C’è galera e galera, caro ministro della Giustizia di Maurizio Crippa Il Foglio, 14 ottobre 2022 Molta irritazione pop per un detenuto scarcerato perché (si fingeva?) malato. Nessun interesse, nemmeno nei media, per il detenuto numero 68 del 2022 che si è impiccato nel carcere di Oristano. Quando avranno finito di bisticciare, i politici farebbero bene a soppesare queste due notiziole, prima di scegliere il prossimo Guardasigilli. Ha fatto più titoli e indignazione piccoloborghese, come si diceva quando i piccoloborghesi erano tali e non possessori di account, la cronachetta di un detenuto di Genova che era stato scarcerato perché ipovedente e in sedia a rotelle (hai visto mai che i medici in carcere ci vanno?). Solo che è stato beccato da un agente penitenziario che lo conosceva, in un ristorante di Livorno, mentre leggeva il menù ben sorretto dalle sue gambe. (O la sfiga ci vede benissimo, oppure è un locale assai attrattivo). Lo ha segnalato al tribunale di Sorveglianza. Grande scandalo, eh, un carcerato che prova a fare il furbo. Ha fatto invece molto meno titolo la notizia che un detenuto nel carcere di Oristano si sia impiccato: sarà che uccidersi in galera è considerata cosa normale, altro che agognare la trattoria. Eppure, è il suicidio numero 68 accaduto quest’anno, “un ennesimo tragico monito alle istituzioni”, come ha detto Maria Grazia Caligaris dell’associazione Socialismo diritti riforme. Quando avrete finito con i bisticci, e si tratterà di scegliere un ministro di Giustizia, ricordatevi di soppesare, almeno voi, le due notiziole. E scegliete un ministro di vera giustizia. Carcere: libera la 85enne, ma sono oltre mille i reclusi ultra70enni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 14 ottobre 2022 Il Tribunale di Sorveglianza di Milano dispone la scarcerazione per la donna finita in cella dopo aver occupato un alloggio. In carcere c’è chi ha 90 anni, soprattutto ergastolani al 41 bis, non tutti ostativi e per reati non gravi. A Poggioreale un 90enne recluso da 4 anni. Il tribunale di sorveglianza di Milano ha sospeso l’esecuzione della pena per la donna di 85 anni che si trovava in carcere a San Vittore in precarie condizioni di salute dopo aver ricevuto una condanna a 8 mesi di reclusione per occupazione abusiva di una casa. L’anziana donna torna libera dopo essere finita nel carcere milanese per non essere stata trovata ai domiciliari in un campo nomadi dove sarebbe dovuta rimanere a espiare la pena. Il caso sollevato dall’associazione Antigone e che ha visto anche la presa di posizione del Garante comunale per i detenuti, l’ex magistrato Francesco Maisto, è stato trattato con urgenza dalla magistratura di sorveglianza di Milano guidata da Giovanna Di Rosa che ha confermato l’immediata sospensione della pena. I dati: oltre mille i reclusi ultra70enni - Questo caso riapre il problema della sempre maggior frequenza con cui le persone ultra75enni varcano le soglie del carcere. Secondo l’ultimo dato disponibile del Dipartimento dell’amministrazione penitenziari, al 30 giugno scorso ci sono 1.065 detenuti ultrasettantenni. Non mancano detenuti che hanno raggiunto la soglia dei 90 anni, soprattutto gli ergastolani che sono al 41 bis. Ma non sono tutti ostativi, una parte degli anziani sono dentro per reati non gravi. Abbiamo l’esempio di un ultra novantenne recluso da quattro anni al carcere napoletano di Poggioreale come segnalato dal Garante regionale Samuele Ciambriello. Il nostro ordinamento penitenziario contiene l’art. 47 ter, comma 1, il quale prevede che la pena detentiva inflitta ad una persona che abbia compiuto i settanta anni di età “può essere espiata nella propria abitazione o in altro luogo pubblico di cura, assistenza ed accoglienza”. Questa ipotesi di detenzione domiciliare ha una finalità umanitaria dettata dalla circostanza che il superamento di una certa soglia di età comporta delle difficoltà maggiori per chi si trova in carcere. Però non vale per tutti. Ci sono gli anziani senza fissa dimora (il caso dell’85enne reclusa al carcere di Milano condannata a 8 mesi per occupazione abusiva) e senza alcuna struttura pronto ad accoglierli. Ripescando i dati dell’Istat di tre anni fa, la maggioranza degli anziani che vengono arrestati, sono coloro che hanno commesso reati minori come la detenzione degli stupefacenti o piccoli furti. Si arriva così a casi drammatici, al limite del grottesco, come quello del pensionato genovese che, per arrotondare, si era ridotto a custodire un chilo di cocaina per conto di una gang di spacciatori albanesi. Anziani in cella, i casi più noti - Oppure, l’80enne romano soprannominato “il ladro di biciclette”, morto nel 2017 al carcere di Regina Coeli dopo una caduta. Altro caso, del quale Il Dubbio se ne era più volte occupato, riguarda Stefanina Malu, un’anziana di 83 anni che era reclusa nel carcere sardo di Uta per detenzione di droga. Aveva problemi fisici, non riusciva a deambulare e più volte era stata portata all’ospedale. Dopo anni, finalmente, le era stata data la detenzione domiciliare. Aveva fatto appena in tempo ad essere accudita dalla figlia, che si sentì male tanto da essere condotta, d’urgenza, con un’ambulanza in ospedale. Nonostante l’impegno del personale sanitario, l’anziana donna non ce l’ha fatta ed è morta. Il problema dei vecchi in carcere è tuttora irrisolto. L’85enne detenuta a San Vittore è stata scarcerata. Ma in carcere gli anziani sono sempre di più di Antonia Ferri Il Foglio, 14 ottobre 2022 I casi di persone over 70 nei luoghi di detenzione italiani sono 1.065 e sia l’associazione Antigone sia il Garante delle persone senza libertà, Mauro Palma, parlano della necessità di misure alternative per chi non è più un pericolo sociale. La donna di etnia rom di 85 anni, detenuta da circa due settimane nel carcere di San Vittore a Milano, per una condanna di soli otto mesi, è stata scarcerata oggi. “Aveva ipertensione arteriosa, patologie epatiche. Quando le ho chiesto quanti anni aveva, non me l’ha saputo dire. Così come quando le ho chiesto quand’è nata”: Francesco Maisto, Garante dei detenuti di Milano, ripete che la donna non si reggeva in piedi. Susanna Marietti, la coordinatrice nazionale dell’associazione Antigone sostiene che “aveva una ‘piantona’“, un’altra detenuta che l’aiutava a spostarsi perché da sola non ci riusciva. L’ex detenuta, condannata a scontare otto mesi di pena in carcere per occupazione abusiva non si dimostrava in alcun modo un pericolo per la società. Motivo per cui lo stesso Maisto, ieri, incontrandola e parlandole, ha deciso di lanciare l’allarme e segnalare il caso al Tribunale di sorveglianza di Milano. “La donna è stata condannata il 23 febbraio del 2021”, probabilmente, in contumacia, quindi, il 27 luglio, c’è stato l’ordine di esecuzioni della pena. “È entrata in carcere il 28 settembre”, quando, si presume, l’hanno trovata. Ora è stato accordato alla donna il differimento della pena, “di fatto” sottolinea Maisto “la nipote è andata a prenderla per portarla a casa”. I punti focali della vicenda sono tre: l’età avanzata e le condizioni di salute precarie della donna, un reato minimale con una pena molto corta e il fatto che il reato determini di per sé di non possedere una dimora. Le questioni si compenetrano. La donna era stata portata al carcere di San Vittore, che è un circondariale, dove di solito i detenuti risiedono per periodi di tempo brevi. Questo, come evidenzia anche il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, comporta che la struttura non ospiti spesso anziani e, quindi, che avesse un personale medico non abituato a trattare determinate patologie tipiche di quell’età. Inoltre c’è una norma che dice che “oltre i 70 o 75 anni si portano dentro soltanto i casi estremi”. Nelle carceri italiane ci sono 1.318 persone che stanno scontando una pena inferiore a un anno e 1.065 che hanno più di settant’anni. Ma chi sono queste persone? “Mi è rimasto impresso un signore che avrà avuto 80 anni circa: era in lacrime e raccontò di aver facilitato la morte dell’anziana, e amatissima, moglie. Aveva una pena lunga: tanto da poter dire che finirà la sua vita in carcere”, racconta Marietti. Non conosce i profili degli anziani detenuti, ma aggiunge che “quelli che ho visto mi saltavano agli occhi per la loro evidente condizione di marginalità economica, ma anche sociale”. Infatti, siccome “i dati sono disaggregati”, non è possibile sapere quanti anziani condannati a pene risibili risiedano nelle carceri italiane e questo rende difficile controllare il fenomeno, ma “noi come Antigone siamo molto presenti nelle carceri e posso dire che sicuramente c’è una quota da considerare di anziani che ha storie simili a quella della donna di etnia rom”. La condizione di reclusione per gli over 70 in Italia è sempre più frequente. Marietti lo conferma: “È in crescita, si suppone perché l’età si combina a delle pene più prolungate”. Questo rende necessario che il sistema potenzi il servizio delle prestazioni sanitarie che “spesso è molto carente”. Infatti, il numero più alto di richieste che arrivano ad Antigone riguarda il trasferimento e subito dopo quelle riguardanti la salute”. Marietti parla della necessità delle misure alternative: “possono essere l’affidamento o la detenizone domiciliare, ma è chiaro che il carcere “non è un luogo di cura adatto”. È necessario, dice il garante nazionale, che la collettività si muova per uscire da questa condizione: “Servirebbero strutture territoriali di accoglienza e controllo”. E continua: “Qualcosa è migliorato: nell’ultimissimo decreto del Consiglio dei ministri si è intervenuti sulle sanzioni sostitutive, quindi che si applicano in alternativa al carcere”. Certo è, come chiarisce lo stesso Palma, che una pena pecuniaria resta per persone che possono pagare. “Ma è chiaro che se già un detenuto è senza dimora, e, ancor di più, è un anziano senza dimora...”, la conclusione vien da sé. Impazzire: l’unica libertà che ti è concessa in carcere di Francesca Stacciarini Il Riformista, 14 ottobre 2022 Ogni volta come la prima. La prima cosa a cambiare quando si mette piede in un carcere è la luce: si entra in un mondo altro illuminato da una luce diversa, livida e parassita, che s’attacca alle pareti, agli oggetti, alle persone. Impregna e uniforma tutto. A fine settembre con Nessuno tocchi Caino, Cellula Coscioni Marcuzzo e i rappresentanti delle camere penali di Ascoli Piceno siamo entrati nella Casa Circondariale di Marino del Tronto (Ascoli Piceno), ultima tappa del “Viaggio della speranza” negli istituti penitenziari marchigiani per verificare le condizioni di detenzione e fornire ai detenuti dettagli sulla recente circolare sui colloqui diramata da Carlo Renoldi, capo del Dap. Nel microcosmo del carcere cambia la luce, ma non la società, che si traspone netta nella separazione tra le sezioni: la media sicurezza sovraffollata da storie di disperazione e povertà, e quindi tossicodipendenti e stranieri; l’articolazione salute mentale che cura (poco e male) chi dovrebbe essere curato altrove; la sezione protetti che protegge i detenuti dimenticandoli; l’alta sicurezza popolata per lo più da persone compassate e preparatissime, come se in qualche modo subdolo il male fosse correlato al livello culturale o spingesse ad accrescerlo per fronteggiare vita e processi. Nel penitenziario di Marino del Tronto poco o nulla resta di quel ventaglio di attività propedeutiche al reinserimento sociale e alla riparazione del reato presenti fino a cinque anni fa: i percorsi di alfabetizzazione per stranieri, la scuola media e il biennio superiore, i corsi professionali, la pet therapy, il teatro, il cineforum, l’orto sociale interno, le giornate ecologiche. Oggi nessuna attività formativa, nessun accesso allo studio, scarse e mal retribuite possibilità di lavoro interno, celle con sei persone progettate per tre, celle per una persona con una persona che ha due ore d’aria al giorno, l’aria di un corridoio coperto da un reticolato che riflette l’ombra dell’acciaio - pure l’ombra ti ricorda dove sei. Rimangono cappella e palestra, simulacri spaziali dell’espiazione del peccato e della produzione di endorfine funzionali a una più sopportabile sopravvivenza. Come si fa a convivere col nulla, e di quello vivere per tutta la durata della detenzione? A chi o a cosa serve? Di certo non alle finalità rieducative e riabilitative della pena stabilite in maniera chiara dalla nostra Costituzione. Né alla società né al reo. “L’unica libertà che il carcere concede è quella di impazzire”, dice un detenuto della media sicurezza. Quello di Ascoli è un caso critico - acuito dalla presenza/assenza di una direttrice sostituta che ha già la guida dell’istituto