legge delega non sia solo un nobile messaggio in bottiglia destinato a disperdersi nei flutti del passaggio di legislatura. Non faccia, per esempio, la fine di quella fiscale (sciaguratamente non approvata dal Senato) che avrebbe aiutato, non poco, il nuovo esecutivo ad alleggerire alcuni carichi tributari e amministrativi. Qui non si tratta di aliquote fiscali ma di vite reali. L’allargarsi delle disuguaglianze si misura drammaticamente dal livello di assistenza offerto agli anziani non autosufficienti. Quando è carente o addirittura non c’è, anche le vite dei familiari più giovani sono ipotecate, se non compromesse. Il grado di civiltà di un Paese è tutto nella capacità di preservare la dignità di un anziano fragile o di un malato inguaribile. Si è cittadini sempre, altrimenti si è scarti. Nelle prossime settimane si discuterà molto di pensioni e di come scongiurare il ritorno, dal primo gennaio del 2023, alla legge Fornero. Ogni aumento del debito pensionistico ricade sulle prossime generazioni. Affrontare invece, con ragionevole celerità, il tema più complessivo dei concittadini più anziani e fragili, libera in prospettiva tempo e risorse a beneficio dei più giovani. È un atto di responsabilità generazionale. Non mette, a differenza di quota 100 o 102 per le pensioni, anziani e giovani (che pagheranno in futuro) in conflitto. E dunque sarebbe un grave errore se il nuovo esecutivo e il nuovo Parlamento gettassero nel cestino la proposta di legge delega. A livello istituzionale è il frutto dell’indagine degli esperti riuniti dal ministero della Salute e dalla presidenza del Consiglio, guidati dal vescovo Vincenzo Paglia, e dalla commissione del ministero del Lavoro con a capo l’ex ministra Livia Turco. Raccoglie inoltre gran parte dei suggerimenti di 52 organizzazioni assistenziali di varia natura, coordinate da Cristiano Gori, e del Patto per un nuovo welfare sulla non autosufficienza. Mai vi era stato, in precedenza, il coinvolgimento di una rete associativa così vasta. La legge delega può e deve essere migliorata ma consegnarla agli archivi della legislatura appena terminata vorrebbe dire dimenticarsi di molti anziani e del destino dei loro familiari. Che cosa prevede, in sintesi, lo schema di legge delega? “La vecchiaia non è solo una stagione di declino - spiega Paglia - ma al contrario un tempo prezioso di sviluppo, crescita e partecipazione”. In questa frase c’è il senso dell’intero progetto. Gli anziani non sono un peso, sono una risorsa. Si istituisce un Comitato per le politiche in favore della popolazione anziana (Cipa), presieduto dal o dalla premier, ma soprattutto si prospetta la creazione di un sistema unitario nell’assistenza ai non autosufficienti coordinando meglio le attività del Servizio sanitario, quelle dei servizi sociali degli enti locali e dell’Inps. Si semplificano i processi valutativi, troppo lunghi; si tende ad assicurare un’assistenza domiciliare più rispondente ai bisogni che alle disponibilità. La percentuale di anziani che, in un anno, fruisce dei servizi domiciliari è solo del 6,5 per cento. La maggior parte degli utenti, però, riceve un numero molto esiguo di visite a casa e per periodi di tempo assai limitati. Alcune cifre sono emblematiche: l’11 per cento delle prese in carico si conclude in un giorno e il 32 per cento degli utenti riceve meno di una visita a settimana. L’assegno di accompagnamento (529 euro al mese) va graduato sulla base delle necessità e non accordato in forma uguale per tutti. Si tutelano meglio i disabili anziani che, superata una certa età, non hanno più risposte specifiche. L’obiettivo di fondo della riforma è quello di assistere le persone fragili, finché è possibile, nella loro abitazione, ma è previsto un forte investimento nella semiresidenzialità oltre che nella rete delle case di riposo. L’ostacolo maggiore, com’è intuibile, è quello della copertura dei costi. Lo Stato da solo non ce la farà. Avrà bisogno del privato sociale, del terzo settore. Vanno agevolate specifiche polizze assicurative. Ma se la riforma non verrà approvata entro il marzo del prossimo anno, l’Italia vedrà indebolirsi la propria posizione nell’ambito della missione 5 (inclusione) del Piano nazionale di ripresa e resilienza che destina una non trascurabile quota