“Messa alla prova”: un istituto nuovo stretto dentro un’idea vecchia di giustizia di Carla Chiappini* Ristretti Orizzonti, 15 ottobre 2022 Tutto ciò che attiene all’umano, si sa, è caratterizzato da infinite contraddizioni e il mondo della giustizia non ne è in alcun modo immune. Basti pensare all’idea largamente accettata che, per costruire progetti di “rieducazione” all’interno dei percorsi penali sia in carcere che fuori, sia del tutto congrua una laurea in Giurisprudenza che nulla ha a che fare con le questioni che possono riferirsi allo sviluppo umano o alla formazione degli adulti. L’orizzonte della rieducazione si restringe, dunque, all’interno delle norme giuridiche, senza alcun respiro e alcuna seria capacità progettuale. Evidentemente la formazione o rieducazione delle persone condannate è un impegno del tutto formale. D’altro canto nessun laureato in pedagogia, psicologia, filosofia, antropologia si sognerebbe mai di “invadere” il campo delle scienze giuridiche. Così è; non è difficile trarne le conclusioni. Identiche e, a mio avviso, altrettanto se non più gravi contraddizioni le incontriamo nell’ambito della messa alla prova. Presentata come grande innovazione (e in effetti la è) offre notevoli spunti di riflessione già sul piano strettamente giuridico su cui non mi sento di discettare per dichiarata e manifesta incompetenza ma sono certa di poter affermare che, dal punto di vista della cultura della pena, esprime una concezione molto vecchia e generalmente superata di castigo, di punizione. So bene che di pena non si tratta ma di obbligo certamente sì, un obbligo legato a un’imputazione di reato. Questo è. Il lavoro di pubblica utilità, nella formulazione della legge n. 67 del 2014 è un lavoro meramente fisico, manuale, faticoso. Ovviamente gratuito ma completamente privo di proposte riflessive e formative. Come se la consapevolezza del proprio comportamento illegale derivasse alla persona imputata esclusivamente dal sudore della fronte. Questa concezione cozza pesantemente con la speranza che la messa alla prova possa avere un contenuto di prevenzione ed esprime una concezione pedagogica davvero superata e un po’ ingenua. Da anni, in accordo con il Tribunale di Piacenza, con il CSV Emilia e con l’UDEPE di Reggio Emilia la nostra associazione “Verso Itaca APS” porta avanti un progetto - che ormai non può più dirsi sperimentale - di accoglienza di persone messe alla prova e/o in esecuzione penale extra - muraria che si impegnano a scrivere di sé con una ben precisa metodologia mutuata dalla Libera Università dell’Autobiografia, a condividere la propria esperienza di vita, le riflessioni e gli apprendimenti che da questa esperienza sono riuscite a estrarre e a renderli disponibili sia su pubblicazioni che in occasione di testimonianze pubbliche. In realtà anche la nostra associazione - pur non essendo imputata di reati - svolge gratuitamente, per libera scelta e per convinzione, un “lavoro di pubblica utilità”, accompagnando queste persone in un viaggio di ricerca interiore, di ascolto e di consapevolezza. Il senso del nostro volontariato in questo preciso ambito della giustizia penale ci viene restituito da chi lo ha incontrato e vissuto insieme a noi. Non tutti e non sempre ma abbastanza spesso da farci ritenere che ne valga la pena nonostante la fatica e la responsabilità. E nonostante il sovraccarico degli uffici di Esecuzione penale esterna che rende impossibile quel confronto così utile e generativo dei primi tempi, tanto da farci pensare che, probabilmente, accanto al sovraffollamento infinitamente più doloroso delle carceri, si possa ora purtroppo parlare di un sovraffollamento o meglio di un sovraccarico dell’area penale esterna che sempre più spesso ci chiede discutibili adempimenti di natura burocratica. Relazioni scritte al volo, senza dichiarare nessun criterio e nessun punto di vista, giusto per arrivare in tempo per l’udienza conclusiva. Una giustizia formale, fatta di norme, prescrizioni, numeri che non soddisfa nessuna esigenza di maturazione e crescita personale. Lorenzo ha finito la sua messa alla prova due anni fa e, dopo un avvio non semplice, strada facendo, è diventato risorsa e riferimento per tutti noi. Questi sono i suoi saluti: “Credo che il riassunto in modo oggettivo di questa avventura sia “famiglia di sconosciuti” proprio, che a leggerla così, parrebbe un ossimoro ma trovo sia bellissimo. È stato un anno in cui le prime volte, finita la “riunione” tornavo a casa con sempre più domande, poi ad un certo punto credo forse anche la moltitudine di esse, mi ha fatto scattare la molla di DOVER riuscire a trovare le risposte a tutte queste domande. Ovviamente non sono riuscito a trovarle tutte, altrimenti credo potrei scriverci un libro, ma ho più consapevolezza in quello che dico/penso/faccio e la cosa mi ha davvero stupito in quanto non avrei mai immaginato una cosa simile. Invece il riassunto soggettivo assomiglia più ad un “ho imparato qualcosa” e credo che nella vita sia la base di tutto”. Non è mai molto elegante parlare di sé e delle proprie attività ma credo che condividere riflessioni ed esperienze sia invece un gesto utile e sensato. Per cui mi sono concessa ancora una volta di scrivere che ci possono essere altre strade, altre possibilità un po’ più stimolanti per riempire di contenuti anche la messa alla prova. *Giornalista, esperta di scrittura autobiografica Carcere, la strage silenziosa. Mai così tanti morti dal 2009 di Fulvio Fulvi Avvenire, 15 ottobre 2022 Ancora un suicidio. Non si ferma la strage nelle carceri italiane. Stavolta a togliersi la vita è stato, giovedì nella Casa circondariale di Sollicciano a Firenze, un detenuto marocchino di 29 anni. E nello stesso giorno un ragazzo recluso nell’istituto minorile “Ferrante Aporti” di Torino ha tentato di uccidersi ma è stato salvato in extremis dalle guardie. Il nordafricano avrebbe finito di scontare la sua condanna il 22 ottobre prossimo: gli mancavano solo 9 giorni ma non ce l’ha fatta a resistere allo stress psicologico, forse anche perché su di lui pendeva un mandato d’arresto europeo appena confermato dalla Corte d’Appello. Da Aosta era stato temporaneamente trasferito a Firenze per poter partecipare a un processo ma giovedì sera, preso dallo sconforto, ha bloccato la serratura della sua cella con un pezzo di plastica, ha appeso una corda alle sbarre della finestra e si è impiccato. Erano le 20.30 quando i secondini se ne sono accorti, nel loro solito giro di controllo. E con questo di Sollicciano, il tragico bilancio dei suicidi tra le mura di un istituto penale sale a 70 dall’inizio dell’anno (dati di “Ristretti Orizzonti”): mai così tanti dal 2009 quando - al 31 dicembre però - per propria mano ne morirono 72. E non vanno dimenticati i 4 agenti di polizia penitenziaria che in questi nove mesi e mezzo del 2022 hanno avuto la stessa sorte, come sottolinea Gennarino De Fazio, segretario generale Uilpa della categoria. Segno di un malessere profondo che arriva spesso alla disperazione, una situazione, per detenuti, personale e volontari, diventata ormai impossibile in gran parte dei 192 istituti di pena italiani, sovraffollati, con gravi carenze di organico e strutturali e in condizioni igienico-sanitarie spesso precarie. Il ragazzo scampato alla morte a Torino. Un cappio con un lenzuolo che aveva legato alla grata della sua stanza. Con il lembo stretto attorno al collo il ragazzo si è lasciato cadere ma il tempestivo intervento degli agenti è stato decisivo. Nello stesso carcere minorile, inoltre, come denunciano i rappresentanti di Cgil, Cisl e Uil, una guardia è stata ferita mentre, all’ora di pranzo cercava di separare due reclusi che stavano litigando con violenza: colpito in faccia da un contenitore metallico il secondino è stato portato al pronto soccorso del Cto. La situazione nella struttura torinese è “drammatica e pericolosa” “Il personale è allo stremo e abbandonato a se stesso tanto da essere costretto a improvvisare qualsiasi intervento senza idonee e chiare direttive, il carcere minorile di Torino - accusano i sindacati - ha bisogno di un direttore titolare e non di un direttore pendolare che arriva da Bari una volta al mese”. Secondo l’ultimo Report dell’associazione Antigone, a tutt’oggi, l’istituto dove sono avvenuti più casi di suicidio dall’inizio dell’anno è quello di Foggia con quattro decessi. Seguono con tre suicidi ognuno, Milano San Vittore, Monza e Roma Regina Coeli. “Attendiamo l’insediamento del prossimo governo per chiedere al nuovo ministro della Giustizia un confronto ad ampio spettro su tutte le questioni che investono il sistema d’esecuzione penale - afferma De Fazio - ma sia chiaro sin d’ora che servono riforme strutturali, investimenti per organici ed equipaggiamenti e persino un banale accorgimento: subito un direttore e un comandante della Polizia penitenziaria titolari in ogni carcere”. “Vanno assunti immediati e urgenti provvedimenti da parte del ministero” aggiunge Aldo Di Giacomo, segretario del Spp (Sindacato di Polizia penitenziaria), che ricorda la promessa del ministro Cartabia di introdurre nelle carceri italiane 2mila psicologi. “Le Rems rischiano di trasformarsi in manicomi” agi.it, 15 ottobre 2022 La denuncia della Società Italiana di Psichiatria che spiega come le Rems, residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, stiano diventando il contenitore di tutto ciò che il carcere non vuole, su cui si allunga l’ombra sinistra di un ritorno al passato. Le Rems (residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza), strutture di cura che hanno preso il posto dei manicomi giudiziari, create per curare e accogliere gli autori di reato giudicati infermi o seminfermi di mente, rischiano di trasformarsi in nuovi manicomi criminali. Questi centri si stanno infatti riempiendo di persone che non dovrebbero essere lì. I giudici tendono a utilizzare le 31 Rems italiane come “parcheggio” di indagati sottoposti a misure di detenzione provvisoria, la cui infermità di mente non è stata ancora accertata oppure di detenuti con problemi psichiatrici sviluppati in carcere. È questa la dura denuncia della Società Italiana di Psichiatria (SIP) contenuta in uno studio pubblicato sul Journal of Psychopathology e discusso in occasione del congresso nazionale in corso in questi giorni. “Molti dei pazienti rinchiusi - spiegano Enrico Zanalda e Massimo di Giannantonio, coautori dello studio e co-presidenti SIP - non hanno una malattia psichiatrica certa e vengono ‘parcheggiati’ in attesa di giudizio in cui spesso il vizio di mente viene meno. Si tratta di detenuti assegnati alla Rems per disturbi di personalità antisociali, dipendenza da sostanze, marginalità sociale, che non vanno confuse con le malattie mentali che possono giovarsi di percorsi residenziali in strutture di cura. Così le Rems stanno diventando il contenitore di tutto ciò che il carcere non vuole, su cui si allunga l’ombra sinistra di un ritorno al passato. Fra i nodi irrisolti perizie viziate, richieste di invii inappropriati, riconoscimento disinvolto di pericolosità sociale che per l’infermità di mente andrebbe abolito”. Aggiungono Zanalda e di Giannantonio: “Le Rems sono strutture piccole, di massimo 20 persone, che fanno parte delle reti dei Dipartimenti di Salute Mentale, pensate come luoghi di cura e reinserimento, con ricoveri limitati nel tempo che dovrebbero essere destinati ad accogliere solo autori di reato giudicati infermi o seminfermi di mente, ma anche socialmente pericolosi e non adatti a soluzioni meno restrittive”, spiegano Zanalda e di Giannantonio. “Dall’orrore dei manicomi si è passati ad un’eccellenza italiana unica al mondo che rischia invece di affondare non per i suoi demeriti ma per le questioni irrisolte della giustizia e della burocrazia italiana, tra cui anche la mancata riforma del codice penale - continuano -. Sui 709 ospiti, considerati nello studio e ricoverati nelle 31 Rems distribuite sul territorio nazionale, oltre la metà sono destinatari di misure provvisorie, analoghe alla custodia cautelare in carcere. Una deriva rispetto allo spirito originario delle Rems che rischia di farle saltare facendo rientrare dalla finestra la logica degli ex manicomi criminali”. Concludono: “In molti casi si tratta di detenuti non affetti da una patologia mentale conclamata che vengono ‘etichettati’ come psichiatrici e assegnati alle REMS senza avere un’indicazione clinica. Persone che sottraggono posti a chi ne ha davvero bisogno e che dovrebbero andare in carcere o essere presi in carico da altri servizi sanitari e sociali. Cosi, ad esempio, si trovano insieme un paziente schizofrenico e pazienti con problemi di personalità antisociale, elementi di disturbo che compromettono l’efficacia e i risultati terapeutici. Da qui a riavvicinarsi più alla logica dei manicomi criminali che a quello della cura, il passo è breve”. Aumentano i bambini in cella, ma solo indifferenza per i piccoli “reclusi” di Viviana Lanza Il Riformista, 15 ottobre 2022 Il Riformista continua la sua campagna per evitare che bambini in tenera età siano costretti a vivere dietro le sbarre, tenendo alta l’attenzione sui dati che ogni mese diffonde il Ministero. Il tema delle mamme detenute con figli piccoli al seguito sembra non interessare più la politica. Passata la fase dell’indignazione collettiva e delle frasi ad effetto come “mai più bambini in carcere” si è tornati all’indifferenza di sempre. Evidentemente i politici sono troppo impegnati a conquistare consensi per conquistare poltrone per occuparsi del destino di una ventina di bambini. Se non portano voti, non valgono l’attenzione. È avvilente constatare che con il passare dei mesi i bambini “reclusi” con le loro mamme aumentano invece di diminuire. Dal 31 agosto al 30 settembre se ne contano tre in più nelle celle campane. Quelle dell’Icam di Lauro, che è un istituto a custodia attenuata, vuol dire che non ha proprio le sembianze di un carcere ma di fatto lo è. Il fatto che gli agenti della penitenziaria non indossino la divisa, che ci siano pareti colorate nelle stanze e scivoli e altalene nel cortile non stravolge la natura di quel luogo che resta un istituto di reclusione per donne che hanno commesso reati e che hanno figli in tenera età. Parliamo di bambini da zero a sei anni, piccoli che imparano a conoscere il mondo attraverso cancelli che si aprono e si chiudono sempre agli stessi orari, spazi ridotti, rapporti umani e familiari limitatissimi. I numeri illustrano tutta l’indifferenza politica che c’è rispetto a questo argomento. In tutta Italia ci sono 26 bambini “reclusi”, 24 mamme. La metà è in Campania: nell’Icam di Lauro dove si contano 13 bambini, 12 mamme. Erano 10 al 31 agosto. In questo mese sono aumentati e, calcolando che anche ad agosto erano più di luglio, c’è da immaginare che quell’inversione di tendenza annunciata dalla ex ministra Cartabia non ci sarà per il momento. Aspetta da quasi 6 anni un permesso premio e fra due sarà libero di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 15 ottobre 2022 Francesco Annunziata, in Alta sorveglianza nel carcere di Massama, ha presentato l’istanza nel 2016, rigettata nel 2019, la Cassazione ha rimandato gli atti, ma il magistrato di Sorveglianza ancora non decide. Si può attendere quasi sei anni per l’accoglimento o meno del permesso premio? Sembra surreale, ma è quello che sta accadendo a Francesco Annunziata, attualmente detenuto in Alta sorveglianza (As1) al carcere sardo di Massama, al quale rimangono altri due anni per finire