Lavoro in carcere ancora poco qualificante e formazione in calo di Bianca Lucia Mazzei Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2022 Solo il 4,5% dei detenuti svolge attività alle dipendenze di aziende e cooperative esterne. Diminuisce la partecipazione a corsi professionali. Il lavoro in carcere, soprattutto quello più formativo e professionalizzante svolto per imprese e cooperative esterne all’amministrazione penitenziaria, resta una chance per pochi. Iniziative virtuose non mancano, ma i numeri sono ridotti. I detenuti coinvolti a fine giugno 2022 erano solo il 4,5% di quelli presenti negli istituti (2.473 su 54.841), percentuale in linea con gli anni precedenti. Si concentrano, inoltre, in alcune zone d’Italia, in particolare Lombardia e Veneto. Molto più diffuso il lavoro alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria che, secondo i dati del ministero della Giustizia, a fine giugno 2022, riguardava quasi il 30% dei presenti e riguardava l’87% dei detenuti “occupati”. Per la maggior parte si tratta però di attività poco qualificanti (pulizie, lavanderia, ecc.) e non di lunga durata poiché assegnate a rotazione. Negli ultimi anni è poi diminuita la partecipazione ai corsi professionali. Di sicuro ha pesato la pandemia (nel primo semestre 2020 i corsi terminati sono stati 38), ma il calo era partito già dal 2010-2011. Il nodi del lavoro - Disparità territoriali, difficoltà nel coordinare i tempi a quelli del carcere e nell’armonizzare esigenze di due mondi diversi, sono i principali ostacoli da superare. Per i detenuti lavorare vuol dire entrate finanziarie, competenze professionali, utilizzo proficuo del tempo di reclusione, chance di reinserimento. Per la società riduzione del rischio di recidiva e quindi maggiore sicurezza. “Nonostante gli sgravi fiscali e contributivi previsti dalla legge Smuraglia, purtroppo sono pochi gli imprenditori interessati a investire - spiega Cosima Buccoliero, direttrice della casa circondariale di Torino e che, a Milano, aveva diretto il carcere modello di Bollate -. Il carcere, però, è anche respingente. Dovrebbe piegarsi di più alle esigenze degli imprenditori. Serve un approccio diverso e vanno accettati i rischi di una maggiore flessibilità. Ne vale la pena”. Le differenze territoriali sono ampie come rivela la ripartizione delle agevolazioni fiscali previste dalla legge Smuraglia. Oltre il 65% degli importi relativi al 2022 (9,2 milioni) riguarda infatti imprese e cooperative situate in Lombardia (3,3 milioni) e nell’area Veneto- Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige (2,7 milioni). Fra le iniziative più recenti il progetto firmato a giugno dai ministri del Governo uscente, Marta Cartabia (Giustizia) e Vittorio Colao (Innovazione tecnologica) con società di telecomunicazioni e Ict che coinvolge circa 300 persone e istituti in diverse parti d’Italia. Di norma l’attività svolta per imprese e cooperative è più professionalizzante rispetto a quella alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria. Fanno eccezione le attività industriali di produzione di beni per uso interno (come falegnamerie, sartorie, tipografie), ma anche qui i soggetti coinvolti sono pochi . “I numeri sono molto ridotti, ma è un campo su cui puntare: sono lavori veri che cambiano la vita dei detenuti”, spiega Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio sulle condizione di detenzione dell’associazione Antigone. C’è, infine, il lavoro di pubblica utilità che è però privo di retribuzione. Partito a fine 2018 con un accordo con il Comune di Roma per la sistemazione delle buche stradali, si è via via diffuso ed è stato validato come buona prassi esportabile dall’Ufficio Onu sulle droghe e il crimine. I protocolli d’intesa siglati in Italia, soprattutto con enti locali, sono già più di cento. Meno formazione - La quota di detenuti che partecipa e conclude corsi di formazione professionale, che non è mai stata molto alta (negli ultimi trent’anni il picco più alto risale al 2004 con il 5,7% dei presenti), si sta progressivamente contraendo. Nel primo semestre 2022 ha concluso un corso professionale appena il 3,2% dei detenuti (1.763 su 54.841) e i dati del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria mostrano che le percentuali di iscritti a corsi portati a termine, a partire dal 2010-2011 sono scese dal 4-5% al 2-3%, con un crollo allo 0,7% nel primo semestre 2020, dovuto alla pandemia. È, inoltre, molto forte il fenomeno della dispersione causato dalla mobilità ma anche dal fatto che spesso i detenuti debbono scegliere fra il corso e il lavoro. “Il calo della formazione è un disastro. La domanda c’è e conseguire competenze è importante anche se il reinserimento lavorativo dipende da molti elementi”, conclude Scandurra. Fratelli d’Italia contro il capo del Dap: “Giù le mani dal 41 bis” di Davide Varì Il Dubbio, 10 ottobre 2022 Andrea Delmastro, responsabile Giustizia del partito di Giorgia Meloni, mette in guardia il capo del Dap Carlo Renoldi: “Le politiche carcerarie non possono essere decise sul limite dello scadere di un governo”. Quello ingaggiato da Fratelli d’Italia col capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, è un vero e proprio braccio di ferro. Al partito vincitore delle elezioni politiche non piace la visione “progressista” del numero uno del Dap in materia carceraria e non perde occasione per stigmatizzare ogni scelta messa in campo da Renoldi. Prima la circolare per favorire il ricorso alle videochiamate dei detenuti, poi il provvedimento per declassificare Cesare Battisti allo status di “detenuto comune”, ora le soluzioni in cantiere per rendere più umana la pena al 41 bis. Sono queste le decisioni che proprio non vanno giù a FdI. E ad Andrea Delmastro in particolare, responsabile Giustizia del partito di Giorgia Meloni. “Giù le mani dal regime detentivo del carcere duro. Renoldi, capo del Dap, ha improvvidamente fissato una riunione per lunedì per la modifica della circolare operativa sul regime del carcere duro. Le politiche carcerarie, in particolar modo quelle verso i mafiosi, non possono essere decise sul limite dello scadere di un governo, senza nessun coinvolgimento politico”, dice l’esponente meloniano, sempre molto critico nei confronti di Renoldi. “Fratelli d’Italia ha una chiara visione sul contrasto, anche in regime carcerario, della criminalità organizzata che non può essere ipotecata da colpi di coda. Il Ministro della Giustizia intervenga tempestivamente perché venga annullata la riunione”, insiste Delmastro. “Oneri e onori delle scelte di politica carceraria verso la criminalità organizzata spettano a chi è stato prescelto dagli italiani anche per affrontare i temi della legalità e della sicurezza”. Emergenza suicidi in carcere di Enrico Marra tvsvizzera.it, 10 ottobre 2022 La situazione nelle carceri italiane continua ad essere problematica e non solo per il loro sovraffollamento. Sessantacinque persone si sono uccise in cella negli Istituti Penitenziari italiani quest’anno, un macabro record raggiunto quando mancano ancora tre mesi alla fine del 2022. In sedici, tra le persone che si sono ammazzate, erano giovani tra i venti e i trentasette anni. Un dato che fa discutere. Ad agosto si è registrata la media di un suicidio ogni tre giorni, undici volte la media nazionale della popolazione “libera”. La notte del 2 agosto, nel Penitenziario di Montorio a Verona, inalando gas da un fornelletto, si è tolta la vita Donatella Hodo, aveva ventisette anni, accanto a lei ha lasciato un biglietto di addio al suo fidanzato. Il caso di Donatella ha scosso l’opinione pubblica. Vincenzo Semeraro, il giudice di sorveglianza che ha seguito il suo caso per sei anni, ha ammesso il proprio fallimento e quello dell’intero sistema, scrivendo una lettera aperta che è stata letta durante il funerale della giovane donna. Alcune compagne di detenzione di Donatella, dopo la tragedia, hanno iniziato a testimoniare lo stato di abbandono in carcere, raccontando le loro sofferenze quotidiane che nel caso delle donne sono anche maggiori rispetto a quelle patite dagli uomini. Basti pensare alle donne detenute con figli minori. Oggi, negli Istituti Penitenziari ci sono ventisette madri detenute con i figli, alcuni sono neonati. Il piccolo gruppo di donne si è allargato spontaneamente sul web creando a un Collettivo dal nome “Sbarre di zucchero” che conta una ventina di persone tra Verona, Vicenza, Padova e Trento, cui si sono aggiunte associazioni, avvocati, giornalisti, Garanti dei detenuti. Il Collettivo organizza eventi pubblici per informare, dibattere e cercare soluzioni alle tante testimonianze di sofferenza e alle grida d’aiuto che arrivano dai Penitenziari. “L’emergenza suicidi” porta sotto i riflettori l’intero Sistema dell’esecuzione penale. Un Sistema che necessita urgenti riforme a parere di molti tra esperti e addetti ai lavori e che si trascina tra mancanze normative e strutturali, penuria di personale a vario titolo e istituti per la maggior parte sovraffollati. Nella popolazione carceraria ci sono molti tossicodipendenti che non sono seguiti in un percorso di recupero e un’alta incidenza di malattie mentali che non sono trattate. Le poche attività trattamentali, presenti negli istituti più fortunati e meno sovraffollati, sono state drasticamente ridotte a causa della pandemia. Tuttavia, il dato più preoccupante evidenziato dalle testimonianze dei detenuti è il diffuso senso di abbandono. Rita Bernardini, attivista radicale e presidente dell’associazione Nessuno tocchi Caino, dopo un mese di sciopero della fame, in settembre, è riuscita ad ottenere un incremento delle telefonate che per i detenuti sono fissate da regolamento in una a settimana dalla durata di dieci minuti. L’Associazione Nessuno tocchi Caino, visto l’alto numero di suicidi, ha chiesto di applicare in via straordinaria uno sconto di pena per buona condotta, un provvedimento previsto dalla normativa vigente. Bernardini chiede inoltre che siano accolte le domande di trasferimento presentate dai detenuti che scontano la pena lontano dalle proprie famiglie, talvolta centinaia di chilometri, e di concedere il trasferimento anche per motivi di lavoro e di studio. Semplici accortezze che renderebbero la detenzione meno afflittiva e potrebbero fare la differenza per le persone più fragili. Per contrastare le “Morti per pena” come le definisce provocatoriamente Rita Bernardini. Dal carcere, voci di donna… di Francesca de Carolis ultimavoce.it, 10 ottobre 2022 Oggi che arriva la notizia del sessantasettesimo suicidio, vogliamo sottolineare l’importanza della “voci di donna” dal carcere. Ieri, a Firenze, incontro con scritture e scrittori dal carcere. Bella iniziativa del Collettivo Informacarcere del Comitato Evangelico di Firenze. Alcune riflessioni, convinta come sono della necessità di portare fuori dal carcere voci. Sapendo che chi scrive nelle prigioni non lo fa certo per riempire il tempo. Quelle che arrivano da dietro quelle mura, così spesso impermeabili anche al solo respiro, sono sempre parole di verità, e più di una volta ho avuto la bella sorpresa di trovare pagine nelle cui vene scorre quel sangue letterario di cui spesso parla Marcello Baraghini, perché dalla vita vera, senza infingimenti, sono dettate. Parole che sono sempre grido lanciato al mondo qua fuori, per scuoterne l’indifferenza. E lo sottolineo oggi che, tranne gli “addetti ai lavori”, sembra nessuno voglia ascoltare davvero quel grido. Come se la cosa non ci riguardasse. Invece ci riguarda e come, il carcere è specchio che rimanda immagini, amplificate, di quello che siamo fuori, nel bene e nel male, ma non solo. Il carcere, che è luogo di sospensione del diritto, è luogo