di Fermo e dal personale penitenziario perennemente sotto organico - ma simboleggia la spia di un malessere generalizzato e diffuso. Per le carceri italiane il bilancio del 2022 è tragico, mai tanti suicidi come nei primi nove mesi dell’anno: 67 persone si sono tolte la vita, di queste 3 a Marino del Tronto; l’ultimo in piena estate, ad agosto, un ragazzo di 37 anni da poco dimesso dal reparto psichiatrico dell’ospedale di San Benedetto del Tronto dopo l’ennesimo tentativo di farla finita. A morire sono per lo più giovani dietro le sbarre per reati minori o in condizioni di fragilità psicofisica. Con la chiusura degli OPG, infatti, una grossa mole di detenuti con patologie psichiatriche è stata dirottata negli istituti, un travaso che ha svelato nel tempo l’inadeguatezza dei livelli essenziali di assistenza da parte del sistema penitenziario. Con loro fanno il paio i detenuti tossicodipendenti, che rappresentano circa il 30% del totale e hanno difficile accesso alle misure alternative, peraltro spesso inadeguate al corretto trattamento sanitario, rischiando di compromettere il percorso di recupero sociale dell’individuo. Nonostante la situazione di per sé emergenziale, il futuro sulla carta non sembra promettere alleggerimenti della popolazione carceraria. Giorgia Meloni ha rimarcato la necessità della certezza della pena, si è già dichiarata contraria ad amnistia e indulto e per risolvere il problema sovraffollamento - che in Italia sfiora il 108% - ha rilanciato la popolarissima e antipopolare proposta di costruire nuove strutture per la detenzione, senza spiegare con quali fondi, in quali tempi e dove. La certezza della pena c’è sempre, è sulla sua umanità e sui diritti chiusi in cella che bisogna continuare a vigilare. Abbattere la colonna infame: dalla Sardegna una lezione di Antonio Coniglio Il Riformista, 14 ottobre 2022 Nella terra dove De Andrè scacciò la vendetta c’è la prima città riparativa d’Italia: Tempio Pausania, oggi un modello anche per l’Europa. Protagonista di questo percorso è una professoressa. In quei luoghi cinti dalle querce di sughero, ove la natura mai esanime sa sempre accogliere e perdonare lo straniero che abbracci l’isola, pare fosse sorto una volta un tempio consacrato a Castore e Polluce, i dioscuri nati per andare in soccorso di chiunque avesse bisogno. Proprio in quelle campagne nel cuore della Gallura, nelle quali avevano modellato il proprio nido d’amore, Fabrizio De André e Dori Ghezzi vennero sequestrati e trasferiti sulle alture impervie del Supramonte. Ne nacque una delle liriche più intime e struggenti di sempre: Hotel Supramonte. Perché finanche una prigione può divenire luogo ospitale e un’esperienza drammatica tramutarsi in un magnifico gioco di bassi, archi e violini. Il segreto è capire, comprendere, ascoltare. Se capita anche perdonarsi, perdonare, a guisa di ciò che fece il cantautore genovese con quei malcapitati banditi sequestratori. È l’elogio della giustizia riparativa, che sa ri-cucire, prendersi cura, scacciare l’odio e la vendetta, ritrovare la verità e rimettere a posto le cose. La condizione è che si sappiano “cambiare le lenti”, come insegnava Howard Zehr, e si capisca, una volta per tutte, che non vale proprio la pena accontentarsi di un diritto penale migliore ma occorre radbruchianamente uscire da una visione carcero centrica, reo centrica, andando alla disperata ricerca di “qualcosa di meglio del diritto penale”. Si salvano vite, di uomini e di interi popoli. Cosa sarebbe stata invero la Storia se Nelson Mandela, come il Conte di Montecristo, fosse stato irretito dai tarli di Robben Island, e non avesse ricostruito il nuovo Sudafrica intorno a una giustizia capace di curare le ferite? Se il mondo fosse una eterna Norimberga, una sequenza di tribunali speciali, un vortice senza fine di retribuzione, un anelito mortifero e impenitente alla legge del taglione? Cosa sarebbe stata per esempio la storia del Sudafrica se si fosse scelto di punire gli aguzzini dell’apartheid secondo una logica uguale e contraria o, all’opposto ma con le medesime conseguenze nefaste, si fosse ritenuto di dare un colpo di spugna irenista, rinunciando alla verità senza la quale non si può ritornare pienamente alla vita? La giustizia riparativa è un percorso eracliteo, mai coatto, impregnato di fatica e di coraggio. Serve rinunciare alla dea bendata, a quella giustizia ieratica e impersonale incapace di ascoltare le vittime e di accompagnare i carnefici in un reale percorso di assunzione di responsabilità. È l’opposto della “Colonna infame” che finge di ascoltare l’altro, offrendo il sangue dell’autore del reato, trasformando infine quest’ultimo in un mero strumento di indagine, riducendo tutto alla colpa e al martirio. È capitato, per uno strano gioco del destino, che in quei luoghi della Sardegna, colorati di verde e marrone, a Tempio Pausania - ove De André seppe scacciare la vendetta barbaricina - si sappia declinare quotidianamente la giustizia riparativa. Tempio Pausania, come riconosciuto dalla ministra Cartabia a giugno, è un modello: la prima città riparativa d’Italia, una delle sei città riparative d’Europa. Protagonista di questo percorso straordinario, capace di legare comunità e carcere, è una donna penetrante e passionale che insegna psicologia giuridica all’università di Sassari: Patrizia Patrizi. È capitato pure che la professoressa Patrizi, iscritta a Nessuno tocchi Caino, sia stata appena nominata a capo del Comitato Esecutivo del Forum Europeo di Giustizia Riparativa. Proprio la Sardegna - da Tempio Pausania a Sassari, da Nuoro a Oristano e a Cagliari - è stata una delle tappe del “viaggio della speranza” di Nessuno tocchi Caino nel 2022. Il logos illuministico di Patrizia Patrizi dalla Sardegna si irradia allora in Europa. È rivolto a costruire un mondo olistico, in grado di disfare l’ingiustizia e di superare le separazioni, ove responsabilità è accountability - non rispetto della norma positiva fine a sé stessa ma consapevolezza delle conseguenze sociali delle proprie azioni. Dove verità forensi, narrative, degli autori dei reati e delle vittime, si incontrano nell’ascolto. Perché il mondo ha un disperato bisogno di dialogo, di “Spes contra spem”, di sperare contro ogni speranza. Con un approccio diabolico, che divide, che riduce la vita alle categorie del manicheismo, tutto sarebbe hobbesiana mente “bellum omnium contra omnes”: una guerra di tutti contro tutti. “Due famiglie disarmate di sangue si schierano a resa e per tutti il dolore degli altri è dolore a metà”, cantava tristemente De André in “Disamistade”. “Disamistade” in sardo significa faida, inimicizia. Giustizia riparativa è invece quella rivoluzione culturale copernicana che sostituisce ai codici barbaricini, alle tavole della legge, patto di non indifferenza, amore e nonviolenza. È consegnare agli altri la nostra storia, quella luminosa e quella buia. Costruendo un mondo, come fece Sergio D’Elia all’Ergife Hotel quando consegnò Prima Linea al Partito Radicale, che ci restituisca una tecnica della speranza e una educazione sentimentale. Al servizio della vita. Al carcere duro gli anarchici hanno sempre lottato al mio fianco” di Carmelo Musumeci* Il Dubbio, 14 ottobre 2022 Leggere l’articolo di Damiano Aliprandi su Il Dubbio dal titolo “La dura repressione per gli anarchici: condanne superiori alle stragi di Capaci e via D’Amelio” mi ha fatto ricordare che in più di un quarto di secolo di carcere duro gli anarchici hanno sempre lottato al mio fianco. Gli anarchici nella storia hanno combattuto tutte le rivoluzioni dell’umanità, ma una volta vinte sono sempre stati perseguitati dai vincitori. Loro non fanno calcoli, loro amano chi lotta e chi lotta ama loro. Molte volte gli anarchici, i comunisti e i movimenti extraparlamentari mi hanno dato solidarietà. E soprattutto gli anarchici sono venuti spesso davanti alle mura delle carceri per manifestare e dare sostegno ai detenuti e agli ergastolani. Sono sempre stati in prima fila con gli uomini che lottano per la libertà. Gli anarchici sono divisi su tutto ma quando c’è da lottare loro ci sono sempre. Quando ero in carcere e lottavo in solitudine, sapendo che loro comunque c’erano, mi sentivo le spalle coperte e anche quando i mass media non mi davano spazio, loro erano la mia voce. Le differenze fra loro e gli ergastolani sono sempre state numerose ed evidenti, ma io sono convinto che si nasce anarchici e poi si diventa qualche cos’altro. Mi ricordo che durante uno sciopero collettivo dalle finestre avevamo sentito la solidarietà colorita e festosa degli anarchici fuori dal muro di cinta. Loro arrivavano sempre prima di tutti e ci avevano riscaldato il cuore. La mia cella era lontana dal muro di cinta e io non li avevo potuti sentire, ma i miei compagni dell’altro lato mi avevano detto che scandivano il mio nome e mi ero commosso. È difficile cambiare il corso dei fiumi, ma gli anarchici ci provano sempre. Finito di leggere l’articolo di Aliprandi mi sono ricordato di Antonella, una amica anarchica prigioniera, che una volta mi aveva scritto: “Appena vai ai passeggi dai un bacio al cielo, io lo faccio sempre e mi dà la sensazione che almeno una parte di me esca fuori e vada da tutte le persone a cui voglio bene”. Poi anch’io avevo baciato il cielo. Ecco alcune delle loro testimonianze di quando ero sepolto vivo fra sbarre e cemento: - Il primo dicembre in numerose carceri di tutta Italia, avrà inizio uno sciopero della fame promosso da centinaia di ergastolani per ottenere l’abolizione dell’ergastolo. Vogliamo esprimere solidarietà ed appoggio a questa lotta in quanto nata dalla volontà dei detenuti stessi di lottare in prima persona e di ribellarsi ad una realtà che li vuole sottomessi, automi, morti viventi senza più neanche la consapevolezza di essere vivi. Il 7 dicembre saremo davanti al carcere di Sollicciano per salutare e sostenere i prigionieri in lotta. - Se fuori piove dentro diluvia: per noi è giusto sostenere questa lotta perché, sebbene parte da una questione specifica come l’ergastolo, nasce direttamente all’interno delle carceri e proprio per questo può estendersi ad altri detenuti ed arricchirsi di contenuti e rivendicazioni anche nel rapporto con le mobilitazioni presenti all’esterno. Sabato 13 dicembre, dalle ore 14 presidio sotto il carcere di Opera. - Stiamo organizzando una serie di presidi fuori le carceri che via via faranno lo sciopero della fame, inoltre abbiamo stampato un manifesto nazionale in solidarietà per lo sciopero della fame. Si faranno delle mobilitazioni in Spagna, circa 20 prigionieri spagnoli digiuneranno in solidarietà il 1,2,3, dicembre. Purtroppo uno di essi è stato massacrato di botte in cella dai secondini perché ha dimostrato solidarietà in appoggio con la lotta del primo dicembre. Ti informo che per il periodo dello sciopero della fame, l’opuscolo “La bella” uscirà tre volte al mese, quindi tienimi aggiornato su tutto. Stessa cosa farò da fuori! Credo sia tutto. Un abbraccio fraterno. - Il prossimo fine settimana porterò in gita il gruppo di ragazzini della cooperativa sociale per cui lavoro… li porteremo in montagna sopra Cesena, in un posto dove ci sono anche i lupi… coglieremo così l’occasione per leggere loro “Le avventure di Zanna Blu”! Sei capace di trasmettere molte sensazioni attraverso i tuoi scritti… non è da tutti! Tutta la solidarietà mia, e degli altri compagni anarchici di Cesena per la campagna degli ergastolani in lotta. - Qui a Salerno la situazione non è delle migliori, mi trovo in isolamento e costretto ad andare all’aria da solo, in un cortiletto di m. 7 per 8. La cella è buia e devo avere la luce sempre accesa, e l’interruttore è solo fuori, quindi devo dipendere dalle guardie. In cella il bagno non è chiuso, ma completamente aperto. La tazza poi è vicino al cancello. La doccia è solo due volte a settimana ma il locale è lercio… Come se non bastasse, lunedì mattina sono venuti in 15 a perquisire prima me e poi la cella, buttando tutto all’aria. Non so che idee hanno degli anarchici, ma forse pensano che abbiamo poteri paranormali”. *Scrittore ed ex ergastolano ostativo Giustizia, primo banco di prova la separazione delle carriere di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2022 Passa dall’ordinamento giudiziario e in particolare da una delle proposte che meglio sembra già potere mettere d’accordo nuova maggioranza e opposizione l’eredità dell’amministrazione Cartabia. Dove il riferimento è a quella separazione delle carriere tra giudici e pubblici ministeri, fra i temi meno divisivi nel centrodestra, ma anche tra i primi spunti di collaborazione con le opposizioni. Tanto che fra le prime proposte di legge della legislatura