La riforma Cartabia: la disciplina organica della giustizia riparativa di Marcello Bortolato* questionegiustizia.it, 11 ottobre 2022 Un primo sguardo al nuovo decreto legislativo. Con il decreto legislativo in attuazione della legge delega 27 settembre 2021 n. 134 è stata definitivamente approvata la “disciplina organica” della giustizia riparativa. L’idea di una giustizia della riparazione, nella sua contrapposizione alla tradizionale giustizia punitiva, ha un che di indubitabilmente rivoluzionario, in quanto modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. Il tempo era ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale e che stavano mostrando esiti fecondi. La giustizia della riparazione introduce nel sistema una dialettica “tripolare”: non c’è più solo lo Stato che punisce e l’autore del reato che subisce la pena, c’è anche la vittima che è sparita dal processo a causa della tradizione del garantismo, ispirato allo scopo di impedire la vendetta privata e che vede la vittima sostituita dallo Stato ma neutralizzata nel processo, spettatrice e spesso vittima due volte. Il paradigma riparativo permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale. La scelta italiana è stata quella di un percorso “parallelo” volto alla ricomposizione del conflitto: non una giustizia alternativa alla giustizia tradizionale (con superamento del paradigma punitivo), e nemmeno un modello sussidiario, bensì complementare, volto alla ricomposizione del conflitto poiché compito dello Stato è anche quello di promuovere la pacificazione sociale. Anche il ruolo del Giudice muta: egli si mette non sopra il conflitto ma dentro di esso per risolverlo, non si limita ad assolvere o a condannare e, senza perdere la sua neutralità, compie il difficile cammino verso una ricomposizione che riqualifica sia il senso di un processo giusto che il senso stesso della pena inflitta. Il decreto legislativo in attuazione della legge delega 27 settembre 2021 n. 134 è stato definitivamente approvato anche per quanto riguarda la “disciplina organica” della giustizia riparativa (art. 1 comma 18 lett. a della legge). Quando parliamo di giustizia riparativa parliamo di diritto? Una domanda tanto importante quanto più a porsela sono i magistrati che il diritto devono applicare. Interrogarsi sull’idea di giustizia, cioè su quell’insieme di premesse culturali e di strumenti normativi che sovrintendono all’equilibrio delle relazioni sociali, significa rendere conto dell’idea di giustizia che storicamente circola nel “clima sociale” di un’epoca e che è alimentata dal coinvolgimento culturale ed etico di ciascuno di noi. Allora se il diritto è prima di tutto una dimensione dell’uomo e poi anche un prodotto sociale performato da quell’insieme di pensieri, sentimenti e impulsi con cui l’uomo orienta le relazioni sociali, allora possiamo dire che quando parliamo di giustizia riparativa parliamo di diritto. Oggi un ambizioso senso di onnipotenza scientifico-tecnologico sembra aver pervaso anche i territori del diritto (efficienza, celerità, processi telematici, giustizia predittiva) ma non dobbiamo dimenticare che il diritto è invece sempre intriso di eticità sociale. Veniamo dunque alla “grande” idea di giustizia riparativa che, grazie a questo intervento normativo, riprende fiato e consistenza riaffiorando da un antico passato sempre presente. Perché quello che dobbiamo dire prima di tutto è che la giustizia riparativa esiste già, è un fatto sociale, non la si può sopprimere (ed anzi disseminati qua e là vi sono già nei codici e nelle leggi degli istituti che in senso lato sono ascrivibili alla restorative justice) e dunque si tratta solo di regolamentarne gli (eventuali) effetti giuridici nel processo (anche e soprattutto a garanzia dell’imputato, del condannato e della vittima), darvi insomma una regolamentazione, in qualche modo “istituzionalizzare”. Compito dello Stato è anche quello di promuovere la pacificazione sociale richiedendo a tutti, come recita l’art. 2 Cost., l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà (“politica, economica e sociale”) e pacificare i conflitti rientra certamente tra i doveri inderogabili di solidarietà. Dico subito che l’idea di una giustizia della riparazione, nella sua contrapposizione sostanziale alla tradizionale giustizia punitiva ha un che di indubitabilmente rivoluzionario, in quanto modello di giustizia fondato essenzialmente sull’ascolto e sul riconoscimento dell’altro. Sappiamo invece quanto la giustizia tradizionale sia spersonalizzata perché molto lontana - pensiamo proprio alla vittima, marginalizzata nel processo in quanto costretta nel ruolo unico di testimone o di parte civile richiedente un risarcimento in denaro (che ancora non significa riparazione) - da quel groviglio di sentimenti, emozioni, paure e angosce originate dal reato. Se la giustizia riparativa è un modello compiutamente articolato per la trattazione e la soluzione di conflitti sociali, la giustizia punitiva invece quasi mai risolve il conflitto, anzi lo alimenta con quel perverso meccanismo che conosciamo del “raddoppio del male”. In questo il modello riparativo è rivoluzionario perché non “restituisce il colpo” come la giustizia tradizionale che è dura, punitiva (raffigurata, come sappiamo, con la spada) - una giustizia dalla quale bisogna in qualche modo difendersi - ma offre uno spazio di dialogo, rigorosamente volontario che non toglie il reo dallo sguardo delle vittime. Pensiamo alla pena di morte, l’espressione più estrema di giustizia punitiva: essa toglie del tutto il colpevole dallo sguardo delle vittime e impedisce l’incontro, il contrario della giustizia riparativa. La giustizia della riparazione introduce nel sistema una dialettica “tripolare”: non c’è più solo lo “Stato-guardiano” (Donini) da un lato che punisce e l’autore del reato dall’altro che subisce la pena, c’è anche la vittima che è sparita dal processo a causa della tradizione del garantismo, ispirato com’è giusto allo scopo di impedire la vendetta privata e che vede bensì la vittima sostituita e protetta dallo Stato ma neutralizzata nel processo, spettatrice e spesso vittima due volte. Merito di una giustizia restorative è dunque innanzitutto recuperare la vittima e renderla protagonista della possibile riparazione che non si esaurisce, come si è detto, nel risarcimento economico. Dal lato del reo, e questo è certamente l’aspetto più controverso, la riparazione può far ripensare la pena, cioè la risposta punitiva, perché sottrae ad essa qualcosa: la pena tendenzialmente non può più essere quella che era originariamente se è intervenuta la riparazione. Diventa quella che Massimo Donini chiama “pena agìta”, nel senso di una pena che promuove comportamenti attivi. La pena subìta, una pena come mezzo che sanziona senza aggiungere nulla, che infligge un male aggiuntivo raddoppiando il male commesso senza preoccuparsi di risanare la frattura prodotta dai comportamenti, rimane invece per chi non vuole avvalersi dei programmi di giustizia riparativa, è una sua scelta, al pari di quella del condannato che rifiuta il trattamento rieducativo perseguendo unicamente il riconoscimento della propria innocenza anche in sede esecutiva ovvero subendo la pena come mera espiazione. Dobbiamo allora chiederci perché e in che misura lo Stato interviene ponendo una “disciplina organica” come ha imposto la legge delega 27.09.21 n. 134. Interviene perché la riparazione, sebbene resti volontaria e mai imposta, viene favorita, sostenuta e affiancata alla pena anche eventualmente allo scopo, se raggiunta, di sottrarre ad essa qualcosa. In questa ottica vanno letti i timidi tentativi nel decreto di collegare all’esito riparativo raggiunto alcuni effetti sulla risposta sanzionatoria (si vedano gli interventi sulle circostanze del reato ex art. 62 c.p., sulla determinazione della pena ex art. 133 c.p.- seppur solo richiamata nell’ambito dei poteri valutativi del giudice, art. 58 -, sulla sospensione condizionale ex art. 163 c.p., sulla remissione di querela ex art. 152 c.p.). Deve tuttavia rimanere chiaro che la giustizia riparativa è una prassi (un fatto sociale) che nasce fuori sia dello Stato sia del processo e che lo Stato può solo regolare e promuovere e di cui giudice, pubblico ministero e difensore sono solo testimoni. Da quanto detto emerge già in parte la risposta alla domanda del perché una disciplina organica della giustizia riparativa anche in Italia. L’importanza di introdurre una normativa in materia è stata espressa una prima volta nelle Linee programmatiche della Ministra Cartabia, che raccolgono e sintetizzano le molteplici indicazioni internazionali, vincolanti e di soft law: il tempo era ormai maturo per sviluppare e mettere a sistema le esperienze di giustizia riparativa, già presenti nell’ordinamento in forma sperimentale e che stavano mostrando esiti fecondi. Le più autorevoli fonti europee e internazionali (citiamo qui le tre più importanti: la Risoluzione ONU 12/2002, la Raccomandazione del Consiglio d’Europa del 2018 e la Direttiva vittime UE 29/2012, queste due ultime richiamate nella stessa legge delega) ormai da tempo hanno stabilito principi di riferimento comuni e indicazioni concrete per sollecitare gli ordinamenti nazionali a elaborare paradigmi di giustizia riparativa che permettano alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se entrambi vi acconsentono liberamente, alla risoluzione delle questioni risultanti dal reato con l’aiuto di un terzo imparziale (definizione tradotta quasi testualmente nell’art. 42 lett. a del decreto). Non mancavano in Italia ampie, benché non sistematiche, forme di sperimentazione di successo e non mancavano neppure proposte di testi normativi (come quello uscito dagli Stati generali dell’esecuzione penale del 2015) che si facevano carico di delineare il corretto rapporto di complementarità fra giustizia penale tradizionale e giustizia riparativa. Ecco, questo è il primo punto: la complementarietà. La scelta italiana è stata quella di un percorso ‘parallelo’ volto alla ricomposizione del conflitto: non una giustizia alternativa alla giustizia tradizionale (con conseguente superamento del paradigma punitivo, con “rinuncia” cioè da parte dello Stato alla pretesa sanzionatoria), e nemmeno un modello di sussidiarietà (la pena cioè si applica solo se non si raggiunge l’esito riparativo, paradigma peraltro sperimentato con successo in alcuni Paesi e in alcuni momenti storici particolari, pensiamo al Sudafrica), entrambi modelli sussumibili sotto l’ampia categoria della cd. “diversion” che risponde, del tutto lecitamente, ad un’esigenza di economia della giustizia prevalentemente orientata verso modelli non custodiali ma applicabile o solo a reati “bagatellari” (quelli della probation propriamente detta) o a grandi conflitti politico-sociali (apartheid, guerre civili, terrorismo). Non è stata questa la scelta del legislatore nazionale e chi pensa che con questo decreto avremo meno carcere e/o più premialità non è sulla buona strada. Il sistema punitivo tradizionale continuerà a costituire il presupposto dei programmi di giustizia riparativa e del resto l’imprescindibile volontarietà del ricorso ai programmi comporta inevitabilmente che il sistema penale non possa essere soppiantato dal nuovo modello di giustizia, anche perché le esigenze di prevenzione generale e di prevenzione speciale rimangono intatte. La complementarietà invece significa percorso parallelo che deve fare i conti, prima di tutto, con il modello riabilitativo dell’art. 27 Cost. (che come si sa opera o dovrebbe operare, compatibilmente con la presunzione di innocenza, fin dalla fase cognitiva) e che ha come obiettivo la ricollocazione sociale del reo, un obiettivo difficile da raggiungere, come è noto, che stride con una giustizia naturalmente più orientata alle vittime quale quella riparativa (ma, attenzione, la restorative è una giustizia solo orientata alle vittime e non una giustizia che abbia la vittima al centro). Tuttavia il legislatore delegato ha ritenuto, anche quando ha cercato di regolamentarne gli effetti in sede esecutiva, che la giustizia riparativa possa promuovere indirettamente quella adesione al precetto - attraverso l’incontro nei programmi riparativi e la riparazione materiale o simbolica - che è in definitiva il reale scopo della minaccia di pena. Si prevede una sanzione per imporre l’obbedienza ad un precetto, e cioè a quei valori di solidarietà che sono proprio la farina con cui è impastata la giustizia riparativa. Quindi riparazione e rieducazione in realtà si saldano: l’esperienza ci insegna del resto quanto positivi siano nel campo dell’esecuzione della pena gli effetti dei programmi di giustizia riparativa sui percorsi di reinserimento dei condannati. Ve detto subito che la giustizia riparativa va oltre sia il modello riparatorio in senso stretto (forme di condotte riparative successive al reato che portano già degli effetti sostanziali anche nel modello di giustizia tradizionale: D.Lgs. 231/01, oblazione nelle contravvenzioni, indulto tributario, art. 163 c.p., indulto urbanistico, sanatorie, etc.). Nel paradigma riparatorio si parla di condotte ‘prestazionali’ in cui hanno un ruolo fondamentale il Giudice, il Pm e il difensore. Nella giustizia riparativa invece, che attiene ad una riparazione “interpersonale” (cioè senza giudice, senza PM, senza difensore) non è richiesta l’integrale riparazione (nel decreto vi è la definizione di “esito riparativo”), non è una prestazione definita e determinata, è solo l’esito di un percorso. È il passaggio da una pena classica ad una “pena interrelazionale” e così anche il paradigma rieducativo dell’art. 27 Cost. è rinnovato perché il giudice deve capire che solo la pena agìta rieduca veramente. Anche il ruolo del Giudice muta totalmente: egli si mette non sopra il conflitto ma dentro di esso per risolverlo, non si limita ad assolvere o a condannare. Ciò dà una speranza nuova al suo lavoro quotidiano. Il giudice non perde la sua neutralità ma anzi la rafforza riconoscendo pari dignità ai protagonisti del conflitto, un conflitto che esiste (il processo lo è già) tra chi è “indicato come autore dell’offesa” e la vittima, ma la riparazione “interpersonale”, promossa e non imposta, si svolge fuori dal processo. Nulla che non sia aderente alla libera scelta volontaria degli interessati. Il Giudice all’esito ne raccoglierà gli effetti, solo se positivi. Una disciplina organica della giustizia riparativa era indispensabile: a livello normativo consente di adempiere alla Direttiva 2012/29/UE; a livello operativo, dà impulso alla costituzione di centri di giustizia riparativa sul territorio; a livello di funzionalità dei programmi di giustizia riparativa contribuisce a individuare lo standard di formazione degli operatori di giustizia riparativa e di erogazione dei programmi di giustizia riparativa. Adottare una normativa generale in materia di giustizia riparativa consente inoltre di allineare l’Italia ad ordinamenti giuridici che hanno già da tempo optato in tal senso (ad es. il Criminal Justice (Victims of Crime) Act 2017 irlandese che, in particolare alla Sezione 26 (Restorative justice), prevede una norma generale lineare e completa sulla giustizia riparativa). Introdurre disposizioni puntuali che aprano canali di accesso ai percorsi di giustizia riparativa nell’ambito di istituti già esistenti consente inoltre di incoraggiare l’invio dei casi ai Centri di giustizia riparativa (appositamente creati con questa legge in tutti i distretti di Corte d’Appello) e di agevolare la gestione a livello processuale degli esiti dei percorsi restorative. Una disciplina organica esige un ambito definitorio, che è quello contenuto nell’art. 42 dello schema di decreto. Sono tutte definizioni direttamente ispirate ai principi di giustizia riparativa sanciti dalle fonti internazionali sopra richiamate, così come i principi e gli obiettivi stessi, tutti contenuti nell’art. 43. Non vi è spazio per illustrare una per una le definizioni ma val la pena osservare intanto che: - nella definizione della “giustizia riparativa”, lungi da ogni idealizzazione ed astrattismo, si è fatto riferimento concreto al “programma” che è lo strumento che da solo è idoneo a consentire la risoluzione delle questioni derivanti dal reato e dove già si evidenzia il carattere principale della restorative, la volontarietà: nulla di imposto, coercitivo, passivo e che non sia aderente alla libera scelta volontaria degli interessati; manca la “spontaneità” (in questo e solo in questo va letto il potere officioso del giudice di invio ai Centri di giustizia riparativa ex art. 129 bis c.p.p.). Non si può pensare che lo Stato, per quanto già detto, possa venir meno al suo compito di promozione della risoluzione dei conflitti (la legge delega addirittura sembrava riservare al Giudice un potere esclusivo di iniziativa che viceversa nell’esercizio della delega è stato eliminato). Non si può pretendere che le parti spontaneamente aderiscano ai programmi anche senza una qualche sollecitazione pubblica (o privata ben s’intende) che deriva dal generale favor per la giustizia riparativa, collocata tra l’altro all’interno di un complessivo disegno di riforma del processo penale volto a rendere più efficiente (leggasi “più efficace”) la definizione dei procedimenti giudiziari. Non si può trascurare