Ergastolo ostativo, la Corte costituzionale fa un altro rinvio di Andrea Fabozzi Il Manifesto, 9 novembre 2022 Da oltre un anno e mezzo l’illegittimità dell’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario è accertata dai giudici delle leggi. Ma tollerata per dare tempo al legislatore di intervenire. Adesso, scaduti tutti gli ultimatum, il decreto legge del governo Meloni è l’occasione per girare la palla alla Cassazione. E siamo a tre. Dopo aver accertato che l’ergastolo ostativo è incostituzionale, prevedendo però un primo rinvio nell’aprile del 2021 e un secondo nel maggio di quest’anno per dare tempo al legislatore di trovare “un punto di equilibrio” tra le esigenze della lotta alla mafia e il rispetto del principio della finalità rieducativa della pena e del divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, la Corte costituzionale ha deciso ancora una volta, ieri sera in camera di consiglio, di non decidere. La Corte ha colto al volo l’occasione offerta dal primo decreto legge del governo Meloni che - tra le altre cose - si è sostituito al parlamento per interpretare a suo modo le richieste dei giudici delle leggi, sostanzialmente confermando tutti i limiti per l’accesso ai benefici dei condannati all’ergastolo per reati gravi (mafia e terrorismo, ma non solo) che non collaborano con la giustizia. Anzi aggiungendone di nuovi. Il percorso legislativo ha preso così una strada evidentemente lontana da quella che la Corte costituzionale aveva voluto indicare - sia pure nella timidezza della decisione - ormai 20 mesi fa. Che è poi quella tracciata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo: non è legittimo e non corrisponde ai principi fondamentali prevedere la collaborazione come condizione tassativa per accedere ai benefici (come semilibertà, permessi premio, liberazione condizionale). Era stata la Corte di Cassazione (giugno 2020) a sollevare la questione di legittimità costituzionale sull’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario perché, appunto, esclude dall’accesso ai benefici gli ergastolani condannati per delitti gravi che non collaborano con la giustizia. E alla Corte di Cassazione dopo un tortuoso giro di anni - ma dopo aver accertato la “ragioni di incompatibilità con la Costituzione”, come da ordinanza del 2021 - la Corte costituzionale restituisce gli atti, chiedendo di verificare “gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate”. Normativa che, è bene ricordarlo, il governo ha introdotto per decreto, quindi in ragione di (presunte) cause di necessità e urgenza. In realtà l’ultimatum della Consulta al parlamento era durato un anno e mezzo (prorogato) e le vecchie camere erano riuscite soltanto ad approvare in prima lettura, a Montecitorio, una legge di riforma. Lo stesso testo che Meloni e il ministro Nordio hanno trasferito nel decreto legge, malgrado allora Fratelli d’Italia non lo avesse votato (passò con il sì di Pd, M5S, Lega e Fi). Quel testo, ha riassunto ieri una nota della Corte in attesa del deposito dell’ordinanza, trasforma in effetti “da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici”. Dunque anche gli ergastolani “ostativi” possono chiedere di essere ammessi ai benefici “sebbene - riconosce la Corte - in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni”. Tra le quali quella di escludere il pericolo che il condannato possa in futuro riallacciare i rapporti con l’organizzazione criminale. Una probatio diabolica, scrivono i giuristi. Impossibile. Ergastolo ostativo, la Consulta se ne lava le mani: atti in Cassazione di Valentina Stella Il Dubbio, 9 novembre 2022 La Corte Costituzionale decide ancora di non decidere. Sarà la Cassazione a valutare il decreto Meloni: “Le nuove disposizioni incidono direttamente sulle norme oggetto di giudizio”. Araniti: “È la morte del diritto alla speranza”. Chissà cosa avranno pensato gli ergastolani ostativi quando per l’ennesima volta hanno visto la Corte costituzionale non prendere una decisione di merito sul fine pena mai. Forse il loro pensiero non è mai entrato in gioco in questa partita, tranne che per il consigliere di Cassazione Giuseppe Santalucia, che sollevò ormai anni fa il dubbio di legittimità costituzionale, dicendo che il diritto alla speranza non andrebbe negato a nessuno. E incredibilmente ora la palla torna proprio a lui, perché la Consulta ha deciso di restituire gli atti a Piazza Cavour. “Dopo due rinvii disposti per concedere al legislatore il tempo necessario al fine di intervenire sulla materia (ordinanze n. 97 del 2021 e n. 122 del 2022), la Corte costituzionale ha nuovamente esaminato oggi (ieri, per chi legge, ndr), in camera di consiglio, le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di Cassazione, sulla disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo. Oggetto di scrutinio sono le disposizioni che non consentono al condannato all’ergastolo per delitti di contesto mafioso, che non abbia utilmente collaborato con la giustizia, di essere ammesso al beneficio della liberazione condizionale, pur dopo aver scontato la quota di pena prevista e pur risultando elementi sintomatici del suo ravvedimento”. In attesa del deposito dell’ordinanza, la Consulta ha fatto sapere di aver “deciso di restituire gli atti al giudice a quo, a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, che contiene, fra l’altro, misure urgenti nella materia in esame”. Il motivo? “Le nuove disposizioni - si legge in una nota della Corte - incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici e delle misure alternative a favore di tutti i condannati (anche all’ergastolo) per reati cosiddetti “ostativi”, che non hanno collaborato con la giustizia. Costoro sono ora ammessi a chiedere i benefici, sebbene in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo”. Pertanto gli atti vengono “restituiti alla Cassazione, cui spetta verificare gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate, nonché procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza”. Qual è lo scenario futuro? Tra due o tre mesi la Cassazione potrà esprimersi. In quel momento il decreto legge sarà stato convertito dal Parlamento e quindi Santalucia potrà esprimersi direttamente su quella legge definitiva. Lì ci sarà un bivio: per l’ermellino la legge di conversione, pur ponendo paletti stringenti, permette in teoria all’ergastolano ostativo non collaborante di poter richiedere l’accesso alla liberazione condizionale. Oppure il giudice risolleva il dubbio dinanzi alla Corte costituzionale che ne valuterà la conformità a Costituzione. L’avvocato Giovanna Araniti, legale di Salvatore Pezzino, in carcere dal 1984 e dal cui ricorso tutto è iniziato, così commenta: “Prendo atto della decisione della Consulta e mi auguro che la Corte di Cassazione valuti oculatamente, come ha già fatto, la nuova normativa e risollevi la questione dinanzi ai giudici costituzionali”. Per l’avvocato Michele Passione, assiduo frequentatore della Consulta, “in attesa di leggere l’ordinanza, dispiace che la Corte abbia deciso di restituire gli atti al giudice a quo e non attendere la conversione in legge del decreto del Governo. Sarebbe stata una decisione non soddisfacente rispetto alle richieste della parte privata ma certamente avrebbe evitato il gioco dell’oca che questa soluzione comporta. Vedremo cosa succederà, intanto tutti gli ergastolani che attendevano una risposta chiara ricominciano ora con una attesa infinita verso una nuova decisione”. Dunque la Corte ha accolto la richiesta dell’Avvocatura dello Stato rappresentata da Ettore Figliolia: “Credo che il legislatore governativo sia stato pedissequo con quanto richiesto dall’ordinanza della Consulta” con la sua ordinanza del 2021, aveva detto ieri mattina. Pertanto il nuovo decreto legge, secondo il legale, è da ritenersi “legittimo”. Secondo l’Avvocatura dello Stato c’erano dunque i presupposti per la remissione degli atti del procedimento alla Corte di Cassazione, che aveva sollevato la questione davanti alla Consulta. Quest’ultima ha accolto questa richiesta, senza però entrare formalmente nel merito del decreto legge. Si era espressa diversamente Araniti, che aveva chiesto alla Corte di dichiarare incostituzionale il decreto legge del Governo Meloni perché vigente. Esso rappresenta, aveva detto, la “morte del diritto alla speranza, spero invece che la Corte emetta una sentenza di illegittimità costituzionale che rappresenti il germoglio di un nuovo umanesimo. Il principio della riabilitazione della pena deve valere per tutti”. Aveva proseguito: “Ci troviamo dopo 18 mesi senza una legge approvata dal Parlamento ma con un decreto, proposto alle Camere come antidoto”. Ma quel decreto, a parere della legale, non ha “i presupposti per la decretazione d’urgenza”. Sulla decisione della Consulta i dirigenti di Nessuno tocchi Caino Rita Bernardini, Sergio d’Elia ed Elisabetta Zamparutti hanno dichiarato: “Una scelta pilatesca quella della Corte costituzionale, che aveva a suo tempo accertato la incostituzionalità dell’articolo 4bis ma non l’ha mai dichiarata. Sicuramente la Corte se ne è lavata le mani. Ci chiediamo dove sia finita la sua alta funzione, che è quella di valutare le leggi. La Corte ha fatto il passacarte: prima al Parlamento con ben due rinvii - il primo di un anno e il secondo, particolarmente grave, di altri sei mesi - e poi alla Cassazione a cui ha, come ha chiesto il Governo, restituito gli atti per una valutazione del decreto”. La Consulta rinvia la questione. L’ergastolo ostativo resta irrisolto di Giulia Merlo Il Domani, 9 novembre 2022 I giudici hanno restituito gli atti alla Cassazione, che dovrà riesaminare il caso alla luce del decreto legge e valutare se esiste ancora un dubbio di costituzionalità. In quel caso dovrà chiedere un nuovo intervento. La Corte costituzionale ha deciso di non prendere una decisione immediata sull’ergastolo ostativo. Nell’udienza di ieri e dopo due ore di camera di consiglio, la Consulta ha ritenuto di restituire gli atti alla Cassazione che a sua volta valuterà di nuovo se, alla luce della nuova disciplina introdotta con il decreto legge del governo Meloni, persistono ancora dubbi di costituzionalità. In quel caso, gli atti torneranno nuovamente a palazzo della Consulta. In questo modo i giudici hanno scelto la soluzione che alla vigilia era considerata la più probabile, proprio alla luce di un caso così peculiare: una prima dichiarazione di incostituzionalità della norma, il doppio rinvio della sentenza per lasciare il tempo al legislatore di legiferare e il mancato adempimento del parlamento, poi sanato con un decreto legge. La soluzione inusuale del decreto legge su materia così delicata potrebbe essere stato un ulteriore elemento che ha fatto optare i giudici per la prudenza. Una decisione nel merito, infatti, avrebbe dovuto considerare la nuova norma per come approvata il 31 ottobre scorso, che però non è ancora consolidata visto che il decreto verrà convertito entro 60 giorni e il testo potrebbe anche cambiare. La motivazione - La decisione della Corte è stata motivata con una nota - in attesa del deposito dell’ordinanza - in cui si legge che “le nuove disposizioni incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici e delle misure alternative a favore di tutti i condannati (anche all’ergastolo) per reati cosiddetti “ostativi”, che non hanno collaborato con la giustizia”, ovvero quelli in carcere per reati di mafia, terrorismo e associazione per delinquere per i quali non è altrimenti possibile accedere ai benefici penitenziari. La Corte, infatti, rileva che il decreto legge ammette i detenuti “ostativi”,”sebbene in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo”. Per questa ragione, la Corte ha ritenuto che spetti alla Cassazione, che è il giudice di grado ordinario che ha sollevato la questione di costituzionalità, “verificare gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate, nonché procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza”. Se la valutazione sarà che ci siano ancora profili di incostituzionalità, la Corte costituzionale potrà venire di nuovo investita della questione, “trasferita” però sul nuovo decreto legge che nel frattempo