c’è quella di Enrico Costa di Azione; una proposta di rango costituzionale che separa in maniera definitiva i percorsi di due dei protagonisti della giurisdizione, con distinti percorsi di accesso, diverse progressioni in carriera, diversi ordini e diversi Csm. Lo scontro possibile - Un cambiamento radicale che, malgrado il fallimento del recente referendum, rilancia una delle storiche bandiere delle politiche della giustizia negli anni ruggenti del berlusconismo. Ma anche una riforma che aprirà di sicuro un fronte di scontro con la magistratura da oggi a congresso a Roma per le assise dell’Anm. Già a maggio il tema è stato al primo punto dello sciopero, peraltro dall’esito non brillantissimo, indetto dall’Associazione nazionale magistrati. La riforma Cartabia, nella parte già in vigore è peraltro intervenuta sul punto, limitando a una sola la possibilità di passaggio da una funzione all’altra e nel periodo iniziale della carriere. La delega aperta - Ma la stessa riforma, comunque, ha lasciato nelle mani del futuro Governo il testo di una delega già scritta che potrà essere esercitata entro il prossimo giugno, con una serie di puntuali interventi in materia di revisione dei criteri di conferimento degli incarichi di vertice negli uffici giudiziari, di tempi e modi di valutazione dell’attività dei magistrati (compresa l’introduzione del controverso fascicolo sulle performances). L’intervento sulle carceri - Tra le incompiute, in uno scorcio finale di legislatura che ha comunque visto Cartabia portare a casa, in anticipo sui tempi previsti in sede di Pnrr, anche le riforme del processo civile (si veda il grafico in pagina) e del processo penale, si segnala la revisione dell’ordinamento penitenziario. Dove peraltro Cartabia è almeno in compagnia di Andrea Orlando. Anche Orlando, infatti, pur potendo contare sugli esiti di un lungo e puntuale lavoro di preparazione non riuscì a chiudere la partita della riforma delle carceri, tema certo impopolare soprattutto alla vigilia di campagne elettorali. In ogni caso, se la commissione istituita da Cartabia ha concluso i lavori, ma un testo in Consiglio dei ministri non è mai approdato, tuttavia con una serie di circolari il ministero ha comunque provato a introdurre misure innovative, da ultimo con i provvedimenti in materia di stabilizzazione delle videochiamate da parte dei detenuti e di prevenzione dei suicidi, oltre che con un’attenzione particolare per i percorsi di sostegno agli operatori. I concorsi da completare - Sul fronte cruciale delle risorse, comunque, la nuova amministrazione dovrà procedere al completamento dei concorsi in via di svolgimento per il reclutamento straordinario di magistrati. Un’accelerazione che in ogni caso non potrà produrre i suoi effetti prima del 2024, visti i tempi di conferimento delle funzioni, e tuttavia necessaria perché presto, come segnalato dal Csm, si arriverà a un tasso di scopertura degli uffici giudiziari del 20%, il doppio del 2019. Bancarotta da ripensare - Del passaggio di consegne faranno poi parte almeno altri due interventi di particolare spessore e comunque lungamente attesi. Entrambi accomunati dalla messa a punto, da parte di commissioni ministeriali, di veri e propri articolati, mai presi in carico, per ragioni di tempo, dall’ufficio legislativo di via Arenula. Da una parte, in materia di diritto dell’economia, il nuovo assetto di tutta la parte penale della crisi d’impresa, con la revisione delle varie fattispecie di bancarotta, il maggior peso attribuito a cause di non punibilità e attenuanti, per adeguare una parte della legislazione ferma da moltissimi anni a quella nuova interpretazione dei rapporti tra creditore e debitori di cui il Codice della crisi da poche settimane in vigore è evidente esempio. Dall’altra, a mancare all’appello è il Codice dei crimini internazionali, dove a richiedere un intervento non solo di maquillage normativo sono stati gli stessi impegni presi dall’Italia in epoca anche risalente e oggi purtroppo diventati ancora più stringenti. Una giustizia migliore? Impossibile senza un freno alle correnti di Alberto Cisterna Il Riformista, 14 ottobre 2022 All’alba della legislatura, si intravede già il proposito di puntare solo su procedimenti più rapidi ed efficienti, senza fare riforme che pongano rimedio ai veri mali della magistratura. Il nuovo Guardasigilli non può essere un “semplice” tecnico. Si fa un gran discutere di ministri tecnici. Certo l’intera vita della Seconda Repubblica, sorta dal crollo del muro di Berlino e dalle ceneri di Mani pulite, è stata costellata dal ricorso a tecnici in posizioni apicali (Ciampi, Dini, Monti) o comunque di primo rilievo nelle compagini governative. Le ragioni sono varie e attingono tutte al sostanziale riconoscimento da parte della politica dell’impossibilità di annoverare tra le proprie file personalità capaci di affrontare problematiche ormai complesse, in primo luogo sul versante economico, ma non solo. Il primo vero cedimento dei partiti e dei movimenti sul versante della credibilità e dell’autorevolezza si misura proprio su questo crinale. L’ammissione che solo fuori dalle mura dei partiti e dei movimenti si possano selezionare i principali protagonisti delle compagini di governo equivale a riconoscere che la politica, da sola, non è in grado da sola di reggere le sorti di una nazione sviluppata e complessa e questo cedimento si può misurare sia verso l’estero (l’Unione europea e gli alleati) che verso la pubblica opinione nazionale. La convinzione, al giungere dei ricorrenti stati d’emergenza (Ciampi, Monti e Draghi), che la politica debba indietreggiare per lasciar posto a eminenti figure di esperti giustifica di per sé la crisi della democrazia rappresentativa. In nessun altro paese occidentale, come in Italia, i partiti recedono così velocemente dall’idea di poter o saper governare lo stato d’eccezione imposto dalle crisi. Supinamente accettano il suggerimento che sia meglio fare un passo indietro, abdicare alla guida in prima persona del paese e occuparsi, piuttosto, del piccolo cabotaggio delle nomine e del sottogoverno lasciando ai “duri” il compito di portare in salvo la nazione. Par chiaro che due governi emergenziali in meno di dieci anni (Monti e Draghi) e il costituirsi di maggioranze ibride abbiano logorato il prestigio e l’autorevolezza della politica in Italia che si è, praticamente da sola, costruita il ruolo di guardiano del tempio delle vacche grasse, lasciando a quelli bravi e capaci il compito di occuparsi del tempio delle vacche magre. Con un duplice risultato. Una progressiva e inesorabile disaffezione degli elettori alle tornate di voto, con un astensionismo crescente. La difficoltà di contenere le corporazioni e gli interessi meglio agglutinati che, a fronte di una politica fragile, manifestano l’intera loro capacità di resilienza e di resistenza verso ogni cambiamento. La prossima stagione di governo appare, in queste ore, fortemente condizionata dalla necessità di concedere spazio (ancora una volta) a tecnici in posti-chiave dalla macchina statale con lo scopo di tranquillizzare gli osservatori internazionali e la popolazione fortemente preoccupata dalla condizione economica. Un governo a forte trazione tecnica all’inizio della legislatura offrirebbe, tuttavia, il segnale di un ulteriore e, se si vuole, più grave arretramento delle forze politiche nel proprio ruolo di leadership della nazione. Il paese necessita, a tutta evidenza, di strappi e di colpi d’accetta su ogni versante (istituzionale, fiscale, sociale, economico) e i tempi cupi che si intravedono nel futuro prossimo impongono scelte anche drammatiche che solo la politica è legittimata a compiere. I tecnici, per loro vocazione, guardano ai risultati e non ai processi di consenso che li giustificano e li rendono condivisi dalla pubblica opinione. Già sul versante della giustizia si intravedono le prime precisazioni e le prime cautele. Quando si afferma che occorre innanzitutto puntare all’efficienza dei processi civili e penali per poi, dopo, guardare alle questioni istituzionali e ordinamentali, si dice una cosa solo in apparenza corretta. Nessuna riforma del processo, nessun aggiustamento sul versante delle risorse sarà in grado di porre serio rimedio alla deriva carrieristica e correntizia della magistratura italiana. Prima si costruisce la casa e solo dopo la si arreda e la si munisce di ascensori e di ogni comfort che la renda piacevole. Il ministero della Giustizia, quasi paradossalmente, rappresenta la più importante casella del nuovo ordito governativo. Molte riforme sul versante giudiziario sono puramente istituzionali e normative (Csm, ruolo del pubblico ministero, separazione delle carriere, nomine dei dirigenti) e non esigono alcuna risorsa aggiuntiva. In altre parole: contrariamente a molti altri settori in cui le riforme impongono costi notevoli (si pensi solo alla flat tax o alla scuola o alle pensioni), la giustizia ha necessità di interventi praticamente a costo zero. Solo dopo averli messi in cantiere questi rimedi ha senso riorientare le cospicue risorse del Pnrr (che rischiano di essere sprecate come molti sanno, ma omettono di dire) e rimodellare il processo civile e penale. Costruire autostrade percorse da pirati della strada che nessuno sanziona o da stantii calessi che nessuno sprona non è un buon modo di procedere e se la scelta deve cadere su un tecnico per questa casella è bene - certo - che abbia tutti i requisiti di capacità, di imparzialità, di neutralità che questo compito impone, ma è indispensabile che abbia anche una chiara visione politica dei problemi su campo, così restituendo alla politica un prestigio andato smarrito in anni di sterili polemiche e di ininterrotte sconfitte. “Snobbare la giustizia sarebbe assurdo: il tempo delle riforme è ora” di Errico Novi Il Dubbio, 14 ottobre 2022 “Sarebbe un delitto trascurare la giustizia. Sarebbe un delitto litigarci su. Ma se il nuovo o la nuova guardasigilli sarà scelto fra i nomi di cui si parla, sono certo che saremo in buone mani”. Bartolomeo Romano, ordinario di Diritto penale all’Università di Palermo e già consigliere laico al Csm, non si abbandona al pessimismo ma neppure trascura il rischio che la giustizia scivoli nelle retrovie dell’agenda politica. La destra è per la prima volta alla guida del governo, tra emergenze drammatiche: può esserci la tentazione di lasciare la giustizia in secondo piano? Sì, mi rendo conto dell’esistenza di un pericolo simile, in parte anticipato dalla scarsa attenzione riservata in campagna elettorale ai temi della giustizia da tutte le forze politiche. Eppure è impensabile che un dossier così importante venga ignorato: così si dimentica che un sistema giudiziario efficiente è essenziale proprio per uscire da situazioni di crisi come quella in cui ci troviamo. E poi, attenzione, non esiste solo la giustizia penale: lo dico da penalista. Prima di tutto ci si dovrebbe occupare del processo civile. Delle risorse di cui ha bisogno, dell’efficienza ancora tutta da realizzare. Farlo significa sciogliere un importante nodo del nostro sistema economico, rispondere ad aspettative pluridecennali degli investitori stranieri. Non c’è un governo che possa permettersi di trascurare la giustizia, nelle sue tante sfaccettature, pur tra tante drammatiche emergenze. Lo ha ricordato anche l’avvocatura al congresso forense di Lecce: occupatevi delle cause rinviate di anni, dei tribunali senza personale, e coinvolgete il Foro nell’organizzazione della macchina giudiziaria... Ecco, appunto: per anni la politica si è rivolta solo ai magistrati. È tempo che vengano coinvolti tutti gli attori del sistema giustizia. Registro un paradosso. La magistratura è composta da alcune migliaia di persone, gli avvocati sono decine e decine di migliaia. Dunque, bisogna cambiare approccio. Ascoltare tutti. Chiunque sarà ministro della Giustizia, dovrà aprire un grande tavolo di confronto con magistratura, avvocatura e accademia. E poi certo, dovrà avere il coraggio delle decisioni. Come si fa a tenere aperto il dialogo con la magistratura e nello stesso tempo realizzare la separazione delle carriere, sgradita alle toghe? Anche qui, scontiamo una visione un po’ falsata dell’ordine giudiziario. Che è composto in misura davvero minoritaria da pubblici ministeri: in maggioranza i magistrati sono giudici, e molti sono giudici civili. Certo, le rappresentanze associative della magistratura sono contrarie alla separazione delle carriere. Ma siamo sicuri che lo sia anche la base, la maggioranza dei giudici? Ecco cosa intendo quando dico che bisogna ascoltare tutti: non solo l’Anm, ma la magistratura in modo ampio e non superficiale. E ci si deve