infatti il dato oggettivo che il raggiungimento di un esito riparativo conformante può determinare effetti favorevoli sulla definizione dei procedimenti penali, bisogna solo prenderne atto. Questo forse può far storcere il naso non solo ai cultori del processo (nella contrapposizione che si sta profilando fra “processualisti” arroccati ad una difesa ad oltranza del cognitivismo del processo accusatorio e dunque contrari a qualunque innesto riparativo, e “sostanzialisti” dall’altro, che sarebbero invece meglio disposti nei confronti di una nuovo paradigma che mette in discussione il concetto tradizionale di sanzione) ma anche ai ‘puristi’ della giustizia riparativa secondo i quali essa dovrebbe stare lontana dal processo e da ogni rischio di strumentalità. Ma il treno da prendere, peraltro collegato ad un massivo investimento economico legato al PNRR, era questo; - la definizione di “vittima del reato” (una novità) discende direttamente dalla norma vincolante contenuta nella Direttiva 2012/29/UE e non coincide esattamente con le figure note dell’ordinamento nazionale (persona offesa, danneggiato, parte civile) ed è dunque applicabile solo nell’ambito dei programmi di giustizia riparativa; da notare subito che l’art. 53 lett. a estende i programmi riparativi anche alla vittima cd “aspecifica”, la vittima cioè di un reato differente da quello per cui si procede, essa non è un sostituto della vittima diretta ma non è meno vittima di questa : essa è la vittima di un reato e non del reato. La possibilità di offrire la partecipazione a programmi di giustizia riparativa, sussistendone l’interesse, la volontà e il consenso libero e informato, anche alla vittima di un reato diverso - magari della stessa specie di quello per cui in ipotesi si procede - è uno specifico valore aggiunto della giustizia riparativa rispetto alla giustizia penale ‘convenzionale’: un esempio per tutti è la possibilità di coinvolgere in programmi la persona offesa di un reato che resta a carico di ignoti, persona alla quale, di tutta evidenza, la giustizia penale “classica” non ha nulla da offrire (si capisce qui come si tratti sempre di un percorso “parallelo”, indipendente dal processo); - la definizione di “persona indicata come autore dell’offesa”: la scelta lessicale contempera il doveroso rispetto della presunzione di innocenza fino all’eventuale condanna definitiva da un lato e dall’altro l’esigenza di mantenere l’uguale considerazione della vittima e di colui che, pur ritenuto responsabile in via definitiva del reato, non sia sminuito per sempre dall’esperienza della colpa e dell’offesa. Ricomprende l’ampio ventaglio di soggetti che possono partecipare ai programmi di giustizia riparativa in materia penale in qualità di: persona sottoposta alle indagini, imputato, persona sottoposta a misura di sicurezza, persona condannata con pronuncia irrevocabile e persona nei cui confronti è stata emessa una sentenza di non luogo a procedere o non doversi procedere, per difetto della condizione di procedibilità, anche ai sensi dell’articolo 344 bis del codice di procedura penale, o per intervenuta causa estintiva. Ai fini della disciplina organica della giustizia riparativa, la persona indicata come autore dell’offesa può essere sia una persona fisica, sia un ente con o senza personalità giuridica (ciò anche in virtù dell’estensione all’ente delle disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili, ai sensi dell’art. 35 del decreto legislativo 8 giugno 2001, n. 231). La vocazione organica della disciplina e il divieto di preclusioni in relazione alla fattispecie di reato o alla sua gravità, prescritto dal legislatore delegante, impongono di rendere fruibili i programmi di giustizia riparativa anche agli enti nei casi di responsabilità amministrativa da reato di cui al d.lgs. 231/2001; - fondamentale, per gli effetti che avrà nel processo, è la definizione di “esito riparativo”, nozione cruciale nell’economia della disciplina organica. Essa si ispira a quella di restorative outcome fornita dalle Nazioni Unite (par. I.3); la definizione si muove tra due opposte esigenze, non facilmente conciliabili: da un lato, l’esigenza di tassatività, determinatezza e precisione della materia penale; dall’altro, l’esigenza di cogliere nel testo normativo la flessibilità, e financo la creatività, della giustizia riparativa. La definizione ruota attorno ai lemmi “accordo”, “riparazione dell’offesa”, “riconoscimento reciproco” e “relazione”, concetti mutuati dalla scienza della giustizia riparativa, i quali assumono qui la natura di “risultato” del metodo riparativo stesso. La nozione è da correlarsi strettamente con l’articolo 56, dove l’esito riparativo è tassativamente disciplinato come esito “simbolico” o “materiale” (o entrambi), nonché con le disposizioni di modifica del codice penale, dell’ordinamento penitenziario e del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121 (ordinamento minorile). Se, in particolare, la “riparazione dell’offesa” è nozione già nota alla dottrina e alla cultura penalistiche, nuova e più ricca è la specifica incurvatura data dal programma di restorative justice alle condotte di riparazione, le quali possono essere, appunto, sia materiali che simboliche. Nuovo è altresì il riferimento all’idoneità dell’accordo che scaturisce dall’incontro a significare l’avvenuto riconoscimento reciproco e la possibilità di ricostruire la relazione tra i partecipanti: concetti indispensabili ad esprimere la tipica vocazione relazionale della giustizia riparativa, necessariamente aperta e flessibile e purtuttavia ricondotta nei confini della materialità, tassatività e determinatezza negli articoli 56-57-58, dove la formulazione delle disposizioni è particolarmente attenta a tipizzare indicatori concreti, specialmente per le ipotesi in cui essi sono offerti all’apprezzamento dell’autorità giudiziaria per gli effetti processuali e sostanziali previsti dalla disciplina organica. Anche gli obiettivi di cui all’articolo 43 comma 2, sono da leggersi nello specchio della nozione di esito riparativo. Nell’art. 43 sono elencati i principi generali che governano la giustizia riparativa e gli obiettivi verso cui tende. Essi sono: - la partecipazione attiva e volontaria (si è già detto); - l’eguale considerazione dell’interesse della vittima e della persona indicata come autore dell’offesa: è il punto di equilibrio tra il “reocentrismo” della giustizia punitiva tradizionale e l’”orientamento alle vittime” che è tipico della restorative justice; questa è una caratteristica propria della disciplina italiana che ne costituisce un elemento caratterizzante anche per il rispetto dovuto ai dettami costituzionali (art. 3 e 27 Cost.); il punto è delicato e per alcuni “indigesto”: come si può attribuire pari dignità a reo e vittima? Innanzitutto perché lo impone la Costituzione che non distingue (art. 3) i cittadini tra colpevoli e innocenti. Poi perché lo stesso processo, assistito dal garantismo, non attribuisce minore dignità all’imputato, né al condannato, tant’è che esistono il giudice terzo e il ruolo costituzionale del difensore; - coinvolgimento della comunità (l’art. 45 consente la partecipazione ai programmi anche dei familiari della vittima e dell’autore del reato, di persone “di supporto”, di enti e associazioni e di enti pubblici e servizi sociali), poiché gli effetti del conflitto spesso si riverberano in ambiti più ampi di quelli reo-vittima; - consenso alla partecipazione (si è già detto); - riservatezza: è la condizione indispensabile che assicura da un lato la genuinità dei percorsi riparativi (elemento caratterizzante di ogni programma di giustizia riparativa in quanto spazio di dialogo libero protetto dalla confidenzialità) e, dall’altro, rende compatibile l’esperimento di un programma anche nella fase della cognizione facendo salva in primo luogo la presunzione di innocenza che, unita alla inutilizzabilità, assicura la genuina acquisizione della prova sia nella fase delle indagini che nella fase del processo; - l’indipendenza dei mediatori e la loro equiprossimità rispetto ai partecipanti: principio cardine delle pratiche di giustizia riparativa; mentre il giudice è terzo in quanto “neutrale”, il mediatore è terzo in quanto “sta nel mezzo”, né più in alto né più in basso ma accanto ad ogni partecipante (il termine “mediatore” non deve essere inteso come colui che cerca di “mediare” tra le parti in vista di una conciliazione ma come colui che, appunto, nel conflitto “sta nel mezzo”). Ritengo importante segnalare infine due importanti criteri che, soprattutto per i magistrati, dovranno guidare i loro interventi: 1) l’accesso ai programmi di giustizia riparativa può essere limitato soltanto in caso di pericolo concreto per i partecipanti derivante dallo svolgimento del programma stesso (art. 43 co. 4); il principio internazionale di libera accessibilità ai programmi riparativi è tendenzialmente assoluto ma vede come unico limite il pericolo per l’incolumità dei partecipanti e dunque il Giudice potrà impedire l’accesso ai Centri allorché dalla partecipazione stessa al programma possa derivare un qualche concreto pericolo all’autore del reato (si veda in questo senso anche il nuovo art. 129 bis co. 3 c.p.p.); 2) la mancata effettuazione del programma, l’interruzione dello stesso o il mancato raggiungimento di un esito riparativo non producono effetti sfavorevoli nei confronti della persona indicata come autore dell’offesa (art. 58 co. 2); questo significa che nell’ambito del procedimento penale solo il raggiungimento di un “esito riparativo” può svolgere alcuni effetti a favore dell’imputato e del condannato, essendo l’intera disciplina organica della giustizia riparativa innestata nel procedimento penale pervasa dal divieto di valutazione in malam partem dell’eventuale fallimento del programma, colpevole o incolpevole che possa essere (sia nel senso della mancata partecipazione che nel senso del mancato raggiungimento di un esito riparativo); credo che questa traduzione normativa di un principio fondamentale già a livello sopranazionale renda perfettamente compatibile l’innesto della giustizia riparativa con i principi regolatori del procedimento penale italiano primo fra tutti quello della presunzione di innocenza. Vi è poi tutta la disciplina che riguarda i diritti, le garanzie e di doveri dei partecipanti, i doveri dei mediatori, la disciplina sullo svolgimento dei programmi, quella sulla valutazione dell’esito dei programmi da parte dell’autorità giudiziaria, gli innesti processuali e sostanziali e sulle leggi speciali, la fase esecutiva (con l’introduzione di un nuovo articolo nell’ordinamento penitenziario) e infine la formazione e i requisiti dei mediatori esperti. Restano in conclusioni due brevi osservazioni. In primo luogo con questa disciplina organica possiamo finalmente affermare, chiarendo un diffuso equivoco ancora esistente, che cosa “non è” giustizia riparativa. Non lo sono il risarcimento del danno, i lavori di pubblica utilità, le attività di volontariato sociale (in questi due ultimi casi si tratta, anche nel sentire comune, più un peso inflitto al condannato per attenuarne il senso di libertà che un fattivo impegno volto a promuoverne individualmente il senso di responsabilità e dunque essi si inscrivono oggi ancora in un’ottica retributiva o di coercizione che sono l’antitesi della giustizia riparativa), la probation propriamente detta (quella processuale della messa alla prova e quella in executivis dell’affidamento in prova al servizio sociale). La giustizia riparativa non è la retribuzione del terzo millennio né un alleggerimento della risposta sanzionatoria, non è un contrappasso che risponde ad una logica tutta retributiva. Dovremo dunque abituarci sempre più alla distinzione terminologica tra “riparativo” e “riparatorio”, tenendo presente che se il risarcimento del danno lo può attuare solo chi ha mezzi economici sufficienti, la riparazione invece la può attuare chiunque, quindi innanzitutto la riparazione non è di classe. Infine, il Giudice, che da distributore di pene inflitte e subìte si colloca, anche grazie alla giustizia riparativa, su un piano diverso, compiendo - senza perdere minimamente la sua neutralità - il difficile e prezioso cammino verso una ricomposizione che riqualifica sia il senso di un processo giusto che il senso stesso della pena inflitta. *Presidente del Tribunale di Sorveglianza Firenze, componente del gruppo di lavoro per l’elaborazione dello schema di decreto legislativo recante la disciplina organica della giustizia riparativa ex l. 134/2021 Rita Bernardini: “Renoldi sta cercando di dare pregnanza ai principi scritti nelle leggi” di Angela Stella Il Riformista, 11 ottobre 2022 Far fuori Renoldi dal Dap? “Chi lo pensa sbaglia, sta cercando di dare pregnanza a principi scritti nero su bianco”. “Per la riforma della giustizia cercheremo con forza il dialogo, come Radicali non abbiamo mai posto veti nei confronti di alcuno”. Rita Bernardini, Presidente di Nessuno Tocchi Caino, già parlamentare radicale, analizza i possibili futuri scenari nel campo della giustizia e lancia la candidatura dell’avvocato Giuseppe Rossodivita alle prossime elezioni dei membri laici del Consiglio Superiore della Magistratura. Due forze politiche di centrodestra dichiarano apertamente: “siamo garantisti nel processo e giustizialisti per l’esecuzione penale”... I ministri del nuovo governo dovranno giurare sulla Costituzione e la seconda parte della frase coniata da alcuni esponenti del centrodestra va contro gli articoli che nella nostra Carta riguardano proprio il rispetto dei diritti umani fondamentali. Che faranno, giureranno il falso? Non voglio crederci anche perché conosco tanti esponenti di quelle formazioni politiche che nella nostra Costituzione credono sinceramente. Caino sarà destinato a marcire in galera con questa nuova maggioranza? Quello di marcire è il destino di ieri e di oggi di chi è ristretto nelle carceri italiane. Si può dire che tutto è organizzato perché ciò avvenga attraverso la sistematica e pervicace violazione del diritto. In senso figurato e riferito alla persona, secondo l’enciclopedia Treccani, “marcire” significa perdere le forze fisiche o spirituali nell’inazione volontaria o forzata, infiacchirsi, languire, intristire. Chi ha usato l’espressione “marcire in galera” ha fatto la fotografia della realtà. Addirittura, oggi accade che c’è chi la fa finita prima di marcire, di decomporsi totalmente: mancano tre mesi alla fine dell’anno e ben 67 persone detenute si sono tolte la vita. D’altra parte, con le vecchie maggioranze anche di centrosinistra, non è che le cose siano andate benissimo sia per Caino che per Abele. Non dimenticherò mai la mancata riforma dell’ordinamento penitenziario che era scaturita dagli Stati Generali dell’esecuzione penale. Presidente del Consiglio era Paolo Gentiloni e ministro della giustizia Andrea Orlando. Mandarono tutto al macero per paura di perdere voti e furono puniti lo stesso dagli elettori. Fonti della Lega fanno trapelare che Carlo Renoldi, capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, potrebbe dover abbandonare la poltrona... Penso che sbaglino valutazione perché il Capo del Dap Renoldi sta cercando di dare pregnanza ai principi scritti nero su bianco nelle leggi; leggi che lui non può cambiare ma che può far rispettare. Lo ha fatto concretamente con la recente circolare sui colloqui, sulle telefonate e sulle videochiamate, circolare che mi ha portato a sospendere il mio ultimo sciopero della fame iniziato insieme alle “ragazze” detenute nel carcere di Torino e ad altri 300 cittadini. Renoldi si è fatto forte dell’art. 28 della cosiddetta legge penitenziaria del 1975 che stabilisce che “particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti con le loro famiglie”. È partito da lì e ha ridato centralità alla figura del direttore che ha ampi poteri discrezionali in materia. Renoldi ha poi una formazione, una preparazione, un rigore e un’autorevolezza preziosissimi in un momento difficile come l’attuale. Ergastolo ostativo. Cosa dovrebbe fare la Corte Costituzionale alla prossima scadenza fissata? Molto semplicemente dichiarare definitivamente ciò che ha già accertato con l’ordinanza 97/2021 e cioè l’incostituzionalità delle norme che prevedono l’ergastolo senza speranza. Si parla molto di toto-ministri. Lei chi vorrebbe alla Giustizia? Fra i nomi che circolano, ne prenderei in considerazione due: Carlo Nordio e Francesco Paolo Sisto. A Carlo Nordio mi lega - di riflesso l’amicizia e la comunanza di vedute che aveva con il leader radicale Marco Pannella. La Commissione da lui guidata sulla riforma del Codice penale si espresse chiaramente nella direzione della depenalizzazione e della de-carcerizzazione del sistema italiano. In una conversazione con Marco Pannella e Massimo Bordin del 2012, Carlo Nordio si pronunciò a favore dell’amnistia così come prospettata da Pannella: “Io sono favorevole all’amnistia. Dopo aver sentito questa appassionata difesa culturale e psicologica, ho capito qualche cosa di più. Vorrei dire che sicuramente su un punto mi ha convinto: le grandi battaglie ideali si devono iniziare indipendentemente dalla fattibilità del risultato concreto, e sono proprio quelle che all’inizio sembrano più disperate. Io posso dire solo che questo glielo auguro di