Buon lavoro al nuovo Parlamento. Serve subito un dibattito sul carcere di Mauro Palma* garantenazionaleprivatiliberta.it, 13 ottobre 2022 L’avvio di una Legislatura è sempre un momento importante per il Paese. Un momento che apre anche alla speranza e alla necessità di rappresentare nelle sedi istituzionali quello di cui una comunità ha bisogno. Il Parlamento ha inoltre il compito di innalzare i livelli di consapevolezza, di coscienza e di sapere comune di una collettività. Mi auguro che il Parlamento che si insedia in questi giorni nella XIX Legislatura sappia cogliere la necessità di dibattito sul carcere, un luogo che deve recuperare il concetto di appartenenza: il carcere fa parte della collettività. Non si tratta di contrapporsi sulle visioni della pena o su quali siano le urgenze maggiori, si tratta invece di dare la possibilità alle persone che finiscono di scontare una pena di poter tornare nella società diverse da quando sono entrate nel luogo di reclusione. In ultimo mi preme ricordare ai neoeletti una scadenza vicina, quella del 31 dicembre. Quel giorno scadrà la proroga per chi ha iniziato nel periodo dell’emergenza pandemica un percorso di semilibertà teso in quel momento a diminuire il sovraffollamento. Parliamo di circa mille persone che da due anni sperimentano con successo il loro percorso di reinserimento nella vita di tutti i giorni e che potrebbero tornare a dormire in carcere a partire dal primo gennaio. Credo che sarebbe una sconfitta per tutti e auspico inoltre che vengano prese misure strutturali per diminuire il sovraffollamento, specie per le persone che scontano in carcere pene molto brevi (sono 3887 i condannati a meno di due anni) e per le persone che positivamente hanno sperimentato negli ultimi due anni la semilibertà in licenza. Oltre a una dovuta attenzione a chi, qualunque sia la sua minore o residuale posizione, è costretto al carcere perché privo di dimora stabile o comunque adeguata. *Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà Carcere, stop sovraffollamento. Un caso l’85enne finita in cella per una condanna di 8 mesi di Fulvio Fulvi Avvenire, 13 ottobre 2022 Suicidi di detenuti (sono 66 dall’inizio dell’anno), personale aggredito, rivolte e risse, celle e ambienti comuni in condizioni igienico-sanitarie precarie. Le carceri scoppiano e bisogna intervenire subito con interventi che riducano il sovraffollamento o, quanto meno, impediscano un peggioramento dell’emergenza, in attesa di una riforma complessiva del settore. È il senso dell’appello che il Garante nazionale delle persone private della libertà, Mauro Palma, rivolge ai parlamentari della XIX Legislatura. Nei 192 istituti penitenziari italiani sono “pigiati”, a tutt’oggi, 55mila detenuti su una capienza complessiva di 50.853 posti. E in 25 strutture il tasso di affollamento è addirittura superiore al 150%, con picchi che superano il 190%, come nel caso di Napoli Poggioreale, Milano San Vittore e Latina. “Mi auguro che i neo-eletti deputati e senatori sappiano cogliere la necessità di dibattito sul carcere, un luogo che deve recuperare il concetto di appartenenza perché fa parte della collettività. Non si tratta di contrapporsi sulle visioni della pena o su quali siano le urgenze maggiori ma di dare la possibilità alle persone che finiscono di scontare una pena, di poter tornare nella società diverse da quando sono entrate in carcere”. Palma ricorda che il 31 dicembre “scadrà la proroga per chi ha iniziato nel periodo dell’emergenza pandemica un percorso di semilibertà teso in quel momento a diminuire il sovraffollamento”. Sono circa mille le persone che da due anni sperimentano con successo il loro percorso di reinserimento e che dal 1° gennaio 2023 potrebbero tornare a dormire in carcere. “Credo che sarebbe una sconfitta per tutti e auspico inoltre che vengano prese misure strutturali per diminuire il sovraffollamento - aggiunge il Garante - specie per chi sconta in carcere pene molto brevi e ha positivamente sperimentato negli ultimi due anni la semilibertà in licenza”. E sono 3.887 i condannati a meno di due anni che occupano un posto in carcere. Il caso più eclatante, denunciato ieri da Antigone, è quello di una donna di 85 anni che deve scontare in via definitiva 8 mesi (per occupazione abusiva di un alloggio) ed è rinchiusa da due settimane in una cella di San Vittore. Ad aggravare l’assurda situazione, il fatto che la signora non è autosufficiente e deve essere assistita dal personale del carcere e aiutata costantemente da altre detenute e operatori. “La vicenda - sottolinea Valeria Verdolini, responsabile lombarda di Antigone - investe due questioni: la sempre maggior frequenza con cui persone anche ultrasettantenni entrano in carcere, e quella della residenza che impedisce una presa in carico da parte dei servizi, lasciando al penitenziario l’onere di gestione residuale”. L’ergastolo va abolito: è disumano come la pena di morte di Morena Gallo Il Riformista, 13 ottobre 2022 La campagna elettorale s’è conclusa e il Governo è in via di formazione. Allora, il tema dell’ergastolo e del carcere, anche in riferimento a ciò che ha scritto la Corte costituzionale ormai più di un anno addietro sull’ergastolo ostativo, dovrebbero tornare a creare vivo dibattito. Così, però, non è. C’è una forte voce che si contrappone al silenzio della politica: è quello dell’Accademia che - così come emerso da una ricerca condotta dall’Istituto di studi penalistici ‘Alimena’ dell’Università della Calabria diretto dal professore Mario Caterini - è contraria non solo all’ergastolo ostativo, ma a qualsiasi forma di ergastolo. Del resto, già Aldo Moro definì l’ergastolo “fatto agghiacciante, crudele e disumano non meno di quanto lo sia la pena di morte”. La giurisprudenza costituzionale, da anni, ha tentato di attutire la portata drammatica dell’ergastolo: “fin dalla sentenza n. 264/1974 la Corte costituzionale ha ritenuto l’ergastolo conforme a Costituzione, perché consente di reinserire socialmente il condannato qualora la sua condotta sia valutata positivamente - ha spiegato Sergio Moccia, professore emerito di Diritto penale alla ‘Federico II” di Napoli - e tale posizione è stata confermata nelle altre pronunce successive. Vi è una fallacia del ragionamento, perché in realtà si dice che l’ergastolo sarebbe incostituzionale se non desse spazio alla libertà, se non la rendesse possibile, ma il riferimento alla sola possibilità sta a significare che il giudizio è comunque negativo rispetto ad una pena che tolga per sempre la libertà ad un soggetto”. Per il professor Moccia, si dovrebbe capovolgere il ragionamento e affermare che l’ergastolo, di per sé, è contrario alla Costituzione “nella misura in cui può dar luogo ad un “fine pena mai”, e questo accade molto frequentemente”. In realtà, la Corte ha ragionato in una visione polifunzionale della pena e “fa riferimento anzitutto alla prevenzione generale intimidatrice, poi alla retribuzione e potrebbe anche far riferimento alla prevenzione speciale negativa - chiarisce il Professore -; tutte concezioni della pena che nel contesto ordinamentale vigente, all’interno e in relazione al quale dev’essere agita una funzione della pena legittimamente perseguibile, già il riferimento alla prevenzione generale negativa significa l’inflizione di una sanzione particolarmente dura per fini di intimidazione generale, che va al di là della proporzione, perché deve costituire un deterrente. All’interno della Costituzione non vi è spazio per la prevenzione generale negativa, tanto più che la Carta costituzionale all’art. 27 co. 3 si esprime chiaramente per la c.d. rieducazione”. Intanto, molti sostengono che l’ergastolo non esiste più per la possibilità di accesso ad alcune forme di libertà. Così non è ed emerge dai dati del Garante nazionale dei detenuti, secondo cui negli ultimi anni solo il 7% dei condannati all’ergastolo è stato liberato, quindi il 93% resta sottoposto alla misura detentiva. Il monito dell’Emerito è chiaro: “attenzione alle sirene della liberazione condizionale e della semilibertà. Tutte le possibilità di liberazione astrattamente previste, se guardiamo ai dati recenti, nella prassi non è che abbiano una diffusività tale da far ritenere eccezionale l’ergastolo ‘reale’”. Allora, vien da sé chiedersi perché in Italia si circoscrive la questione all’ergastolo c.d. ostativo, se qualsiasi forma di ergastolo è illegittima perché contraria al dettame costituzionale. Per il professor Moccia “non ha senso questo distinguo sull’illegittimità delle diverse forme di ergastolo, secondo la regola algebrica del più che contiene il meno. Addentrandoci, la questione riguardante l’ostativo, si pone soprattutto in riferimento all’impossibilità della liberazione condizionale finché vi siano elementi tali da far ritenere collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica e così via. Sia la Corte europea sia la Consulta sul piano generale non sono contrarie all’ergastolo, ma ritengono che la pena debba essere riducibile, altrimenti si lascia il reo senza speranza, ovvero senza possibilità di inserimento. Dunque, il problema, secondo questa tesi, risiede nella sola vincibilità della presunzione, da intendersi relativa e non assoluta, superabile se il magistrato di sorveglianza ha acquisito elementi tali da escludere che il detenuto abbia collegamenti con l’associazione criminale o che vi sia il pericolo del ripristino di questi collegamenti”. S’è perso del tempo e chissà quanto ancora se ne perderà. “La Corte costituzionale ha scritto una pagina della sua storia di cui certo non potrà essere orgogliosa - commenta Moccia - Da una parte si assume la responsabilità di rinviare l’avvio di un percorso di libertà per chi ne avrebbe diritto e, dall’altro, si affida ad un legislatore che non pare avere molto a cuore le ragioni dello stato di diritto, e che potrebbe rendere ancora più ardua la via dell’abolizione delle norme in questione”. Meno detenuti stranieri ma per loro poche misure alternative di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 13 ottobre 2022 Diminuisce la presenza dei detenuti stranieri nelle carceri ed emerge che le pene a loro inflitte denotano una minore pericolosità sociale degli immigrati, che però nel contempo beneficiano in maniera più blanda delle misure alternative. Sono alcuni dei dati del rapporto sull’Immigrazione 2022 di Caritas e Fondazione Migrantes. Nel primo volume del trentunesimo rapporto da poco presentato, analizzando i dati della realtà carceraria, emerge che l’incidenza della componente straniera è decisamente in controtendenza: a fronte dell’aumento generale del numero dei detenuti (+1,4), infatti, la presenza straniera, a distanza di un anno, è sostanzialmente diminuita (- 1%). Si apprende che il dato è in linea con il trend dell’ultimo decennio, nel corso del quale le cifre dei detenuti di cittadinanza straniera si sono notevolmente contratte. Dall’Africa proviene più della metà dei detenuti stranieri (53,3%) e il Marocco è in assoluto la nazione straniera più rappresentata (19,6%). Seguono Romania (12,1%), Albania (10,8%), Tunisia (10,2%) e Nigeria (7,8%). Nelle sezioni femminili, su un totale di 722 recluse straniere, spiccano soprattutto le detenute provenienti da Romania (24,1%), Nigeria (17,7%) e Marocco (5,8%). Pur se con cifre ogni anno sempre più esigue, si segnala ancora la presenza di madri detenute con figli al seguito, la metà dei quali di cittadinanza straniera. Le statistiche relative alle tipologie di reato confermano il dato generale che vede i reati contro il patrimonio come la voce con il maggior numero di ristretti (8.510 stranieri imputati o condannati per tale fattispecie di reato, ovvero il 27% dei ristretti per il reato in questione e il 49,9% dei detenuti stranieri). Seguono i reati contro la persona (7.285) e quelli in materia di stupefacenti (5.958). I dati restituiscono ancora una volta la fotografia di un sistema in cui le persone migranti finiscono con più facilità nel sistema carcerario e ne escono meno agevolmente degli italiani. Se le pene inflitte denotano una minore pericolosità sociale degli immigrati, gli stessi beneficiano in maniera più blanda delle misure alternative rispetto ai detenuti autoctoni. Agli stranieri, inoltre, viene applicata con maggiore rigore la custodia cautelare in carcere: ben il 32% degli stranieri detenuti è in attesa del primo grado di giudizio. Circostanza, questa, che finisce con il determinare una sovra- rappresentazione della popolazione carceraria straniera. Le condizioni di marginalità in cui spesso versa la popolazione migrante ne determina una maggiore esposizione al rischio di essere vittima di reato. Il catalogo dei reati di cui gli stranieri sono soggetti passivi è, purtroppo, assai vasto e spazia dai reati più efferati, a cominciare dalla tratta di esseri umani, alle molteplici ed “ordinarie” forme di vittimizzazione che rimangono spesso sommerse. In cima alla lista dei reati più odiosi vi sono certamente quelli che vedono come vittime i minori. In tal senso, gli stranieri hanno rappresentato il 4% delle vittime di reati sessuali segnalate e prese in carico per la prima volta nel 2021 dall’Ufficio di servizio sociale per i minorenni. Gli stranieri vittime di altre forme di sfruttamento e maltrattamento sono stati invece il 9% del totale dei minori segnalati e presi in carico nello stesso periodo. L’attuale edizione del Rapporto Immigrazione è la prima post-pandemia: i dati attestano sia lenti segnali di ripresa sia criticità e fatiche dei cittadini italiani e stranieri, dovute a una scarsa attenzione delle politiche sociali verso le fasce più fragili della popolazione nel periodo culminante dell’emergenza sanitaria. Fra i segnali incoraggianti, nel rapporto viene citata la ripresa della crescita della popolazione straniera residente in Italia: i dati al 1° gennaio 2022 parlano di 5.193.669 cittadini stranieri regolarmente residenti, cifra che segna una ripresa dallo scorso anno. Nel quadro delle prime 5 regioni di residenza, si conferma il primato della Lombardia, seguita da Lazio, Emilia- Romagna e Veneto, mentre la Toscana sopravanza il Piemonte al 5° posto. Il quadro delle nazionalità rimane sostanzialmente inalterato: fra i residenti prevalgono i rumeni (circa 1.080.000 cittadini, il 20,8% del totale), seguiti, nell’ordine, da albanesi (8,4%), marocchini (8,3%), cinesi (6,4%) e ucraini (4,6%). Sono aumentati anche i cittadini stranieri titolari di permesso di soggiorno (al 1° gennaio 2022 sono 3.921.125, mentre nel 2021 erano attestati sui 3,3 milioni), così come i nuovi permessi di soggiorno rilasciati nell’anno: nel corso del 2021 sono stati 275 mila, + 159% rispetto al 2020 (105.700); in particolare si è registrata un’impennata dei motivi di lavoro, certamente come esito della procedura di sanatoria varata dal governo nel 2020. Anche i provvedimenti di cittadinanza hanno segnato una certa crescita: sono stati 118 mila nel 2020, ovvero un + 4% dall’anno precedente. Secondo le stime dell’Istat, nel 2021 le famiglie con almeno un componente straniero sarebbero il 9,5% del totale (ovvero 2.400.000); di queste 1 su 4 è mista (con componenti sia italiani che stranieri) e 3 su 4 hanno componenti tutti stranieri. Rispetto alle diverse tipologie delle famiglie, quelle unipersonali (composte da single/ vedovi/ separati/ divorziati) è per i cittadini stranieri leggermente più elevata che per gli italiani (34,7% contro 33,4%) ed è più cospicua anche la tipologia di coppia con figli conviventi senza altre persone (36,6% per i cittadini stranieri e 31,0% fra gli italiani). Rispetto ai ragazzi italiani è più alta di oltre 4 punti percentuali la quota di minori stranieri che vivono solo con la madre, mentre è più bassa la quota di quelli che vive con entrambi i genitori o solo con il padre. Sempre dal rapporto della Caritas e Fondazione Migrantes, emerge che in generale la popolazione straniera ha una struttura più giovane di quella italiana: ragazze e ragazzi con meno di 18 anni rappresentano circa il 20% della popolazione e per ogni anziano (65 anni o più) ci sono più di 3 giovanissimi di età compresa fra gli 0 e i 14 anni. I ragazzi nati in Italia da genitori stranieri sono oltre 1 milione e di questi il 22,7% ha acquisito la cittadinanza italiana; se ad essi aggiungiamo i nati all’estero, la compagine dei minori stranieri (fra nati in Italia, nati all’estero e naturalizzati) supera quota 1.300.000 e arriva a rappresentare il 13,0% del totale della popolazione residente in Italia con meno di 18 anni. Il rapporto