sarà stato convertito e quindi potenzialmente anche sottoposto a modifiche. In altre parole, la Cassazione dovrà rivalutare il caso da cui si è originata la questione: la vicenda giudiziaria dell’ergastolano Salvatore Francesco Pezzino, condannato per mafia e omicidio, a cui era stata negata la liberazione condizionale perché non era diventato un collaboratore di giustizia. Come ha ricordato la Consulta, i giudici di piazza Cavour dovranno valutare se le nuove condizioni per accedere ai benefici penitenziari fissate dal decreto legge siano accettabili e quindi facciano venire meno l’ipotesi di incostituzionalità. La dottrina - In attesa del giudizio della Cassazione, tuttavia, una parte della dottrina si è già espressa ritenendo che le nuove condizioni siano nei fatti impossibili e che si passerà da una presunzione assoluta di pericolosità a una prova impossibile di cessata pericolosità. Il decreto legge, infatti, richiede - oltre a un tempo più lungo, da 26 si passa a 30 anni, prima di poter presentare la richiesta - anche la dimostrazione concreta che il detenuto abbia reciso qualsiasi legame con il mondo criminale, il risarcimento delle vittime e un vaglio specifico dei giudici del riesame. Condizioni che la Consulta definisce “nuove, stringenti e concomitanti, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo”. Per questa ragione, in sede d’udienza, l’avvocata Giovanna Beatrice Araniti che rappresenta Pezzino ha detto che “la funzione rieducativa della pena deve valere per tutti i detenuti. Questo decreto legge sancisce la morte del diritto alla speranza” e aveva chiesto ai giudici di emettere “una sentenza di illegittimità costituzionale che rappresenti il germoglio di un nuovo umanesimo. Il principio della funzione riabilitativa della pena deve valere per tutto”. Tradotto: di trasferire la questione di costituzionalità sul decreto legge e di dichiararlo incostituzionale, perchè nei fatti non muta i termini della questione. Questo tipo di procedura, pur possibile nella giurisprudenza della Corte, è tuttavia molto raro e riservato ai casi in cui le due leggi si presentino identiche. Nel caso in esame, invece, il decreto legge comunque muta le previsioni dell’articolo 4bis dell’ordinamento penitenziario. Inoltre, permane il cavillo della provvisorietà del decreto legge. In udienza l’avvocatura dello Stato, rappresentata da Ettore Figliolia, ha invece definito “legittime” le nuove norme contenute nel decreto, anche se ha definito il legislatore governativo “pedissequo rispetto a ciò che ha stabilito la Corte costituzionale con la sua ordinanza del 2021”. Per questo, la richiesta formulata è stata poi quella accolta dai giudici: restituire gli atti del procedimento alla Cassazione. Figliolia, tuttavia, ha auspicato che “la Corte proceda ad una rivalutazione complessiva del testo del decreto legge”. Con questa decisione, i giudici hanno evitato conflitti col governo e hanno scelto la strada sicura di restituire gli atti. Tuttavia, con tutta probabilità la questione tornerà sugli scranni di palazzo della Consulta, che però in questo modo avrà pieno titolo per entrare ancora una volta nel merito della questione e direttamente sul testo di legge convertito dal parlamento. L’ergastolo ostativo è incostituzionale, ma nessuno ha il coraggio di cancellarlo di Tiziana Maiolo Il Riformista, 9 novembre 2022 Il fine pena mai ostativo è incostituzionale, ma nessuno ha il coraggio di cancellarlo. La Consulta non chiude la questione, perché il governo ha fatto una finta riforma con un decreto che per gli ergastolani equivale a campane suonate a morte. E loro che avevano osato sperare. L’ergastolo ostativo è incostituzionale, ma nessuno ha il coraggio di abrogare la norma voluta trent’anni fa da un governo e un Parlamento sconvolti per le stragi di mafia e incapaci di combatterla senza distruggere lo Stato di diritto. E ancora oggi la Corte Costituzionale che, investita dalla prima sezione della cassazione, ne aveva stabilito con ordinanza l’illegittimità, rimbalzando poi però per due volte la palla al Parlamento, non ha il coraggio di mettere i puntini sulle i e chiudere l’argomento. E anche le ostatività. L’avevamo detto e scritto fin da allora, oltre un anno fa, che ci sarebbe voluto un po’ di sangue nelle vene e di spina dorsale diritta per dare una svolta alla storia e imporre l’applicazione dei principi costituzionali. Quel coraggio è mancato alla Consulta di allora, quella presieduta da Giuliano Amato, il quale da fine politico che è sempre stato (è lui il vero e unico “dottor sottile”) avrebbe dovuto sapere che quel Parlamento, quello a maggioranza grillina, non avrebbe prodotto niente di buono. Non poteva prevedere che, con la caduta del governo Draghi, il nuovo Parlamento e la nuova maggioranza di centrodestra avrebbero fatto di peggio. Un decreto legge che equivale a campane suonate a morto per duemila detenuti che un anno fa avevano osato sperare che in Italia non ci fosse più la pena di morte. Ieri ha Corte ha riconsegnato le carte a quella sezione della cassazione da cui tutto era partito. E ora si ricomincia da capo, nell’attesa che il Parlamento converta il decreto in legge dello Stato e poi qualcuno riproponga la questione di legittimità costituzionale. E intanto? Intanto vige la pena di morte sociale, peggio di prima. Perché d’ora in avanti la logica sarà che tu ergastolano mi dai la mano e io ti chiedo il braccio, poi il corpo intero, e infine voglio la tua anima. Perché tu sei mio e non ti lascio andare. È questo lo spirito della finta riforma dell’ergastolo ostativo. Rispetto alla quale era più pulita, più onesta, la formulazione incostituzionale. Quella che divideva gli ergastolani tra buoni e cattivi in modo automatico: di qua i “pentiti”, coloro che vendevano amici a parenti in cambio di privilegi per sé, di là gli altri. Tutti coloro che non volevano o non potevano collaborare e trasformarsi in “traditori”, per i più svariati motivi, tra cui quelli della collaborazione impossibile o inesigibile. Ipotesi tra l’altro scomparsa nel decreto del governo Meloni. La mannaia cui deve sottoporsi l’illuso per poter chiedere al giudice di accedere alla liberazione condizionale presenta da subito il conto con l’inversione dell’onere della prova. Spetta all’ergastolano dimostrare di non essere più un mafioso. Ma anche molto altro. Intanto, di anni dal momento della sentenza definitiva ne devono essere passati trenta, e non più i ventisei attuali. Inoltre, nel caso recondito in cui la richiesta venga accolta, dureranno dieci anni e non più cinque i tempi della libertà vigilata. L’ipotesi è comunque, con il testo approvato dalla Camera e gli aggravamenti previsti dal decreto, del tutto irrealizzabile. Chi ha scritto la nuova normativa lo sa benissimo. La base degli elementi che il detenuto deve dimostrare, è il suo distacco dalla criminalità organizzata. Ma non sarà più sufficiente il ravvedimento e neanche il percorso educativo e di trasformazione accertato dagli operatori del carcere e dal giudice di sorveglianza, che tra l’altro non sarà più un singolo ma l’intero tribunale. Occorrerà portare elementi concreti e attuali che escludano il presente ma anche il futuro, cioè “il pericolo di ripristino” di questi collegamenti, anche “indiretti o tramite terzi”. Come si fa a dimostrare l’inesistenza di un pericolo? Soprattutto se addirittura indiretto? Poi, come se già questo primo elemento non contenesse in sé una grande precarietà e vastissime possibilità interpretative, occorrerà motivare la propria assenza di collaborazione. Come in un confessionale di tipo talebano: quante volte hai peccato, figliuolo? Perché non ti sei pentito? Ed è chiaro che qualunque risposta, dalla dichiarazione di innocenza fino al timore per l’incolumità dei propri cari o l’impossibilità a raccontare quel che non si sa o quel che i magistrati già conoscono, sarà guardata con sospetto. Anche perché ai giudici di sorveglianza è imposto l’obbligo, prima di prendere una decisione, di consultare il pubblico ministero del tribunale che ha emesso la prima condanna, oltre che la procura nazionale antimafia. E già immaginiamo le loro risposte. È poi necessario dimostrare di aver adempiuto agli obblighi civili conseguenza della condanna o giustificare l’impossibilità ad adempierli. Penserà poi la guardia di finanza, che potrà svolgere accertamenti patrimoniali sull’ergastolano e sui suoi familiari, a verificare se per esempio non esiste la possibilità del risarcimento del danno. Tutte queste dimostrazioni, tutte queste “prove comporteranno tempi, burocrazie, e sostanzialmente l’impossibilità a raggiungere il traguardo. Che è poi l’intento vero di chi ha scritto e votato la norma. Con la decisione di ieri della Consulta, avallata nei fatti anche sul piano formale. Ergastolo, la Consulta fa Pilato: c’è il decreto, ora fate un po’ voi di Angela Stella IL Riformista, 9 novembre 2022 Accolta la richiesta dell’Avvocatura dello Stato alla luce del Dl varato dal governo Meloni. Adesso si aprono due strade: o la Cassazione valuta che la nuova norma, pur stringente, consente agli ostativi di accedere ai benefici, o risolleva il dubbio di costituzionalità. Alla fine il cerchio forse si chiuderà laddove tutto è iniziato, ossia in Cassazione. Eh già, perché dopo 18 mesi dalla prima pronuncia sull’ergastolo ostativo la Corte Costituzionale ieri ha rinviato tutto a piazza Cavour, o meglio al Consigliere Giuseppe Santalucia, che sollevò anni fa il dubbio di legittimità costituzionale. “Dopo due rinvii disposti per concedere al legislatore il tempo necessario al fine di intervenire sulla materia (ordinanze n. 97 del 2021 e n. 122 del 2022), la Corte costituzionale ha nuovamente esaminato oggi (ieri, per chi legge, ndr.), in camera di consiglio, le questioni di legittimità costituzionale, sollevate dalla Corte di Cassazione, sulla disciplina del cosiddetto ergastolo ostativo. Oggetto di scrutinio sono le disposizioni che non consentono al condannato all’ergastolo per delitti di contesto mafioso, che non abbia utilmente collaborato con la giustizia, di essere ammesso al beneficio della liberazione condizionale, pur dopo aver scontato la quota di pena prevista e pur risultando elementi sintomatici del suo ravvedimento”. In attesa del deposito dell’ordinanza la Consulta ha fatto sapere di aver “deciso di restituire gli atti al giudice a quo, a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge 31 ottobre 2022, n. 162, che contiene, fra l’altro, misure urgenti nella materia in esame”. Il motivo? Il decreto legge del Governo Meloni varato lo scorso 31 ottobre è vigente, seppur attende di essere convertito entro 60 giorni dal parlamento. “Le nuove disposizioni - si legge in una nota della Corte - incidono immediatamente e direttamente sulle norme oggetto del giudizio di legittimità costituzionale, trasformando da assoluta in relativa la presunzione di pericolosità che impedisce la concessione dei benefici e delle misure alternative a favore di tutti i condannati (anche all’ergastolo) per reati cosiddetti “ostativi”, che non hanno collaborato con la giustizia. Costoro sono ora ammessi a chiedere i benefici, sebbene in presenza di nuove, stringenti e concomitanti condizioni, diversificate a seconda dei reati che vengono in rilievo”. Pertanto gli atti vengono “restituiti alla Cassazione, cui spetta verificare gli effetti della normativa sopravvenuta sulla rilevanza delle questioni sollevate, nonché procedere a una nuova valutazione della loro non manifesta infondatezza”. Ora che succede? Passeranno tra i due o tre mesi prima che la Cassazione possa esprimersi. In quel momento ci sarà anche la legge di conversione dell’attuale decreto legge e quindi Santalucia potrà esprimersi direttamente su quella. Lì si aprono due strade: per l’ermellino la legge di conversione pur ponendo paletti stringenti permette in teoria all’ergastolano ostativo non collaborante di poter richiedere l’accesso alla liberazione condizionale. Oppure risolleva il dubbio dinanzi alla Corte Costituzionale che (finalmente) ne valuterà la conformità a Costituzione. L’avvocato Giovanna Araniti, legale di Salvatore Pezzino, in carcere dal 1984 e dal cui ricorso