tutto cuore, e me lo auguro come magistrato e cittadino, perché sarebbe una vera rivoluzione culturale. Però c’è un altro aspetto estremamente interessante di quello che lei ha detto, che si potrebbe sottolineare con la famosa frase di Napoleone “l’intendance suivra”: fate l’amnistia e l’intendenza seguirà, tutto il resto verrà da sé, comprese le grandi riforme. Questo potrebbe essere vero”. Anche una personalità come Francesco Paolo Sisto mi sembra da prendere in seria considerazione: alla visione liberale della giustizia, Sisto aggiunge un’esperienza parlamentare e ministeriale da non sottovalutare. Con quale forza politica crede si potrà maggiormente dialogare per una riforma liberale della giustizia? Come radicali non abbiamo mai posto veti nei confronti di alcuno, tanto più se i nostri interlocutori ricoprono importanti incarichi istituzionali. Il dialogo lo ricercheremo strenuamente per perseguire quella riforma della giustizia che ci vede impegnati da decenni. Significherà qualcosa o no il fatto che il “caso Tortora” continua ad essere il simbolo della giustizia negata in Italia? Sulla “riforma” le idee le abbiamo chiarissime essendo contenute nei referendum promossi negli ultimi 40 anni, tutti riguardanti la carne viva dei cittadini italiani. Il nuovo togato del Csm eletto tra i sorteggiati, Andrea Mirenda, ha detto al Dubbio: “porterò all’attenzione del Consiglio i temi della sorveglianza spesso ancillari, poco sentiti a Palazzo dei Marescialli”... Mi auguro caldamente che ciò accada. Se c’è un aspetto che il CSM ha sistematicamente ignorato è proprio quello della sorveglianza considerata da sempre una magistratura di rango inferiore. Chi si occupa di esecuzione penale, come fa Nessuno Tocchi Caino, sa invece quanto sia fondamentale il ruolo che i giudici di sorveglianza dovrebbero svolgere - e non uso a caso il condizionale - nel percorso rieducativo del condannato e nel sorvegliare sulla legalità della detenzione nelle nostre carceri. Bisognerà, si spera a breve, eleggere i laici del Csm. I magistrati dicono: non mandateci i “trombati” alle elezioni politiche. Vogliamo figure preparate. È d’accordo? Pannella arrivò a fare lunghi scioperi della fame e della sete per il plenum del CSM perché il Parlamento ritardava l’elezione dei laici a causa dei consunti giochetti partitocratici. Mi auguro che il nuovo Parlamento scelga rapidamente persone competenti in grado di svolgere una funzione di controllo sull’organo di governo autonomo della magistratura che, con le sue correnti, ha dato negli anni prove squalificanti per l’intero sistema. Anzi, se me lo consente, mi sento di avanzare fin da ora e alla luce del sole la candidatura dell’avvocato Giuseppe Rossodivita: scegliendo lui, che è stato vicino a Marco Pannella in battaglie di legalità difficilissime, il Parlamento darebbe quel segnale positivo di cambiamento richiesto dal Presidente Mattarella e oggi più che mai necessario. “Voglio avanzare alla luce del sole la candidatura dell’avvocato Giuseppe Rossodivita: è stato vicino a Pannella in battaglie di legalità difficilissime, scegliendo lui il Parlamento darebbe quel segnale di cambiamento chiesto dal Presidente Mattarella”. Il nuovo ministro della Giustizia? Dal cilindro del Cav spuntano Sisto e Casellati di Tiziana Maiolo Il Riformista, 11 ottobre 2022 Dopo le voci insistenti su Nordio e Bongiorno, l’ex premier si è fatto sentire. Sarebbe giusto che Forza Italia, che ha sempre avuto nel garantismo la sua cifra, avesse nel governo Meloni un “suo” ministro guardasigilli. Alla vigilia del suo rientro dopo nove anni, Silvio Berlusconi ha un tono rassicurante: “Ritorno al Senato dopo i torti subìti ma senza rivalse”. C’è da credergli, ma qualche nocciolino non può che essergli rimasto in gola. Sarebbe strano per esempio se il leader di Forza Italia, nel tornare in una vera maggioranza politica di governo, rinunciasse a rivendicare per il partito che fin dal 1994 ha avuto la sua cifra nel garantismo, l’indicazione del nuovo ministro Guardasigilli. E infatti, dopo che per giorni erano circolati insistentemente i nomi di Carlo Nordio e Giulia Bongiorno, magistrato e avvocata, sostenuti dai rispettivi partiti di elezione, Fratelli d’Italia e Lega, ecco che l’ex presidente del consiglio si è fatto sentire. I “coniglietti” estratti dal cilindro d’improvviso, mentre ancora si discuteva tra vertici di partito sui Presidenti delle Camere e sul ministero dell’economia, sono quelli di altri due tecnici del diritto, l’avvocato penalista pugliese Francesco Paolo Sisto, attuale sottosegretario e Elisabetta Alberti Casellati, a sua volta avvocata e docente di diritto canonico, nonché seconda carica dello Stato uscente. E chissà se qualche sindacalista in toga non sia già pronto con il fucile spianato. Anche se i tempi sono cambiati, e la magistratura associata non è più così forte, né l’amministrazione della giustizia così amata dai cittadini come lo fu un tempo, sia pure a fasi alterne. Quattro nomi, due donne e due uomini, sicuramente forti. Giuristi, perché si dà per scontato che quello della giustizia debba essere un ministero per “tecnici”. Lontani i tempi in cui proprio Berlusconi decise di sparigliare e per due legislature gli uffici di via Arenula furono occupati dall’ingegner Roberto Castelli. Che fu un ottimo ministro, che fece vedere i sorci verdi al sindacato dei magistrati. Le toghe lo sfottevano, pronunciando con sprezzo il termine “ingegnere”. Come se non sapessero che, essendo il ministero di giustizia pieno zeppo di loro colleghi, non esiste alcuna necessità che il guardasigilli sia a sua volta un tecnico del diritto. L’importante essendo, in quel settore come in tutti gli altri, la decisione politica. Poi ai numeretti dei codici possono pensare altri. Ne era ben conscio il primo ministro di giustizia del primo governo Berlusconi, l’avvocato Alfredo Biondi, che fu costretto a sacrificarsi a un ruolo che non aveva desiderato. Aveva scambiato le figurine e il posto con Cesare Previti, mandato alla Difesa per conflitto d’interessi, essendo uno dei difensori del premier. L’avvocato genovese sapeva bene che mettere in campo avvocati e magistrati, non preludeva a una partita giocata secondo le regole, che lo scontro sarebbe stato un corpo a corpo di falli continui e i goal tirati in fuori gioco. Era infatti stato sufficiente un modesto decreto sui termini della custodia cautelare (successivamente la stessa riforma quasi identica fu approvata senza problemi) per far vacillare il governo dalle fondamenta in seguito alla sceneggiata tv del pool di Milano. Un successivo sciopero sulle pensioni lo aveva definitivamente affossato. La tenaglia magistratudegli ra-sindacati aveva vanificato quel che gli elettori avevano voluto. Se l’avvocato era caduto sul diritto penale, l’ingegner Castelli fu ripetutamente trafitto come san Sebastiano per aver osato toccare l’intoccabile, cioè le carriere delle toghe. Ancora un anno fa, dopo l’esplosione del caso Palamara, sulla bocca del segretario generale della corrente di Area, Eugenio Albamonte, quel nome e quell’insulto, l’ingegnere, erano stati lanciati per attribuire all’ex ministro le colpe di tutto. Perché con la sua riforma che aveva introdotto la temporaneità incarichi direttivi e la rottura di placide carriere di anzianità, aveva creato il mostro della competizione. E da lì le sue degenerazioni. Perché così si s-ragiona in un certo mondo delle toghe. Basterebbe ricordare quel che è capitato a Matteo Renzi e alla sua famiglia dopo che da Presidente del consiglio aveva osato dire “brr che paura” sulle proteste dell’Anm in seguito al taglio delle ferie. Il corpo a corpo non aveva risparmiato il ministro Angelino Alfano e il suo “processo breve”, ritenuto responsabile addirittura di mandare in prescrizione il 50% dei processi penali di alcune grandi città. Anche in quella occasione la proposta di riforma era stata vissuta come un attacco all’indipendenza e all’autonomia della magistratura, il mantra buono per tutte le occasioni. Un comunicato sindacale addirittura quasi bagnava di lacrime il foglio su cui era scritto, immaginando come giudici e pm non “possano continuare a svolgere serenamente e con impegno il proprio lavoro, sapendo che la metà della propria attività sfumerà certamente entro il primo grado di giudizio”. Tempi andati, altri magistrati, altri ministri. Sarebbe giusto che Forza Italia avesse nel prossimo governo Meloni un “suo” ministro guardasigilli. Ma sapendo che quei fucili che avevano messo nel mirino quei ministri dei tre governi Berlusconi potrebbero non essere ancora stati seppelliti, proprio come quelli di alcuni partigiani dopo la resistenza. Nordio: alla giustizia servono risorse, non conflitti con la magistratura di Errico Novi Il Dubbio, 11 ottobre 2022 L’ex procuratore di Venezia resta in pole, ma la linea del pragmatismo tiene alte anche le quotazioni di Sisto. Si era capito: la giustizia non poteva trasformarsi in un ulteriore fronte caldo della maggioranza. Non in una fase in cui la premier in pectore Giorgia Meloni è già assediata dalle emergenze. E così ieri, prima che iniziasse la riunione dei parlamentari eletti con Fratelli d’Italia, Carlo Nordio ha chiarito che il suo eventuale programma da guardasigilli non avrebbe certo come obiettivo il conflitto con le toghe: “Bisogna almeno per ora lasciar da parte tutte le situazioni più divisive anche con la magistratura. Credo che in questo momento l’urgenza fondamentale sia economica, quindi ogni riforma che riguardi la giustizia deve mirare a recuperare risorse. La cosa più importante da fare”, ha detto Nordio, “è rendere la giustizia più efficiente e più rapida”. Così l’ex procuratore aggiunto di Venezia mostra di adattarsi a un clima diverso da quello che aveva accompagnato il centrodestra verso la vittoria del 25 settembre. Basterebbe rileggere le interviste date dallo stesso Nordio nelle settimane che hanno preceduto il voto e confrontarle con le parole di ieri, affidate alla web tv del Fatto quotidiano. Se da candidato al Parlamento l’ex pm batteva sulla necessità di riformare le carriere dei magistrati e introdurre l’inappellabilità delle assoluzioni, da parlamentare eletto le cose cambiano. Sembra essersi imposta la vera prospettiva di Giorgia Meloni sulla giustizia: riforme sì ma senza strappi. Senza pretendere di introdurre, già nei primi mesi di vita dell’esecutivo, elementi di rottura. Non perché siano usciti dall’orizzonte del centrodestra la separazione delle carriere o il sorteggio per i togati del Csm. Semplicemente, la guerra, la conseguente crisi energetica ed economica, non consentono di disperdere le forze.È chiaro che le parole di Nordio sono il riflesso dei discorsi che circolano all’interno di Fratelli d’Italia: non complichiamo una situazione già difficile. Si tratta anche di un messaggio per l’Anm, che alla fine di questa settimana celebra il proprio congresso, e che non può diventare subito un problema per il futuro governo Meloni. Ma è difficile dire se la linea meno “rivoluzionaria” prospettata da Nordio davanti alle telecamere del Fatto quotidiano certifichi una sua imminente indicazione a ministro della Giustizia. È vero che il suo nome è il primo tra quelli che la leader della destra considera per il dicastero di via Arenula. Ma è anche vero che nei colloqui con Forza Italia e Lega non è ancora scontata l’assegnazione della Giustizia a Fratelli d’Italia. Tanto che nel vertice di Arcore Silvio Berlusconi ha avanzato, per la carica di guardasigilli, un’ipotesi fino a quel momento tenuta nascosta: Maria Elisabetta Alberti Casellati, presidente uscente di Palazzo Madama ma anche protagonista, due consiliature fa, di un apprezzatissimo mandato da laica al Csm. Avvocata, è naturalmente un nome che avrebbe tutti i numeri per aspirare alla successione di Marta Cartabia. D’altra parte, se la prospettiva sulla giustizia è quella di lavorare sull’efficienza e sui tempi dei giudizi anziché su riforme che “sconvolgerebbero” l’ordinamento, restano elevate anche le chance di Francesco Paolo Sisto. Da sottosegretario alla Giustizia nella legislatura appena conclusa è stato lui a occuparsi delle leggi delega sul Csm e sul processo, sia civile che penale, e dei successivi testi di attuazione. Ha seguito le commissioni ministeriali istituite da Cartabia prima per proporre modifiche ai ddl base di Bonafede e poi per scrivere materialmente i decreti legislativi. Tutte norme ispirate ai vincoli di efficienza dettati dal Pnrr. In una prospettiva sulla giustizia pragmatica prima ancora che “rivoluzionaria”, Sisto avrebbe dalla sua carte che forse neppure Nordio può vantare. Si vedrà. Ieri l’ex procuratore aggiunto di Venezia ha preferito schernirsi. Dopo la riunione dei parlamentari con Meloni, ha così risposto a chi gli chiedeva se sarà lui il nuovo guardasigilli: “Ci sono moltissime persone che possono farlo anche meglio di me”. E poco prima, al Fatto quotidiano tv, aveva ricordato che la scelta resta una “prerogativa del presidente della Repubblica su indicazione del presidente del Consiglio”. Anche se, qualora fosse chiamato da Meloni, si comporterebbe da “servitore dello Stato”. E su tutto, quella piattaforma declinata con parole inequivocabili: “In questo momento occorre recuperare efficienza e risorse, con gli uffici giudiziari che sono al collasso, e questo rallenta i provvedimenti civili, penali e gli investimenti degli stessi italiani, non solo degli stranieri”. Con la chiosa finale: “Penso che il mio contributo sarà nell’ambito della giustizia”. E ad oggi è questa la sola certezza. Mattarella firma la riforma Cartabia. Si attende la pubblicazione in G.U. di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 11 ottobre 2022 Sull’impatto delle riforme però, nei giorni scorsi, si sono espressi piuttosto criticamente gli avvocati riuniti a Congresso a Lecce. Dopo il via libera, il 28 settembre scorso, da parte del Consiglio dei Ministri, con la firma di oggi dei decreti legislativi da parte del Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, si compie l’ultimo atto delle riforme della Giustizia firmate dalla Ministra uscente Marta Cartabia prima della pubblicazione in Gazzetta Ufficiale e dunque dell’effettiva entrata in vigore. Il Quirinale ha infatti inserito tra gli atti firmati e in attesa di pubblicazione i tre decreti legislativi, con data 10 ottobre, in materia civile, penale e per l’ufficio del processo. Per il penale si tratta della “Attuazione della legge 27 settembre 2021, n. 134, recante delega al Governo per l’efficienza del processo penale, nonché in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari”. Per il civile dell’attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, recante delega al Governo per l’efficienza del processo civile e per la revisione della disciplina degli strumenti di risoluzione alternativa delle controversie e misure urgenti di razionalizzazione dei procedimenti in materia di diritti delle persone e delle famiglie nonché in materia di esecuzione forzata”. E per l’ufficio del processo: “Norme sull’ufficio per il processo in attuazione della legge 26 novembre 2021, n. 206, e della legge 27 settembre 2021, n. 134”. Sull’impatto delle riforme però, nei giorni scorsi, si sono espressi piuttosto criticamente gli avvocati riuniti nel XXXV Congresso nazionale a Lecce. In particolare, sul penale, hanno chiesto che si modifichino vari aspetti della Riforma Cartabia fra cui: doppio grado di giudizio di merito e al giudizio di legittimità, impugnazioni, notificazioni, processo telematico, criteri priorità dell’azione penale e processo in assenza dell’imputato. Ma anche un forte investimento sulla giustizia riparativa e l’istituzione di un albo dei mediatori penali che veda la primaria partecipazione delle avvocate e degli avvocati. Sul processo civile i legali hanno ribadito le richieste di correzione della riforma recentemente approvata che comprime il diritto di difesa e l’importanza di intervenire su risorse e personale. Sulla ‘famiglia e i minori’, tra le altre proposte si segnala la previsione delle sezioni specializzate della famiglia su base circondariale, competenti per tutte le procedure familiari e minorili in sede civile. Sulla magistratura onoraria, invece, si chiede di correggere la riforma Orlando e di sospendere l’entrata in vigore del d.lgs 116/2017. Ma anche una forte richiesta per una significativa riduzione dei costi di accesso alla giustizia e del contributo unificato. Infine, anche sulla giustizia tributaria arriva la richiesta di una correzione della nuova riforma approvata. “Digitalizzare gli atti serve per i processi in corso, come quelli sulle stragi” di Ferruccio Pinotti Corriere della Sera, 11 ottobre 2022 Il vicario del Tribunale di Milano Fabio Roia: arretrati da ridurre, ma gli indici di smaltimento delle cause sono a livelli europei, pur se l’organico è ridotto: servono magistrati e funzionari. Conservare la memoria storica, digitalizzare gli atti giudiziari, smaltire le cause pendenti e arretrate, modernizzare e velocizzare i processi civili e penali sfruttando al meglio i fondi del Pnrr, vegliare sulla correttezza di comportamenti (inclusi quelli dei magistrati), lavorare affinché il Tribunale di Milano confermi il suo ruolo di punto di riferimento di un’innovazione che deve coinvolgere tutta la giustizia italiana; esprimere infine una particolare