sottolinea che si è assistito nell’ultimo anno anche al preoccupante aumento del numero dei minori stranieri non accompagnati, arrivati nell’aprile del 2022 a 14.025, certamente anche per effetto della guerra in Ucraina, da cui proviene il 28% circa del totale. Il 46,4% dei giovani stranieri si dichiara molto o abbastanza preoccupato per il futuro: i timori riguardano principalmente la guerra, la povertà o il peggioramento delle condizioni economiche. Emerge altresì che i giovani stranieri (e le ragazze più dei ragazzi) sognano un futuro in altri Paesi molto più dei coetanei italiani (59% contro il 42%). Il quadro socio- anagrafico si presenta dunque per diversi aspetti preoccupante e pone l’urgenza di politiche che potenzino efficacemente le opportunità da offrire ai ragazzi stranieri, anche per non disperdere il potenziale prezioso che rappresentano per un’Italia sempre più vecchia. Pietà l’è in carcere di Giulio Cavalli Left, 13 ottobre 2022 Una donna di 85 anni, non autosufficiente, da due settimane si trova in cella a San Vittore. La sua condanna definitiva è di soli 8 mesi, per l’occupazione abusiva di un alloggio. Mentre Silvio Berlusconi, dopo essere stato giudicato da molti come papabile presidente della Repubblica, ieri si è registrato in Senato e prova a mettere le mani sul ministero alla Giustizia (per non rischiare di essere condannato al processo Ruby ter?), l’associazione Antigone racconta una storia che arriva dal carcere milanese di San Vittore. Da circa due settimane una donna di 85 anni è detenuta presso il carcere milanese. La sua condanna definitiva è di soli 8 mesi, scaturita dall’occupazione abusiva di un alloggio. Nonostante il reato non sia di grande pericolosità sociale e la pena comminata di brevissima durata, la donna è stata tuttavia condotta nel carcere del capoluogo lombardo. Ad aggravare la situazione il fatto che la signora non è autosufficiente, richiedendo perciò un’assistenza personale e una gestione sanitaria costante da parte di altre detenute e degli operatori. Fino ad oggi, nonostante i ripetuti solleciti dell’istituto e un’istanza di scarcerazione, la signora si trova ancora ristretta nell’istituto. “La vicenda - sottolinea Valeria Verdolini, responsabile della sede lombarda di Antigone - investe due questioni: la sempre maggior frequenza con cui persone anche ultrasettantenni o ultraottantenni entrano in carcere, e la questione centrale della residenza, che impedisce una vera e propria presa in carico da parte dei servizi, lasciando al penitenziario l’onere di gestione residuale. La richiesta che facciamo è che per questa anziana donna si trovi il prima possibile una soluzione che le consenta di scontare la pena in un luogo più confacente e sicuro, per la sua età e le sue condizioni di salute”. “Al 30 giugno 2022 si contavano 1.065 detenuti che hanno più di 70 anni, rappresentando questi quasi il 2% della popolazione detenuta. Un numero che negli anni recenti è in costante crescita. Serve grande attenzione per la loro condizione e, dinanzi pene brevi da scontare o residue, è fondamentale trovare alternative alla detenzione” sottolinea Patrizio Gonnella, presidente di Antigone. “Questo passa anche dal creare strutture di sostegno sociale e abitativo che consentano a queste persone anziane (e non solo a quelle anziane) di poter accedere a misure alternative, senza che proprio la condizione sociale di partenza diventi un ulteriore elemento discriminante” conclude Gonnella. La legge esclude che la detenzione domiciliare si possa applicare alla persona che abbia superato i settant’anni quando la condanna riguardi uno dei seguenti reati: delitti contro la libertà individuale, come la riduzione o il mantenimento in stato di schiavitù o servitù, la prostituzione minorile e tutti i delitti contro i minori (pedopornografia, ecc.); violenza sessuale, violenza sessuale di gruppo e atti sessuali con minorenne; associazione per delinquere di stampo mafioso e narcotraffico; gravi delitti contro la pubblica amministrazione, come peculato, concussione e corruzione. Oppure si va in carcere, semplicemente, se si è poveri. Salute in carcere: ancora troppa carta, programmare è difficile di Angelica Giambelluca aboutpharma.com, 13 ottobre 2022 Fëdor Dostoevskij affermava che il grado di civiltà di una nazione si misura entrando nelle sue prigioni. Oggi magari aggiungerebbe “e valutando come circolano e si condividono i dati dei detenuti”. Come circolano questi dati? Tutto su carta. I pc sono pochi e poco usati. Internet praticamente non esiste. La digitalizzazione non esiste: le analisi che si fanno su consumi di farmaci e patologie si basano su stime. Con il Dpcm del 1° aprile 2008 si è cercato di attuare il passaggio (progressivo) di competenza sanitaria dal Ministero della Giustizia al Servizio sanitario nazionale, ma a quattordici anni di distanza questa riforma non pare aver agevolato la gestione della sanità penitenziaria: una delle ragioni risiede proprio nella carente gestione dei dati e dell’informatizzazione delle strutture carcerarie. Un problema che impedisce la programmazione sanitaria, perché ad oggi non è noto quanti detenuti soffrano di determinate patologie e/o assumano determinati farmaci. I dati relativi si possono desumere in forma disaggregata, controllando cartella per cartella: non c’è praticamente nulla di digitalizzato sugli oltre 50 mila detenuti presenti nelle carceri italiane. Inoltre, per coloro che oggi sono liberi, non si possono tracciare le informazioni sanitarie risalenti al periodo detentivo, che restano chiuse nei faldoni dei singoli istituti penitenziari. Il disagio psichico: i numeri non tornano - Prendiamo il disagio psichico. I detenuti nelle carceri italiane che soffrono di problemi certificati sfiorano il 10%; anzi, secondo le stime realizzate dal Garante Nazionale della Persone private della Libertà personale, sul totale della popolazione detenuta presso gli istituti penitenziari (54.606), le persone che a marzo 2022 (data della rilevazione) sono affette da patologia psichiatrica sono soltanto 381. Quindi ancora meno del 10%. Di questi, 44 attendono di entrare nelle residenze sanitarie che hanno preso il posto degli ospedali psichiatrici (Rems) e che hanno una capienza totale di 550 posti. A fronte però di numeri così esigui di persone che necessitano cure psichiatriche, ci si chiede perché le Rems siano sempre piene e con le liste d’attesa. “In Lombardia l’unica residenza attiva è quella di Castiglione delle Stiviere - spiega Antonella Forattini, presidente della Commissione Situazione carceraria di Regione Lombardia - manca l’attivazione di quella di Limbiate, per cui oggi abbiamo liste d’attesa che possono superare anche i settanta giorni. Ecco perché in queste strutture andrebbero indirizzate solo le persone che ne hanno realmente bisogno, mentre oggi nelle Rems ci finiscono anche detenuti che potrebbero trovare soluzioni diverse in un carcere con l’attivazione di progetti specifici. Purtroppo, manca una regia, così succede che anche i magistrati mandino detenuti senza un’approfondita valutazione medica. Come si fa a gestire questa situazione? Abbiamo fatto un’indagine nelle carceri proprio per valutare la gestione del disagio psichico e il dato più allarmante è la mancanza di personale formato per intercettare e gestire i soggetti con questi disturbi e saper contenere in modo diverso quelli che hanno problemi comportamentali dovuti ad altre cause. Regione Lombardia ha deliberato linee guida sul rischio suicidario, dove emerge la necessità di poter contare su più figure professionali: ma come si possono attuare se manca il personale?”. Il deficit riguarda anche l’organico della polizia penitenziaria che andrebbe non solo potenziato nel numero, ma anche nella formazione. Non esiste Fse - “Altro problema che non facilita la gestione dei detenuti con problemi psichici e più in generale sanitari - rimarca Forattini - è la mancanza del fascicolo sanitario digitale. Questo non aiuta la ricostruzione del vissuto del detenuto, del suo stato di salute, delle prestazioni di cui ha potuto usufruire fuori dal carcere o dal passaggio da una struttura all’altra. I problemi di salute mentale possono essere di diversa natura e non sempre esiste una segnalazione da parte dei Centri di Salute Mentale. In questa situazione, e considerata la poca conoscenza di molte malattie riferibili alla sfera psichica, è fondamentale avere personale dedicato come psicologi ed educatori”. Altissimo il rischio di inappropriatezza terapeutica - Uno dei rischi è anche quello di somministrare farmaci psicotropi a chi non ne ha bisogno. “In diverse carceri - ricorda Roberto Ranieri, infettivologo, responsabile della sanità penitenziaria della Regione Lombardia e vice presidente Simpse, Società italiana di medicina e sanità penitenziaria - gli psicofarmaci vengono dati al 70% dei detenuti in ingresso (anche se quelli che ne hanno davvero bisogno sono molti meno) senza contare che possono creare o peggiorare la dipendenza da sostanze. I Centri diurni delle carceri dovrebbero essere rafforzati con personale dedicato e formato. In Lombardia si è previsto lo stanziamento di 1,6 milioni di euro da investire proprio nel personale e nelle risorse di questi centri per permettere di fare una diagnosi corretta per contenere la persona, prima di iniziare a somministrare farmaci”. Come sono monitorati i farmaci in carcere - Non sono monitorati. O meglio, si possono seguire i flussi amministrativi delle farmacie territoriali che mandano i medicinali nei penitenziari, ma sono flussi limitati. “Posso sapere in modo abbastanza preciso quanto paracetamolo è stato distribuito nelle carceri - spiega Luciano Lucanìa, presidente Simpse - ma se un detenuto mi chiede una formulazione diversa e la farmacia territoriale non ha il farmaco, lo devo recuperare in modo diverso al di fuori dei flussi tracciabili”. Per sapere quanti farmaci vengono mandati ai penitenziari occorre chiedere a ogni singola Asl. Spiega Emanuele Pontali, infettivologo dell’Ospedale Galliera di Genova, membro Simpse e consulente per il carcere di Marassi nel capoluogo ligure: “Né il Ministero della Salute, né le Regioni raccolgono i dati in modo aggregato e i flussi di cui tiene conto Aifa sono generali, perché i medicinali destinati alle carceri ricadono sotto la farmacia territoriale, non hanno un codice a parte. Sarebbe fondamentale sapere quali farmaci sono andati ai detenuti e quanti alla collettività libera, soprattutto se voglio fare un’analisi dei costi seria all’interno del penitenziario. In ogni caso, calcolare i fabbisogni sanitari non è facile, dipende molto dalle varie sensibilità delle Regioni sul monitoraggio. Qui a Marassi la spesa è molto monitorata ma non è sempre così. Immaginiamo un’Asl media che insiste su una popolazione di poche centinaia di migliaia di abitanti, un carcere di 700 detenuti in quella Asl è una goccia nel mare e quindi difficilmente avrà l’attenzione da parte del decisore politico regionale”. La prassi vaccinale - Per i vaccini la situazione è ancora diversa. Prosegue Pontali: “Non sono forniti dalle farmacie territoriali, ma dai centri di prevenzione territoriali competenti e l’invio varia da Regione a Regione, senza contare che in molti casi la capacità dei centri si è ridotta nel tempo e spesso i vaccini in carcere non arrivano come richiesto, perché non ce ne sono abbastanza per coprire la popolazione generale. Per questo, a oggi, non esiste una programmazione univoca delle vaccinazioni in carcere e non esiste nemmeno un controllo centralizzato”. Un progetto di ampio respiro sulla salute in carcere è stato coordinato dalla Regione Toscana nel 2014: uno studio multicentrico che ha coinvolto tutti i detenuti presenti all’interno degli istituti penitenziari di Toscana, Veneto, Lazio, Liguria, Umbria e dell’Azienda sanitaria di Salerno (16 mila detenuti distribuiti su 57 penitenziari). Tra le malattie infettive, l’epatite C è risultata quella più prevalente (nel 7,4% dei detenuti rispetto al 2,7% nella popolazione italiana, ma oggi, otto anni dopo da quella ricerca, la prevalenza si aggira sul 10-12% tra i carcerati). “Sono dati simili a quelli che si osservano nel resto d’Europa - sottolinea Pontali - ma sono frutto di analisi ad hoc svolte su iniziative di qualche regione o della Simpse. Manca un monitoraggio costante nel tempo e senza dati aggiornati e condivisi non si possono mettere in atto politiche sanitarie efficaci nel sistema penitenziario”. La salute in carcere riguarda anche la popolazione “libera” - Senza dati non si può fare una programmazione sanitaria, senza una programmazione sanitaria non si possono curare in modo efficiente le persone. Questo vale per tutti, anche per chi è in carcere. Un luogo da dove si crede che le persone non escano mai, pensando erroneamente che i problemi del carcere non interessino la collettività. In realtà, la popolazione carceraria è altamente “transitante”. Come rimarca ancora Pontali: “il carcere è un ambiente di ‘porte girevoli’ e tra le persone libere ci sono migliaia di ex detenuti. Ogni anno, tra le oltre 200 carceri italiane e l’esterno, ruotano circa 200 mila persone. Investire in salute nella loro salute significa prendersi cura di tutta la collettività e generare risparmi per il Ssn: se potessimo intercettare tutti i casi di epatite C durante la detenzione, oggi non dovremmo preoccuparci di eventuali contagi”. La gestione di Covid-19 - Roberto Ranieri insiste su un punto: “La pandemia ha dato un assaggio di cosa vuol dire fare una corretta programmazione sanitaria vaccinale in carcere, con dati tracciati e farmaci somministrati nei tempi giusti. Il tasso di vaccinazione nelle carceri italiane è stato superiore a quello della popolazione generale. Nella quasi totalità dei casi, i detenuti che entravano nelle carceri sono stati vaccinati contro Sars- CoV-2, cosa che difficilmente sarebbe accaduta in libertà, perché parliamo di una popolazione con bassa alfabetizzazione e poca accortezza verso il proprio stato di salute. Durante la pandemia, il carcere ha dato quindi prova di essere un hub fondamentale. In diverse Regioni, come la Lombardia, si sta lavorando per creare case di comunità all’interno dei penitenziari e far diventare il modello della gestione Covid un modello di presa in carico generale per la salute dei detenuti, non solo in tema di vaccinazioni”. Ma senza un sistema serio di monitoraggio e digitalizzazione, la strada è tutta in salita. “Quasi il 100% delle persone detenute prima poi esce - rimarca Lucanìa - e nella maggior parte dei casi è anziano e pluripatologico. Parliamo di soggetti che necessitano di essere presi in carico anche una volta liberi. In teoria dovrebbe essere così, ma ho i miei dubbi che queste persone siano seguite dai medici di famiglia visto che la cartella clinica rimane in carcere e viene richiesta in casi eccezionali (per procedimenti giudiziari): nessun medico di medicina generale ci ha mai chiesto la cartella clinica per prendere in carico un ex detenuto”. Non si può usare internet - Un altro problema (o se vogliamo, il problema) che aggrava l’impossibilità di aggregare e condividere i dati e comunicare con il mondo esterno è la quasi assenza di internet in carcere. Sono pochi gli uffici connessi online e ben lontani dalle sezioni dove risiedono i carcerati. Inoltre, per ovvie ragioni di sicurezza, si usa la connessione via cavo (Lan) e non il wi-fi. Detto questo, un medico dovrebbe poter consultare la cartella clinica elettronica al pc, davanti al detenuto che sta visitando. Ma la cartella clinica elettronica non esiste né una rete informatica diffusa. Sottolinea Luciano Lucanìa: “Siamo fermi a trent’anni fa. Nel sistema sanitario penitenziario i registri sono cartacei. Possiamo sapere quanti farmaci sono stati distribuiti nelle carceri, ma non quante persone li hanno assunti e per quali patologie. Sono informazioni che si possono dedurre solo andando a consultare le singole cartelle cliniche cartacee. Su questi temi il Ministero della Salute può solo dare una linea di indirizzo, ma non ha potere di intervento. Qui il padrone di casa resta il Ministero della Giustizia a cui si affiancano i sistemi sanitari regionali e ogni Regione ha priorità diverse, soprattutto quando si tratta di budget da destinare alla sanità. E le carceri non sono una priorità”. Nel 2016 si era arrivati (quasi) alla soluzione del problema: sotto l’egida dell’allora Ministro della Salute, Andrea Orlando, era stato siglato un accordo tra Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria (Dap), il Dipartimento Giustizia minorile e di comunità, la Direzione generale Sistemi informativi e automatizzati del ministero della Giustizia e Federsanità Anci, con il coinvolgimento della Simpse, per realizzare una cartella clinica elettronica, un fascicolo sanitario elettronico e la possibilità di introdurre la telemedicina. Con tanto di investimenti previsti pari a 400 mila euro. “Ma poi non se n’è fatto nulla - chiude Lucanìa - per problemi interni ai vari partner dell’iniziativa. Abbiamo perso l’occasione e i finanziamenti”. Rise Vac, raggiungere gli irraggiungibili - A maggio del 2021 ha preso il via il progetto europeo RISE VAC, Reaching the hard-to-reach: increasing access and vaccine uptake among the prison population in Europe’, finanziato dal terzo programma dell’Ue per la salute per un totale di 1.585.202,86 euro. Terminerà nel 2024 e ha come obbiettivo quello di aumentare la copertura vaccinale nelle prigioni di tutta Europa. Il progetto, guidato dall’Università di Pisa, coinvolge altre importanti istituzioni accademiche e sanitarie, come l’ASST Santi Paolo e Carlo di Milano e quelle di diversi altri paesi europei, come Cipro, Francia, Germania, e paesi extra UE come Moldavia e Regno Unito. Il progetto si inserisce nel più ampio contesto del piano europeo di promozione della vaccinazione (Evap) e della campagna globale di vaccinazione contro il SARS-CoV2. Il punto sui risultati - Lo scorso 31 maggio i protagonisti si sono riuniti a Milano per fare il punto sui risultati raggiunti e quelli da raggiungere. Tra gli altri erano presenti Roberto Ranieri, Responsabile della Sanità penitenziaria della Regione Lombardia, Lara Tavoschi, ricercatrice in Igiene presso il Dipartimento di Ricerca Traslazionale e nuove Tecnologie in Medicina e Chirurgia dell’Università di Pisa, Martine Ingvorsen, Policy officer della Commissione europea, Filipa Alves da Costa, del programma Health in Prison dell’Oms. Nel mondo, il 90% delle carceri ha ricevuto il vaccino anti Covid, ma per le altre vaccinazioni i tassi sono molto più bassi. Questo si deve a diverse ragioni, tra cui l’esitanza vaccinale da parte dei detenuti, problemi logistici e scarse risorse umane. Senza contare che il 50% dei paesi Oms non ha sistemi comunicanti tra il sistema sanitario nazionale e penitenziario. Alcune proposte - Tra le varie proposte emerse durante l’incontro, alcune riguardano il superamento dell’esitanza vaccinale tra i detenuti, da ottenere sia con un dialogo costante, sia con una diversa programmazione delle dosi. I problemi sono complessi. Ad esempio: come si fa a effettuare il richiamo per l’epatite B se dopo un anno le persone sono uscite dal carcere? E se il detenuto proviene da un paese dove si fanno normalmente i vaccini anti epatite B, può avere senso fare solo la dose booster? L’ obiettivo è quindi ottimizzare il calendario vaccinale per le maggiori malattie e lo si può fare agendo in modo permeabile con l’esterno, usando gli stessi strumenti che si usano negli ambulatori del territorio. A causa del loro ambiente ad alto rischio, coloro che sono nelle carceri dovrebbero avere la priorità nei piani nazionali di vaccinazione. La best practice della vaccinazione anti-Covid si potrebbe ripetere anche per tutte le altre vaccinazioni. Al via il Mondiale di scacchi per detenuti, il carcere di Spoleto cerca l’impresa di Riccardo Bruno Corriere della Sera, 13 ottobre 2022 Giovedì 13 e venerdì 14 la sfida tra 85 squadre di 46 paesi diversi. Il coach Mirko Trasciatti della Federazione scacchistica italiana: “Gioco che insegna il rispetto delle regole e dell’avversario”. Tutto è nato per colpa (o per merito) del Covid. Durante la pandemia, lo sceriffo della Contea di Cook, nell’area metropolitana di Chicago, appassionato di scacchi, notò che tra i detenuti del locale penitenziario era aumentata in modo preoccupante l’ansia. Pensò così di portare in carcere una scacchiera, i reclusi passavano ore impegnati a muovere alfieri e proteggere il re, e la sera erano tutti più tranquilli. Così è nata l’idea di chiedere alla FIDE, la Federazione scacchistica internazionale, presieduta dal russo Arkadij Dvorkovic, di promuovere un campionato mondiale per prigionieri. Dopo la prima edizione sperimentale dell’anno scorso, quella che si terrà giovedì 13 e venerdì 14 ottobre è già un successo: 85 squadre al via in rappresentanza di 46 nazioni. Ci saranno anche un torneo dedicato esclusivamente alle squadre femminili (dodici), e uno per i minorenni (con 14 squadre). L’Italia, che ha ambizioni di fare bella figura, schiera una formazione formata da detenuti del carcere di massima sicurezza di Spoleto. Al carcere di Spoleto da anni gli scacchi sono diventati un’abitudine grazie all’iniziativa di Mirko Trasciatti, istruttore della FSI (la Federazione scacchistica italiana). L’anno scorso gli italiani arrivarono terzi nel girone di qualificazione, a un passo dalla fase finale. Obiettivo che sperano di conquistare quest’anno, in un girone che li vedrà impegnati giovedì insieme a Bosnia, Bulgaria, Repubblica Ceca, Inghilterra, Germania, Norvegia e Serbia. Le partite degli azzurri, a partire dalle 11 ora italiana, e si potranno seguire sul canale Twitch https://www.twitch.tv/mograchess, con il commento del Grande Maestro italiano Roberto Mogranzini. “Tutti gli studi dimostrano che gli scacchi migliorano la qualità della vita dei detenuti - spiega Mirko Trasciatti. Inoltre, insegnando le regole, il valore della legalità e il rispetto dell’avversario, li inducono a ripensare in modo critico alle loro scelte passate. La capacità analitiche che gli scacchi insegnano, le doti di “problem solving” che si acquisiscono, inoltre, possono essere utili anche una volta usciti di cella, e non sono pochi i datori di lavoro che vengono colpiti favorevolmente dal fatto di aver frequentato un corso di scacchi in carcere”. Il Campionato intercontinentale FIDE è una sfida on line tra squadre di quattro giocatori, composte solo di detenuti, con partite a tempo “rapid” (dieci minuti ciascuno per finire il match, più cinque secondi di recupero a ogni mossa). Le squadre saranno divise in gironi da 7 o da 8, che si svolgeranno il 13 ottobre. Solo le prime due classificate passeranno alla fase finale, prevista il giorno dopo: altri due gironi selezioneranno le finaliste, che poi si scontreranno per determinare la vincitrice. L’anno scorso vinse la Mongolia battendo lo Zimbabwe. Sisto o Casellati, Berlusconi reclama un forzista alla Giustizia di Simona Musco Il Dubbio, 13 ottobre 2022 Si rimescolano le carte nella partita per Via Arenula. Troppe le matasse da sbrogliare per arrivare alla lista finale dei ministri, e Meloni potrebbe essere costretta a rinunciare a Nordio guardasigilli. Carlo Nordio, Maria Elisabetta Casellati, Francesco Paolo Sisto. I giochi per occupare la casella del ministero della Giustizia si riducono a questi tre nomi, il giorno dopo l’esplicita richiesta di Silvio Berlusconi di mettere mano su Via Arenula. Sisto o Casellati, un forzista come ministro della Giustizia - Il Cav punta su due nomi che per lui rappresentano una garanzia: l’ormai ex presidente del Senato, che l’11 marzo del 2013 è scesa in piazza a Milano a protestare contro i magistrati che indagavano sul leader di Forza Italia, e il sottosegretario alla Giustizia del Governo Draghi, suo avvocato e capace di gestire il difficilissimo fascicolo della riforma targata Marta Cartabia mediando tra i desiderata di tutti i partiti di maggioranza. Giorgia Meloni, alle prese con i diktat degli alleati, sembra per il momento voler lasciare il fascicolo Giustizia in un cassetto. Troppe le matasse da sbrogliare per arrivare alla lista finale dei ministri, nonostante quello di Nordio sia stato uno dei primi nomi proposti dalla premier in pectore nella sua cavalcata verso Palazzo Chigi. Leggi anche: Governo Meloni, il caso Ronzulli apre un nuovo fronte tra Meloni e il Cav - Il preferito della leader di Fratelli d’Italia è, dunque, chiaramente l’ex procuratore aggiunto di Venezia, che cinque anni dopo aver appeso la toga al chiodo ha deciso di scendere in politica, passando prima per la promozione dei referendum sulla “giustizia giusta”. Ma il pressing di Berlusconi, risentito per i no di Meloni - in particolare su Licia Ronzulli, che il Cav vuole fortemente in Consiglio dei ministri - sembra ora rimettere tutto in discussione. Così il ministero della Giustizia potrebbe diventare una pedina di scambio, la casella da cedere per mettere a posto qualcosa e trovare la faticosa quadratura del cerchio. Via Arenula potrebbe dunque finire molto verosimilmente in mano a Forza Italia. E in ambienti azzurri circola già la voce che sia la presidente del Senato uscente quella in vantaggio. Ma il nome di Casellati non sarebbe particolarmente gradito a Meloni, che dunque potrebbe accettare la nomina di Sisto e calmare gli animi almeno su questo fronte. Questo nonostante la leader di Fratelli d’Italia non sia d’accordo con alcune delle riforme che lo stesso Berlusconi metterebbe tra le priorità, a partire dalla cancellazione della legge Severino, la norma che fece decadere il Cav nel 2013 e che, in caso di condanna nel processo Ruby ter, potrebbe farlo uscire da Palazzo Madama poco dopo averci rimesso piede. Meloni non ha nascosto la sua contrarietà a questa possibilità, durante la raccolta firme per i referendum, “eliminando” dai suoi gazebo i quesiti sulle misure cautelari e sulla legge Severino. Cancellare quest’ultima, aveva infatti evidenziato, sarebbe “un passo indietro nella lotta alla corruzione e rischierebbe di dare il potere ad alcuni magistrati di scegliere quali politici condannati far ricandidare e quali interdire dai pubblici uffici”. Un punto di distanza rispetto alla posizione di Nordio, convinto invece che la norma “non serve assolutamente a nulla e confligge con la presunzione di innocenza che è prevista dalla Costituzione”. L’ex magistrato, durante le sue interviste, non ha mai nascosto di preferire un ruolo più pragmatico, come quello di presidente della Commissione giustizia, “in quanto è lì che si elaborano le leggi”. Ma è comunque pronto, qualora dovesse ricevere l’incarico, a fare la sua parte come ministro. Bongiorno fuori dai giochi. E Meloni potrebbe rinunciare a Nordio come ministro della Giustizia - “Il primo atto che farei - ha dichiarato all’Adnkronos poco prima di mettere piede alla Camera ieri - sarebbe accelerare al massimo i processi civili e penali perché la giustizia, in questo momento, è anche un fatto economico e in una fase di grande crisi finanziaria ed economica questo potrebbe avere un’efficacia positiva e immediata. In questo momento l’impatto economico è quello più urgente”. Un linguaggio che piace a Meloni, concentrata, in questo momento, più sulle urgenze economiche che sulle riforme della Giustizia. Che potrebbero comunque partire per via traversa, ovvero attraverso le riforme costituzionali annunciate da Fratelli d’Italia e rispolverando l’antico progetto di Marcello Pera, quotato come ministro delle Riforme Costituzionali, che prevedeva due obiettivi: “Unicità della giurisdizione” e “Separazione delle carriere. Diversificazione del Consiglio superiore della magistratura. Fissazione delle priorità nell’esercizio dell’azione penale”. Quel che è certo, dunque, è che per ora a rimanere fuori dai giochi è la Lega, che a via Arenula avrebbe piazzato molto volentieri Giulia Bongiorno. Ma la partita a poker del Carroccio con Giorgia Meloni si sta svolgendo su altri piani, mentre il confronto tra i leader continua. Csm: così la riforma Cartabia è riuscita solo a rafforzare le correnti di Antonio Esposito Il Fatto Quotidiano, 13 ottobre 2022 Come previsto, la “riforma Cartabia” sul sistema di elezione dei membri togati del Csm ha avuto l’effetto di rafforzare lo strapotere delle correnti dell’Anm - (vere e proprie metastasi del Csm) - che sono riuscite a far eleggere ben 19 componenti su 20 travolgendo gli oltre 40 candidati tra “Indipendenti”, “sorteggiati ex lege per parità di genere” e altri “sorteggiati con la presenza di un notaio”. Solo uno di questi ultimi è stato eletto (grazie ai resti del proporzionale). Hanno vinto - come era prevedibile, atteso il sistema elettorale adottato - le correnti maggioritarie e, cioè, “M.I.” con 7 togati ed “Area” con 6, mentre “Unicost” ne ha eletti 4 e “M.D.” 2 (di cui 1 P.M., neo-fuoriuscito di Area, che ha corso con il sostegno della corrente M.D.). Naturalmente, sono stati eletti “pezzi da 90” della vita associativa e correntizia come Maurizio Carbone, ex segretario generale dell’ANM ed ex Presidente nazionale di Area; e come Paola D’Ovidio, segretario generale di M.I.; e così Eduardo Cilenti ex segretario generale ANM, componente commissione per la riforma del CSM presso il Ministero di Giustizia, e componente eletto dell’organo di autogoverno della giustizia tributaria; e, così, anche Antonello Cosentino (Area), ex Presidente della giunta esecutiva dell’ANM presso la Cassazione; e, così, ancora, Tullio Morello, ritenuto esponente di punta di Area. Non ce l’ha fatta un magistrato importante e noto come Woodcock, così come non ce l’hanno fatta altri magistrati abbastanza noti come Carlo La Speranza e Gregorio Capasso, a dimostrazione che, anche con la riforma Cartabia, senza il sostegno delle correnti non si va da nessuna parte. Va ricordato che la riforma del sistema elettorale ha trovato la sua genesi nella circostanza che nel 2019, il CSM era stato travolto da polemiche e scandali legati al fenomeno delle degenerazioni delle correnti dell’ANM che avevano, da anni, occupato ed inquinato il CSM. Orbene, atteso l’effetto perverso scaturito dal nuovo sistema elettorale, sorgono spontanee alcune domande da porsi rispettivamente al Capo dello Stato, alla ministra di Giustizia, l’ex ciellina Cartabia e a quei magistrati (la maggior parte) che hanno votato per i candidati delle correnti. Che cosa ne pensa il Capo dello Stato, che è anche il Presidente del CSM - preso atto dei risultati della riforma - del fatto che sia la classe politica che i magistrati hanno disatteso i suoi moniti, lanciati all’indomani dello scandalo dell’indegno “mercato delle nomine”, con i quali aveva invitato - atteso il “quadro sconcertante ed inaccettabile emerso” - appunto, la classe politica e i magistrati a provvedere alla “riforma della composizione e formazione del C.S.M. con il superamento di logiche di appartenenza”, e “a porre attenzione critica al ruolo e alla utilità stessa delle correnti interne alla vita associativa dei magistrati”? Che cosa pensa dei risultati della riforma, la ministra Cartabia che istituì, nel marzo 2021, la commissione ministeriale che, nella relazione conclusiva per la riforma del CSM, aveva indicato le modifiche da attuare per “ostacolare il consolidarsi di aggregazioni di interessi che trascendano il corretto esercizio delle funzioni consiliari” e “nell’ottica di ridurre il peso delle correnti nella competizione elettorale”? Ed, infine, c’è da chiedersi se, tra i tanti magistrati che hanno votato per i candidati delle correnti, non ci siano anche quelli che, quando il torbido sistema stava per crollare, cercavano ipocriticamente scampo denunziando il malcostume - (per anni denunciato, invano, dal Fatto Quotidiano e da tutti i magistrati conosciuto) - e gridavano: “No alle logiche spartitorie”; “basta degenerazioni correntizie e giochi di potere”, volevano recuperare “l’etica della funzione” e cambiare “metodi di selezione e di rappresentanza” e invocavano “il riscatto o saremo perduti”. Il torbido sistema non è crollato, il riscatto non c’è stato; vi è stata, invece, l’impostura, consueta in questo Paese di “Gattopardi”, di invocare (fraudolentemente) il cambiamento perché nulla cambi per poter così festeggiare: “lunga vita alle correnti” (che garantiscono prestigiosi incarichi e brillanti carriere). “Sulla giustizia basta scontri, ma indipendenza e autonomia sono sacre” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 ottobre 2022 Si apre domani a Roma e proseguirà fino a domenica il 35esimo Congresso dell’Associazione nazionale magistrati. Facciamo il punto con Salvatore Casciaro, segretario generale dell’Anm. Dottor Casciaro il titolo dell’assise è “Diritti e giurisdizione al tempo della ripresa”. Qual è lo stato di salute dei due? Siamo in una fase di transizione, è in atto un profondo progetto di riforma che riguarda diversi campi del diritto e viviamo tutti attese di cambiamento. Ma siamo anche pervasi da inquietudini, con una pandemia che non è ancora dietro le spalle e una guerra nel cuore dell’Europa che porta con sé una crisi economica ed energetica che si riflette sul tessuto sociale del Paese. Di qui il titolo del congresso che vuole esprimere questa spinta a “progredire”: di certo, verso una giustizia più rapida, in cui però l’efficienza non si trasforma in modello ideologico e non si afferma a scapito della qualità della risposta giudiziaria. Questo incontro inizia all’indomani dell’elezione dei presidenti di Camera e Senato. Si entra nel vivo della nuova legislatura. Che clima avverte da parte della politica nei confronti dei problemi della magistratura e della giustizia? La giustizia è stata a lungo terreno di scontro e, in questo approccio divisivo, si sono talora persi di vista gli interessi della collettività. L’auspicio è che si possa avviare una fase nuova e che si passi a un confronto sereno, affrontando le emergenze che toccano più da vicino i cittadini. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza mette giustamente al centro la giustizia civile, che guarda alle esigenze di coloro che, rivolgendosi al giudice, confidano di risolvere i problemi quotidiani delle loro vite. Prima ancora che all’Europa, a quei cittadini occorre dare risposte. Forze politiche del centrodestra durante la campagna elettorale hanno parlato di separazione delle carriere e inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Si prospetta una stagione di conflitti tra magistratura e politica? La buona politica muove dalla dialettica delle contrapposte visioni e approda a una sintesi, e, in questo percorso, unisce le migliori forze del Paese. Di questo mi pare, almeno dai primi annunci degli esponenti politici, vi sia una piena consapevolezza. È chiaro che le scelte di fondo sulla giustizia competono alla politica, ma mi attendo si sviluppino nel rispetto dei principi cardine dell’autonomia e dell’indipendenza della magistratura. A fronte di soluzioni che dovessero entrare in frizione con tali principi, l’Anm avrebbe il diritto/dovere di fornire il suo contributo di scienza ed esperienza per chiarirne i potenziali effetti sui diritti dei cittadini. Che caratteristiche deve avere il nuovo ministro della Giustizia? Non spetta a me dirlo, chiunque sia spero abbia una predisposizione all’ascolto dei problemi del mondo della giustizia che sono gravi e molto urgenti. Pensi che proprio adesso, che miriamo ad abbattere l’arretrato del 90% e i tempi dei processi civili del 40%, abbiamo ben 1.600 magistrati in meno rispetto alla pianta organica, con una percentuale di scopertura che raggiungerà a breve la soglia del 20%. Le sembra possibile? Ecco, spero che il nuovo ministro sia pronto a misurarsi con pragmatismo sui quotidiani affanni della giurisdizione. Fonti di maggioranza fanno trapelare che probabilmente il nuovo Governo non sarebbe interessato ad esercitare la delega per la riforma del Csm e dell’Ordinamento giudiziario. Un male o un bene? Come sa, abbiamo evidenziato, e cercato di comunicare all’opinione pubblica, quali fossero i pericoli insiti nella riforma ordinamentale varata nella precedente legislatura, in relazione alla quale abbiamo manifestato, restando ahimè inascoltati, la nostra ferma contrarietà, anche attraverso la sofferta decisione dello sciopero. Attenderemo di conoscere le posizioni del nuovo esecutivo sull’esercizio della delega, è presto per fare delle valutazioni. Una tavola rotonda del Congresso è dedicata al tema delle carceri: un’emergenza infinita, che conta già 67 suicidi dall’inizio dell’anno. Che fare? C’è tanto da fare, il nemico invisibile è l’immobilismo. Serve intervenire sulle situazioni di sovraffollamento carcerario, ma anche assicurare assistenza psicologica a chi è in difficoltà e nuovi investimenti per la manutenzione degli istituti e per il personale della polizia penitenziaria. Umanità del trattamento e rieducazione del condannato sono concetti che vanno declinati nel rispetto della dignità delle persone. Dalla magistratura non manca un appello all’elezione dei membri laici del Csm. Sente anche lei il timore che possano essere candidate figure che hanno perso la poltrona politica? L’auspicio è che siano presto nominati i membri laici e che il Consiglio superiore della magistratura, nella nuova composizione, possa svolgere a pieno la sua funzione con personalità di alto profilo che contribuiscano a un recupero di autorevolezza e credibilità dopo una stagione a dir poco tormentata. Non è affatto escluso che pure il vicepresidente sia un soggetto di centrodestra. Qualora, ad esempio fuori dal contesto istituzionale del Csm, si dicesse a favore della separazione delle carriere, cosa potrebbe succedere in tema di rapporti con i togati? Uno scontro? Siamo nel campo delle pure ipotesi. Mi lasci soltanto dire che è una idea pittoresca quella che descrive la magistratura associata costantemente sul piede di guerra. Roberto Giachetti (Iv): “Un radicale al Csm sarebbe una garanzia” di Angela Stella Il Riformista, 13 ottobre 2022 “Ha tutti i titoli per essere candidato ed eletto”, dice il deputato di Iv che con l’avvocato Rossodivita ha condiviso tante battaglie. Separazione delle carriere? “La politica ha ancora paura delle toghe”. Onorevole Roberto Giachetti (Italia Viva), nel centrodestra due forze politiche si dichiarano apertamente e contemporaneamente garantiste e giustizialiste. Come ha detto Fiandaca “non esiste un garantismo dimidiato”... La Lega ha avuto solo una breve parentesi garantista, quella sui referendum ‘giustizia giusta’ promossi con il Partito Radicale. Poi mi pare che si sia riappropriata della veste giustizialista, non solo in tema di esecuzione penale. Con Fratelli d’Italia siamo in una situazione molto simile: loro non hanno firmato neanche tutti i referendum, non sono mai stati particolarmente garantisti. Il tema però è un altro. Quale? Fratelli d’Italia ha candidato Carlo Nordio. Qui ci sono due possibilità: o lui si presta a fare la foglia di fico - ma conoscendolo dubito possa essere così - o rappresenta - come auspico - un cambio di linea di Fd’I in tema di giustizia. Troppo ottimista onorevole. Nordio, appena uscito dall’assemblea dei parlamentari, ha dichiarato: “Bisogna almeno per ora lasciar da parte tutte le situazioni più divisive anche con la magistratura. La cosa più importante da fare è rendere la giustizia più efficiente e più rapida”. Si allontanano quelle riforme come separazione delle carriere o inappellabilità delle sentenze di assoluzione... Questo, purtroppo, è un disco rotto che si ripete. Pure Berlusconi quando ha avuto i numeri in Parlamento non ha fatto le riforme strutturali della giustizia che aveva promesso. Casomai lo ricordiamo per il lodo Alfano. Adesso come allora in campagna elettorale si dicono determinate cose, pure rispondendo all’appello dell’Unione Camere Penali, poi improvvisamente si fa marcia indietro. Anche noi abbiamo risposto positivamente a quell’appello e andremo avanti, sfidando tutti coloro che si erano detti d’accordo sulle riforme liberali della giustizia. La politica ha ancora paura della magistratura? Sì: ogni volta che la politica si avvicina alla concreta possibilità di mettere in campo delle riforme che limitano lo strapotere della magistratura immediatamente arriva una inchiesta che, casomai dopo quattro o cinque anni, finisce nel nulla. Ma è sufficiente a far bloccare tutto. La politica non è in grado di prendersi le responsabilità che le competono. Dall’altra parte c’è un Anm che interviene su ogni tentativo riformatore non gradito, addirittura scioperando, come avvenuto qualche mese fa, benché la Costituzione preveda che noi facciamo le leggi e i magistrati le applicano. Quindi solo il Terzo Polo è pronto a ‘sfidare’ le toghe? Togliendo il Partito Democratico, ormai succube dei Cinque Stelle, e considerato quanto detto prima sulle forze politiche di maggioranza direi di sì. Ma come ne esce il Pd dallo psicodramma che sta vivendo? Ho capito che sarebbe accaduto questo quando mi sono candidato alle primarie del 2018. Il loro pensiero è subalterno ai M5S e con ‘loro’ mi riferisco a quella parte che ha sterminato, anche con le scelte delle candidature, il residuo pensiero riformista nel Partito. Il Pd sta tornando, con una classe dirigente meno autorevole di quanto era quella del Pci, proprio al Pci. Anzi, a causa dell’alleanza con Fratoianni, il Pd si sta posizionando addirittura prima di Berlinguer. Almeno lui era contrario all’uscita dell’Italia dalla Nato, mentre gli alleati del Pd - Verdi e Sinistra italiana - si sono opposti all’ingresso di Svezia e Finlandia nell’Alleanza atlantica. Sa qual è la cosa che mi fa più male? Dica... È vedere come un partito con la storia del Pd si stia facendo beffeggiare ed umiliare dal M5S. C’è grande preoccupazione per le carceri. Con questa maggioranza si rischiano passi indietro... Come non essere preoccupati! Ormai abbiamo i giorni scanditi dai suicidi dei detenuti, a cui si aggiungono molti atti di autolesionismo che per fortuna non sfociano in decessi. La politica, o meglio le forze di maggioranza, invece di agire per impedire che certe cose avvengano fanno dichiarazioni per annunciare irrigidimenti dell’esecuzione penale. Manca meno di un mese all’8 novembre, termine massimo concesso dalla Corte Costituzionale per emanare una legge sull’ergastolo (non) ostativo. Cosa si aspetta? La legge venuta al momento fuori dal dibattito parlamentare è addirittura peggiorativa della norma ritenuta incompatibile con la Costituzione. Avrei auspicato che la Consulta non avesse concesso altro tempo alle Camere, quindi mi auguro che alla prossima scadenza dichiari definitivamente l’incostituzionalità della norma. Rita Bernardini ha lanciato la candidatura dell’avvocato Giuseppe Rossodivita quale laico del prossimo Consiglio Superiore della Magistratura. Che ne pensa? Mettere un radicale nell’organo di governo autonomo della magistratura sarebbe una garanzia. Conosco Rossodivita e le battaglie che ha condotto, alcune anche insieme. Penso quindi che l’idea di Rita sia assolutamente intelligente e sensata. Credo che lui abbia tutti i titoli per essere candidato ed eletto e darebbe un grande contributo ad una riforma della giustizia che inevitabilmente deve trovare anche una sua spinta all’interno del Csm. L’Aquila, sentenza choc: il 30% della colpa è dei morti di Serena Giannico Il Manifesto, 13 ottobre 2022 Il tribunale civile taglia i risarcimenti per 29 vittime del terremoto: “Dormivano, incauti”. “Voglio anche io il 30% di responsabilità”. Non sono molti, nel freddo dell’Aquila, ma i cartelli, con questa scritta, campeggiano, all’imbrunire, in un sit-in al Parco della Memoria. Essi testimoniano l’aperto dissenso della città nei confronti di una sentenza che si è abbattuta, come un fulmine, sul capoluogo d’Abruzzo. È stata emessa dal Tribunale civile che, accogliendo un’eccezione sollevata dall’Avvocatura di Stato, ha attribuito il 30% della colpa, per i morti causati dal sisma del 2009, alle stesse vittime. Il verdetto delle scorse ore è arrivato a seguito del ricorso di alcune famiglie che hanno chiesto di essere risarcite per la perdita dei propri cari nel crollo della palazzina di Via Campo di Fossa, sotto cui sono rimasti sepolti in 29. Hanno inoltre chiesto la “condanna in solido” dei ministeri delle Infrastrutture e dei Trasporti e dell’Interno, della Prefettura, del Genio Civile, del Comune dell’Aquila, e degli eredi del costruttore Luigi Del Beato. Per i ricorrenti, “il collasso della palazzina è imputabile a gravi vizi di progettazione e di realizzazione, nonché carenze nel calcestruzzo, quanto a elevata variabilità del materiale impiegato e cattiva esecuzione nella ripresa dei getti, come documentato dalle consulenze tecniche espletate”. Negli atti hanno anche evidenziato che si tratta di edificio “difforme dalle norme all’epoca vigenti” e sottolineato l’omessa vigilanza degli enti preposti. Ok del giudice Monica Croci al risarcimento, ma solo parziale. La sentenza, infatti, attribuisce il 40% di colpa agli eredi del costruttore; il 15% a ciascuno dei ministeri tirati in ballo. Ma - recita il dispositivo - “è fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime, costituendo obiettivamente una condotta incauta, quella di trattenersi a dormire, così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa…”. “Vergogna infinita - commenta l’avvocato Maria Grazia Piccinini, di Lanciano (Ch), madre di Ilaria Rambaldi, studentessa universitaria di Ingegneria deceduta in Via Campo di Fossa - attribuire colpe alle vittime, perché significa non conoscere la storia di quel sisma e gli eventi che hanno preceduto il disastro. Una ricostruzione fantasiosa, con concetti precostituiti. Erano le 3.32, dove doveva stare mia figlia, se non a dormire? A L’Aquila, dopo le prime scosse, tutti sono rientrati. Non c’era un allarme, non c’era un campo dove potersi rifugiare, non c’era nulla. Dove sarebbe dovuta andare mia figlia?”. “Arrabbiato a attonito” si definisce l’allora sindaco dell’Aquila, Massimo Cialente, che ricorda “il bollettino rassicurante della Protezione civile regionale del 30 marzo. Parlava di normale andamento sismico”. “Un pericoloso precedente”, secondo la senatrice pentastellata Gabriella Di Girolamo, mentre il forzista Antonio Tajani in un tweet spera in “una riforma in appello”. Vincenzo Vittorini dell’associazione “309 martiri dell’Aquila”, che sotto le macerie ha perso moglie e figlia, dichiara che è una sentenza “assurda, scandalosa e offensiva” che “lascia esterrefatti, perché è assurdo imputare una concausa alle vittime rimaste a casa quando una sentenza passata in giudicato ha acclarato che ci fu una rassicurazione della popolazione, con la condanna dell’allora vice capo del Dipartimento della Protezione civile”. “Nessuno di noi aquilani - fa presente Fabrizio Giustizieri, tra coloro che hanno inscenato la pacifica protesta - quella notte ha pensato di dormire fuori casa perché nelle settimane e nei giorni precedenti eravamo stati ampiamente rassicurati da autorità ed esperti. Tutti, qui, ricordiamo l’intervista di Bernardo De Bernardinis, l’unico condannato dopo il disastro a due anni, nel processo d’Appello alla Commissione Grandi Rischi. “Più scosse ci sono, - affermò - meglio è, significa che sta rilasciando energia”, che scarica. Quindi, siccome le scosse forti, quella notte c’erano già state, pensavamo che il peggio fosse passato. Poi, visto che lo sciame sismico andava avanti da sei mesi, avremmo dovuto dormire fuori casa per mesi. Ma, ripeto, nessuno, per le rassicurazioni avute, nessuno ha pensato, quella sera, ad una catastrofe imminente”. Terremoto dell’Aquila, ridotti i risarcimenti: “Fu anche colpa delle vittime” di Valentina Stella Il Dubbio, 13 ottobre 2022 Inferocita l’avvocato Maria Grazia Piccinini, madre di Ilaria Rambaldi, studentessa universitaria di Ingegneria deceduta in via Campo di Fossa. Shock, sgomento, incredulità: sono state queste ieri le prime reazioni alla sentenza del Tribunale civile di L’Aquila che ha disposto il risarcimento solo parziale per i familiari di alcune persone morte per il crollo di un palazzo di via Campo di Fossa nel capoluogo abruzzese, avvenuto a causa del terremoto il 6 aprile 2009. Nel crollo della palazzina di sei piani persero la vita ventinove persone. Infatti, una porzione della colpa per quanto accaduto è da attribuire alle stesse vittime secondo il giudice Monica Croci. Vediamo cosa scrive il togato nelle ventuno pagine di sentenza: “È fondata l’eccezione di concorso di colpa delle vittime ai sensi dell’art. 1227 I comma c.c., costituendo obiettivamente una condotta incauta quella di trattenersi a dormire - così privandosi della possibilità di allontanarsi immediatamente dall’edificio al verificarsi della scossa - nonostante il notorio verificarsi di due scosse nella serata del 5 aprile e poco dopo la mezzanotte del 6 aprile, concorso che, tenuto conto dell’affidamento che i soggetti poi defunti potevano riporre nella capacità dell’edificio di resistere al sisma per essere lo stesso in cemento armato e rimasto in piedi nel corso dello sciame sismico da mesi in atto, può stimarsi in misura del 30% (art. 1127 I co. c.c.), con conseguente proporzionale riduzione del credito risarcitorio degli odierni attori”. A sollevare l’eccezione erano stati il ministero delle Infrastrutture e dei Trasporti e il ministero dell’Interno per la prefettura di L’Aquila, chiamati in giudizio per non aver “diligentemente adempiuto ai compiti di vigilanza e controllo di rispettiva competenza in materia edilizia”, e gli eredi