dove si sperimenta fin dove si può arrivare, nella violazione dei diritti fondamentali delle persone, nell’indifferenza appunto della società… e i morti dei giorni delle rivolte… e ora questa serie terribile degli ultimi suicidi lo stanno a dimostrare… Gli scritti dal carcere hanno molteplice valenza, testimonianze preziosissime per aprirci gli occhi, ma sono anche forma di resistenza, resistenza dentro di sé e “resistenza che si forma e cresce cucendo relazioni”, rubo le parole a Vincenzo Scalia, criminologo, nella postfazione a “La portavoce”, libro curato da Monica Sarsini che nel carcere di Sollicciano ha guidato e tirato le fila di un coro di testimonianze di donne, mettendo insieme tante “sconquassate solitudini”. E oggi che arriva la notizia del sessantasettesimo suicidio, ed è ancora voce di donna che si spegne… voglio sottolineare l’importanza di queste voci di donne, importanti soprattutto perché rare. Sono pochissimi i libri che arrivano dal carcere scritti da donne. Certo, in proporzione sono poche, sono solo il 4, 5 per cento della popolazione carceraria. E poi abbiamo letto piuttosto testi di “politiche”, ché la spinta ideologica non è cosa di poco conto. Ma ci vuole tanto, tanto coraggio, per chi non è abituato a farlo, a prendere una penna in mano e raccontare e raccontarsi, e fare capire quale violenza su violenza è vivere in un posto pensato tutto al maschile. La “portavoce” del titolo del testo cui ho accennato è Cosetta Petreni, autrice della maggior parte dei testi raccolti nel libro, ma anche capace di accompagnare il coro di testimonianze di quella umanità dolente… rom, zingare, transessuali, cubane, persone con problemi di droga… Una ballata malinconica, dove tensioni e violenza si intrecciano a momenti di vera umanità. Per capire di cosa si parla, quando si parla di carcere, bastano poche parole, forti come pugnalate: “Questo posto enorme, che mi soffoca come la vernice sulla pelle”… “il carcere come un vetro che si è spezzato dentro la carne”. E si congratula con se stessa, Cosetta, “per essere ancora sana di testa dopo cinque anni trascorsi dentro a questo tunnel nero”, e si chiede: “Chi mi ha dato tanta forza?”. Tanta forza che le ha dato anche il coraggio di scrivere, coraggio che, ne sono certa, anche con la scrittura si è poi alimentato, in una sorta di mutuo sostegno. E lo trova tutto, il coraggio necessario, per raccontare la fatica, le risse (ché fra donne non sono rare), le sopraffazioni, i soprusi e insieme un’umanità inaspettata, “quello che scalda il cuore”. Per accompagnare le voci di altre, come Svetlana che… “lì dentro il pensiero del suicidio è consolazione”… E tutto questo pure alla fine diventa il proprio mondo. Vi stupirà leggere di una visita in ospedale, attraversare il mondo esterno sotto scorta, “ma non c’è vergogna per le guardie armate che accompagnano, anzi fanno sentire sicura, protetta, perché loro fanno ormai parte del mio mondo”, che osserva e poi… “non vedo l’ora di rientrare nel mio mondo”. Per quanto terribile. Ricordando il trauma dell’ingresso, la puzza, qualcuno più umano e qualcuno che lo è meno, dove “le detenute trans vengono trattate come spazzatura”, dove si va avanti a forza di psicofarmaci, dove tutto si enfatizza, anche i pregiudizi. Non è facile prendere una penna in mano e raccontare tutto questo. Molto si deve ai corsi di scrittura organizzati in carcere (e varrebbe la pena di aprire una bella pagina su chi di questo si occupa, in un impegno che sa essere “maieutica”, ma anche mutuo scambio). Così la scrittura, per chi impara a coglierli, offre espedienti per raccontare quello che diversamente non si riuscirebbe a fare. Come spiega Anna Maria Repichini, autrice di una autobiografia, che, riferendosi alla prima notte passata in carcere spiega: “Mi riesce difficile parlare in prima persona di quella notte e per questo ho usato un espediente narrativo. Ho immaginato di scrivere la sceneggiatura di un film basandomi non tanto sulla mia esperienza diretta, quanto sulle ‘prime notti’ che ho visto passare alle mie compagne di cella in tanti anni”. Testimone, Anna Maria, a Rebibbia, di tante storie di cui abbiamo letto più o meno distrattamente sui giornali, e che si fa fatica a pronunciare… la mamma che ha ucciso i suoi i bambini… un suicidio… e la cella liscia, che è posto che ti fa impazzire… In carcere da subito si è messi difronte a una scelta: accendersi o spegnersi. E lei, Anna Maria, sembra abbia proprio colto tutte le possibilità che le ha offerto la detenzione per accendersi e non per spegnersi. Il carcere è molto duro da vivere, scrive, e in carcere si può morire. “Proprio perché me ne sono accorta presto, e non avevo nessuna intenzione di morire, ho trovato delle strategie per vivere”. Diventando anche un po’ egoista, ammette, perché il carcere insegna soprattutto a combattere per sopravvivere giorno dopo giorno, a diffidare di tutti, “a farmi la mia galera senza commentare, conoscere, sparlare”. Ma parlare e testimoniare certo sì. Come raccontano le sue pagine che, come accade con voci di donne, sempre sanno allargare lo sguardo su tutte le altre, in un abbraccio che, nel bene e nel male, tutte sempre le sa accogliere. Reati, più alternative al carcere di Michele Damiani Italia Oggi, 10 ottobre 2022 Il decreto di attuazione mette al centro la persona: tutele rafforzate per vittime e imputati. Processo penale a misura d’uomo. “Tutta la riforma vuole mettere la persona al centro: c’è la vittima, c’è l’autore del reato, ma c’è sempre la persona. Chi ha commesso i reati avrà la sua punizione, ma abbiamo preso atto di un bisogno di superare gli effetti dei reati, le lacerazioni che lasciano certe ferite”: così la guardasigilli Marta Cartabia spiega il decreto legislativo che dà attuazione alla legge delega 134/21. Insomma: per l’imputato non c’è solo la prospettiva del carcere, ma anche l’opportunità della messa alla prova e in certi casi l’ipotesi dei lavori di pubblica utilità. Ma la vera novità è la giustizia riparativa: un procedimento che permette alla vittima e all’autore del reato di partecipare attivamente, se lo vogliono, alla risoluzione delle questioni sorte con l’illecito con l’aiuto di un terzo imparziale, il mediatore un percorso che può giungere a un esito di ristoro, materiale o simbolico, che &ldquoricostituisce il rapporto tra le persone coinvolte e l’intera comunità&rdquo. Centri per la giustizia riparativa sono previsti in ogni Corte d’appello dopo la dichiarazione di Venezia dei ministri della Giustizia del Consiglio d’Europa, adottata durante il semestre di presidenza italiano. Ragionevole durata. La tutela per gli imputati e per le persone offese passa soprattutto per processi meno lunghi: l’obiettivo stabilito con il Pnrr, il piano nazionale di ripresa e resilienza, è ridurre del 25% entro giugno 2026 la durata media dei processi penali rispetto al 2019. Come? Arrivano notifiche telematiche e trasmissione digitale dei fascicoli per accorciare i tempi di attraversamento tra le fasi del giudizio. Rimodulati i termini di durata massima delle indagini preliminari in funzione dei reati per i quali si procede: un meccanismo di discovery degli atti evita la stasi del fascicolo, tutelando però il segreto investigativo. La mera iscrizione della persona nel registro delle notizie di reato non determina effetti dannosi sul piano civile e amministrativo. Ma il giudice per le indagini preliminari può ordinare al pubblico ministero di provvedere se ritiene che il reato per cui si procede debba essere attribuito a una persona che non è stata ancora iscritta a modello 21. Attenzione, però: la parte può ottenere la retrodatazione se il ritardo nell’iscrizione risulta ingiustificato e inequivocabile. Valorizzati i riti alternativi: patteggiamento, rito abbreviato, decreto penale di condanna, giudizio immediato. Patteggiamento per confisca facoltativa e pene accessorie, estesa l’area del decreto penale. All’udienza preliminare il giudice pronuncia il non luogo a procedere se gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna. Udienza predibattimentale per i reati meno gravi, con citazione diretta a giudizio. Appello inammissibile se i motivi non sono specifici. Inappellabili le sentenze di condanna al lavoro di pubblica utilità, che può essere applicato in sostituzione di pene detentive fino a tre anni. Minore punibilità. La sospensione del procedimento con messa alla prova è estesa ai reati sanzionati con pena entro sei anni: la proposta all’indagato/imputato può arrivare dal pm. La non punibilità per particolare tenuità del fatto si applica ai reati con pena detentiva non superiore nel minimo a due anni. Ma diventa rilevante anche la condotta successiva al reato. E sono esclusi delitti gravi come violenza sessuale, stalking e tutti i reati di violenza domestica riconducibili alla Convenzione di Istanbul. Restano fuori anche spaccio di droga, corruzione, i reati pesanti contro la pubblica amministrazione e l’incendio boschivo. Ampliata la procedibilità a querela per reati contro la persona e contro il patrimonio per favorire risarcimento del danno, riparazione dell’offesa e definizione anticipata dei procedimenti. Serve la denuncia della parte offesa per i reati di disturbo o di molestia alle persone. Rischia grosso, poi, chi non onora la pena pecuniaria: può scattare la conversione in misure che limitano la libertà personale. E ciò per rendere effettive le sanzioni: oggi la mancata riscossione costa allo Stato 2 miliardi di euro in un anno, secondo dati del casellario giudiziale. Scatta, in particolare, un giorno di semilibertà per ogni 250 euro, o frazione, di pena pecuniaria non corrisposta. La semilibertà non può avere durata superiore a quattro anni per la multa e a due anni per l’ammenda. Se il condannato è insolvibile, la pena pecuniaria si trasforma in lavoro di pubblica utilità o in detenzione domiciliare sostitutiva. Addio sospesi. Il decreto legislativo affronta il problema dei &ldquoliberi sospesi&rdquo, i condannati a pene inferiori ai quattro anni che hanno già accesso alle misure alternative al carcere ma che scontano soltanto dopo anni la pena disposta dai tribunali di sorveglianza. Per rendere tempestive ed effettive le condanne è il giudice della cognizione ad applicare subito le nuove sanzioni sostitutive delle pene detentive brevi: pena pecuniaria, lavoro di pubblica utilità, detenzione domiciliare e semilibertà. Il tutto all’esito di un’udienza di sentencing, sul modello anglosassone. Sale da due a quattro anni il limite massimo di pena sostituibile. Soppresse le misure della semidetenzione e della libertà controllata. Sì a semilibertà e detenzione domiciliare al posto del carcere entro il limite di quattro anni, lavoro di pubblica utilità entro il tetto di tre. Innalzata da sei mesi a un anno la soglia della pena detentiva che può essere rimpiazzata dalla pena pecuniaria. Introdotta l’opposizione al decreto di perquisizione: è il rimedio esperibile dall’indagato o dalla persona interessata nei cui confronti si ritiene sia stato disposto o eseguito un provvedimento illegittimo. Scatta il rinvio pregiudiziale alla Cassazione per decidere sulla competenza territoriale. Deve essere adottato entro il 31 dicembre 2023 un decreto del ministro della giustizia per definire le regole tecniche di depositi, comunicazioni e notificazioni telematiche degli atti del procedimento penale. Casellati alla Giustizia, ecco la proposta di Berlusconi di Davide Varì Il Dubbio, 10 ottobre 2022 È questo il nome che il Cavaliere vorrebbe vedere in via Arenula. O, in alternativa, l’attuale sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto. La presidente del Senato, Maria Elisabetta Alberti Casellati, al ministero