vigilanza sul delicato tema della tutela della donna di fronte al crescendo di femminicidi e violenze. Sono questi gli obiettivi che il presidente vicario del Tribunale Fabio Roia, indica al Corriere quali priorità da perseguire con decisione. Presidente Roia, Milano è un “tribunale modello” nella archiviazione e digitalizzazione degli atti giudiziari, ma molto resta ancora da fare, con un totale di 1.088.842 sentenze e volumi in carico all’archivio generale, 460.000 faldoni e 280.000 sentenze ancora da inserire nel programma “Chimera” appositamente creato da un vostro dirigente, il dr. Umberto Valloreja. Sono numeri che fanno paura, un lavoro che richiede risorse umane enormi, senza il quale la memoria rischia di andare perduta. Lei intende proseguire questo percorso? E come? “Assolutamente sì, ci sono importanti esigenze di conservazione dei processi e dei loro atti: per finalità di ricerca storica, ma anche per finalità di inchieste in cui servono queste fonti in eventuali procedimenti ancora aperti. Le stragi, ad esempio, sono reati imprescrittibili, quindi la conservazione e la digitalizzazione degli atti è vitale se non ci si vuole trovare con faldoni gravemente danneggiati o distrutti dall’usura del tempo. Ci sono poi necessità nuove: molte case di produzione di fiction oggi ci chiedono gli atti giudiziari per realizzare delle serie tv. Ad esempio è in corso la realizzazione di una fiction sul disastro di Linate (la collisione tra due aerei avvenuta l’8 ottobre 2001) e una sul caso Wanna Marchi”. Esiste però un problema di risorse? “Sì, al tribunale di Milano siamo di fronte a una scopertura di personale amministrativo e giudiziario del 35% rispetto all’organico previsto, quindi le risorse per procedere con la digitalizzazione degli atti e con l’informatizzazione dei processi sono veramente esigue. Sarebbe interessante avviare dei progetti con enti e fondazioni che condividano queste esigenze, la digitalizzazione e riproduzione di faldoni di processi storici richiede strumenti e professionalità importanti”. Il tribunale dispone solo di 250.000 euro l’anno per digitalizzare centinaia di migliaia di pagine di atti. Non sono pochi? “Sì, sono pochi, con essi abbiamo già digitalizzato molti procedimenti storici. I funzionari che lavorano negli archivi sono solo 13. Urgono risorse e partner istituzionali. Milano è uno snodo centrale della memoria nazionale, perché ha vissuto molte vicende giudiziarie importanti che hanno fatto la storia d’Italia. Per questo bisogna insistere con forza”. Non è paradossale che gli atti delle stragi di Milano e di Firenze del ‘93, ovvero via Palestro e via dei Georgofili, non siano stati scannerizzati congiuntamente, esistendo delle inchieste ancora aperte in materia? “Sarebbe molto importante che questo avvenisse, perché ci possono essere uno o più Procure che indagano sullo stesso reato o su reati collegati, come appunto nel caso delle stragi del ‘93”. Per questo riguarda l’arretrato, quali i numeri di Milano? “I cosiddetti indici di ricambio di Milano sono di livello europeo, con indici superiori a 1,18 come medie di tasso di smaltimento, il cosiddetto “clearance rate”. Nel civile abbiamo indici positivi, cioé si smaltiscono più cause di quante ne arrivino, nel penale l’indice è pari a 0,99, quindi si crea un po’ di arretrato. Le cause civili pendenti erano 45.662 al 22 giugno 2022 con un arretrato di 4.426 pari al 10%. Mentre quelle penali pendenti al 28 luglio ‘22 erano 29.122, quelle arretrate 3.955 pari al 14%”. Cosa serve di più per migliorare l’efficienza della giustizia? “Non bisogna riformare i magistrati, ma la giustizia come servizio al cittadino: molti colleghi sono prossimi alla pensione, mancano 1600 magistrati da immettere nel sistema e arriveranno solo nel 2024. È vero che sono arrivati i nuovi funzionari dell’Ufficio del Processo, retribuiti coi fondi del Pnrr, ma sono assunti a tempo determinato con obiettivi ben precisi, come l’arretrato. Manca quindi personale che sia di supporto stabile ai giudici e qui a Milano abbiamo indici di scopertura del 35%”. Veniamo al nodo dei controlli sui comportamenti dei magistrati. Risulta che sia avvenuta da parte dell’ex giudice Piero Gamacchio, già chiamato in causa per addebiti relativi a conti lasciati in sospeso e prestiti da parte di avvocati, la sottrazione di un numero consistente di fascicoli del tribunale di Milano: un reato penale. Si parla inoltre di un faro aperto dalla Procura in merito a presunte manipolazioni di fascicoli e di atti da parte del magistrato in questione. Cosa ci può dire in merito? “Dobbiamo distinguere i due profili dell’attività e della vita personale dell’ex giudice: per quanto riguarda la vita privata ci sono profili sui quali il dirigente (il presidente del tribunale dell’epoca, ndr), che ha un dovere di vigilanza e di segnalazione - perché parliamo di illeciti con potenziale rilevanza penale -, se non ha conoscenza di fatti specifici attinenti al lavoro, non può intervenire. E’ vero tuttavia che a carico del dottor Gamacchio c’era stato un procedimento disciplinare del Csm per sottrazione di fascicoli, che lui poi aveva evitato si realizzasse andando in pensione. Se poi c’è dell’altro, andrà approfondito e valutato. Il sistema giudiziario, per funzionare, deve essere credibile dal punto di vista dei controlli”. In questo caso così delicato ci saranno le dovute verifiche? “Certamente, il magistrato in questione si è dimesso per vicende attinenti alla vita privata e io non credo vi siano stati esposti sottaciuti. Se poi ci fossero stati interventi sui processi o manomissioni degli atti, si tratterà di fatti di rilevanza penale che andranno vagliati dagli organi deputati alle indagini, qualora essi emergano. Il sistema giudiziario, per essere credibile, deve dare delle risposte giuste, razionali, trasparenti”. Come si ricostruisce la credibilità della magistratura dopo un caso come quello scoppiato attorno a Palamara? “Tutte le persone coinvolte sono state sanzionate o addirittura destituite. Mi sento di dire, avendo fatto parte del Csm ed essendo stato segretario di Unicost, che per conto mio c’è stata una certa enfatizzazione del caso, per finalità di vario genere. Non c’era e non c’è la Spectre, al CSM . Certo va detto che quando un magistrato viene eletto al Csm deve saper esercitare quel potere con continenza, trasparenza, senso di autocontrollo e del limite”. Presidente, cosa può fare il sistema giudiziario per tutelare di più le donne? Si possono identificare meccanismi per far sì che tante denunce spesso ignorate non sfocino in evitabili femminicidi? “Ritengo che il femminicidio sia un evento sempre evitabile, purché si creino reti di protezione di intervento complete, sensibili e dotate di adeguate risorse. Nelle aule di giustizia dobbiamo evitare ogni forma di violenza secondaria, ma la grande battaglia di civiltà la si può vincere solo sul piano culturale, quando la società tutta svolterà per una reale e praticata tutela del rispetto delle diversità del genere femminile”. Poche toghe e cause pendenti dal 1995: a Reggio Calabria giustizia nel caos di Simona Musco Il Dubbio, 11 ottobre 2022 Solo tre consiglieri su otto in Corte d’appello. La presidente della Sezione civile costretta a rinviare un’udienza fissata per il 13 ottobre al 21 dicembre 2023. Una comunicazione alle parti che si trasforma in “denuncia” politica. Si potrebbe interpretare così il provvedimento di Patrizia Morabito, presidente della Sezione civile della Corte d’Appello di Reggio Calabria, costretta a rinviare un’udienza fissata per il 13 ottobre al 21 dicembre 2023. Le ragioni sono elencate con chiarezza nel documento, nel quale viene evidenziato che “le condizioni attuali della sezione non consentono di trattare il presente processo alla udienza alla quale è stato differito”. Il motivo? Una cronica carenza di magistrati, che di fatto ingolfa il lavoro dei Tribunali in tutta Italia. Una situazione evidenziata nei giorni scorsi dall’Associazione nazionale magistrati, secondo la quale “il complesso processo riformatore in atto non interviene in modo efficace sulle risorse umane, quantomeno in termini di assicurazione della costante copertura effettiva degli organici di magistratura e del personale amministrativo”, si legge in un documento diffuso dal Comitato direttivo centrale del sindacato delle toghe. Morabito, nel suo provvedimento, non ne fa mistero e anzi evidenzia tutte le criticità in cui si trova ad operare la Sezione civile. A partire dal recente trasferimento di due consiglieri, a seguito del quale il numero dei magistrati presenti si è ridotto a tre, a fronte degli otto posti previsti dalla pianta organica, escluso il presidente di sezione. “Non vi è allo stato alcuna concreta previsione di un prossimo incremento dell’organico effettivo dei magistrati presenti - lamenta dunque Morabito -, posto che sono andati deserti i bandi per la copertura dei posti”. Lo stato dell’arte, a Reggio Calabria, è dunque tutt’altro che roseo: sono oltre tremila, attualmente, le controversie pendenti “e fra queste hanno assoluta priorità di trattazione” gli appelli iscritti fino agli anni 2015, che dovranno essere definiti entro il 2022, “ancora in consistente numero ed in attesa di urgente decisione”; e le controversie in materia di protezione internazionale iscritte prevalentemente negli anni 2017-2019, “per loro natura urgentissime e tuttavia ancora pendenti in appello”. Ma il dato ancora più eclatante è quello che riguarda la lentezza dei giudizi: a tali processi ritenuti prioritari si affiancano, infatti, altre cause, alcune delle quali incardinate addirittura prima del 1995 - e quindi più di 27 anni fa, tali da essere trattate con il cosiddetto “vecchio rito civile”. “Ulteriore priorità, immediatamente successiva alle dette - aggiunge Morabito - si ravvisa nell’esigenza di affrontare le cause in cui sono parti fallimenti, e che devono essere esitate con urgenza per legge”. Un contesto operativo “difficilissimo”, dunque, che rende impossibile trattare la causa in questione - che da registro generale è datata 2019 - entro il 2022. Il caso di Reggio Calabria è solo un esempio di una situazione che riguarda l’intero Paese: attualmente, infatti, negli uffici giudiziari italiani mancano ben 1.600 magistrati, pari al 16% dell’organico complessivo. E ciò, secondo l’Anm - che tratterà il tema al Congresso che si aprirà a Roma il prossimo 14 ottobre - rischia di vanificare gli sforzi fatti per riuscire ad ottenere i fondi del Pnrr, in quanto si “rischia di riversare sui soli magistrati la responsabilità del mancato raggiungimento di obiettivi che sin d’ora si palesano di arduo, se non impossibile, conseguimento”. La dignità dimenticata nel carcere di Reggio Calabria politicamentecorretto.com, 11 ottobre 2022 Appello dei carcerati - Noi detenuti del reparto dell’alta sorveglianza del “Panzera” siamo costretti a dover far emergere pubblicamente il trattamento che a noi è riservato, anche rispetto ai detenuti che nella nostra stessa condizione occupano le altre case circondariali. Ci sentiamo completamente abbandonati, in spregio alle garanzie più elementari che lo Stato e L’Europa impone nel trattamento dei detenuti. Vogliamo ribadire, comunque, che questa lettera non ha l’intento di essere una protesta generica, ma ha l’aspirazione di voler cambiare la nostra condizione carceraria divenuta insostenibile. A tal proposito rappresentiamo di seguito solo alcune delle situazioni che riteniamo necessario modificare: Le celle restano sempre chiuse, e questo rende impossibile socializzare, provocando uno stato permanente di tensione in noi. Non abbiamo una stanza dove stendere i panni lavati, una palestra, un’area verde, un luogo, dove nei giorni di pioggia o di forte maltempo, poter passare l’ora d’aria, un frigo in cella, il pane fresco nei giorni festivi, non possiamo nemmeno organizzarci la spesa per la settimana, perché non conosciamo il saldo disponibile, oltre al fatto che la consegna della spesa avviene ogni 15 giorni, abbiamo bisogno del nullaosta per avere la coperta personale, non possiamo partecipare a nessun tipo di corso (es. teatrale), utile anche per un possibile e sperato reinserimento nel tessuto sociale. Per questo vorremo rivolgere un appello a chi di competenza, affinché possa adottare soluzioni rapide ed efficienti per risolvere la grave situazione di disagio e umiliazione in cui versiamo. Tutti noi detenuti siamo consapevoli che dobbiamo scontare la nostra pena, ma chiediamo solo di scontarla in modo dignitoso e soprattutto umano, augurandoci, così, che chi di dovere provi a migliorare le nostre condizioni carcerarie, anche nell’ottica di un recupero di ogni individuo presente nella struttura, senza distinzione alcuna, così come prevede la Costituzione. I detenuti del carcere Panzera di Reggio Calabria Sicilia. Escalation di suicidi in carcere, esposto del Codacons livesicilia.it, 11 ottobre 2022 Un esposto alle Procure di Palermo e Catania per istigazione al suicidio è stato presentato dal Codacons Sicilia a causa del “numero di persone che si sono tolte la vita nelle prigioni siciliane in forte crescita rispetto al 2021, già 10 dall’inizio dell’anno”. Per l’associazione “la situazione all’interno delle carceri in Sicilia, in assenza di progetti, servizi e veri e propri interventi strutturali volti a migliorare l’organizzazione e la convivenza tra detenuti, sta diventando sempre più insostenibile” e con l’iniziativa il Codacons Sicilia vuole “squarciare un insopportabile velo di omertà che riguarda l’ambiente carcerario”. “L’Isola è diventata la seconda regione italiana per numero di suicidi dietro le sbarre - afferma l’avv. Carmelo Sardella, Dirigente dell’Ufficio Legale Codacons - e con un tasso di suicidi aumentato di almeno venti volte. È emergenza. Il problema si interseca con quello del sovraffollamento, denunciato anche dal garante nazionale dei detenuti, insopportabile per un Paese che si dice civile”. Per il legale “è doveroso, accertare se i suicidi e le morti sospette avvenute nell’ultimo periodo nelle carceri siciliane siano frutto di una subdola coartazione della volontà che abbia determinato o rafforzato il proposito dei detenuti al suicidio, tanto da integrare il reato di istigazione al suicidio”. Brescia. Tre suicidi in cella in meno di due anni, la Garante: “Non è accettabile” di Manuel Colosio Corriere della Sera, 11 ottobre 2022 La Garante chiede più fondi e operatori. Ma anche liste di attesa contro il sovraffollamento. Tre suicidi in meno di due anni nelle carceri bresciane non si vedevano da tempo. La situazione è di drammaticità estrema, non si può andare avanti così. Il tema del carcere viene costantemente dimenticato”. Lancia un grido d’allarme la Garante delle persone private di libertà di Brescia, Luisa Ravagnani, a seguito della notizia del suicidio di una detenuta 50enne nella Casa di reclusione di Verziano la notte tra il 7 e 8 ottobre scorso. L’ultimo caso in Italia, registrato nel bresciano, porta il dato nazionale a 67 detenuti che si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno. “Così tanti non si registravano almeno dal 2009” osserva Ravagnani, sostenuta dalle statistiche più recenti che confermano una tendenza in continua crescita e che pone l’Italia sopra la media europea per tasso di suicidi ogni diecimila detenuti: nel 2018 era di 10,4, sceso nel 2019, ma per poi risalire a 11 nel 2020 e 10,6 nel 2021. Ad oggi in Italia siamo a 12,4 suicidi ogni 10 mila detenuti e, visto che il numero presumibilmente crescerà ancora, a dicembre si raggiungerà una quota che non si registrava da 20 anni a questa parte. Le cause di quanto sta accadendo sono molteplici, ma ruotano tutte attorno al problema cronico del sovraffollamento e della mancanza di finanziamenti. Questioni che Brescia conosce bene, soprattutto al Nerio Fischione, in cima alla triste classifica italiana per sovraffollamento con i suoi 309 detenuti rispetto ad una capienza di 189 posti. Il secondo carcere bresciano, quello di Verziano, se la passa un poco meglio, ma non bene: circa 110 le persone recluse di fronte ad una capienza sulla carta di 72. “Non è più tollerabile una situazione di questo tipo. Non sono numeri o statistiche, sono persone che vivono in condizioni di forte disagio quotidiano” sottolinea sempre Ravagnani, aggiungendo come “ad un numero insostenibile di detenuti faccia da contraltare un bassissimo numero di operatori come psicologi, psichiatri o educatori, tutte figure indispensabili per avviare percorsi che possono evitare drammi come quello dei suicidi”. Servono quindi finanziamenti e organizzazione per invertire la rotta nel lungo periodo, mentre nell’immediato una soluzione per alleviare la pressione passa da un altro dato: il 51% dei detenuti sconta una pena compresa tra 1 e 3 anni. “Siamo sicuri che sia necessario per questi detenuti scontarla in carcere? Non esistono misure alternative?” domanda quindi Ravagnani, che mette sul piatto anche una proposta già prevista in altri paesi europei, quella delle “liste di attesa” che prevedono “si entri in carcere solo se viene rispettata la capienza, in modo da assicurare una detenzione dignitosa e umana. Se non c’è posto, si attende fuori. Si tratta di una soluzione con alcuni limiti ma che, almeno, prende di petto il problema. In Italia sul carcere si spendono fiumi di parole, ma non