del costruttore e primo proprietario chiamati in giudizio per “i vizi nell’edificazione del palazzo”. Insieme a questi, i parenti ed eredi di alcune vittime avevano chiamato in giudizio anche il Comune di L’Aquila, “che aveva rilasciato il certificato di abitabilità nonostante le difformità tra il fabbricato realizzato e quello assentito”. Dunque il giudice alla fine ha condannato a risarcire il costruttore dell’edificio e i suoi eredi e i ministeri chiamati in causa. La colpa degli eredi, per quanto avvenuto, ha sostenuto il giudice è del 40 per cento; i dicasteri, per le omissioni di Genio civile e Prefettura, debbono rispondere per un 15 per cento ciascuno. E il restante 30 per cento di colpa è da addebitare alle vittime. “Una sentenza - ha commentato furibonda l’avvocato Maria Grazia Piccinini, di Lanciano (Ch), madre di Ilaria Rambaldi, studentessa universitaria di Ingegneria deceduta in via Campo di Fossa - che appare assurda, a voler esser buoni. Scopro, dopo aver atteso quasi quattordici anni, che a L’Aquila erano tutti aspiranti… suicidi… Una vergogna infinita attribuire colpe alle vittime, - ha continuato la donna, che è anche presidente dell’Associazione “Ilaria Rambaldi Onlus” - perché significa non conoscere la storia di quel sisma e gli eventi che hanno preceduto il disastro. Una ricostruzione fantasiosa, con concetti precostituiti. Erano le 3.32 dove doveva stare mia figlia, se non a dormire? A L’Aquila, dopo le prime scosse, tutti sono rientrati a casa. Non c’era un allarme, non c’era un campo dove potersi rifugiare, non c’era nulla… Dove sarebbe dovuta andare mia figlia? Inaudito. Ma faremo ricorso”. Nella sentenza di primo grado del tribunale dell’Aquila sulla Commissione Grandi Rischi, riguardo alla posizione di Ilaria Rambaldi si legge: “La conoscenza dell’esito della riunione della Grandi Rischi ha influenzato in modo determinante la decisione di Ilaria Rambaldi di rimanere all’Aquila, e di non fare rientro a Lanciano”. Ricordiamo che in quel processo, dopo una condanna in primo grado a sei anni per omicidio e lesioni colpose per sei scienziati della Cgr, l’appello ribaltò tutto lasciando solo una condanna a due anni per uno di loro, l’ex vice capo del settore tecnico della Protezione Civile. Tutto confermato in Cassazione. Sulla sentenza civile invece è arrivato anche il commento di Nicola Alemanno, sindaco di Norcia, duramente colpita dal terremoto del 2016: “In un evento come il terremoto non credo che si possa mai dare la responsabilità alle vittime”, anche perché “in quegli attimi e quasi sempre prevale la paura che ti fa adottare comportamenti che non sono mai in linea con la logica”. “Di sentenze di risarcimento civile per il sisma del 6 aprile 2009 all’Aquila ce ne sono state fin qui parecchie, ma in nessuna di queste è mai stato evocato il concorso di colpa”, ha spiegato all’Ansa l’avvocato Wania Della Vigna, che ha seguito le vicende dei parenti delle vittime per la Casa dello Studente o per altri fabbricati di via Campo di Fossa. Da Twitter si esprime Antonio Tajani, coordinatore nazionale di Forza Italia: “Chi affronta un terremoto non può mai essere colpevole di morire. Immaginate la paura in quegli attimi. Mi auguro che la sentenza cambi in appello”. Gli Scarpinato passano, la “Trattativa” è per sempre di Tiziana Maiolo Il Riformista, 13 ottobre 2022 L’ex capo è ormai in pensione ma i magistrati di Palermo non vogliono rassegnarsi al flop del processo “Stato-Mafia”. Per loro la sentenza che ha assolto Dell’Utri e i Ros è “illogica e lacunosa”. Roberto Scarpinato è ormai in pensione, ma gli uomini della procura generale di Palermo non si arrendono. Fine trattativa mai, dunque? “Trattativa” deve essere, quindi si corre fino all’ultimo gradino della giustizia, con il ricorso in cassazione contro la sentenza che ha mandato assolti i vertici dei Ros e il senatore Dell’Utri. Per loro la sentenza del settembre 2021 è “contraddittoria”, “illogica” e “lacunosa”. Avrebbe dovuto trattare tutti gli imputati come amici dei mafiosi, per essere coerente, logica e completa? Quella decisione, che ribaltava le conclusioni del processo di primo grado, ma si uniformava al provvedimento che, in rito abbreviato, aveva assolto il senatore Calogero Mannino, era invece molto logica. Solo che, nelle tremila pagine della motivazione divisa in tre parti, sia nella ricostruzione dei fatti che nella loro interpretazione, prendeva le distanze da quella suggestione che aveva preteso di interpretare un pezzo di storia italiana solo come storia criminale e di complicità tra i boss e le divise. La criminalità c’era, eccome, in quei primi anni novanta, e aveva la faccia feroce della mafia dei corleonesi. Si parte dall’uccisione di Salvo Lima nel marzo 1992 e poi di Giovanni Falcone nel maggio successivo. Lo Stato annichilito e tutti i boss mafiosi, a partire da Totò Riina, latitanti. Se in quei giorni gli alti ufficiali del Ros dei carabinieri Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno avevano aperto un canale di comunicazione con Cosa Nostra non lo avevano certo fatto per complicità con la mafia e neanche solo per proteggere uomini politici come Mannino. Ma semmai al contrario per far cessare le stragi e salvare vite umane. Fini di solidarietà e di generosità, quindi. Attività anti-mafiose, non mafiose come invece riteneva la Procura degli Ingroia e dei Di Matteo, e anche i giudici che avevano emesso la sentenza di primo grado. I giudici della corte d’assise d’appello presieduta da Antonio Pellino avevano prima di tutto sgombrato il campo dall’accusa più offensiva e degradante, la complicità, ma anche quella di aver obbedito a ordini partiti dal mondo politico. “Scartata in partenza l’ipotesi di una collusione dei carabinieri con ambienti della criminalità mafiosa, confutata l’ipotesi che essi abbiano agito per preservare l’incolumità di questo o quell’esponente politico, deve ribadirsi che nel prodigarsi per aprire un canale di comunicazione con Cosa Nostra che creasse le premesse per avviare un possibile dialogo finalizzato alla cessazione delle stragi, furono mossi piuttosto da fini solidaristici (la salvaguardia dell’incolumità della collettività nazionale) e di tutela di un interesse generale e fondamentale dello Stato”. Neanche per sogno, ribattono oggi i successori di Roberto Scarpinato, la pg Lia Sava e i sostituti Giuseppe Fici e Sergio Barbiera, che nel processo avevano chiesto la conferma delle sentenze di condanna. Per loro gli ufficiali dei Ros “agirono consapevolmente nella certezza di ricevere richieste contrarie all’ordine pubblico, promosse da Cosa Nostra e di farsene latori innanzi gli organi istituzionali competenti per il loro soddisfacimento”. Sembra di tornare al libro di “storia trattativa” scritto dal re delle bufale Massimo Ciancimino, che aveva inventato di sana pianta (e per questo è stato condannato) il “papello” con cui Totò Riina avrebbe avanzato le proprie richieste allo Stato. Se quell’ipotesi è da tempo vanificata, perché i procuratori di Palermo la usano di nuovo per accusare i vertici dei carabinieri di aver aderito a richieste che non c’erano? E in che cosa la loro assoluzione sarebbe contraddittoria e illogica? Sembra di rileggere gli scritti di Travaglio dei giorni successivi alla sentenza d’appello. Se sono condannati i mafiosi, scriveva il direttore del Fatto, allora devono andare in galera anche gli uomini dei Ros. Come se mafia e anti-mafia fossero sullo stesso piano, come se commettere le stragi o invece adoperarsi per farle cessare fossero azioni equivalenti e con contrapposte. Bisognerebbe avere allora il coraggio di dire che, se quegli uomini dello Stato hanno agito con dolo e consapevolezza di porsi fuori della legalità per attentare all’incolumità dei poteri dello Stato medesimo, forse erano davvero complici dei mafiosi. Forse mafiosi loro stessi. Diversamente (e una volta uscito dal processo quel Calogero Mannino che era indicato come il mandante politico di tutta l’operazione) ci troveremmo davanti a delitti privi di movente. più inconsistente appare il ricorso in cassazione contro l’assoluzione di Marcello Dell’Utri. Che viene descritto come “navigato ed esperto uomo di confine tra Cosa Nostra e le alte sfere dell’imprenditoria nazionale”. E anche come “amico scomodo” di Silvio Berlusconi e “uomo comunque di straordinaria intelligenza e straordinaria capacità”. Una sorta di genio del male, insomma. Dell’Utri avrebbe avuto il compito, sempre nella suggestione del “romanzo Trattativa” di ricattare colui che allora era Presidente del Consiglio, da parte delle cosche. Un postino, che però non ha fatto il suo dovere. Perché nel percorso compiuto nel suo ruolo di messaggero, si sarebbe fermato, secondo i giudici che lo hanno assolto, “all’ultimo miglio”. È proprio questo soggiorno nell’area di sosta precedente il traguardo che non convince i procuratori di Palermo. Ma figuriamoci, scrivono, se Dell’Utri, latore di un messaggio così importante dei suoi amici di Cosa Nostra, se lo è tenuto per sé e non lo ha riferito al destinatario. Chiaro il tentativo, l’ennesimo, di tirar dentro anche il leader di Forza Italia, cercando di trasformarlo da ipotetica vittima di un ricatto a compartecipe della banda-trattativa. Peccato che il governo Berlusconi abbia subito prorogato il 41-bis, non facendo certo un favore a Totò Riina che vi era appena approdato. De Girolamo assolta, Caiazza: “L’appello del pm va abolito” di Errico Novi Il Dubbio, 13 ottobre 2022 Il presidente dell’Unione Camere penali è, con Domenico Di Terlizzi, difensore dell’ex ministra che ha visto confermata in secondo grado la propria innocenza. “Restare sospesi all’ipotesi accusatoria dopo una pronuncia favorevole è assurdo: il Parlamento si è impegnato a eliminare questo vulnus, come chiesto da noi penalisti”, dice il leader dell’Ucpi. È un caso lampante. Emblematico. Già quando il 10 dicembre del 2020 Nunzia De Girolamo e altri 7 imputati nell’indagine sulla presunta corruzione all’Asl di Benevento vennero assolti in primo grado dal Tribunale sannita, apparve chiaro il vulnus profondo del sistema penale, che impiega anche 7 anni (l’inchiesta nasce nel 2013) per accertare l’innocenza di una persona, nel frattempo costretta a perdere tutto. Ma quando ieri la Corte d’appello beneventana ha confermato la pronuncia di primo grado, è emersa un’altra cosa con estrema chiarezza: l’assurdità di un meccanismo che consente alla pubblica accusa il ricorso contro le assoluzioni. È una riforma, quella che vieterebbe l’appello del pm contro chi è stato riconosciuto innocente, “invocata come assoluta priorità da noi dell’Unione Camere penali”, spiega, al Dubbio, Gian Domenico Caiazza, che dei penalisti italiani è presidente. “Ci siamo rivolti al Parlamento, e dalle risposte ottenute sembra manifestarsi una maggioranza amplissima, nelle nuove Camere, a favore di questa modifica, per noi essenziale”. Caiazza è anche il difensore di De Girolamo, insieme con l’avvocato Domenico Di Terlizzi, nella lunga e dolorosa vicenda di Benevento. Lei, la protagonista più visibile, ha commentato stamattina su twitter: “Per il linciaggio mediatico, nel 2014, mi sono dimessa da Ministro. Non ero nemmeno indagata. Prime pagine, titoli roboanti. Per l’assoluzione, invece, tre righe per le quali serve il binocolo. Io mi dimisi, oggi nessuno ha coraggio di chiedere SCUSA. Questione di stile, credo”. Difficile darle torto. Difficile non comprendere la sua rabbia. Ma non si tratta di un paradosso che riguarda solo le persone particolarmente esposte come i politici. Come l’ex ministra delle Politiche agricole, adesso apprezzata conduttrice tv, costretta a lasciare non solo il governo, nel 2014, ma la politica tout court. “Perché nel momento in cui ti viene scaricata addosso un’accusa di associazione a delinquere finalizzata alla corruzione, be’, hai poco scampo”, osserva Caiazza. Che si sofferma su quell’aspetto, lampante: “Il caso De Girolamo rimanda alla riforma da noi reclamata. In modo chiarissimo. Fa emergere tutti i danni che possono derivare dal ricorso su un’assoluzione. Iniziativa che tiene in piedi il procedimento, l’ipotesi accusatoria. E che dunque vanifica il proscioglimento. Con conseguenze di reputazione ed economiche tangibili, per l’imputato”. Ecco. Si deve mettere a fuoco la condizione dell’assolto che non vede finito “l’incubo”, come lo ha definito l’ex ministra. “C’è un vizio di sistema”, dice ancora Caiazza al Dubbio. “È chiaro che l’impugnazione in molti casi è pretestuosa. Come nel processo in cui ho difeso De Girolamo, il magistrato che ricorre sembra non tener conto di risultanze evidenti. Ci si può innamorare della propria indagine. Ma non è solo questo. È che sul piano professionale, si è quasi costretti a non rassegnarsi al verdetto assolutorio. Il magistrato dell’accusa che accetta la sentenza di proscioglimento dichiara implicitamente che le sue ipotesi erano sbagliate, che tutta la sua indagine è stata sbagliata. E qual è il pm disposto a esporsi in questi termini? D’altronde, se insiste, come nel caso del processo sull’Asl di Benevento, e viene di nuovo smentito, non paga. A pagare è solo l’imputato”. Dovrebbe restare solo la possibilità di ricorrere per Cassazione. Opzione presidiata da una norma costituzionale. “Certo”, osserva il presidente dell’Unione Camere penali, “ma se invece il ricorso per Cassazione si somma all’impugnazione di merito, i tempi diventano insostenibili, al punto da stritolare una persona”. E infatti, dopo due giudizi di merito, anche in un caso come quello di De Girolamo e degli altri 5 imputati trascinati in secondo grado e, come lei, di nuovo assolti (Giacomo Papa, Luigi Barone, Michele Rossi, Felice Pisapia e Arnaldo Falato), il ricorso del pm al giudice di legittimità è tuttora una minaccia. Dopo 9 anni di procedimento, se ne potrebbero aggiungere un altro, o altri due. “E già trascorsero quattro anni tra l’avvio dell’indagine e l’inizio del primo grado. De Girolamo si è dimessa da ministra. Ha dovuto cambiare mestiere. Pensiamo anche al libero professionista, all’imprenditore, al pubblico dipendente che resta prigioniero del processo seppur assolto. E quando pure in appello arriva una condanna, dove va a finire il principio del ragionevole dubbio? Come posso essere tranquillizzato da una pronuncia di colpevolezza emessa da tre giudici in secondo grado dopo che altri tre giudici avevano prosciolto l’imputato? Siamo di fronte a un paradosso non sopportabile”, ribadisce Caiazza, “il Parlamento, ora che le condizioni ci sono, non può fare a meno di intervenire”. Omicidio Lidia Macchi, 300mila euro di indennizzo a Binda per ingiusta detenzione Il Dubbio, 13 ottobre 2022 Il caso di Lidia Macchi è l’ultimo di una serie di indennizzi per ingiusta detenzione. Lo stato paga milioni di euro per errori giudiziari. L’errore giudiziario per l’omicidio di Lidia Macchi vale un indennizzo per ingiusta detenzione di circa 300mila euro. Anzi, 303.277,38 euro. E’ l’indennizzo che la quinta sezione della corte d’Appello di Milano ha riconosciuto a Stefano Binda, che ha passato 1268 giorni in galera da innocente. Binda era accusato di aver ucciso Lidia Macchi nel 1987. Il caso Lidia Macchi - L’omicidio di Lidia Macchi fu commesso il 5 gennaio 1987 vicino a Cittiglio. Lidia, che aveva 20 anni, era stata a trovare un’amica in ospedale. Il suo corpo, martoriato da numerose coltellate, venne ritrovato in un boschetto della zona due giorni dopo. Dopo quasi 30 anni di stallo, l’inchiesta sull’omicidio di Lidia Macchi arriva a un punto di svolta il 15 gennaio 2016. Binda, 49enne, di ambienti vicini a Comunione e Liberazione, viene arrestato con l’accusa di omicidio volontario aggravato. Alla base dell’arresto, un confronto calligrafico tra la scrittura dell’indagato e quella di una lettera anonima recapitata alla famiglia Macchi il 10 gennaio 1987, giorno dei funerali di Lidia. L’ergastolo, poi l’assoluzione - Il 24 aprile del 2018, il processo di primo grado a Varese si conclude con la condanna all’ergastolo di Binda: secondo i giudici della Corte d’assise l’imputato uccise Lidia Macchi “per procurarsi l’impunità dal reato di violenza sessuale su di lei commesso”. Un verdetto, questo, che viene ribaltato dalla Corte d’assise d’appello di Milano il 24 luglio 2019, quando Binda viene assolto e, quindi, scarcerato. I giudici di secondo grado, nelle motivazioni della loro sentenza, parlano di “vero e proprio deserto probatorio”. Ingiuste detenzioni quanto ci costano - Ma è lungo l’elenco delle ingiuste detenzioni ed è ben più lungo e salato il conto