della Giustizia. È questo il nome che Silvio Berlusconi vorrebbe vedere in via Arenula. La proposta sarebbe stata avanzata nel corso del vertice del centrodestra di Arcore con Matteo Salvini e Giorgia Meloni. In alternativa, al Cavaliere non dispiacerebbe assegnare il ruolo di guardasigilli all’attuale sottosegretario alla Giustizia Francesco Paolo Sisto (il preferito dai lettori del Dubbio), lanciando però Casellati nella corsa alla vicepresidenza del Consiglio superiore della magistratura. Ma in quella casella, si sa, la leader di Fratelli d’Italia e premier in pectore vorrebbe inserire il nome dell’ex magistrato Carlo Nordio. Weekend di trattative nel centrodestra, riunito nella villa si Berlusconi per accorciare accorciare le distanze tra i vari partiti, visti i tempi stretti (giovedì 13 la prima seduta del Parlamento per l’elezione dei presidenti di Camera e Senato) e l’emergenza bollette con tensioni sociali latenti. L’obiettivo di Meloni è di costruire un governo forte e competente che possa rispondere ai problemi che attanagliano il Paese. Fonti della coalizione in una nota congiunta spiegano che “i leader si sono confrontati sulle prossime scadenze istituzionali e sulla necessità di avere un governo forte e capace di rispondere alle urgenze del Paese, a partire dall’emergenza dovuta ai costi dell’energia. Sono stai fatti importanti passi avanti in questa direzione”. E non solo: “È volontà comune del centrodestra - si sottolinea - procedere più speditamente possibile lungo la strada per la formazione dell’esecutivo”. Nulla di conclusivo o deciso, il vertice a Villa San Martino non ha sciolto tuttavia i nodi su nomi e caselle. Resta ancora il braccio di ferro sulla presidenza del Senato, rivendicata da FdI con Ignazio La Russa e dalla Lega con Roberto Calderoli. Anche il ruolo di Salvini nel futuro governo non è stato chiarito, tantomeno quello di Licia Ronzulli, che il Cav vorrebbe alla Sanità. Per cui c’è anche il nome di Guido Bertolaso. Servirà, quindi, una nuova riunione - probabilmente a Roma - i primi giorni della prossima settimana. Viminale, Riforme con l’autonomia, Infrastrutture, Agricoltura, Giustizia e Famiglia sono i dicasteri che fanno gola alla Lega. La sfida, stando a quanto filtra, è trovare la quadra per un governo di centrodestra all’altezza. La vocazione dell’avvocato e il valore della toga di Martina Cantiello La Discussione, 10 ottobre 2022 Con l’Avvocato Fabio Viglione, penalista e patrocinante in Cassazione abbiamo parlato della sua carriera, della giustizia, della condizione dei detenuti. Alla fine ci ha lasciato un prezioso consiglio per i giovani che vogliono intraprendere il suo stesso percorso. Cosa l’ha spinta a scegliere questa professione? Già quando frequentavo l’ultimo anno di liceo ero affascinato dalla figura dell’avvocato penalista. Lo immaginavo come in grado di stare accanto alle persone additate da tutti e messe all’angolo, ma che avevano necessità di una figura professionale credibile ed in grado di far valere i propri diritti. Pensavo ai tanti errori giudiziari della storia ed alla capacità di un avvocato di consentire all’accusato di dar forma alla sua difesa. Ero poi affascinato dalla figura dei grandi penalisti del secolo scorso, raffinati giuristi e soprattutto uomini di grande cultura umanistica. La mia famiglia, poi, ha sempre creduto in me e mi ha incoraggiato ad intraprendere questo cammino. Qual è stato il processo che l’ha messa più in crisi? Come gestisce, nell’ambito professionale, l’aspetto emotivo? Difficile individuarne uno solo dopo venticinque anni di professione. Spesso i processi si presentano difficili anche perché nella fase delle indagini la difesa non sempre riesce ad offrire il proprio contributo e l’ipotesi di accusa può nutrirsi di equivoci. C’è quindi il rischio che una palla di neve dia luogo ad una valanga con la quale poi è necessario fare i conti. Senza parlare poi di quando, senza il contributo spesso chiarificatore della difesa e dell’accusato, la tesi dell’accusa si radicalizza e si amplifica attraverso i mezzi di informazione. A quel punto, quando ci si presenta innanzi al giudice si ha la sensazione di dover già “appellare” una condanna mediatica. Quanto all’aspetto emotivo, è fondamentale mantenere il massimo equilibrio. Chi arriva in uno studio cerca rifugio ed assistenza anche psicologica nel proprio penalista che, a mio avviso, deve essere in grado di calibrare il rapporto sulle specifiche sensibilità individuali. Questo significa che da una parte è necessario comprendere a fondo i disagi e le preoccupazioni per fornire strumenti adeguati di “sopportazione” del percorso, dall’altra che bisogna mantenere sempre grande lucidità per poter riuscire a conferire, il massimo grado di apporto tecnico. Noi siamo dei tecnici, pur se appassionati, non dei tifosi. La nostra è una professione nella quale la componente emotiva gioca un ruolo importante e serve quindi lavorare molto sull’equilibrio. Ed è importante avere sempre grandi stimoli e voglia di portare avanti la propria rivendicazione di diritti, senza mai trattare l’impegno professionale come una semplice pratica, un fascicolo sulla scrivania. Cosa pensa della riforma sulla giustizia? Secondo lei quali sarebbero i cambiamenti necessari per quanto riguarda la procedura penale, il sistema sanzionatorio e la giustizia riparativa? E lei se avesse la possibilità di cambiare il sistema giudiziario italiano, cosa farebbe? Credo che uno dei problemi più sentiti sia quello dei tempi di definizione del processo. Lo Stato ed il sistema giudiziario devono essere in grado di garantire la ragionevole durata del processo e farlo senza ridurre le garanzie e i diritti. Siamo ancora indietro da questo punto di vista anche rispetto ai paesi europei. Il cittadino ha diritto ad essere giudicato in tempi ragionevoli perché la sua vita continua a scorrere inesorabilmente. La vita non aspetta e quello che abbiamo di più prezioso è proprio il tempo. Il processo che si trascina troppo a lungo è comunque massimamente dannoso oltre che “ingiusto”. Guardiamo al processo penale: se il cittadino verrà assolto avrà trascorso troppo tempo da imputato, se, invece, sarà condannato dovrà scontare la pena a notevole distanza dal reato. In qualche modo, come se si facesse scontare la pena ad una persona diversa. E veniamo proprio al sistema sanzionatorio che è oggetto della sua ulteriore domanda. La pena deve tendere alla riabilitazione, deve essere risocializzante. Forme alternative al carcere, dati alla mano, consentono di ridurre anche il pericolo di recidiva che è un importante obiettivo da perseguire nell’interesse del condannato e della comunità. In questo senso, lo Stato si presenta forte quanto più è in grado di dispensare legalità e diritti anche a chi ha infranto le regole ed è chiamato a scontare la pena. Cosa farei se potessi cambiare? : aumenterei il numero dei magistrati, attualmente inadeguato per la mole di processi in corso; depenalizzerei molti reati minori trasformandoli in illeciti amministrativi per consentire ai processi per reati di maggiore allarme sociale di marciare spediti, interverrei per evitare eccessi di ricorso alla cosiddetta “carcerazione preventiva”, spesso priva di effettive esigenze di cautela e separerei le carriere tra chi accusa e chi giudica in modo da rafforzare maggiormente le autonomie e la credibilità del giudice terzo. Perchè la maggior parte degli italiani ha un’idea negativa del sistema giudiziario italiano? Credo che molto dipenda anche dalle lungaggini che notoriamente e frequentemente caratterizzano un accertamento giudiziario. Il cittadino è desideroso di risolvere un contenzioso in tempi rapidi. Vuole trovare chi gli dia ragione quanto prima e chi tuteli i suoi diritti in tempi rapidi. Penso alla giustizia civile. Quella del quotidiano. Per la giustizia penale rilevo invece altra voce di sfiducia. Quando da una condanna roboante si passa ad un’assoluzione, i cittadini restano disorientati. Spesso si dicono, “ma come è possibile?” e finiscono per perdere fiducia nei confronti dell’istituzione. La verità giudiziaria si accerta nel processo e con le regole del processo. Quando un’accusa viene spettacolarizzata e si danno per acquisiti anche mediaticamente dati incerti o addirittura assenti si può materializzare un ribaltamento della pronuncia. Questo non deve scoraggiare ma, al contrario, far pensare che il sistema permette di correggersi. Avere più gradi di giudizio è una garanzia per tutti ed un sistema che li prevede consente di ridurre maggiormente il margine di errore. A volte sono le rappresentazioni mediatiche dei fatti ad alimentare la sfiducia perché quanto si accerta nelle aule è lontano dalla narrativa pubblica. La verità è che si dovrebbe praticare con più convinzione la presunzione di non colpevolezza per evitare che alcune assoluzioni siano vissute come inspiegabili o figlie di un sistema impazzito. In realtà a volte le condanne mediatiche precedono l’accertamento. Spesso mi chiedono persone non del settore, “avvocato com’è possibile che quella condanna a trent’anni è diventata assoluzione? Non si capisce niente”. Ora, posto che, anche l’assoluzione in appello può contenere errori, cosa può essere accaduto ? Evidentemente, rivalutate le prove o integrate da altri elementi di valutazione, non è stata dimostrata la colpevolezza dell’imputato. La giustizia è amministrata da uomini che in quanto tali possono sbagliare. Il sistema garantisce per quanto possibile ma è la verità giudiziaria quella che ne scaturisce. Si dice innocente fino a prova contraria, ma purtroppo molto spesso, nei casi con una grande risonanza mediatica, chi è accusato viene giudicato colpevole dall’opinione pubblica prima ancora che inizi il processo. Qual è la sua strategia in questi casi e perché crede che avvenga ciò? La voglia di trovare spesso rapidamente colpevoli e le certezze anticipate sono un grave problema. La presunzione di innocenza finisce per essere un monotono refrain troppo abusato sempre a parole e poco praticato nei fatti e negli atteggiamenti. In genere io tendo a mantenere, per quanto possibile, un profilo di riservatezza e cerco di non dar sfogo a difese fuori dall’aula. Anche perché il meccanismo mediatico è incontrollabile e chi ne rimane imbrigliato viene esposto in modo pericoloso. Si finisce per entrare nella vita di una persona mettendola a soqquadro. Come se si entrasse in una stanza e si rovesciassero i cassetti, gli armadi, si ribaltasse il letto, per cercare una penna. La difficoltà sta proprio nel mantenere equilibrio e non farsi fagocitare da una rappresentazione pubblica nella quale spesso l’accusato non si riconosce ma si trova a dover fare i conti. Non c’è una ricetta o uno schema riproponibile come usbergo. Ci vuole tanta forza interiore ed è bene lavorare con massima dedizione e sacrificio per ottenere quella ristrutturazione della verità e del profilo soggettivo nella sede giudiziaria. Anche se poi, purtroppo, l’eventuale assoluzione sarà rinchiusa in un trafiletto… Ma su questo si sta lavorando ed è necessario cambiare in fretta, soprattutto nell’era della informazione nella rete. Qual è effettivamente la condizione delle carceri italiane? Come si riflette questo sul nostro paese? Le carceri sono sovraffollate. Talvolta non sono garantiti neanche i tre metri quadri per ogni singolo detenuto, ritenuti il minimo per assicurargli uno spazio di vivibilità in cella. Non mancano poi frequenti criticità che riguardano le strutture anche dal punto di vista igienico. Con il caldo, il sovraffollamento diventa ancora più difficile da fronteggiare. Secondo recenti dati sulle presenze negli istituti di reclusione, aggiornati a qualche mese