bastano più. Ora, più che mai, è necessario intervenire”. Roma. Stranieri in rivolta nel Cpr di Ponte Galeria garantedetenutilazio.it, 11 ottobre 2022 Anastasìa: “Chi si sorprende per quanto accaduto non ha idea di cosa sia quel posto”. “Il centro di permanenza per i rimpatri di Ponte Galeria, nonostante la disponibilità dell’ente gestore, della Regione e delle associazioni a fare qualcosa, è un luogo di assoluto abbrutimento, in cui non accade nulla, in attesa che scadano i tempi di trattenimento o non avvenga la fatidica espulsione. Chi si sorprende per quanto accaduto non ha idea di cosa sia quel posto”. Così il Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Stefano Anastasìa, dopo aver appreso dei disordini avvenuti nella notte tra il 3 e il 4 ottobre nel Centro di permanenza per il rimpatrio (Cpr) di Ponte Galeria. “Si vuole mantenere quella retrovia della Fortezza Europa nel territorio della Capitale - prosegue Anastasìa - giusto per rappresentare la durezza simbolica della legislazione sull’immigrazione, ma almeno si garantiscano attività e condizioni di trattenimento dignitose”. Si apprende che, intorno alla mezzanotte, gli ospiti del centro avrebbero lanciato mattoni e pezzi di cemento contro polizia e carabinieri, li avrebbero attesi asserragliati all’interno impugnando le lastre di ferro sfilate dai telai incardinati alle pareti. Altri sarebbero saliti sul tetto e avrebbero tentato di scavalcare la recinzione. Uno straniero è caduto rompendosi una gamba ed è finito in ospedale. Scene di guerriglia e devastazione che hanno danneggiato di nuovo la struttura, ristrutturata recentemente, dopo che nel 2019 gli immigrati diedero fuoco ai materassi e le fiamme si propagarono agli ambienti comuni. La rabbia degli ospiti ha costretto chi gestisce la sicurezza a chiamare rinforzi. Poliziotti e carabinieri circondano l’area e aspettano che gli animi si calmino. Dopo un’ora, gli immigrati fanno un passo indietro. Milano. Il giudice: “La misura cautelare sia afflittiva”. Penalisti in rivolta Il Dubbio, 11 ottobre 2022 La Camera Penale di Milano esprime sconcerto per la “gaffe” del giudice, che ha rigettato la richiesta di colloqui da parte di un detenuto ai domiciliari. “Le misure cautelari non devono avere natura afflittiva”. Lo ribadisce la Camera Penale di Milano esprimendo sconcerto perché un giudice, rispondendo alla richiesta di colloqui da parte di un detenuto ai domiciliari, ha rigettato l’istanza evidenziando il pericolo di “vanificare il contenuto afflittivo della misura”. “Le misure cautelari non hanno la funzione di anticipare la pena” - “È una considerazione talmente stonata e fuori luogo da sorprendere qualsiasi lettore”, spiegano i rappresentanti dei legali, perché “le misure cautelari sono di natura provvisoria e servono a evitare pericoli per l’accertamento del reato nei confronti di una persona che non è stato ancora riconosciuta colpevole”. Queste misure “non hanno la funzione di anticipare la pena perché il nostro ordinamento si fonda sulla presunzione di non colpevolezza prevista dalla Costituzione”. Gaffe o sostanza? Il timore dei penalisti - Il timore degli avvocati, che hanno trasmesso il documento ai vertici del Tribunale, è che dietro questa “gaffe” di forma si celi anche un pensiero di sostanza, cioè che davvero ci siano magistrati convinti che una misura cautelare debba essere già di per sé afflittiva. “Auguriamoci che sia un lapsus - commenta il presidente della Camera Penale, Andrea Soliani. La Costituzione, peraltro, non parla né di misure cautelari né di pene che devono affliggere le persone. All’interno della nostra casa, il palazzo di Giustizia di Milano, deve essere chiaro che le misure cautelari non devono avere natura afflittiva”. Vallo della Lucania (Sa). Il Garante regionale dei detenuti in visita al carcere salernotoday.it, 11 ottobre 2022 Ieri il Garante Regionale delle persone sottoposte a misura restrittiva della libertà personale, Samuele Ciambriello, si è recato presso la Casa circondariale di Vallo della Lucania, dove è stato accolto dal direttore dell’Istituto, Caterina Sergio e dal dirigente aggiunto, Guido Piergallini. La visita - Il garante ha incontrato anche il sindaco di Vallo Della Lucania, Antonio Sansone. Con lui ed il direttore si è discusso dell’avvio di un progetto: “Accoglienza punto di ascolto per i familiari dei detenuti”. Tale progetto, dovrebbe svolgersi in una struttura esterna al carcere di proprietà del Comune, che verrà data in comodato d’uso per accogliere i familiari dei ristretti che attendono il loro turno per effettuare il colloquio. Ai 52 detenuti del carcere di Vallo è stato consegnato il “Codice ristretto”, una pratica guida pensata per offrire risposte agevoli ai detenuti e agli operatori del settore penale, elaborata dall’Osservatorio carceri delle Camere penali italiane e promosso in Campania dal Garante. Le parole di Ciambriello - “É necessario - ha affermato Ciambriello - incrementare il diritto al lavoro sia all’interno che all’esterno del carcere, così come è fondamentale incentivare le attività di pubblica utilità o socialmente utili in favore della collettività. Nota positiva per l’istituto di Vallo è rappresentata dall’assistenza di uno psicologo ogni 7 detenuti, purtroppo solo fino a dicembre. Mi auguro ci siamo altre progettualità da gennaio in poi in tal senso, così da continuare a garantire un adeguato supporto psicologico, necessario per chi si trova a vivere nella complessa realtà del carcere. Sono grato al sindaco di Vallo, alla direttrice, che giornalmente porta avanti azioni mirate a creare opportunità di crescita e di risocializzazione per i detenuti, e alla magistratura di sorveglianza di Salerno, non restia alla possibilità di concedere misure alternative. Mi auguro che enti locali, operatori del privato sociale e imprenditori - ha concsluo Ciambriello - possano essere sempre più sensibili a progetti di inclusione socio lavorativa per i detenuti di questo piccolo istituto”. Roma. Tra lettere e versi rap, donne e minori detenuti scoprono la libertà di raccontarsi di Gabriella Cantafio iodonna.it, 11 ottobre 2022 L’occasione di evasione offerta dai laboratori di scrittura creativa “Fuori la voce” con le donne recluse a Rebibbia e di musica rap con i ragazzi del carcere minorile di Catanzaro. “Offrire percorsi di formazione e nuove opportunità di inserimento sociale all’interno del carcere costituisce un primo passo per trovare la forza di reagire e guardare con maggiore fiducia al proprio futuro” afferma l’avvocato Paola Severino, già Ministro della Giustizia nonché ideatrice della Fondazione Severino, tra le cui mura, a seguito di un confronto tra gli avvocati Eleonora Di Benedetto e Mattia Zecca, è nata l’idea del laboratorio di scrittura creativa, “Fuori la voce”, rivolto alle donne detenute presso la sezione di Alta Sicurezza della Casa Circondariale femminile di Rebibbia. La scrittura aiuta a tirare fuori la voce - Far sentire la propria voce, spesso, impigliata tra le sbarre di un istituto penitenziario è l’obiettivo del progetto che ha riscosso un successo tale da diventare un laboratorio permanente. “Talvolta - racconta Zecca, coordinatore del laboratorio - le donne detenute arrivano qui per il comprensibile interesse verso un’attività che proviene dall’esterno. È un po’ come se, attraverso questo appuntamento settimanale in carcere, riuscissero a creare un ponte con il mondo oltre le sbarre. Ma poi basta il primo incontro per aprire le porte della propria anima e appassionarsi all’attività di scrittura, grazie alla professionalità di autori come Valentina Farinaccio e Valerio Callieri, con cui si crea un rapporto empatico di reciproco ascolto”. Lettere che valicano le sbarre di Rebibbia - A rompere il ghiaccio è l’invito a scrivere una lettera da indirizzare a una persona cara. “Questo esercizio di scrittura dà libero sfogo alle emozioni trattenute. Vengono fuori storie non dichiaratamente autobiografiche, in cui il vissuto di queste donne si amalgama con la loro creatività” dice Zecca, per giunta anche lui scrittore. Nessuna donna è mai obbligata a dichiarare il reato che l’ha condotta in carcere, a costituire il tratto distintivo del laboratorio sono gli strumenti espressivi messi a disposizione per offrire loro l’opportunità di raccontare sé stesse, in punta di penna, condividendo esperienze e sentimenti. Il risultato è un mosaico di storie provenienti da Paesi e contesti sociali differenti, incastrate tra loro con il collante della sofferenza. La nascita di un romanzo collettivo - “Unendo questi racconti che custodiscono pezzi di vita, attualmente guidate dallo scrittore Valerio Callieri, le donne iniziano un lavoro di editing che, presto, porterà alla creazione di un unico romanzo collettivo” spiega l’ideatore di “Fuori la voce”. Fiero di assicurare, attraverso l’espressione letteraria, la funzione educativa della pena, così come previsto dal 3° comma dell’articolo 27 della Costituzione. Per appassionare le donne detenute alla lettura e, al contempo, accrescere la loro padronanza nella scrittura, all’interno della Casa Circondariale femminile “G. Stefanini” di Rebibbia, sono previsti anche incontri periodici con scrittori italiani, “Dentro le pagine”. L’umanità in carcere, oltre ogni pregiudizio - “È innegabile - precisa Zecca - l’iniziale reticenza a raccontare le proprie storie con una forte componente dolorosa, ma il processo introspettivo offerto dalla scrittura consente loro una maggiore conoscenza di sé stesse e, dunque, le aiuta a schiudersi, talvolta anche con ironia”. Come nel caso di Giulia, come tante altre donne detenute, con un passato segnato dalla prevaricazione maschile, che è riuscita ad esorcizzare il suo dolore tra le pagine scritte di impulso e, poi, lette con grande pathos. “Nell’ideale collettivo, il carcere è un luogo buio, dalle tinte fosche, ma attraverso il nostro impegno ricordiamo all’intera società quanta umanità pulsa tra quelle mura” conclude, confidando il desiderio di valicare i confini regionali per portare “Fuori la voce” in ogni angolo d’Italia, in sinergia con altre associazioni. Un’opportunità di riscatto nel carcere minorile di Catanzaro - Tante, infatti, sono le realtà che offrono un’opportunità di riscatto attraverso attività culturali negli istituti penitenziari: scendendo verso la punta dello Stivale, a coinvolgere i minori detenuti presso l’Istituto Penale per Minorenni di Catanzaro c’è il rapper Kento, all’anagrafe Francesco Carlo, che li avvicina alla scrittura e alla registrazione di versi rap. Una vita difficile tradotta in versi rap - “Per la Generazione Z, il rap è un linguaggio naturale, a cui sono abituati. Non devo spiegargli nulla, alla maggior parte viene spontaneo esprimersi in versi rap. Non c’è linguaggio migliore per aiutare questi ragazzi, tra i 14 e i 17 anni, a raccontarsi” dichiara Kento, fiero del laboratorio che tiene, una volta a settimana, a Catanzaro, grazie al Presidio Culturale Permanente promosso dall’associazione Crisi Come Opportunità, attiva anche in altre carceri italiane. La penna scava dentro le esistenze dei giovani detenuti - Incanalare nella creatività la rabbia e la frustrazione per la condizione in cui si ritrovano è l’obiettivo perseguito con successo da Kento che racconta “a me non interessa affatto creare piccoli rapper, bensì avvicinare al mezzo espressivo a loro più affine adolescenti che, prima di frequentare questo laboratorio, non erano capaci di esternare le proprie emozioni. Ora poggiano la penna sul foglio e riescono a scavare dentro sé stessi”. A venire a galla sono sentimenti contrastanti, ma a prevalere è sempre la sete di normalità, per loro racchiusa nelle uscite con gli amici o la fidanzata nonché nel sogno di una famiglia, spesso, mai avuta. La rabbia incanalata nei versi giusti - “Non appena arrivo, la prima domanda che gli pongo è “Di cosa vogliamo parlare in questi versi?” e si scatena un fiume di proposte più o meno attuabili. Tempo fa - ricorda accennando un sorriso - mi hanno risposto di voler scrivere un testo per offendere le madri dei giudici che, spesso, si arrogano il diritto di giudicare le loro vite, senza soffermarsi sul loro passato. Spiegando loro che con gli insulti non si ottiene alcun risultato, li ho aiutati a scrivere un testo in cui raccontano i loro sbagli e il loro vissuto, a cui spesso le istituzioni danno scarsa importanza, ma anche il loro desiderio di cambiamento. Nel momento in cui, durante il saggio di Natale, si sono ritrovati a cantare quel testo insieme ai giudici, hanno avuto la prova che quello era il giusto approccio”. Le “barre” di emozioni - Italiani, stranieri, poveri, orfani, analfabeti o colti: poco conta la provenienza dei giovani detenuti o la capacità di creare subito rime, è importante soltanto il messaggio da trasmettere e dunque l’emozione che vibra nell’aria e viene racchiusa nelle “barre”. Barre, così vengono definiti comunemente i versi di una strofa rap. Come quelle di metallo delle celle. Come i segni di penna sui nomi dei ragazzi che non frequentano più i laboratori perché sono diventati grandi e devono trasferirsi nel carcere degli adulti o perché sono finalmente liberi. Barre, come il titolo del libro in cui Kento racchiude quest’esperienza straordinaria. La strada dell’inclusione - “Oltre a dare un’occasione di riscatto a questi ragazzi, cerchiamo di far giungere la loro voce sino a fuori, sensibilizzando la società che deve offrire loro maggiori opportunità per diventare nuovi adulti liberi e consapevoli” afferma Kento, mostrando il video de “La mia strada”, il brano recentemente pubblicato, registrato con strumentazione tecnica professionale all’interno del carcere minorile. La paura della libertà - Frattanto, i ragazzi sono già alle prese con nuovi testi da scrivere, nuove tematiche da esplorare, come l’amore che sperano li attenda oltre i cancelli. “Inevitabilmente, capita che qualcuno arrivi al laboratorio con aria di sfida, ma poi, nel corso dei nostri appuntamenti settimanali, tutti si appassionano sino a sperare di avere maggiori occasioni di esibirsi dal vivo. Non è facile, c’è un iter di autorizzazioni da chiedere, ma non demordiamo: miriamo a propagare le strofe di questi ragazzi che, spesso, temono la libertà, perché non l’hanno mai conosciuta” chiosa Kento. Palermo. L’arte come via di fuga ed emancipazione. Al Malaspina laboratori di Spazio Acrobazie di Irene Carmina La Repubblica, 11 ottobre 2022 Il progetto, che unisce la riqualificazione ambientale alla rieducazione dei detenuti, andrà avanti per due anni, con la partecipazione di Flavio Favelli, Genuardi/Ruta, Paolo Gonzato, Marzia Migliora, Andrea Sala, Francesco Simeti e Stefania Galegati. Le pareti bianche dell’area ricreativa del carcere minorile “Malaspina” si riempiono di forme geometriche colorate. Diventano una cerniera tra dentro e fuori. È il primo dei progetti di “Spazio Acrobazie. Laboratorio produttivo e di riqualificazione attraverso la mediazione artistica”, curato da Elisa Fulco e Antonio Leone. A realizzarlo è stato il duo artistico Genuardi/Ruta, che ha coinvolto otto giovani detenuti del Malaspina nella creazione di un wall painting inaugurato lo scorso sabato. Alcuni di loro giocavano a basket quando sono arrivati gli artisti. Hanno lasciato la palla a terra: “Volevano capire che effetto fa creare opere d’arte - dice l’artista ragusano Leonardo Ruta, uno degli artisti - Erano stupiti che si potesse vivere di arte”. È un’alternativa a cui forse non avevano mai pensato. “Eravamo tutti impreparati - noi artisti e i ragazzi detenuti - non sapevamo cosa aspettarci da questa esperienza, ma alla fine ci siamo ritrovati tutti arricchiti”, confida Ruta. Prima i muri, poi il campo da basket. “Anche l’area di gioco verrà ridisegnata e ci sarà una palla dedicata a questo progetto”, spiega la curatrice Elisa Fulco. Ma Spazio Acrobazie non si limita a riqualificare l’istituto penale minorile. L’arte contemporanea arriverà anche all’Ucciardone e coinvolgerà anche i detenuti in esecuzione penale esterna. “Il prossimo intervento, ad opera di Paolo Gonzato, riguarderà l’area verde dell’Ucciardone dove si svolgono le visite dei familiari - precisa Fulco - Ma non ci fermeremo a riqualificare gli spazi delle carceri, traghettandoli fuori dall’immaginario collettivo di luogo di delinquenza e di degrado, organizzeremo anche visite guidate nei musei, i ragazzi scopriranno le marionette a Palazzo Abatellis, parteciperanno a laboratori a Palazzo Riso”. Il progetto, che unisce la riqualificazione ambientale alla rieducazione dei detenuti, andrà avanti per due anni, con la partecipazione di Flavio Favelli, Genuardi/Ruta, Paolo Gonzato, Marzia Migliora, Andrea Sala, Francesco Simeti e Stefania Galegati. “È un progetto molto importante per i nostri ragazzi - dice la direttrice del Malaspina Clara Pandaro - Attraverso l’arte lavorano sul proprio mondo interiore, vengono stimolati, responsabilizzati e imparano ad apprezzare la bellezza dei luoghi in cui vivono per potersi poi prendere cura degli spazi della città una volta che saranno usciti dal carcere”. Dall’isola degli ergastolani l’insegnamento: “Mai più vendetta di Stato” di Chiara Graziani L’Osservatore Romano, 11 ottobre 2022 La morte di Stato, la pena più inumana, non è ancora stata consegnata ai rottami della storia. Il visitatore del museo della dignità umana che sta prendendo forma in un luogo storico di sofferenza ed oppressione - l’isola degli ergastolani di Santo Stefano - si troverà davanti questa sfida. Un’installazione, una mappa del mondo ospitata nel carcere borbonico, renderà conto del numero di condanne alla pena capitale e di esecuzioni nel mondo. Il contatore del boia scatterà ogni volta che un tribunale degli uomini deciderà di infliggere la morte di Stato. E anche quando lo Stato si sarà preso quella vita. Sarà sorprendente toccare con mano quanta strade occorra fare ancora. Non a caso il visitatore si troverà faccia a faccia con l’evidenza della crudeltà ultima del potere, alla fine di un percorso nella storia di un luogo di prigionia fra i più duri. Santo Stefano, scrisse un giornalista negli anni 50 del secolo scorso, era “nient’altro che un corridoio buio con le pareti lisce con in fondo una bara e ad un buco”. Chi sbarcava lì - a remi perché non c’era neppure un approdo decente - su quello scoglio in mezzo al Tirreno, guardava la nave che l’aveva deposto al largo come l’ultimo addio prima di essere inumato nella “tomba dei vivi”. Il carcere Panopticon di Santo Stefano, affidato da due anni alle cure della commissaria di governo Silvia Costa, è già in parte recuperato dopo 50 anni di degrado. Entro un paio d’anni diventerà, sotto la guida di un comitato scientifico di architetti, ingegneri, biologi marini, giuristi e perfino artisti, un luogo di ispirazione da visitare guidati dalle domande: “Che cos’è la libertà? Cosa fare per ottenerla? Quali pericoli corre?”