tutto è iniziato, così commenta: “prendo atto della decisione della Consulta e mi auguro che la Corte di Cassazione valuti oculatamente, come ha già fatto, la nuova normativa e risollevi la questione dinanzi ai giudici costituzionali”. Abbiamo raccolto anche il parere dell’avvocato e professore ordinario di Diritto penale all’Università di Bologna, Vittorio Manes: “mi pare una decisione del tutto comprensibile dal punto di vista procedurale. L’auspicio è che la Corte di Cassazione conduca lo scrutinio della nuova norma con l’ennesimo rigore con il quale ha sollevato in precedenza la questione di legittimità costituzionale”. Ieri mattina la causa relativa all’ergastolo ostativo era stata la prima ad essere discussa. Relatore: il vice presidente Nicolò Zanon. Araniti aveva chiesto alla Corte di dichiarare incostituzionale il decreto legge del Governo Meloni perché vigente. Esso rappresenta, aveva detto, la “morte del diritto alla speranza, spero invece che la Corte emetta una sentenza di illegittimità costituzionale che rappresenti il germoglio di un nuovo umanesimo. Il principio della riabilitazione della pena deve valere per tutti”. Aveva proseguito: “Ci troviamo dopo 18 mesi senza una legge approvata dal parlamento ma con un decreto, proposto alle Camere come antidoto”. Ma quel decreto, a parere della legale, non ha “i presupposti per la decretazione d’urgenza”. Inoltre alla luce del nuovo testo, “credo -aveva concluso - che la questione sollevata dalla Corte di Cassazione rimanga”. Di parere diverso l’avvocato dello Stato Ettore Figliolia: “credo che il legislatore governativo sia stato pedissequo con quanto richiesto dall’ordinanza della Consulta” con la sua ordinanza del 2021. Pertanto il nuovo decreto legge, secondo il legale, è da ritenersi “legittimo”. Secondo l’avvocatura dello Stato c’erano dunque i presupposti per la remissione degli atti del procedimento alla Corte di Cassazione, che aveva sollevato la questione davanti alla Consulta. La Consulta ha accolto questa richiesta, senza però entrare formalmente nel merito del decreto legge. Durante la discussione della causa, ad un certo punto il giudice Zanon aveva interrotto l’avvocato Araniti chiedendole: “Cosa ci sta chiedendo? Di estendere o di sollevare dinanzi a noi la questione?”. Quindi durante il giorno era parso possibile pure che la Corte potesse impugnare davanti a sé il nuovo decreto. E invece ha preso la strada più forse semplice, buttando la palla in un altro campo, costretta dal fatto che il decreto legge è vigente. Sicuramente non avrebbe potuto esprimersi sulla legittimità costituzionale del dl perché a breve potrebbe essere modificato in sede di conversione. Ma avrebbe potuto aspettare la legge di conversione e giudicare quella in base ai principi costituzionali. In fondo questi ultimi diciotto mesi sono stati un po’ bizzarri: una norma ritenuta incostituzionale ma non dichiarata tale in maniera definitiva, un Parlamento inetto, e una Corte troppo benevola con la politica e poco sensibile invece verso tutti quegli ergastolani a cui giorno dopo giorno viene sempre più a mancare quel diritto alla speranza. Anche il pm Woodcock stronca il 4 bis: “È una tortura. Si pretende la delazione” di Simona Musco Il Dubbio, 9 novembre 2022 Ergastolo ostativo uguale tortura. A ribadirlo, in una lettera inviata al Fatto Quotidiano, è il magistrato napoletano Henry John Woodcock, che smonta la bufala del “fuori tutti i mafiosi” che ha tenuto banco nella discussione sull’articolo 4 bis dopo la pronuncia della Corte costituzionale di oltre un anno fa. Una bufala che si basa su alcune convinzioni: che la collaborazione con la giustizia sia l’unica prova di una recisione dei legami con il contesto criminale d’appartenenza da parte di detenuti che hanno passato in carcere 26 anni della loro vita (termine che sale a 30 anni con il decreto legge licenziato dal governo Meloni) e che pensare una disciplina diversa, rispettosa della Costituzione, equivalga a infangare la memoria di Giovanni Falcone, tirato in ballo ogni volta che c’è da affrontare l’argomento per far sentire dalla parte sbagliata chi solleva qualche dubbio. Woodcock - che di certo non può essere accusato di essere “amico dei mafiosi”, come spesso viene tacciato chi osa criticare l’ergastolo ostativo - mette in fila gli argomenti criticando anche la pronuncia della Consulta. Non solo per la decisione di rinviare al legislatore la scelta su come adeguarsi alla cornice costituzionale violata da tale norma, ma anche per il suggerimento fornito allo stesso, che, di fatto, rende quasi impossibile poter ottenere i benefici previsti dalla legge. Il punto di partenza è che la collaborazione con la giustizia, lungi dall’essere un percorso di vera rivisitazione critica delle proprie scelte, finisce con il diventare un’opzione, una scelta di comodo, insomma, per dirla con Woodcock, una “‘ scelta’ imposta”. Una volta scardinato l’automatismo che prevedeva la concessione di benefici solo in caso di collaborazione e ribadito “il fondamentale principio della polifunzionalità della pena e in particolare la funzione rieducativa della pena stessa”, la Corte costituzionale ha “suggerito” al legislatore delle opzioni, tra le quali ancorare l’autorizzazione all’accesso ai benefici all’accertamento di “specifiche ragioni della mancata collaborazione”. Ed è qui che il magistrato napoletano cita Falcone, tentando di smentire chi attribuisce a lui quell’automatismo e quella inflessibilità bocciati dalla Corte: “Invero afferma - ho solo avuto, per ragioni anagrafiche, la possibilità di ascoltare e di leggere nei media alcuni interventi di Giovanni Falcone, acuto e tenace investigatore, unico e “moderno”, e mi è parso in tutta franchezza culturalmente e ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita in questi giorni di leggere sui giornali”. L’idea di fondo, stando alla discussione interna alla politica e parte dell’opinione pubblica, è infatti che la pronuncia della Consulta renda meno efficace il contrasto alle mafie, tradendo, in qualche modo, l’insegnamento di chi, come il magistrato siciliano, ha pagato con la propria vita la lotta alla criminalità organizzata. Ma fu proprio Falcone - come più volte ricordato da Damiano Aliprandi dalle colonne di questo giornale - il primo ad essere consapevole che l’ergastolo senza condizionale sarebbe stato incostituzionale: con il primo decreto legge del 13 maggio 1991, il numero 152, Falcone, all’epoca direttore generale degli Affari penali del ministero di Grazia e Giustizia, non aveva infatti escluso la possibilità dei benefici in assenza di collaborazione, bensì aveva allungato i termini per ottenerla. E fu solo dopo la sua morte, dunque, che venne introdotto quell’automatismo oggi considerato incostituzionale dal giudice della legge. Un discorso che Woodcock, contrariamente ad altri, sembra ricordare bene, nonostante la “durezza” sempre dimostrata dalla toga - spesso criticata anche da questo quotidiano - nella gestione delle sue inchieste. Ma il pm napoletano va oltre, parlando non di collaborazione, bensì di “delazione” : l’ergastolo ostativo, afferma, in realtà “vuole punire chi non “si pente”“ o, peggio ancora, rappresenta “una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione” e ciò perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato, e di conseguenza a un autentico ravvedimento con la conseguente decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità della tortura”. Pensare che la discussione possa esaurirsi attorno alla conta dei mafiosi che possono uscire dal carcere è una visione semplicistica, secondo Woodcock, in quanto la vera questione è stabilire se la collaborazione sia l’unico modo per accedere ai benefici, in tal modo stabilendo “una coincidenza esclusiva e una assoluta sovrapponibilità tra il percorso “rieducativo” cui fa riferimento l’articolo 27 della Costituzione e la delazione”. Un binomio “aberrante” e in contrasto con la Carta, “che va applicata sempre e comunque e non una volta sì e una volta no”, ricorda ai teorici della “Costituzione più bella del mondo” a giorni alterni. Cosa valorizzare, dunque, per superare il contrasto? La risposta del magistrato è semplice: il tempo trascorso in espiazione della pena. “Il trascorrere del tempo modifica qualsiasi cosa - sottolinea -; in oltre un quarto di secolo tutto cambia (o comunque non può a priori escludersi che tutto cambi), dalla natura e dal vissuto del condannato, fino alle dinamiche e agli equilibri criminali”. Certo, al tempo che passa occorre che si associ anche un percorso di ravvedimento e di autentica dissociazione dal contesto criminale di origine, “ma un tale percorso non ha nulla a che vedere con la “delazione” che spesso, si diceva, è sintomatica di tutto, tranne che di un autentico ravvedimento”. Basti pensare, su tutti, al caso del falso pentito Vincenzo Scarantino, che ha fatto arrestare e condannare moltio innocenti, accusati di aver eseguito la strage di via D’Amelio. Ma l’idea di Woodcock non piace a Marco Travaglio, la cui replica è piccatissima: “Solo i criminali chiamano “delazione” il dire la verità”. Sempre che di verità si tratti. Troppi morti dietro le sbarre di Annalisa Grandi La Ragione, 9 novembre 2022 Un morto ogni quattro giorni, 74 suicidi in 10 mesi: è il dato peggiore dal 2009 sulla situazione delle carceri italiane. Un argomento delicato ma non per questo da ignorare. Un morto ogni quattro giorni. Settantaquattro suicidi in dieci mesi: è il dato che fotografa la situazione nelle carceri italiane. L’Associazione Antigone, che si occupa dei diritti dei detenuti, sottolinea come i numeri siano allarmanti: è il dato peggiore dal 2009, quando a fine anno si contarono 72 suicidi nei penitenziari. Allora però i detenuti erano 7mila in più. Ora, al di là delle singole storie, vale la pena sottolineare come l’età media di chi si toglie la vita in carcere sia di 37 anni, inoltre il 40% dei casi è di origine straniera. A incidere - secondo i dati che pur restano difficili da reperire in modo esaustivo - anche il disagio psichico, diagnosticato o in fase di diagnosi. Ed è chiaro che gestire chi soffre di disturbi di questo genere è difficile già fuori, figuriamoci tra le mura di un istituto penitenziario. Come sottolineato proprio dall’Associazione Antigone, il sistema carcerario non dispone di un numero sufficiente di figure professionalmente preparate per gestire questo tipo di detenuti: con il risultato che circa il 40% di chi sta in carcere fa un uso sistematico di psicofarmaci. Eppure mancano anche i posti nelle Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza che dovrebbero sostituire gli ormai chiusi ospedali psichiatrici. A colpire però è anche il fatto che la stragrande maggioranza dei suicidi si registra fra persone che si trovavano in carcere da pochi giorni o addirittura da poche ore. Detenuti in attesa di giudizio o, nei casi di condanne più gravi, con pene residue di meno di due anni. Persone che avevano appena perso la libertà o che stavano per ritrovarla. Un elemento che sicuramente colpisce: verrebbe più facile immaginare che a decidere di togliersi la vita siano persone che non vedono davanti a sé alcuna prospettiva di reinserimento nella società e invece non è così. Resta il fatto che il tasso di suicidi fra detenuti è sedici volte superiore a quello che si registra nel resto della società. L’argomento è delicato, anche perché monitorare quello che accade nei vari istituti di pena è tutt’altro che semplice. Senza voler demonizzare il sistema intero: le carceri italiane non sono certo quelle americane. I numeri però restano e con quelli bisogna fare i conti. E ci sono anche vicende che inevitabilmente colpiscono: come quella del 36enne che si è impiccato nel carcere di Torino dove era in attesa dell’udienza di convalida dell’arresto per aver rubato un paio di cuffiette Bluetooth in un centro commerciale. E a Milano il sindaco Sala, dopo essere entrato a San Vittore, ha definito le condizioni in cui vivono i detenuti “inaccettabili”. Il tema delle carceri è naturalmente delicato, ma affrontarlo invece di far finta che non esista è un importante segno di civiltà. “Suicidi in carcere, più attenzione