fa, attualmente ci sarebbero quasi 55.000 persone detenute a fronte di una capienza regolamentare di circa 51.000 posti. Dunque un tasso di sovraffollamento importante . Purtroppo anche la situazione dei suicidi in carcere è un altro dato di massimo allarme. Come riferisce Antigone, associazione per i diritti e le garanzie del sistema penale nata negli anni 80, nei primi mesi del 2022 si sono registrati 59 i suicidi. Più di uno ogni quattro giorni ed il fenomeno ha mostrato segni di preoccupante aumento nel mese di agosto. Credo che servano adeguati investimenti per rendere le strutture in grado di garantire condizioni adeguate per tutti i detenuti e la consapevolezza che si tratti di una priorità e di un dovere avvertito da tutti. La comunità non può dividersi tra chi è fuori (e va tutelato) e chi sta scontando la pena (e va dimenticato). Uno Stato di diritto si riconosce proprio dalla capacità che esprime di garantire concretamente i diritti “degli ultimi”. Nelle serie televisive vediamo sempre il sistema giudiziario americano come quello nel quale si realizza la parità assoluta fra le parti, può sfatare questo mito? I film americani tendono, giustamente, a spettacolarizzare la fase del confronto in aula tra chi accusa e chi difende. Devo dire, al netto di ogni altra considerazione, che il giudice viene rappresentato il più delle volte come terzo ed equidistante. Un arbitro della contesa che accoglie o respinge le “obiezioni” delle parti. Ora, lasciando da parte la macchina da presa, il concetto di parità è piuttosto complesso e merita qualche considerazione. Ovviamente senza pretese di esaustività. Nella fase delle indagini, fino a quando non si arriva davanti al giudice terzo che è quello del dibattimento, vi è un netto squilibrio. L’accusa svolge la sua attività investigativa in una fase sostanzialmente segreta nella quale l’accusato e la difesa hanno maggiore vulnerabilità. Sono ignari di quanto sta emergendo e sostanzialmente praticano una difesa “al buio”…Solo successivamente, quando si arriva davanti al giudice ed inizia il vero e proprio processo nasce un confronto in un terreno in cui vi è sostanziale parità nel contraddittorio e si gioca con maggiore equilibrio. Ma una vera parità è ontologicamente impossibile nel complesso se solo si guarda alle disponibilità economiche che distinguono le parti. Sostanzialmente illimitate quelle dell’accusa, certamente più modeste quelle dell’imputato. Si pensi a consulenti tecnici ed alle prove scientifiche in generale che necessitano di alte professionalità. Nei processi complessi, con più parti, solo per estrarre le copie degli atti da studiare la difesa deve affrontare spese talvolta ingenti. Insomma, una parità vera e propria non può dirsi esistente. Certo, le regole nel dibattimento consentono di confrontarsi alla pari nel contraddittorio ma è una parità che interviene quando lo squilibrio ha già potuto manifestarsi. Dunque, credo di poter sfatare il mito se vissuto in termini assoluti. Lei ha avuto come mentore il celebre avvocato Siniscalchi, qual è la cosa più importante che ha imparato da lui e vista la sua esperienza quali suggerimenti si sente di dare ai giovani che stanno iniziando il suo stesso percorso? Tutto quello che ho professionalmente imparato lo devo a lui; quello che non sono riuscito a trattenere del suo insegnamento lo ascrivo a me. Posta questa doverosa premessa, devo dire che ho avuto la fortuna di avere un vero maestro. Un avvocato di grandissima raffinatezza giuridica e con grandi capacità empatiche. Un vero fuoriclasse di una cultura immensa ed una straordinaria umanità. Mi ha insegnato tanto senza mai salire in cattedra. A volte bastava osservare il modo con il quale si rivolgeva al collega, all’assistito, al magistrato, per trovare le risposte più feconde ai tanti interrogativi che i giovani si pongono quando intraprendono la professione. Mai inutilmente polemico e sempre moderno e lungimirante nella proposta difensiva. Non credo ci sia una cosa più di altre che ho imparato. Certamente la voglia di portare avanti l’impegno assunto con dedizione e serietà senza mai farmi condizionare da alcun evento esterno. Ai giovani oggi sento di dire che, nonostante le tante difficoltà se sentono forte la “vocazione”, mi si conceda l’estremizzazione del concetto, devono andare avanti nel progetto ed investire sulla propria passione. Dico qualcosa che va controtendenza perché sento in tanti dire che i giovani dovrebbero guardare altrove, verso altri sbocchi di realizzazione professionale. Ci sarà sempre bisogno di avvocati determinati ed appassionati a difendere il valore della toga, baluardo di libertà, e di rispetto dei diritti in uno stato democratico. Voglio pensare che le maggiori difficoltà non siano in grado di scoraggiare la passione, quella autentica, dei giovani che vorranno conquistare spazio e mettersi all’opera con ancora maggiore determinazione e voglia. Mancano i magistrati, non mettiamoli fuori ruolo di Gian Domenico Caiazza Il Riformista, 10 ottobre 2022 Leggo che il vice Presidente del Csm, David Ermini, lancia l’allarme sulle gravi carenze degli organici della magistratura. Le sue parole sono chiarissime: “Nonostante i concorsi già banditi, considerati i magistrati annualmente in uscita per anzianità, dimissioni o altro, e il fatto che ai prossimi vincitori di concorso saranno conferite le funzioni non prima del 2024, si arriverà presto ad una scopertura di oltre il 20%”. Meglio di così non potrebbe dirsi. Si aggiunga un ulteriore dato, che rende ancora più allarmante il quadro: noi siamo tra gli ultimi in Europa per numero di magistrati ogni centomila abitanti. Se a queste inesorabili statistiche aggiungiamo le carenze - se possibile ancora più gravi- del personale amministrativo, comprendiamo bene le vere ragioni del disastro della giustizia italiana in termini di irragionevole durata dei processi. Questa situazione endemica non sembra tuttavia scuotere più di tanto la politica; ed anzi, sotto la spinta incessante della stessa magistratura, si preferisce affrontare gli interventi sulla durata dei processi intervenendo sulle regole processuali, preferibilmente su quelle poste a garanzia dei diritti di difesa. Ecco allora che la lentezza pachidermica dei processi sarebbe causata da intollerabili regole ipergarantiste, cui occorre porre fine. Per esempio, gli avvocati si ostinano a pretendere, pensate un po’, che il giudice che pronuncia la sentenza sia il medesimo che ha sentito i testimoni. Il principio in verità è apertamente fissato dal codice di rito, che impone, se cambia il giudice, la ripetizione della istruttoria. Ma ci ha pensato la giurisprudenza a “riscrivere” quella norma, riducendo quella fondamentale regola (di buon senso, prima che di garanzia) al suo esatto contrario. Di regola, in caso di mutazione del giudice, non si ripete un bel nulla, salvo cervellotiche e residuali eccezionalità. Non possiamo mica perder tempo a rifare tutto da capo. Avrà ben più diritto il giudice di cambiare sezione, o funzione, o Foro, del cittadino ad essere giudicato dal giudice che ha istruito il processo, giusto? Lo stesso vale per le impugnazioni. Troppi appelli, si ripete ossessivamente, troppi ricorsi per Cassazione, bisogna seminare insidie e trappole di ogni genere sul percorso del diritto delle persone ad un secondo grado di giudizio (che modifica, statistiche alla mano, quasi il 40% delle sentenze di primo grado), ed al vaglio di legittimità. Ma un po’ di giudici di appello e di Cassazione in più, magari? No? Niente da fare. Ora, le verità denunciate da Ermini ci fanno capire che se pure il nuovo Governo decidesse il giorno dopo il suo insediamento una drastica implementazione degli organici, dovremmo attendere cinque o sei anni per averne i primi benefici. Dunque, noi ci permettiamo di indicare al futuro Governo una strada certa, immediata, sicura, che non risolverà certo il problema, ma potrà darci una significativa boccata di ossigeno. Eviti il nuovo Governo di richiedere al Csm la messa fuori ruolo, come accade sistematicamente in questo Paese da molti decenni, di quei 200 magistrati - qualcuno in più, qualcuno in meno - che per misteriose ragioni ci ostiniamo a spostare immancabilmente presso l’esecutivo, e per la gran parte presso il Ministero di Giustizia. Si tratta di una pratica ignota - certamente in queste dimensioni e con questa sistematicità - in ogni altro Paese civile, e se ne comprende bene la ragione, visto che le democrazie funzionano solo se si garantisce la più rigorosa separazione dei poteri. Qui invece abbiamo una commistione fisica tra potere giudiziario e potere esecutivo, con evidente squilibrio verso il primo. Ed infatti la Magistratura italiana tiene moltissimo a questo immancabile rito di potere, con i governi che a secondo del proprio colore prediligono questa o quella corrente, ed i magistrati che, acquisendo ruoli apicali di decisivo peso politico (capo di Gabinetto, capo dell’Ufficio legislativo, capo del personale, etc.) entrano a piedi uniti nella concreta gestione e nel reale orientamento della politica giudiziaria del Paese. Non credo sia così difficile comprendere ciò di cui sto parlando, e che da sempre noi penalisti denunciamo, sempre inascoltati. Ecco una grande occasione per il nuovo Governo, e per il nuovo Ministro di Giustizia. Sentiamo parlare di grandi propositi di riforma liberale della giustizia, e ne siamo lietissimi. Intanto, cominciamo da qui. Questo non richiede percorsi di riforma. Basta che il Ministro di Giustizia si limiti a non richiedere distacchi di magistrati presso il proprio dicastero, lasciando costoro ad assolvere alla funzione altissima per esercitare la quale hanno vinto un concorso, evitando di sguarnire organici già esangui. Insomma, questo allarme rosso c’è o non c’è? Attendiamo fiduciosi. Minori, è allarme reati: aumentano gli arresti per rapine, scippi e lesioni Il Sole 24 Ore, 10 ottobre 2022 I dati del Viminale. Nel primo semestre del 2022 sale al 4,3% la percentuale di under 18 tra le persone segnalate (17.716 in tutto). L’incidenza arriva al 29% nelle rapine in strada o al 16% nei furti con strappo. Alert sul territorio per i crimini delle baby gang. Nei primi sei mesi dell’anno sono stati 17.716 i minori segnalati alle forze dell’ordine, più della metà rispetto ai 30.400 minori denunciati, arrestati o fermati durante tutto il 2021. In pratica, l’identikit dei criminali oggi corrisponde a quello di un under 18 nel 43% dei casi, una incidenza in crescita rispetto al 3,5% rilevato nel 2018 e nel 2019. Il nuovo volto della criminalità emerge dai dati del dipartimento di Pubblica sicurezza del ministero dell’Interno sulle segnalazioni riferite spersone denunciate o arrestate, estratti dalla banca dati interforze e suddivisi per fascia di età e cittadinanza. Uno dei segnali più preoccupanti arriva dal confronto con gli anni precedenti, in particolare per alcune tipologie di reato: nel primo semestre più di 1.53o minorenni sono stati coinvolti in rapine in pubblica via, pari al 29% delle persone segnalate per questa forma di reato. E questo tipo di aggressione - come anticipato sul Sole 24 Ore del 3 ottobre scorso - risulta in crescita Del 13% rispetto al 2019, quindi rispetto a prima della pandemia. Degli oltre 17mila minori segnalati nei primi sei mesi, altri 1.977 sono stati denunciati o fermati per lesioni dolose, 1.288 per danneggiamenti, 993 per spaccio, 702 per ricettazione, 371 quelli in seguito a percosse. Su circa 380 persone fermate per aver rubato un motorino (pochissime a fronte di 9.962 furti rilevati nel periodo), uno su quattro era un minore. E a diventare, sempre più spesso, un illecito minorile è lo scippo (cioè il furto con strappo), per