. In definitiva: che cos’è la dignità umana? Si partirà dal contatto con uno degli ambienti più ricchi di biodiversità del Tirreno, dove passano tutti gli uccelli migranti del continente e dove i nidi sono nascosti fra le rocce. Per spiegare che l’ambiente che ci sostiene è una sfida di libertà e sviluppo. Si salirà fra i ricordi della primavera di Santo Stefano, otto anni in cui il direttore Eugenio Penicani, cattolico e napoletano, trasformò una discarica umana in un luogo di costruzione della dignità (il più piccolo dei suoi dieci figli avrà per balia asciutta un ergastolano). Si scoprirà che quell’uomo fu allontanato al nono anno (196o) il carcere chiuso e metodicamente vandalizzato. Si sfilerà accanto ai letti di contenzione, ritirati fuori dalle cantine, scheletri di ferro con un buco al centro per chi vi veniva legato, nudo, per giorni, fino alla mansuetudine dello sfinimento. All’interno del carcere, al quale era stata data la forma circolare del teatro San Carlo, con i palchi ad ospitare le celle - isola nell’isola - si passerà tra le storie degli sconosciuti, dei tristemente noti e delle generazioni di detenuti politici rinchiusi qui: Spaventa, Settembrini, l’anarchico Bresci, il futuro presidente della Repubblica Pertini. Le celle, ristrutturate ma senza mascherare i luoghi, saranno “arredate di parole”, spiegano i responsabili del progetto. Vicende, analisi, spunti di riflessione. Le ultime parole a interpellare chi si farà ispirare dalla storia narrata, arriveranno al culmine di un cammino di scoperta, idealmente e materialmente in salita. Quanti esseri umani, oggi, subiscono ancora la più inumana delle pene, quella di morte? Non è ancora stato deciso dove l’atlante della pena capitale sarà collocato. Il Panopticon ha la struttura di un teatro ed è a cielo aperto. Il comitato ha deciso ed i creativi dovranno realizzarlo. Da qui a due anni dovrebbe essere incastonato nella struttura, unico elemento aggiunto all’architettura dei luoghi. Ricorderà, nelle intenzioni di chi l’ha immaginato, quanto la vendetta, dall’ergastolo senza speranza al patibolo, ancora sia al lavoro per disarticolare un mondo meravigliosamente connesso. Ed in grado di cambiare. Il buco nero delle Rsa. Inchiesta su degrado e disagi da nord a sud di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 11 ottobre 2022 Numeri di anziani superiori alla capienza massima autorizzata, maltrattamenti, blatte nelle cucine, pochi operatori socio sanitari (oss) nei turni di lavoro, alcuni senza qualifica. Ogni volta che i Nas organizzano dei controlli a tappeto emergono puntualmente queste problematiche riguardanti le residenze per anziani. Strutture che, non a caso, vengono monitorate anche dal garante nazionale delle persone private della libertà. Come emerse da uno studio realizzato dalla Spi-Cgil, le residenze per gli anziani sono per lo più private, molto costose e mediamente poco trasparenti. Su 4mila strutture analizzate in tutta Italia è emerso che solo il 14% sono pubbliche e gestite direttamente dai Comuni, dalle associazioni o consorzi ad essi legate, da Aziende sanitarie o da Aziende Pubbliche di Servizi alla Persona (ASP). Il restante è invece gestito da privati, enti religiosi, Onlus, Fondazioni e cooperative. A livello economico convengono le strutture pubbliche, le cui rette massime nel 46% dei casi non superano i 60 euro al giorno (circa 1.800 euro al mese). In quelle private invece la spesa economica da sostenere è più elevata e può arrivare (nel 39%) oltre gli 80 euro giornalieri (circa 2.500 euro al mese). Tra quelle private quelle più costose sono quelle riferite all’area profit (54% ha rette superiori agli 80 euro giornalieri), seguite da quelle gestite da cooperative, dalle Fondazioni e dagli enti religiosi. Più basse le rette nelle strutture gestite da Onlus e da Associazioni. Le rette massime riguardano principalmente le strutture che si occupano di persone non autosufficienti e le strutture di grande dimensione, basse solo nel 17% dei casi mentre nel 45% superano gli 80 euro giornalieri. Se il 68% delle strutture private comunica informazioni sul personale impiegato e il 77% ha un sito web sono solo il 38% quelle che pubblicano la Carta dei servizi. Va decisamente meglio in quelle pubbliche, che nell’ 86% dei casi danno informazioni più o meno dettagliate. Poco più della metà di quelli che gestiscono strutture residenziali per anziani fornisce informazioni a fronte del 68% delle cooperative, il 69% delle aziende private di mercato, il 76% delle Onlus e il 74% delle Fondazioni. Ma per capire la dimensione del problema riguardante il rispetto della dignità degli anziani ospitati, basterebbe leggere l’ultimo rapporto dei Nas reperibile sul sito del ministero della Salute. Hanno ispezionato, sull’intero territorio nazionale, 351 strutture, tra residenze assistenziali assistite (Rsa), case di riposo, comunità alloggio e case famiglia, individuandone 70 irregolari, pari al 20% degli obiettivi controllati, contestando 127 sanzioni penali e amministrative, per oltre 40 mila euro. Tra le violazioni più ricorrenti, carenze strutturali ed organizzative delle strutture come la presenza di un numero superiore di anziani rispetto alla capienza massima autorizzata, spesso collocati in ambienti eccessivamente ristretti e situazioni di minore assistenza delle persone ospitate, riconducibili a un numero ridotto di operatori per turno di servizio, in alcuni casi privi di adeguata qualifica e professionalità. In un caso particolare, il Nas di Udine ha deferito all’Autorità giudiziaria un’operatrice socio assistenziale di una casa di riposo, responsabile di aver cagionato lesioni ad un 91enne ospite della struttura, rovinandogli addosso mentre lo accudiva perché ubriaca. Ulteriori inosservanze hanno interessato la normativa anti- infortunistica e di prevenzione degli incendi. Al riguardo, presso una comunità alloggio per anziani di Palermo, il Nas ha accertato la totale assenza del sistema antincendio. Anche le modalità di preparazione dei pasti per gli ospiti sono state oggetto di controllo, con casi eclatanti relativi a due Rsa della provincia di Pavia, nelle cui cucine è stata riscontrata la presenza di animali infestanti e blatte. Le Rsa fanno gola ai privati. Secondo una ricerca di Pio De Gregorio di Ubi Banca, in Italia stanno vivendo un vero boom trainato dalla domanda. Nel 2035 gli anziani non autosufficienti in Italia saranno circa 560mila e la domanda di posti letto nelle Rsa crescerà tra le 206mila e le 341mila unità che richiederanno un investimento complessivo tra i 14,4 e i 23,8 miliardi. Il settore fa gola perché le Rsa sono un investimento “assicurato”, anticiclico rispetto all’economia e assai redditizio: nelle strutture private al crescere delle dimensioni cresce la redditività. Invece altri Paesi vanno verso forme di residenzialità differenti, con appartamenti protetti e strutture più piccole dove si privilegia la qualità dei servizi e l’alto livello di umanità. Ma in Italia c’è anche il problema delle case famiglia. Come emerge dallo studio della Sps - Cgil, per avviare questa particolare attività commerciale basta una semplice dichiarazione (la Dia) e non c’è bisogno di un’autorizzazione preventiva al funzionamento. In questo modo anche persone senza competenze e conoscenza del settore dell’assistenza socio-sanitaria agli anziani possono aprire e gestire una struttura residenziale. A rimetterci sono gli ospiti anziani, ma anche gli operatori. Turni massacranti, tanto da provocare il burnout e con la conseguenza che possono sfociare con degli sfoghi contro gli anziani. Non è un caso che le notizie di cronaca sui maltrattamenti agli anziani, la maggior parte riguardano proprio le case famiglia. È tutto nero? No, ci sono esempi. Prendiamo ad esempio la Casa di Vela, periferia di Trento. Il progetto è stato avviato nel 2014 e si occupa di cohousing intergenerazionale. Le persone che risiedono negli appartamenti sono anziani parzialmente autonomi e studenti dell’Università di Trento: cinque persone over 80 e sei studenti tra i 20 e i 30 anni. A questi si aggiungono due assistenti familiari che supportano i residenti non autonomi. La rete di supporto include inoltre servizi di trasporto, animazione culturale e sociale, e operatori sanitari. Nel 2015 il progetto “Casa alla Vela” è stato menzionato in una pubblicazione dell’Onu tra le migliori 11 buone prassi europee nel campo delle politiche sociali e, nello specifico, tra le strategie di cura innovative per la popolazione anziana. Forse è questo da valorizzare, prima che sia troppo tardi. Il “No” alla guerra bisogna manifestarlo di Massimo Valpiana* Il Manifesto, 11 ottobre 2022 La pace in piazza. Preparando la mobilitazione per i giorni 21, 22, 23 ottobre in tutte le città italiane “verso una Conferenza internazionale di pace”. Missili puntati sui civili di Kiev, un crimine di guerra. Bisogna fermare la follia assassina del Cremlino che punta sulle città. Ma come? Lanciando altri missili assassini? Vendetta su vendetta, odio su odio, occhio per occhio ci renderà tutti ciechi. È il momento della condanna unanime del criminale ma bisogna farlo senza diventare come lui. La guerra atomica la perdono tutti, chi spara prima o dopo. La guerra stessa è un crimine contro l’umanità. Eravamo a Kiev la settimana scorsa, con la Carovana “Stop the war now” nella zona universitaria colpita oggi. La gente che abbiamo incontrato ora è nei rifugi della metropolitana, interi quartieri senza luce e senza acqua. È terribile. Noi, che ora siamo qui “al sicuro”, abbiamo ancora più responsabilità: perseguire la via del cessate il fuoco, diplomazia, Conferenza internazionale di pace. Dunque, che possiamo fare? Se facciamo la manifestazione per la pace, ci dicono che non serve a niente. Se non la facciamo, ci chiedono: Perché non scendete in piazza?”. Insomma i pacifisti sarebbero colpevoli di non aver fatto niente, o di aver fatto troppo. Vale quindi la pena ripercorrere quello che finora abbiamo fatto in questi mesi. Prima però bisogna fare un passo indietro, quando denunciavamo che l’Italia vendeva armi alla Russia anche dopo l’annessione della Crimea, nonostante l’embargo: veicoli blindati terrestri Iveco per un valore di 25 milioni sono arrivati al regime di Putin e fino a novembre 2021 l’Italia ha trasferito 22 milioni di euro di armi e munizioni. Quando l’Assemblea generale dell’Onu nel 2017 ha approvato il Trattato per la messa al bando della armi nucleari, noi abbiamo spinto affinché anche l’Italia votasse e ratificasse quella decisione, ma il governo italiano non ha aderito, allineandosi alla posizione nuclearista della Russia e degli Usa. Sono solo due antefatti che dimostrano come noi ci siamo mossi prima della guerra odierna, in tempi non sospetti, per contrastare il potere militare anche della Russia, mentre altri facevano affari e permettevano a Mosca di armarsi sempre più. Pochi giorni dopo l’inizio della guerra di aggressione, abbiamo convocato una manifestazione nazionale a Roma con il titolo “Cessate il fuoco!”. Più di 50 mila persone si sono ritrovate sulle tre parole chiave: Soccorrere - Trattare - Disarmare, che hanno costituito la base di impegno programmatico di un movimento che velocemente si è diffuso in tutte le città. Già ad inizio aprile è partita la prima Carovana di Stop The War Now (iniziativa che raccoglie 175 associazioni) in direzione Leopoli, con l’obiettivo di aprire un corridoio stabile per più missioni che potessero trasportare aiuti e portare in salvo più persone possibile. Nei mesi si sono succedute altre carovane, anche a Odessa e Mykolaiv, e abbiamo portato tonnellate e tonnellate di aiuti, compreso un dissalatore per assicurare acqua potabile alla città assediata, e abbiamo portato in salvo in Italia un migliaio di persone, donne e bambini, in fuga dalla guerra. Il 18 giugno a Roma abbiamo realizzato un incontro pensato per costruire un’Europa di pace, da cui è nato un appello/proposta rivolta all’Unione Europea, e il coordinamento Europe for Peace, che il 23 luglio ha mobilitato 60 piazze italiane, con il documento “cessate il fuoco e negoziato subito”. Il 21 settembre Europe for Peace ha scritto una lettera al Segretario delle Nazioni Unite Guterres, sostenendo il lavoro “necessario a rafforzare percorsi multilaterali di Pace”. Dal 26 settembre al 3 ottobre, abbiamo dato vita ad una nuova Carovana di pace in Ucraina, giunta fino a Kiev, per incontrare e stringere rapporti con la società civile, ed in particolare gruppi giovanili di studenti e obiettori di coscienza e il Movimento pacifista ucraino. Nel frattempo abbiamo creato relazioni costanti con i pacifisti e gli obiettori di coscienza russi, facendo informazione e sostenendo la richiesta all’Unione Europea e ai governi degli stati aderenti di offrire protezione e asilo agli obiettori di coscienza russi, bielorussi e ucraini. Ora stiamo preparando la mobilitazione per i giorni 21, 22, 23 ottobre in tutte le città italiane “verso una Conferenza internazionale di pace”. Questo percorso sfocerà nella manifestazione unitaria nazionale che raccoglierà tutti i contenuti e le proposte elaborate fino ad oggi, e si rivolgerà a tutte le parti chiamate in causa che possono davvero contribuire a creare percorsi di pace. Sarà una manifestazione popolare, oltre i tradizionali steccati della politica, per tutti coloro che condividono il programma tracciato e l’obiettivo finale: tacciano le armi, spazio al negoziato, conferenza internazionale di pace. Una manifestazione non può fermare le bombe, ma può lanciare un messaggio di dialogo e solidarietà con le voci che in Russia e in Ucraina chiedono una pace giusta. *Presidente del Movimento Nonviolento; Esecutivo di Rete italiana Pace e Disarmo Per chiedere la pace bisogna marciare sotto l’ambasciata russa di Luigi Manconi La Repubblica, 11 ottobre 2022 E se la manifestazione pacifista, quando sarà, si concludesse davanti alla sede dell’ambasciata russa a Roma? E se l’intera mobilitazione contro la guerra indicasse come costante punto di arrivo e come destinazione simbolica le rappresentanze diplomatiche della Federazione Russa in Italia? Le manifestazioni sono gesti, messaggi, atti pubblici e raggiungere in migliaia e migliaia quei luoghi avrebbe un significato nitido e inequivocabile: la responsabilità della guerra è della Russia, la causa dell’escalation va attribuita a Vladimir Putin, il principale ostacolo alla trattativa è rappresentato dal Cremlino. Questo vuol dire che non ci sono altre responsabilità? Assolutamente no: alla situazione attuale, hanno contribuito, in varie modalità e in diversa misura, gli Stati Uniti, la Nato e l’Europa. Nella storia del pacifismo si trovano due componenti. Una di natura profetica, di origine religiosa o laica, e un’altra di natura pragmatica e profondamente politica. E la politica esige sempre l’indicazione dell’ordine delle priorità. Oggi, la priorità è costituita, nel tempo e nello spazio, dall’invasione dell’Ucraina del 24 febbraio scorso a opera della Russia e dalla strategia imperialista di quest’ultima. Posso affermarlo serenamente perché, all’epoca dell’invasione dell’Iraq, la priorità era un’altra e non esitai un istante a denunciare le colpe dell’amministrazione statunitense. Per questo, ora, ritengo grave qualunque omissione o distrazione rispetto alla tragedia ucraina. D’altra parte, ho letto con attenzione e rispetto il documento promosso da Europe for Peace e da centinaia di organizzazioni che aderiscono a quella campagna (innanzitutto la Rete italiana Pace e Disarmo) e ne condivido l’ispirazione e il principale obiettivo: ovvero, la convocazione di una Conferenza internazionale di pace sulla base del concetto di “sicurezza condivisa”. Di più: l’appello in questione contiene molti passaggi interessanti e, dunque, non posso che aderire. Ma, poi, trovo