di risorse. E si procurerà un danno grave che scaricherà sui suoi cittadini più fragili. I servizi alla persona, non sostituibili da alcun robot (almeno lo speriamo), saranno in futuro un grande bacino di occupazione, soprattutto per i profili di caregiver più qualificati. Dunque, il progetto è anche un rilevante investimento sotto il profilo economico, ma - cosa che più importa - è una testimonianza vera di civiltà a favore di tutti, anziani e giovani. Adolescenti, casi di tentato suicidio aumentati del 75% di Sara Carmignani La Repubblica, 16 ottobre 2022 Le richieste di consulenze neuropsichiatriche per stati ansiosi o depressivi, anche in urgenza, sono lievitate di 40 volte in due anni. E circa 100 mila ragazzi hikikomori vivono l’isolamento sociale. I dati dal congresso Fimp. Anche uno può essere un numero da capogiro, se si parla di un adolescente o pre-adolescente che tenta il suicidio. Uno al giorno per la precisione, solo guardando entro i confini del nostro Paese. E moltiplicando uno per 365 viene fuori un aumento del 75% dei casi rispetto a soltanto due anni fa. Non solo: “Sono 100mila i giovanissimi che hanno preso la strada della morte sociale, i cosiddetti hikikomori, isolati nella loro stanza, in fuga dall’interazione col mondo, travolti dalla paura del giudizio, soli”, dice Antonio D’Avino, presidente della Federazione Italiana Medici Pediatri (FIMP) durante la seconda giornata del sedicesimo Congresso Scientifico Nazionale dei pediatri di famiglia, in corso a Riva del Garda. Un urlo silenzioso - Colpa della pandemia? Che abbia giocato un ruolo decisivo lo sostengono molti specialisti. “Una bomba atomica dal punto di vista sociale per i giovanissimi”, la definisce Silvia Zecca, co-referente nazionale FIMP Gruppo Abuso e maltrattamento dei minori. Tutte le misure più o meno drastiche di distanziamento sociale volte a prevenire il contagio avrebbero contribuito, secondo Zecca, a creare una situazione di forte disagio, “un urlo silenzioso di cui ci siamo accorti nei nostri studi e dai dati raccolti nei Pronto Soccorso”. Richieste di aiuto aumentate di 40 volte - E a far girare la testa non è solo l’aumento nel numero di richieste di consulenze neuropsichiatriche per stati ansiosi o depressivi e di quelle effettuate in urgenza per tentato suicidio e comportamenti autolesivi, ma anche la fascia di età interessata, come sottolinea Anna Latino, co-referente del gruppo di lavoro: “Le richieste sono lievitate di quasi 40 volte, in particolare nei giovani tra i 9 e i 17 anni. Vogliamo porre l’accento sulla forbice che riguarda l’età di questi casi: sempre più ampia”. Il Pediatra di Famiglia viene quindi ad essere un riferimento per genitori e ragazzi. L’isolamento sociale degli hikikomori - Anche il fenomeno degli hikikomori interesserebbe i ragazzi e le ragazze appartenenti a questa fascia di età, con i primi segnali che si manifesterebbero a partire da un’età media di 15 anni. “Si tratta - spiega Marco Crepaldi, psicologo e presidente fondatore di Hikikomori Italia - di una pulsione all’isolamento fisico, continuativa nel tempo, che si innesca come reazione alle eccessive pressioni di realizzazione sociale, tipiche della società capitalistiche economicamente sviluppate”. Un fenomeno che sembrerebbe interessare principalmente i maschi, anche se, secondo Crepaldi, il numero di femmine coinvolte potrebbe essere sottostimato. La durata di questo ritiro sociale tende a prolungarsi oltre i tre anni e sono due le fasi identificate: la prima caratterizzata dall’abbandono della scuola e dall’allontanamento di quasi tutti i contatti sociali diretti, tranne quelli con i familiari stretti; la seconda contraddistinta dall’allontanamento persino dei genitori e dall’evitamento anche delle relazioni virtuali. Questo secondo stadio, prosegue Crepaldi, riguarda solo una minoranza della popolazione, che ha verosimilmente sviluppato una qualche forma psicopatologica associata al ritiro. L’esperto precisa che la dipendenza da Internet non sembra costituire la causa del disagio, ma piuttosto un effetto e rappresenta anche l’unica forma di interazione accettata durante questa forma di isolamento. “La fragilità relazionale - prosegue - è molto difficile da affrontare. Si innesca quando ci sentiamo pressati a una