alla persona e prospettive di futuro” di Giovanna Pasqualin Traversa agensir.it, 9 novembre 2022 Daniela de Robert, componente del collegio del Garante dei diritti dei detenuti: “Il carcere è la parte ferita e sfigurata del nostro corpo sociale, ma appartiene a tutti noi”. Una strage silenziosa: dall’inizio dell’anno sono 74 i suicidi in carcere. L’ultimo il 7 novembre, a Udine; il penultimo a Termini Imerese. “Continueranno ad aumentare”, dice Daniela de Robert, componente del Collegio del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale. Tra i momenti più delicati l’ingresso e l’uscita dal carcere. E poi quella che viene definita la “detenzione sociale”. L’esperta non ha dubbi: “C’è bisogno di più attenzione alle persone. Il carcere è la parte ferita e sfigurata del nostro corpo sociale, ma appartiene a tutti noi”. Nei giorni scorsi il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha visitato gli istituti di Regina Coeli e Poggioreale, scelti come simboli dell’emergenza affermando di voler così dare “un segnale di attenzione” e di voler “migliorare le condizioni di vita di tutta l’amministrazione penitenziaria e dei detenuti”. Dottoressa de Robert, come si spiega il numero impressionante dei suicidi? Da sempre il mondo del carcere è caratterizzato da grande sofferenza e da un tasso di suicidi più alto che non nel mondo libero, ma nell’ultimo anno si è registrato un notevole incremento. Non è semplice individuarne le cause, ma esistono situazioni a rischio come il momento dell’ingresso o dell’uscita. Nel primo caso l’impatto con una realtà dura, reso ancora più aspro dalla fase iniziale di isolamento precauzionale richiesta dal Covid per evitare il rischio di positività e quindi di diffusione dell’infezione, si accompagna con l’idea di entrare in un mondo abbandonato da tutti, un buco nero nel quale si viene inghiottiti. Ma un elevato numero di suicidi si registra anche a ridosso della scarcerazione, quando si arriva al fine pena con scarse prospettive di futuro e il timore di non essere riaccolti nella società. Chi sta per uscire teme di trovarsi di fronte il vuoto? Sì. Se il carcere non prepara a rientrare nella società diversi da come vi si è entrati e attrezzati per affrontare la vita fuori, ha tradito la sua funzione. Ma anche la realtà “fuori” deve cambiare. Se si apre il portone blindato ma rimane chiusa a tutti i livelli la porta della società, chi esce dal carcere non trova una casa, un lavoro, una relazione e vede spalancarsi davanti a sé una fossa. Un gesto estremo come il suicidio è difficilmente sondabile, ma è innegabile questo senso di vuoto nel quale si ha paura di sprofondare. Del resto, fin dall’ingresso in carcere si avverte la sensazione di essere espulsi dalla collettività. La società civile appare infatti lontana e poco interessata a quanto avviene negli istituti di pena… Il carcere non è un qualcosa di avulso dal corpo sociale, gli appartiene, ma oggi sconta indifferenza e muri invisibili. Eppure, senza il coraggio di guardarsi allo specchio includendo anche questa sua parte ferita e sfigurata, la società resterà monca e incapace di autocomprensione. Si può tracciare un identikit dei detenuti più vulnerabili? In carcere finiscono molte persone senza dimora e socialmente fragili; fragilità che dovrebbe essere intercettata sul territorio prima che intervenga il diritto penale, misura molto dura - tra l’altro anche molto costosa - che dovrebbe intervenire solo laddove altre strade abbiano fallito. La cosiddetta “detenzione sociale” è un segnale dell’assenza del “fuori”, di altre istituzioni e realtà che dovrebbero intercettare le fragilità, sostenerle e affiancarle. Quando questo disagio si trasforma in reato più o meno grave - e penso al suicida che aveva rubato le cuffiette per il telefonino qualche giorno fa - è chiaro che il carcere non potrà che portare all’estremo questa condizione. Le misure alternative potrebbero essere uno strumento di prevenzione? Sì, ma tenga presente che pur avendo una condanna inferiore ad un anno, dunque per reati non di grande allarme sociale e che prevedono la possibilità di scontare la pena in misure alternative, circa 2000 persone finiscono in carcere perché dispongono solo di una difesa d’ufficio poco effettiva e non hanno una rete che offra garanzie al magistrato, ad esempio una casa dove stare. Chi sta scontando una pena avverte uno stigma che gli rimarrà a vita e purtroppo il Covid ha svuotato gli istituti della presenza importantissima di volontariato, cooperative, associazioni, enti locali. Un’attività interrotta, che fatica a riprendere ma molto preziosa perché dove si offrono opportunità il clima cambia. Lo scorso 7 agosto il Dap ha annunciato nuove linee guida per rafforzare l’attività di prevenzione suicidi anche attraverso una task force multidisciplinare con il compito di monitorare situazioni a rischio e cogliere campanelli d’allarme… Sono entrati mediatori culturali, stanno arrivando altri funzionari giuridico-pedagogici. Di fronte al diffuso disagio psicosociale e comportamentale c’è un grande bisogno di psicologi. Se mancano queste risorse aumentano disagio, rabbia e rischio suicidario. La vera prevenzione richiede attenzione alla persona e offerta di opportunità e prospettive di futuro: oltre alla scuola anche teatro, artigianato, attività lavorative, ma non solo pulizie o distribuzione del vitto. Occorre far entrare imprese e altre forze esterne nell’ottica dell’appartenenza di cui parlavo prima: quel pezzo di città rinchiuso tra le mura di cinta è un pezzo del mio territorio come l’ospedale o la Rsa, e come tale mi interessa. Il Papa, nel suo ultimo incontro pubblico in Barhein, ha esortato a prendersi cura dei detenuti perché “da come si trattano gli ultimi si misura la dignità e la speranza di una società”… In questo modo Francesco dice: “Voi non siete altro da me; siete lì perché avete commesso degli errori”. Ma l’uomo non è solo il suo errore e qui entra in gioco il tema della responsabilità: i detenuti devono essere accompagnati in un percorso di responsabilizzazione a guardare in faccia la colpa commessa; un passaggio importante per un ritorno positivo nella società, altrimenti il rischio è che finiscano soltanto per sentirsi “vittime” della durezza del regime carcerario. In questi giorni vengono riportati dalla cronaca anche episodi di aggressione degli agenti di custodia… Il corpo di polizia penitenziaria si trova in prima linea, talvolta privo di strumenti per affrontare situazioni complesse che richiedono interventi multidisciplinari. Occorre certamente maggiore collaborazione tra amministrazioni penitenziaria e sanitaria, ma è necessario lavorare dentro e fuori dal carcere per costruire e tutelare una cultura del rispetto dei diritti di tutte le parti nella consapevolezza che il carcere appartiene a tutti e i suoi abitanti, pur con i loro errori, sono parte della nostra collettività. Suicidi in carcere. L’ispettore generale di cappellani Grimaldi: “Serve attenzione ai più fragili” di Gigliola Alfaro agensit.it, 9 novembre 2022 Il 2022 è un anno nero per l’alto numero dei suicidi negli istituti penitenziari nei primi dieci mesi. Le cause possono essere diverse: solitudine, fragilità già esistenti e nuove, sovraffollamento, poco personale, ma di certo, osservano l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane e il portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, occorre più accompagnamento e ascolto di chi ha compiuto un errore, ma resta un essere umano con le sue debolezze e le sue paure Settantaquattro suicidi in carcere in dieci mesi. È il record negativo che abbiamo toccato nel 2022, superando il precedente primato drammatico di settantadue nell’intero 2009. A riportare i dati al 1° novembre 2022 è stata l’associazione Antigone, che si occupa dei diritti dei detenuti. Quali sono le cause di questo record negativo? Ne parliamo con don Raffaele Grimaldi, ispettore generale dei cappellani nelle carceri italiane, e Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, con molti anni di esperienza di volontario a Poggioreale. “Noi cappellani, insieme a suore, religiosi e volontari, costituiamo una bella squadra di Chiesa che entra nel carcere per andare incontro alle molteplici necessità. Quando si parla di suicidi in carcere, quindi di persone fragili che compiono quel drammatico gesto, quello che possiamo fare è offrire un sostegno morale, un’attenzione, cercando di donare speranza, avviare un dialogo, consegnando il coraggio della fede: questo siamo chiamati a fare”. A raccontare l’impegno dei cappellani nelle carceri è l’ispettore generale, don Raffaele Grimaldi. “Certamente - aggiunge - chi fa un cammino di fede, un percorso spirituale, anche se ha problemi psichici, affronta il suo essere ristretto in modo diverso, come capita, d’altra parte, anche nel mondo esterno: quando siamo toccati dalla croce, dalla malattia, la fede ci aiuta ad affrontare i momenti più difficili causati da una malattia o da una sofferenza morale. La fede è un toccasana. I cappellani rappresentano la Chiesa che entra in carcere ed hanno il compito dell’accompagnamento per non far sentire i detenuti abbandonati, come fratelli, amici, che li sostengono nei loro momenti di dolore. Annunciamo il Vangelo nelle nostre carceri, portiamo la voce della Chiesa, anche a nome dei nostri vescovi. Senza dimenticare Papa Francesco che sempre ha un’attenzione verso i detenuti. Questo accompagnamento, l’ascolto, l’attenzione aiuta i detenuti ad affrontare i momenti difficili, mentre proprio il senso di abbandono, la lontananza dalle famiglie può essere la miccia per una scelta tragica come il suicidio”. L’impegno dei cappellani, spiega don Grimaldi, però, non si limita a questo: “All’interno degli istituti molti cappellani sollecitano le direzioni, l’educativa ad essere accanto ai più fragili presenti nelle nostre carceri. Il ruolo del cappellano è di sostegno morale, di incoraggiamento, ma è anche una voce critica, una voce profetica all’interno dei nostri istituti, anche se tante volte questa voce critica e profetica viene colta come un atteggiamento di sfida davanti a quello che non va nelle nostre carceri”. “Il nuovo ministro della Giustizia, Carlo Nordio, ha detto di voler dare priorità alle carceri: questo ci fa enormemente piacere - ammette il sacerdote -, perché è un luogo che ha bisogno di grande attenzione. Quando parla di lavoro e sport, effettivamente sono delle attività che aiutano il detenuto a non sentirsi chiuso in se stesso e a uscire fuori dalle sue realtà personali di abbandono, di sofferenza interiore, di fragilità psicologica”. Don Raffaele precisa:”La pandemia - e ricordiamolo ancora non siamo usciti fuori dall’emergenza - ha influito molto sui nostri istituti penitenziari, facendo emergere molte criticità. In questo frangente ancora una volta a pagare il conto più salato sono state le persone più sole, abbandonate, senza la possibilità di fare colloqui con i familiari. Persone, dunque, anche provate psicologicamente. I tanti suicidi nelle carceri sono anche lo strascico di questo periodo di sofferenza e di solitudine. Molti hanno superato coraggiosamente questa fase, ma tanti altri, purtroppo, già entrati nelle carceri con le loro fragilità umane, con problemi di tossicodipendenza o di dipendenza dall’alcol, hanno sofferto molto in questi anni e anche questo può spiegare l’aumento dei suicidi”. Secondo l’ispettore generale, “il problema dei suicidi nelle carceri dipende anche da come vengono attenzionati i diversi detenuti presenti nei nostri istituti. Negli Opg (ospedali psichiatrici giudiziari) c’era un’attenzione diversa, una squadra di medici preparati ad affrontare questo tipo di problematiche. Quando gli Opg sono stati chiusi, alcuni detenuti sono usciti, ma molti internati purtroppo sono rientrati nelle carceri. Infatti, in molti istituti per loro ci sono delle sezioni, le cosiddette articolazioni per la salute mentale. Nelle carceri abbiamo bisogno di più medici specializzati ad affrontare questo tipo di problematica sanitaria”. “Sono stati 74 finora i suicidi in carcere finora e ancora mancano due mesi alla fine del 2022, 35 in più dell’anno scorso, uno ogni 