di scontare la pena. Ha raccontato la sua vicenda in una lettera inviata all’associazione Yairaiha Onlus - Varcò le soglie del carcere, da giovanissimo, nel lontano 1997. Il reato era per associazione mafiosa. Una condanna a 30 anni di galera, e attraverso un percorso tortuoso è riuscito a concretizzare l’obiettivo della pena detentiva come pretende la costituzione italiana: il reinserimento graduale del condannato nella società. Come racconta lui stesso tramite una lettera inviata all’associazione Yairaiha Onlus, e per conoscenza al Dap e al ministero della Giustizia, ha inoltrato l’istanza di permesso premio previa declaratoria di inesigibilità della collaborazione nel mese di novembre 2016. L’udienza è stata fissata dopo un anno, ovvero nel mese di novembre 2017. Dopo due anni, cioè nel 2019, la magistratura di sorveglianza scioglie finalmente la riserva: rigetta l’istanza. La Cassazione ha accolto il suo ricorso rimandando il fascicolo al magistrato di Sorveglianza - A quel punto il detenuto Annunziata fa ricorso alla Cassazione: a giugno del 2020, la Corte suprema gli dà ragione rimandando indietro il fascicolo al magistrato di Sorveglianza di Cagliari per una nuova valutazione. Ad oggi, e sono passati altri due anni, ancora è in attesa dell’esito. Da precisare, e non è un dettaglio da poco, il fascicolo ritornato indietro per una nuova valutazione era già correlato sia delle informazioni delle forze di polizia che escludevano collegamenti con la criminalità organizzata, che della relazione di sintesi redatta ai fini dell’udienza per l’inesigibilità. Non ci sono collegamenti con organizzazioni criminali e il clan di appartenenza non esiste più dal 2001 - Il magistrato di Sorveglianza decide comunque di richiedere nuovamente le informazioni alle forze di polizia che ulteriormente ribadiscono in maniera categorica, il fatto che Annunziata Francesco non ha collegamenti con organizzazioni criminali e che il clan di appartenenza non esiste più dal 2001. Inoltre, la “nuova” relazione di sintesi ribadisce la sperimentazione dei permessi premio all’interno del trattamento. Di fatto, sono passati 5 anni e 10 mesi dall’inoltro dell’istanza, nei quali sono due gli anni dal ritorno del fascicolo al magistrato e 11 mesi dall’arrivo della nuova relazione di sintesi, senza ancora una risposta, qualunque essa sia. Gli scogli maggiori per un detenuto in As1 sembrano essere superati (inesigibilità, assenza di collegamenti, adesione al patto rieducativo, revisione critica del proprio passato) eppure non sembrano sufficienti affinché ottenga una risposta. L’associazione Yairaiha Onlus si chiede come possa accadere tutto ciò - “Come si può definire quello che sta succedendo al signor Annunziata?”, si domanda l’associazione Yairaiha rivolgendosi alle istituzioni. “Fatichiamo a trovare il termine adatto; ma riteniamo quantomeno paradossale che un magistrato di sorveglianza possa lasciare una persona che tanto si è impegnata, e con questa i suoi affetti, in bilico per tutto questo tempo senza dare risposte ad una legittima, e positiva, istanza. Ci pare di ricordare che ci sono dei tempi tecnici entro i quali un magistrato, per Legge, è obbligato a rispondere; qui sembrano essere abbondantemente oltrepassati”, chiosa l’associazione. I permessi premio possono essere concessi ai detenuti che non risultano socialmente pericolosi - Ricordiamo che il permesso premio è contemplato dall’articolo 30 ter, il quale stabilisce che ai condannati che hanno tenuto una regolare condotta durante l’esecuzione della pena (8° comma) e che non risultano essere socialmente pericolosi, possono essere concessi tali permessi dal magistrato di Sorveglianza sentito il Direttore dell’Istituto penitenziario. Tali permessi hanno come obiettivo quello di consentire ai condannati di coltivare, fuori dall’Istituto penitenziario, interessi affettivi, culturali, di lavoro. I permessi premio rappresentano un momento di passaggio importante per qualsiasi detenuto - La durata dei permessi non può essere superiore ogni volta a 15 giorni (ma di solito lo concedono per poche ore) e non può comunque superare la misura complessiva di 45 giorni in ciascun anno di espiazione della pena. Come sottolinea Yairaiha, i permessi premio rappresentano un momento di passaggio importante per qualsiasi detenuto, a maggior ragione dopo 25 anni ininterrotti di detenzione come nel caso di Annunziata. Il permesso è un momento di verifica sia per il detenuto e sia per le persone che lo hanno accompagnato in questo processo di cambiamento e crescita. Mattarella dai magistrati, preoccupati per il nuovo ministro di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 15 ottobre 2022 Giustizia. Il presidente all’apertura del congresso dell’Anm. Toghe in allarme per il probabile arrivo di Nordio ma anche per la nomina dei nuovi togati nel Csm: “Non pensino di metterci in riga”. C’è stato un tempo, erano ancora gli anni novanta dell’altro secolo, in cui l’Associazione nazionale magistrati avviò un’azione disciplinare contro Carlo Nordio, all’epoca sostituto procuratore a Venezia, titolare di inchieste sulle coop rosse, ma soprattutto loquace avversario del pool milanese di Mani pulite (“vogliono la loro quotidiana libra di carne”). Ieri l’Anm ha aperto a Roma il suo 35esimo congresso nazionale, faticosamente incastrato nel calendario istituzionale e alla presenza, tradizionale ma quest’anno non scontata, di Sergio Mattarella. E Carlo Nordio pare proprio che sia a pochi giorni dal diventare ministro della giustizia, nel caso evidentemente con l’ok del Capo dello Stato. Anche per questo nella sua relazione il presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia ha messo le mani avanti: “L’ordine giudiziario non può essere messo in riga. La politica deve accantonare la pulsione a far pagare il conto ai magistrati”. Le idee del centrodestra e di Nordio sono note. Separazione delle carriere e responsabilità civile diretta dei magistrati sono ai primi posti della lista, malgrado o forse a maggior ragione dopo il fallimento dei referendum che a tanto miravano. Per l’Anm sono due minacce pesanti. Ma l’Anm si è opposta anche alle riforme della ministra uscente, Marta Cartabia. Due concluse, almeno dal punto di vista normativo - modifiche ai codici di procedura penale e civile - una ancora da scrivere nel dettaglio: riforma dell’ordinamento giudiziario. Il contenuto della legge delega piaceva già poco alle toghe, il dettaglio sarà a cura del nuovo governo e, dal punto di vista dei magistrati, potrebbe andare anche peggio. Giusto ieri Cartabia, che sta lasciando via Arenula, ha comunicato i dati aggiornati sulla durata dei processi. Durata abbreviata: nei primi sei mesi del 2022 (quindi al netto delle riforme) del 18,4% nel civile e del 13,9% nel penale. Cala anche l’arretrato civile in Appello, meno 24,1%. Gli obiettivi sono assai più ambiziosi: è scritto nel Pnrr che la durata dei processi civili dovrà scendere del 40% e quella dei processi penali del 25% entro il 2026, mentre l’arretrato civile quasi sparire (-90%). “Abbiamo fatto il possibile, la riforma darà i suoi frutti nel tempo”, ha scritto Cartabia all’Anm. “La riduzione dei tempi è frutto dello sforzo che i magistrati stanno facendo nonostante una scopertura nell’organico di 1.700 unità”, ha risposto Santalucia. Punto dolente, secondo i magistrati, che questa mattina, presenteranno un dossier, è il (non) funzionamento dell’ufficio del processo, la novità che nei piani del governo uscente avrebbe dovuto rendere efficiente il lavoro negli uffici giudiziari. Il nodo è sempre lo stesso (malgrado i fondi del Pnrr), i finanziamenti: “Se non si provvede a dotare il sistema delle necessarie risorse il rischio della riforma è di produrre diritti e garanzie di carta”, dice Santalucia nella sua relazione. Il presidente, come fa da tempo nei suoi interventi, non sorvola sullo scandalo Palamara che ha travolto l’immagine della magistratura, “inaccettabili interferenze e commistioni”, parla anzi di “crisi della magistratura” e anche “crisi dell’Anm”. Ma demolisce il modo in cui il governo uscente ha pensato di porvi rimedio: “Una revisione dell’organizzazione in senso accentuatamente gerarchico” mentre “la giurisdizione non può essere schiacciata da una logica efficientista”. Le speranze che il nuovo governo possa esercitare la delega sull’ordinamento giudiziario in modo più vicino ai desideri dei magistrati sono però molto poche. Anche se il modo in cui (non) ha funzionato la riforma della legge elettorale per il Csm - prevista dalla stessa riforma - dovrebbe suggerire che molto di quella legge andrebbe cambiato. Intanto l’Anm ha un’altra preoccupazione, più immediata: si augura che il nuovo parlamento sappia “nominare una componente laica del Csm di alta statura per cultura giuridica e sensibilità istituzionale”. Anche in questo caso, malgrado l’avvertimento che l’ex presidente della Corte costituzionale Gaetano Silvestri lancia dal palco - “Il Csm non è un parlamentino” - le speranze non sono poi molte. Cartabia: “I processi sono più rapidi”. L’Anm, “stop alla pulsione di mettere in riga i giudici” di Liana Milella La Repubblica, 15 ottobre 2022 Il presidente del sindacato delle toghe Santalucia apre il congresso e davanti a Mattarella chiede al Parlamento di nominare al Csm “laici di alta statura”. Sulla giustizia arrivano, in contemporanea, i messaggi al futuro governo della (tuttora) Guardasigilli Marta Cartabia e del presidente dell’Anm Giuseppe Santalucia. La prima vanta i processi civili e penali più rapidi grazie alle sue riforme e ai primi fondi del Pnrr. Con quel -18,4% nel civile tra giudizi già esistenti e quelli in arrivo, e quel -13,9% nel penale. Santalucia ripete invece, davanti al presidente della Repubblica Sergio Mattarella, uno storico leit motiv della magistratura diretto ancora una volta alla politica, stop alla voglia di “mettere in riga l’ordine giudiziario”. Per una fortuita coincidenza, nella stessa giornata e a ridosso delle ormai imminenti trattative per formare il nuovo governo, sia la ministra della Giustizia, sia le toghe del sindacato dei giudici lanciano un chiaro segnale a chi s’insedierà in via Arenula. Cartabia chiede di proseguire il lavoro che è stato svolto nei venti mesi da Guardasigilli e ne sintetizza i risultati, mentre Santalucia, al Parlamento appena insediato e che dovrà scegliere i dieci componenti laici del Csm, chiede a sua volta di nominare “componenti di alta statura per cultura giuridica e sensibilità istituzionale”. L’appello di Cartabia - “Tornerò a fare il professore, quello che in fondo amo di più. I miei ragazzi mi aspettano a Milano” dice a Sky Marta Cartabia sgombrando il campo da chi ipotizza un suo futuro al Csm. Si appresta già al passaggio di consegne con chi arriverà dopo di lei con lo spirito di chi ha lavorato in una maggioranza eterogenea che descrive così: “Dopo 30 anni siamo riusciti a parlarci e ad arrivare a testi condivisi. Adesso non perdiamo questo patrimonio, qualunque riforma si debba fare, cerchiamo di farla insieme”. E delle “sue” riforme porta i risultati. Visto che, “come scrive la Costituzione, la ragionevole durata del processo riguarda i diritti delle persone”. L’arretrato nel civile in tribunale attestato sul -6,7% e sul -24,1% in Appello. E ancora in Cassazione -25,1% nel civile e -23,3% nel penale. Come lei stessa ammette “le crisi possono essere un’opportunità” tant’è che la pandemia ha portato il fondi del Pnrr per ridurre del 40% i tempi dei processi civili e del 25% quelli penali. “Noi abbiamo voluto traghettare la giustizia verso un futuro migliore con una priorità, battere proprio l’eccessiva durata dei processi”. Da qui “gli investimenti nella digitalizzazione, gli 8.250 giuristi dell’ufficio del processo, e altrettanti ne verranno, le assunzioni del personale amministrativo, tre concorsi in venti mesi per futuri magistrati da 300, 500 e 400 nuovi posti per rimettere in moto una macchina che andava troppo a rilento”. E poi quel monito per il futuro: “La giustizia è sempre stata terreno di scontri feroci, ho lavorato con forze politiche che non riuscivano a mettersi d’accordo, ma abbiamo trovato un terreno comune, un accordo anche con divergenze di vedute identitarie, ma imparare ad ascoltarsi serve per la convivenza non solo politica, ma civile”. Le mani avanti dell’Anm - Dopo un paio d’ore ecco che Giuseppe Santalucia apre il congresso dell’Anm. E conviene citare subito tre righe della sua relazione mentre già risuonano in sala gli allarmi dei colleghi visti i programmi anti-giudici del centrodestra, dalla separazione delle carriere alla riforma costituzionale dello stesso Csm: “La speranza è che sia finalmente messa da canto la pulsione, che in questi recenti anni abbiamo visto invece ravvivata, di poter mettere in riga l’ordine giudiziario, profittando delle difficoltà e del calo di credibilità”. Santalucia spiega il suo allarme: “Non parliamo per difendere una corporazione, ma perché l’impulso di far pagare il conto ai magistrati non porta al superamento della crisi della giurisdizione, ma apre al progressivo indebolimento di un suo connotato ideale, l’unico capace di alimentare e mantenere nel tempo la fiducia collettiva che tutti ricerchiamo: mi riferisco all’indipendenza dei magistrati dall’esterno e all’interno dell’ordine stesso”. Gli scandali ci sono stati - Il presidente dell’Anm non minimizza quelli che lui stesso chiama “gli scandali”. Il caso Palamara ovviamente. Ma descrive una magistratura “che non è rimasta inerte e frastornata dalla rivelazione degli intrecci tra mondo associativo, intromissione della politica e istituzione consiliare”. Invece “abbiamo reagito nel modo più corretto e soprattutto capace di assicurare effetti durevoli”. Poi Santalucia chiosa: “Forse abbiamo deluso quanti al rumore degli scandali volevano che seguisse una reazione vistosa, altrettanto spendibile mediaticamente, e quanti anche in buona fede ritengono che la compostezza della reazione equivalga a debolezza e confusione, smarrimento e mancanza di progettualità”. Santalucia elenca i numeri delle “punizioni” della stessa Anm (da non confondere con quelle disciplinari del Csm): tra 2021 e 2022 sono stati aperti 102 procedimenti, a oggi 64 sono definiti, 16 con sanzioni, le maggior parte delle volte la censura, 27 per dimissioni dalla stessa Anm, 21 per insussistenza del rilievo deontologico. Insomma l’Anm “sta facendo i conti, e seriamente, con gli errori del passato”. Troppo “carrieriste” le leggi Cartabia - Sul piano delle riforme di certo Santalucia non è tenero con quelle di Cartabia. Dice che la nuova legge sul Csm “fa correre il rischio di veder intaccato il modello di magistrato delineato in Costituzione, che si distingue soltanto per diversità di funzioni, che non ha capi gerarchici, che segue logiche di giustizia e non quelle produttivistiche di aumento incontrollato delle statistiche”. L’efficienza di un magistrato “si apprezza anche e forse di più sul terreno della qualità delle decisioni”. Come la stessa Anm ha ripetuto più volte nelle commissioni parlamentari la via da seguire avrebbe dovuto essere un’altra: “Se il fine era quello di sopire l’ansia di far carriera, sarebbe stato necessario deprimere il peso e l’incidenza della carriera stessa, riducendone gli spazi, disinnescando i meccanismi che ne hanno fatto crescere il fascino tra i magistrati, spinti a ricercare nelle promozioni e negli incarichi la compensazione delle frustrazioni per la quotidiana constatazione di farraginosità