corsa per il successo personale, che si tratti di scuola, sport, sessualità”. L’abuso dei social media e all’importanza, specialmente per i più giovani, di ricevere riscontri positivi per quanto riguarda la propria immagine, è sicuramente un tema centrale. “Vince chi molla” - dice l’esperto - “ma gli hikikomori non lo sanno”. Il ruolo del pediatra di famiglia - Altri temi delicati e complessi sono quelli del lutto nel contesto familiare e del percorso che accompagna la decisione di cambiare sesso. Temi che “bussano alla porta dei nostri studi sempre più spesso e che non vogliamo eludere”, dice D’Avino: “Il pediatra di famiglia è infatti la prima sentinella in grado di intercettare il disagio e dovrebbe quindi avere a disposizione tutti gli strumenti conoscitivi necessari per poter accompagnare e sostenere i propri pazienti durante il passaggio all’età adulta. Occorre - conclude il medico - mettere in campo politiche specifiche per l’infanzia e l’adolescenza, che coinvolgano tutti gli attori che concorrono alla salute mentale dei giovani, come neuropsichiatri infantili, psichiatri, psicologi, servizi educativi e rappresentanti del terzo settore”. Più affari che fede, la tratta delle donne nigeriane passa per i pentecostali di Alice Facchini L’Espresso, 16 ottobre 2022 Dalle indagini sui cult, le confraternite simili a cosche mafiose, emerge il ruolo delle chiese finanziate dai fedeli nella protezione dei traffici legati al giro della prostituzione. Pastori che invitano le vittime di tratta a non denunciare lo sfruttamento e a pagare il loro debito. Che ospitano gli incontri della rete criminale all’interno delle loro chiese pentecostali. Che a messa tengono sempre un posto in prima fila per le “madame” o per gli affiliati alla mafia nigeriana. In Nigeria, alcuni pastori addirittura mettono in contatto i trafficanti con le donne che poi vengono portate in Europa e costrette a prostituirsi. Quella delle chiese pentecostali è una zona grigia a metà tra legalità e illegalità: diverse associazioni, esperti e magistrati la raccontano come se fosse il segreto di Pulcinella. “Nelle indagini, abbiamo riscontrato più volte che i soggetti affiliati si ritrovassero nelle chiese per fare le proprie riunioni”, spiega il magistrato Stefano Orsi, già pm della Direzione distrettuale antimafia, poi passato alla procura generale della Corte d’appello di Bologna: “Spesso i pastori provano a convincere le ragazze sfruttate a non sporgere denuncia, o comunque a trovare un punto d’incontro con la madame senza arrivare alla rottura. C’è una situazione di estrema contiguità, che fa pensare”. In numerose inchieste è emerso il coinvolgimento dei pastori pentecostali nel reclutamento delle ragazze in Nigeria. La procuratrice del tribunale di Catania Lina Trovato che da anni indaga sul fenomeno della tratta, racconta: “I pastori mettono in contatto le ragazze con la madame e percepiscono un corrispettivo. Le ragazze vedono il pastore come una buona persona, si fidano e così entrano nella rete: lo abbiamo appurato varie volte con le intercettazioni, ma anche con le testimonianze di alcune vittime”. Storie che vengono raccontate da fonti diverse ma che si assomigliano tutte, e che vengono confermate da varie associazioni su tutto il territorio nazionale, tra cui il progetto Oltre la strada, la cooperativa Liberazione e speranza, il progetto Maddalena e l’associazione Donne di Benin City. Negli ultimi anni, alcuni pastori sono stati processati per aver messo in contatto le ragazze che frequentavano la loro chiesa con le madame. In Nigeria, nel 2017, Endurance Ehioze è stato arrestato per il presunto coinvolgimento nel traffico di ragazze in Russia. Nello stesso anno, in Sud Africa, il nigeriano Timothy Omotoso è stato imputato con quasi cento capi d’accusa, tra cui traffico di esseri umani, stupro e racket. In Francia, nel 2019, il pastore Stanley Omoregie, anche lui nigeriano, è stato processato per aver trafficato sette ragazze tra i 17 e i 38 anni: è accusato di sfruttamento della prostituzione aggravata e schiavitù. In Italia invece non c’è ancora stata un’indagine specifica sulle possibili complicità tra le chiese pentecostali e i trafficanti di esseri umani . Eppure, il nostro è il Paese che più di tutti in Europa ha perseguito