4 giorni. Nel solo mese di agosto si sono suicidati 15 detenuti, uno ogni due giorni, infatti la solitudine si fa molto sentire in carcere nei mesi estivi, quando manca anche il personale perché va in ferie”. A offrire un po’ di dati sul dramma dei suicidi in carcere è Antonio Mattone, portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli. “Dal 2000 - aggiunge - oltre 1.200 persone si sono suicidate in carcere. A questi dati vanno aggiunti i tentativi di suicidio che in genere sono 20 volte in più di quelli che effettivamente portano alla morte. Tante volte sono gesti dimostrativi, fatti non per uccidersi ma per richiamare l’attenzione, ma poi non riescono a controllarli e si trasformano in tragedia. Oltre ai numeri anche il tasso di suicidio è molto alto: nei liberi il tasso di suicidio è dello 0,67 ogni 10mila persone, in carcere è del 10,6 ogni 10mila persona”. Mattone ricorda: “C’è anche il discorso, a parte ma che merita attenzione, dei suicidi tra i poliziotti penitenziari, che non reggono lo stress di un lavoro troppo delicato, con turni massacranti”. Secondo Mattone, “il primo problema è la mancanza di personale, non solo di Polizia penitenziaria, ma anche di operatori penitenziari, quali medici, soprattutto psichiatri, psicologi, poi educatori, mediatori culturali. A questo si aggiunge l’approccio culturale, con cui vengono seguiti i detenuti: si parla di medicina difensiva, che tende a tamponare le emergenze, ma non c’è una vera e propria presa in carico, non c’è un monitoraggio del paziente durante la malattia. In un carcere come Santa Maria Capua Vetere per mille detenuti c’è un solo psichiatra, a Poggioreale per 2mila detenuti ce ne sono solo 2. Tenendo conto che le persone con carenze psichiatriche sono tante all’interno delle carceri o che si psichiatrizzano all’interno del carcere perché non si regge il peso di una detenzione, sono numeri insufficienti, è una grande emergenza”. Due, ricorda il portavoce della Comunità di Sant’Egidio di Napoli, “sono i momenti più rischiosi per i suicidi tra i detenuti: quando si entra in carcere è traumatico perché non si regge il peso soprattutto per chi non è mai stato in carcere o per chi non pensava di tornarci; ma anche quando si sta per uscire, nell’imminenza di lasciare il penitenziario, perché magari si sono rotti i rapporti familiari, perché si sono persi il lavoro e la casa, perché si ha paura di affrontare la vita al di fuori. Mi ricordo di un ragazzo molto giovane che si uccise poco prima di uscire perché aveva problemi familiari, aveva paura di non riuscire a riconciliarsi con la moglie: la paura di affrontare la vita al di fuori delle mura del carcere gli ha fatto compiere questo gesto estremo. Consideriamo le persone carcerate come dei mostri, certo, hanno commesso degli errori per cui sono finite dentro, ma sono persone come noi, fragili o che diventano tali. Quando si parla del carcere non bisogna mai generalizzare, ci sono diverse situazioni”. Un’altra causa di suicidio è “il sovraffollamento perché condividere un bagno in dieci/dodici è problematico, ancor di più se ci sono persone prepotenti, non si regge questa pressione psicologica. Il sovraffollamento rende la vita in carcere più disagiata”. Il problema, ad avviso di Mattone, “è che nessuno parla delle carceri, soprattutto durante la campagna elettorale non sono state al centro del dibattito politico. Giovedì 3 novembre è venuto il ministro della Giustizia, Carlo Nordio, a Poggioreale, è stato un gesto importante perché ha voluto dare un segnale di attenzione a questo mondo, ora bisognerà vedere se riuscirà, nel concreto, a tradurre in fatti questa sua attenzione per il mondo carcerario. A me sembra che solo il Papa parli dei carcerati. Nell’udienza generale del 7 settembre ha denunciato che ci sono troppi suicidi in carcere e ha parlato della sofferenza delle madri dei detenuti, che seguono la Via Crucis dei loro giovani figli detenuti”. “Ogni uomo e ogni donna che preferisce morire piuttosto che vivere nelle nostre prigioni - conclude Mattone - continuano a essere sia una sfida all’indifferenza della nostra società sia una domanda aperta a cui bisognerà rispondere”. Una follia costruire nuove carceri, la priorità è assistere i tossicodipendenti in strutture adeguate di Donatella Ventra* Il Riformista, 9 novembre 2022 Leggendo qualche giorno fa la relazione del Garante relativa alla situazione delle carceri in Campania nel primo semestre 2022, non ho potuto fare a meno di soffermarmi sui dati allarmanti ivi riportati, che hanno finito per stimolare le brevi riflessioni che vi allego. A colpire in modo particolare la mia attenzione è stato non solo il numero dei suicidi, in drammatico aumento già rispetto all’anno passato, ma anche e soprattutto il dato relativo ai detenuti tossicodipendenti. Nella relazione infatti, viene evidenziato che al 30 giugno dell’anno in corso i detenuti risultati con una diagnosi di tossicodipendenza presenti nelle carceri campane erano 1150, a fronte di una popolazione detenuta che complessivamente ammontava a 6853 presenze. Questo il dato locale, mentre a livello nazionale, al 31.12.2021 erano presenti nelle carceri italiane 15.244 detenuti tossicodipendenti (28,1% del totale) per la quasi totalità di genere maschile, (96 %), e per un terzo di nazionalità straniera (33%). Il dato è importante, perché conferma una tendenza già registrata negli anni precedenti, che indica che mediamente nel corso degli anni almeno un detenuto su quattro è tossicodipendente, mentre uno su tre si trova in carcere per delitti di detenzione e spaccio di sostanze stupefacenti. La tendenza ormai consolidata nel tempo, rivela la sussistenza di significativi aspetti critici che rendono molto problematica la gestione dei detenuti tossicodipendenti, i quali sempre più difficilmente riescono ad accedere alle misure alternative ed in particolare alla misura che è principalmente a loro riservata, ovvero all’affidamento in prova terapeutico previsto e disciplinato dall’art.94 D.P.R. 309/90. In sintesi, la percentuale dei detenuti tossicodipendenti rimane alta e soprattutto difficile da abbattere, nonostante le numerose dichiarazioni programmatiche provenienti da tutti i soggetti coinvolti a livello istituzionale nella gestione della problematica, e sarebbe utile a questo punto soffermarsi ad analizzare le possibili cause di questo fenomeno. Certamente va fatta una doverosa premessa: la tossicodipendenza è una condizione patologica molto difficile da superare, e come tale, necessita di un percorso lungo e sofferto; spesso le probabilità di successo di un percorso alternativo al carcere possono dipendere da un insieme di fattori anche mutevoli, quali ad esempio l’ambiente socio-familiare di provenienza, l’esistenza o meno di una valida rete familiare di supporto, le caratteristiche di personalità del soggetto stesso; cioè fattori per lo più “esterni” sui quali il sistema ha scarsa possibilità di incidenza. Al netto dei fattori variabili però, va evidenziato che il nostro sistema penitenziario prevede in astratto degli strumenti teoricamente validi, ma che all’atto pratico funzionano poco o male, creando un vero e proprio scarto tra il dettato normativo e la realtà penitenziaria. In particolare, il D.P.R. 309/90 o Testo Unico sugli stupefacenti, dedica due disposizioni importanti alla gestione penitenziaria dei detenuti tossicodipendenti: gli artt. 95 e 96. Il primo di essi, prevede la creazione di istituti specificamente destinati ad accogliere detenuti tossicodipendenti come sono oggi gli ICATT; il secondo invece, intitolato “prestazioni sociosanitarie per tossicodipendenti detenuti”, prevede la necessità di prestare assistenza e/o di prevedere specifici percorsi trattamentali dedicati ai tossicodipendenti in qualsiasi contesto detentivo. Partiamo dall’analisi del primo strumento, cioè gli istituti specializzati. Gli ICATT (ovvero istituti a custodia attenuata per i detenuti tossicodipendenti) si caratterizzano appunto per una custodia attenuata (che in concreto significa che i detenuti hanno la possibilità di circolare fuori dalle celle liberamente nella sezione a cui appartengono, ad eccezione della fascia oraria notturna) abbinata ad una maggiore offerta trattamentale finalizzata ad un approccio quasi di tipo “terapeutico”. Gli ICATT sono una vera e propria risorsa, e ne parlo con cognizione di causa perché nel corso della mia attività professionale ho avuto la preziosa opportunità di occuparmi di ben due ICATT: quello di Lauro quando ero nella sede di Avellino, ed oggi, presso la sede di Salerno, dell’Icatt di Eboli. L’istituto di Lauro oggi non esiste più come ICATT, essendo stato riconvertito in un ICAM (istituto a custodia attenuata per detenute madri), ma superando il dato all’attualità, in ogni caso i due istituti presentano caratteristiche strutturali ed organizzative molto simili, quali la presenza di ampi spazi verdi destinati ad attività ricreative o trattamentali, una buona organizzazione delle attività con finalità rieducativa, ed infine una buona integrazione con il territorio di appartenenza; fattore, quest’ultimo, molto importante nell’ottica del follow-up e del reinserimento sociale. Tuttavia, si tratta di istituti di piccole o piccolissime dimensioni, in quanto destinati ad accogliere solo detenuti con un basso livello di pericolosità, e sulla base della domanda- non altissima- presentata da detenuti ristretti in altri istituti a regime detentivo ordinario. Basti pensare che l’ICATT di Eboli oggi ospita soltanto 38 detenuti, a fronte delle 429 presenze registrate presso la casa circondariale di Salerno, e delle quali, ben 163 sono appunto tossicodipendenti (stando sempre ai dati della relazione). In sintesi: visto il target molto specifico al quale sono riservati, questi istituti, che potrebbero rappresentare davvero un’ottima occasione di allontanamento dal circuito detentivo ordinario e di conseguenza anche da tutte le problematiche relative alla diffusione ed alla più facile reperibilità di sostanze stupefacenti che in genere caratterizzano quest’ultimo, finiscono invece per rappresentare una risorsa positiva molto residuale e quindi non in grado di fornire una risposta generalizzata. Passando all’analisi del secondo strumento, ovvero i programmi specifici che dovrebbero poter trovare attuazione anche negli istituti a regime detentivo ordinario, generalmente di più grandi dimensioni, ebbene, anche qui il rilievo critico è inevitabile: non si può negare, infatti, che il sovraffollamento carcerario, fenomeno ormai endemico e strutturale e con un trend in crescita costante, al quale per converso si contrappongono gli esigui strumenti dell’amministrazione penitenziaria, caratterizzata da una cronica carenza di personale e mezzi, non consente di effettuare una reale ed efficace presa in carico dei numerosi detenuti tossicodipendenti, o almeno non di tutti. Su altro fronte speculare, si è assistito negli ultimi tempi ad un notevole incremento della diffusione di sostanze stupefacenti abusivamente introdotte all’interno delle carceri; incremento che il personale di Polizia Penitenziaria, anch’esso ormai ridotto all’osso e costretto a lavorare assai spesso in condizioni veramente critiche sotto il profilo della sicurezza, non riesce purtroppo a controllare e soprattutto a prevenire. Parallelamente, è andato aumentando anche il numero dei telefonini cellulari abusivamente introdotti; la criminalità dedita al mercato illegale all’interno dei penitenziari è sempre più agguerrita, e l’ultima novità sull’argomento sono i droni, attraverso i quali si riesce ad introdurre anche notevoli quantità di sostanze stupefacenti. Stando così le cose, il carcere non riesce più ad assolvere alla sua funzione fondamentale di preparazione dei detenuti ad affrontare un percorso alternativo alla detenzione finalizzato al recupero dalla tossicodipendenza, attraverso un programma in regime residenziale presso una comunità terapeutica o ambulatoriale presso il Sert territorialmente competente. E va anche considerato che poiché la preparazione al percorso esterno è un percorso non breve e soprattutto graduale, una apertura delle porte del carcere troppo anticipata