il quale il 16,4% delle persone arrestate ha meno di 18 anni (in tutto 155 minori). Così come il furto negli esercizi commerciali, per il quale l’11,4% dei soggetti segnalati sono minori (1.483 in tutto). Alcuni recenti episodi di cronaca, risse e violenze di strada da parte di gruppi giovanili, hanno poi acceso i riflettori sulle baby gang in Italia, un fenomeno crescente, con un forte impatto sulla percezione di insicurezza nelle città. Per comprenderne meglio le radici, è stato pubblicato venerdì scorso il primo report realizzato dal centro di ricerca interuniversitario Transcrime, in collaborazione con il servizio Analisi criminale del dipartimento di Pubblica sicurezza e quello per la Giustizia minorile del ministero della Giustizia. Le gang giovanili (di solito composte da una decina di minori trai 15 e i 17 anni) sono attive nella maggior parte delle regioni italiane (con una leggera prevalenza del Centro- Nord rispetto al Sud del paese). Circa la metà degli uffici di servizi sociali peri minorenni, delle Questure e dei comandi provinciali dei Carabinieri dichiara che sono aumentate nel territorio di loro competenza negli ultimi cinque anni. “Abbiamo registrato un aumento dei reati di strada che coinvolgono giovanissimi tra i 16 e i 25 anni - spiega Marco Granelli, assessore alla Sicurezza del Comune di Milano. Per combattere questo fenomeno lavoriamo insieme all’autorità giudiziaria e ai servizi sociali. In alcuni quartieri il presidio delle forze dell’ordine di per sé non basta: bisogna offrire un’alternativa ai ragazzi che rivivono, come un centro dove fare attività sportiva”. Osservando le statistiche del Viminale, emergono anche altre caratteristiche ricorrenti nel profilo dei criminali. Il 33,4% delle persone segnalate, ad esempio, risulta di origine straniera, percentuale abbastanza stabile nel tempo (nel 2019 era del 31%) e che risulta più marcata nei territori più esposti alle migrazioni e ai flussi turistici A Prato l’incidenza sale al 65%, a Lodi e Firenze al 54% e a Milano al 53 per cento. Gli stranieri, poi, sembrano più coinvolti in alcune forme di reato: ad esempio, su 41 arresti per tentato omicidio a scopo di furto o rapina il 73%è di origine straniera; su 2.990 persone accusate di furto con destrezza Il 64% non è italiano. L’azione di contrasto Non per tutti gli illeciti, però, emerge la stessa efficacia dell’azione di contrasto: d sono reati - ad esempio i furti di motocicli, automobili e i furti con destrezza - per cui vengono segnalate meno di tre persone ogni cento denunce pervenute alle forze dell’ordine per quel tipo di illecito. Anche per i delitti infornatici - che sono addirittura raddoppiati nei primi sei mesi di quest’anno rispetto allo stesso periodo del 2019 - sono state segnalate solamente 955 perone nel semestre. Un numero che, rapportato ai 15.215 episodi denunciati, sembra certificare come certi crimini, purtroppo, in pratica restino impuniti. Bologna. Dozza, autolesionismo e suicidi tra i detenuti psichiatrici: è allarme Il Resto del Carlino, 10 ottobre 2022 Quattro morti, in meno di un anno, tra le mura della Dozza. E i tentativi di suicidio che non si contano più, all’ordine del giorno in sezioni difficili come il secondo piano giudiziario. Ai tre detenuti trovati morti nel letto per malori a quanto pare legati all’assunzione di sostanze (Bojan Taoufik, di 40 anni, Adil Ammani, di 31 anni, entrambi marocchini, e Fateh Daas, tunisino di 42) a inizio settembre si è aggiunto un cinquantatreenne serbo, che si è impiccato nella sua cella. Sabato un altro detenuto tunisino di 48 anni ha rischiato di morire nello stesso modo: con una corda improvvisata, realizzata con le lenzuola di carta, avvolta attorno al collo. Adesso l’uomo, salvato dal tempestivo intervento della polizia penitenziaria, è in ospedale. Ma questo ennesimo tentativo di suicidio riaccende l’attenzione sulla gravità della situazione dei detenuti più fragili alla Dozza. “Dei tanti che, con problemi psichiatrici, dopo la chiusura degli opg, vengono oggi tenuti tra i detenuti comuni, pur avendo esigenze di trattamento ben diverse”, spiega il sindacato Sinappe. Per cui questa convivenza forzata rischia di fare esplodere la già complessa gestione di un carcere dove la popolazione penitenziaria oscilla tra i 750 e gli 800 detenuti: “Da un lato ci sono le necessità terapeutiche di questi detenuti, che non possono essere soddisfatte dal regime carcerario attuale - spiega il sindacato -; dall’altro ci sono tutti gli altri detenuti, che subiscono gli effetti del disagio patito da queste persone, che ne condiziona il comportamento”. Un malessere acuito anche dalle differenze sociali, che in carcere pesano ancora di più che fuori: “Alcuni detenuti, soprattutto tra i tunisini, si tagliano o ingeriscono lamette e batterie perché hanno bisogno di ascolto e in quel modo sanno di ottenerlo. Pochi giorni fa un ragazzo si è cucito le labbra col fil di ferro. E queste condotte autolesioniste iniziano ad essere comuni anche tra i minorenni del Pratello”, conclude il Sinappe. San Cataldo. Malattie infettive, giornata d’informazione per i detenuti Giornale di Sicilia, 10 ottobre 2022 Una giornata “speciale” quella vissuta dai detenuti della Casa di reclusione di San Cataldo, in provincia di Caltanissetta, grazie al seminario di sensibilizzazione contro le malattie infettive dal titolo “Malattie infettive e detenzione: corretta informazione e tutela della salute” organizzato da AJS Connection e realizzato grazie al contributo incondizionato di Gilead Sciences. L’evento, fortemente voluto dalla direttrice della Casa di reclusione, Francesca Fioria, ha goduto dell’autorevole supporto di un Comitato Scientifico composto anche dal professore Antonio Mistretta Coordinatore delle attività scientifiche della Presidenza dell’Istituto Superiore di Sanità, Docente di Igiene presso l’Università di Catania; dalla dottoressa Daniela Segreto - Direttore Ufficio Speciale “Comunicazione per la Salute” Assessorato della Salute della Regione Siciliana; dal professore Giovanni Mazzola - Primario Malattie Infettive Ospedale Sant’Elia di Caltanissetta; dal dottore Francesco Santocono - Docente di Diritto Sanitario, Università “Giustino Fortunato” di Benevento - Responsabile UOS Comunicazione Istituzionale, Arnas Garibaldi di Catania. Intensa e sentita la partecipazione di circa 80 detenuti che hanno seguito con estrema attenzioni tutte le fasi del seminario durante il quale è stato proiettato il cortometraggio “Io e Freddie - Un Specie di Magia”, sul problema dell’Aids, ideato, scritto e diretto dal giornalista Francesco Santocono e interpretato come protagonista dall’attore Gabriele Vitale. Film tratto dall’omonimo romanzo dello stesso Santocono e che ha ha vinto il premio Best Insanitas dell’assessorato regionale alla Salute quale miglior progetto di comunicazione in sanità nel 2021. Dunque, secondo recenti statistiche, nelle carceri italiane un’elevata percentuale di detenuti ha una malattia infettiva (epatite, Hiv, tubercolosi, sifilide) e, uno su tre non è consapevole del proprio stato di salute. L’infezione da Hiv e le epatiti sono ampiamente diffuse, con prevalenze che possono arrivare fino a 10 volte rispetto a quelle rilevabili nella popolazione generale a seconda della composizione demografica presente negli Istituti penitenziari. Inoltre, recenti studi hanno evidenziato che, così come succede nella società civile, anche all’interno del carcere il virus dell’HIV e delle epatiti sta progressivamente perdendo quella caratterizzazione terrorizzante che aveva assunto negli anni Ottanta e Novanta. Obiettivi dell’incontro, quindi, sono state l’informazione e la sensibilizzazione delle persone in stato di detenzione e degli operatori del sistema. “Questo seminario - ha detto la direttrice Fioria - si inserisce nel nostro percorso annuale che punta alla formazione e all’informazione come trampolino di lancio verso l’esterno poiché le persone che si trovano qui hanno un fine pena breve e quindi saranno presto libere. La convivenza forzata in un luogo chiuso ci porta ad avere paura, fatto però che è spesso causato dalla mancanza, o sbagliata o sommaria, conoscenza dell’argomento. Oggi si è realizzata una bellissima un bellissima opportunità per poter dissolvere questa paura”. “Un momento importante - ha precisato Francesco Santocono - perché fra i tanti posti nei quali è stato presentato il mio film, nuovo modo di fare comunicazione in sanità, qui si sente più forte il contatto umano con una valenza ancora più significativa”. “Oggi - ha affermato l’attore Gabriele Vitale - ho avvertito qui una presenza e un’energia che ha dato un forte senso alla fatica per la realizzazione del film. Non c’è cosa più bella quando un messaggio arriva e viene recepito. Qui c’è stata una partecipazione che in altri posti non ho visto. Oggi c’è stato un finale bello per tutti”. Sono intervenuti anche il dottore Giuseppe Sportato, Specialista in Malattie Infettive Ospedale Sant’Elia di Caltanissetta, la dottoressa Valentina Botta - Ufficio Speciale “Comunicazione per la Salute” Assessorato della Salute della Regione Siciliana e il dottore Alfonso Cirrone Cipolla - Dirigente medico staff Direzione Sanitaria Aziendale ASP Caltanissetta e Direttore Sanitario Presidio Ospedaliero “Suor Cecilia Basarocco”, che con i loro interventi hanno contribuito ad approfondire il delle malattie infettive a trasmissione sessuale spiegandone le origini, le manifestazioni, le cure, la corretta prevenzione per evitare di essere da esse contagiati e tutto ciò che in Sicilia viene fatto per migliore il sistema sanitario. Ascoli. Infermieri del carcere sul piede di guerra: “Trattamento economico inadeguato” di Maria Nerina Galiè cronachepicene.it, 10 ottobre 2022 Si sono rivolti al Giudice del Lavoro, in una class action. L’11 ottobre la prima udienza. Tassi (Nursing Up): “La questione della sicurezza è un problema quotidiano, la popolazione carceraria ha caratteristiche specifiche, diverse dalla popolazione generale sia per quanto riguarda gli aspetti sociali che sanitari”. Buoni pasto, riconoscimento dei festivi infrasettimanali lavorati, indennità di malattie infettive: questo chiedono gli infermieri in forza alla Casa Circondariale del Marino di Ascoli, sul piede di guerra. Si sono rivolti ad un legale ed il prossimo 11 ottobre la prima udienza al Tribunale del Lavoro di Ascoli, con i professionisti, riuniti in una class action. Gli infermieri si sono visti costretti a ricorrere al Giudice del Lavoro, contro l’Asur, perché ritengono che i loro diritti, sanciti dal Contratto nazionale, non sia rispettato, a fronte di rischi per la salute e impossibilità di rispettare riposo e addirittura la pausa pranzo, pur effettuando turni di oltre 6 ore di lavoro. Ed ancora: “Nessun riconoscimento per il personale sanitario, e in particolar modo gli infermieri, per il rischio sanitario che, alla stregua del personale di polizia penitenziaria, subiscono costantemente per il fatto di trascorrere più tempo - rispetto ai colleghi dell’area sanitaria - a contatto con i detenuti”. Un malcontento che serpeggia tra i professionisti, che coprono l’orario h24 da quando al carcere del Marino è stato istituito il Reparto di salute mentale (Rems). Le richieste che verranno prese in esame dal Tribunale sono l’indennità sostitutiva del buono pasto (5,16 euro) per ogni turno lavorato eccedente le sei ore, poiché dichiarano di non poter lasciare il servizio per consumare il pranzo e la cena. Chiedono inoltre l’indennità per le giornate di lavoro festivo infrasettimanale. E che venga accertato e dichiarate il diritto “a percepire l’indennità per particolari condizioni di lavoro”. A porre l’accento sulla questione