i cosiddetti “cult”, le confraternite nigeriane, grazie all’ordinamento che prevede degli strumenti speciali nella lotta alle organizzazioni mafiose. Da Torino a Catania, passando per Brescia, Bologna, L’Aquila, Castel Volturno, Palermo, molti membri delle confraternite sono stati condannati per mafia. Gianfranco Della Valle, responsabile del Numero verde antitratta, afferma che sulla questione delle chiese c’è un problema di omertà: “Il rapporto ambiguo tra le chiese pentecostali e la tratta è molto simile a quello che c’era negli anni Ottanta tra la chiesa cattolica e la mafia italiana. Come allora, anche nelle chiese pentecostali di oggi si riuniscono insieme a messa sia le vittime che i criminali, e i mafiosi in certi casi danno soldi per sostenere le attività religiose o per restaurare l’edificio”. Al mondo, oggi, ci sono più di 640 milioni di fedeli pentecostali: solo in Nigeria si contano più di 500 chiese, alcune delle quali hanno ramificazioni anche in altri Paesi. In Europa, la rete Pentacostal european fellowship mette insieme 60 movimenti in 37 Paesi. In Italia, i pentecostali sono il gruppo nigeriano maggioritario subito dopo i cattolici, secondo il rapporto Immigrati e religioni in Italia. I pastori nigeriani sono figure carismatiche, con una forte leadership e una grande capacità di trascinare la comunità. Per diventare pastore bisogna sentire la chiamata dallo Spirito santo: basta un sogno, una premonizione o un evento rivelatore, oppure riconoscersi poteri di guarigione o di premonizione, o anche ricevere l’investitura da un altro pastore. Anche le donne possono diventare pastore e aprire una propria chiesa. “In Italia esistono due tipi di chiese pentecostali: quelle che dipendono dal quartier generale in Africa, che sono una sorta di “succursale” della casa madre, e quelle che nascono spontaneamente da un nuovo pastore che improvvisamente riceve il dono dello Spirito santo”, spiega Annalisa Butticci, antropologa esperta di religioni e diaspora africana della Georgetown University. Ufficialmente, le chiese pentecostali vengono registrate come associazioni che svolgono attività di culto: questo dà la possibilità di fondarne di nuove - e di chiuderle - con grande facilità. Per finanziarsi, queste organizzazioni ricorrono alle offerte dei fedeli: la più importante è la “decima”, che consiste in un decimo del proprio guadagno. “Ci sono pastori che hanno anche un altro lavoro e che non dipendono dalle offerte, mentre altri contano sulle donazioni per mantenersi”, racconta Butticci. La decima lega così la sopravvivenza delle chiese ai propri finanziatori. “I pastori hanno un certo interesse ad accogliere anche le madame o i membri dei cult, il cui apporto economico è ben più determinante di quello delle donne sfruttate, visto che guadagnano molto di più”, spiega Nino Rocca, che è stato tra i fondatori del coordinamento antitratta Favour e loveth. Oltre a questo, nel pentecostalismo vige la concezione protestante del successo economico come segno della grazia divina: più sei ricco, più sei benvoluto dal Signore, a prescindere da quale sia la fonte dei tuoi guadagni. Stefania Russello, coordinatrice del progetto Maddalena della Casa dei giovani di Palermo, che fa parte della rete nazionale antitratta, racconta che un pastore una volta le ha detto di voler accogliere tutti nella sua chiesa: sia le pecore bianche che le pecore nere. “Io accompagnavo una ragazza che era entrata in un percorso protetto: il pastore mi disse che non avevo nessun diritto di consigliarle di non frequentare più la chiesa solo perché lì c’era anche la sua madame. Successivamente offrì un lavoro alla ragazza, e alla fine lei lasciò il nostro percorso. Adesso quella chiesa non esiste più”. Non tutti i pastori però sono uguali: c’è anche chi denuncia le attività criminali e aiuta le donne a uscire dallo sfruttamento, mettendole in contatto con le associazioni antitratta. È il caso della pastora Princess Okokon, che ad Asti ha fondato la chiesa pentecostale Liberation foundation international ministry: “Tante volte, durante la messa, ho raccontato la mia storia: anche io avevo una madame, anche io mi sono dovuta prostituire, anche io sono stata picchiata e minacciata. Alla fine mi sono ribellata e ho denunciato: io