alcune reticenze che voglio con tutto il cuore attribuire solo alla frettolosità con cui vengono scritti testi di tal genere. Là dove si parla di “rinnovate e inaccettabili minacce nucleari” ci si scorda di aggiungere quell’indispensabile aggettivo qualificativo: russe; così come, nel segnalare il procedere dell’escalation, non si menziona il peso avuto, in questa dinamica, dall’annessione dei quattro territori ucraini. Tuttavia, dal momento che conosco personalmente i dirigenti della Rete Pace e Disarmo, la più affidabile organizzazione italiana contro la guerra, non dubito nemmeno per un momento che condividano la critica intransigente nei confronti delle mosse più recenti della Federazione Russa. Ma proprio per questo va evitato ogni equivoco e, in particolare, quella certa nebulosità che troppo spesso accompagna le istanze pacifiste e quel tratto “assoluto” che contraddice, appunto, il connotato pragmatico-politico della sua strategia, quell’irenismo che è proprio della teologia e della profezia, ma che male si concilia con la pratica di un movimento che voglia incidere sul qui e ora, sui rapporti di forza, sulle cose del mondo e della guerra. In caso contrario, si rischia davvero di contribuire a quella “pace terrificante” di cui cantava l’ultimo Fabrizio De André. Ecco, perché si eviti che la sacrosanta volontà di pace e l’umanissima angoscia per le sorti dell’umanità finiscano con l’azzerare le responsabilità e per mettere sullo stesso piano, magari inconsciamente, aggressori e aggrediti, forse può essere utile valorizzare la dimensione simbolica dell’azione collettiva e dei suoi obiettivi. Forse, far sì che i cortei per la pace finiscano davanti all’ambasciata del Paese che oggi - oggi! - più la minaccia, potrebbe essere un’idea. Quando il baratro fatale si avvicina la pace diventa possibile di Domenico Quirico La Stampa, 11 ottobre 2022 Putin ha perso la guerra e come tutti i tiranni sa che lo aspetta il tradimento dei suoi e la solitudine. Zelensky non l’ha ancora vinta. Ora chi sostiene i due nemici si imponga ed eviti l’uso dell’atomica. È nel momento in cui più si avvicina il baratro, irrimediabile, talmente profondo che non riusciamo nemmeno a misurarlo, così profondo da non avere eco, che la pace diventa possibile. Sì: non necessaria, possibile. Putin ha perso la guerra e, come tutti i tiranni, sa che l’unico copione per lui è il tradimento degli ex fedelissimi, la solitudine, la congiura fatale, forse la morte. Zelensky, che come molte vittime sta percorrendo rapidamente la strada che lo capovolge nel suo contrario, quella del delirio della dismisura, dell’offuscamento dei limiti, del messianesimo del Bene contro il Male, non l’ha ancora vinta. È per questo che coloro che tengono i fili che reggono i due avversari sul campo, li alimentano, devono approfittarne, per imporsi se necessario impedendo il passaggio successivo, il ricorso alla atomica. È una scintilla, bisogna alimentarla finché è possibile. Ma finora è stata sommersa in una quantità inimmaginabile di liquido corrosivo. Che il ricorso da parte dei russi all’atomica, piccola, grande... Che differenza fa? Sia propaganda ormai lo proclamano solo gli zeloti del credo atlantista, alla ricerca di medaglie da raccogliere in pantofole. Quelli che strillano “stiamo vincendo, volete salvare Putin... “ e “alla fine tutte le cose si sistemano” perché noi Occidente avremmo sempre ragione. Intanto, dato nuovo, l’idea dell’apocalisse possibile avanza nelle conversazioni, negli occhi, nell’aria, assidua presente come la luce. Se n’è accorto perfino il presidente americano Biden. Tutto lo scenario del conflitto è stato completamente modificato. Ora questa guerra è descrivibile in termini shakesperiani, una tragedia classica in cui contano umori e disperazione dell’uomo che può avviare il Giudizio universale. Gli analisti sono fuori gioco, le loro previsioni razionali, politiche non valgono un copeco. Solo gli studiosi dell’animo umano hanno la possibilità di descrivere e capire. Putin sta percorrendo le tappe del tiranno sconfitto, di Macbeth che vede l’impossibile, ovvero la foresta che cammina e marcia contro di lui. Via via, a poco a poco che le ritirate lo allontanano dalla sua corte dei miracoli, ha scoperto la vera solitudine che gli scortica il collo come un giogo. Come fu per Hitler, Gheddafi, Saddam. Che non è quella compiaciuta del potere ma quella disperata della sconfitta e della morte. Il silenzio scende nel Palazzo come per tanti altri prima di lui. Contro questa muffa non basterebbe più conquistare un qualunque ripiano nemico, tempestarlo rabbiosamente di missili perché si instauri di nuovo la prediletta, corale unanimità. Come lo aiuterebbe leggere, subito, le vite di Svetonio, i cui amari libri guariscono e feriscono l’anima descrivendo i labirinti del potere assoluto. Dove i despoti attaccati al presente ormai con tutta la forza che da loro la scoperta della morte, non progettano più, non cercano più, non discutono più: odiano. Nel silenzio un odore invade le sale, un odore che non assomiglia a nessun altro, animalesco, forte e insipido nello stesso tempo: l’odore del tradimento. Tutti i segni paurosi che avrebbero dovuto metterlo in guardia contro se stesso, sono gli altri a scorgerli nel suo guardare fosco, nel suo camminare, nella sua voce. Si osserva. E si accorge di quanto è cambiato nelle ultime settimane come se gli avvenimenti nefasti lo avessero lavorato a colpi di martello. Le armate che sulla carta dovevano inghiottire i chilometri, occupare, denazificare, si sono fatte fantasmi sulle carte, adesso con le mani piantate nel terreno a mala pena resistono, non possono fare altro. La gioventù della Russia neo imperiale se la dà a gambe o, rassegnata, nelle caserme attende di imparare come si fa a uccidere e a farsi uccidere. Tra poco arriverà il momento di gridare che la colpa è di quei renitenti, di quella gioventù rammollita che non ha saputo essere all’altezza del compito eroico, che merita quindi di morire. Altri, assediati nel bunker, lo hanno già fatto per assolversi dalla catastrofe. Bisogna cambiare i generali freneticamente, come gli allenatori di calcio che non sanno vincere. Sfilano uno dopo l’altro: promosso, cacciato, promosso, cacciato. Alla fine, dopo mesi, gli si miscela davanti sempre la stessa faccia gonfia, rubizza, ottusa, divisa verde divisa blu divisa grigia medaglie... Stretta di mano... Litania: vinceremo cambieremo tattica avanzeremo. Promettono, i bugiardi. Liquidato avanti un altro. E ancora le stesse trippe debordanti che confessano, da sole, un ventennio di corruzioni allegre e impunite, di sbornie quelle sì colossali, i generali da parata. E questo crapulone, rimugina lo zar, sarebbe “il macellaio della Siria”, e quell’altro “la folgore cecena”. E che dire del supposto “Kutuzov della Sirte”? Che buffonata la gloria! Giullari di corte, boiari della potenza immaginaria, un bluff costruito per la piazza rossa e i suoi riti di guerrafondai ecumenici, bandiere bolsceviche e croci zariste, passo marziale e marcette. Eppure proprio qualcuno di costoro potrebbe trovare una briciola di coraggio per tentare il golpe, che sarebbe l’unica offensiva riuscita della carriera. Una miserabile, cortigianesca piccola rivoluzione di ottobre. Fino a febbraio ha dato libero corso alla propria volontà di potenza, ha preteso di porsi al di sopra del bene e del male. Pensava, e questo è il vero nocciolo del dispotismo qualunque sia della sua ideologia, che gli uomini russi, ucraini, occidentali, tutti, possano essere fatti, modellati come sudditi obbedienti, materia che la macchina autoritaria sbriciola e insieme ne è l’ingranaggio. Si era ormai sganciato dall’ideologia. Il potere era caratterizzato da un cinico e spietato machiavellismo, fondato sulla sua brutale interpretazione della storia russa. Il suo motto era una domanda di Lenin che ha mille volte sillabato nella adolescenza sovietica di entusiasta pioniere: “Sarà nostro un mondo che non abbia sanguinato fino all’ultima goccia?”. Il mondo sanguina, eccome: ma sono sconfitti. Parate, celebrazioni, consegna di diplomi e patacche, lo sgobbo quotidiano che prima lo impiumava e oggi è solo grottesco, non gli danno più sostanza, lo stringono invece come quelle edere che sono ornamento vivo di un albero morto. Sa che il punto di non ritorno verrà quando si murerà nella sua sconfitta, se ne cingerà come un riparo; il letale diritto di non occuparsi più di nulla, di abbandonarsi, di essere a pezzi. Ma questo momento non è ancora arrivato e Putin proprio ora è doppiamente letale. Molto più che prima, quando aveva una possibilità di vincere o di sopravvivere e ragionava politicamente. Ora incarna il tiranno che considera la propria vita come potrebbe farlo un tisico che sembra ancora pieno di forza ma è senza speranza: nell’insieme confuso dei suoi sentimenti, l’odio e la paura mettono un ordine selvaggio, brutale e prendono il carattere di un dovere. L’odio assume l’aspetto di un dovere. Semplicemente si vede davanti quel conto da regolare, gli arretrati di un debito. E l’arsenale che era fino a ieri solo un soprammobile della potenza diventa arma indispensabile per concludere almeno in modo apocalittico. O forse, perché no, ancora l’estrema uscita di sicurezza. Regeni, il governo si arrende: “Ci penserà il prossimo” di Eleonora Martini Il Manifesto, 11 ottobre 2022 Il ministero di Giustizia al Gup: “Nessuna risposta dalle autorità egiziane. Il Trattato Onu sulla tortura? E’ una scelta politica”. “Se ce n’era bisogno, è emersa ancora una volta e con ulteriore chiarezza che le autorità egiziane non hanno, né hanno mai avuto, nessuna intenzione di collaborare e si fanno beffe del nostro sistema di diritto”. I genitori di Giulio Regeni, Claudio e Paola, probabilmente se lo aspettavano. Ieri, davanti al Gup di Roma - ennesima udienza relativa all’omicidio del giovane ricercatore friulano avvenuto in Egitto tra il 25 gennaio e il 2 febbraio 2016 - è comparso il capo dipartimento per gli Affari di Giustizia presso il ministero di via Arenula, Nicola Russo, a cui il magistrato aveva chiesto ulteriori indagini, tramite i Ros, per trovare gli indirizzi di casa dei quattro esponenti della National Security egiziana indagati, in modo da poter notificare loro gli atti. “Nessuna risposta dalle autorità egiziane”, ha riferito Russo spiegando che l’ultima, inutile sollecitazione “risale al 6 ottobre”. “Siamo andati in Egitto dal 13 al 15 marzo per sollecitare le autorità ad acquisire informazioni sugli imputati - ha raccontato - Sul caso Regeni però la Procura generale egiziana, l’unica autorità competente, ha ribadito che resta valido quanto contenuto nel decreto di archiviazione per i quattro, firmato dai magistrati egiziani nel dicembre scorso. In Egitto non si potrà più aprire un procedimento per il caso Regeni nei loro confronti per il principio del ne bis in idem”. Va ricordato che a luglio la Cassazione ha dichiarato inammissibile il ricorso della Procura di Roma che chiedeva di procedere anche senza la disponibilità dei recapiti, adducendo la notorietà del caso come “veicolo” di notifica certa delle indagini. Le motivazioni della Cassazione non sono state ancora rese pubbliche. Durante l’udienza di ieri, il pm Colaiocco, responsabile del fascicolo, ha chiesto all’esponente del governo Draghi se si potesse ricorrere al trattato Onu sulla tortura adottato nel 1984 e a cui ha aderito anche l’Egitto. “Riteniamo - ha risposto Russo - che sia una scelta di ordine politico; si valuterà con il nuovo ministero della Giustizia”. In questo stallo, il Gup ha aggiornato il procedimento al 13 febbraio rinnovando ai carabinieri del Ros la richiesta di proseguire le ricerche. A questo punto non resta che sperare in un sussulto di dignità da parte della prossima premier Giorgia Meloni nel raccogliere l’appello lanciato da 13 organizzazioni per i diritti umani italiane ed egiziane affinché si interrompa la fornitura di armi all’Egitto e la cooperazione con il golpista al-Sisi in materia di migrazioni, energia e difesa, e affinché si rilanci il processo sulla tortura e l’assassinio di Giulio Regeni. Caso Regeni, la famiglia: “Il governo abbia un sussulto di dignità” di Andrea Ossino La Repubblica, 11 ottobre 2022 Il pm contesta al ministero il mancato ricorso al Trattato sulla tortura. Caso Regeni, la famiglia: “Il governo abbia un sussulto di dignità”. Il pm contesta al ministero il mancato ricorso al Trattato sulla tortura. La risposta del capo dipartimento per gli affari di Giustizia: “Non era applicabile, valuteremo”. Al processo sulla morte di Giulio Regeni, il consuetudinario rito sull’annuncio degli “imputati irreperibili”, seguito dal mantra dell’Egitto che “non ci ha risposto”, questa volta è stato interrotto dalle domande con cui il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha incalzato il capo dipartimento per gli affari di Giustizia al Ministero, domandando come mai durante la visita al Cairo dei funzionari italiani non sia stata fatta notare l’esistenza della convenzione di New York sulla tortura, quella firmata sia dall’Italia che dall’Egitto e che prevede la possibilità per il paese di origine della persona offesa di attivare arbitrati davanti Nazioni Unite. “A nostro giudizio non era applicabile, non ci sono condizioni per far richiamo a questo trattato”, ha risposto il capo dipartimento Nicola Russo. “Il suo ufficio chiederà al nuovo ministro di attivare questa procedura?”, ha quindi domandato il pubblico ministero. “La mia direzione intende approfondire la possibilità di attivarlo”, è stata la risposta del funzionario reduce da una visita al Cairo. Un’affermazione che ha suscitato la reazione dall’accusa: “Ai primi di marzo il ministro ha scritto, a metà marzo avete scritto la nota, alla nota non c’è stata risposta, avete fatto un sollecito alla nota, avete sollecitato più volte l’ambasciatore e questo ancora non è stato sufficiente per decidere se approfondire?”, ha retoricamente chiesto il pm senza ottenere una risposta. In altre parole esiste una procedura sul reato di tortura che prevede forme di cooperazione internazionale, ma al momento il ministero della Giustizia non ha ritenuto percorrere questa strada. E non è dato sapere se in futuro l’Italia farà riferimento al trattato. Durante l’udienza preliminare, la stessa in cui i carabinieri hanno affermato per l’ennesima volta che non c’è traccia dei quattro 007 egiziani accusati di avere rapito, torturato e ucciso il ricercatore friulano nel 2016, il pm ha inoltre chiesto al dipendente del Ministero se gli imputati erano stati informati dell’esistenza del processo a loro carico in Egitto. “Non abbiamo chiesto perchè questa circostanza ai fini della possibilità di effettuare il processo in Italia non è rilevante”, ha risposto il capo dipartimento. E sul famoso memorandum inviato dagli egiziani: “Li avete interrogati sul perché un memorandum datato 26 dicembre sia stato firmato dal procuratore generale lo stesso giorno nonostante avrebbe dovuto studiare oltre 100 pagine?”