procedurali e organizzative che sono d’ostacolo alla principale gratificazione, quella di amministrare la giustizia”. No alle pagelle per i giudici - E Santalucia chiude così: “Si colgono qui le maggiori responsabilità della Politica, nel non aver ricercato le ragioni di un disagio, di un malessere che si è manifestato nelle forme del carrierismo, patologia che è effetto e non causa del progressivo indebolimento della giurisdizione”. Bocciate dunque le pagelle, i fascicoli per valutare la toga, con il rischio di attribuire ai capi tutto il potere. A fronte dell’ansia di efficienza, Santalucia risponde che “la giurisdizione non può essere ossessionata e schiacciata da una logica efficientista che punti tutto sul dato numerico dimenticando che un fascicolo rappresenta uno scorcio di vita, di sofferenza, di umanità ferita”. Di qui l’appello alla politica perché, in sede di esercizio della delega, “ascolti attentamente ciò che abbiamo da dire”. Giustizia e avvocatura, si riapra il cantiere delle riforme di Giampaolo Di Marco Il Domani, 15 ottobre 2022 Il Congresso Nazionale Forense di Lecce ha visto l’approvazione da parte della massima assise dell’Avvocatura di quattro mozioni proposte da A.N.F., tre di queste riguardano le riforme in corso e indicano con chiarezza le linee generali di possibili interventi correttivi. La chiusura del Congresso Nazionale Forense di Lecce consegna a tutta l’Avvocatura una nuova agenda di politica forense, in un momento storico in cui stanno prendendo corpo importanti riforme di sistema che interessano il mondo della giustizia e della professione. In questo contesto l’Associazione Nazionale Forense avverte la necessità di utilizzare al meglio i prossimi mesi, per dare forza alle sue idee e proposte. Proprio in questi giorni si stanno portando a compimento le riforme processuali e dell’ordinamento giudiziario. Sono stati approvati dal Consiglio dei Ministri i due decreti legislativi che attuano la delega sulla riforma del processo penale (conferita con legge 134/2021) e quella sulla riforma del processo civile (conferita con legge 206/2021). È ancora pendente, invece, la delega per la riforma dell’ordinamento giudiziario (conferita con legge 71/2022). Nei prossimi mesi, si aprirà uno spazio di confronto rispetto alla possibilità di apportare delle correzioni e modifiche alle due riforme dei codici di rito. Le stesse leggi di delegazione prevedono la possibilità di decreti correttivi da adottarsi entro due anni, inoltre siamo all’inizio di una nuova legislatura, a breve ci sarà un nuovo Governo ed un nuovo Ministro della Giustizia ed è difficile pensare che non si apra uno spazio di discussione sull’impianto delle riforme già approvate. Il Congresso Nazionale Forense di Lecce ha visto l’approvazione da parte della massima assise dell’Avvocatura di quattro mozioni proposte da A.N.F., tre di queste riguardano le riforme in corso e indicano con chiarezza le linee generali di possibili interventi correttivi. Ed è proprio a partire da queste mozioni congressuali che A.N.F. vuole far sentire la sua voce e formulare le sue proposte di dettaglio. La riforma del diritto processuale civile presenta rilevanti criticità, dato che sembra perseguire le esigenze di efficienza e velocità del processo, a discapito della necessità di pieno dispiegamento del contraddittorio, effettiva ricerca della verità fattuale e massima correttezza delle decisioni giudiziali. A.N.F. ritiene che sia un errore operare un’ulteriore compressione dei termini difensivi delle parti ed aumentare sbarramenti e decadenze o esasperare i poteri di direzione del processo in capo al giudice. Non sono condivisibili e necessitano di essere riviste le norme che sposano un approccio punitivo nei confronti del cittadino che si rivolge al giudice per la tutela dei propri diritti, così come destano perplessità una serie di istituti che limitano il principio di libertà di forme o la libertà difensiva delle parti. A ciò si deve aggiungere che l’intervento riformatore si incentra ancora una volta sul rito e sulle regole processuali, mentre sarebbe necessario aumentare le risorse del sistema giustizia e incidere sull’organizzazione del lavoro negli uffici giudiziari. Rispetto alla riforma del processo penale A.N.F. ritiene che sia necessario introdurre dei correttivi che garantiscano che la trattazione degli atti di impugnazione (appello e ricorso per cassazione) avvenga con il contraddittorio orale e la presenza necessaria del difensore, e l’adozione di criteri trasparenti e predeterminati per legge, di rango primario, per la redazione dei progetti organizzativi delle Procure. La riforma dell’ordinamento giudiziario è un cantiere per larga parte ancora aperto ed in cui vi sono ampi spazi di manovra per sollecitare un’attuazione della delega che consenta all’Avvocatura una maggiore partecipazione all’attività organizzativa degli uffici giudiziari, dando seguito alle esperienze di buone prassi già esistenti in diverse Tribunali, con l’istituzione di cabine di regia per l’organizzazione dell’esercizio della giurisdizione con particolare riferimento alla gestione ed organizzazione degli Uffici del processo. Vi è poi il tema della riforma dell’ordinamento professionale forense, che l’Avvocatura aspetta da un decennio. Quando nel 2012 il Congresso Nazionale Forense di Bari prese in esame la proposta di riforma della legge professionale che era in discussione (e che è poi divenuta la legge 247/2012), l’Avvocatura chiese di approvare il testo di legge che era in discussione in Parlamento, essendo la legislatura quasi alla fine e non essendoci i tempi tecnici per delle ulteriori letture, ma allo stesso tempo chiese che fosse messa subito in cantiere una revisione di quella legge, che presentava una serie di gravi carenze. A distanza di molti anni nulla è stato fatto. A.N.F. ritiene che non sia più rinviabile una riforma complessiva dell’ordinamento professionale forense, in senso democratico e partecipativo, incentrata anzitutto su una ridefinizione della governance delle istituzioni forensi che passi dalla separazione dei poteri e delle funzioni giurisdizionali, regolamentari e amministrative, attualmente tutti in capo ad un unico organo nazionale, che garantisca forme di rappresentanza politica dell’avvocatura condivise e valorizzi la partecipazione delle associazioni forensi maggiormente rappresentative alla vita politica delle istituzioni forensi. Allo stesso modo è necessario intervenire sul percorso di accesso alla professione, sulle forme di esercizio della professione, sulla tutela degli avvocati collaboratori. Nel Congresso Nazionale Forense di Lecce si è stabilito di convocare una sessione ulteriore di lavoro che si terrà nell’autunno 2023, nella quale (finalmente) si parlerà di riforma dell’ordinamento professionale. A.N.F. ha presentato una propria proposta al Congresso e vuole lavorare in questo anno per presentare le sue proposte anche nella sessione ulteriore. Va inoltre ricordato che il Congresso di Lecce ha visto anche un rafforzamento della presenza di A.N.F. nell’Organismo Congressuale Forense, il che le consentirà di partecipare in modo ancor più incisivo al percorso pre-congressuale della sessione ulteriore e portare il suo contributo nella elaborazione condivisa della riforma ordinamentale. A.N.F. esce, quindi, dal 35° Congresso Nazionale con nuove responsabilità per il futuro e con un’agenda che guarda alle riforme in atto e alla sessione ulteriore, senza dimenticare altri temi costituivi dell’identità di A.N.F. quali la formazione e la previdenza forense. Il nuovo ministero torni ad essere di Grazia… e Giustizia di Gennaro De Falco Il Riformista, 15 ottobre 2022 Caro Presidente, Le scrivo quest’altra letterina parlando soprattutto di Giustizia, che poi da tantissimi anni è il mio mestiere ma, forse assai presuntuosamente, penso che sentire o meglio ascoltare la voce degli avvocati in materia di Giustizia sia assolutamente indispensabile e sono convinto che Lei lo farà. So perfettamente che il momento è difficilissimo e che certamente esistono delle emergenze assai più pressanti della Giustizia ma so anche che mentre la sanità e l’istruzione, pur con le solite differenze territoriali, funzionano assai meglio non si può dire la stessa cosa della Giustizia, che pure va gestita e migliorata. Le parlo di giustizia da ultimo degli avvocati anche per chiederle di introdurre nelle scelte decisionali il principio di competenza, significa che a decidere sulle scelte deve essere chi ha una competenza specifica per farlo, purtroppo da troppi anni questo principio è quasi del tutto ignorato. La prima cosa che le chiedo è di controriformare il nome del ministero della Giustizia rimettendo prima la parola Grazia, perché prima quel ministero era di Grazia e Giustizia e la Giustizia per essere tale deve essere misericordiosa e prima della parola Giustizia la parola Grazia ci stava benissimo e assai male hanno fatto a toglierla, forse è un segno dei tempi ma se i tempi si dimostrano sbagliati meglio correggerli. Non so se sia una cosa di sinistra o di destra ma è un invito che le faccio, farlo non costerebbe assolutamente nulla ma potrebbe insegnare tante cose a molti che non le sanno o, peggio ancora, non le capiscono. So perfettamente che chi governa non può sapere e fare tutto e che i consiglieri, vale a dire i tecnici, sono indispensabili ma so anche che i consiglieri dei politici e, nei fatti, i ministri della Giustizia ombra, sono i tanti magistrati distaccati al Ministero che però assai spesso hanno una visione di parte delle dinamiche che dovrebbero regolare. Poi vi è un altro aspetto da considerare, vale a dire il fatto che i numerosi magistrati distaccati al Ministero percepiscono il loro stipendio e, se non vado errato, anche delle congrue indennità mentre ciò per un avvocato sarebbe del tutto impossibile. Un avvocato che sia tale vive del suo lavoro e del contatto quotidiano con il territorio dove vive, se venisse allontanato dal tribunale cesserebbe di essere un avvocato, insomma gli avvocati sono fuori dalle dinamiche decisionali e questo è un problema cui pure occorre porre riparo. Si potrebbe obbiettare che al ministero della Giustizia per un periodo abbastanza breve abbiamo avuto un avvocato ma so anche che si trattava di un avvocato molto giovane e quindi necessariamente di poca esperienza, che talvolta si presentava alle conferenze stampa con la divisa degli agenti di custodia e che alcune sue sortite, quando si avventurava in disquisizioni giuridiche, non trovavano piena concordia e poi per incidere negli apparati occorre tempo. Detto ciò, so anche che i rappresentati dell’avvocatura che siedono nei vari organismi e con cui pure vi sono interlocuzioni da parte delle istituzioni di fatto sono ormai politici a tutti gli effetti e occupano quei posti prevalentemente per successione ereditaria e con le aule di giustizia e soprattutto con le cancellerie dei tribunali, pur con qualche eccezione, non hanno e non possono avere alcuna dimestichezza, come so anche che la loro condizione “politica” li costringe o potrebbe costringerli a continue e spesso non lungimiranti mediazioni con il loro elettorato presente e futuro. Venendo al concreto, in una cosa sono in assoluto accordo con la maggior parte dei magistrati, l’assoluta indispensabilità della reintroduzione del numero programmato per l’iscrizione all’Albo. In questi anni, in fatto di avvocatura, il mercato ha dimostrato di non funzionare assolutamente creando ormai in tutto il Paese una massa di sottoccupati in cerca di vie di fuga verso la pubblica amministrazione e questo non può non rifrangersi su decoro, prestigio, qualità ed autonomia del servizio reso all’utenza. Intendiamoci, esistono le ombre ma anche le luci e queste luci aiutano a capire dove intervenire per migliorare, ed una luce è stata l’introduzione dell’Ufficio del processo che, per chi non lo sapesse, sono dei giovani laureati assunti con procedure concorsuali semplificate e contratti a tempo per sopperire ai mostruosi arretrati che si sono creati nei tribunali, cosa che stanno facendo egregiamente. Devo riconoscere che all’inizio non credevo assolutamente nell’efficacia di questa riforma ma poi mi sono pienamente ricreduto e il giudizio positivo su queste nuove energie viene condiviso anche dai magistrati. Devo anche aggiungere che TUTTI puntano al concorso per entrare nella magistratura ordinaria e nessuno all’avvocatura che ormai per forza di cose è stata abbandonata dalle energie migliori. Ma allora per quale ragione i funzionari dell’Ufficio del processo funzionano così bene ed il resto no? La mia personale risposta a questo interrogativo è molto semplice: lo spirito di casta insindacabile che in ampia parte sembra pervadere la magistratura di carriera e che spesso si estende al personale amministrativo, e qui il discorso si fa politico ed entra in gioco pienamente Lei nella sua funzione di prossimo Capo del Governo. Qui si parla sempre di diritti e mai di doveri, ora non so se la cultura del dovere sia di destra o di sinistra, non lo so e non mi interessa neppure saperlo, ma so che senza questa cultura e il ripristino del senso dello Stato una collettività non può esistere, e per questa ragione va introdotta la cultura del dovere che significa come minimo non perdere i fascicoli, studiarli ed arrivare puntuali e preparati in udienza e non rinviare le cause all’infinito prossimo venturo. Chiedo molto o magari troppo? A questo punto si tratta di andare, per quanto possibile, ad incidere sulla cultura della gente e sulla loro percezione del rapporto tra dovere e diritti, senza dovere i diritti non possono esistere ed è questo che bisogna capire. Lei certamente ha letto La fattoria degli animali di Orwell e le metamorfosi che genera il potere sull’animo delle persone ed è su queste bisogna intervenire per fare in modo che i funzionari dell’Ufficio del processo non cambino anche loro, se e quando vinceranno il concorso. La vera sfida è questa. Un’altra, che pure bisogna combattere e vincere, è riportare le energie migliori anche nell’avvocatura e questo potrà avvenire solo con la reintroduzione del numero programmato per le iscrizioni all’albo. Riportare le toghe sotto l’ombrello della legge e riforme a “costo zero”. Le sfide del guardasigilli di Alberto Cisterna Il Dubbio, 15 ottobre 2022 La legislatura appena iniziata si prefigura foriera di novità sul versante giudiziario. La casella del ministero della Giustizia sembra stare ai margini delle febbrili trattative in corso per comporre il nuovo esecutivo. In questi giorni appaiono altre le poste in gioco e gli uffici di via Arenula stanno un po’ in disparte, quasi che solo a risiko finito si potrà sapere chi sarà il prossimo Guardasigilli. Eppure. Eppure la legislatura appena iniziata si prefigura foriera di grandi novità sul versante giudiziario, almeno a partire dagli annunci fatti in campagna elettorale in cui si promettevano epocali svolte e solenni prese di posizione. Un fattore gioca a tutto vantaggio delle riforme giudiziarie, la circostanza che molte tra esse sono a costo zero. Soprattutto sul versante della riforma del Csm, della allocazione del pubblico ministero, delle progressioni di carriere, degli incarichi direttivi la legislazione si annuncia senza alcun aggravio per le casse dello Stato. Una cosa non da poco in tempi neppure di vacche magre, ma di vera e propria “moria” come avrebbe detto il grande De Curtis. Il ministro che verrà, quindi, avrà certo chiara la finestra di opportunità