sono l’esempio vivente che si può sopravvivere anche senza pagare il proprio debito. Durante l’omelia dico esplicitamente di non trafficare esseri umani e di non compiere attività illecite: le madame si innervosiscono e se ne vanno, ma a me non importa”. Nel 1999 Okokon ha aperto l’associazione Piam Asti, per supportare le vittime di tratta, dove oggi lavora come mediatrice. Attualmente, il numero delle migranti nigeriane che entrano in Italia è fortemente diminuito: i dati del Numero verde antitratta mostrano che il picco di entrate si è raggiunto nel 2016, con 11mila ingressi, per poi passare a 5.400 nel 2017, 324 nel 2018, 41 nel 2019, 82 nel 2020, e 215 nel 2021. Parallelamente, anche molte chiese pentecostali hanno chiuso o si sono trasferite altrove. L’emblema di questa tendenza è la città di Castel Volturno, dove è cresciuta una delle più grandi comunità nigeriane d’Italia, che fino a pochi anni fa ospitava più di 40 chiese pentecostali. “Oggi ne sono rimaste pochissime e allo stesso tempo non si vedono più donne che si prostituiscono in strada: viene spontaneo pensare che le due cose siano legate”, afferma Vincenzo Ammaliato, giornalista de Il Mattino. Secondo alcuni, questa diminuzione potrebbe essere dovuta all’intensa attività di repressione dei gruppi criminali nigeriani che si è svolta negli anni precedenti alla pandemia. “La magistratura era riuscita ad arrestare molte persone, e così probabilmente molto ragazze sono state spostate in altri Paesi d’Europa, dove l’organizzazione criminale pensava di poter agire indisturbata”, spiega la procuratrice Trovato. Quello che manca oggi, per contrastare in modo efficace la tratta di esseri umani e fare luce sul ruolo di alcune chiese pentecostali, è un coordinamento che metta insieme i soggetti che si sono occupati negli anni, a vario titolo, di contrastare i gruppi criminali nigeriani. Lo spiega Fabrizio Lotito, che è stato coordinatore della Squadra anti tratta (Sat) di Torino e che oggi è consulente del comitato Mafie straniere in Commissione parlamentare antimafia: “La mafia nigeriana è la quinta più potente al mondo, ma ancora si conosce pochissimo. È un fenomeno molto fluido, che cambia velocemente: è necessario costituire un gruppo specializzato con il compito di seguire da vicino queste attività criminose, altrimenti ogni volta le indagini devono ricominciare da capo”. *Inchiesta realizzata in collaborazione con Irpi media grazie a un finanziamento di Free press unlimited Iran. Rivolta nel carcere dei dissidenti dove è detenuta Alessia Piperno di Gabriella Colarusso La Repubblica, 16 ottobre 2022 Dilaga la protesta, spari nella prigione. Le autorità: “Situazione sotto controllo”. I feriti sarebbero almeno otto. Brucia il carcere di Evin, simbolo della repressione politica in Iran, nei giorni in cui l’ondata di proteste scatenata dalla morte di Mahsa Amini scuote alle fondamenta il consenso della Repubblica Islamica. Per moltissimi iraniani Evin non è una semplice prigione, è la cella in cui la teocrazia guidata dall’ayatollah Ali Khamenei ha rinchiuso il dissenso e ogni forma di critica al sistema: prigionieri politici, attivisti, intellettuali, avvocati, studenti, anche tanti di quelli che sono stati arrestati nelle ultime settimane. “Molte delle menti migliori dell’Iran sono chiuse lì dentro”, ci dice Asma, attivista. Lì sarebbe detenuta anche Alessia Piperno, la ragazza italiana arrestata mentre era in viaggio a Teheran agli inizi di ottobre. Il primo allarme ieri sera intorno alle 21: una colonna di fumo si alza sulla cittadella fortificata ai piedi dei monti Alborz, a Nord di Teheran, che fu fatta costruire dallo Scià. Si sentono spari, almeno due esplosioni. Video verificati da giornalisti indipendenti mostrano le colonne di agenti delle unità speciali dirigersi verso il reparto sette, dove ci sono i detenuti accusati di reati finanziari, quelli in attesa di processo ma anche prigionieri politici. La telecamera di un cittadino che filma dalla torre Atisaz, poco distante da Evin, inquadra un gruppo di prigionieri sul tetto. Si sentono le urla probabilmente di persone fuori dal carcere: “Morte al dittatore”, “Azadi”, (“Libertà”). Alcuni parenti delle vittime si precipitano davanti alla prigione ma vengono respinti dalle forze di