ricordare di un articolo della nostra Costituzione, il 111, che reclama chiaramente una netta distinzione fra il magistrato dell’accusa e il giudice terzo e imparziale. Nordio è stato spesso severo coi suoi colleghi: la sua nomina a guardasigilli può complicare il dialogo di cui lei parla? Che ne pensa degli altri candidati? Non credo proprio che Nordio possa essere un ostacolo al dialogo. Un conto sono le posizioni e il modo di rappresentarle quando si esercita una funzione di critica intellettuale, altro è assumere personalmente una responsabilità nelle istituzioni. Nordio conosce i problemi da vicino per averli vissuti. Come li conoscono Giulia Bongiorno e Francesco Paolo Sisto. Ed è impossibile, per me, sbilanciarmi in una preferenza. Con Nordio ho condiviso l’esperienza del referendum, sono stato il vicepresidente di un comitato per il sì guidato proprio da lui. Con Bongiorno ho condiviso la prima parte del percorso professionale di avvocato a Palermo. E poiché ho insegnato anche a Bari, e faccio parte delle Camere penali, mi sono trovato decine di volte a fianco di Sisto, che è sempre stato in prima linea nelle battaglie dell’Ucpi. Casellati è stata sottosegretaria alla Giustizia e poi al Csm, dove ci siamo passati il testimone: quando io ho concluso il mio quadriennio lei iniziava quello successivo. Dunque, per me è impossibile sbilanciarmi. Ma l’importante è che a via Arenula non vada chi, diversamente dalle figure appena evocate, consideri la Giustizia un incarico di passaggio verso altre ambizioni politiche. Sarebbe un grave errore. Il tempo delle riforme è ora. FdI, Lega e FI non sempre sono d’accordo: su carcere e legge Severino, per esempio, sono molto distanti... Si punti sulle cose che uniscono, assai più numerose di quelle che dividono. E per il resto, per le materie sulle quali si registrano distanze, servirà la pazienza nel costruire compromessi. Ma sarebbe un delitto far prevalere le divisioni, e non occuparsi della giustizia. Sarebbe un delitto dividersi sulle cose da fare. E le vittime sarebbero i cittadini. Non c’è un italiano che potrebbe negare i problemi del nostro sistema giustizia, anche in ambiti come il tributario o l’amministrativo. Non ci si fermi al microcosmo del penale, che attira l’attenzione ma non è l’unico tema. E poi ci si ricordi che all’esterno della maggioranza ci sono componenti, penso ad Azione e ad Enrico Costa, ben consapevoli di quali siano gli interventi necessari. E infine, ci si allontani dall’idea per cui le riforme debbano essere punitive per la magistratura. Non ci sono bersagli da colpire ma guasti della macchina a cui porre rimedio. Poi non tutti saranno contenti di tutte le riforme. Ma per la prima volta dopo anni c’è un governo con alle spalle un chiaro mandato degli elettori, e anche sulla giustizia non si può sprecare l’occasione di cambiare in meglio il Paese. Se chi fugge dal terremoto è colpevole della sua morte di Donatella Di Pietrantonio La Stampa, 14 ottobre 2022 Certi dolori non si addormentano mai, magari si assopiscono un momento, concedono brevi tregue, autorizzano la vita a procedere, come può, diminuita, amputata degli affetti più significativi. Per i genitori restare nati è a volte solo un modo per conservare la memoria dei figli. Quel lutto si impara a tenerlo sotto, per sé, a non esporlo al mondo che a lungo non lo sopporterebbe. Ma è uno stato di infiammazione cronica, latente, basta poco per esacerbarla di nuovo. Quello che è accaduto ai familiari dei morti di terremoto in via Campo di Fossa a L’Aquila, non è poco. Hanno appena ricevuto una sentenza vergognosa - quali ne siano le motivazioni - che trasforma le vittime in colpevoli. Colpevoli di essere rimasti a dormire la notte del 6 aprile 2009 in un palazzo di sei piani costruito male, anche se nessuno glielo aveva detto. Colpevoli di non essere scappati, dopo le scosse della serata, dopo mesi di sciame sismico ritenuto dalla Commissione Grandi Rischi non prodromico di un evento disastroso. Un’altra scandalosa sentenza aveva già assolto la Commissione stessa per i suoi inviti alla calma. Secondo il Tribunale Civile dell’Aquila quei ventiquattro morti sono colpevoli di essersi fidati delle autorità competenti, che ripetevano di stare in casa. Ce li ricordiamo gli esperti: il sisma stava esaurendo la sua energia in uno sciame infinito, non gli sarebbe bastata per la botta forte. Ce li ricordiamo, e non li perdoniamo. Dovevano dire che non avevano elementi per prevederla ma nemmeno per escluderla, questa è la verità scientifica. Fino al 31 marzo, sei giorni prima della scossa, si metteva nero su bianco lo “state tranquilli”. La sera stessa del 6 aprile, dopo due violente scosse, nessuno ha ordinato di evacuare le case. Più volte rassicurati, quei ragazzi - sì, molti erano ragazzi - sono rimasti dentro gli appartamenti, nella fredda notte aquilana. Per il Tribunale Civile dell’Aquila sono stati imprudenti, la loro condotta incauta. Sono responsabili della loro morte al trenta per cento. La restante parte se la dividono il costruttore, che risparmiò evidentemente sulla sicurezza dell’edificio al momento della costruzione - pagheranno per lui i suoi eredi - e due ministeri, per il comportamento omissivo di Genio Civile e Prefettura. Ai familiari la sentenza racconta di figli pigri, dormiglioni, che invece di mettersi in salvo hanno preferito, quella notte, restare al calduccio sotto le coperte. Immagino, non posso non immaginarlo, che esistano delle motivazioni tecniche che possano condurre a emettere una sentenza del genere. So anche che la giurisprudenza lascia ampi margini all’interpretazione. Allora chiedo: non era possibile usare diversamente gli strumenti disponibili per arrivare a un risultato compatibile con la verità a tutti nota, con la logica, con il buon senso e infine con l’umanità? Di questo accuso chi ha apposto la propria firma agli atti, di non aver fatto abbastanza per evitare una sentenza aberrante, che ferisce una volta di più i parenti delle vittime, ora non solo vittime ma anche colpevoli di essere morti. Li ferisce con una sottrazione del risarcimento proporzionale a quella colpa, ma ha una portata molto più ampia. Tocca nello stesso tempo una comunità intera che da anni cerca di ricostruirsi non solo nelle murature ma nella rete delle relazioni, nel tessuto sociale che pochi secondi avevano scompaginato. “La città non può guarire così”, ha detto ieri un’aquilana. Indagini chiuse per l’ex assessore-sceriffo di Voghera: “Sparò a Youns El Bossettaoui per difendersi” di Sandro De Riccardis La Repubblica, 14 ottobre 2022 L’esponente della Lega, che uccise con un colpo di pistola in piazza l’uomo di origine marocchina, è accusato eccesso colposo di legittima difesa. La Procura di Pavia ha chiuso le indagini, mantenendo l’accusa originaria di eccesso colposo di legittima difesa, per Massimo Adriatici, ex assessore alla Sicurezza del Comune di Voghera che la sera del 20 luglio 2021 uccise con un colpo di pistola in piazza il 39enne di origine marocchina Youns El Bossettaoui, di 39 anni. La notifica dell’atto, che prelude alla richiesta di processo, è stata confermata dal suo difensore, Gabriele Pipicelli. Si chiude dopo più di un anno l’indagine del pm Roberto Valli, che aveva portato ai domiciliari l’allora assessore leghista per un’imputazione di eccesso colposo in legittima difesa. “Valuteremo quali iniziative difensive intraprendere ritenuto che il nostro assistito abbia agito in un contesto di piena legittima difesa - ha commentato l’avvocato Pipicelli -. É chiaro che in ogni caso, in questa triste vicenda, il ruolo dell’avvocato Adriatici è stato quello dell’aggredito che si è difeso”. Una ricostruzione fin da subito contestata dai familiari della vittima e dai suoi legali, gli avvocati Debora Piazza e Marco Romagnoli, che avevano contestato diverse lacune nell’indagine, originariamente coordinata dal capo vicario della procura, Mario Venditti, prima della nomina del nuovo procuratore Fabio Napoleone. Ucciso in piazza a Voghera, le tante anomalie dell’indagine - Innanzitutto l’autopsia eseguita a meno di dodici dalla morte, senza che venissero informati i legali della vittima, domiciliata da anni presso lo stesso studio legale per diversi procedimenti penali legati a episodi di piccolo spaccio e disturbo della quiete pubblica. Vengono contestualmente ignorati i video delle telecamere della piazza, poi recuperati dai legali della parte offesa. Filmati che dimostrano come Adriatici e El Boussettaoui non si incontrano casualmente nella piazza pochi secondi prima che il politico leghista spari, ma che l’ex assessore pedina il ragazzo per circa dieci minuti. Con un preciso momento in cui i due si incrociano, nei pressi della chiesa di San Rocco, meno di duecento metri dal luogo della tragedia. Le stesse telecamere mostrano come Adriatici si muova liberamente all’interno della scena del crimine dopo aver sparato, mentre i carabinieri svolgono i rilievi. In più il leghista parla con un testimone cercando di influenzarne i ricordi. “Hai visto che ha fatto per darmi un calcio in testa? - chiede - . L’importante è quello, che hai visto che stava dandomi il calcio in testa”. Adriatici parla amichevolmente con le forze dell’ordine, usa liberamente il cellulare per telefonare e mandare sms, si saluta con agenti in borghese e va via sulla loro auto sedendosi accanto al posto di guida. Massimo Adriatici, l’ex sindaco leghista e le pallottole Winchester - Polemiche ci sono state per l’uso di proiettili Winchester calibro 22 Long Rifle, potenzialmente espansivi, cioè capaci di provocare gravi danni aprendosi nel corpo della persona colpita. Su questo e sulle traiettorie dello sparo in piazza la procura, con l’insediamento del nuovo procuratore Napoleone, aveva ordinato nuove perizie ai Ris. Un’altra anomalia riguarda la qualificazione dei fatti, poche ore dopo la tragedia, prima come eccesso di legittima difesa, valutazione poi corretta a penna sul verbale di conferimento di incarico dell’autopsia, con l’indicazione dell’articolo 575 dell’omicidio volontario. L’imputazione però scomparirà nella successiva richiesta di misura cautelare. Ucciso in piazza a Voghera, le conclusioni della procura sul caso Adriatici - Una linea che i pm non cambieranno più, fino alla chiusura indagini notificata oggi: per la procura, Adriatici si è difeso da una aggressione e ha cercato di difendersi con una reazione sproporzionata all’offesa ricevuta. L’accusa a suo carico è quella di eccesso colposo di legittima difesa. Per la procura, si legge nell’avviso di chiusura delle indagini, il leghista fu “aggredito” dal migrante e una “violenta manata al volto” ne determinò “l’improvvisa caduta a terra e la perdita degli occhiali che inforcava”. Fu quindi “costretto dalla necessità di difendersi dal pericolo attuale dell’offesa ingiusta provocata dall’aggressione in corso” da parte della vittima, la quale “si avvicinava ulteriormente chinando il busto verso di lui per colpirlo di nuovo”. Subito dopo esplose allora un colpo d’arma da fuoco che uccise l’immigrato. Una reazione non proporzionata al pericolo, quindi, ma per colpa e non intenzionale. Ucciso in piazza a Voghera, legale vittima: “colpo dall’alto, non da terra” - L’avvocato Marco Romagnoli, che assiste insieme a Debora Piazza la famiglia di Youns El Boussettaoui, “contesta radicalmente” le conclusioni della procura di Pavia. “L’autopsia ha stabilito che quel colpo è stato sparato dall’alto verso il basso - commenta il legale -, quindi vuol dire che l’assessore si era già rialzato e non era terra”. Romagnoli ricorda inoltre che il reagire con le armi “deve essere l’unica via possibile” per difendersi, mentre El Bossettaoui è stato ucciso “in una piazza, con intorno della gente che poteva intervenire”. E vi sono altri elementi che i legali dell’immigrato faranno valere “se vi sarà un processo”, dal momento che, con questa ipotesi di reato, l’ex assessore potrebbe anche patteggiare. La tenuità del fatto non può essere negata per abitualità asserita de plano in base a precedenti di polizia di Paola Rossi Il Sole 24 Ore, 14 ottobre 2022 Il rischio di reiterazione del furto non può essere derivato dallo stato di disoccupazione dell’imputato in sé considerato. Quando il danno arrecato con la commissione del reato è indiscutibilmente di tenue entità il giudice non può negare l’invocata causa di non punibilità ex articolo 131 bis del Codice penale, senza adeguatamente motivare sulla sussistenza di elementi ostativi al beneficio. Lo stesso apparato motivazionale deve sorreggere il diniego della richiesta di non menzione della condanna nel casellario giudiziale. Per tali carenze motivazionali la Corte di cassazione penale - con la sentenza n. 38589/2022 - ha annullato la decisione di condanna della ricorrente, che aveva rubato dagli scaffali di un supermercato della merce corrispondente a un valore complessivo di 53 euro. La tenuità del fatto - La Cassazione accoglie il ricorso che contestava il mancato riconoscimento della causa di non punibilità fondato sull’affermata abitualità della condotta, pur in presenza di un unico reato accertato. Infatti, senza dovutamente motivare, i giudici di merito avevano ritenuto la sussistenza della causa ostativa in base al semplice rilievo dei precedenti di polizia e del perdurante stato di disoccupazione della ricorrente. Veniva anche definita “grave” la condotta dell’imputata a cui invece era stata riconosciuta l’attenuante comune di avere arrecato un danno patrimoniale di speciale tenuità. E si affermava una tendenza al dolo del furto dicendo, che la donna aveva mostrato un’attitudine organizzativa ai fini della commissione del reato. Ma tutto senza un ragionamento motivazionale a sostegno di tali affermazioni. La sentenza si mostra incompleta dove in assenza del ricorrere dei presupposti che automaticamente escludono la tenuità del fatto ha incentrato il proprio diniego sulla riprovevole condotta e sulla tendenza a delinquere della donna senza offrire compiuta esposizione del proprio ragionamento. I presupposti da valutare nel riconoscimento o meno della causa di non punibilità sono di fatto: - in primis, la previsione per il reato di cui è processo di una pena detentiva non superiore nel massimo a cinque anni; - le modalità della condotta e l’esiguità del danno o del pericolo, che vanno valutate alla luce della gravità del reato e della capacità a delinquere; - la non abitualità della condotta, ossia la non sussistenza di altri due reati della stessa indole commessi dall’imputato. E, stando alla lettera dell’articolo 131 bis del Codice penale, l’offesa non può essere ritenuta di particolare tenuità anche nel caso in cui l’autore abbia agito per “motivi abietti o futili, o con crudeltà”. Il caso oggetto di rinvio - Nel caso la ricorrente era stata definita abitualmente dedita alla commissione di reati contro il patrimonio in base ai precedenti di polizia. Mentre, stando alla norma invocata dalla ricorrente, il comportamento è abituale - e ostativo al beneficio - se l’autore è stato dichiarato delinquente abituale, professionale o per tendenza o se ha commesso più reati della stessa indole, anche se ciascun fatto, isolatamente considerato, sia di particolare tenuità, nonché nel caso in cui si tratti di reati che abbiano a oggetto condotte plurime, abituali e reiterate. Quindi il giudice che voleva affermare l’ostatività dell’abitualità avrebbe dovuto motivare sul perché le annotazioni delle forze dell’ordine unite allo stato di disoccupazione ne costituivano fondamento. Danno di speciale tenuità - La tenuità del fatto quale causa di non punibilità non può essere negata per gravità della condotta in assenza di qualsiasi motivazione congrua soprattutto se - come nel caso di specie che riguardava un furto di 53 euro - sia stata riconosciuta all’imputato l’attenuante comune del danno di speciale tenuità come previsto dal n. 4 dell’articolo 62 del Codice penale. La non menzione - Anche sul diniego della richiesta di non menzione della condanna la Cassazione conferma il motivo di ricorso che rilevava la totale carenza di motivazione sul punto. Infatti, l’istituto della non menzione ha finalità emendative per il condannato di cui si ravvedano gli elementi di un pieno ravvedimento futuro. I giudici del rinvio dovranno ora fornire adeguata motivazione ai propri dinieghi su entrambi i benefici o ribaltare il proprio ragionamento e le conclusioni. Firenze. Detenuto di 29 anni muore suicida in carcere a Sollicciano Comunicato Sappe, 14 ottobre 2022 Un detenuto originario del Marocco di 29 anni ha deciso di togliersi la vita. Prima di impiccarsi, ha bloccato la serratura della cella con l’utilizzo di un pezzo di plastica. Proprio questo stratagemma non ha permesso l’intervento dei poliziotti penitenziari che potevano salvargli la vita. L’uomo era stato tradotto da pochi giorni dalla Casa Circondariale di Aosta per motivi di giustizia. Il 22 ottobre aveva il suo fine pena ma aveva un mandato di arresto europeo già deciso da eseguire dalla Corte di Appello. Restano ignote le motivazioni che hanno portato il detenuto a porre in essere il gesto estremo. In ogni caso, il dato certo è che la scelta di togliersi la vita è originata da uno stato psicologico di disagio. Oristano. Nuovo suicidio in un carcere sardo: è avvenuto a Massama cagliaripad.it, 14 ottobre 2022 Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” denuncia ancora una volta le condizioni drammatiche delle carceri isolane. “Apprendere che una persona privata della libertà si è tolta la vita nella Casa di Reclusione di Oristano-Massama non può passare sotto silenzio, non solo perché si aggiunge a un lungo drammatico elenco, ma perché è un ennesimo tragico monito alle Istituzioni”. Lo afferma Maria Grazia Caligaris dell’associazione “Socialismo Diritti Riforme” ricordando che “la condizione detentiva, implica sempre un profondo sentimento di solitudine che le istituzioni sono chiamate a colmare con iniziative adeguate, anche se la decisione di rinunciare a vivere è sempre una scelta insondabile e incomprensibile”. “In questi ultimi anni anche a causa della pandemia la realtà dell’esecuzione penale dentro gli Istituti Penitenziaria – osserva Caligaris – è stata cancellata. Le forti limitazioni all’accesso dei familiari, solo in parte colmate con i colloqui telefonici e/o con videochiamate e la difficoltà a incontrare i volontari hanno allontanato dall’immaginario collettivo un mondo, peraltro quasi sempre lontano dalla vita quotidiana delle Istituzioni. Gli unici argomenti di rilievo hanno riguardato il sovraffollamento, la carenza di personale o l’aumento dietro le sbarre di persone con gravi disturbi psichici o affette da diverse patologie. In realtà però agli allarmi non sono seguite iniziative in grado di incidere sulla qualità della vita dei detenuti e dei loro familiari”. “Esaurita la fase più critica della pandemia, le carceri – rileva ancora l’esponente di SDR – non sono state prese in considerazione nella loro problematicità che abbraccia l’intero sistema. L’iniziativa assunta dal Capo de Dipartimento di aumentare il numero delle telefonate dei detenuti, benché sia importante, non basta. Occorrono interventi e investimenti che restituiscano alla vita dentro le celle il ruolo che la Costituzione e l’Ordinamento gli assegna. La chiusura degli Ospedali Psichiatrici Giudiziari senza strutture alternative, non solo REMS ma almeno anche quelle, ha provocato una situazione di precari equilibri dentro le carceri che, con un personale sanitario non adeguato, sta riducendo la realtà penitenziaria a luogo di sofferenza. Non si può neppure dimenticare che dietro le sbarre ci sono molte persone con problematiche legate alla droga e alla malattia”. “Trascorrere le ore su una branda, elemosinando le gocce per dormire, non è utile a nessuno. L’abbandono e l’assenza di prospettive generano una condizione di rabbia repressa che si ripercuote sui familiari e spesso si arriva a gesti inconsulti con atti di autolesionismo estremi. E’ arrivato il momento che tutte le Istituzioni siano presenti con atti concreti e non lascino soli quelli che quotidianamente si trovano a gestire – conclude Caligaris – situazioni estreme che con il carcere non hanno niente a che fare. Non c’è più tempo occorre dare forti segnali. Da Oristano-Massama come da Cagliari-Uta, dove nei giorni scorsi si è registrata la morte di due detenuti, riecheggia un grido di aiuto”. Larino (Cb). Percorsi sportivi per i detenuti, l'iniziativa del Coni termolionline.it Il comitato Coni del Molise, nella persona del presidente Vincenzo D'Angelo ha offerto ai detenuti dei penitenziari molisani la possibilità di partecipare a percorsi sportivi da individuare in base alle richieste delle singole direzioni. Le attività avranno inizio nel prossimo mese di novembre, in fase sperimentale presso l'istituto di Larino. In data 14 corrente mese alle ore 10,00 il comitato Coni e le varie federazioni sportive che hanno aderito al progetto, saranno presenti presso l'Istituto penitenziario per presentare l'iniziativa ai detenuti, che potranno sperimentare concretamente le varie discipline. Ritenendo l'attività fisica fondamentale in un contesto come quello penitenziario, per le indubbie ricadute positive sul benessere fisico e psichico delle persone ristrette e per il valore educativo che ogni disciplina sportiva trasmette, si ringrazia il Comitato del Coni e le federazioni coinvolte per l'attenzione e la sensibilità dimostrata verso il mondo detentivo. Roma città deserta dove l’umanità sta dietro le sbarre di Francesca Spasiano Il Dubbio, 14 ottobre 2022 Per paradosso la prigione diventa un luogo più altruista e solidale del mondo libero. Nessuno si immagina in catene, dentro una gabbia. Siamo abituati a pensare la nostra libertà come una condizione irrinunciabile. Ma che succede se la gabbia diventa più accogliente del mondo di fuori? L’ultimo film di Paolo Virzì, Siccità, parla anche di questo. Tra le righe, marginalmente, ma col coraggio di guardare le cose da una prospettiva diversa. In questo caso il salto è doppio. Si tratta di prendere un paradigma emergenziale che ha avuto luogo realmente per applicarlo all’immaginario distopico di una catastrofe ambientale: irreale sì, ma terribilmente a portata di mano. Ed ecco il primo livello. Il secondo sta nel modo in cui leggere quell’emergenza. Roma Nord non racconterà la stessa storia di Roma Sud. E chi sta in carcere ha poco da raccontare: può stare solo a guardare. Soprattutto quando la capitale si prosciuga fino all’ultima goccia, e da Rebibbia l’apocalisse si guarda attraverso un minuscolo schermo. “Ma vuoi deciderti a fare questa benedetta richiesta per uscire di qui?”, chiede un attivista di Antigone. Dall’altra parte c’è un meraviglioso Silvio Orlando, nei panni del detenuto Antonio, che bofonchia qualcosa: “Ma se non ho neanche un tetto, dove vuoi che me ne vada?”. Le cose, poi, vanno a modo loro. Ma resta bene impressa un’immagine: una cella affollata di uomini alle prese con un’invasione di blatte, nuova piaga che infesta l’intera città, mentre uno scienziato spiega come risparmiare un po’ d’acqua in diretta tv. Quegli uomini ridono, che l’acqua non ce l’hanno mai avuta, mentre fuori si piange. Quegli uomini vogliono bene al Silvio Orlando del carcere, e lui se ne sta compiaciuto, nel suo universo di gabbia, perché fuori le mura della sua cella non sa immaginarsi. Dentro è utile, fuori uno scarto. Dentro ha un lavoro e da mangiare, fuori chissà. Allora torna in mente quella storia di un uomo che bussa in piena notte alle porte del carcere implorando le guardie di farlo rientrare. Una storia di tante, dentro un sistema che non prospetta un futuro oltre le sbarre, un modo per rimettere piede tra gli altri. Se poi si guarda chi sono questi altri, nel film di Virzì, di gabbie ne vediamo di più. C’è la parabola del virologo star, che nel caso è un idrologo. Di quelli che io “ve l’avevo detto”. E i giornalisti pendono dalle sue labbra perché non sanno che pesci prendere. C’è il morbo inspiegabile, un’epidemia tropicale, che avanza vestita da febbre. C’è il medico che ha un’intuizione, però mancano i mezzi. C’è il Tevere come ognuno l’ha sognato almeno una volta, essiccato, con un antico tesoro che riemerge dal fondo. C’è il politico, il tassista, quello che ne approfitta. C’è chi non ci crede. C’è l’imprenditore fallito che fa la guerra dei poveri con un migrante. C’è la cruda realtà, un’umanità dolente e sonnolente, declinata in una lista lunghissima. Di fronte all’assurdo, nel contenitore di una commedia all’italiana. Certo non torna tutto, nel film di Virzì. Qualcosa è gratuito, qualcosa manca. Ma noi ce ne stiamo davanti allo schermo con la gola riarsa, come se in quello schermo ci fossimo entrati. Un po’ perché quell’emergenza l’abbiamo vissuta, e capiamo che lo schema è destinato a ripetersi all’infinito. Un po’ perché quello schema racconta tutto di noi. Un dramma collettivo non ci fa diventare migliori non è una livella - ci fa solo navigare nello stesso mare. L’uno a nuoto, l’altro con la scialuppa. Ecco, se domani ci fosse la siccità, in una parte di Roma avremmo le fontane, nell’altra un camion d’acqua e delle buste di plastica. Anche se il Tevere ora è un deserto per tutti. # Romacelafarà, si legge sui muri: ché uno slogan può essere una gabbia crudele, ma sembra accogliente. Il documentario “Second