per non dire frettolosa rispetto al naturale maturare delle cose, senza un reale lavoro sulle parti sane dell’io ed il rafforzamento della propria motivazione al cambiamento, rischia di produrre più danni che benefici, risolvendosi facilmente in una revoca della misura alternativa che peraltro, per espresso dettato normativo, non può essere concessa più di due volte. È di vitale importanza allora che il carcere possa recuperare appieno la sua funzione più specificamente rieducativa, ma per far ciò occorre anche potenziarne i mezzi ed il personale a tutti i livelli, ed è seriamente auspicabile, a questo punto, che almeno una parte delle risorse del PNRR dedicate al penitenziario vadano in questa direzione, piuttosto che nella realizzazione di nuove strutture detentive. Non posso essere d’accordo infatti con chi ritiene di poter affrontare il problema del sovraffollamento carcerario costruendo nuove carceri; piuttosto vanno migliorate le condizioni di vita delle strutture già esistenti per rendere l’istituzione carceraria non come semplice strumento di segregazione di individui ritenuti più o meno socialmente pericolosi (con buona pace del sistema del doppio binario) né come contenitore sociale, ma come luogo di rieducazione, e di recupero della funzione che gli è propria. Se ciò accadesse, il carcere, oltre a poter rappresentare probabilmente l’unica vera occasione di riflessione sui propri errori, offrirebbe a chi ha sbagliato violando la legge una grandissima lezione di vita: che nulla di buono si ottiene nella vita senza sacrificio, e che la vera libertà non è tanto o non solo l’assenza di vincoli materiali, quanto piuttosto la libertà interiore di poter fare le proprie scelte di vita, che è un bene preziosissimo da conquistare gradualmente giorno per giorno. *Magistrato di Sorveglianza Da risorsa a valore: il significato della progettazione edilizia penitenziaria di Daniela Piana Il Dubbio, 9 novembre 2022 L’enfasi immediatamente posta dal ministro Carlo Nordio sulla giustizia penale nelle prime azioni del governo opera come un fascio di luce di attenzione e di salienza istituzionale e sociale sul significato che il processo penale svolge in una società democratica. Non si può evitare di volgere l’ascolto verso la voce di Paul Ricoeur che non esitava ad affermare la duplice natura funzionale della giustizia, legata ad una sua intrinseca struttura a “due tempi”. Un tempo corto, quello della risoluzione di una controversia, ovvero del ripristino di un ordine o di una simmetria, fra parti; un tempo lungo, quello della riaffermazione, ad ogni celebrazione processuale, della validità delle regole democratiche nel governare il vivere insieme e, per conseguenza, della legittimazione del patto sociale sotteso alla costituzione. Tale secondo tempo, che attiene certamente all’impatto che la giustizia ha sulla società e sulla sua “tenuta”, si riferirebbe - e chi scrive conviene su questo punto - ad ogni fase processuale, ivi inclusa quella di esecuzione. Ora, nella giustizia penale, ragionare in questi termini comporta una serie di passaggi pratici di non poco conto. Innanzitutto, la ineludibile necessità di moderare, finanche limitare il più possibile, la disfunzionale e largamente nociva torsione della attenzione mediatica alla fase delle indagini, a discapito di una disamina dei fatti giudiziari che si dispiegano nella fase del dibattimento, ma soprattutto lungo tutte le fasi del processo, dal momento dell’esercizio dell’azione penale al momento della esecuzione della pena ovvero della assoluzione. Se, infatti, sarebbe impossibile negare - né opportuno, data la pervasività di quello che chiamiamo “fatto mediatico” - la compenetrazione della sfera generata e permanentemente sollecitata ed evocata dalla onnipresenza dei social media con la sfera istituzionale che in una società democratica si crea attorno alla funzione giustizia, allora l’esortazione a seguire ed investire un quantum congruo di risorse di carattere simbolico, comunicativo, materiale e cognitivo/ informativo su tutte le fasi che danno corpo a quel sistema funzionale che “giustizia penale” ci pare un corollario necessario. La seconda questione riguarda il momento del tempo lungo, ossia il significato che la giustizia penale genera, con onde lunghe aventi la capacità di profondamente sommuovere la legittimazione - che si deve dare in modo permanente anche se largamente silenzioso - del patto sociale. E qui si arriva alla questione della progettazione degli spazi di esecuzione della pena e dei raccordi che si rendono necessari fra quegli spazi - e le azioni che ivi si dispiegano - e gli spazi dove la vita non soggetta a limitazioni delle libertà e alle fragilità che queste inducono si muove, produce, cambia e si esprime. Se ne evince la opportunità della promozione di un ripensamento del plesso funzionale della esecuzione della pena, sia essa carceraria, sia essa di messa alla prova, che sia ispirato da un ragionamento di insieme, su quali siano, già dentro agli spazi di esecuzione, le azioni e le condizioni da introdurre per fare sì che, nel rapporto con la società e con il territorio, le traiettorie di vita individuale che sono segnate da segmenti più o meno lunghi, ma finiti, di esecuzione della pena, sia possibile misurare immediatamente l’impatto di ricostruzione delle capacità di vivere nella e con la società democratica che devono essere in dotazione delle persone. Questa prospettiva si rifletterebbe parallelamente e non senza connessioni con quanto prima detto sull’impegno istituzionale profuso per evitare le forme di radicalizzazione indotte da una socialità improntata su dinamiche di in-group e out-group, legate ad una evidente rappresentazione dell’interno e dell’esterno segnata dalla discontinuità di un muro materiale, contrariamente a quanto invece dovrebbe affermarsi al di là di ogni perimetro spazio- funzionale o identitario, ossia il rispetto, dimostrato e tangibile, delle regole democratiche a prescindere dagli spazi in cui ci si trova. Infine, lo stesso ragionamento e le conseguenze pratiche che ne derivano andrebbe nella direzione di assicurare il fatto che l’investimento sugli spazi sia già pensato ex ante avendo in mente come la organizzazione del lavoro e la articolazione della strategia di dematerializzazione e di digitalizzazione interverranno - ovvero stanno intervenendo - sulla trasformazione del mondo “giustizia” e sulla funzionalità della giurisdizione nel suo insieme. Le cose da fare sono tante e di certo non sarà possibile farle tutte nello scorcio temporale di un istante. Nessun processo di cambiamento si lascia comprimere in tempi angusti. Ma rimettere al centro il fatto che vi sia una urgenza rispetto alla condizione dell’edilizia penitenziaria è ora possibile e necessario. Possibile perché abbiamo tante metodologie e tante prassi, anche di carattere comparato, che ci parlano di spazi funzionali pensati per integrare, fin da subito, quelle azioni che puntano sulla responsabilità e sulla autonomia della persona con un impegno che questa prende nei confronti della società democratica. Questo appare un passo - primo, non sufficiente e risolutivo, ma importante e necessario - per riconoscere quanto profondamente, e nel lungo periodo, possa essere di impatto la giustizia penale nel suo insieme, all’interno di un Paese che non manca di soffrire di sbilanciamenti fra sfere e funzioni. Il Merito al Ministero della Giustizia di Domenico Alessandro De Rossi* L’Opinione, 9 novembre 2022 Per favorire la “riqualificazione delle strutture carcerarie per allineare sempre di più i luoghi dell’esecuzione penale intramuraria alla funzione costituzionale di responsabilizzazione del detenuto in una reale visione di reinserimento sociale e recupero personale” l’ultima Commissione per l’architettura penitenziaria risalirebbe a quella promossa dal ministro Alfonso Bonafede. Non sappiamo se la relazione redatta anni fa sarà consegnata al ministro Carlo Nordio o al viceministro Sisto. Confidiamo che al Ministero non si vogliano ricalcare soluzioni tecniche precotte, in parte ancora ispirate agli Stati generali della Giustizia, promossi nel 2015 dal ministro Andrea Orlando - da considerare buone per qualunque altra e diversa visione penale. Valide soluzioni metodologicamente sostenibili redatte da esperti riguardanti il recupero e il restauro dell’esistente o, in alternativa, nuove costruzioni di carceri sono ancora oggi tutte da inventare e da proporre in un Piano strategico nazionale. Purtroppo, nonostante il cambiamento di diversi ministri, c’è da domandarsi quali siano i criteri che hanno visto regolarmente riconfermati nel tempo sempre gli stessi componenti nelle diverse commissioni e tavoli tecnici che, peraltro, sulla complessa tematica di che trattasi, nulla hanno prodotto di realmente significativo. In tal senso è appena il caso di domandarsi perché non si sia ricorsi, come di buona norma lo Stato dovrebbe fare, a selezioni obiettive riferite a bandi, concorsi, titoli specifici, pubblicazioni, saggi, progetti, attività umanitarie e di sostegno al diritto e alla pratica dell’esecuzione penale? In effetti non sarebbe male sapere se coloro che hanno ripetutamente partecipato a questi tavoli abbiano maggiore esperienza di altri o se invece abbiano acquisito una sorta di diritto permanente per aver partecipato a precedenti commissioni voluti dal Ministero. Salvo piccole varianti, le componenti tecniche che nel tempo partecipano ai diversi Comitati di studio sembrano essere sempre le stesse. C’è da supporre che solo per facilità amministrativa il Ministero della Giustizia in passato abbia voluto quasi sempre riproporre identiche rappresentanze. Avendo ormai accertata nei fatti l’inutile speranza di fare passi avanti circa significativi miglioramenti nell’attuale condizione carceraria sarebbe logico, anche in questo caso, cambiare registro. Ingenuo è chi spera di guarire il malato avvalendosi sempre dello stesso medico se, dopo anni di presunta cura, il paziente è moribondo. Purtroppo nella compagine tecnica delle consulenze sembra ci sia ancora qualche sostenitore del già contestatissimo progetto destinato a suo tempo per il nuovo carcere di Nola: la più mostruosa ideazione di cui ancora forte è il ricordo di un modello carcerario oltre che costosissimo anche contrario a tutti i criteri più avanzati dell’esecuzione penale, sul quale il Ministero della Giustizia oggi farebbe bene a prendere opportune e definitive distanze ufficiali. Molti sono i difetti che in Italia legano la burocrazia e la politica al mondo professionale esterno dove, col tempo, si stabilizzano conoscenze, relazioni, consuetudini. Troppo spesso però si preferisce adagiarsi sulla più comoda ripetizione di consolidate procedure di appartenenza. Il Governo del presidente Giorgia Meloni, come atto programmatico e simbolico, ha voluto ridefinire con la nuova locuzione il Ministero dell’Istruzione e del Merito. Giusto: speriamo che il Merito entri a pieno titolo anche negli altri Dicasteri. *Vicepresidente Cesp - Centro Europeo Studi Penitenziari Caiazza: “Che errore rincorrere i malumori dell’opinione pubblica, è populismo penale” di Giada Fazzalari avantionline.it, 9 novembre 2022 I primi provvedimenti di stampo giustizialista hanno deluso le aspettative di chi aveva salutato con favore la nomina del garantista Carlo Nordio a Ministro della Giustizia. A cominciare da chi, come Gian Domenico Caiazza, Avvocato e Presidente dell’Unione delle Camere Penali, crede che l’esordio di questo governo, sui temi della giustizia, sia “della peggiore tradizione securitaria”. Il primo Cdm a guida Meloni è intervenuto con decreto urgente sull’ergastolo ostativo, anticipando l’udienza della Consulta fissata tra pochi giorni. Lei cosa pensa di questo provvedimento del governo? E’ un intervento che manifesta una ostilità nei confronti della sostanza della decisione della Corte Costituzionale perché adempie solo formalmente ai principi fissati nell’ ordinanza della Corte. Un intervento normativo che impedisce la fruizione di qualunque forma di misura alternativa alla pena perpetua in assenza di collaborazione e che introduce una serie di condizioni