sicurezza, si alza la tensione, tutte le strade che portano a Evin vengono chiuse. Non è chiaro cosa sia successo all’interno. Fonti iraniane parlano di una rivolta di un gruppo di prigionieri. Intorno alle 22.30 i media di Stato provano rassicurare: “La situazione è sotto controllo”, scrive l’agenzia di stampa ufficiale Irna citando un funzionario della sicurezza: “I teppisti hanno dato fuoco a un magazzino di vestiti all’interno della prigione di Evin, provocando un incendio”, ci sono stati scontri tra “rivoltosi” e guardie carcerarie, sostiene il funzionario. Almeno otto persone sono ferite. La società civile si mobilita, si temono morti, c’è persino chi evoca il massacro dell’incendio del Cinema Rex ad Abadan che nell’agosto del 1978 accelerò la caduta dello Scià. “Molti attivisti e prigionieri politici sono detenuti a Evin. Le autorità iraniane e Khamenei sono responsabili della vita dei prigionieri!”, scrive Amiry Moghaddam, della ong Iran Human Rights. L’incendio è avvenuto dopo una giornata in cui migliaia di persone sono tornate in piazza, come ormai accade da un mese. All’università di Teheran gli studenti cantavano uno degli slogan principali del movimento nato in reazione alla morte di Mahsa Amini nelle mani della polizia morale: “Teheran è una prigione, Evin è una università”, riferendosi proprio ai tantissimi intellettuali e attivisti rinchiusi nel carcere, come l’avvocatessa premio Shakarov Nasrin Sotoudeh, o il politico riformista Mostafa Tajzadeh. La tensione è salita ad Ardabil, nel Nord-Ovest del Paese, dove le notizie di un raid della polizia all’interno di una scuola, durante il quale sarebbe morta una studentessa, hanno infiammato la popolazione. A Sanandaj, capoluogo della provincia curda, i negozi hanno abbassato le serrande per lo sciopero convocato in tutta la regione. Almeno 233 manifestanti sono stati uccisi dall’inizio delle manifestazioni, secondo la ong Hrana, 32 avevano meno di 18 anni. Il governo sostiene che le proteste siano frutto di forze esterne, un complotto occidentale ordito per indebolire la Repubblica Islamica. Ma la rabbia popolare arde e dai tetti di Teheran, Rasht, Sanandaj si alza il grido, “Donna, Vita, Libertà”. Daphne Caruana Galizia, a 5 anni dalla sua morte Malta ha ancora un problema di libertà di stampa di Beatrice Petrella Il Domani, 16 ottobre 2022 La giornalista maltese Daphne Caruana Galizia è stata uccisa il 16 ottobre 2017 da un’autobomba per le sue inchieste sui legami fra il partito laburista e il malaffare locale. Un’inchiesta indipendente ha riconosciuto che il governo laburista ha creato un clima di indebolimento della democrazia che ha avuto un ruolo nell’assassinio. Il governo maltese ha annunciato solo il 28 settembre una riforma che inserirà la libertà di stampa nella costituzione. Cinque anni fa Daphne Caruana Galizia è stata fatta saltare in aria da 400 chili di tritolo nascosti sotto il sedile della sua Peugeot 108. La giornalista è stata uccisa a causa delle sue inchieste sulla politica maltese, in particolare sul partito laburista e i suoi legami con il malaffare locale. Sul blog Running Commentary ha denunciato per anni la cultura dell’impunità e la corruzione che dilagavano nell’isola: dalla compravendita dei passaporti a imprenditori cinesi e oligarchi russi, alle tangenti che il governo laburista avrebbe incassato per realizzare nuovi progetti energetici. Caruana Galizia aveva sempre pagato caro il prezzo delle sue inchieste con querele e minacce di morte online e offline. Il 16 ottobre di cinque anni fa stava andando in banca a combattere l’ennesima vessazione: le avevano congelato i conti. Due mesi dopo la sua morte sono stati arrestati i killer: sono i fratelli Alfred e George Degiorgio e Vincent Muscat, che ha confessato l’anno scorso in cambio di una riduzione di pena. Passarenno ancora due anni prima che l’intermediario Melvin Theuma faccia il nome del mandante: Yorgen Fenech, proprietario della 17Black, un’azienda fantasma con sede a Dubai su cui Caruana Galizia aveva indagato otto mesi prima di essere uccisa. La giornalista riteneva che Fenech usasse 17Black per versare tangenti milionarie a due società offshore di Panama di proprietà di Keith Schembri e Konrad Mizzi, all’epoca dei fatti rispettivamente ministro dell’Energia