Chance” racconta storie di riscatto di Francesco Gironi Gente, 14 ottobre 2022 Second Chance, realizzato dall’attrice Cristiana Capotondi e dalla regista Erika Brenna, mostra le vicende di detenuti, senzatetto e rifugiati che hanno saputo riprendere in mano le loro vite. Ci sono storie che vanno raccontate, poiché sono la migliore dimostrazione di come i luoghi comuni sembrano esistere per il solo scopo di essere smentiti. Perché non è vero che una persona che dorme sulla panchina non può tornare a vivere in un appartamento, ad avere un lavoro. Certo, esistono casi più difficili di altri: per esempio, riuscire a eliminare ogni pregiudizio di fronte a un uomo che ha assassinato un’altra persona non è così facile. Eppure si può fare e le testimonianze non mancano. “Hanno tutte un minimo comun denominatore: l’importanza di trovare una persona in grado di darti una scossa”. Lo dice a Gente la regista e produttrice Erika Brenna, che insieme all’attrice Cristiana Capotondi ha firmato il documentario Second Chance (seconda possibilità), disponibile sulla piattaforma Discovery+ dal 19 ottobre. Gente lo ha visto in anteprima, scoprendo le storie di alcuni che quelle seconde possibilità le hanno avute e, soprattutto, le hanno sapute sfruttare al meglio. Iniziamo da Luca Cerubini, 47 anni. “Sono un detenuto. Sto scontando la pena all’ergastolo. Reato, omicidio. Fine pena: mai”. Ma non è di quanto accaduto il 23 giugno 2011 che parliamo con lui, ma di quanto avviene da un anno a questa parte, da quando cioè ogni mattina lascia il carcere di Bollate per raggiungere una parrocchia dall’altra parte di Milano. “È il mio ufficio”, dice. Qui, infatti, lavora all’assistenza e alla manutenzione di reti informatiche. Non era il suo mestiere: prima faceva il carabiniere. Luca fa parte dei 1.500 detenuti che negli ultimi vent’anni hanno frequentato una delle Cisco Networking Academy, aperte in sette carceri italiane: corsi di specializzazione in tecnologie digitali che la multinazionale statunitense delle infrastrutture e dei servizi di reti informatiche tiene in tutto il mondo (350 solo in Italia, secondo Paese per numero di corsi dopo gli Usa). “Da molti anni ci impegniamo per una crescita economico-sociale più sostenibile e più inclusiva”, spiega a Gente Gianmatteo Manghi, amministratore delegato di Cisco Italia. “Aprire queste scuole anche nelle carceri ci sembrava la cosa giusta da fare pensando a una giustizia recuperativa”. E i numeri danno ragione a questa scelta: non solo, una volta scontata la pena, chi ottiene la certificazione trova un ottimo lavoro, ma la recidiva, la reiterazione del reato, è pari a zero. Lo studio di una nuova professione diventa quindi una seconda possibilità. Perché il riscatto è possibile. “È la cosa che mi ha colpito di più: vedere questi detenuti rianimarsi nel momento in cui sanno che devono recarsi a lezione”, conferma Brenna. Serve volontà e anche coscienza di quanto sta accadendo. Luca sa cosa ha fatto (“Sono detenuto per giusta causa”, precisa), ma dice di avere “il desiderio di dimostrare che, dopo l’errore gravissimo commesso, ho ancora qualcosa da dare, per la mia dignità”. C’è poi l’incontro. Quello di Luca è con Lorenzo Lento, 63 anni, che dice: “Mi occupo di formazione da sempre”. È lui che gestisce il progetto Cisco Networking Academy nel carcere di Bollate e nel resto d’Italia. A Gente racconta dei suoi ex allievi: chi impegnato in una grande multinazionale all’estero, chi in un policlinico, chi in una società di intermediazione finanziaria... “Uno di loro aveva la terza media e mi diceva che i computer non sapeva neppure accenderli, li aveva sempre solo rubati”. Lento è convinto che “il 99 per cento di chi è in carcere possa essere rieducato e la prova è nel fatto che non è mai difficile reclutare nuovi allievi”. La rieducazione passa attraverso l’impegno a imparare una nuova professione e il rispetto delle regole “perché ciascuno di loro deve sempre essere disponibile ad aiutare un altro, vincendo anche quelle che sono le regole non scritte di un carcere, dove pure i delitti hanno una loro gerarchia”. E Lento come ha vinto i pregiudizi, avendo di fronte anche il colpevole del più efferato delitto? “Mi sono imposto di non andare a controllare quale sia la sua colpa”. Ma le seconde possibilità sono anche quelle di chi improvvisamente si trova “per terra”, come racconta Renato, che con il lockdown a causa della pandemia si è trovato senza mezzi di sostentamento. Viveva con la madre, “poi un giorno ho preso qualche vestito e me ne sono andato, la mia casa è diventata una panchina”, racconta a Capotondi. “Non avevo più la forza di reagire, ero disperato e non è una parola, ma uno stato d’animo”. Renato ha incontrato la Comunità di Sant’Egidio e il progetto Housing First, la casa prima. “Un giorno ricevetti una chiamata dalla Comunità: “Vuoi passare la tua vita su una panchina o vorresti una casa e un lavoro?”“. Si è cominciato con una casa “poi i nostri corsi danno la possibilità di trovare un lavoro stabile, riprendere una vita normale e lasciare il posto a un’altra persona”, dice ancora Manghi. Che ricorda sempre la frase di Victor Hugo citata proprio da un detenuto di Bollate: “Chi apre le porte di una scuola, chiude quelle di una prigione”. Liliana Segre e la democrazia mite di Corrado Augias La Repubblica, 14 ottobre 2022 Il discorso della senatrice per l’inaugurazione della legislatura tra i suoi ricordi e la condanna del fascismo che sopravvive come luogo culturale. “In questo mese di ottobre nel quale cade il centenario della Marcia su Roma, che dette inizio alla dittatura fascista, tocca proprio ad una come me assumere momentaneamente la presidenza di questo tempio della democrazia che è il Senato della Repubblica”. Così la senatrice a vita Liliana Segre nel discorso che ha aperto la XIX legislatura repubblicana. Un discorso di antifascismo mite, nel quale ha inserito una toccante memoria personale, efficace anche narrativamente: la piccola ebrea scacciata allora dal suo banco a scuola, accolta oggi dagli applausi sul banco più prestigioso del Senato. Mite anche nell’invito a una dialettica politica senza violenza, senza ingiurie. Applausi forti, anche se non unanimi; quando i richiami ad un passato disonorevole sono stati diretti, si sono visti senatori dell’estrema destra applaudire fiaccamente o restare addirittura seduti e fermi. Ci sono modi più dignitosi di manifestare dissenso. Sul fascismo storico, quello che ebbe ufficialmente inizio nel 1919 a Milano (piazza Sansepolcro) con la fondazione dei fasci di combattimento, o nel 1922 a Roma con la famigerata Marcia, circola una vulgata di destra che lo disegna come un’ideologia in fondo benevola che solo alcune dure circostanze sospingeranno, anni più tardi, verso l’infamia delle leggi razziste e la criminale decisione di entrare in guerra a fianco della Germania di Hitler. Sembra più vicina alla vera storia la tesi opposta, quella che descrive un fascismo violento fin dalla nascita, un movimento che uccide o toglie comunque di mezzo i suoi avversari. Don Giovanni Minzoni ucciso a randellate su diretto mandato di Italo Balbo; Giovanni Amendola aggredito e percosso; i due fratelli Rosselli, Carlo e Nello, assassinati in Francia; Antonio Gramsci rinchiuso in una galera e liberato solo alla vigilia della morte. “Bisogna impedire a quel cervello di funzionare per almeno vent’anni”, aveva gridato il pubblico accusatore durante il suo processo, maggio 1928. Non ci riuscì; anche in carcere quel cervello continuò invece a funzionare consegnando alle generazioni a venire una serie di Quaderni oggetto ancora oggi di studio. Piero Gobetti, genio precoce di saggista ed editore, morto a Parigi a 26 anni a seguito delle botte avute dai fascisti torinesi. Una delle più brillanti intelligenze della sua generazione, miope e di fragile costituzione; non ci volle una gran fatica per ucciderlo. Era solo mentre in tre si accanivano su di lui. Fin da quando militava come estremista socialista, Mussolini non aveva mai nascosto il suo disprezzo per la borghesia, tanto più se “illuminata”. Definiva il liberalismo democratico “una categoria morale, uno stato d’animo”. Nel marzo 1923 aveva scritto su Gerarchia: “Gli uomini sono forse stanchi di libertà. Ne hanno fatto un’orgia. Per le giovinezze intrepide, inquiete ed aspre che si affacciarono al crepuscolo mattinale della nuova storia, ci sono altre parole che esercitano un fascino molto maggiore, sono: ordine, gerarchia disciplina”. Al centro del suo discorso, Liliana Segre ha posto la Costituzione, citandola più volte, legandola anche alla memoria di Giacomo Matteotti, il deputato socialista assassinato nel 1924 per ordine di Mussolini. Richiamando Piero Calamandrei, Segre ha ricordato che la Costituzione: “Non è un pezzo di carta, ma il testamento di centomila morti caduti nella lunga lotta per la libertà; una lotta che non inizia nel settembre del 1943 ma che vede idealmente come capofila Giacomo Matteotti”. Non viene ricordato spesso Matteotti, anche il piccolo monumento a lui dedicato sul Lungotevere (nel luogo in cui venne rapito dai suoi assassini), appare trascurato, asfissiato dal traffico. Bene ha fatto Liliana Segre a richiamare un uomo che Mussolini non solo volle morto ma della cui uccisione, con spavalda aggressività, si attribuì bell’aula di Montecitorio la responsabilità: “Se il fascismo è stato un’associazione a delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere”. Durante la breve e concitata campagna elettorale appena finita, c’è chi ha disapprovato il richiamo all’antifascismo e alla Resistenza, qualcuno lo ha considerato inopportuno in un momento attraversato da immense tragedie e urgenti necessità. Si dimentica così che il fascismo non richiama solo un regime politico, incarna una cultura, un modo di concepire i rapporti tra gli individui e i sessi, l’organizzazione d’una collettività, la gestione del dissenso. Nel suo saggio La nazionalizzazione delle masse, lo storico Georg L. Mosse scrive proprio questo quando vede l’attualità del fascismo non come una realtà di regime che può ripetersi ma come una macchina politica ancora in grado di generare opinioni, convinzioni, comportamenti. In questo senso il passato non è mai definitivamente alle spalle. Il fascismo-regime è morto nel 1945, sopravvive però come luogo culturale. Possiamo anche considerarlo una latente “autobiografia della nazione” - come lo definiva Piero Gobetti. Ambasciata russa, in 400 contro l’invasione di Putin di Giansandro Merli Il Manifesto, 14 ottobre 2022 Guerra. In piazza anche Letta e diversi parlamentari. La pace? Il ritiro completo di Mosca. Circa 400 persone hanno manifestato ieri a Roma, nei pressi dell’ambasciata russa. In un angolo di fronte alla Biblioteca nazionale diverse bandiere ucraine, alcune bielorusse, tre dell’Unione europea e una della pace. Il presidio è stato convocato dopo i bombardamenti ordinati da Putin il 10 ottobre scorso, contro città e civili, da tre associazioni: Mean (Movimento europeo azione non violenta), Base Italia (dell’ex sindacalista Cisl Marco Bentivogli) e Liberi Oltre. L’iniziativa ha ricevuto molta attenzione per l’adesione del Partito democratico. Martedì varie testate, tra giornali e siti internet, hanno scritto che sarebbe stata il momento del “sorpasso pacifista” del Pd sui 5S utilizzando nel titolo la stessa espressione: Letta “brucia” Conte. Tra i manifestanti molti parlamentari di Pd e +Europa, qualcuno di Azione. Il segretario dem arriva insieme a Laura Boldrini, scansa come può le domande su quanto avvenuto poche ore prima al Senato dove è stato eletto presidente Ignazio La Russa e ripete come un mantra che il suo partito sarà “in tutte le piazze pacifiste in cui non ci sia equidistanza tra aggredito e aggressore”. “Veniamo senza metterci il cappello”, aggiunge. Per Letta è il secondo presidio di una giornata impegnativa: poco prima è stato all’ambasciata iraniana contro la repressione dei manifestanti da parte del regime di Teheran. Dal microfono intervengono soprattutto donne. Ucraina la prima, russa la seconda, bielorussa la terza. Raccontano gli orrori della guerra, il dolore continuo, la morte di persone conosciute, il disprezzo verso il presidente della Federazione russa Putin responsabile del massacro. Vista da qui la pace ha una forma chiara, senza smussature: liberazione completa di tutti i territori occupati dalle truppe russe. Dove “tutti” indica anche la Crimea, annessa nel 2014. Una questione che per Putin potrebbe rappresentare una sorta di linea rossa e su cui gli statunitensi, come trapelato nei giorni scorsi, non hanno una posizione netta. “Siamo venuti all’ambasciata russa a dire: ritiratevi