della sicurezza è il dirigente provinciale Nursing Up sindacato degli infermieri italiani Roberto Tassi: “In ambito penitenziario - commenta - la tutela della salute è una delle materie più controverse e oggetto di dibattito. Nonostante il passaggio di competenze da Ministero della Giustizia a Servizio Sanitario Nazionale (Riforma della medicina penitenziaria del 2008), la professione infermieristica in carcere continua a presentare aspetti estremamente complessi. Infatti, la peculiarità del contesto impone che gli infermieri lavorino adattandosi alle regole del sistema carcerario, muovendosi spesso in spazi limitati e con tempi ristretti. Questo può causare disagi e difficoltà nell’organizzazione dei processi assistenziali. La questione della sicurezza è un problema quotidiano, la popolazione carceraria ha caratteristiche specifiche, diverse dalla popolazione generale sia per quanto riguarda gli aspetti sociali che sanitari. I detenuti oltre alle malattie comuni a tutta la popolazione (è evidente un numero crescente di detenuti con patologie croniche), spesso presentano stati di salute aggravati dalle condizioni di vita legate alla reclusione e soprattutto dagli stili di vita che in passato hanno pregiudicato i loro organismi. Sono frequenti malattie come Hiv, Epatite C e Tubercolosi, come anche è diffuso il consumo di droghe. Non si dimentichi la pandemia da Covid: in ambito carcerario è stato difficilissimo gestire i percorsi. Tra novembre 2021 e marzo 2022, tanto per capirci, abbiamo gestito un focolaio di 50 contagiati. Altra criticità per la relazione terapeutica è rappresentata dal fatto che talvolta i detenuti sostengono di sentirsi male solo per aggirare la sicurezza, lasciare la struttura e andare in ospedale. Per gli infermieri può essere difficile capire se si tratta di un vero malessere o se il detenuto sta tentando di allontanarsi dal carcere anche solo per qualche giorno. Un esempio di strumentalizzazione dei sintomi può realizzarsi con dolore toracico, sincopi, crisi epilettiche, dolore. Altra modalità per fuggire dal carcere è il fenomeno dell’autolesionismo (ferite da taglio, ingestione di corpi estranei, inalazione di gas, contaminazione delle ferite, tentativi di impiccagione, omissione volontaria di assunzione di farmaci salvavita, ingestione volontaria di farmaci in dosi tossiche, sciopero della fame e o della sete). Un ulteriore fenomeno - continua Tassi - con cui occorre confrontarsi in carcere è quello della multiculturalità. Studi in materia recita che al 31 dicembre 2013 i detenuti stranieri nelle carceri italiane erano pari al 34,9% e provenienti per la maggior parte dall’Africa (46,3%), in particolare da Marocco e Tunisia (rispettivamente 18,6 e 12%), e dall’Europa (41,6%). Uno studio del 2014 - conclude il sindacalista - è stato realizzato per valutare i livelli di burnout tra gli infermieri che lavorano nelle carceri, con il coinvolgimento di un campione di 95 infermieri. I risultati ottenuti hanno evidenziato che il 31,57% degli infermieri mostrava esaurimento emotivo, fisico e cinismo, il 6,32% dichiarava un senso di scarsa efficacia professionale”. Venezia. Carcere e lavoro: mercoledì scorso un convegno all’Ateneo Veneto di Arianna Ceschin qdpnews.it, 10 ottobre 2022 Per riflettere su “Una prospettiva per i detenuti e un’opportunità per le imprese”. Carcere e lavoro: questo binomio è stato al centro di un convegno organizzato nel pomeriggio dello scorso mercoledì 5 ottobre, nella suggestiva aula magna dell’Ateneo Veneto, in campo San Fantin a Venezia (un evento accreditato dall’Ordine dei giornalisti del Veneto, in collaborazione con il Sindacato dei giornalisti), moderato da Antonella Magaraggia, presidente dello stesso Ateneo Veneto. Un’occasione di riflessione su quanto il lavoro possa avere un impatto positivo non soltanto sui detenuti, ma anche sulle imprese, specialmente in questo periodo storico così complesso. Secondo i dati forniti nel corso dell’incontro, solamente l’11% dei detenuti lavora all’esterno del carcere, mentre la percentuale restante è impiegata in varie mansioni (cucine, laboratori, eccetera) all’interno delle strutture carcerarie. Inoltre, è interessante notare come i casi di recidiva siano notevolmente più bassi tra i detenuti che svolgono una professione regolare. Il lavoro, più in generale, è considerato un elemento che “connota l’esecuzione della pena” e deve essere inteso come “un risarcimento nei confronti della società”, sebbene non sia obbligatorio per i detenuti, e “deve essere equiparato con il lavoro della persona libera, con gli stessi diritti e doveri”, ovvero con il diritto di retribuzione (che corrisponde ai due terzi della retribuzione stabilita dalla contrattazione collettiva), le ferie e i giorni di malattia retribuiti, le contribuzioni. Tra il 1991 e il 2021 la percentuale di detenuti che lavorano resta stabile al 34,46%, secondo quanto riferito da Carlo Renoldi (capo del Dipartimento di amministrazione penitenziaria), e attualmente la difficoltà starebbe proprio nell’andare oltre questo dato percentuale, mentre la rilevanza del lavoro carcerario sta nella prospettiva di poter costruire una vita futura e di inserimento nella società, una volta concluso il percorso di pena. Si stima che nel 2021 siano stati 124 i milioni di euro stanziati per le retribuzioni dei lavoratori-detenuti, a fronte dei 53 mila carcerati impiegati in una mansione. Nel corso del convegno è stato mostrato un documentario realizzato proprio sul tema “Carcere e lavoro”, realizzato da Giovanna Pastega e Andrea Basso nelle case circondariali di Treviso e della Giudecca a Venezia. In quest’ultimo caso, ad esempio e come spiegato da Maria Milano Franco D’Aragona (provveditrice regionale del Veneto-Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige), 55 detenute sulle 73 che si trovano alla Giudecca sono lavoratrici in una lavanderia interna che rifornisce anche gli hotel della città e in due laboratori di sartoria e cosmesi. “Tutto questo per mostrare che è possibile vivere il carcere come una risorsa - ha commentato Angela Venezia (direttrice Ufficio detenuti e trattamento del Provveditorato regionale dell’Amministrazione penitenziaria Veneto-Friuli Venezia Giulia-Trentino Alto Adige) - Il carcere è un momento di riflessione per chi ha sbagliato e il compito dell’amministrazione penitenziaria è quello di fornire una nuova visione del carcere stesso”. “Mostrare un’altra possibilità” è quindi il concetto ribadito più volte nel corso dell’incontro e, per tal motivo, è stato rivolto un invito al mondo imprenditoriale, affinché le imprese possano affacciarsi al mondo carcerario e fornire ai detenuti la possibilità di “fare delle scelte” e, di conseguenza, di reinserirsi. Secondo Tiziano Barone, direttore di Veneto Lavoro, “la partita con il lavoro è la partita con la realtà”, mentre Paolo Armenio, vicepresidente di Confindustria Venezia Rovigo, il caro energia starebbe compromettendo la possibilità di collocare, lavorativamente parlando, sia i detenuti che le persone libere. Pertanto, a suo avviso, sarebbe necessario dei tavoli permanenti tra le imprese e le amministrazioni penitenziarie, per avvicinare questi due mondi e creare delle opportunità valide e oggettive: “Siamo pronti, ma con qualcosa di concreto”, ha detto. All’appuntamento sono intervenuti anche Daniele Minotto, vicedirettore dell’Associazione veneziana albergatori, Paolo Zabeo, coordinatore dell’Ufficio Studi CGIA di Mestre, e Flavia Filippi, giornalista del tg La7 e fondatrice dell’associazione “Seconda Chance”. Zabeo ha evidenziato la necessità di incrociare non solo le necessità e gli interessi delle imprese con le amministrazioni penitenziarie, ma di coinvolgere anche le associazioni di categoria nel ruolo di mediatori, poiché “hanno sensibilità e conoscono il territorio”. Binotto, invece, ha riferito come l’inserimento lavorativo dei detenuti avvenga tramite il passaparola, quando sarebbe necessario, pertanto, creare un sistema più stabile fatto di diversi anelli di congiunzione. Flavia Filippi ha invece raccontato il lavoro svolto dalla sua associazione, che avrebbe attualmente consentito di trovare 110 posti di lavoro a detenuti, ex detenuti, ai loro familiari o a persone che si trovano agli arresti domiciliari. “Siamo qui per proporci come snodo”, ha affermato Filippi, specificando che gli imprenditori coinvolti in questi percorsi godono di uno sconto per il pagamento delle tasse. Il principio di solidarietà come ragione del vivere nella comunità di Guido Alpa* Il Dubbio, 10 ottobre 2022 C’è una continuità tra idee, valori, principi che si accreditano in un determinato momento storico, in una determinata società e le forme giuridiche che essa adotta per organizzare i rapporti tra gli individui e tra gli individui e lo Stato. Se il diritto in senso oggettivo è sistema di distribuzione del potere, sistema di distribuzione della ricchezza, sistema di governo della pace e della guerra, sistema di attribuzione dei diritti individuali e collettivi, sistema di amministrazione della giustizia e di regolamentazione o - come oggi si preferisce sostenere - di regolazione del mercato, non si può pensare che il diritto come scienza e come tecnica possa essere avulso dalla cultura, dal mondo delle idee, dalla politica e dalle altre scienze sociali. Questo pregiudizio, che nasce nell’Ottocento, in un’epoca nella quale le Costituzioni si preoccupavano di legittimare il potere dell’autorità e addirittura di definirne l’origine divina, e i codici civili si limitavano a dirimere i conflitti tra proprietari, si è protratto fin quasi alla fine del Novecento. Ma se un secolo fa questo pregiudizio si poteva considerare fondato, perché in linea con l’interpretazione dogmatica e formalista allora imperante, oggi non più. E tuttavia se si scorre la letteratura che si è raccolta in determinati ambiti, possiamo riscontrare che quel pregiudizio è praticato così largamente da non risultare neppure percepito, anzi, da esser considerato una componente quasi naturale della ricerca. È accaduto così per l’idea di solidarietà: per lungo tempo assorbita nel mondo delle idee da parte di studiosi di storia, filosofia, scienza politica e sociologia, si è proceduto come se essa fosse estranea al diritto e il diritto fosse estraneo alla sua definizione. Ma dal diritto riflessivo che si accontenta di una funzione notarile della storia, si è passati da tempo al diritto militante. Da quando il principio di solidarietà ha fatto ingresso nelle Costituzioni, al diritto è dato un compito attivo nel definire le posizioni giuridiche soggettive e i rapporti del cittadino con lo Stato. E lo Stato,nelle sue diverse vesti di sistema organizzativo, di “Stato sociale” o di operatore del mercato, ha assunto compiti complessi, destinati a garantire i diritti fondamentali e a ridefinire il ruolo della persona nella società, assicurandole non solo dignità ma anche un lavoro, un’abitazione, un ambiente sano, un reddito sufficiente e un avvenire sicuro. Oggi viviamo in una post-democrazia che vede prevalere le società multinazionali sul libero mercato, le piattaforme digitali sulle regole degli ordinamenti nazionali; si è messo in atto lo svilimento della persona ridotta a semplice consumatore di beni e servizi, si avvertono le incertezze verso le sfide tecnologiche, si registra l’arretramento della frontiera dei diritti fondamentali, e si paventa la crisi dell’Unione europea. Nel Preambolo della Carta dei diritti fondamentali si legge che l’Unione, questo grande edificio sovranazionale, è fondato “sui valori indivisibili e universali di dignità umana, di libertà, di uguaglianza e di solidarietà; (...) sui principi di democrazia e dello stato di diritto”, ponendo “la persona al centro della sua azione istituendo la cittadinanza dell’Unione e creando uno spazio di libertà, sicurezza e giustizia (...)”