e capo di gabinetto di Muscat. In seguito alle dichiarazioni di Theuma ci sono state proteste in tutto il paese per chiedere le dimissioni di Muscat, che nel 2020 ha ceduto l’incarico all’avvocato laburista Robert Abela. Oltre a Muscat si sono dimessi anche Keith Schembri, Konrad Mizzi, diventato ministro del turismo del governo Muscat, e Chris Cardona, ministro delle finanze. In passato sono stati tutti oggetto di indagini da parte di Caruana Galizia e in più occasioni l’hanno insultata, se non apertamente minacciata. Nel 2021 un’inchiesta indipendente di 437 pagine portata avanti dai giudici maltesi Michael Mallia, Joseph Said Pullicino e Abigail Lofaro non lascia spazio a interpretazioni: il governo laburista di Joseph Muscat ha creato un clima che ha portato al progressivo indebolimento della democrazia. “Si è creata un’atmosfera di impunità, generata dalle più alte sfere dell’amministrazione all’interno della Castiglia, i cui tentacoli si sono poi estesi ad altre istituzioni, come la polizia e le autorità di regolamentazione, causando il crollo dello stato di diritto” spiega la commissione. Nonostante le raccomandazioni per tutelare la libertà di stampa contenute all’interno dell’inchiesta, i giornalisti continuano a non essere protetti adeguatamente. Nella classifica del World Press Freedom Index, Malta è passata dalla 81esima posizione alle 78esima. Non si tratta però di un risultato accettabile: mancano ancora cambiamenti strutturali che tutelino i giornalisti. A fine settembre, il primo ministro Robert Abela ha annunciato una riforma costituzionale per proteggere la libertà di stampa. Il ministro della giustizia Jonathan Attard l’ha definita una decisione storica, che invierà un messaggio forte: in uno stato democratico la libertà di stampa deve essere sempre protetta. Non tutti sono così entusiasti come Attard. “La riforma è preoccupante e deludente”, dice Manuel Delia, attivista e fondatore del blog Truth Be Told. Si limita “a considerare il giornalismo il quarto pilastro della democrazia, ma è collocata in una parte della costituzione non applicabile: rimane una dichiarazione. “Riflette molto bene l’atteggiamento del governo nei confronti della stampa: critico e per niente aperto al dialogo” racconta l’attivista amareggiato. Cinque anni dopo l’omicidio la famiglia Caruana Galizia continua a battersi perché la giornalista riceva finalmente giustizia. Così ha organizzato il Daphne Festival, una rassegna di due settimane che si è svolta tra Londra e Malta e che si concluderà oggi con una veglia presso la chiesa di St. Jones a Waterloo dove saranno presenti Reporters without Borders, Article 19, Pen International e Commonwealth Journo. A Malta ci saranno la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola, le ong Repubblika, Occupy Justice e il blog Truth Be Told. L’obiettivo del festival è unire le voci di giornalisti e attivisti da tutto il mondo che continuano a essere vittime di violenze. In occasione di questo anniversario l’eredità di Caruana Galizia è più chiara che mai. “Daphne era una dei pochi giornalisti a fare inchiesta a Malta e la sua morte ha lasciato un grande vuoto”, racconta Delia, “ma giornalisti e giornaliste in tutto il mondo hanno voluto portare avanti le sue inchieste all’interno del collettivo Forbidden Stories”. Ma soprattutto “Ha dato nuova energia alla stampa maltese e alla società civile che insieme hanno scoperto un nuovo modo di fare attivismo e di lottare non solo per la verità, ma anche per uno stato democratico che si comporti come tale”. Haiti sull’orlo del caos (e di una nuova occupazione militare) di Marco Bello Il Manifesto, 16 ottobre 2022 La crisi più grave. Gang criminali padrone del territorio, emergenza umanitaria, colera... E un governo illegittimo che chiede aiuto ai partner internazionali malgrado i precedenti disastrosi. Dall’assassinio del presidente Moïse al rischio sempre più concreto di un’insurrezione popolare. “La situazione non è mai stata così grave. Siamo molto colpiti sul piano personale, famigliare e professionale”, ci dice una nostra fonte giornalistica locale, contattata a Port-au-Prince. Haiti vive una crisi senza precedenti, peggiore, sembra, delle tante vissute nella sua storia. Dal 7 luglio 2021, quando il presidente