dall’Ucraina. Solo così ci sarà la pace”, afferma Lia Quartapelle, tra le esponenti Pd più atlantiste. Luigi Manconi, ex senatore dem, sostiene che l’ostacolo alle trattative è Putin e che l’escalation è il prodotto dell’imperialismo russo. Emma Bonino, ex parlamentare di +Europa non rieletta, promette che il capo del Cremlino finirà davanti alla corte penale internazionale dell’Aia. Di tono un po’ diverso l’intervento di Angelo Bonelli, segretario dei Verdi, il quale chiede “una forte iniziativa diplomatica che coinvolga Cina, India, Usa ed Europa per portare Putin al cessate il fuoco”. Secondo Angelo Moretti, fondatore del Mean, per parlare di pace è necessario andare a Kiev e costruire relazioni con gli ucraini che stanno soffrendo la guerra sulla propria pelle. “Sappiamo che c’è un rischio di escalation nucleare - afferma - ma non possiamo pensare che questo conflitto riguardi solo qualcun altro”. In piazza non ci sono le tante organizzazioni che hanno costituito il cartello “Europe for peace” e che, oltre a numerose carovane solidali in Ucraina, hanno organizzato la manifestazione nazionale del prossimo 5 novembre a Roma. Che qualcuno ha impropriamente provato a ribattezzare “la mobilitazione di Conte”. “Il presidio all’ambasciata russa è rispettabile. Ma noi abbiamo condannato l’aggressione di Putin già il 24 febbraio. Adesso siamo in una fase politica diversa e stiamo lavorando alla proposta di una conferenza internazionale di pace”, afferma Mao Valpiana, presidente del Movimento Nonviolento recentemente tornato da Kiev. Secondo Valpiana i pacifisti devono stare molto attenti a non farsi strumentalizzare dalle forze politiche. Come Azione, che ha fatto campagna elettorale sull’aumento delle spese militari, o il Pd, che non si è mai opposto all’export militare. L’orologio di Hiroshima fermo alle 8.15 del 6 agosto 1945 è anche il nostro di Barbara Stefanelli Corriere della Sera, 14 ottobre 2022 Le frasi di Putin evocano il rischio atomico. Si infrange il tabù dei tabù? Il pericolo delle amnesie della storia e quel quadrante che rimane un monito. Possiamo farne una bussola contro ogni amnesia. I sopravvissuti di Hiroshima e Nagasaki ricordano un lampo, un flash, bianco, azzurrognolo, a circa 600 metri dal suolo. Pochi hanno memoria di un boato, tutti condividono la sensazione di galleggiamento nel vuoto e nel silenzio, parlano del collasso istantaneo delle strutture. Chi ha avuto il tempo, e la volontà, di dire di più ha ricostruito una sequenza di visioni filtrate dall’accecamento. Visioni da cui scaturiscono orrore e incredulità assieme, la seconda forse più pericolosa perché vorrebbe seppellire le testimonianze di una storia che resta in fondo indicibile. E - da questa parte del mondo - inascoltabile. Le ustioni, le facce e le braccia bucate dai vetri, i sintomi che si manifestavano dopo ore o giorni. Vomito, diarrea, la pelle a macchie come manto accartocciato di leopardo. E, dopo anni, ecco l’epidemia di malattie del sangue e agli occhi, a causa delle radiazioni emanate dalla pioggia oscura che si era poi abbattuta sulla terra e sulle persone. “Un mondo dove nero è il colore e nessuno il numero” avrebbe cantato Bob Dylan in A Hard Rain’s A-Gonna Fall, come ha scritto Paolo Lepri sul Corriere. Era il 1945, 77 anni e due mesi fa. E noi - che abbiamo lentamente elaborato la notizia di un conflitto in corso in Europa e quasi eravamo riusciti a liberarcene, sospingendola in un angolo della testa e dei tg - ci siamo ritrovati davanti a una nuova porta spalancata sullo spavento: un passato smaterializzato si è d’un tratto riattivato e riconnesso a un possibile futuro prossimo. Davvero Vladimir Putin potrebbe tentare di rovesciare le sorti di un’Operazione per nulla speciale con lo sganciamento sull’Ucraina di “ordigni tattici nucleari a basso potenziale”? Sono questi “i mezzi a disposizione” ai quali potrebbe ricorrere per difendere l’”integrità territoriale” della Russia secondo le mappe ridisegnate al Cremlino? Di questo discutono osservatori, politici, generali: come non fosse più il tabù dei tabù. In briciole decenni di trattative pro disarmo monitorate dall’Agenzia internazionale per l’energia; prosciugati fiumi di pagine e pellicole apocalittiche che, dose dopo dose, avrebbero dovuto vaccinarci tutti e per l’eternità contro la Bomba. Anche la risposta del segretario Nato, Jens Stoltenberg, appare inquietante: “Qualsiasi uso di armi nucleari avrà conseguenze serie per Mosca”. Non una strategia occhio per occhio, atomica per atomica, ok. Ma se l’Alleanza evoca un piano - l’eventuale distruzione degli armamenti convenzionali russi, direttamente o attraverso le forze ucraine, partendo dalla Crimea - vuol dire che il recinto della “deterrenza” novecentesca è diventato scalabile? Dopo aver invaso un Paese autonomo e democratico, Putin si è messo ad agitare lo spettro atomico lungo i confini con l’Europa. Un uomo solo sta ancora cercando di forzare le lancette della Storia, attratto come una stolida falena dal bagliore mitico di un onore antico e colossale, sfregiato dai nemici (lo spiega lo storico Orlando Figes nell’intervista con Chiara Mariani sul numero di 7 in edicola il 14 ottobre). Quando in un altro ottobre, quello del 1962, Kennedy e Kruscev attraversarono la crisi dei missili di Cuba, costeggiando e infine evitando la catastrofe, avevano un ricordo diretto della Seconda guerra mondiale. Ora tutto sembra pericolosamente lontano, come fosse lost in translation tra i secoli e i popoli. Dovremmo invece tornare a misurare il nostro tempo sul quadrante dell’orologio che a Hiroshima si bloccò alle 8.15 del 6 agosto ‘45 ed è custodito nel Memoriale per la pace. Possiamo farne una bussola contro ogni amnesia. Migranti, abbiamo perso tutti. Siamo stati sconfitti, ma non ora, non oggi, non da Meloni di Roberto Saviano Corriere della Sera, 14 ottobre 2022 Queste righe le scrivo di getto dopo aver letto Domenico Quirico esprimere sulla Stampa un concetto agghiacciante e veritiero: “Chi ha cercato di raccontare con onestà i migranti vede il fumo degli articoli e dei libri bruciati salire al cielo; chi, eroica minoranza, ha cercato di restar fedele all’umile motto aiuta chi ha bisogno, ha allestito i corridoi umanitari, non ha fatto dei migranti pretesto, burocrazia o peggio buon affare, deve riconoscere che è stato battuto”. Tutto vero. In quel doveroso dibattito che deve esserci tra testate e giornalisti, scrittori e intellettuali, gli rispondo così: ci abbiamo provato, continueremo a farlo. Siamo stati sconfitti, ma non ora, non oggi. Non da Meloni. Conosco una maestra napoletana che osa dire ai suoi alunni che il mare non sta lì per dividere ma per unire popoli e culture, che il mare non è separazione, ma un mezzo che rende tutti più vicini. Dirlo è senza dubbio un atto politico, aggiungerei un atto politico rivoluzionario, ma non da oggi, non solo nell’era di Meloni. E osa dirlo solo chi sa che esiste - perché la vede nel quotidiano e ci ha a che fare - una parte di umanità che non ha niente, non ha prospettive, non ha futuro, parla la nostra stessa lingua e ha la pelle dello stesso colore della nostra. E osa solo chi sa che una strada può essere quel mare, una semplice strada. Una strada che separa il centro dalla periferia, un quartiere dall’altro, una scuola dall’altra. Oggi in Europa affermano che l’Italia ha il primo governo di destra dalla caduta del fascismo. Non è vero! Il primo governo Conte è stato un governo di destra, di destra estrema; è stato un governo xenofobo, un governo che ha totalmente cambiato in (molto) peggio le leggi sull’immigrazione e l’accoglienza. Un governo che ha criminalizzato gli immigrati che vivono e lavorano in Italia da decenni, peggiorando le loro condizioni di vita nel quotidiano. Ma tutto era cominciato prima, in un clima di campagna elettorale da caccia alle streghe: dai “taxi del mare” ai proclami continui a reti unificate dove gli immigrati sono stati definiti in ordine sparso stupratori, delinquenti, spacciatori, ladri, usurpatori di posti di lavoro e di alloggi. Sottoposta a questo lavaggio del cervello senza soluzione di continuità, la comunità si incattivisce, inizia a ragionare in termini di me contro te, noi contro voi, tutti contro tutti. Eppure quel governo, che hanno chiamato gialloverde nella speranza forse di renderlo più simpatico o più prosaicamente per definirlo con parsimonia di parole, non spaventava l’Europa perché sull’accoglienza l’Europa è salviniana, sulla gestione dei flussi migratori l’Europa è meloniana. E quindi oggi l’Europa ci dice che l’Italia sta a destra ed è preoccupata, ma in mare sono morti migliaia di migranti nel silenzio totale e tombale di chiunque avrebbe non solo il dovere di parlare, di urlare e denunciare, ma soprattutto di agire, creare corridoi umanitari, accogliere e integrare, sensibilizzare, finanziare progetti e verificare che i fondi siano utilizzati nel modo più appropriato. Il Terzo mondo muore di fame perché il Primo mondo (il nostro, per essere proprio chiari) storicamente lo depreda, e gli sbatte anche le porte in faccia, e dice in maniera paracula che la soluzione è aiutarli a casa loro. Per denunciare tutto questo mi sono preso una querela su carta intestata del Viminale dall’allora ministro dell’Interno Matteo Salvini (dal governo gialloverde non si levò alcuna voce contraria) e una querela dalla futura prima ministra. Ma la vittima qui non sono io, le vere vittime siete voi, voi che avete dimenticato tutto, che fate confusione tra destra e sinistra, che li considerate concetti fluidi o ne decretate la morte, a seconda della convenienza e del momento; voi che utilizzate queste categorie per spiegare ciò che vi piace e ciò che vi dispiace, che magari vagheggiate una sinistra che non esiste più e che quando esisteva aveva tante anime, molte delle quali sicuramente non vi sarebbero, a torto o a ragione, nemmeno piaciute. Voi che odiate una destra che a sua volta non è possibile valutare con fare manicheo. È la divisione tra noi e loro che non va bene, che non è funzionale, eppure non riusciamo a uscire da un dualismo che ci rende stupidi, e deboli. Nella foto (ndr. foto Ap/Francisco Seco) che ho deciso di mostrarvi questa settimana vedete migranti in balia delle onde. Ci sono loro, certo. Ma anche noi, e la nostra vile assenza. Migranti. Bracciante sudanese morì nei campi sotto il sole. “Fu trattato da schiavo” di Claudio Tadicini Corriere del Mezzogiorno, 14 ottobre 2022 Il malore che accusò mentre raccoglieva pomodori nei campi di Nardò, sotto un sole cocente ed una temperatura che sfiorava i 40°, non gli lasciò scampo. Mohammed Abdullah era un bracciante stagionale. Era del Sudan, sposato e padre di due figli. Uno dei tanti lavoratori extracomunitari che, per 50 euro, si spezzavano la schiena anche per dodici ore al giorno. Spesso in nero, senza sosta né riposo. A volte pure senza acqua per dissetarsi. Accusa e parti civili, in aula, hanno ricostruito la vicenda usando espressioni come “schiavitù moderna” e “mortificazione della persona umana”. Per la sua morte, avvenuta nel primo pomeriggio del 20 luglio 2015, il pubblico ministero leccese Francesca Miglietta ha invocato complessivi 23 anni di carcere, equamente divisi tra Giuseppe Mariano, 83 anni, di Porto Cesareo, marito della titolare dell’azienda agricola nella quale lavorava la vittima, ed il quarantaduenne sudanese Mohamed Elsalih, ritenuto un mediatore per gli arrivi in Salento dei braccianti. Riduzione in schiavitù ed omicidio colposo i reati di cui sono accusati: per il primo, la pm ha chiesto alla Corte d’Assise di Lecce di condannare ciascun imputato alla pena di 9 anni; per il secondo, invece, sono stati chiesti per entrambi 2 anni e 6 mesi. Nella sua requisitoria, il magistrato inquirente ha ricostruito i fatti, accusando i due imputati di avere costretto i braccianti a lavorare in condizioni di assoluto sfruttamento e soggezione. Ed anche senza alcuna valutazione medica sul loro stato di salute, che - ad esempio - avrebbe potuto salvare la vita allo sfortunato sudanese, risultato affetto da una polmonite virale che, a causa delle alte temperature e dello sforzo fisico compiuto sotto al sole, avrebbe contribuito a determinare il tragico epilogo. Mariano e Elsalih, inizialmente, erano accusati di “caporalato” (ossia di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro), ma i dubbi di competenza sollevati dal giudice monocratico portarono l’allora pubblico ministero Paola Guglielmi a formulare un nuovo capo d’imputazione, secondo cui i due avrebbero “ridotto e mantenuto numerosi cittadini extracomunitari, di nazionalità prevalentemente sudanese, in stato di soggezione continuativa, condizione