pagato dallo stato per risarcire gli innocenti. Ecco qualche cifra: nel 2020 l’Italia ha speso 46 milioni di euro per le ingiuste detenzioni e per gli errori giudiziari. Dal 1992 al 31 dicembre 2020 le persone indennizzate sono state circa 30.000, per un totale di 870 milioni di euro. A pagare è solo lo Stato: chi ha sbagliato continua indisturbato la sua carriera. L’ingiusta detenzione di Gullotta vale 6 milioni - Giuseppe Gulotta è vittima di uno degli errori giudiziari più gravi della storia della Repubblica. E la sua ingiusta detenzione in carcere è durata 22 lunghissimi anni. Per decenni Gullotta è stato considerato un assassino. Lo costrinsero a firmare una confessione con le botte, puntandogli una pistola in faccia, torturandolo per una notte intera. Alla fine decise di autoaccusarsi: “Era l’unico modo per farli smettere”, raccontò. Quegli innocenti in galera - Circa il 29% dei detenuti non ha una condanna definitiva, il 15% è in attesa di primo giudizio. Mentre resta ampio il ricorso alla custodia cautelare, nel 2021 sono stati pagati 24 milioni di euro per gli indennizzi per ingiusta detenzione. Sono i dati che emergono dal rapporto di metà anno dell’associazione Antigone: al 30 giugno scorso, a fronte di 54.841 presenze nei penitenziari del Paese, in attesa di primo giudizio sono 8.329 detenuti, gli appellanti 3.658, i ricorrenti in Cassazione 2.693. La percentuale dei detenuti definitivi - pari al 71% - è in aumento rispetto al semestre precedente. Oristano. Detenuto si toglie la vita nel carcere di Massama La Nuova Sardegna, 13 ottobre 2022 Il Garante lancia l’allarme per la situazione carceraria. L’emergenza carceri non cessa. Stamattina quello di Massama è stato teatro di un episodio tristissimo: un detenuto romano si è infatti tolto la vita. Il personale della casa di reclusione, allertato quasi subito, ha tentato di salvargli la vita, ma purtroppo non c’è stato nulla da fare. A Massama, il detenuto era arrivato pochissimi giorni fa ed era solo in transito. Aveva infatti un’udienza in tribunale a Oristano alla quale aveva chiesto di presenziare e così era stato trasferito dal carcere al quale era assegnato. Non appena arrivato a Oristano è stato preso in carico dal personale, accolto anche dall’esame dello psicologo e da una scheda personale che non faceva trapelare problemi. Sarebbe dovuto andare via subito dopo il processo, ma non c’è stato il tempo per fargli fare rientro alla sua struttura. Preoccupazione è stata espressa dal garante dei detenuti, l’avvocato Paolo Mocci: “La gestione di casi del genere deve essere ancora calibrata, non ci sono strumenti adeguati per affrontare al meglio casi simili che riguardano persone di passaggio. A mio parere poi, la questione dei suicidi in carcere, in questo momento non viene affrontata nel migliore dei modi dal punto di vista mediatico. Le notizie suscitano clamore e le prese di posizione non mancano, ma non arrivano proposte concrete per risolvere il problema”. Milano. A 85 anni in cella a San Vittore. Il Garante dei detenuti: “Finita l’umanità” di Manuela Messina La Repubblica, 13 ottobre 2022 La donna è stata condannata a 8 mesi. Era agli arresti domiciliari, ma non è stata trovata durante un controllo. La denuncia di Antigone: “Non è neanche autosufficiente. Per età e salute deve scontare altrove la pena”. In cella a San Vittore a 85 anni per scontare una condanna definitiva di otto mesi di carcere inflitta per occupazione abusiva di un alloggio. La denuncia arriva dall’associazione Antigone, che sottolinea in una nota come “nonostante il reato non sia di grande pericolosità sociale e la pena di brevissima durata, la donna è stata tuttavia condotta nel carcere del capoluogo lombardo. Ad aggravare la situazione il fatto che la signora non è autosufficiente, richiedendo perciò un’assistenza personale e una gestione sanitaria costante da parte di altre detenute e degli operatori”. Il Garante dei detenuti del comune di Milano Francesco Maisto, che ha incontrato la donna questa mattina durante una visita in carcere, ha riferito che “la signora non era in grado di dire quanti anni aveva, non si orienta nello spazio e nel tempo, non parla, è di una gracilità assoluta”. Sempre il Garante, che ha inviato una segnalazione sulla vicenda al tribunale di sorveglianza di Milano, così come ha fatto anche la direzione del carcere di San Vittore, ha aggiunto: “Questa situazione è al limite dell’assurdo, è disarmante. E’ finita l’umanità di questi tempi, nessuno l’ha proprio guardata in faccia questa detenuta”. La donna si trovava in detenzione domiciliare per scontare la sua condanna definitiva che terminerà il prossimo 23 maggio. A seguito di un controllo in cui non è stata trovata in casa, la procura di Milano le ha revocato il decreto di sospensione dell’esecuzione della pena. L’anziana è quindi ritornata in carcere due settimane fa con un provvedimento eseguito lo scorso 27 settembre. “La vicenda - sottolinea Valeria Verdolini, responsabile della sede lombarda di Antigone - investe due questioni: la sempre maggior frequenza con cui persone anche ultrasettantenni o ultraottantenni entrano in carcere, e la questione centrale della residenza, che impedisce una vera e propria presa in carico da parte dei servizi, lasciando al penitenziario l’onere di gestione residuale. La richiesta che facciamo è che per questa anziana donna si trovi il prima possibile una soluzione che le consenta di scontare la pena in un luogo più confacente e sicuro, per la sua età e le sue condizioni di salute”. Al 30 giugno scorso, riferisce l’associazione, si contavano 1.065 detenuti che hanno più di 70 anni, “rappresentando questi quasi il 2 per cento della popolazione detenuta. Un numero - osserva il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - che negli anni recenti è in costante crescita. Serve grande attenzione per la loro condizione e, dinanzi pene brevi da scontare o residue, è fondamentale trovare alternative alla detenzione”. Trento. Al carcere di Spini ci sarebbe posto solo per 240 detenuti ma invece ce ne sono 343 di Tiziano Grottolo ildolomiti.it, 13 ottobre 2022 Nonostante le promesse del Ministero della Giustizia la situazione di sovraffollamento all’interno del carcere di Spini di Gardolo a Trento sta peggiorando: sono 343 i detenuti presenti, oltre un centinaio in più di quelli previsti. Nel frattempo i suicidi nelle carceri italiane sono arrivati a 67. Che al carcere di Spini di Gardolo a Trento ci siano dei seri problemi di sovraffollamento è cosa nota. Così come è noto che nella struttura gli agenti di polizia penitenziaria presenti siano meno rispetto a quelli previsti. Ora, grazie alla risposta ottenuta dal consigliere del Movimento 5 Stelle Alex Marini, si scoprono i numeri di questa emergenza cronica. La Casa circondariale di Trento infatti era stata pensata per accogliere 240 detenuti questi però sono ben 343 (307 uomini e 36 donne), cioè oltre un centinaio in più rispetto a quelli previsti. Ad agosto di quest’anno invece le persone incarcerate in soprannumero erano circa un’ottantina quindi la situazione è persino peggiorata. Come già anticipato non va meglio dal punto di vista del personale che deve garantire la sicurezza del carcere. Le regole (calcolate però su 240 detenuti) prevedrebbero la presenza di 3 funzionari, 27 ispettori, 65 sovrintendenti e 132 agenti per un totale di 227 unità, eppure, il personale della polizia penitenziaria della struttura si ferma a 189 unità: 2 funzionari, 10 ispettori, 9 sovrintendenti e 168 agenti. “Queste carenze - argomenta il presidente della Provincia Maurizio Fugatti - si riflettono inevitabilmente sulle condizioni lavorative del personale”. Anche i detenuti pagano le conseguenze del sovraffollamento. In molti hanno problemi di salute mentale e di tossicodipendenza (circa un terzo) che non sono seguiti adeguatamente perché mancano dei servizi adeguati. Inoltre mancano gli educatori che sono indispensabili per promuovere il reinserimento dei detenuti una volta usciti dal carcere. Come denuncia l’associazione Antigone, nel 2022, i suicidi nelle carceri italiane sono arrivati a 67 fra cui 5 donne, l’ultimo caso solo pochi giorni fa nella casa circondariale di Verziano a Brescia. Dal Ministero della Giustizia arrivano rassicurazioni e promesse ma alla prova dei fatti queste vengono quasi sempre disattese. Da tempo il presidente di Antigone, Patrizio Gonnella, chiede riforme urgenti “perché - spiegava - i suicidi registrati quest’anno hanno raggiunto numeri ancor più allarmanti e il cronico sovraffollamento delle carceri non può più essere ignorato”. Firenze. Cpr, no dalle associazioni che gestiscono l’accoglienza: “Costosi e non funzionano” di Jacopo Storni Corriere Fiorentino, 13 ottobre 2022 Il prefetto Valenti ieri ha ribadito: “Struttura piccola, ma serve consenso ampio”. Un secco “no” al Cpr arriva dalle associazioni che gestiscono l’accoglienza dei richiedenti asilo: “Costa e non serve”. Il prefetto Valenti aveva sollevato il tema dopo l’omicidio di Careggi commesso da un migrante irregolare. Le associazioni che gestiscono l’accoglienza dei richiedenti asilo dicono no al centro per il rimpatrio migranti in Toscana, idea rilanciata nei giorni scorsi dal prefetto Valerio Valenti all’indomani dell’omicidio di Careggi commesso da un migrante irregolare. “Penso che questo strumento, in piccole dimensioni al massimo di 50 posti, possa essere una buona risposta - ha ribadito anche ieri il prefetto - ma bisognerà allargare un po’ la condivisione: prima di partire bisogna avere un consenso ampio, penso sia necessario che tutti siano d’accordo”. Per gran parte delle associazioni, però, i Cpr sono pressoché inutili. “Aldilà del livello politico, il centro di rimpatrio serve a poco anche sul piano pratico e operativo” dice Mauro Storti della cooperativa Il Girasole, che gestisce parte dei migranti accolti in Toscana in varie strutture di accoglienza. Secondo Storti, “i centri per il rimpatrio non risolvono i problemi dell’illegalità dei migranti perché, semplicemente, non rimpatriano sempre e comunque le persone”. Nel senso che, precisa, “l’Italia non ha accordi bilaterali con quasi nessun Paese di provenienza dei migranti per cui è impossibile rimetterli su un aereo che dovrebbe atterrare proprio in quei Paesi”. E quindi cosa fanno i migranti nel frattempo? Il rischio è che, oltre a restare per tempi indefiniti dentro questi centri per l’espulsione, “siano rimessi in libertà con un foglio di via, come spesso è accaduto in passato, e quindi si ritorna al punto di partenza”. Ma quanti sono attualmente i migranti irregolari che sono presenti in Toscana? Non esistono cifre precise. Considerando la stima di circa 500 mila irregolari in tutta Italia, la stima per la Toscana è di circa 20-30 mila. Chi sono gli irregolari? Si tratta di persone entrate con un visto provvisorio in Italia che poi è scaduto, persone che avevano un lavoro e che poi, avendolo perso, hanno perso anche i documenti, oppure richiedenti asilo sbarcati sulle nostre coste che hanno avuto il rigetto della domanda, ma sono rimasti sul territorio. Secondo Vincenza Vicino della cooperativa Albatros, che da anni accoglie stranieri in Toscana, “i centri per il rimpatrio non sono la soluzione perché, essendoci moltissimi irregolari in Italia, queste strutture dovrebbero accogliere migliaia di persone, cosa molto complicata tecnicamente. Secondo questo schema, andrebbero costruiti centri per il rimpatrio dappertutto, una delle soluzioni potrebbe essere invece potenziare gli uffici immigrazione nelle carceri visto che l’80 per cento degli ospiti dei centri per il rimpatrio è popolazione che è stata in carcere”. Netto anche il giudizio di Giulia Capitani, Migration Policy advisor dell’associazione Oxfam: “I Cpr violano i principi del diritto internazionale” visto che “prevedono la detenzione in assenza di reato, sono luoghi dove entrano persone rispetto alle quali il provvedimento restrittivo della libertà viene emesso da un giudice di pace e non da un giudice ordinario”. E poi n contesta anche la funzionalità: “I dieci Cpr italiani sono costati allo Stato 44 milioni di euro negli ultimi tre anni e hanno rimpatriato meno del 50 per cento dei migranti ospitati”. Milano. Dove.it: detenuti al lavoro con la startup nel carcere di Bollate monitorimmobiliare.it, 13 ottobre 2022 Dove.it lancia insieme alla cooperativa sociale bee.4 altre menti un progetto per far lavorare alcuni detenuti del carcere di Bollate nella startup proptech. La partnership ha dato vita a un progetto dalla doppia finalità, sociale e di business: da un lato punta a dare un contributo al reinserimento lavorativo dei detenuti; dall’altro vuole migliorare la qualità del servizio clienti di Dove.it, affidando a un gruppo di soci lavoratori alcune attività di back office e gestione del portfolio utenti. Nata a dicembre 2018 con l’obiettivo di innovare il settore immobiliare mettendo al centro l’utilizzo della tecnologia, Dove.it supporta chi vuole vendere e comprare casa attraverso l’uso di strumenti digitali, del marketing online, dei big data e dell’intelligenza artificiale. Ma la tecnologia è in mano alle persone. Da qui l’idea di interagire con la cooperativa bee.4, che dal 2013 lavora per avvicinare il percorso di detenzione alla finalità rieducativa della pena prevista dalla Costituzione. La cooperativa sociale bee.4 promuove il lavoro come strumento per valorizzare il tempo della pena, contribuendo alla costruzione di professionalità e attitudine al lavoro dei propri soci lavoratori, fattori fondamentali per consentire di cambiare il proprio stile di vita dopo una parentesi di vita trascorsa in carcere. In più, permette ai propri dipendenti, detenuti nel carcere di Bollate, di saldare mensilmente la quota di mantenimento, oltre alla possibilità di pagare spese processuali, multe e risarcimenti e di provvedere al sostentamento proprio e della propria famiglia attraverso una politica di equa e commisurata remunerazione, nel pieno rispetto di quanto previsto dal Contratto Collettivo Nazionale del Lavoro applicato alle Cooperative sociali. Paolo Facchetti, CEO e founder dell’azienda: “Sono mesi di grande successo per Dove.it e non solo per i record di fatturato e compravendite intermediate: quello che ci rende felici è la consapevolezza di star davvero cambiando il mondo dell’immobiliare in Italia. E nonostante la tecnologia sia il centro di tutti i processi che mettiamo in atto quotidianamente, crediamo nel valore delle persone: resta fondamentale il contributo umano per una corretta e moderna gestione di immobili, clienti e valutazioni. Per questo il lavoro con la cooperativa sociale bee.4 rappresenta un nuovo punto di partenza per trovare l’equilibrio giusto tra innovazione e tutela della società”. Giuseppe Cantatore, Fondatore e Direttore generale bee.4 altre menti: “bee.4 è nata con l’intento di creare lavoro per le persone che vivono un momento di privazione della libertà, un lavoro vero e professionalizzante perché possano, una volta usciti dal carcere, reinserirsi nel tessuto sociale. Bisogna essere bravi il doppio per ottenere la metà, questo è lo stigma sociale che un ex detenuto si porta dietro. Noi riusciamo nel nostro progetto grazie ad aziende come Dove.it, grazie alla fiducia che ci danno e noi contraccambiamo con qualità e professionalità”. Alessandria. Fuga di Sapori: i buoni frutti del carcere di Vivian Petrini gamberorosso.it, 13 ottobre 2022 Fuga di Sapori è la prima Bottega Solidale in un carcere italiano, l’Istituto Penitenziario “Cantiello e Gaeta” di Alessandria, che vende prodotti alimentari di economia carceraria e circolare. L’obiettivo è quello di reinserire i detenuti in contesti lavorativi nel settore enogastronomico e abbassare la percentuale di recidiva. Un progetto di economia carceraria circolare che nasce 5 anni fa, quando Carmine Falanga, Andrea Ferrari e Dolores Forgione sono entrati per la prima volta nella casa circondariale di Alessandria. La prima iniziativa è stata Social Woods, che riguardava la riattivazione di una falegnameria che, fino a quel momento aveva il solo scopo didattico, rendendola produttiva per recuperare legno di scarto e dare lavoro ai reclusi dell’Istituto Penitenziario “Cantiello e Gaeta” di Alessandria. Dopo pochi mesi Baladin commissiona le scatole per la sua birra Riserva Teo Musso, ed è stata aperta una seconda falegnameria esterna, che ha creato opportunità lavorative per i detenuti che usciranno dal carcere. Social Woods è stato l’inizio di un progetto più ampio e strutturato verso