Jovenel Moïse è stato assassinato, e un governo de facto, presieduto da Ariel Henry, è stato insediato con l’avallo di Usa, Canada e altri Stati “amici”, nel paese non ci sono più istituzioni repubblicane legittimamente elette. Fanno eccezione dieci senatori non decaduti (la camera alta viene eletta nella misura di un terzo ogni due anni), mentre il presidente del senato, Joseph Lambért, è l’unica figura eletta attualmente in carica. Moïse infatti si era premurato di ritardare le elezioni amministrative e parlamentari, portando a scadenza tutte le istituzioni nazionali. Il paese è di fatto controllato da gang criminali che si dividono il territorio, nelle città e sulle vie di comunicazione principali. Sono legate a ricche personalità politiche ed economiche e si finanziano anche con il ricorso massiccio al rapimento a scopo di estorsione. Dal 12 settembre scorso (ma era già successo nell’ottobre 2021), la potente gang G9 an fanmi ak alye controlla e blocca il terminal petrolifero di Varreux, nel porto della capitale, che ospita gli stock di carburante. Benzina e gasolio sono così diventati introvabili, con la super che al mercato nero ha toccato i 5.000 gourd al gallone (circa 9 dollari al litro). In questo modo il paese è paralizzato, i mezzi di trasposto sono fermi, le scuole non hanno potuto riaprire, gli ospedali hanno iniziato a chiudere i reparti, gli uffici non funzionano (l’energia elettrica è prodotta con generatori a gasolio). Il governo non ha fatto nulla per riportare la sicurezza nel paese, mentre ha annunciato il raddoppio del costo dei carburanti a metà del mese scorso (sarebbe il secondo raddoppio dopo quello del dicembre 2021). Da allora, sono cominciati forti movimenti di protesta di strada, molto spesso degenerati in saccheggi e violenze. In ultimo, dall’inizio del mese di ottobre, ha fatto la sua ricomparsa sull’isola il vibrione del colera, e i casi di malati e decessi si moltiplicano, anche a causa della difficoltà, talvolta l’impossibilità, di fornire cure, a causa del blocco del paese. Così, in un consiglio dei ministri del 6 ottobre scorso, il governo ha autorizzato il primo ministro a “sollecitare e ottenere dai partner internazionali un supporto effettivo per il dispiegamento di una forza armata specializzata, per fermare su tutto il territorio la crisi umanitaria causata, tra l’altro, dall’insicurezza, risultato dell’azione delle bande armate”. Il segretario generale dell’Onu Antonio Guterres ha girato la richiesta di aiuto al Consiglio di sicurezza. Richiesta illegittima, da parte di un governo de facto, per chiedere una nuova occupazione militare del paese. Un atto anticostituzionale, come hanno denunciato diversi settori della società civile e dell’opposizione politica. Il gruppo nato dalla società civile e alcuni partiti di opposizione il 30 agosto 2021 in seguito al cosiddetto Accordo del Montana, aveva tentato una negoziazione con il potere de facto, per una gestione più concordata e aderente alla Costituzione della crisi degenerata con l’assassinio del presidente Moïse. A inizio 2022, però, ha gettato la spugna, vista la reticenza di Henry ad ascoltare altri settori della società, per raggiungere un consenso più ampio su un governo di transizione. Si ricorda che le occupazioni militari di Haiti, Usa 1915-1934, Usa 1994 poi sostituita da Nazioni unite (fino al 1997), e ancora caschi blu dell’Onu dal 2004 al 2017, hanno portato con sé enormi problemi, non hanno risolto quelli presenti e, di fatto, hanno contribuito a portare il paese alla situazione attuale aumentandone, nei decenni, la dipendenza dall’estero. Tra il 12 e il 13 ottobre, una delegazione statunitense, guidata dal vice segretario di Stato per gli affari dell’emisfero occidentale Brian A. Nichols, a Haiti ha incontrato separatamente il governo de facto, il gruppo di Montana, e alcuni settori imprenditoriali e sociali. Intanto, una delle maggiori navi guardacosta della marina Usa, ha iniziato a incrociare al largo di Port-au-Prince. Sebbene gli haitiani abbiano mostrato nella storia una grande resilienza, la popolazione è oggi davvero allo stremo. La fame, la violenza, l’insicurezza, le malattie, stanno colpendo tutti. Il rischio, ben visibile, è quello di un’insurrezione popolare generalizzata. A breve.