che gli viene offerta da una condizione in cui, per qualunque iniziativa legislativa (tasse, scuola, pensioni ect.) sono necessarie ingenti risorse, mentre la macchina giudiziaria potrebbe essere registrata con modifiche normative ininfluenti sull’esausto bilancio erariale e profittando, anzi, delle risorse europee del Pnrr. La scelta sul come procedere, ossia da quale capo iniziare a sbrogliare la matassa giudiziaria nel nostro paese, non è cosa né facile, né politicamente neutrale. In un efficace intervento sul Corriere della sera di ieri - per giunta dal titolo particolarmente evocativo (“Giustizia: i confini dell’ipocrisia”) - Luigi Ferrarella ha posto sul tavolo il problema dell’assetto funzionale e organizzativo del Csm, evocando pericoli che il lavacro dell’Hotel Champagne non ha certo esorcizzato e dissipato. Sicuramente riportare il Csm nell’alveo delle attribuzioni di autogoverno disegnate con precisione dalla Costituzione (articolo 104) è un’operazione immane dai contraccolpi politici incalcolabili che passa, anche e non solo, da un profondo ripensamento della legge elettorale per la scelta dei componenti togati che, sebbene appena collaudata, ha già mostrato antichi vizi e poche virtù. La scelta dei 10 componenti laici e del vicepresidente tra essi sarà cruciale per ottenere la presenza nel Csm di una componente politica che operi non certo da “quinta colonna” del ministro della Giustizia, ma da interlocutore affidabile e credibile nel momento in cui tutte le riforme saranno discusse. Un Guardasigilli che voglia portare a compimento senza troppe lacerazioni una missione riformatrice deve poter contare su un Csm aperto al confronto e disponibile a mettere in discussione anche la pletora di auto- attribuzioni di competenza che ha conseguito o ha posto in essere negli ultimi due decenni. Attribuzioni che stringono i magistrati in un reticolo di microdisposizioni che nulla hanno da spartire con l’esclusiva soggezione dei giudici alla legge proclamata dalla Costituzione (articolo 101) o con il fatto che lo Statuto ordinamentale deve avere il rango di legge ordinaria (articolo 108). Restituire la magistratura alla soggezione ordinamentale della legge vuol dire mettere da parte una vastità di disposizioni regolamentari, circolari, direttive, delibere che costituisce la produzione paranormativa del Csm e che tanta attenzione ha avuto sinora solo tra pochi studiosi specialisti della materia. Il secondo punto delicato riguarda l’efficientamento dei riti civili e penali, attesi a giorni in attesa della pubblicazione dei decreti Cartabia in Gazzetta ufficiale. Molte cose importanti sono state fatte da quel dicastero, ma altre più incisive sono indispensabili per assicurare un’effettiva linea di continuità tra la sistemazione inframuraria della magistratura italiana (direttivi, valutazioni professionali, disciplinare, fuori ruolo, distinzione delle carriere) e i suoi risvolti processuali. La cinghia di trasmissione che salda l’ordinamento al processo è, in realtà, una linea rossa sottile che deve essere ricomposta e riannodata affinché l’organizzazione della magistratura italiana possa restituire, attraverso un processo efficiente, un risultato di qualità che accontenti i bisogni impellenti della collettività. Etica e rapporto con la società sono la strada per superare gli scandali delle toghe di Giuseppe Santalucia Il Domani, 15 ottobre 2022 L’Associazione magistrati, esplosi gli scandali, non è rimasta inerte e frastornata dalla rivelazione degli intrecci tra mondo associativo, intromissione della politica e istituzione consiliare. Ha reagito in modo corretto e soprattutto capace di assicurare effetti durevoli. Estratto della relazione del presidente dell’Anm al XXXV congresso - Al tema della responsabilità il Congresso ha dedicato la prima sessione, chiamando al tavolo esponenti autorevolissimi dell’Accademia, del Foro oltre che della Magistratura stessa. Questo perché di responsabilità si vuole discutere, liberi da chiusure e da istinti di protezione e autoprotezione per gli errori dei singoli che sono stati anche errori di molti. Non può negarsi però che l’analisi delle patologie sia stata condotta spesso a senso unico, che ad esempio nelle molte riflessioni sulle degenerazioni all’interno del Csm si siano evidenziate soltanto le responsabilità della Magistratura e che poco spazio sia stato dedicato alla comprensione delle ragioni per le quali la cd. componente laica non ha esercitato con la necessaria continuità, come il Costituente si attendeva, quella benefica opera di interdizione delle distorsioni corporative della maggioranza togata. Una volta individuato il nodo nel rapporto tra la Magistratura e il Potere, tra il governo autonomo della magistratura e la politica, è mancata un’ampia e completa disamina delle loro relazioni, che sono state osservate solo da un’angolazione, quella appunto delle colpe dei magistrati. Il risultato è che nell’ultima legge di riforma sono state oggetto di una riconsiderazione figlia di una visione quanto meno parziale e pertanto inadeguata. Mi permetto appena di rammentare: - la norma delle ineleggibilità alla carica di parlamentare, anche europeo, di consigliere regionale e provinciale di quanti sono componenti del Csm o lo sono stati nei due anni precedenti, ma soltanto se magistrati; - e l’espunzione dal disegno di legge di questa riforma della disposizione che faceva divieto di nominare componenti del Csm professori o avvocati con incarichi di governo o delle giunte regionali in atto o ricoperti nei due anni precedenti. Mi sembra un chiaro indice di come il problema della contaminazione con il mondo della politica, intesa nel senso più ristretto dei rappresentanti di interessi di parte, sia stato affrontato nella prima occasione utile senza una messa a fuoco della complessità della vicenda. Ma le norme non definiscono e non esauriscono ogni prospettiva di cambiamento, meno che mai in questi ambiti, ove un ruolo altrettanto significativo spetta alle scelte di ampia discrezionalità. Per questa ragione siamo fiduciosi che, al di là delle previsioni di legge, il Parlamento saprà nominare una componente laica di alta statura che, per cultura giuridica e sensibilità istituzionale, agevolerà nel Consiglio - che da qui a breve si insedierà - il compimento di un processo di rinnovamento che, come sempre è accaduto, non può prescindere dalla buona volontà di donne e uomini. Dico questo perché abbiamo a cuore le sorti del Csm, presidio dell’autonomia e della indipendenza della magistratura, titolare di attribuzioni alte che non sarebbe possibile esercitare sì come la Costituzione richiede, se fosse trasformato, come taluno vorrebbe, in mero esecutore di attività vincolate. I contenuti della reazione dell’Associazione alla crisi d’immagine - L’Associazione magistrati, esplosi gli scandali, ha cercato di muoversi nel tracciato che ho appena tentato di delineare. Non è rimasta inerte e frastornata dalla rivelazione degli intrecci tra mondo associativo, intromissione della politica e istituzione consiliare. Ha reagito nel modo ritengo più corretto e soprattutto capace di assicurare effetti durevoli. In tal modo ha forse deluso quanti al rumore degli scandali volevano che seguisse una reazione vistosa, altrettanto spendibile mediaticamente, e quanti anche in buona fede ritengono che la compostezza della reazione equivalga a debolezza e confusione, smarrimento e mancanza di progettualità. L’Associazione magistrati si è ancor più impegnata, sulla falsariga dell’azione svolta dai gruppi dirigenti appena precedenti, nel ritornare nel suo alveo naturale, segnato da più di un secolo di storia e descritto dalle indicazioni statutarie. Ha perseguito la ricerca della normalità, come epilogo di una risolta elaborazione, obiettivo tutt’altro che banale perché posto all’esito di un costruttivo percorso autocritico. In tutta sincerità, non ho visto fare altrettanto ad altre categorie professionali che hanno conosciuto e conoscono simili cadute. Ciò ha condotto ad accentuare la vocazione comunitaria dell’azione associativa e a riscoprirne l’essenzialità in un sistema che vuole realmente assicurare indipendenza e autonomia della Magistratura. Vari i versanti in cui ha scelto di operare. Centralità del discorso sull’etica - Un primo versante è quello ove si è sperimentata la preminenza del discorso sull’etica professionale. In una società democratica il potere della giurisdizione, che in nome della sua irrinunciabile indipendenza si sottrae al consenso, si legittima e si fa accettare non soltanto per la qualità tecnico-professionale ma anche e soprattutto per l’osservanza di quel complesso di regole di condotta, che a ben vedere non sono che la proiezione minuta degli stessi caratteri di imparzialità, neutralità e indipendenza, anche come lontananza da ogni centro di potere, che qualificano nel dover essere costituzionale la Magistratura e che connotano, lo ribadisco, la sua azione come servizio e non come espressione della supremazia di un apparato. I precetti etici sono di due tipi: - quelli che tracciano una linea verso il basso, che individuano il contenuto minimo in mancanza del quale il comportamento merita una sanzione; - e quelli che tendono verso l’alto, che delineano un modello ideale di magistrato, che hanno una funzione promozionale, che rinvengono le ragioni della loro effettività non nell’essere assistiti da una sanzione irrogabile dall’Autorità disciplinare ma dalla loro accettazione ad opera dei componenti del ceto professionale che li esprime. Se le norme di responsabilità disciplinare sono riserva assoluta del legislatore, le norme di quell’etica che ho cercato di differenziare per la sua marcata funzione promozionale sono naturalmente il risultato di un comune sentire all’interno della Magistratura stessa. Per questo ritengo che il Legislatore del 1994 ebbe una intuizione felice nell’affidare all’Associazione, che riunisce la stragrande maggioranza dei magistrati, l’elaborazione e l’adozione del codice etico. Essa è stata chiamata a delineare il modello ottimale di magistrato nel confronto delle diverse sensibilità di cui la magistratura italiana è ricca, che sono ragioni di una unità ancor più consapevole e quindi più forte. Negli anni meno recenti l’attenzione al tema dell’etica professionale non è stata costante. Si poteva forse fare di più per favorire una maggiore e diffusa conoscenza del codice etico sia all’interno che all’esterno della Magistratura, in modo che potesse essere riconosciuto come fondamento di un rinnovato patto dei magistrati con la società. Da ultimo, però, si è recuperato in fretta e sono state sfruttate in pieno le sue potenzialità anzitutto per mezzo di una modifica statutaria, intervenuta proprio nell’anno - 2019 - dell’esplosione degli scandali, che ha fatto della violazione delle relative norme un illecito disciplinare endo-associativo. Attraverso la giuridificazione delle norme etiche di promozione, trasformate in precetti disciplinari, sono state poste le premesse per una accelerazione dei processi di radicamento nel vissuto giudiziario di quel complesso di regole. L’impegno per l’etica è divenuto uno dei fronti più importanti di attività. Ormai mensilmente, l’organo deliberante dell’associazione discute di violazioni e di sanzioni, ovviamente prive di contenuto afflittivo e tutte attestazione di quel sentimento di disapprovazione in cui si esprime e si rinnova l’adesione collettiva al modello di magistrato che il codice tratteggia. Nel 2021 e nell’anno in corso sono stati aperti 102 procedimenti, ne sono stati ad oggi definiti 64, 16 con l’applicazione di sanzioni, le maggior volte della censura, 27 per sopravvenuti recessi dei magistrati dall’Associazione e 21 per insussistenza del rilievo deontologico. Insomma, stiamo facendo i conti, e seriamente, con gli errori del passato. Sono anni importanti, in cui si stanno gettando le basi per una assai più efficace prevenzione delle cadute etiche attraverso un lavoro solo in apparenza repressivo e che ha il principale fine di irrobustire le autodifese culturali. Ed è un bene che ciò avvenga nell’ambito dell’Associazione, in cui i magistrati si confrontano paritariamente al di là dei loro diversi ruoli, in cui un presidente di sezione della Corte di cassazione si può trovare a discutere e a confrontarsi con un magistrato in tirocinio senza beneficiare di alcuna posizione sovraordinata. Proprio ciò che portava l’insigne giurista e Ministro Vittorio Emanuele Orlando a criticare, agli inizi del secolo scorso, la nascita della nostra Associazione è il suo più grande merito: la struttura schiettamente democratica della sua configurazione, che a ben vedere è il primo freno nei confronti del pericolo, sempre presente, di allentare la tensione etica verso la dimensione del servizio. Non poche sono le difficoltà che si incontrano nella pratica applicativa. La più importante è diretta conseguenza della natura privatistica dell’Associazione, che ne ostacola l’azione disciplinare perché la condiziona all’esistenza e alla permanenza della qualità di socio del magistrato incolpato, benché il codice sia della magistratura intera e non soltanto dei magistrati iscritti. V’è poi quella di elaborare una giurisprudenza sul senso precettivo di norme giustamente dallo spettro ampio, molto ampio, appunto perché funzionali a tratteggiare il modello particolarmente virtuoso e non a tracciare la soglia oltre la quale si possa apprezzare l’inadempimento inaccettabile ai doveri minimi del ruolo. E nuove difficoltà emergono sperimentando la necessità di arricchire il corredo di garanzie dell’incolpato, interrogandosi su quale possa essere il miglior equilibrio tra le esigenze di riservatezza del magistrato incolpato e il bisogno che il senso della sanzione si sostanzi non in un passaggio burocratico affidato al rapporto tra il singolo e l’organo statutario deliberante, ma in una consapevole, e quindi informata, reazione della intera comunità dei magistrati. Nella reazione plurale al danno all’immagine dell’intero Corpo si coglie l’attitudine del codice a farsi concretamente fattore di promozione culturale, di orientamento dei comportamenti della magistratura intera. Il discorso sull’etica è di importanza strategica, oggi più che in passato, ed è essenziale che di esso non si approprino luoghi altri, perché conservi i tratti di un impegno doveroso ma autonomo, e quindi del tutto coerente con la fisionomia costituzionale di indipendenza. Si deve essere consapevoli, devono esserlo i magistrati tutti, che cadute di attenzione sarebbero assai poco tollerabili e potrebbero aprire al pericolo di attrarre porzioni più o meno consistenti di quelle raccomandazioni che guardano verso l’alto nell’area della rilevanza disciplinare, con invitabile indebolimento degli spazi di libertà. Rapporti con la società - Un secondo piano di azione è quello della cooperazione con istituzioni ed enti per l’educazione alla legalità. L’Associazione ha intensificato la sua presenza nei luoghi ove le discussioni sul valore sociale della legalità sono più feconde e costituiscono un forte investimento nel futuro. Ha sottoscritto con il Ministro dell’istruzione un protocollo di intesa per una cooperazione all’educazione e formazione alla legalità e ai valori della giustizia, con l’obiettivo della promozione della persona e della diffusione nel mondo giovanile della consapevolezza sui diritti e sui doveri che qualificano la cittadinanza. Ha preso parte alla stipula di un accordo quadro intitolato “Educazione