letteralmente impossibili, tali da conseguire il risultato opposto a quello sancito dalla Corte. Quali sono queste condizioni? Sono condizioni complesse, ma per dirne qualcuna, ad esempio non solo il detenuto ergastolano deve provare di avere interrotto ogni rapporto con la criminalità organizzata ma deve dare una prova incredibile, priva di senso, ad impatto futuro e cioè deve dimostrare che non potranno intervenire evoluzioni tali da ripristinare questo rapporto. E’ una probatio diabolica che la rende di fatto ineseguibile. Vedremo come si regolerà la Corte l’8 novembre prossimo, ma quello che preoccupa è il segnale di una ribellione del legislatore al giudice delle leggi: non piace talmente tanto il principio fissato dalla Corte che il primo atto compiuto dal nuovo sottosegretario di Fdi è stato il deposito della legge di riforma costituzionale dell’art 27 della Carta, cioè della finalità rieducativa della pena in senso restrittivo. Il ricorso al decreto legge, giustificava le ragioni di necessità e urgenza oppure era preferibile un iter ordinario? Il legislatore ha avuto un anno e mezzo per adempiere alle osservazioni della Corte ma di fatto non lo ha fatto e adesso ha indicato come necessità e urgenza la scadenza dell’udienza dell’8 novembre. Il Presidente della Repubblica non ha avuto obiezioni in proposito. Ne prendiamo atto. La nomina di Carlo Nordio a Ministro della Giustizia era stata salutata con favore da molti, per il suo essere garantista. Il Ministro, in passato, si era anche espresso contro l’ergastolo ostativo e il “fine pena mai”. Ma i primi provvedimenti fanno pesare a un debutto più giustizialista… Questo è un dato di fatto. L’esordio è nel senso della peggiore tradizione securitaria, anche su materie sulle quali il ministro si era chiaramente espresso in un passato anche molto recente: ad esempio, riferendosi all’ergastolo ostativo aveva parlato di obbrobrio incostituzionale. Quando si assume una responsabilità come quella alla quale è stato chiamato il Ministro Nordio, si va incontro a mediazioni e ci si trova spesso nelle condizioni in cui non tutti i propri convincimenti possono avere spazio. Noi ci auguriamo che il Ministro possa superare questa evidente contraddizione e dare un contributo concreto sulla base dei suoi valori liberali, dei quali non dubitiamo, e che anzi erano ben noti a chi lo ha voluto fortemente come Ministro. Norma anti-rave: la bocciatura di giuristi e costituzionalisti è totale. Era necessario prevedere un nuovo reato? Ovviamente no. Questo è il tipico riflesso del populismo penale: sull’onda di una notizia di cronaca che arriva all’opinione pubblica, si coglie l’occasione per dare un segnale che ne assecondi i malumori e le aspettative più genericamente repressive. Si legifera sull’onda di notizie che poi si rivelano essere non-notizie, visto che il rave party si è concluso pacificamente, con ragionevolezza e fermezza da parte delle forze dell’ordine, e tutto è stato risolto senza che sia accaduto niente di eclatante. È sbagliato sollecitare e a fare propri gli istinti più grossolani della pubblica opinione, traducendo la risposta in una sanzione penale, in una nuova figura di reato. Anche su questo punto avevamo sentito il Ministro Nordio adottare, come prima parola d’ordine del suo mandato, la depenalizzazione. E invece si è introdotto un nuovo reato, insensato e pericoloso. Peggio così non si poteva cominciare. Sovraffollamento delle carceri e cento suicidi l’anno di detenuti in prigione. Il Ministro Nordio e il presidente Meloni avevano dichiarato di voler porre rimedio. Da dove dovrebbe partire concretamente il governo? Dal punto opposto rispetto a quello dal quale si sta muovendo. Il problema del carcere e del sovraffollamento si risolve decarcerizzando, che non significa “libera tutti”, “salva ladri” o questa somma di stupidaggini che vengono ogni volta citate a sproposito. Significa la ricerca di sanzioni ai comportamenti riprovevoli e comportamenti devianti e alle responsabilità penali accertate per una fascia di reati meno gravi o di media gravità. E soprattutto la ricerca di forme alternative al carcere, per garantire un recupero effettivo anche ai fini della sicurezza sociale. Le statistiche ci dicono che le recidive criminali avvengono in una percentuale altissima per chi ha scontato l’intera pena in carcere, mentre invece si dimezzano per chi ha scontato pene alterative. Quindi si tratta di rendere queste pene ancora più sorvegliate, effettive ed efficaci. Bisogna perseguire questa strada, e invece qui continuiamo a sentir dire “buttiamo la chiave”, mentre fioccano suicidi di detenuti per aver rubato una cuffietta di un telefono in un supermercato. La giustizia di quali priorità necessita per diventare più giusta? Noi abbiamo indicato delle priorità in campagna elettorale ricevendo dei riscontri che consideriamo impegni presi pubblicamente: separazione delle carriere, abolizione dell’impugnazione delle sentenze da parte di Pubblici Ministeri, continuare a lavorare sulla riduzione dei tempi del processo penale, ritornare a una prescrizione pre-Bonafede perché la riforma della prescrizione, oltre ad essere inaccettabile in termini di principio, allunga i tempi del processo e non li accorcia: queste sono le priorità più significative rispetto alle quali c’è stato un impegno non solo di questa maggioranza ma in generale da più della metà del parlamento. Sono tutte riforme che si possono fare. Se ci confrontiamo su queste, invece che sui rave party, allora si può cominciare a sperare in qualcosa di buono. Cambiare la riforma Cartabia farebbe bene alla giustizia di Oliviero Mazza* Il Dubbio, 9 novembre 2022 Dopo che il nuovo Governo ha deciso l’opportuno rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, gli stessi protagonisti della singolare stagione riformista hanno denunciato pubblicamente i presunti guasti di questa scelta, sulla base, sostanzialmente, di due argomenti non proprio irresistibili. L’entrata in vigore immediata risulterebbe imposta dal Pnrr e, quindi, dall’Europa che sarebbe in fremente attesa del nostro nuovo processo penale e del più mite sistema sanzionatorio. Il differimento dell’entrata in vigore determinerebbe un pressoché automatico rinvio di tutte le udienze da parte dei giudici fino a quando, con il nuovo anno, si potranno applicare le nuove regole. Nessuno dei due argomenti coglie nel segno. La questione del Pnrr è stata oggetto di un insistito e costante travisamento che rende necessario richiamare quanto già più volte si è avuto modo di dire, senza peraltro essere mai smentiti dai conditores, trattandosi di una ricostruzione fondata su “prove documentali”. L’Europa ha elargito benevolmente finanziamenti a tutti i Paesi colpiti dalla pandemia attraverso un piano, il NextGenerationEU, che non prendeva in considerazione, come logico che fosse, il processo penale, dovendosi occupare principalmente di economia e di sanità. L’unico vago accenno rinvenibile nelle fonti europee, comunque non contenuto nel piano di recovery, era rivolto al law enforcement della pretesa punitiva per i reati che ledono interessi economici dell’Unione. Come dire, ben poca cosa, un puro interesse utilitaristico che poteva essere ampiamente soddisfatto da riforme mirate e circoscritte. Del resto, è difficile ipotizzare un legame diretto fra giustizia penale e sviluppo economico o sanitario del Paese. Abbiamo scelto, in piena autonomia, di condizionare l’ottenimento dei fondi europei alla riforma della giustizia penale, senza alcuna imposizione in tal senso da parte dell’Unione Europea. Una scelta legittima, ma che poi è stata utilizzata per tacitare ogni forma di dissenso e per imporre un cronoprogramma da olimpiade del diritto. Tempi stretti, urgenza, condizionalità europea, mancanza di spazio per aprire una seria discussione fra tutti gli stakeholders, hanno imposto l’ennesima riforma di mezza estate, caduta nel corso di una vuota campagna elettorale che ha del tutto ignorato il tema, in linea con la generale assenza di contenuti, portata a conclusione da un esecutivo dimissionario e da Camere sciolte, nel totale disinteresse dell’opinione pubblica. Una riforma efficiente solo nei tempi e nei modi della sua realizzazione, a dispetto di ogni regola costituzionale, a partire da una legge delega che, è bene non dimenticarlo, è stata fatta votare dal Governo sotto la minaccia di una doppia questione di fiducia, ossia senza alcuna discussione parlamentare. Credo che sia più che giustificato tornare alle regole democratiche e dare al nuovo Parlamento la possibilità di rimediare almeno ai più vistosi errori contenuti nella riforma, anche per evitare che la sua entrata in vigore determini, paradossalmente, nuove inefficienze del sistema penale. È molto sgradevole, infine, il continuo riferimento ai soldi europei, come se la giustizia penale e i diritti fondamentali dell’imputato fossero una merce da barattare col miglior offerente. Occorre uscire da questa logica mercantile e aprire un serio dibattito scientifico, politico e culturale su una riforma che si pone largamente al di fuori del perimetro della Costituzione, che contiene procedure labirintiche e oziose, foriere solo di nuove difficoltà per tutti gli operatori, che quindi può e deve essere ripensata in alcuni suoi snodi fondamentali, soprattutto, come detto, sul versante processuale. Anche il secondo argomento non è persuasivo. La stampa ha riportato la notizia del rinvio di una sola udienza preliminare che vede imputato un magistrato milanese. Senza entrare nelle evidenti peculiarità del caso, non si può pensare che i giudici, soggetti per Costituzione soltanto alla legge vigente, possano disporre rinvii sulla base di mere aspettative in ordine all’entrata in vigore di una riforma che potrebbe, per assurdo, non entrare mai in vigore. Quanto alle legittime speranze degli imputati legate alla diffusa premialità e alla marcata indulgenza del versante sostanziale della riforma, se e quando entrerà in vigore il nuovo diritto penale più favorevole non potrà che applicarsi retroattivamente. Anche i riti premiali, nell’ottica delle norme processuali ad effetti penali sostanziali, verranno recuperati proprio da quella disciplina transitoria che non è stata nemmeno presa in considerazione da un legislatore affrettato o, peggio, ignaro del problema. Non vi è quindi ragione per non prendersi almeno due mesi di tempo per emendare un testo largamente imperfetto e ideologicamente ispirato al ripudio della presunzione d’innocenza, alla fuga premiata dalla funzione cognitiva che è l’unico parametro su cui si può legittimamente misurare l’efficienza del giusto processo penale. *Avvocato, Ordinario di Diritto processuale penale Gian Luigi Gatta: “Stravolgere la riforma Cartabia? Si rischierebbe l’incostituzionalità” di Errico Novi Il Dubbio, 9 novembre 2022 l giurista che ha affiancato l’ex guardasigilli: abbiamo cercato la sintesi fra garanzie ed efficienza, gli stessi obiettivi di Nordio. In teoria sarebbe chiusa. Invece la riforma Cartabia pare di nuovo “sotto tiro”, ora che il Senato sta per esaminare il decreto con cui il governo ne ha rinviato l’entrata in vigore. “Ma in fase emendativa, se non ci si vuole esporre a pronunce di incostituzionalità, si dovrebbe intervenire solo con disposizioni transitorie e di natura organizzativa”, spiega Gian Luigi Gatta, ordinario di Diritto penale all’Università degli Studi di Milano che è stato consigliere della ministra Cartabia e vicepresidente della Commissione Lattanzi. La riforma può essere rimessa in discussione? Non si tratta di mettervi mano, ma di prepararne il varo. Il grido di dolore della magistratura non mirava a riscrivere la riforma. Sollecitava solo circoscritte disposizioni transitorie e interventi organizzativi. Se ne ha conferma leggendo la lettera dell’Assemblea dei Procuratori generali italiani e i comunicati dell’Anm. Se questa è la premessa del rinvio, che personalmente non ho condiviso perché integrale, penso che da qui si debba riprendere il filo del percorso riformatore, atteso non solo dall’Europa, ma da tanti magistrati, avvocati e cittadini. Quindi i margini, per il Parlamento, sono limitati? L’auspicio è che le