la creazione di un’impresa sociale. Poi è la volta di Fuga di Sapori, la prima Bottega Solidale nata in un carcere italiano, che espone e vende produzioni di economia carceraria. L’obiettivo è quello di reinserire i detenuti in contesti lavorativi nel settore enogastronomico, così come fa Osteria degli avvocati di Roma, il ristorante etico e sostenibile di Adele De Quattro e Lorenzo Giacco di cui abbiamo recentemente parlato. Carmine Falanga, creatore e promotore del progetto fin dai suoi albori, ci spiega com’è nata l’idea: “Dopo un po’ di tempo che lavoravamo nel carcere ci siamo accorti che c’erano due garage chiusi lungo le mura e avevamo chiesto alla direttrice di aprire un negozio. Inizialmente fu imbarazzante perché sembrava impossibile abbattere il muro carcerario, il Ministero non lo avrebbe permesso a detta di tutti quanti. Non ci siamo scoraggiati e in un anno siamo riusciti ad ottenere l’approvazione del progetto, e nello stupore generale abbiamo aperto una bottega con libero accesso e ottenuto permessi di uscita libera per i carcerati.” A riempire gli scaffali ci sono le produzioni agroalimentari provenienti da varie carceri italiane, come il caffè del carcere femminile di Pozzuoli o le bucce di limoni lavorate nel carcere di Siracusa, che sono poi diventati gli ingredienti base dei prodotti di economia carceraria. “Nel frattempo abbiamo conosciuto la realtà e lavorando in bottega abbiamo capito che il lavoro era importante all’interno della casa circondariale, ma la vera sfida era far trovare lavoro alle persone una volta fuori, la riabilitazione al lavoro è fondamentale perché ancora oggi le aziende fanno fatica ad assumere ex detenuti, e quindi noi ci siamo concentrati sul creare nuove opportunità fuori dal carcere.” Da questa riflessione si sviluppa il concetto di economia carceraria 2.0, che consiste nella collaborazione con piccoli artigiani per la realizzazione di prodotti trasformati a partire dalle materie prime provenienti dalle varie carceri. Così nascono la Brigantella, la crema spalmabile nocciole, cacao e caffè del carcere femminile di Pozzuoli, la Sbirra, la birra chiara con le scorze di agrumi di Sicilia lavorate da L’Arcolaio nel carcere di Siracusa, e tanti altri. “Ci siamo accorti che le piccole aziende man mano che lavoravano con il carcere hanno iniziato ad aprirsi verso la nostra realtà e si sono informati su come assumere ex detenuti. Così ci siamo resi conto che era la direzione giusta. Sempre con lo stesso scopo, visto il successo, abbiamo aperto un’altra bottega in centro ad Alessandria, e tutti i nostri prodotti sono acquistabili anche nello shop online”. A settembre 2020 viene fondata la cooperativa sociale Idee in Fuga, di cui Carmine Falanga è il Presidente, per creare lavoro per i detenuti, sostenere diverse realtà sociali del territorio e sviluppare idee a favore del terzo settore promuovendone la sostenibilità. Fuga di sapori, e più in generale Idee in Fuga, per i detenuti simboleggia il futuro: “noi siamo l’opportunità per loro, l’opportunità di uscire e avere un lavoro nelle botteghe e nella falegnameria, l’opportunità di integrare il reddito. Questo è l’unico modo per abbattere la recidiva (in Italia al 75%), mettere la persona in condizioni di lavorare e guadagnare, noi abbiamo già 4 persone che dopo la reclusione lavorano nella cooperativa. Inoltre se vogliamo, aldilà del lato umano che è la cosa più importante, non ci dimentichiamo che i detenuti in carcere costano, li paghiamo noi con le tasse, se lavorano si pagano il mantenimento in carcere tramite delle trattenute”. L’idea è quella di replicare l’iniziativa in altre carceri italiane e creare più botteghe possibili in cui il marchio di fabbrica sia il coinvolgimento attivo dei detenuti, poiché è quello a fare la differenza. Il progetto, infatti, raccoglie due importanti sfide della società moderna: la rieducazione del detenuto, come sancito dall’art. 27 della Costituzione, e il recupero degli scarti alimentari secondo i principi dell’economia circolare. “Noi affrontiamo due cose: sostegno al reddito e reinserimento lavorativo. La seconda è ancora più importante della prima perché diamo visibilità agli invisibili della società, quelli che non vedrai mai se non entri in un carcere. Stiamo cercando di abbattere questo muro (fisico e mentale) e cogliere i buoni frutti che può dare il carcere. Ad esempio a livello ambientale, occupandoci di sostenibilità, noi sosteniamo l’autoproduzione: dal miele al luppolo, all’ausilio di piccoli produttori”. Ferrara. Accordo ateneo-carcere. “Così laureiamo i detenuti” di Ruggero Veronese Il Resto del Carlino, 13 ottobre 2022 Bilancio positivo per la convenzione, stipulata nel 2015: numeri in crescita “Bene le materie umanistiche, molti si preparano a un nuovo percorso di vita”. Lo scopo del carcere non è solo punire le persone che commettono reati, ma soprattutto aiutarle e prepararle al ritorno nella società. Un precetto antico ma fin troppo spesso dimenticato, nonostante singole e sporadiche eccezioni. Tra queste c’è il caso di Ferrara, dove nei giorni scorsi la casa circondariale ha rinnovato la convenzione che da sette anni la lega all’ateneo. Dal 2015 infatti i detenuti del carcere ferrarese possono iscriversi ai corsi di laurea di Unife, sostenere esami e conseguire la laurea, in attesa della fine della pena. “In questi anni gli unici investimenti dei governi sul sistema carcerario - spiega la direttrice della casa circondariale Nicoletta Toscani - sono stati concentrati sulle forze di sicurezza, ma noi ci siamo impegnati per rendere il carcere un ambiente più aperto agli scambi con l’esterno e agli aspetti formativi. Molti detenuti manifestano il desiderio di superare i problemi che li hanno portati in carcere e conseguire un titolo di studio è una delle prime risposte”. Da qui la collaborazione con Unife, che secondo la rettrice Laura Ramacciotti ha fatto tesoro anche di esperienze come l’insegnamento a distanza, durante l’emergenza Covid, per rendere possibili percorsi di insegnamento a chi non può seguire le lezioni in aula. E che in certi casi fornisce ai detenuti computer in comodato d’uso per consentire la preparazione agli esami, dal momento che l’accesso a internet è ristretto all’interno del carcere. “È un’esperienza in forte crescita - affermano Stefania Carnevale e Max Tonioli, responsabili Unife ai rapporti col carcere -. Il primo anno seguivamo un solo studente, oggi ci sono sette iscritti, più altri quattro in procinto di iniziare il percorso. Per ora la scelta va soprattutto alle materie umanistiche, perchè sono quelle in cui spesso non sono previsti obblighi di presenza o attività esterne di tirocinio: filosofia, scienze dell’educazione, della comunicazione, archeologia e giurisprudenza. Si tratta di persone che già si immaginano proiettate all’esterno del carcere, e vogliono arrivare preparate a un nuovo percorso di vita”. “Essere considerati e seguiti - ha aggiunto la responsabile al progetto all’interno del carcere, Annamaria Romano - aumenta il senso di responsabilità e la voglia di riscatto. È la cosa più importante che possiamo offrire a una persona, e grazie ai progressi fatti, sta diventando molto più semplice avvicinare i detenuti e stimolare il loro interesse”. Giustizia: i confini dell’ipocrisia di Luigi Ferrarella Corriere della Sera, 13 ottobre 2022 Il caso Palamara e il Csm come esempio di “fallimento dell’apprendimento istituzionale” nello studio di due sociologi delle organizzazioni, Maurizio Catino (Milano Bicocca) e Cristina Dallara (Bologna). Luca Palamara un capro espiatorio? Sì, ma non nel senso dei mitomani che scorgono un nuovo Dreyfus nel pm romano ed ex membro Csm ed ex presidente Anm radiato dalla magistratura per avere discusso la nomina del nuovo capo della Procura di Roma con un parlamentare e un ex ministro indagato proprio dalla Procura di Roma, bensì come esempio di “fallimento dell’apprendimento istituzionale” di una organizzazione (in questo caso il Csm) a causa della tendenza ad “affrontare problemi di natura sistemica con soluzioni di tipo individuale”. È la tesi di due sociologi delle organizzazioni, Maurizio Catino (Milano Bicocca) e Cristina Dallara (Bologna), in uno studio nel quale mettono a confronto l’organizzazione formale (quale risulta da norme, regolamenti, circolari) e il sistema concreto di azione, quale risulta da interviste a magistrati, membri Csm in carica o ex, professori di ordinamento giudiziario, e dalle esperienze stesse di Catino ai corsi della Scuola della Magistratura per la formazione degli aspiranti dirigenti. Il caso Palamara, è la critica di Catino, è stato affrontato con una strategia di cambiamento e di apprendimento “basata sulla persona e accusatoria”, che cioè “cerca di spostare la colpa di quanto accaduto su un individuo o un gruppo di individui, creando talvolta in questo modo un capro espiatorio organizzativo”, che non è l’innocente che paga al posto di altri, ma un colpevole sul quale però vengono fatte ricadere le colpe anche di altri. Solo che per una organizzazione questo tipo di apprendimento basato sulla persona “genera un tipo di apprendimento “a circuito singolo”, che modifica le strategie d’azione ma lascia immodificati i valori di una teoria d’azione, apprendendo in modo non virtuoso dagli eventi e anzi con maggiore opportunismo adattivo”. L’occasione persa sarebbe dunque quella di gingillarsi con il sorteggio sì-sorteggio no per le elezioni Csm, anziché affrontare le vicende Palamara con una strategia di tipo “organizzativo e funzionale” che “generi un apprendimento a “circuito doppio”, volto cioè a cambiare, oltre che le strategie e gli assunti, anche i valori e le teorie-in-uso sottostanti”. Attorno a “tre nodi sistemici molto rilevanti ma poco considerati”. Il primo è la concreta difficoltà nel giudicare i curricula dei candidati, dovuta all’eccessiva quantità di dati e indicatori in realtà scarsi per qualità, con pareri provenienti dai Consigli giudiziari tutti sempre positivi e privi di sfumature che permettano reali valutazioni, sicché Catino si sente confessare dai suoi intervistati che “a volte la strada più efficace sembra davvero quella di fare una telefonata ai colleghi dell’ufficio del candidato e chiedere pareri espliciti”. Il secondo sarebbe la frizione tra due logiche contrastanti, quella della rappresentanza politica basata sul consenso (i membri del Csm sono eletti) e quella professionale della valutazione meritocratica basata su terzietà e imparzialità, che dovrebbe improntare la gestione delle carriere ma che sconta il fatto che al Csm “siano elette persone non formate nella gestione e valutazione del personale e nell’organizzazione delle risorse. Il terzo è l’ipocrisia che per Catino avvolge le relazioni di membri Csm con soggetti esterni alla magistratura e anche appartenenti alla sfera politica, al punto che nel suo studio pubblicato dal Mulino arriva a suggerire che “questo tipo di relazioni, tutt’oggi spesso negate dal dibattito interno alla magistratura, debbano essere portate nell’alveo istituzionale e della trasparenza pubblica per evitare che pochi soggetti o gruppi organizzati li gestiscano in modo informale e non trasparente”. Gli si può obiettare che lo studio sconti a sua volta la caratterizzazione politica di alcuni degli intervistati intuibili in appendice dietro l’elencazione dei loro passati ruoli. Ma di certo ha il pregio di mettere empiricamente in evidenza che, “quando la “governance” formale in un’organizzazione non funziona, tende ad emergerne una di tipo extra-legale con una maggiore efficacia operativa ma minore legittimità formale”. E che liquidare tutto come degenerazioni singole (il capro espiatorio organizzativo, come lo chiama Catino) rischia di “perpetuare soltanto un modo per continuare a mantenere la governance extra-legale con altri attori”. Speranza di pace, realtà di guerra di Stefano Stefanini La Stampa, 13 ottobre 2022 Non lasciamoci prendere la mano dalla speranza. La speranza è di pace, la realtà è di guerra. Le condizioni russe per negoziare la prima restano anni luce distanti dal minimo sindacale che l’Ucraina possa accettare. Non sarà un incontro fra i Presidenti americano e russo, a Bali, fra più di un mese - ammesso che avvenga - a sciogliere i nodi che la guerra di Putin ha tragicamente aggrovigliato in Crimea, in Donbas e nelle città ucraine bersagliate dai suoi missili, fino alle soglie del confine polacco. Solo Vladimir Putin può farlo e, per il momento, non da alcun segno di volerlo fare. Che Joe Biden non escluda (“dipende”, ha detto) di poterlo incontrare è un buon segno, ma le sorti dell’Ucraina non possono essere affidate a un eventuale colloquio russo-americano, a margine del G20. E non è certo quella l’intenzione americana, o della Nato, dell’Ue o del G7, quindi dell’Italia. Biden segnala semplicemente che la diplomazia non è morta. Per capire però quale sia l’itinerario atteniamoci ai fatti. I fatti sono: escalation del conflitto in cui le forze ucraine sembrano avere il sopravvento; risposta russa con una pioggia di missili contro obiettivi civili in praticamente tutte le città ucraine, di scarsissimo impatto militare ma che potrebbero configurare la fattispecie di crimini di guerra; improvviso desiderio di Putin di parlare con Biden, trasmesso pubblicamente dal suo Ministro degli Esteri. Facciamo pure la tara al “piano di pace” via Elon Musk - Ian Bremmer , alle notizie dell’intelligence britannica sul penoso stato delle truppe russe al fronte, alle minacce di Mosca, di volta in volta irresponsabilmente sbandierate e poi ritirate, di uso dell’arma atomica. Mettiamo da parte anche i vaneggiamenti di Viktor Orban. Questa non è una guerra russo-americana. È l’invasione russa dell’Ucraina. Dire che gli Usa possono far finire la guerra concludendo un’intesa con i russi è una mistificazione della realtà. Serve però a dare una mano all’amico Vladimir. Il quale è chiaramente in difficoltà, militare, politica ed economica. La si legge nell’impotenza degli attacchi missilistici - tra l’altro poco efficienti - che non raddrizzano le sorti sui campi di battaglia del Donbas; nell’irrefrenabile nostalgia del trattare con la controparte americana da pari a pari come ai bei tempi delle due Superpotenze e basta; nell’inattesa offerta di aprire i rubinetti di Nord Stream 2 dopo aver chiuso - prima del sabotaggio ad opera di incogniti - quelli di Nord Stream 1. Si vede che il Cremlino comincia ad avere qualche problema di liquidità. “No grazie” rispondono Germania e Ue. C’è un comun denominatore di disperazione. Putin sta fallendo tutti gli obiettivi che si era prefisso - dopo aver inflitto al proprio popolo (oltre che a quello ucraino) perdite di vita umana, costi e onte incalcolabili. Deve limitare i danni, non fosse altro che per conservare il potere. Quindi negoziare. Ma, se lo vuole veramente, deve mettere sul tavolo le annessioni dei territori ucraini, appena fatte e consacrate nella Costituzione russa, in barba al diritto internazionale, alla Carta delle Nazioni Unite del 1945, all’Atto Finale di Helsinki del 1975 e al Memorandum di Budapest del 1994. Questo il vero macigno che sbarra la via diplomatica. Può farlo? Vuole farlo? Volodymyr Zelensky ha escluso il negoziato con Vladimir Putin esattamente a causa delle annessioni. Fino a quel momento era stato lui a chiederlo, da prima dell’invasione. Il Presidente russo l’ha sempre rifiutato. Vorrebbe ora invece negoziare con Joe Biden per ottenere dagli Stati Uniti la resa dell’Ucraina alle sue condizioni. Spera così di vincere sul tavolo diplomatico quello che ha già perso su quello militare - nella guerra da lui voluta e iniziata. Non l’otterrà mai. Un negoziato di pace sulla guerra russo-ucraina deve vedere al tavolo... Russia e Ucraina. L’Ucraina ci si siederà solo quando Mosca rinuncerà al fatto compiuto delle annessioni. A quel punto, e solo a quel punto, Stati Uniti ed europei potranno anche spingere Zelensky alla trattativa. La via diplomatica non è chiusa, ma molto in salita. Ucraina, per la pace serve verità di Marco Bentivogli La Repubblica, 13 ottobre 2022 Le manifestazioni pacifiste a Roma e a Milano saranno sotto l’ambasciata russa perché non si possono nascondere le responsabilità di Vladimir Putin. C’è una parte del Paese che non confonde la pace con l’equidistanza, l’aggredito e l’aggressore. Che non confonde la pace con il “voglio essere lasciato in pace”, con chi pensa che la libertà e la democrazia siano un’eredità irreversibile da dare per scontata. L’assuefazione, quella sì