e formazione alla legalità” con il Ministero della Giustizia, il Consiglio nazionale forense e il Consiglio nazionale del notariato, condividendo la premessa, riporto testualmente, della opportunità che “i cittadini italiani e in particolare i giovani ricevano, da parte di coloro che sono interpreti della corretta applicazione della legge e dei valori a essa sottesi, una testimonianza che si possa tradurre anche in una attività di formazione e di educazione”. Di qui l’impegno all’organizzazione di attività educative in materia di legalità e giustizia, alla promozione di eventi formativi, alla collaborazione con il mondo scolastico. Ha siglato un altro protocollo con la Fipe-Confcommercio, la Federazione comparativamente più rappresentativa dei Pubblici esercizi italiani, per contribuire ad una compiuta conoscenza delle conseguenze, in termini di sanzioni di varia natura, della somministrazione di sostanze alcoliche ai minori e dei rischi, specie per la loro salute, a cui vanno incontro questi ultimi. Ha stretto un rapporto di collaborazione con Legambiente, anche qui siglando un protocollo in vista dello svolgimento di comuni attività formative ed educative nelle scuole, rivolte sia ai docenti che agli alunni, per diffondere i principi e i valori della tutela dell’ambiente e così contrastare più efficacemente la cultura della illegalità. Non è stata questa una tattica per parlar d’altro e fare altro, per distrarsi da quel che ci tocca da vicino, perché è, al contrario, uno dei modi con cui si è cercato di evitare il pericolo di chiudersi, di allontanarsi dalla società, di pensare alla Magistratura e quindi di pensarsi solo come un apparato del Potere. La premessa sta nell’idea che la gestione di un potere rilevante come è quello di decidere i conflitti, di accertare responsabilità, di comprimere in nome della legge i beni primari della persona si deve accompagnare ad un costante riconoscimento dell’essere servizio. “Caso Palamara, colpe anche nella politica”. L’arringa di Santalucia di Valentina Stella Il Dubbio, 15 ottobre 2022 Il presidente Anm apre il Congresso: “Il patto di potere scellerato non riguardava soltanto le toghe”. Masi: “Ora patto tra Foro e magistratura”. Si è aperto ieri a Roma, alla presenza del Capo dello Stato Sergio Mattarella, il 35esimo congresso dell’Associazione nazionale magistrati. Le toghe sono tornate a riunirsi a sei mesi dalla loro ultima assise, quando deliberarono lo sciopero contro la riforma del Csm targata Cartabia. L’evento si concluderà domani e non prevede il rinnovo delle cariche, in calendario per il prossimo anno. Ad aprire i lavori, la lunga relazione del presidente Giuseppe Santalucia. Un discorso dai toni pacati ma da cui sono stati lanciati chiari messaggi alla politica. Ha parlato ovviamente del recupero della fiducia nella magistratura, minata dallo scandalo dell’Hotel Champagne: “Bisogna esserne all’altezza come collettivo, e quindi nessuno si può consolare chiamandosi fuori da uno sforzo comune di riconquista del terreno perduto, ritagliandosi uno spazio perimetrato dal proprio ufficio, dai propri fascicoli”. Ce la si fa all’interno dell’Anm, non allontanandosene. Se è vero, ammette Santalucia, che “di responsabilità della magistratura occorre ragionare” dall’altra parte auspica che “sia finalmente messa da canto la pulsione, che in questi recenti anni abbiamo visto invece ravvivata, di poter mettere in riga l’ordine giudiziario, profittando delle difficoltà e del calo di credibilità”. L’origine di queste spinte è nella tentazione di “far pagare il conto ai magistrati: ma questo non porta al superamento della crisi della giurisdizione, casomai apre al progressivo indebolimento di un suo connotato ideale, l’unico capace di alimentare e mantenere nel tempo la fiducia collettiva che tutti ricerchiamo: mi riferisco all’indipendenza dei magistrati dall’esterno e all’interno dell’ordine stesso”. E il presidente però stigmatizza anche il fatto che, dal cosiddetto scandalo Palamara, “una volta individuato il nodo nel rapporto tra la magistratura e il potere, tra il governo autonomo della magistratura e la politica, è mancata un’ampia e completa disamina delle loro relazioni, che sono state osservate solo da un’angolazione, quella appunto delle colpe dei magistrati”. In breve, non può essere solo colpa della magistratura, la responsabilità va divisa con la politica. Quella politica a cui Santalucia imputa di “non aver ricercato le ragioni di un disagio, di un malessere che si è manifestato nelle forme del carrierismo, patologia che è effetto e non causa del progressivo indebolimento della giurisdizione”. La stessa politica ha poi dato vita a una riforma che “fa correre il rischio di veder intaccato il modello di magistrato delineato in Costituzione”, come più volte ripetuto. A proposito di riforma dell’ordinamento giudiziario, Santalucia indirettamente replica a chi ha considerato anche in parte incostituzionale lo sciopero Anm di maggio: “L’offerta di un contributo di idee e di esperienza nel corso dell’attività riformatrice non è una invasione del campo riservato alla Politica, un attentato alla sovranità parlamentare, ma un esercizio di democrazia partecipativa che consente, a beneficio di chi deve decidere, visioni più ampie e approfondite dei problemi”. Ma poi chiede al Parlamento e al futuro governo due cose: “Il nostro auspicio è che, in sede di esercizio della delega legislativa, la politica ascolti attentamente ciò che abbiamo da dire”. Inoltre “siamo fiduciosi che, al di là delle previsioni di legge, il Parlamento saprà nominare una componente laica di alta statura capace, per cultura giuridica e sensibilità istituzionale, di agevolare nel Consiglio un processo di rinnovamento che, come sempre è accaduto, non può prescindere dalla buona volontà di donne e uomini”. Tradotto: non ci mandate gli scarti delle Politiche. Santalucia è stato molto applaudito. Tuttavia per Andrea Reale, rappresentante di “Articolo 101” nel direttivo Anm, “il suo discorso pecca di insufficiente autocritica. Non è stato fatto abbastanza per il rinnovamento etico tanto auspicato. Sarebbe servita più trasparenza, ad esempio, sui procedimenti sanzionatori dell’Anm e maggiore controllo critico sull’operato del Csm e delle correnti. E soprattutto nulla ha fatto l’Anm per suggerire rimedi davvero capaci di evitare il ripetersi dei fenomeni degenerativi del correntismo e del carrierismo”. Dopo la relazione di Santalucia e quella di Gaetano Silvestri si è tenuta la tavola rotonda “La fisionomia costituzionale del magistrato: riforme e autogoverno” a cui hanno preso parte Enrico Scoditti, lo stesso Silvestri, Nicolò Zanon e la presidente del Cnf Maria Masi che, sollecitata sul nuovo ruolo dell’avvocatura, a partire dal voto nei Consigli giudiziari sulle valutazioni di professionalità, ha detto: “L’avvocatura chiedeva da tempo che si desse seguito a quel senso di comunità della giurisdizione, spesso invocato dal Presidente Mattarella. La riforma vede finalmente valorizzato il ruolo dell’avvocato. Non siamo particolarmente attratti dal dare voti e pagelle, tanto è vero che la nostra stessa proposta, poi recepita, è stata quella di mediare con il parere dell’Ordine forense, sia in termini negativi che positivi. Dall’altra parte avremmo apprezzato un maggiore coinvolgimento nella organizzazione degli uffici, sempre in nome di quella comunità della giurisdizione”. E sulle riforme del civile e del penale ha concluso: “Non c’è volontà di boicottarle ma diffidenza sugli strumenti adottati per raggiungere gli obiettivi del Pnrr. Ho apprezzato quanto detto dal Presidente Santalucia: se avessimo abbandonato i pregiudizi e le rivendicazioni di categoria, trovando una nostra sintesi, non ci ritroveremmo in questa situazione”. Firenze. Un altro detenuto si impicca nel carcere di Sollicciano di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 15 ottobre 2022 Prima di impiccarsi, ha bloccato la serratura della cella con l’utilizzo di un pezzo di plastica. Proprio questo stratagemma non ha permesso l’intervento dei poliziotti penitenziari che potevano salvargli la vita. Un altro detenuto si è tolto la vita nel carcere di Sollicciano. E’ successo ieri e il recluso è maghrebino. A dare la notizia è il Sindacato Autonomo Polizia Penitenziaria Sappe, per voce del segretario regionale della Toscana Francesco Oliviero: “Un detenuto originario del Marocco di 29 anni ha deciso di togliersi la vita. Prima di impiccarsi, ha bloccato la serratura della cella con l’utilizzo di un pezzo di plastica. Proprio questo stratagemma non ha permesso l’intervento dei poliziotti penitenziari che potevano salvargli la vita. L’uomo era stato trasferito da pochi giorni dalla Casa Circondariale di Aosta per motivi di giustizia. Il 22 ottobre aveva il suo fine pena ma aveva un mandato di arresto europeo già deciso da eseguire dalla Corte di Appello”. “Come sapete, abbiamo sempre detto che la morte di un detenuto è sempre una sconfitta per lo Stato - commenta amareggiato Donato Capece, segretario generale del Sappe - La via più netta e radicale per eliminare tutti questi disagi sarebbe quella di un ripensamento complessivo della funzione della pena e, al suo interno, del ruolo del carcere. Anche la consistente presenza di detenuti con problemi psichiatrici è causa da tempo di gravi criticità per quanto attiene l’ordine e la sicurezza delle carceri del Paese. Il personale di Polizia Penitenziaria è stremato dai logoranti ritmi di lavoro a causa delle violente e continue aggressioni. Ed è grave che, pur essendo a conoscenza delle problematiche connesse alla folta presenza di detenuti psichiatrici, le autorità competenti non siano ancora state in grado di trovare una soluzione”. Proprio nei giorni scorsi si era impiccato un altro detenuto marocchino, morto in ospedale dopo giorni di coma. A luglio un altro suicidio, quello dell’agente della questura che lo scorso 19 maggio, al parco delle Cascine poco distante dalla fermata della tramvia, aggredì un nordafricano per poi esplodere due colpi di pistola in aria. E’ stato trovato morto nella sua cella con un lenzuolo a una finestra. Nel settembre dell’anno scorso si era tolto la vita un detenuto 43enne di origini tunisine, ritrovato con la testa incastrata nella fessura usata per passare le vivande. Si tratta del 68esimo suicidio dall’inizio dell’anno, 25 in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Firenze. Detenuto suicida, la rabbia del garante “Sistema carcerario alienante e incivile” di Fabrizio Morviducci La Nazione, 15 ottobre 2022 Due casi in pochi giorni in Toscana, duro Fanfani: “Umanità fattore dimenticato”. “Il sistema carcerario è incivile ed alienante; il suicidio del detenuto nordafricano a Sollicciano è solo l’ultima caso di ordinaria disperazione che accade nelle carceri italiane”. Il garante per i detenuti della Toscana, Giuseppe Fanfani non ha potuto far altro che prendere atto di questo nuovo episodio successo nelle carceri toscane. Il 29enne nordafricano è stato trovato impiccato nella sua cella. “Si trattava di un detenuto in transito - ha detto Fanfani - dal carcere di Aosta. Era stato messo in una cella singola proprio perché era ritenuto un detenuto non pericoloso per sé, non erano stati ipotizzati atti di autolesionismo, piuttosto era ritenuto incline a far male agli altri. Purtroppo è successo quello che è successo”. E’ il secondo caso nel mese; a fine settembre un altro detenuto di 41 anni si è tolto la vita nel carcere di Pisa. Con la morte del detenuto a Sollicciano, sale a 69 il numero dei reclusi che nel corso di quest’anno si sono suicidati in carcere, a cui si aggiungono 4 casi di suicidio tra gli agenti penitenziari. “L’umanità - ha concluso Fanfani - è un fattore totalmente dimenticato. Stanno malissimo anche gli agenti della Penitenziaria. Che sono tantissimi; per ogni 100 detenuti ci sono 70 tra uomini e donne in divisa. E manca un progetto reinserimento. E’ un sistema carcerrario che non funziona. Le persone che escono sono spesso peggiori di quando erano entrate”. Sulla vicenda sono intervenuti anche i sindacati: “Una vera strage - ha detto Gennarino De Fazio, segretario generale della Uilpa Polizia penitenziaria - di cui purtroppo non si intravede la fine. Attendiamo l’insediamento del prossimo Governo, al nuovo ministro della Giustizia chiederemo un confronto ad ampio spettro su tutte le questioni che investono il sistema d’esecuzione penale”. Le condizioni di vita dentro alle carceri toscane sono difficili. Detenuti in sovrannumero, atti di autolesionismo, difficoltà di convivenza, strutture che avrebbero bisogno di una manutenzione. Condizioni che portano anche a gesti estremi come quello messo in atto dal detenuto nordafricano l’altra sera nella cella fiorentina. Roma. Un migrante ingoia un pezzo di vetro: l’ultimo orrore nel Cpr di Ponte Galeria di Nello Trocchia Il Domani, 15 ottobre 2022 “Sono arrivata e c’era un ragazzo del Gambia, di 27 anni, che aveva appena ingoiato un pezzo di vetro, usciva sangue dalla bocca, era sdraiato per terra, faceva impressione. Era semi paralizzato, non riusciva a camminare, non doveva stare lì. Il suo ingresso è datato fine settembre, ma il medico che giudica le incompatibilità non lo aveva ancora visitato. Ora è ricoverato dopo aver ingerito la scheggia di vetro. Quel centro bisogna chiuderlo subito”, dice Gabriella Stramaccioni. La garante per i detenuti di Roma ha visitato, poche ore fa, il Cpr, il centro di permanenza per il rimpatrio, di Ponte Galeria a Roma. Il Cpr è da tempo al centro di segnalazioni, interrogazioni parlamentari per le condizioni nelle quali vivono i migranti in attesa di rimpatrio. “Ho visitato anche i reparti, dopo la rivolta dei giorni scorsi (tra il 2 e il 3 ottobre, ndr) una parte della struttura è stata distrutta, 40 migranti sono stati trasferiti, ora ne restano 80. La protesta è nata per le mancate cure e perché gli ospiti sostano più del tempo dovuto, dei tre mesi previsti per legge”. “Il problema è che i rimpatri avvengono solo in alcuni casi, quando ci sono gli accordi con i paesi, ad esempio tutti i nigeriani sono lì da 8 mesi in attesa di tornare nel proprio paese. Alcune persone hanno fatto ricorso dopo la bocciatura della richiesta di protezione e sono in attesa dell’esito”, racconta Stramaccioni. La garante non usa mezzi termini: il cibo è immangiabile, la struttura è quella di sempre, fatiscente e inadeguata, peggio di un carcere, ma con una differenza sostanziale. “Negli istituti di pena le persone fanno attività, al Cpr di Ponte Galeria, dove tra l’altro nessuno ha commesso reati, sei ammucchiato in un padiglione di ferro senza fare niente, una condizione grave e pesante dal punto di vista psicologico”. La struttura di Ponte Galeria è in una palude, in estate è piena di zanzare, con tubi di ferro ovunque, stanze enormi con il cemento a terra, un luogo inadatto a ospitare esseri umani. Senza dimenticare i costi, la prefettura paga 38 euro al giorno circa alla società che gestisce i migranti. La società che ha in gestione il centro, la Ors, è stata destinataria di un approfondimento, lo scorso marzo, da parte della Coalizione italiana libertà e diritti civili. L’appalto dal valore di sette milioni di euro è stato aggiudicato alla società nel 2021. Il gruppo Ors ha sede a Zurigo ed è attivo da più di 30 anni nei settori dell’accoglienza e della detenzione amministrativa dei migranti in tutta Europa, in Italia gestisce anche altri centri. Dal primo settembre Ors è stata comprata dal gruppo Serco per 40 