. Questa grande istituzione creata per “promuovere uno sviluppo equilibrato e sostenibile”, è oggi in cerca di un futuro più sicuro e di un collante più forte. Tra tutti i valori sui quali essa si fonda, la solidarietà appare come quello più etereo, per qualche tratto anche più equivoco, anche se esso può vantare, al pari degli altri, una tradizione augusta. Il suo significato è stato il più mutevole e certamente il più abusato: su questa espressione, o su espressioni similari, si sono edificate di volta in volta le tavole delle libertà individuali e il corporativismo fascista, le Costituzioni liberali e lo spirito del popolo nazista, il messaggio cristiano di amore fraterno e l’umanesimo socialista. Data la sua duttilità, qualche studioso è giunto alla conclusione della sua inutilità o della sua pericolosità. Ma questa argomentazione non è risolutiva. La solidarietà non è solo un valore-principio provvisto di significato filosofico e morale, è un valore-principio a contenuto giuridico, e perciò precettivo, strumentale alla realizzazione dei fini sociali. Decodificare la solidarietà, per comprenderne appieno le potenzialità, i travisamenti e le mistificazioni è dunque diventato, oggi più che mai, un compito affidato ai giuristi: un compito difficile, essendo tutti consapevoli che quel valore si basa su di una utopia, come sottolineava Stefano Rodotà, ancorché necessaria. Ecco perché la solidarietà, nel rispetto dell’autonomia privata e degli interessi collettivi, deve essere “reinventata”. L’amplissima letteratura sul tema conta ovviamente contributi di grande impatto ed utilità nel mondo anglo-americano, ove tuttavia la solidarietà è vista soprattutto sotto la lente del “common good”, o della dialettica tra comunitarismo e particolarismo, oltre che sotto le forme delle aspirazioni alla giustizia sociale. Nel mondo francofono, in cui la solidarietà appare abbinata alla fraternità, questo termine richiama gli ideali rivoluzionari, le correnti socio-logiche dell’Ottocento, e il solidarismo radicale dell’inizio del Novecento. Nelle ricerche sul tema gli aspetti giuridici sono per lo più trascurati, essendo essi ancillari degli aspetti filosofici o politici. Di qui l’esigenza di fare il controcanto agli studi metagiuridici con un racconto che, muovendo dalle prime Costituzioni, documenti l’intreccio delle norme con le idee e i valori. Si potevano scegliere diversi percorsi per assolvere questo compito: l’evoluzione del concetto di proprietà, o quello di persona, o di contratto, o di danno, o di democrazia o di potere o di sovranità. Nei tempi difficili e calamitosi di oggi mi è parso più congruo ripensare il principio di solidarietà come ragione del vivere, vivere pienamente e non solo sopravvivere, in un agglomerato sociale che chiamiamo comunità. Dal punto di vista lessicale l’espressione non dice molto, se non una singolarità.mNon accade di frequente che un termine provvisto di un significato tecnico specifico e circoscritto nel mondo del diritto conquisti uno spazio assai più ampio e si estenda nel tempo, arricchendo i suoi significati e superando gli angusti confini della sua origine. “Solidarietà” è uno di questi termini: come si ripete spesso, esso deriva da un altro termine, solidum, che oltre a designare un nome, indica anche un aggettivo; nella sua accezione diretta, indica una porzione di sostanza concreta, essenzialmente diversa da ciò che è liquido o aereo, e nel significato traslato significa pieno o “intero”. Nel mondo del diritto è collegato con il concetto di debito, cioè con una delle forme in cui si può configurare il debito: il debitore “in solido” (come già si prevedeva nel diritto romano) è il debitore che ha contratto il vincolo insieme con altri debitori nei confronti dello stesso creditore; il creditore può, a sua scelta, richiedere di adempiere l’obbligazione per l’intero anche ad uno solo di essi, e questi deve eseguire la prestazione, salvo il suo diritto di regresso nei confronti degli altri. La tradizione del diritto romano ci ha trasmesso questa formula, dalla quale emergono subito alcuni corollari: chi è tenuto in solido ha un debito, è cioè titolare di una situazione soggettiva passiva, e questo debito non è individuale, singolare, ma condiviso con altri. La situazione presuppone una relatività duplice: il rapporto del debitore con gli altri condebitori e tutti insieme e singolarmente nei confronti del creditore. I debitori in solido vivono dunque una situazione contingente comune. Dal linguaggio giuridico, ancora riportato in questa accezione nell’Enciclopedia di Diderot e D’Alembert, il termine solidarité è stato trasposto nel linguaggio comune ed ha acquistato un significato - ancora molto generico - di mutua responsabilità. È un vocabolo francese, e dal francese viene riversato nella lingua italiana; Niccolò Tommaseo lo registra nel suo vocabolario nel 1847 come un “brutto francesismo”. Nella stessa epoca conquista la lingua tedesca (Solidarität) e la lingua inglese (solidarity). *Introduzione all’ultimo lavoro del professor Guido Alpa: “Solidarietà un principio normativo” Social economy, la riforma che produce impresa. Nate 4mila nuove realtà di Giulio Sensi Corriere della Sera, 10 ottobre 2022 Il bilancio dopo cinque anni. Una crescita del 4% con 241mila assunzioni mentre il mondo profit è rimasto fermo. I dati del rapporto Unioncamere-Terzjus e i contratti a donne, migranti, laureati. Favorire la nascita di nuove imprese sociali era uno degli obiettivi della riforma del Terzo settore. A distanza di cinque anni il bilancio è positivo: hanno visto la luce quasi quattromila nuove realtà, non solo cooperative sociali, ma anche srl, società di persone e altre forme che, soprattutto nel Mezzogiorno, garantiscono ormai una quota rilevante dell’occupazione. Per la prima volta dal 2017, anno di entrata in vigore del nuovo codice, l’Unione italiana delle Camere di Commercio, Unioncamere, ha reso noti i numeri sulle nuove imprese sociali all’interno del rapporto annuale dell’associazione Terzjus intitolato “Dal non profit al Terzo settore. Una riforma in cammino”. “Il tasso di crescita annuo - spiega il vicesegretario generale di Unioncamere, Claudio Gagliardi - è stato del 4% ed è un dato rilevante se si considera che nel mondo profit tale tasso ha registrato una sostanziale stabilità. È anche più alto del passato, quando la quasi totalità, il 97%, delle imprese sociali nascenti aveva la forma cooperativa. Consideriamo che si è verificato in un periodo non certo semplice della storia italiana e che per il 25% ha riguardato forme diverse da quella cooperativa. Una su quattro è società di capitali, oppure associazione, fondazione, società di persone o cooperativa diversa da quelle sociali”. Una su quattro - Non solo: “Anche i settori di attività si sono diversificati - aggiunge Gagliardi - e anche se quello dell’assistenza sociosanitaria è ancora maggioritario abbiamo con queste nuove imprese una presenza sempre più diffusa nel campo della formazione e istruzione, cultura, tutela ambientale e promozione del territorio. La riforma sta dando elementi di innovazione, unendo approccio imprenditoriale con finalità sociali”. La presenza è forte in particolare nel Mezzogiorno, ma anche al Centro e al Nord ha favorito l’allargamento a nuovi settori. Secondo un’altra recente indagine di Unioncamere, tali imprese hanno attivato più del 5% dei contratti previsti dalle imprese con almeno un dipendente, garantendo 241mila nuove assunzioni e in alcuni ambiti, come quello del welfare, coperto circa la metà del flusso occupazionale. “Il 36% di questi - prosegue il vicesegretario generale di Unioncamere - sono laureati, quota che non supera il 14% in tutti i settori economici del nostro Paese. C’è una domanda di alta specializzazione che rispecchia avanzati processi di trasformazione digitale e sostenibilità ambientale”. Un nuovo assunto su quattro negli ambiti dell’educazione e della formazione del 2021 è stato dentro un’impresa sociale. “E maggiore - spiega ancora Gagliardi - è la quota di donne e migranti. Sono tutti elementi che devono far guardare con attenzione al Terzo settore, non solo per il suo significato sociale, ma anche per quello economico”. Impatto - Il rapporto di Terzjus ha voluto fare il punto sull’impatto della riforma non solo in materia di impresa sociale, ma anche su tutto il Terzo settore, con l’indagine “Riforma in movimento” condotta assieme a Italia Non Profit. Sotto la lente l’impatto del Runts, il Registro nazionale telematico del ministero del Lavoro e delle politiche sociali che da novembre scorso sta progressivamente riunificando i vecchi registri e accogliendo le nuove iscrizioni per assicurare la piena trasparenza. “Anche qua - commenta il segretario generale di Terzjus, Gabriele Sepio, che è stato uno dei tecnici decisivi nella stesura della Riforma avviata durante il governo Renzi - registriamo un dato positivo: quasi 12mila nuove domande di iscrizione ricevute in meno di un anno, di cui seimila già accolte e molte di piccoli enti. Nonostante gli adempimenti formali, decidono di iscriversi per contare sulle opportunità del Registro e che riguardano, ad esempio, la possibilità di divenire destinatari del 5 per mille o di lavorare in partenariato con la pubblica amministrazione. C’è certamente una percezione di fatica a stare dietro al nuovo status, ma buona parte degli enti si sta misurando con tutto questo in modo proattivo”. “Il successo della riforma - aggiunge Sepio - dipenderà molto da come le reti associative e i Centri di servizio per il volontariato riusciranno a stare al fianco dei soggetti, in particolare quelli più piccoli e meno strutturati, che necessitano di sostegno”. Secondo i dati di Terzjus e Italia Non Profit, se due organizzazioni su tre guardano all’iscrizione al nuovo registro come una opportunità, un riconoscimento, un’occasione di visibilità e trasparenza, una su tre invece - e sono in particolare le piccole - lo avverte come un problema, ma solo il 5% esclude di iscriversi. Il Runts però non è l’unica transizione da compiere per completare la riforma. “Le sfide aperte - conclude Sepio - sono molte. Arruolare i 14 milioni di contribuenti attivi che ancora non destinano il loro 5 per mille, concludere l’interlocuzione con l’Europa per definire tutta la partita fiscale, rendere veramente universale il Servizio civile, far decollare i social bonus e i titoli di solidarietà. Tutto questo per dare stabilità agli enti del Terzo settore, come la riforma prevedeva”. Infortuni sul lavoro: storie e volti dietro i numeri di Giusi Fasano Corriere della Sera, 10 ottobre 2022 Ieri era la giornata nazionale per ricordare le vittime degli incidenti sul lavoro. L’opera di sensibilizzazione di Andrea Lanari e degli altri testimonial della sicurezza in un paese dove abbiamo un ferito al minuto. Andrea Lanari dice che quel giorno stava centrando una lamiera in uno stampo. La pressa “si abbassò di colpo e mi tranciò le mani”, racconta. Era il 4 giugno 2012. Le sue mani sono finite nel conteggio spaventoso degli infortuni sul lavoro di quell’anno. Un numero fra centinaia di migliaia di altri. Un numero della statistica nera che valeva allora e vale ancora oggi: a parte i morti (l’anno scorso 1221) nel nostro Paese abbiamo un ferito ogni minuto quando va bene, negli annus horribilis siamo arrivati a un ferito ogni 50 secondi. A volte cose di poco conto, più spesso invalidità gravi e permanenti. Ieri era la giornata nazionale per ricordare le vittime degli incidenti sul lavoro. Sempre troppe e per un