occidentale, per cui, in fondo, la nostra condizione è più in discussione a causa degli ucraini che resistono ad un’invasione piuttosto che per i disegni criminali di Vladimir Putin. A questo stato d’animo si aggancia il furbesco tentativo, tutto politico, di azzerare le responsabilità. Siamo nati dalla resistenza al nazifascismo, siamo gli stessi che hanno sostenuto i vietnamiti contro l’invasione americana, i curdi e tutti i popoli vittime di aggressioni e genocidi. Possiamo essere indifferenti al diritto alla resistenza di un popolo? Non appartiene agli autentici costruttori di pace il riflesso pavloviano per cui da un lato si dimenticano tutti i conflitti nel mondo e dall’altro ci si sveglia e mobilita solo quando si pronuncia la parola “Nato”. La pace viene tradita dagli equivoci, dalle ambiguità. Benedetto XVI e Francesco dicono che non c’è vera pace senza verità, a cui aggiungiamo che non c’è verità senza libertà. I costruttori di pace non sono i notai delle invasioni, non chiedono ai popoli di arrendersi agli invasori e soprattutto non confondono la pace con la resa. Con il percorso del Mean, Movimento Europeo Azione Nonviolenta, che unisce persone e associazioni, da marzo siamo in campo con iniziative in Italia, a Kiev e a Leopoli, per riaprire uno spazio di costruzione della pace che non può essere delegato ai governi, che va realizzato con la cooperazione permanente dei mondi vitali della società civile. La nostra iniziativa di oggi (13 ottobre) a Roma e di domani (14 ottobre) a Milano non è più pacifista o meno di altre, è chiara, saremo sotto l’ambasciata russa perché non si possono nascondere le responsabilità di Putin. E per questo chiediamo il cessate il fuoco e il ritiro delle truppe russe dal territorio ucraino. L’escalation, le rinnovate minacce nucleari, come l’indisponibilità a negoziare sono responsabilità di Mosca. Non serve lo scontro tra piazze, anzi non sarebbe male una base comune che tenga insieme il movimento contro tutte le guerre. Ma serve chiarezza. Bisogna tenere la pace al riparo dalle strumentalizzazioni di chi la vede come un terreno della periodica resa dei conti nel centro-sinistra. Di chi cerca nel genericismo delle piattaforme l’occasione di nascondere le proprie ambiguità sulla collocazione internazionale del Paese e dei propri legami con Putin. Gli stessi che erano atlantisti solo quando Trump guidava l’amministrazione americana, nel periodo (2018) in cui al governo del nostro Paese non solo confermò l’aumento delle spese militari del 2% ma dichiarò che non erano peregrine le richieste dello stesso Trump di arrivare fino al 4%. C’è una guerra che, in parallelo, Putin conduce da anni, attraverso le campagne di disinformazione e il sostegno alle forze nazional-populiste. Abbiamo visto alcune fragilità nel nostro sistema di informazione (e non solo) che in nome di un finto pluralismo e neutralità sono al servizio della propaganda imperialista di Mosca. La parabola di questi regimi prevede sempre la curvatura verso la guerra dopo la cancellazione della libertà. Mettiamo insieme le persone, tutte, per la pace e contro i regimi autoritari. Un modo per avere verità su Regeni c’è. Serve la volontà politica di Ermes Antonucci Il Foglio, 13 ottobre 2022 Vista la mancata cooperazione delle autorità egiziane per far luce sull’omicidio di Giulio Regeni, l’Italia potrebbe ricorrere alla Convenzione Onu contro la tortura. “Dall’Egitto violazioni palesi del trattato”, ci dice Pisillo Mazzeschi, professore emerito di Diritto internazionale all’Università di Siena. C’è una via concreta per cercare di ottenere verità dall’Egitto sull’omicidio di Giulio Regeni, che va al di là del processo penale in corso a Roma, da tempo sospeso per l’impossibilità di notificare gli atti ai quattro agenti dei servizi segreti egiziani accusati di avere sequestrato, torturato e ucciso il giovane ricercatore italiano nel 2016 al Cairo. Questa via risponde al nome di “Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti”, adottata nel 1984 e da allora ratificata da oltre 170 paesi in tutto il mondo, tra cui proprio Italia ed Egitto. La Convenzione, come spiega al Foglio Riccardo Pisillo Mazzeschi, professore emerito di Diritto internazionale all’Università di Siena, “prevede quattro obblighi: non torturare (tramite agenti di polizia, servizi segreti o qualsiasi altro organo), prevenire la tortura, cooperare con le autorità degli altri paesi e indagare sui casi di sospetta tortura”. “Anche se non si volesse dare per certo il coinvolgimento di agenti dei servizi segreti nell’omicidio di Regeni, quantomeno sugli ultimi due obblighi la violazione dell’Egitto appare palese”, aggiunge Pisillo Mazzeschi. L’obbligo di investigazione, relativamente alla tortura, è stabilito espressamente dall’articolo 12 della Convenzione del 1984: “Ogni stato parte provvede affinché le autorità competenti procedano immediatamente ad un’inchiesta imparziale ogniqualvolta vi siano ragionevoli motivi di credere che un atto di tortura sia stato commesso in un territorio sotto la sua giurisdizione”. L’articolo 9, invece, prevede esplicitamente l’obbligo di cooperazione giudiziaria fra gli stati: “Gli stati parti s’accordano l’assistenza giudiziaria più vasta possibile in qualsiasi procedimento penale relativo ai reati previsti dall’articolo 4, compresa la comunicazione di tutti gli elementi di prova disponibili e necessari ai fini del procedimento”. Negli ultimi anni, non solo le autorità investigative egiziane non hanno mai svolto indagini serie per chiarire le dinamiche dell’omicidio di Regeni, ma l’Egitto ha anche palesemente violato l’obbligo di cooperazione giudiziaria con l’Italia. “Ad oggi non abbiamo ricevuto alcuna risposta dall’autorità egiziana in merito ai quattro imputati. L’ultima sollecitazione in ordine di tempo risale al 6 ottobre”, ha riferito martedì al gup di Roma il capo dipartimento per gli Affari Giustizia al ministero di via Arenula, Nicola Russo, aggiungendo: “Gli egiziani non hanno risposto neanche alla richiesta di incontro che la ministra Marta Cartabia aveva chiesto nel gennaio scorso”. Per queste ragioni, spiega il prof. Pisillo Mazzeschi, l’Italia potrebbe invocare l’applicazione dell’articolo 30 della Convenzione contro la tortura, che prevede una procedura di risoluzione delle controversie: “La procedura si compone di quattro fasi. Come prima cosa il governo italiano dovrebbe notificare formalmente al governo egiziano che ritiene che l’Egitto abbia commesso una violazione della Convenzione. La seconda fase prevede una procedura di negoziato. In questa fase l’Italia potrebbe anche proporre l’istituzione di una commissione internazionale di inchiesta per accertare i fatti. Qualora la controversia non sia risolvibile con i negoziati, il governo italiano potrebbe sottoporla ad arbitrato, in via unilaterale. L’arbitrato internazionale permetterebbe di accertare la verità ed eventualmente chiedere anche una riparazione”. “Se entro sei mesi dalla richiesta di arbitrato l’Italia e l’Egitto non si accordassero - prosegue il docente - l’articolo 30 prevede che l’Italia possa ricorrere direttamente alla Corte internazionale di giustizia, cioè il massimo tribunale internazionale”. “Fino a oggi la Farnesina ha voluto far prevalere gli interessi geopolitici ai diritti umani, ma ora si è arrivati a un livello vergognoso, perché il nostro paese viene preso in giro da anni”. Insomma, la strada per cercare la verità sull’omicidio Regeni ci sarebbe. Occorrerebbe volerla intraprendere. La parola spetta ora al prossimo governo. Medio Oriente. Né rifugiati né richiedenti asilo: il limbo dei cristiani iracheni in Giordania di Francesco Verdolino Il Manifesto, 13 ottobre 2022 Senza status legale, sono costretti a restare anche se Amman era solo una tappa del viaggio in fuga da Daesh. Impossibile avere contratti di lavoro: le spese per cibo, salute e scuola sono insostenibili. “Sono bloccata qui in Giordania da sei anni, insieme a mio marito e ai miei figli, e non voglio restare”. Sono le prime parole con cui Siba ci accoglie al “Our Lady of Peace Center” nella periferia di Amman, gestito da Caritas Jordan. Come molti altri iracheni cristiani, Siba è fuggita verso la Giordania per scappare da una delle incursioni di Daesh a Mosul, in Iraq. Case bruciate, devastazioni, saccheggi: “Da cristiana non avevi molta scelta: scappare, convertirti o pagare per avere protezione”. Una storia che accomuna decine di migliaia di persone scappate dal Paese e accorse in Giordania per trovare rifugio. Tornare indietro non si può e a distanza di anni ora si sentono intrappolati. Le norme che regolano lo status di rifugiato e richiedente asilo in Giordania variano a seconda del Paese di provenienza, ponendo a volte ostacoli per ottenere la residenza legale, un permesso di lavoro, ricevere cure mediche o accedere all’istruzione. Per quanto riguarda i siriani, i fondi disponibili per il loro supporto sono maggiori e sono di più le organizzazioni che se ne occupano fornendo supporto legale e servizi mirati. Pur avendo limitazioni, ad esempio nella scelta del lavoro o nella mobilità verso alcune aree del Paese, sono supportati sia legalmente che economicamente. Gli iracheni cristiani, invece, sembrano vivere in un limbo, sospesi tra la mancanza di un riconoscimento legale certo e una burocrazia che non gli permette di lasciare il Paese per raggiungere le proprie famiglie. Solo dal 2020 i benefici del Multi donor account (Mda), un conto di supporto al sistema sanitario giordano, finanziato anche dall’Italia e usato in gran parte per far fronte all’emergenza Covid, sono stati estesi anche ai richiedenti asilo registrati da Unhcr, tra cui gli iracheni, permettendogli di accedere alle cure alle stesse tariffe agevolate dei non assicurati giordani. Fino ad allora dovevano pagare le alte tariffe previste per gli stranieri. Senza lavoro e senza entrate certe il cibo, la salute, le tasse scolastiche diventano spesso spese insostenibili, aumentando la condizione di fragilità psicologica già compromessa dalla fuga e dalle persecuzioni: tristezza, disperazione, solitudine, depressione sono stati d’animo sempre più frequenti. “Chi ha soldi a disposizione può avviare un’attività e viene di fatto considerato un imprenditore. Ma chi non ha mezzi non ha il permesso di lavorare da dipendente e quindi di ricevere un salario”, ci dice Waleed, responsabile del Centro. Molti di loro hanno inoltrato la domanda di asilo e aspettano da anni una risposta. Altri devono ancora ricevere l’appuntamento per inoltrare la domanda. “Io sono qui da anni e non sono rifugiato, né richiedente asilo. Non posso lavorare legalmente”. In quest’ultima parola si nascondono spesso storie di lavoro nero, sfruttamento, turni massacranti e ricatti che aggravano una situazione già precaria. A volte i documenti sono fermi all’ambasciata del Paese di destinazione in attesa del via libera, di una lettera di invito o di una “sponsorizzazione”. Ma non vi è certezza sui tempi: ci si aggrappa ai racconti di chi dopo anni è riuscito finalmente a partire. Tutti ci dicono che in Giordania non vogliono restare. Doveva essere una tappa intermedia, scelta per motivi geografici (il confine terrestre) e politici (l’impegno di Amman nell’accoglienza di milioni di rifugiati e la sua relativa stabilità nel panorama mediorientale). Ma pur sempre di passaggio. E invece sono obbligati ad aspettare senza potersene andare. “Voglio raggiungere la mia famiglia in Australia, mia madre, mio padre e i miei fratelli, e ricominciare da capo a costruire il mio futuro”, continua Siba. Nel frattempo organizzazioni come Caritas Jordan e Arcs, oltre ai servizi di accoglienza e ospitalità, cercano di dar loro opportunità di apprendimento attraverso workshop lavorativi (carpenteria, cucito, agricoltura) ed educativi (lingua inglese, cittadinanza globale, informatica) nella speranza che un giorno riescano a raggiungere la meta finale e possano usare quanto appreso. “È importante per noi imparare nuovi mestieri e acquisire nuove competenze, il processo di migrazione e invito negli altri Paesi è più rapido per chi sa già fare qualcosa. Da quando è scoppiata la crisi in Siria, le richieste sono aumentate e ora la coda per entrare in Europa o Australia è sempre più lunga”, ci dice con amarezza Tha’er mentre lavora nello spazio carpenteria. Il Centro la domenica è aperto al pubblico che ne approfitta per un picnic nel giardino di ulivi, una vera e propria oasi nel panorama sabbioso e roccioso che caratterizza tutta l’area. “Sono momenti di integrazione in cui i bambini possono giocare allegramente e le famiglie dimenticare per un giorno la loro situazione”. Ma il lunedì arriva presto e ci si rimette al lavoro, aspettando che qualcosa accada. Iran. Il pugno di ferro di Teheran: “Chi manifesta va curato” di Gabriella Colarusso La Repubblica, 13 ottobre 2022 Il ministro dell’Istruzione: “Studenti che protestano portati in centri di correzione”. Al 27esimo giorno di manifestazioni, le parole del ministro dell’Istruzione gettano un’ombra cupa su quello che sta succedendo in alcune scuole dell’Iran, dopo che decine di adolescenti si sono unite alle proteste, togliendosi il velo o rimuovendo dalle classi le immagini di Khamenei, per chiedere libertà e parità, come le ventenni che in piazza affrontano la polizia a capo scoperto. Alcuni studenti, ha detto Yousef Nouri al quotidiano riformista Shargh, non sono stati “arrestati”, ma “vengono trattenuti in centri psicologici” per essere rieducati. “Quando i nostri esperti avranno fatto il loro ‘lavoro’ e saranno riusciti a rimuovere gli aspetti antisociali del loro carattere, gli studenti ‘corretti’ saranno liberati e potranno tornare a scuola”. La scorsa settimana, le immagini di giovani studentesse che a scuola sfidavano le milizie basij tenendo in mano i loro hijab avevano fatto il giro della rete. È la grande trasformazione che l’establishment della Repubblica Islamica teme: una nuova generazione connessa con il mondo esterno, determinata, che non è più disposta a sottostare ai dettami di una teocrazia. Sono le storie di Nika Shakarami, 16 anni, che amava cantare, o di Sarina Esmailzadeh, anche lei 16enne, che raccontava su Youtube il suo desiderio di un Iran “libero e giusto”, e non sono più tornate a casa dopo aver preso parte alle manifestazioni. Il 5 ottobre il vice comandante del Corpo delle Guardie Rivoluzionarie, Sardar Fadavi, ha ammesso che “l’età media della maggior parte delle persone detenute durante le proteste è di 15 anni”. Giovani caduti nella “trappola” dei social media occidentali, secondo il procuratore generale Mohammad Jafar Montazeri. “Arrestare ragazzini nelle scuole o portarli in cosiddetti centri di correzione è oltraggioso e contrario alle leggi internazionali ma anche alle leggi iraniane”, ci dice Mahmood Amiry-Moghaddam, direttore della ong Iran Human Rights, che tiene la drammatica conta dei morti, un bilancio molto più grave di quello ufficiale, secondo l’organizzazione: 201 vittime, mentre la tv di Stato parla di 42 civili e 15 poliziotti uccisi. “Sappiamo con certezza che in alcune scuole i presidi hanno fatto entrare agenti in borghese con furgoncini senza segni di riconoscimento sui quali sono stati caricati gli studenti”, racconta a Repubblica un attivista di base in Iran che si occupa di diritti dei minori. Il sito Iran Wire ha raccolto testimonianze di perquisizioni nei licei di Karaj. Le agenti di polizia chiedevano alle studentesse di consegnare i telefoni. Ieri è stata un’altra giornata di proteste e di repressione a Teheran, Mashhad, Isfahan, Rasht, Kerman, Sanandaj, la città della provincia curda dove da giorni ci sono scontri violenti con le forze di sicurezza. Molti commercianti si sono uniti agli scioperi, mentre nella capitale sono scesi in piazza gli avvocati, un sit-in immediatamente disperso. Internet è bloccato e le informazioni riescono con difficoltà a bucare la censura. La campagna di arresti ha coinvolto anche la comunità tecnologica: almeno sei noti esperti digitali sono stati arrestati per aver diffuso informazioni su come aggirare i filtri e proteggere i propri dati online. Per la Guida suprema, però, si tratta solo di “incidenti minori”. Ieri Khamenei è tornato a parlare delle rivolte, che sono “il piano del nemico contro i grandiosi sviluppi della nazione iraniana”. Gli ha risposto Ursula von der Leyen, annunciando sanzioni Ue contro i responsabili della repressione: “Migliaia di manifestanti pacifici vengono picchiati o detenuti. Il nostro messaggio è chiarissimo: la violenza si fermi”.