milioni di euro. Chi è Serco? È una holding privata che si occupa di fornire servizi anche a istituzioni pubbliche come l’organizzazione europea per la ricerca nucleare, opera nel settore della difesa, dei servizi essenziali e gestisce prigioni. Palermo. “Jail Career day”, nasce un ponte tra le imprese e i detenuti restoalsud.it, 15 ottobre 2022 Arriva a Palermo il Jail Career day, un progetto che ha l’obiettivo di far incontrare i soggetti in esecuzione di pena e le imprese e che intende avere un impatto immediato e positivo sui soggetti coinvolti, mediante l’inserimento lavorativo nei settori della ristorazione ed edilizia. Il progetto è “firmato” dalla Cooperativa Rigenerazioni Onlus che ha già sviluppato in passato programmi analoghi: nel 2016 venne realizzato “Cotti in fragranza”, il laboratorio per la lavorazione di prodotti da forno, all’interno del Carcere Malaspina di Palermo. Non il solo ma uno dei tanti progetti dedicati al recupero dell’autonomia lavorativa dei detenuti. Jail Career Day rientra nell’ambito del progetto sociale “Svolta all’Albergheria”, si terrà mercoledì 19 ottobre a Palermo alle ore 16.00, presso lo SCALO 5B, Lisca Bianca, nei padiglioni della Fiera di Via Sadat e costituisce la tappa conclusiva dei percorsi di professionalizzazione e supporto all’imprenditorialità, realizzati in collaborazione con Next-Nuove Energie X il Territorio. Il progetto è ambizioso. Da un lato l’intento è quello creare un ponte tra carcere e imprese creando opportunità lavorative concrete, dall’altro l’incontro vuole essere da stimolo per l’intera collettività, portandola a riflettere sull’importanza dei percorsi di inclusione sociale e lavorativa dei soggetti più fragili e innescando così un circolo virtuoso. Benevento. Detenuti e lavoro: intesa tra Asi, Carcere e Garante regionale ntr24.tv, 15 ottobre 2022 Incentivare il reinserimento lavorativo dei detenuti ospiti nel carcere di Benevento, favorendo così le buone pratiche per tracciare un percorso di recupero dell’individuo. Questo l’obiettivo che ha portato al rinnovo del Protocollo d’intesa siglato tra la casa circondariale del capoluogo sannita, l’Asi, il Consorzio per lo sviluppo industriale e il garante campano dei detenuti Samuele Ciambriello. Una firma che punta allo sviluppo e all’attuazione di progetti di pubblica utilità offrendo così ai reclusi una reale occasione di riabilitazione. Al centro dell’iniziativa il lavoro, così come inteso dalla Costituzione italiana. “Sono soddisfatto - ha commentato il presidente del Consorzio Asi, Luigi Barone - per la rinnovata collaborazione. Certo che queste attività continueranno a far registrare ottimi risultati”. Formazione professionale, tirocini ma anche tanta attenzione al reinserimento sociale, incentivato dalla possibilità per i detenuti di uscire dal carcere per svolgere attività lavorative all’esterno. “Il lavoro - ha dichiarato Gianfranco Marcello, direttore del carcere di Benevento - riveste un ruolo fondamentale nel processo di reinserimento sociale. E’ importante, infatti, per un detenuto meritevole poter vivere esperienze del genere, precedenti alla definitiva uscita dai luoghi di detenzione”. Il comunicato dell’Asi Questa mattina a Benevento presso la sede consortile si è proceduto al rinnovo delle intese fra il Consorzio per lo Sviluppo Industriale e la Casa Circondariale di Benevento. “Il protocollo d’intesa si potenzia con l’aggiunta del Garante per i Diritti dei Detenuti della Regione Campania rappresentato dal dr. Samuele Ciambriello. Per il Presidente Asi, Luigi Barone, “la collaborazione fra ASI e Carcere si è instaurata nel 2019 ed ha sempre avuto come obiettivo l’incentivazione di best practice a beneficio del tessuto imprenditoriale e della collettività, favorendo il reinserimento lavorativo dei detenuti (in regime di art.20/ter o.p.) ospiti della casa circondariale di Benevento. Gli scopi prestabiliti dal protocollo saranno connessi alla formazione professionale ed ai tirocini formativi dei soggetti ristretti e rafforzeranno un patto sociale che ha già dimostrato le capacità dell’Asi nell’assolvimento alle cosiddette, corporate social responsability. Valorizzare l’impatto positivo determinato dalle buone prassi attivate e ancora a svolgersi, non ha solo mere ricadute reputazionali, ma favorisce una sostenibilità di contesto che riguarda l’intera collettività”. “Il varo della Riforma Cartabia pare finalmente aprire la strada che assegna al giudice di merito la possibilità di infliggere anche misure alternative al carcere, condannando l’imputato a un percorso punitivo-rieducativo che potrà successivamente essere rimodulato dal magistrato di sorveglianza. Attualmente, grazie alla “Legge Smuraglia”, circa 800 detenuti sono impegnati in attività professionalmente qualificanti. Molto pochi, considerando i circa 60mila reclusi nelle carceri d’Italia. Un numero risibile. In base alla legge, da qualche anno, le cooperative sociali e le imprese che desiderano organizzare attività lavorative dentro e fuori le mura delle carceri possono usufruire delle agevolazioni fiscali e contributive che questa legge concede a chi assume personale sottoposto a misura penale. Ma i problemi non mancano. Occorre infatti comprendere che quando non c’è nessun tessuto sociale intorno al carcere, le attività non partono. Il legame con le realtà industriali esterne è importantissimo e vitale, come pure quello con le organizzazioni di volontariato. Agire dunque, dentro e fuori le mura”, ha sottlineato Samuele Ciambriello, garante campano delle persone private della libertà personale. “Le attività lavorative rivestono un ruolo fondamentale nel processo di reinserimento sociale. In questo senso è meritoria l’opera dell’Asi di Benevento che spera possa essere implementata sempre di più anche in direzione di una maggiore professionalizzazione e retribuzione”, ha concluso il Direttore della casa circondariale Gianfranco Marcello. Cassino (Fr). Carcere e affettività, un binomio possibile garantedetenutilazio.it, 15 ottobre 2022 Giovedì 13 ottobre si è tenuto nella Curia vescovile di Cassino il convegno “La fragilità nelle famiglie”, promosso dall’università di Cassino e del Lazio meridionale e dall’osservatorio del diritto di famiglia con l’Ordine degli avvocati di Cassino e la Conferenza nazionale dei delegati dei rettori per i poli universitari penitenziari (Cnupp). Un incontro dai profili innovativi, vista la commistione fra due mondi che finora hanno dialogato raramente: il diritto di famiglia e quello penitenziario, nato dall’esigenza di approfondire la riforma del diritto di famiglia, cercando di capire se si possa realizzare una rete di supporto alla genitorialità delle persone recluse, capace di proteggere insieme genitori e bambini dalla frattura della carcerazione. L’idea nasce da una ricerca su Affettività e carcere, condotta dalla dottoressa Sarah Grieco dell’università di Cassino, con il supporto del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio e della presidenza del Consiglio regionale del Lazio. “Abbiamo voluto sottolineare l’importanza di connettere istituzioni che spesso hanno difficoltà a dialogare: magistratura minorile, amministrazione penitenziaria e servizi sociali. Un lavoro sinergico tra queste realtà può creare una rete di protezione attorno ai minori che vivono situazioni di fragilità, legate alla condizione di detenzione dei propri genitori: i figli invisibili vittime di spazi, luoghi e tempi non adeguati a sostenere relazioni affettive significative”. Così il Garante, Stefano Anastasìa, intervenuto su “Affettività e carcere, un binomio possibile”, sottolineando anche i recenti passi del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria in tal senso. “Ci auguriamo di aver gettato le basi per soluzioni innovative che sappiano sfruttare al meglio le grandi potenzialità che la riforma offre. A partire dalla prossimità delle nuove sezioni del tribunale delle persone, a cui, però, deve corrispondere una territorialità dell’esecuzione della pena che ancora stenta a essere attuata”. Così, le organizzatrici del convegno Sarah Grieco e Alessia Russo. All’incontro, tra gli altri, hanno partecipato la presidente del Consiglio nazionale forense, Maria Masi, il presidente della Cnupp, Franco Prina, e Pasquale Bronzo, docente di procedura penale all’università di Roma Sapienza. Milano. Studenti di Legge nel carcere a lezione dai detenuti: “Mancano prospettive per il dopo” di Gianni Santucci Corriere della Sera, 15 ottobre 2022 Mercoledì pomeriggio Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), ha visitato San Vittore. All’incontro ha partecipato anche un gruppo di 25 studenti iscritti al secondo anno di giurisprudenza in Statale. Quando prende il microfono, ed è il primo a farlo, alzandosi davanti al quinto raggio di San Vittore, la domanda di Gabriele potrebbe suonare ingenua: perché lui, ventenne, studente al secondo anno di giurisprudenza in Statale, chiede al gruppo di detenuti che ha di fronte, dall’altra parte della rotonda al centro del carcere, cosa manchi loro di più della “vita di fuori”. Invece si alza Christian, che racconta d’essere stato arrestato nel 2008, e che da allora praticamente non è più uscito: così diventa abbastanza agevole per tutti fare il conto di che età abbiano i suoi figli, che quando è entrato “avevano 2 anni e mezzo e 6 anni”, e poi — dice — “mi manca vedere il mare”. All’apparenza potrebbe sembrare scontato ciò che avviene in questo incontro tra i detenuti e gli studenti del professore di diritto penale Gian Luigi Gatta, che mercoledì pomeriggio ha accompagnato qui i suoi ragazzi, in occasione della visita di Carlo Renoldi, direttore del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Il senso invece per nulla scontato di queste domande e di queste risposte lo spiega proprio il professore, che inizia i suoi corsi parlando della pena, “perché è bene che gli studenti abbiano chiaro il mente il problema della pena, e che siano qui per iniziare un percorso di studio guardando in faccia una realtà spesso sconosciuta”. Entrando, il docente aveva fatto notare quanti cancelli si debbano oltrepassare, aprire, per arrivare nel cuore architettonico del carcere storico di Milano, e anche i loro passi, il loro ingresso, rientrano in qualche modo nel percorso del “Viaggio nelle carceri”, che il 15 ottobre del 2018 portò proprio qui a San Vittore Marta Cartabia, oggi ministro della Giustizia, all’epoca vice presidente della Corte costituzionale, che quel giorno ai detenuti disse: “I vostri problemi mi faranno compagnia nel lavoro e nella vita”. Quella frase, emblema di un tentativo di proporre una cultura nuova su carcere e pena, pur senza citazioni dirette torna a galleggiare in questo scambio di vita tra studenti e detenuti quando prende il microfono Alice. S’è appena detto che questi ragazzi potranno essere avvocati o magistrati tra qualche anno, così, in una frase che mescola candore e profondità, la studentessa chiede: “Cosa potrebbe davvero essere cambiato? Come potrò io un giorno essere utile?”. In parte ha già toccato la questione Luca, il primo detenuto a parlare, lui che fa parte del gruppo che da anni segue il laboratorio di “alfabetizzazione sulla Costituzione” di San Vittore. Si è concentrato sull’articolo 27, in particolare il punto in cui dice che le pene “devono tendere alla rieducazione del condannato”. Ad Alice però adesso risponde un detenuto anziano, che la libertà la mette da parte, “perché quando fai un reato lo sai che se finisci in carcere ti manca la libertà, è banale questo”: no, “quello che manca è la possibilità di avere davvero una prospettiva di lavoro per il dopo, almeno una possibilità. Per il bene di tutta la società, il detenuto andrebbe seguito nel momento in cui è più fragile: che al contrario di quello che potete pensare, non è l’entrata, ma l’uscita. Oggi siete venuti a vedere chi siamo e come siamo noi. Cercate di ricordarvelo nei vostri studi”. Tutto ruota intorno a quel passaggio, lo tocca anche il capo del Dap, che dopo aver portato tutta la sua vicinanza agli uomini e le donne della polizia penitenziaria, ai detenuti dice che lo Stato “deve fare il più possibile per dare un’offerta, che poi sarà compito delle persone cogliere”. L’ultimo a parlare è Massino. Di anni a San Vittore ne ha oltre 25, con un passaggio di uscita e rientro. Lo sintetizza con una sorta di aforisma: “Quando usciamo, là fuori c’è il nulla. Pensate che ostacolo da rimuovere è... il nulla”. Aosta. Parte il progetto per il confronto tra detenuti e studenti dire.it, 15 ottobre 2022 Ieri mattina, sono stati consegnati agli utenti della struttura penitenziaria 300 libri, dismessi dal Sistema bibliotecario valdostano. “All’esecuzione della pena non concorre solo il carcere, ma tutta la comunità”. Lo spiega Antonella Giordano, direttrice della Casa circondariale di Brissogne, alle porte di Aosta, unico carcere della Valle, illustrando questa mattina in un incontro con i giornalisti, nel salone della struttura penitenziaria, le iniziative del Piano di corresponsabilità educativa e legalità 2022-2023, destinate alla promozione dell’educazione. Per la sovrintendente regionale agli Studi, Marina Fey, “educare è tirare fuori il meglio da ognuno”, al contrario di “insegnare che è fornire nozioni e strumenti”. Per questo, secondo Fey, “ogni detenuto potrà arricchire il suo percorso di reinserimento, sulla base della Costituzione e dell’articolo 27”. Il progetto prevede diverse iniziative. La prima coinvolgerà circa 300 studenti delle classi quarte delle superiori, che visiteranno il carcere di Brissogne e avranno un’occasione di confronto con i detenuti. Questa mattina, sono stati consegnati agli utenti della struttura penitenziaria 300 libri, dismessi dal Sistema bibliotecario valdostano. “Sono sia volumi per adulti, sia per ragazzi. Alcuni arrivano dal Fondo valdostano” dice Fey. Il motivo delle iniziative? Per Giordano, “all’esecuzione della pena non concorre solo il carcere, ma tutta la comunità”. L’assessore all’Istruzione della Regione, Luciano Caveri, annuncia che, in collaborazione con il Cria, il Centro regionale per l’istruzione degli adulti, e con l’Università della Valle d’Aosta, saranno avviati percorsi specifici per i detenuti. “Arricchire la biblioteca interna al carcere è una richiesta venuta dai volontari- aggiunge l’assessore- e proprio perché non è un elemento estraneo alla comunità abbiamo voluto rispondere. L’avvio di questo percorso fa seguito alla firma di un protocollo d’intesa tra la Regione e il ministero della Giustizia, grazie all’interessamento della ministra Marta Cartabia, frequentatrice della Valle d’Aosta”. Caveri sostiene che “il carcere non sono solo i detenuti, ma anche il personale, che ha spesso scelto di rimanere a vivere nella nostra comunità”. E conclude: “Portare i ragazzi qui dà loro un senso di comprensione”. A Brissogne oggi i detenuti sono 110 e non ci sono condizioni di sovraffollamento, anche a causa di alcuni lavori di ristrutturazione e di efficientamento energetico che hanno ridotto alcuni spazi e spostato alcuni detenuti in altre strutture fuori Valle. Palmi (Rc). Lezioni ai detenuti, Klaus Davi invita Totò Cuffaro sciscianonotizie.it, 15 ottobre 2022 Se Dap lo autorizzerà, presenterà il suo libro sulla detenzione. L’occasione è stata la registrazione avvenuta mercoledì sera del web talk “KlausCondicio” condotto da diversi anni da Klaus Davi su YouTube. L’ospite della puntata era Totò Cuffaro, già governatore della Sicilia e ‘King Maker’ di una formazione politica ispirata ai valori della vecchia DC. Parlando della detenzione di Cuffaro, Klaus Davi ha colto la palla al balzo: “Ma lei verrebbe a parlare della sua esperienza di detenuto al carcere di Palmi?”