giorno - almeno uno - non soltanto cifre di questa o quella statistica ma anche storie, facce, vite. L’Anmil (Associazione nazionale dei lavoratori mutilati e invalidi del lavoro) ha organizzato ovunque incontri, riflessioni, testimonianze. E Andrea era uno di quei testimoni, sul palco allestito nello stabilimento Claber di Fiume Veneto, vicino Pordenone. Dopo l’incidente lui decise che raccontare di sé, mostrare le sue nuove mani dall’anima d’acciaio, doveva diventare una missione. Perché tutti capissero, ascoltandolo, che la sicurezza sul lavoro vale molto più dei soldi e del tempo risparmiati per evitarla. Le sue giornate, oggi, sono dedicate al mestiere di “testimonial formatore per la salute e la sicurezza sul lavoro”, una figura professionale voluta dall’Anmil e già in azione soltanto nelle Marche, nel Lazio e in Abruzzo (sono operativi circa 300 persone). Andrea, marchigiano di Castelfidardo, arriva sul palco di un evento, davanti agli studenti di una scuola, o di fronte ai lavoratori di un’azienda, e comincia a parlare del suo 4 giugno 2012. La sicurezza che mancava, zero formazione, la pressa, le mani, il sangue, la corsa in ospedale, il risveglio dopo la doppia amputazione... A volte si ferma. Pausa. Ricaccia indietro le lacrime arrivate sull’orlo degli occhi e riprende. Con pazienza, con dolcezza, con la voce che trema. Nel silenzio della sala le sue parole prendono forma ed è un po’ come tornare lì assieme a lui in quel giorno di giugno. “Ogni volta per me è traumatico, ma credo nel valore della testimonianza”, è la sua conclusione. Anche noi. Ci vorrebbero migliaia di Andrea a ricordare a tutti l’importanza del lavoro sicuro. Le 3 morti sul lavoro al giorno si potrebbero evitare con più controlli e prevenzione farodiroma.it, 10 ottobre 2022 Una vergogna per l’Italia. Mattarella invoca giustizia. “I numeri delle vittime degli incidenti sul lavoro, nonostante i numerosi provvedimenti normativi con i quali si è cercato, nel tempo, di prevenirli, sono allarmanti, drammatici. Raccontano storie di vite spezzate, di famiglie distrutte, di persone gravemente ferite, di uomini e donne che invocano giustizia. Persone che si appellano alle istituzioni, ai datori di lavoro, alla coscienza di chiunque sia nelle condizioni di rendere i luoghi di lavoro posti sicuri, in cui sia rispettata la dignità della persona”. Lo scrive il presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, in occasione della Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro, nel messaggio inviato al presidente dell’Anmil Onlus, Zoello Forni. “Lo sviluppo di nuove tecnologie ha mutato radicalmente la natura e la stessa dimensione spazio-temporale dei luoghi di lavoro. Purtroppo, questa fase non è stata accompagnata da una crescita proporzionata delle iniziative verso la prevenzione”, osserva ancora il capo dello Stato. “Lavorare - ammonisce - non può significare porre a rischio la propria vita. Ecco perché la Giornata Nazionale per le Vittime degli Incidenti sul Lavoro è occasione preziosa per richiamare l’attenzione su un fenomeno inaccettabile in un Paese moderno che ha posto il lavoro a fondamento della vita democratica”. “L’affermazione dei diritti sui luoghi di lavoro, primo quello alla vita, oltre che essere un termometro della vita civile, è un generatore di valore per la società, per i lavoratori, per le imprese. Con questi sentimenti - conclude Mattarella - esprimo il mio apprezzamento all’Anmil per l’impegno con cui assiste e sostiene i lavoratori e i loro familiari, e formulo gli auguri per la piena riuscita delle manifestazioni in programma sul territorio nazionale”. Gli incidenti mortali sul lavoro in Italia, nei primi 8 mesi dell’anno, sono stati 677, con una media di quasi tre vittime al giorno. Rispetto al medesimo periodo del 2021, quando le vittime furono 772, si registra un sensibile calo del 12,3%, secondo i dati dell’Inail che sono stati diffusi dall’Anmil, a Fiume Veneto (Pordenone), in occasione della Giornata nazionale per le vittime degli incidenti sul lavoro. Nel periodo tra gennaio e agosto 2022 si registra una media di 84 vittime al mese. Il totale è di 95 decessi in meno rispetto allo stesso periodo del 2021 che però risentiva dei tanti morti per Covid. I decessi non legati alla pandemia sono aumentati del 32%. E risultano aumentate anche le denunce di infortunio: 484.561 (cioè 2.019 al giorno), +38,7% rispetto ai 349.449 dei primi otto mesi del 2021. Il maggior numero di infortuni mortali si è registrato nel settore delle costruzioni. Le malattie professionali sono state 39.367 (+7,9%). Iraq. Le vedove dell’Isis: “Nessuno ci vuole più. Che sarà dei bambini?” di Francesca Mannocchi La Stampa, 10 ottobre 2022 La tragica sorte delle famiglie dei miliziani che da quattro anni vivono come sfollate. Quando è arrivata nel campo profughi, nel 2018, Anjia si è domandata quanto a lungo lei e i suoi figli sarebbero rimasti lì. Non sapeva dove andare, non aveva un altro posto dove vivere né una famiglia pronta a prendersi cura di loro. Non le restava nessuno. Suo marito era affiliato all’Isis e dopo la guerra di liberazione di Mosul lei come migliaia di altre donne e bambini rimaste vedove e orfani ha preso i figli ed è arrivata nel campo di Jeddah, nel nord dell’Iraq. Il campo, che al massimo della capienza delle cinque sezioni, ha ospitato anche 60 mila persone, estendendosi a perdita d’occhio, oggi è ridotto a una distesa di rifiuti e lamiere. Le colpe dei padri - Resta attiva solo l’area 6, quella che ospita le famiglie dei miliziani o simpatizzanti dell’Isis, come quella di Anja. Tornare al villaggio, per lei, non è un’opzione: “sono preoccupata che vogliano vendicarsi con loro per le colpe dei padri, ho paura che qualcuno possa uccidere i miei figli, non posso tornare lì, al mio villaggio non mi vogliono più”, dice nelle interviste raccolte nel report di Intersos, l’organizzazione umanitaria che da anni segue il destino degli sfollati interni iracheni. Nel 2019 il governo di Baghdad ha deciso di risolvere il problema degli sfollati interni - un milione e trecentomila persone di cui 182 mila nella regione semiautonoma curda - chiudendo 11 campi e riclassificandone due come siti informali. Decisione che, secondo le Nazioni Unite, ha colpito quasi trentamila persone. Così senza preavviso, i mukthar, i capi delle comunità, hanno informato gli sfollati di Tal Absta, di Mahalabiya e al Jaban che il giorno dopo avrebbero dovuto lasciare i campi profughi: “svuotate le tende - hanno detto loro - è arrivato il momento di tornare a casa”. Molte delle case però non c’erano più, distrutte dai combattimenti e mai ricostruite così come il sistema di infrastrutture, scuole e ospedali. Apparentemente non c’erano ostacoli fisici al loro rientro, ce n’era però uno più insidioso cioè il rifiuto delle comunità. Sono passati quattro anni da quando i miliziani dello Stato Islamico sono stati sconfitti militarmente, un milione di civili, per lo più sunniti, restano sfollati e le loro comunità di origine restano divise. Troppo vivo il risentimento delle vittime, troppo pesante l’onta che pesa sulle famiglie considerate vicine all’Isis, come quelle di Anja. Tessuto sociale distrutto - Le ferite della guerra sono ancora aperte, spiega Martina Amendola, Iraq programme coordinator di Intersos: “è ancora molto difficile ricomporre il tessuto sociale distrutto dalla guerra”. Intersos da anni offre sostegno alle donne e ai bambini che vivono nei campi per sfollati interni, con supporto legale e psicologico, sia nelle tendopoli sia durante il rientro nei propri villaggi. Oggi le organizzazioni umanitarie che operano in Iraq devono fare i conti con l’ostilità delle comunità che ritengono che il ritorno di chiunque sia stato sospettato di sostenerli possa portare alla rinascita del gruppo. “Il 90 per cento dei casi di cui ci occupiamo - continua Martina Amendola - riguarda donne e bambini i cui mariti e padri erano affiliati al gruppo, oggi le donne vengono stigmatizzate perché sono sole, i figli pagano il peso dello stigma e molti sono apolidi. Per loro è quasi impossibile ottenere dei documenti”. Sia le istituzioni irachene che quelle dello stato autonomo del Kurdistan da anni ostacolano l’accesso alla documentazione civile essenziale per lavorare, studiare, accedere ai benefici statali o più semplicemente attraversare i confini dei governatorati, perciò per queste donne e questi bambini non avere accesso ai documenti non significa solo non poter tornare a casa, ma non poter neppure immaginare di costruire un futuro, ripartire per esempio dall’istruzione. Il rientro “sicuro” - Quando decise la chiusura dei campi, nel 2019, il primo ministro Mustafa al Khadimi aveva annunciato che il rientro nelle comunità di origine dovesse essere “sicuro e volontario”. Ma entrambe le premesse sono state ignorate. Le autorità irachene, infatti, hanno imposto agli sfollati di firmare dei moduli, dei nulla osta precompilati che attestavano che la scelta fosse volontaria, ma le organizzazioni umanitarie che lavorano sul campo hanno definito la decisione di chiudere i campi frettolosa e pericolosa e le modalità intimidatorie. Lynn Maalouf, vicedirettore regionale di Amnesty International per il Medio Oriente e il Nord Africa ha dichiarato che “le autorità irachene e quelle curde dovrebbero affrontare la continua punizione collettiva degli sfollati interni sospettati di aver avuto una affiliazione con Isis come parte integrante di qualsiasi piano nazionale per la chiusura dei campi che - ha sottolineato - sono attualmente l’unica opzione per migliaia di persone. Affrontare queste ingiustizie è l’unico modo per garantire un ritorno dignitoso e non perpetuare le azioni che gettano i semi per futuri cicli di violenza”. Figli allo sbando - Anche Amina, come Anja, non può tornare a casa. È una sfollata della zona di Al Zab e vive nel campo di Al Jeddah da sei anni, e come le altre donne è vedova di un miliziano dell’Isis. I suoi parenti che hanno provato a tornare a casa sono stati arrestati perché denunciati dai vicini. È successo alle due mogli di suo fratello, all’anziana zia: “se tornassi a casa a me e ai miei figli toccherebbe la stessa sorte”, dice. I processi nei tribunali, nell’Iraq del dopoguerra, hanno lasciato il posto ai processi collettivi, al respingimento sociale. Processi in cui a contare, più delle prove, è il sospetto. E’ sufficiente che qualcuno presuma o supponga che un altro sia o sia stato simpatizzante dell’Isis, a far scattare la denuncia, a far aprire le porte del carcere. Nel dopoguerra, per i parenti dei miliziani dell’Isis, il dubbio è prova certa. Così Amina resta ad al-Jedda, almeno - dice - ogni tanto le associazioni portano acqua e cibo. I figli non studiano, nessuno di loro può lasciare il campo in sicurezza, ma almeno qualcuno pensa alla loro sussistenza. Perdita e stigma - Le storie delle donne di al-Jeddah si somigliano tutte, sono storie di affiliazione forzata e dolore. Perdita e stigma. E’ così per Ramia, che ha perso tutta la famiglia. E’ sopravvissuta solo lei e i suoi quattro figli, 13 anni, 11 anni, 8 e sei. Nessuno di loro ha un documento, per lo stato non esistono: “i miei figli non hanno futuro, sono banditi dalla società”. Vorrebbe tornare a casa, come tutti, ma sa che nelle comunità di origine, i figli dei vicini non li vogliono, i bambini sono stati educati a non voler stare con i figli dei miliziani e dei simpatizzanti dell’Isis e questo getta un’ombra sul futuro del paese. Sul ritorno alla convivenza con famiglie che ormai sono ostracizzate, private dei diritti fondamentali: donne sole e figli che stanno crescendo come una sottoclasse, dimenticati e rinnegati. Esposti al rischio dell’estremismo del futuro.