analoga alla schiavitù, costringendoli a prestazioni lavorative nei campi in condizioni di assoluto sfruttamento”. E così il processo fu trasferito ai colleghi della Corte d’Assise. Oltre ai familiari della vittima, che hanno chiesto un risarcimento di 1,5 milioni di euro, si sono costituiti parte civile Cgil, Cidu (centro internazionale dei diritti umani) e poi “Mutti” e “Conserva Italia”, le due aziende alle quali erano destinati i pomodori raccolti dai lavoratori stagionali. Le arringhe difensive e la sentenza sono previste per il prossimo 10 novembre. La morte di tutte le vittime dello sfruttamento e dello stesso Mohammed Abdullah sono ricordate con una targa a lui intitolata, inaugurata ad ottobre 2016 presso la Masseria Boncuri, a Nardò, divenuta negli anni simbolo delle battaglie per i diritti sindacali e per la dignità del lavoro dei braccianti stranieri stagionali. Il velo e la libertà di non portarlo di Karima Moual La Stampa, 14 ottobre 2022 Ancora una volta il velo portato da alcune donne musulmane. Ancora una volta la Corte di giustizia Europea che si trova ad esprimersi a riguardo sull’ennesima contesa tra una lavoratrice velata e un’impresa privata che cerca di far valere il proprio regolamento interno su come presentarsi al lavoro. La cornice questa volta è il Belgio, paese con una numerosa popolazione di fede islamica, che rispetto ad altre si porta dietro usi e costumi conservatori e ben visibili, come appunto il hijab. È proprio qui infatti che nel 2018, una donna musulmana si è vista rifiutare il lavoro in un’azienda, perché durante il colloquio ha espresso la sua opposizione a togliersi il velo in ambiente di lavoro per conformarsi alla politica di neutralità dell’impresa. Un’esclusione che evidentemente non le è andata giù, considerata discriminatoria e dunque avanti con la causa. Oggi però arriva la sentenza della corte di Giustizia europea che chiarisce ancora una volta, come la regola interna di un’impresa che vieta di indossare in modo visibile segni religiosi, filosofici o spirituali non costituisce una discriminazione diretta se applicata in maniera generale e indiscriminata. Vietare a una donna di fede islamica di indossare il velo sul luogo di lavoro non è discriminazione. A patto che il divieto sia generalizzato e non rivolto a una singola religione. Immagino quindi anche ad una persona di fede ebraica con la Kippah. O il turbante per i Sikh. Questa sentenza non è certo la prima che rimarca la difesa di quelli che sono gli spazi di neutralità, libertà e rispetto del credo. L’ultimo caso ha riguardato solo l’anno scorso due donne musulmane in Germania, sospese rispettivamente da un asilo nido e da una catena di negozi, perché si rifiutavano di togliersi il velo in ambiente di lavoro. Tralasciamo l’aspetto folkloristico, modaiolo, di accessorio utile per influencer, l’ultima evoluzione riuscita a politicizzarlo, svestirlo della sua storia pesante e scomoda pur di farlo resistere ed esistere anche tra le più giovani in nome di una identità metafisica. Chi conosce da vicino quanto sia complesso il dibattito sul velo, e la battaglia su quello che è ormai diventato un vessillo sul quale si consuma una più seria e violenta battaglia sul corpo delle donne, la loro libertà e i loro spazi di azione (e quanto sta accadendo in Iran è lì a ricordarcelo) deve segnalare che anche grazie a queste sentenze la cornice Europea, laica e democratica, può essere il laboratorio giusto per fare chiarezza. Lo spazio delle libertà non significa non poter delineare i limiti che possano garantire pluralismo o rompere tabù che nei paesi musulmani sono inavvicinabili. In Europa vi è libertà religiosa e difesa dei suoi simboli, ma è anche il luogo dove - per quanto riguarda la questione islamica- si potrebbero aprire fronti importanti sui diritti, ed uno su tutti quello sulle donne, considerato che nel Vecchio Continente vi è una presenza di 25 milioni di musulmani. Molte donne in Europa indossano il velo, ragazze di seconda generazione ed europee convertite all’Islam. E lo difendono con i denti in nome della libera scelta: devono ricordare che possono permetterselo perché si trovano in un contesto dove la parola “libertà”, come “ individuo”, ha una sua sacralità. Non a caso dal Belgio alla Germania, donne con il velo si rivolgono alla giustizia in difesa del loro velo, anche in ambienti dove ha la precedenza il concetto di neutralità. E si arriva a fare chiarezza. Ben altra cosa è quello che avviene in molti paesi musulmani come l’Iran, l’Arabia Saudita, l’Afghanistan, e via sfumando, dove la famosa “scelta del velo” è più un coltello puntato sul fianco. Per quanta amorevolezza volessimo immaginarlo. Leggero come seta o soffice come il cotone, la radice del hijab è quella del dogma, l’obbligo per essere buona musulmana. Lo si insegna sin da bambine e sarebbe da ipocriti non ricordare come sia soprattutto il simbolo dell’oppressione e della segregazione. Creiamo lo spazio per le tantissime donne, giovani e bambine, che non vogliono portare il velo, ma che si trovano obbligate ad indossarlo con la violenza psicologica e l’indottrinamento. Sarebbe bello se partecipasse anche chi difende la libertà di portare il velo. Una libertà che è giustamente difesa dallo stesso pluralismo che contraddistingue l’Europa. Lettonia. Rifugiati e migranti arrestati, torturati e respinti alla frontiera di Riccardo Noury Corriere della Sera, 14 ottobre 2022 “Ci costringevano a rimanere nudi, a volte ci picchiavano e poi ci obbligavano a tornare indietro in Bielorussia, in alcuni casi anche attraversando un fiume la cui acqua era molto fredda. Ci dicevano che ci avrebbero sparato se non avessimo attraversato il confine”. “Dormivamo nella foresta, sotto la neve. Accendevamo dei fuochi per riscaldarci. C’erano lupi e orsi”. “Un agente mi ha preso la mano, mi ha imposto di mettere la firma e mi ha fatto firmare con la forza”. Queste testimonianze non provengono da una brutale dittatura ma da uno stato membro dell’Unione europea. Sono contenute in un rapporto sulla Lettonia, pubblicato oggi da Amnesty International, che denuncia violenti respingimenti di migranti e rifugiati al confine con la Bielorussia e gravi violazioni dei diritti umani commesse nei loro confronti, tra cui detenzioni segrete e persino la tortura. Il rapporto, intitolato “O tornerai a casa tua o non lascerai mai la foresta”, rivela il brutale trattamento di migranti e rifugiati, bambini compresi, trattenuti arbitrariamente in strutture segrete all’interno della foresta e costretti illegalmente e con la violenza a tornare in Bielorussia. Molti di loro sono stati picchiati e sottoposti a scariche elettriche con le pistole taser, anche sui genitali. Alcuni sono stati obbligati a tornare “volontariamente” nei paesi di origine. Questa situazione è iniziata il 10 agosto 2021, quando a seguito dell’aumento del numero di migranti e rifugiati incoraggiati dalla Bielorussia ad arrivare al confine, le autorità lettoni hanno posto in vigore lo stato d’emergenza. Lo stato d’emergenza ha privato persone in cerca di rifugio dei loro diritti, sanciti dal diritto internazionale e da quello dell’Unione europea, consentendo alle autorità di rimandarle in Bielorussia in modo sommario e forzato, in violazione del principio di non respingimento. Le autorità lettoni hanno ripetutamente prorogato lo stato d’emergenza, attualmente in vigore fino al novembre 2022, nonostante la diminuzione degli arrivi alla frontiera e la loro stessa ammissione che il numero dei tentativi d’ingresso era il risultato di più attraversamenti da parte delle medesime persone. Così, decine e decine di migranti e rifugiati sono stati arrestati arbitrariamente e trattenuti in condizioni insalubri. A una piccola percentuale di loro è stato consentito l’ingresso in Lettonia, mentre la maggior parte è stata posta in centri di detenzione con scarsa o nulla possibilità di accedere alla procedura d’asilo, all’assistenza legale e a una supervisione indipendente. Il rapporto di Amnesty International sulla Lettonia ha seguito ad altri analoghi rapporti sullo stesso tema, riguardanti Bielorussia, Polonia e Lituania. Iran. Graziati 2mila prigionieri. Alla rivolta non basta di Farian Sabahi Il Manifesto, 14 ottobre 2022 L’Ayatollah Khamenei tenta di placare i manifestanti. I giornali riformisti iraniani chiedono la fine degli arresti pretestuosi di giovani e studenti. La poeta Bita Malakuti al manifesto: “Le nuove generazioni sono determinate a cambiare le loro condizioni di vita e ad avere una vita normale”. In Iran continuano le proteste e, di pari passo, si allontana la ripresa dell’accordo nucleare. Per calmare le acque, in occasione dell’anniversario di nascita del profeta Mohammed e di una ricorrenza sciita, il leader supremo Khamenei ha concesso la grazia, o ridotto la pena, a 1.862 persone condannate per vari crimini. La lista dei prigionieri era stata inviata a Khamenei da Mohseni Ejei, capo della magistratura. Secondo il sito della magistratura iraniana Mizan on-line nella lista ci sarebbero 95 donne e 123 condannati per motivi di sicurezza, mentre per 13 dei prigionieri era prevista la pena capitale. Intanto, ieri il quotidiano riformatore Etemad ha chiesto alle autorità di rispettare la libertà di stampa e mettere fine agli arresti spesso condotti con dei pretesti. In una lettera ad Ali Shamkhani, segretario del Consiglio supremo della sicurezza nazionale, il direttore di Etemad Elias Hazrati, ex deputato, ha scritto: “Non permettete loro di arrestare giornalisti, giovani, studenti, spesso con delle scuse. Le caratteristiche essenziali della Repubblica islamica erano la libertà di stampa, libere elezioni, un ambiente politico, sociale e universitario libero, la libertà di espressione. Le perdiamo, una per volta. Agite con urgenza, prima che sia troppo tardi”. E ha aggiunto: “È colpa delle autorità se gli iraniani si informano attraverso media in persiano con sede all’estero, considerati nemici dai vertici di Teheran. L’unica soluzione è il dialogo”. Da Praga, la poeta iraniana Bita Malakuti commenta con il manifesto: “Il futuro dell’Iran sarà luminoso e sublime. Forse non sarà nel futuro prossimo, ma di certo vedremo grandi cambiamenti in Iran. Le nuove generazioni sono determinate a cambiare le loro condizioni di vita e ad avere una vita normale”. Esule negli Stati uniti dal 2004, Bita è critica teatrale e ha collaborato con diverse testate in patria. Se le forze dell’ordine smettessero di impugnare le armi e marciassero con i loro concittadini, la Repubblica islamica potrebbe crollare davvero. Queste proteste, però, non hanno un leader ed è difficile immaginare chi possa prendere il potere. Bita aggiunge: “Coloro che protestano hanno opinioni diverse. La maggior parte non vuole una repubblica islamica ma semplicemente una repubblica. Chiedono che la religione non abbia un ruolo in politica, nei diritti e nella società. In un Iran libero, diversi gruppi politici potrebbero avere un ruolo. Si dovrebbe poter andare alle urne. E votare in modo libero”. Viene da chiedersi che fine fanno i personaggi di spicco al tempo del presidente riformatore Muhammad Khatami (1997-2005). Dove sono finiti ex ministri, ex deputati, esponenti del clero sciita che, a suo tempo, osarono dire che l’Islam è compatibile con la democrazia, seppur a certe condizioni? Qualcuno vive nel Regno Unito, qualcun altro negli Usa: le preferenze di quella che è stata, a lungo, la nomenclatura di Teheran vanno a quei Paesi con cui i vertici di Teheran non sono in buoni rapporti. In questi giorni, i riformatori sono in panchina, guardano come si evolvono gli eventi. Per giustificare la cautela, ricordano come tanti si fossero infervorati per il premier Mossadeq che aveva sfidato gli inglesi ma fu rovesciato dal colpo di Stato della Cia. I riformatori di un tempo saliranno sul carro del vincitore, ma non vogliono rischiare che i loro familiari, in Iran, subiscano ripercussioni per una dichiarazione. Da Milano, dove si è fermato qualche giorno dopo aver partecipato al festival Internazionale a Ferrara, il 43enne Mohammad Tolouei osserva: “Tutti stanno guardando al dopo Khamenei, alla sua successione”. Il leader supremo ha 83 anni e non gode di buona salute. L’autore del romanzo Le lezioni di papà conclude: “Aspettano la sua morte come opportunità per cambiare le cose. Il figlio di Khamenei è emerso come il successore più plausibile del Leader supremo ma i pasdaran cercheranno di influenzare la successione. E lo stesso Raisi potrebbe prendere il posto di Khamenei. Oppure una personalità meno conosciuta. In ogni caso i papabili non sono molti, mentre sono molte le forze in gioco che possono influenzare questa partita”.