. Cuffaro, che è autore di un libro proprio su questo tema dal titolo “L’uomo è un mendicante che crede di essere un re” edito dalla Compagnia Editoriale Aliberti, ha accettato con entusiasmo. Quindi, previa autorizzazione del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e del direttore del carcere dottor Mario Antonio Galati, Cuffaro sarà la prossima ‘guest star’ delle lezioni di Klaus Davi ai detenuti di alta sicurezza di Palmi. Il giornalista e titolare di una prestigiosa agenzia di comunicazione tiene infatti dallo scorso giugno un corso semestrale a titolo gratuito dedicato al mondo del marketing e della comunicazione presso la struttura penitenziaria di Palmi. Sono state quattro le lezioni già tenute finora e altre quattro sono in programma pianificate entro Natale. “I detenuti hanno reagito con attenzione e passione e stanno partecipando in massa. Sono attentissimi e ipercritici. È un’esperienza molto bella. La cosiddetta antimafia la so fare solo così, stando sui posti non dietro la scrivania… Ovviamente l’idea della presenza di Cuffaro verrà sottoposta al Dap ma non vedo controindicazioni. Cuffaro è stato riabilitato, ha scontato la sua pena e il suo intenso volume è perfettamente in tema con il mio corso di studi che comprende anche una parte sulla comunicazione carceraria. Mi ha inoltre colpito l’alto livello di professionalità che caratterizza gli agenti della Polizia Penitenziaria e la preparazione degli educatori. Ero andato lì per insegnare e invece è stata un’occasione unica per imparare molto da loro”, ha commentato Klaus Davi. Genova. Nel carcere di Marassi un teatro aperto al pubblico: il ritorno degli Scatenati di Erica Manna La Repubblica, 15 ottobre 2022 Caso unico in Europa, la sala è stata realizzata dai detenuti, la compagnia è composta da attori e carcerati, ora prepara Riccardo III, mentre parte la stagione del Teatro dell’Arca. Ha già cominciato a studiare la parte: “La sera, in cella, ma anche al pomeriggio: io gestisco l’audioteca, dunque nelle pause mi metto lì e memorizzo le battute”. Aldo De Marco è uno degli attori detenuti della Compagnia Scatenati, e la parte è quella del re in Riccardo III di Shakespeare, la prossima produzione di Teatro Necessario onlus con la regia di Sandro Baldacci, che andrà in scena ad aprile. Il senso del progetto di Teatro Necessario, otto medaglie del presidente della Repubblica, oltre 400 detenuti coinvolti come attori e tecnici e un palcoscenico costruito da zero all’interno della casa circondariale di Marassi, caso unico in Europa, lo esprime bene Aldo, che insieme ad altri quattro detenuti ha partecipato anche a Italia’s got talent”: “All’inizio qui è stata dura, io fuori facevo il musicista. Ma ho avuto l’opportunità di dimostrare a me stesso che anche chiuso tra quattro mura ci si può riprendere la vita in mano”. Il teatro dell’Arca, quest’anno, ospiterà una sezione della mostra itinerante dedicata all’artista Keith Haring - Culture of innovation. E l’arte sarà protagonista anche di un altro progetto: un graffito di sei metri per nove su un muro della casa circondariale, realizzato dai detenuti sotto la supervisione di un artista. “L’obiettivo è quello di aprirci al territorio”, sottolinea Mirella Cannata, presidente e anima dell’associazione Teatro Necessario onlus - trasformando il carcere in un luogo dove possa avvenire uno scambio con l’esterno”. Il sipario sulla quinta edizione della rassegna Voci dall’Arca - musica e teatro civile - che ha ricevuto il contributo della Fondazione Compagnia di San Paolo con il bando Art-Waves - si alza il 22 ottobre alle 20.30 al Teatro dell’Arca, con Genten - Ritorno all’origine di Kyonshindo per far conoscere le sonorità del Taiko. Il 19 novembre, Mario Perrotta porta in scena In nome del padre, spettacolo che nasce dal confronto con lo psicoanalista Massimo Recalcati, incentrato sulle relazioni famigliari. E poi, dal 14 al 28 aprile la nuova produzione: Riccardo III, diretto da Sandro Baldacci. “In questo momento con una guerra così sanguinosa nel cuore dell’Europa - sottolinea Baldacci - la tragedia con i suoi risvolti ci sembrava interessante da mettere in scena. Sarà un’elaborazione un po’ fantasy, inizierà con una scena tipo rave party, perché Shakespeare può essere letto attraverso strumenti del nostro tempo senza perdere nulla”. A Cose Nostre “Dentro il male” rai.it, 15 ottobre 2022 La storia di Giuseppe Salvia, vicedirettore del carcere di Poggioreale. Giuseppe Salvia, giovane vicedirettore del carcere di Poggioreale a Napoli, ucciso il 14 aprile 1981 su ordine di uno dei più spietati boss di camorra: ‘o prufessore vesuviano Raffaele Cutolo, è il protagonista della puntata di “Cose Nostre”, in onda lunedì 17 ottobre alle 23.35 su Rai 1. Salvia, sposato e padre di due bambini, lavorava nella sezione speciale del carcere napoletano dove erano detenuti i più feroci boss delle due fazioni di camorra in quel momento in guerra: da una parte la Nuova camorra organizzata di Cutolo con un esercito di 7.000 affiliati pronti a tutto per il loro capo e dall’altro la Nuova famiglia, fondata dal boss dagli occhi di ghiaccio Luigi Giuliano, ma poi allargata ad altri potenti clan alcuni dei quali affiliati a Cosa Nostra siciliana. Lo scontro sarà tremendo, quasi mille i morti in quattro anni molti dei quali uccisi proprio tra le mura di Poggioreale. Il carcere napoletano è infatti una bolgia dantesca e i detenuti sono completamente fuori controllo. E mentre lo Stato sembra voltarsi dall’altra parte, Salvia sembra l’unico a esporsi in prima persona per far rispettare le regole e per riportare l’ordine. Un’inflessibilità che non piace a ‘o prufessore vesuviano, che in carcere ha fondato e dirige il suo esercito di morte. Una serie di schermaglie tra i due alza il livello di tensione, fino ad arrivare al 6 novembre 1980 quando si arriverà allo scontro aperto: Cutolo è di ritorno da un colloquio con l’avvocato, è particolarmente nervoso e non ha voglia di sottoporsi alla perquisizione di rito. Gli agenti penitenziari paralizzati dalla paura fanno un passo indietro e così Salvia procede da solo. Il boss di Ottaviano reagisce in maniera furiosa e con un violento schiaffo che fa saltare gli occhiali di Salvia. Uno schiaffo che, nella simbologia mafiosa, equivale a una sentenza di morte di lì a poco eseguita dai killer cutoliani. Gli effetti della pandemia sul non profit: fatturato a meno 20% di Giulio Sensi Corriere della Sera, 15 ottobre 2022 Le organizzazioni non profit danno lavoro a 870mila persone. Più sensibile la perdita del fatturato per chi opera nei settori di cultura, sport e ricreazione. Ha retto meglio chi opera in ambito sanitario, sociale o sociosanitario. Nell’anno della pandemia più della metà delle organizzazioni non profit ha visto una riduzione del proprio fatturato di oltre il 20%. Il dato “ufficiale” sull’impatto dell’emergenza sanitaria sul non profit arriva da Istat che ha presentato oggi i numeri più aggiornati del registro statistico delle istituzioni non profit arricchiti con fonti fiscali, in attesa della fotografia della rilevazione campionaria del Censimento sulle istituzioni non profit in corso. L’occasione è stata l’apertura de “Le giornate di Bertinoro sull’economia civile”, il tradizionale appuntamento di Aiccon, il Centro Studi dell’Università di Bologna arrivato alla ventiduesima edizione intitolata “Riconoscersi. Includere per trasformare l’esistente”. Si tratta delle organizzazioni assoggettate al regime Iva, un quarto del totale, ma che danno lavoro all’85% degli 870.000 dipendenti del non profit italiano. Ad essere colpiti sono stati in particolare i settori dell’istruzione e ricerca (63,8%), delle attività culturali e artistiche (62,5%), di quelle ricreative e di socializzazione (61,7%), e delle attività sportive (58,5%). Al contrario, rispetto al 2019, il fatturato è in aumento nei settori della sanità (42,3%), dello sviluppo economico e coesione sociale (39,9%) e dell’assistenza sociale e protezione civile (37,7%). “Questi nuovi dati - spiega Massimo Lori, responsabile del registro statistico delle istituzioni non profit di Istat - evidenziano gli effetti differenziali che ha avuto la crisi sanitaria sul non profit. L’impatto più forte ha toccato alcune associazioni, quelle di promozione sociale e le sportive dilettantistiche, che operano nei settori di cultura, sport e ricreazione, anche istruzione e ricerca. La perdita di fatturato è importante, mentre le realtà che operavano in ambito sanitario, sociale o sociosanitario hanno retto meglio”. Al 31 dicembre 2020 le istituzioni non profit attive in Italia sono 363.499 e impiegano 870.183 dipendenti. La crescita delle organizzazioni riguarda in particolare il sud (+1,7%) e le Isole (+0,6%), mentre restano stabili al Centro e nel Nord-ovest, in diminuzione al Nord-est (-0,5%). “Continua la dinamica positiva in termini di nuove istituzioni al sud - commenta ancora Lori - purtroppo però inficiata dall’ancora troppo alta mortalità delle organizzazioni. Si ridurrebbe il divario fra nord e sud del Paese sul non profit se nel Mezzogiorno ci fosse un ecosistema più favorevole”. Le regioni che presentato gli incrementi maggiori sono la Campania (+4,5%), la provincia autonoma di Bolzano (+1,8%), la Puglia e la Valle d’Aosta (+1,6%). Il 2020 ha visto anche un calo notevole di cooperative sociali, un crollo del 3,3% del loro numero complessivo. L’occupazione ha tenuto grazie anche al blocco dei licenziamenti e agli ammortizzatori sociali, ma è diminuita laddove c’era più concentrazione di contratti a tempo determinato. In aumento gli impiegati nelle Isole (+5,1%), al Centro (+2,7%) e al Sud (+2,1%), diversamente dal Nord-ovest in cui i dipendenti sono in diminuzione (-1,0%). In aumento anche le risorse destinate al cinque per mille: nell’anno di dichiarazione dei redditi 2020 aumentano, rispetto all’anno precedente, il numero degli enti beneficiari (+5,8%) e l’importo ricevuto (+1,6%), pari a circa 455,6 milioni di euro, contrariamente al numero di scelte espresse dai contribuenti al momento della dichiarazione che si attesta sui 12,6 milioni (-3,9%). Scuole aperte al pomeriggio per prevenire la devianza giovanile? Sì, ma ci vogliono soldi di Marco Ricucci* Corriere della Sera, 15 ottobre 2022 Per prevenire fenomeni di devianza giovanile come le baby gang non basta la buona volontà: bisogna formare docenti capaci di promuovere accoglienza e inclusività nelle aree a rischio. Mai come in questi ultimi anni la scuola, come sentinella e presidio dello Stato, è chiamata a svolgere il suo ruolo istituzionale di formazione ed educazione delle nuove generazioni, nella società liquida, nel mondo diventato villaggio-globale, nella tecnocrazia a volte così subdolamente pervasiva. La scuola, dunque, può essere un potente antidoto contro il “fascino” della cosiddetta devianza giovanile o minorile, che dalla letteratura specialistica viene accostata spesso a concetti di disagio, disadattamento, rischio. Questa fascinazione è moltiplicata dalla forza dirompente del web, che crea nuove mode e nuovi modi di essere e apparire: lo dimostra anche la recente cronaca che mostra la “seduzione” del fenomeno socio-culturale delle baby-gang sui ragazzini . La proposta di tenere le scuole aperte al pomeriggio fatta dal presidente dell’Associazione nazionale presidi di Roma Mario Rusconi è pienamente condivisibile, anche se dimostra l’amara consapevolezza, anzi quasi la rassegnazione, di chi sta nel mondo nella scuola: basterebbe poco per “cambiare” producendo effetti positivi, senza bisogno di evocare l’ennesima riforma, disfatta poi dal governo successivo. Il tempo passato a scuola è un tempo qualitativamente ricco di valore e di valori, poiché nel “post-urbanesimo” della società industriale i luoghi simbolo dell’aggregazione giovanile come il muretto e il cortile, ad esempio, sono stati sostituiti da social media come Instagram e Tik Tok. La scuola, aperta di pomeriggio, ha, in un certo senso, la missione di riportare alla realtà una generazione abituata al reality, alla concretezza di chi vive sempre connesso nella virtualità aleatoria di un mondo costruito e progettato nel web. Ma tenere aperte le scuole costa! E i soldi da dove possono essere presi? Cartesio diceva che le domande sono il mezzo euristico per raggiungere un barlume di verità. Che cosa bisognerebbe fare per avere la scuola aperta nel pomeriggio? Anzitutto occorre aggiornare il contratto nazionale del Comparto Scuola, perché è lo strumento giuridico che è vincolante per le lavoratrici e i lavoratori; è necessario abbattere la burocrazia scolastica che è come l’Idra contro cui lottò Ercole; è bene raccogliere le buone pratiche sviluppatesi nel corso di questi anni nelle scuole dello Stivale e, depurate dalla buona volontà dei docenti, arricchirle di contenuti e forme grazie alla riflessione degli specialisti del settore (università, volontariato, associazioni di presidi e docenti e così via) al fine di disseminarle nelle scuole individuate come più disagiate e in aree a rischio. Il personale docente impegnato nelle attività pomeridiane dovrebbe essere coadiuvato dagli aspiranti docenti, che sono impegnati nel nuovo percorso di formazione iniziale degli insegnanti. Il piano estate, nato sull’onda della pandemia che ha penalizzato didatticamente il corpo studentesco, e ha prodotto anche un malessere psicologico, ha mostrato la creatività delle scuole e ha animato il protagonismo di chi ama il proprio lavoro, con il prezioso supporto- dietro le quinte- delle segreterie che curano gli aspetti burocratici- non dimentichiamocene! Si tratta, a questo punto, di mettere a regime questi tasselli in una azione organica di cui la regia del Ministero sia centralistica, mentre la realizzazione sia localistica, lasciata ai singoli Provveditorati, in cui dovrebbe essere personale ad hoc formato per il coordinamento delle attività volte a sviluppare socializzazione, promuovere accoglienza e inclusività, contribuire al rinforzo e al potenziamento delle competenze linguistiche, disciplinari e sociali delle nostre ragazze e dei nostri ragazzi. Così si potrà, in una certa misura, prevenire, con l’istruzione e l’educazione, anche il fenomeno della baby-gang. E la scuola potrà diventare davvero “una seconda casa”. *Docente di italiano e latino al Liceo scientifico Leonardo di Milano e saggista Quei numeri troppo alti sugli studenti che “spariscono” da scuola: ora arrivano le sentinelle-spia di Manuela Galletta La Stampa, 15 ottobre 2022 Nuove linee guida contro la dispersione scolastica. La segnalazione arriverà direttamente alla procura per i minorenni di Napoli, che potrà decidere quali canali “investigativi” attivare per fare luce sull’anomalia individuata e quando e come ricorrere al Tribunale per sollecitare interventi sulla potestà genitoriale. Nella lotta alla dispersione scolastica a Napoli c’è una novità assoluta: il pool inquirente dei Colli Aminei è libero dall’obbligo di attendere input specifici che sarebbero dovuti provenire dagli assistenti sociali, e conquista un ruolo attivo in una battaglia che in città le istituzioni intendono vincere. Troppo alte le stime sugli studenti che “scompaiono” da scuola, nonostante l’obbligatorietà della formazione fino a 16 anni: nel capoluogo e in provincia, la dispersione scolastica sfiora punte del 