. “No anche perché l’ho letto solo mentre ero in aereo per il Cairo”, è stata la risposta intervallata dall’intervento dell’accusa che ricordava come il memorandum fosse nelle mani del ministero dal 2021. Per il resto l’udienza è andata come sempre: con la relazione sui numerosi tentativi del ministero di chiedere aiuto alle autorità egiziane per rintracciare gli imputati. E la solita risposta che racconta di come l’Egitto non collabora con le autorità italiane e non ha neanche risposto alla nota con cui il ministro chiedeva un incontro. “Se ce ne era bisogno è emersa ancora una volta e con ulteriore chiarezza che le autorità egiziane non hanno, né hanno mai avuto, nessuna intenzione di collaborare e si fanno beffe del nostro sistema di diritto. È emerso anche che la richiesta del gennaio 2022 della ministra della Giustizia Cartabia di incontrare l’omologo egiziano non ha mai avuto alcun riscontro, e questo rifiuto non ha precedent”. Lo hanno detto Paola Deffendi e Claudio Regeni, assistiti dall’avvocato Alessandra Ballerini, al termine dell’udienza. “Quindi - hanno aggiunto - anche alla luce di quanto dichiarato oggi dal funzionario del ministero della Giustizia ascoltato in udienza, auspichiamo in una adeguata reazione di dignità del nostro governo”. Iran. Rivolta nel carcere di Rasht: morti diversi detenuti ansa.it, 11 ottobre 2022 Secondo Fallahmiri, la rivolta è partita per questioni “personali” ed è poi degenerata nei corridoi della prigione con diversi detenuti che “si sono uniti alla rissa”. Diversi detenuti sono “morti” a seguito della rivolta scoppiata nel carcere di Rasht, nell’Iran settentrionale, mentre nel Paese continuano a tenersi manifestazioni antigovernative in nome di Mahsa Amini, la giovane morta nelle scorse settimane a Teheran dopo essere stata arrestata per non aver indossato il velo in modo corretto. Lo ha riferito il procuratore della città, Mehdi Fallahmiri, citato dall’agenzia di stampa Irna. Secondo Fallahmiri, la rivolta è partita per questioni “personali” ed è poi degenerata nei corridoi della prigione con diversi detenuti che “si sono uniti alla rissa”. “Gli agenti sono arrivati ??sulla scena e hanno usato gas lacrimogeni per disperdere i prigionieri e porre fine alla rivolta”, ha aggiunto, precisando che negli incidenti “diverse persone sono morte e alcune sono rimaste ferite”. Fallahmiri ha precisato che alcuni detenuti “sono morti per le ferite riportate” perché “rivoltosi” hanno impedito il loro trasferimento in ospedale”. Iran. “Non sono solo proteste contro il velo, ma per la libertà di scelta” di Chiara Cruciati Il Manifesto, 11 ottobre 2022 Renata Pepicelli è docente di islamistica e storia dei paesi islamici all’Università di Pisa. È autrice di Femminismo islamico. Corano, diritti, riforme e Il velo nell’islam. Partiamo dalle origini. Cosa prevede il Corano rispetto all’uso del velo? Non è semplice, entriamo nell’ambito delle interpretazioni date nel corso dei secoli fino a oggi. C’è chi ritiene che sia Dio attraverso il Corano ad aver previsto che le donne debbano coprirsi il capo e chi parla invece della copertura delle sole parti intime del corpo delle donne. Su queste diverse letture oggi si gioca una partita molto importante nelle comunità musulmane. Molte donne musulmane praticanti sono convinte che il velo non sia un’indicazione coranica. Ci sono versetti che trattano della copertura delle donne usando termini quali jilbab e khimar, ma c’è una disputa dottrinaria su quali parti del corpo debbano coprire, se anche il capo o addirittura anche il volto. I versetti 24.21, 33.59 e 33.53 sono quelli su cui maggiormente si dibatte. Dibattito che si fa più intenso in relazione alle traduzioni del Corano. Ad esempio nella traduzione in italiano di Bausani il 24.21 fa riferimento a “parti belle” e a “copertura dei seni” e alle categorie di uomini di fronte a cui le donne possono non coprirsi: non c’è un riferimento alla testa e ai capelli. Il 33.59 cita il jilbab, mantello: i fautori del velo ritengono che debba coprire la testa, secondo gli altri non è esplicitato. Il 33.53 fa riferimento a una separazione con il velo tra uomini e donne nell’ambito di uno spazio pubblico ma non indica se debba esserci una copertura del capo. Molte femministe come Fatima Mernissi vi leggono un riferimento legato alla sola vita del profeta che non impone una copertura del capo. In definitiva la risposta alla domanda la danno le musulmane e i musulmani, e ha a che fare con la linea sottilissima tra interpretazioni religiose. Anche la maggior parte di coloro che credono che ci sia un’indicazione chiara nel Corano e negli hadith, detti e fatti attribuiti al profeta, affinché le donne coprano il capo, non reputano che possa essere considerato un obbligo legislativo, ma piuttosto morale da realizzare attraverso una scelta libera e non coatta. Tra le musulmane praticanti ci sono donne che si velano e donne che non si velano. Non esistono letture univoche. La copertura del capo è obbligatoria per legge solo in Iran e in Afghanistan. Nel velo è individuabile un significato identitario, sia individuale che collettivo? In questi anni stiamo assistendo a un ritorno del velo. Nel corso del Novecento molte donne nelle città del mondo islamico hanno abbandonato i veli per tornare a utilizzarli a partire dalla fine del secolo, spesso per scelta personale, espressione di spiritualità e di sentimento di appartenenza a una comunità. Esistono poi imposizioni dentro le famiglie, nei contesti comunitari e sociali dove non coprirsi è visto in maniera molto negativa. Ma non stiamo parlando di legislazioni degli Stati, tranne che nei casi sopracitati. Le ragioni per le quali le donne si velano oggi sono plurali. C’è la convinzione che questo atto sia una scelta delle donne che coprendosi si riconoscono in quanto musulmane: il velo è considerato un segno religioso di pietas e sottomissione a dio e solo a dio. C’è poi l’idea secondo la quale la copertura del capo è un’affermazione della propria identità di musulmana praticante che si sottrae a una oggettivizzazione del corpo femminile. Ci sono motivi identitari dovuti al fatto che in molti contesti nel secolo scorso è stato vietato, come nella Turchia di Ataturk dove il velo è stato fortemente stigmatizzato e vietato in uffici, in parlamento e nelle università, per cui indossarlo diventava una pratica identitaria oppositiva legata alla libera scelta delle persone. Abbiamo assistito a manifestazioni di ragazze turche che chiedevano di entrare nei campus velate e che indossavano parrucche per aggirare il divieto. Poi c’è un uso del velo in termini identitari/oppositivi in quei contesti dove il suo uso è vietato o limitato. In Europa è in particolare il caso della Francia. Infine non si può dimenticare che il velo è considerato anche un’espressione dei movimenti dell’Islam politico. Nel secolo scorso, prima della stagione delle indipendenze, il velo è stato anche una reazione ai colonialismi europei? Il colonialismo europeo ha fatto dei diritti delle donne una sua bandiera, una giustificazione dell’impresa coloniale. Il velo era considerato un esempio di degradazione delle donne e di loro esclusione dalla vita pubblica. In particolar modo la Francia, ma non solo, ha portato avanti una politica profondamente anti-velo: in Algeria lo svelamento si realizzava anche tramite spettacoli durante i quali si toglievano i veli alle donne con la forza. Per la mentalità coloniale lo svelamento delle donne rappresentava in ultima istanza lo svelamento e il possesso totale della colonia. Svelare significava penetrare profondamente la colonia e controllarla attraverso le categorie culturali dei colonizzatori. In tale contesto, diversi segmenti delle società colonizzate consideravano il velo come simbolo estremo di resistenza, di una cultura che non si voleva piegare. Tra le popolazioni colonizzate c’era una doppia tendenza: sia allo svelamento come simbolo di modernizzazione sia al mantenimento del velo come forma di resistenza di una nazione colonizzata. Pensiamo al film La battaglia di Algeri: le donne si velano e si svelano a seconda delle ragioni della guerra di liberazione: lo tolgono per non essere riconoscibili ai controlli dei soldati francesi e lo indossano per nascondervi sotto le armi. Il suo uso +/non uso diventa una dinamica di resistenza alla colonizzazione, come anche spiegato da Frantz Fanon. Può tracciare una storia dei movimenti femministi nel secolo scorso? Tra le fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento si apre un dibattito nelle città arabo-musulmane sul ruolo delle donne dentro la società, che arriva a toccare questioni legate all’ingresso delle donne nello spazio pubblico. Si afferma presto un’ala più laica e progressista che crede che le donne debbano giocare un ruolo importante nella costruzione degli Stati arabi, entrare nello spazio pubblico, essere istruite e alleggerire l’uso del velo, abbandonando prima i veli che coprono il volto e poi quelli che coprono il capo. Coperture di questo tipo erano usate soprattutto dalle donne delle classi medio-alte che potevano permettersi di non lavorare e di non andare al mercato. Nei primi decenni del Novecento saranno le élite medio-alte ad abbandonare sempre di più il velo. Emblematica è la storia di Hoda Sharawi, fondatrice dell’Unione femminista egiziana, che nel 1923 viene in Italia per una conferenza internazionale sul suffragio alle donne e, rientrando in Egitto, insieme a una compagna decide di svelarsi davanti ai fotografi: è l’immagine di un’epoca in cui le donne, con il sostegno di élite definite moderniste, iniziano a svelarsi in un percorso che attraversa le città del mondo islamico. La Turchia di Ataturk, che riconosce il diritto di voto alle donne già negli anni Trenta, stigmatizza il velo e arriva a definire il suo uso una pratica da barbari. Le donne devono svelarsi per far parte del progetto di nazione moderna che Ataturk vuole realizzare. In Iran lo scià Reza Pahlavi si spinge ancora più avanti: nel 1936 proibisce per legge l’uso del velo, un atto salutato positivamente da una parte della popolazione ma che è considerato una violenza inaccettabile dall’altra. Ci sono donne che non escono più di casa a causa del divieto, e che di conseguenza si vedono spogliate dei propri diritti perché esposte a sguardi che considerano violenti sui propri corpi. Non è un caso che le manifestazioni che condussero alla rivoluzione del 1979 videro tante donne scendere in strada con il velo, che assumeva così un’identità politica forte, di rifiuto di imposizioni dall’alto. Quelle stesse donne non immaginavano però che di lì a poco, dal 1983, quel velo sarebbe stato imposto a tutte le iraniane e alle donne che entrano in Iran. Quelle che vediamo oggi non sono solo manifestazioni contro il velo, ma manifestazioni per la libertà di scelta, perché spetti alle donne decidere. Anche molte donne velate sostengono questa lotta, perché il principio da salvaguardare è quello della libertà di scelta, sul velo come su altre questioni. Nei suoi studi, lei ha trattato di due macro-categorie, femminismi laici e femminismi islamici. Che differenze portano con sé? Il mondo musulmano è attraversato da movimenti femministi da oltre un secolo, anche se alcuni rifiutano l’espressione “femminismo” considerandola una categoria occidentale e si definiscono e nominano sulla base delle lotte che compiono, dai diritti nella sfera privata e pubblica alla riforma dei codici della famiglia che sanciscono per legge una gerarchia di genere. Abbiamo una corrente di cosiddetto “femminismo laico” che si rifà alle dichiarazioni e convenzioni per i diritti umani ritenendo che l’islam non sia il quadro entro il quale far avanzare l’uguaglianza di genere. Dagli anni Novanta del secolo scorso emerge poi un “femminismo islamico”, che sostiene che le musulmane vivano una condizione di inferiorità a causa di interpretazioni erronee dei testi islamici e di codificazioni del diritto islamico che tradiscono il vero messaggio religioso. Dal punto di vista di queste donne, il Corano ha portato uguaglianza tra i generi e la rivelazione islamica ha dato diritti alle donne prima impensabili nella penisola araba del VII secolo. Con il tempo, dicono, una lettura misogina e patriarcale del testo sacro ha trasformato le donne in cittadine di serie b: tutto questo è profondamente anti-islamico, affermano, ed è stato possibile perché le donne sono state escluse dal lavoro esegetico e di codificazione del diritto. Per il femminismo islamico dunque vanno riletti i testi religiosi e va fatta riemergere l’uguaglianza di genere delle origini. Accanto a queste due correnti, ne esiste una terza: il dibattito sui diritti delle donne e le questioni di genere dentro i movimenti islamici, come Ennahda in Tunisia o i Fratelli musulmani in Egitto. Si tratta di una galassia plurale e ci sono significative differenze. Dentro Ennahda, ad esempio, ci sono donne islamiste non velate, come la sindaca di Tunisi. La pluralità di posizionamenti la si ritrova anche sotto il grande ombrello del femminismo islamico, che molte chiamano gender jihad: ne fanno parte donne velate e donne non velate. C’è tra loro addirittura chi ritiene l’uso del velo uno strumento femminista perché la copertura del corpo delle donne serve alla de-sessualizzazione e alla de-oggettivazzazione delle donne dentro società che le ipersessualizzano e le vedono solo attraverso il prisma del loro corpo. Fang Fang e la Cina ai tempi della censura di Gianluca Modolo La Repubblica, 11 ottobre 2022 La scrittrice, diventata celebre in tutto il mondo per i suoi diari da Wuhan, racconta in un romanzo le persecuzioni dell’era maoista. E a noi il clima cupo di questi anni del Covid. Un labirinto, per cercare di evocare i segreti di una memoria che si voleva cancellare. Presente e passato che si sovrappongono. Una lotta perenne contro quella “rete spessa e ben tirata che avvolgeva l’esercito di demoni continuamente in lotta per liberarsi”. In Come un seme sepolto dal tempo (censurato in Cina quando è apparso nel 2016, edito ora in Italia da Rizzoli), Fang Fang ambienta un formidabile romanzo sullo sfondo della riforma agraria dei comunisti di Mao, nel Sichuan, appena saliti al potere. Un patto di sangue con i contadini, a costo della vita di milioni di proprietari terrieri: i nemici da abbattere in nome della lotta di classe. Lo fa raccontandoci la vita tormentata di Ding Zitao, ripescata mezza morta da un fiume nel 1952. Di Wu, il medico che la salvò e che qualche anno più tardi diventa suo marito. Di Qinglin, il loro figlio, e di quei vecchi quaderni dove, forse, risiede la chiave dell’enigma. L’autrice divenuta celebre in tutto il mondo per Wuhan. Diari da una città chiusa (Bur) - racconto tra tragedia e speranza della prima città a finire in lockdown, una battaglia per la verità contro la propaganda e le responsabilità del governo, e per questo censurata - racconta come è cambiata la sua vita. E come il Covid sta cambiando i cinesi. Dalle pagine emerge da una parte la tentazione di dimenticare e dall’altra il dovere di farsi testimoni di un’epoca: di non lasciare che la memoria - dei singoli e dunque collettiva di un popolo - vada perduta. Il controllo della Storia è una questione strategica per il governo. Che cosa voleva raccontare? Cosa rimane oggi della memoria di quegli anni? “Volevo registrare, con la narrativa, i metodi crudeli utilizzati mezzo secolo fa contro chi viveva nelle campagne. Dopo più di cinquant’anni di movimenti politici, la gente oggi ha quasi dimenticato un evento storico così importante. Perfino gli studiosi hanno scelto di minimizzarlo. Quello che mi ha spinto a scrivere un romanzo sul destino di queste persone è stata una frase pronunciata dalla madre di un mio amico: “Non voglio una sepoltura morbida”. Mi ha ricordato che anche il passare del tempo è una sorta di sepoltura. Anzi, per queste persone che non hanno un posto nella Storia, è una sepoltura più profonda, senza tracce”. Il tema della memoria ritorna nel libro che l’ha resa famosa in tutto il mondo, i suoi diari da Wuhan. Perché decise di raccontare quello che stava succedendo nella sua città? “Quando Wuhan è stata messa in un lockdown senza precedenti una rivista cinese mi chiese di registrare che cosa stava accadendo. Il terzo giorno di chiusura, con la gente in preda alla paura e all’ansia, ho iniziato a riversare quello che vedevo e sentivo attorno a me su Weibo (il Twitter cinese, ndr). Non pensavo sarebbe diventato un importante documento storico. Né che avrebbe cambiato il mio destino”. Insulti e minacce in Rete, poi la censura. Come ha vissuto tutto ciò? Si sente al sicuro oggi? “Ricordo che un maestro di arti marziali aveva invitato le persone delle varie palestre di Wuhan a venire a casa mia a picchiarmi. Ero impotente: qualsiasi mia intervista o dichiarazione veniva subito censurata. Quando il potere e i bulli da tastiera si mettono assieme per attaccare qualcuno ogni resistenza è inutile: la tua voce viene cancellata. Ma poi mi sono calmata e ci ho pensato su: avevo solamente fatto il mio dovere di scrittrice. Ho combattuto la guerra che dovevo combattere, ho difeso la moralità e la giustizia che dovevo difendere. Anche se ora tutte le mie opere non possono essere pubblicate in Cina che problema c’è? Chi mi può spaventare? Anche se non scrivo, anche se sono sotto controllo in qualsiasi momento, anche se il mio senso di sicurezza è sempre più basso, la mia vita deve continuare”. Che clima c’è oggi in Cina verso gli intellettuali? Quanto spazio è rimasto per gli scrittori? “Sono convinta che se scrivessi Wuhan. Diari da una città chiusa oggi verrei direttamente arrestata. Due anni e mezzo fa lo spazio per l’opinione pubblica in Rete era molto più rilassato di adesso. Le pressioni della politica hanno trasformato e intimidito innumerevoli persone, tra cui la stragrande maggioranza degli scrittori cinesi. Sono stati addestrati a guardare in quale direzione tirava il vento. Hanno bene in mente cosa devono scrivere e cosa no: sanno che l’obbedienza è l’unica salvezza”. Dopo la comparsa del virus, il tempo sembra essersi fermato a due anni e mezzo fa quando la risposta delle autorità era, come oggi, far scattare estesi lockdown. Abbiamo ancora in mente le immagini che ci sono arrivate da Shanghai e dal resto del Paese: proteste, penuria di cibo, quarantene forzate, tamponi a tappeto, chiusura verso il mondo esterno. Quando pensa che il governo inizierà a rivedere la sua strategia della tolleranza zero? Quando ne uscirà la Cina? “Non lo so, davvero. Non solo io, ma quasi tutti gli esseri umani con capacità di giudizio non possono dare una risposta su questi comportamenti irrazionali”. Lei vive ancora a Wuhan, come è cambiata la città? E come sono cambiati i suoi abitanti? “In apparenza, nessuno stravolgimento. Ma è nell’anima delle persone che qualcosa sta cambiando. La pandemia quest’anno non è grave, ma dobbiamo costantemente fare i tamponi. Se usciamo di casa, è probabile che si venga bloccati da qualche parte e portati nei centri per la quarantena in qualsiasi momento. Improvvisamente, la vita è incerta. E questa incertezza fa perdere alle persone il senso di sicurezza. Un’insicurezza ormai quotidiana”. Sta lavorando a un nuovo romanzo? “Un libro che ho già finito doveva essere pubblicato nella primavera del 2020, ma a causa della censura è rimasto “intrappolato” in tipografia. Quest’anno però ho ricominciato a lavorare: sto raccogliendo materiale per un nuovo romanzo. Credo che un giorno le mie opere torneranno a essere pubblicate in Cina. Forse l’anno prossimo, forse no. Chi lo sa. A ogni modo a me resta solo una cosa da fare: continuare a scrivere”.