16,5 per cento rispetto al 12,5 per cento della media nazionale. Pochi giorni fa in Prefettura sono state presentate le linee guida di un protocollo ad hoc che chiama in causa diversi enti istituzionali e li rende tutti attori protagonisti. Funzionerà così: dopo 20 giorni di assenza ingiustificata, dalla scuola partirà una prima segnalazione che giungerà contemporaneamente al Comune di competenza, all’Ufficio scolastico regionale nonché alla prefettura e alla procura per i minorenni di Napoli. Tutti sapranno e nessun ente potrà girarsi dall’altro lato. Ciascuno, però, potrà intervenire in base a precise competenze. La procura per i minorenni, ad esempio, dovrà attivare gli assistenti sociali (che saranno investiti, in parallelo, pure dal sindaco) allo scopo di verificare le cause dell’assenza prolungata dello studente. Laddove gli assistenti sociali non rispondessero, la procura si appoggerà alle forze dell’ordine. All’esito dell’”istruttoria”, si apriranno le dovute pratiche, quelle che sino ad ora si sono misurate con il contagocce. “Ad oggi abbiamo avuto un serio problema di scarsezza di segnalazioni, perché sul territorio sono mancate le ‘sentinelle’ che assicurano le segnalazioni”, spiega il procuratore per i minorenni di Napoli Maria de Luzenberger Milnernsheim soffermandosi sul ‘nodo’ della esiguità di risorse nel comparto degli assistenti sociali. Ci sono comuni dove opera un solo assistente sociale su una platea di 50mila abitanti: è il caso di Marano (in provincia di Napoli), che sfiora i 60mila abitanti e dove la criminalità organizzata fa sentire la sua pressione. E pensare che la legge italiana prevede che vi sia un assistente sociale ogni cinquemila abitanti. “Le nuove generazioni di assistenti sociali sono molto ben formate ma purtroppo sui nostri territori non ci sono le forze numeriche tali da garantire il funzionamento di un presidio importantissimo”, osserva il procuratore. Con il nuovo protocollo presentato in prefettura e nell’attesa che si concludano i concorsi banditi per reperire queste figure, si cerca dunque di superare l’ostacolo delle segnalazioni, dalle quali dipende la vita del procedimento utile a ‘recuperare’ lo studente. Si torna, così, al ruolo della procura. “Le procure per i minorenni - aggiunge il magistrato Maria de Luzenberger Milnernsheim - hanno grosse competenze in campo civile che si conoscono poco: sono gli unici soggetti pubblici che possono ricorrere al Tribunale per le limitazioni della potestà genitoriale, per chiedere la dichiarazione di stato di adattabilità dei minori”. Tradotto: nei casi più seri, la procura solleciterà interventi sulla potestà genitoriale: “Si potranno sollecitare, ad esempio, dei corsi da imporre ai genitori, dei servizi mirati. Solo nei casi più gravi - avverte il procuratore - si arriverà all’allontanamento dei minori, ma questa, ci tengo a sottolinearlo, è solo l’ultima ratio”. Sul fronte del Comune, invece, le competenze sono diverse: a seguito della prima segnalazione occorrerà attivare i servizi sociali, ma se i giorni di assenza dovessero salire a 40 scatterà l’”ammonimento formale” del Comune alla famiglia finalizzato al recupero dello studente; se neanche l’ammonimento sortisse effetto, alla fine dell’anno scolastico vi saranno conseguenze con gli scrutini. È un primo passo, anche se c’è chi, come il procuratore Maria de Luzenberger Milnernsheim, da decenni impegnata sul fronte dei minori, chiede di più. “Introdurrei sanzioni meno ridicole di quelle che ci sono. Oggi l’inosservanza dell’obbligo dell’istruzione elementare dei minori è punita con l’ammenda fino a euro 30. Poca roba. Gli importi vanno elevati e si deve procedere con multa amministrativa che è più veloce”, spiega il magistrato. In parallelo si dovrebbe lavorare su programmi di affiancamento alle famiglie più disagiate e a programmi più coinvolgenti, più stimolanti per i ragazzi. “Abbiamo notato che nei territori dove esistono dei servizi comunali di sostegno alle famiglie, la dispersione scolastica è minore - analizza il magistrato - Questo accade perché molti genitori soffrono in prima persona non essere scolarizzati: non comprendono l’importanza della formazione dal momento che a loro fa difetto e quindi non mandano i figli a scuola, né li spronano. È, dunque, importante dare vita a percorsi di sostegno che però non siano a progetto ma strutturali. Lo Stato non deve essere solo punitivo”. “Non vogliamo un nuovo Medioevo, non torneremo indietro sui diritti” di Giuliano Santoro Il Manifesto, 15 ottobre 2022 Le proteste di associazioni e movimenti Lgbtq dopo l’elezione di Lorenzo Fontana alla presidenza della Camera. Si attendevano l’attacco da parte delle destre, ma probabilmente non si aspettavano che la minaccia arrivasse così presto, con la scelta di un presidente della camera come Lorenzo Fontana, che viene definito “omofobo”, “fiancheggiatore della famiglia naturale”. Il timore diffuso è che si torni indietro sul fronte dei diritti e dei modelli culturali. E che la legittimazione alle istanze più reazionarie e intolleranti possa arrivare dall’alto, dallo scranno più alto della camera dei deputati, visto che Fontana in questi anni non si è mostrato aperto al dialogo ma ha condotto crociate integraliste che hanno occhieggiato all’estrema destra. Fontana si attirò molte critiche già nel 2018, quando divenne ministro alla Famiglia e alla Disabilità nel governo Conte I. E ancora quando portò a Verona con il Congresso mondiale sulla famiglia. Quel convegno, ricorda oggi il segretario nazionale dell’Arcigay Gabriele Piazzoni, fu una delle pagine più “imbarazzanti” e “oscurantiste” degli ultimi anni. Del resto, dal circolo di cultura Mario Mieli, presidio storico delle lotte della comunità omosessuale, ricordano quel passaggio come “un medioevo dei diritti”. Mario Colamarino, presidente del Mario Mieli promette: “Siamo pronti a scendere in piazza e a fare le barricate se vedremo che saremo attaccati per l’ennesima volta”. La condanna è bipartisan: anche Erico Oliari, presidente dell’associazione vicina al centrodestra GayLib mostra di non gradire l’elezione della terza carica dello stato. “Bisogna dire che Fontana - riconosce Oliari con un certo imbarazzo - non si è mostrato molto amico delle ‘nuove famiglie’. Mi auguro che se vuole rappresentare tutti, abbia un ripensamento, ci dia un segnale di apertura”. Fabrizio Marrazzo, portavoce del Partito Gay Lgbt che alle ultime elezioni si è alleato con il Movimento 5 Stelle, ricorda quando durante il congresso della Lega nel 2017 Fontana disse “vogliamo un Europa dove il matrimonio sia solo tra mamma e papà e altre schifezze non le vogliamo”. Per Vincenzo Miri, presidente della Rete Lenford che si occupa di fornire assistenza legale e difendere i diritti Lgbt, spiega: “Fontana non ha mai fatto mistero di appoggiare il modello familistico della Russia di Putin. È ovvio che non può rappresentare le istanze della comunità Lgbt che ha sempre osteggiato. Addirittura si era opposto alle Unioni civili e alla famosa ‘propaganda gender’ nelle scuole, che non esiste”. Dalla Rete D.i. Re dei centri antiviolenza annunciano che non accetteranno passi indietro sui diritti. “La destra affida le cariche più elevate del parlamento a due uomini che non sono una garanzia per chi ha a cuore i diritti umani e per chi, come noi, presidia la libertà e i diritti delle donne - spiega la presidente Antonella Veltri - Auspichiamo che questo non preluda a un’involuzione dei diritti civili, soprattutto quelli conquistati dalle donne in tanti anni di lotte per l’autodeterminazione e per l’emancipazione dalle gabbie del lavoro domestico”. “La seconda e terza carica dello Stato devono essere elementi di rappresentatività e garanzia - aggiungono dal Gay Center - risulta preoccupante per uno Stato di diritto che tali ruoli fondamentali possano essere in mano a persone di nostalgica memoria o che diffondono fake news complottiste, antiabortiste e omofobe”. Ieri a Roma, all’Università La Sapienza, hanno protestato anche i collettivi studenteschi e le militanti di Non Una di Meno: dopo avere attraversato la città universitaria in corteo hanno fatto irruzione in un convegno sulla famiglia al quale oggi era annunciata anche la presenza dell’ex parlamentare leghista Simone Pillon ed espresso la loro contrarietà all’elezione di Fontana. Le piazze della pace di Furio Colombo La Repubblica, 15 ottobre 2022 La guerra sembra ora pendere dalla parte ucraina, ma bisogna impegnarsi molto per farla finire. Prima viene la proposta di una grande piazza della pace. L’idea è che vengano in tanti per dimostrare che in tanti vogliono la pace. Come si potrà continuare a negarla? Resta il problema: a chi si rivolge la grande piazza gremita, con che forza chiede, e da che forza attende risposta. In un altro punto dello spazio gremito di gente allarmata per una guerra che non finisce, ma oscilla tra vecchia guerra di trincea e guerra atomica, e l’oscillazione continua fra chi vince e chi perde, c’è una attività collettiva che si chiama “Tavola della Pace”, è ispirata dal Papa e dal pensiero cristiano e immagina non una implorazione ma un lavoro comune delle due parti, un lavoro bene organizzato come l’assemblaggio di un meccano. Le due parti conoscono i pezzi e i legami fra i pezzi e confidano che due intelligenze coglieranno il danno di continuare a combattere e individueranno percorsi di minimo accordo. C’è infine una terza area di perseguimento della pace, semplificando radicalmente il percorso in modo che sia chiara la responsabilità di chi partecipa e di chi rifiuta. Per finire la guerra ed entrare nella pace ognuno ha una sola carta da giocare. Ci deve essere chi vince e ci deve essere chi perde. È un percorso possibile, benché sgradevole e crudele per una delle parti, purché corrisponda al modo in cui stanno svolgendosi i fatti. Per esempio, nella guerra Russia contro Ucraina, la Russia vinceva fino a poco fa. Improvvisamente qualcosa è mutato, e l’Ucraina ha cominciato a riprendere i suoi territori senza cederne altri. A questo punto si verifica, come minimo, uno stallo. La pace come cedimento del presunto perdente non è più una opzione. C’è l’aggressione ma non c’è — ma non è più ovvio ed evidente colui che deve cedere. Restano in ballo le parole “negoziato” e “diplomazia”, che in questo conflitto sono state usate con molto e occasionale opportunismo, sempre a ridosso degli interessi della parte che in quel momento vinceva. Per esempio, da parte di Putin o dei suoi portavoce si sono usate spesso le due parole (negoziato e diplomazia). Ma è sempre toccato a un improvvisato e inaspettato mediatore (il presidente turco Erdogan) far notare che le due parole, apparentemente miti, seguivano o precedevano la ripetizione della minaccia nucleare. A questo punto si vede con chiarezza quanto sia fondato il pregiudizio sul male della guerra, che i capi di Stato avevano promesso di tenere a distanza. La guerra autogenera guerra e non solo non tende a finire ma tende a restringere sempre di più lo spazio della pace. Dunque la piazza piena e la piazza vuota non sono il segnale di ciò che è accaduto e di ciò che accadrà e la Tavola della pace ha la grande e nobile qualità della preghiera il cui esito non siamo in grado di giudicare. Occorre, come per gli altri enormi problemi che la guerra ci ha portato (carestia, lavoro, materie prime, strumenti e modi di sopravvivenza) una strategia della pace (qualcuno deve impegnarsi a creare condizioni di pace, come stiamo cercando di impegnarci per avere e produrre gasolio) fino a quando avremo messo al sicuro i tanti che stanno morendo. Alabama, la giuria disse no alla condanna a morte ma c’è la data dell’esecuzione di Riccardo Noury Corriere della Sera, 15 ottobre 2022 Il 17 novembre, se non saranno accolti i ricorsi dei suoi avvocati difensori, Kenneth Smith sarà messo a morte nello stato dell’Alabama. In molti temono che, dopo quello interrotto a settembre perché il tempo era scaduto, si tratterà di un altro tentativo di esecuzione particolarmente cruento. La vicenda giudiziaria di Smith è paradossale e va raccontata nei minimi dettagli. Smith era stato condannato alla pena capitale nel 1989, insieme al coimputato John Forrest poi messo a morte nel 2010 per aver ucciso su commissione una donna di nome Elizabeth Sennett. A organizzare l’omicidio, pagando 1000 dollari a testa i due sicari, era stato il marito della vittima, il reverendo Charles Sennett, poi morto suicida una settimana dopo il delitto. La sentenza di primo grado era stata annullata nel 1992, perché la pubblica accusa aveva illegalmente escluso dalla giuria dei candidati neri. Al termine del nuovo processo, nel 1996, la giuria chiese con 11 voti contro uno la condanna all’ergastolo. Il giudice si avvalse della prassi dell’overrule e, contro il parere della giuria, ordinò la condanna a morte di Smith sostenendo che la giuria si era lasciata “emozionare” da un appello della madre dell’imputato contro la condanna a morte. La prassi dell’overrule è stata messa fuorilegge nel 2017 in Alabama e oggi non è più in vigore in alcuno degli stati degli Usa che ancora applicano la pena di morte. Il 22 febbraio di quest’anno la Corte suprema federale ha respinto un appello della difesa di Smith sull’incostituzionalità dell’overrule. Secondo uno studio dell’Annual Review of Law and Social Science, pubblicato nel 2019, all’epoca 100 prigionieri erano in attesa dell’esecuzione a causa di condanne a morte emesse a seguito dell’overrule e almeno 18 condanne a morte erano state eseguite nonostante la giuria si fosse pronunciata in senso contrario. Un altro studio, più datato in quanto risalente al 2011, pubblicato da Equal Justice Initiative, aveva evidenziato che in Alabama, dal 1976 (anno del ripristino della pena capitale negli Usa), in almeno 100 processi capitali il giudice aveva rovesciato il verdetto della giuria e che il 20 per cento dei prigionieri nei bracci della morte si trovava lì a seguito dell’overrule. Malta. Due imputati si dichiarano colpevoli dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia La Repubblica, 15 ottobre 2022 I fratelli George e Alfred Degiorgio si sono dichiarati colpevoli, appena poche ore dopo l’inizio del processo contro di loro, dell’omicidio di Daphne Caruana Galizia, la giornalista maltese assassinata cinque anni fa. La svolta, annunciata dal loro legale Simon Micallef Stafrace, è arrivata nell’aula processuale dove era appena ripresa - dopo un’interruzione per il pranzo - la prima udienza del processo a loro carico. I due fratelli erano entrati in aula stamattina dichiarandosi non colpevoli, e sono accusati di aver sono accusati di aver piazzato la bomba che ha fatto esplodere l’auto della donna mentre guidava vicino a casa sua il 16 ottobre 2017. I fratelli Degiorgio - che rischiano 40 anni di prigione - avrebbero deciso di confessare in cambio di una riduzione di pena, per ora non meglio precisata. I fratelli Degiorgio erano stati arrestati ai primi di dicembre 2017, appena 42 giorni dopo l’omicidio, grazie al lavoro congiunto delle polizie di mezzo mondo, a cominciare da Fbi, Europol, Scotland Yard, nonché Italia, Finlandia, Olanda e Francia. Per anni hanno mantenuto il silenzio, nonostante le accuse e le rivelazioni dei pentiti: l’intermediario, l’ex tassista ed usuraio Melvin Theuma, che ha ottenuto il condono tombale per le prove che hanno incastrato anche il mandante Yorgen Fenech; e il loro complice Vincent Muscat (autista e tuttofare dei Degiorgio), che ha già patteggiato 15 anni di carcere.