settimane che ci separano dall’entrata in vigore della riforma della giustizia penale, la più vasta e trasversale degli ultimi trent’anni, possano essere sfruttate per assicurarne una pronta ed efficace applicazione: penso agli interventi organizzativi, da parte degli uffici giudiziari, del Csm e del ministero, alla formazione professionale, grazie al fiorire di iniziative da parte della Scuola superiore della magistratura, del Cnf, delle Camere penali, degli Ordini forensi e delle università, e penso, infine, ad alcuni, circoscritti, interventi normativi in sede di conversione. A ulteriori norme transitorie, in particolare, la cui previsione può essere ragionevole e aiutare il processo di attuazione. Lo sforzo che attende gli uffici giudiziari è notevole e va supportato, per il bene del servizio giustizia e della riforma alla quale in tanti, dall’attuale viceministro Sisto agli addetti all’Ufficio legislativo e al Gabinetto, ai circa 80 tra professori, magistrati e avvocati coinvolti in commissioni, abbiamo lavorato, per 20 lunghi mesi, in via Arenula, sotto la sapiente guida della ministra Cartabia, capace di faticose e difficili mediazioni tra portatori di sensibilità e interessi diversi. E se invece si decidesse di incidere, per esempio, sulle pene alternative? Chi può vietare di farlo? Il perimetro degli emendamenti, in sede di conversione del decreto 162, è tracciato dai regolamenti parlamentari e dalla giurisprudenza costituzionale. La legge di conversione è “una legge funzionalizzata e specializzata” (sent. 226/ 2019, rel. Zanon), che “non può aprirsi a qualsiasi contenuto ulteriore” rispetto al decreto legge (sent. 32/ 2014, rel. Cartabia). Essa ammette solo “disposizioni omogenee per la materia o per lo scopo” (sent. 22/ 2012, rel. Silvestri). Il regolamento della Camera (art. 96- bis, co. 7), su questa linea, stabilisce che “il Presidente dichiara inammissibili gli emendamenti e gli articoli aggiuntivi che non siano strettamente attinenti alla materia del decreto- legge”. Il limite entro il quale il Parlamento potrà emendare il decreto, per non incorrere in un vizio procedurale, rilevabile in sede di promulgazione da parte del presidente della Repubblica o che può comportare una pronuncia di illegittimità costituzionale, è insomma quello della omogeneità rispetto all’oggetto e allo scopo. Ciò, secondo la Consulta, vale anche nel caso di decreti legge “a contenuto plurimo”, come quello di specie (sent. 32/ 2014). Nel nostro caso l’oggetto è circoscritto a un mero differimento dell’entrata in vigore di un provvedimento normativo. La finalità, esplicitata nelle premesse del decreto, è di “consentire una più razionale programmazione degli interventi organizzativi di supporto della riforma”. A me pare pertanto che in sede di conversione siano ammissibili solo interventi del genere di quelli auspicati dalla magistratura: disposizioni transitorie e interventi organizzativi di supporto. È significativo segnalare che la citata sentenza 22/ 2012 della Corte costituzionale riguardò un decreto milleproroghe e, con una dichiarazione di illegittimità costituzionale, limitò in via di principio l’ammissibilità degli emendamenti in sede di conversione a interventi regolatori di natura temporale, con esclusione di quelli estranei a questo scopo. In fondo, la sintesi fra garanzie ed efficienza, a cui la riforma sembra tendere, coincide con gli obiettivi di Nordio. O non è così? La riforma persegue due obiettivi che il ministro Nordio ha mostrato di condividere e che non dubito condivida anche la presidente Meloni: l’efficienza del processo e la certezza della pena, nel quadro delle garanzie del giusto processo. Sì, anche la certezza della pena, per due motivi. In primo luogo, perché le pene sostitutive applicabili nel giudizio di cognizione, come nel progetto Nordio, sono immediatamente esecutive ed evitano la sospensione dell’ordine di carcerazione e il fenomeno dei condannati in libertà con pene inferiori ai 4 anni, i cosiddetti liberi sospesi. In secondo luogo, perché per la prima volta si restituisce effettività e certezza alla pena pecuniaria, prevedendo la conversione in pene limitative della libertà personale in caso di mancato pagamento colpevole, e non solo per insolvibilità. Se non è certezza della pena questa… Nella relazione della Cassazione il rebus delle misure cautelari applicate nei reati divenuti procedibili a querela Il Sole 24 Ore, 9 novembre 2022 L’ufficio del massimario della Cassazione ha elaborato una relazione sulla riforma penale della Cartabia. Tra le questioni interpretative più rilevanti affrontate a prima lettura nella Relazione, non risolte dalla disciplina transitoria di cui all’articolo 85 Dlgs n. 150/2022 in tema di reati divenuti procedibili a querela, quella della sorte delle misure cautelari emesse per reati (cautelabili) commessi prima del 30 dicembre 2022 già procedibili d’ufficio (per tutti, ad es. il furto aggravato dalla violenza sulle cose o dall’esposizione a pubblica fede, ovvero la violenza privata), divenuti a regime procedibili a querela e nei quali la persona offesa, per quanto occorrer poteva, non abbia mai espresso una volontà di punizione. Il dubbio interpretativo-applicativo - di rilevantissimo impatto pratico (al punto da indurre il governo ad intervenire, probabilmente con un decreto legge) - si porrà per le misure personali, presupposta la necessità di acquisire l’eventuale dichiarazione di procedibilità, la cui successiva carenza renderebbe il reato (definitivamente) improcedibile e la misura inapplicabile, nel periodo intercorrente tra il 30 dicembre 2022 e i tre mesi dall’informazione alla persona offesa. La questione non risulta in tali esatti termini mai affrontata dalla giurisprudenza di legittimità ed involge il cruciale tema della libertà personale (articolo 13 Costituzione), incisa da una misura personale applicata illo tempore con riguardo ad un reato procedibile d’ufficio e divenuto ex post [ma solo provvisoriamente, in attesa delle determinazioni della parte offesa] improcedibile sulla base dello ius novum immediatamente applicabile anche rispetto ai fatti pregressi in quanto più favorevole (salvo che, per ventura, la parte offesa non avesse comunque sporto rituale querela nonostante la pregressa procedibilità officiosa). Nel silenzio sul punto delle norme transitorie - fatta salva l’eventualità di un correttivo legislativo d’urgenza che sancisca espressamente la non revocabilità della misura in atto per la sola improcedibilità conseguente alle modifiche operate dall’articolo 2 del Dlgs n. 150 in pendenza del termine ex articolo 85 del Dlgs n. 150/22 - l’Ufficio del Massimario opta in termini possibilisti per una soluzione intertemporale “conservatrice” favorevole a sostenere, in via provvisoria, in attesa delle determinazioni querelatorie della parte offesa, una sorta di “perpetuatio cautelae”, sia pure “in precario”, siccome desumibile da plurime, e apparentemente convergenti, considerazioni di disciplina e di sistema. Lombardia. Sanzioni sostitutive, messa alla prova e giustizia riparativa: una riforma necessaria e urgente Ristretti Orizzonti, 9 novembre 2022 L’Osservatorio carcere e territorio del Comune di Milano e la Conferenza regionale volontariato e giustizia della Lombardia esprimono forte rammarico e perplessità a fronte del rinvio dell’entrata in vigore della ‘Riforma Cartabia’, in particolare per la parte relativa alle sanzioni sostitutive, all’ampliamento della messa alla prova e all’introduzione di un ordinamento organico sulla giustizia riparativa. Gli operatori e i volontari che quotidianamente operano nelle carceri e nel territorio per proporre alle persone sottoposte a una misura penale efficaci percorsi di inclusione sociale avevano accolto con soddisfazione queste parti della riforma, ben consapevoli della loro urgente necessità e della loro utilità per garantire l’effettiva realizzazione del dettato costituzionale che prevede che le pene debbano tendere alla rieducazione del condannato. Per di più, la riforma va in una direzione, da sempre auspicata, di ‘risposte penali’ non esclusivamente carcerarie, ma declinate in modo differenziato attraverso pene da eseguire nella comunità sulla base di un preciso programma di inserimento sociale, anche in questo caso in linea con la Costituzione, che parla appunto di pene e non esclusivamente di carcere. In sintesi, l’immediata attuazione di queste parti della riforma darebbe al nostro paese un sistema penale più innovativo, più giusto e più celere, e, al contempo, garantirebbe una maggiore concretezza e una maggiore certezza della risposta penale. La riforma ha anche il pregio di incidere sul problema mai risolto del sovraffollamento dei nostri istituti penali e su una situazione penitenziaria che ha portato, nel 2022, a un numero di suicidi in carcere più alto che mai. Suicidi che hanno riguardato, nella maggioranza dei casi, persone condannate a pene brevi e per lievi reati. Persone che manifestavano vulnerabilità psicologiche e sociali a cui il carcere non è in grado di offrire alcuna risposta utile o efficace, nemmeno nei termini della tutela della sicurezza e dell’incolumità pubblica. L’attuazione piena e celere di queste parti della riforma permetterebbe anche di evitare l’aumento esponenziale dei “liberi sospesi”, ossia di quelle persone destinatarie di una pena detentiva che di fatto viene eseguita a distanza di svariati anni dal reato imputato, quando magari quelle stesse persone hanno totalmente cambiato vita e non hanno più commesso, nel frattempo, nuovi reati. A ben vedere si tratta dunque di una riforma che, oltre a restituire autorevolezza allo Stato e al suo sistema penale, darebbe migliori risultati anche in termini di prevenzione dei crimini e di riduzione della recidiva. Le realtà del terzo settore, da sempre attente a questi aspetti, avevano già messo in campo i passaggi formativi e organizzativi necessari per fare la propria parte nel garantire l’effettività e l’efficacia delle misure previste dalla riforma, per promuovere il ruolo fondamentale delle comunità, per accogliere e accompagnare le persone sottoposte alle nuove pene sostitutive o coinvolte in percorsi di giustizia riparativa. Insomma, per quel che ci riguarda noi siamo pronti! Auspichiamo che anche il nuovo governo sia capace di non cedere alle retoriche giustizialiste del populismo penale e abbia il coraggio e l’autorevolezza necessarie per portare avanti con decisione le innovazioni penali positive proposte dalla riforma Cartabia. Osservatorio carcere e territorio di Milano Conferenza volontariato giustizia della Lombardia Liguria. Regione senza Garante dei detenuti, il consigliere Sansa entra in sciopero della fame di Pietro Barabino Il Fatto Quotidiano, 9 novembre 2022 “Digiunerò fino alla nomina”. La Liguria è l’unica Regione d’Italia senza Garante per le persone private della libertà: “Da quando sono stato eletto chiedo che venga nominato, questo non avviene per logiche di spartizione delle poltrone - si sfoga il consigliere regionale di opposizione Ferruccio Sansa - per questo entro in sciopero della fame e digiunerò fino alla sua nomina”. Anche il deputato Luca Pastorino (Verdi-Sinistra), accompagnato dal consigliere regionale Gianni Pastorino (Linea Condivisa), in un recente sopralluogo al carcere di Pontedecimo avevano ribadito l’urgenza di nominare questa figura prevista dalla legge: “Dopo lo sforzo che abbiamo fatto per approvare in extremis nella passata Legislatura la legge sul garante regionale delle persone private della libertà - spiegano i due esponenti di centrosinistra - per motivi interni al Consiglio Regionale non si riesce a trovare un volto per questa nomina che sarebbe un’importantissima figura di comprensione e mediazione dei problemi e sicuramente di sostegno della popolazione detenuta ma anche di chi lavora in carcere”. Non solo detenuti, evidenzia a ilfattoquotidiano.it l’avvocata Alessandra Ballerini, osservatrice ligure di Antigone: “Il garante è una figura essenziale per garantire siano rispettati i diritti di tutte le persone private, per varie ragioni, sanitarie, amministrative o penali, della libertà. Non possiamo dimenticare l’assolutezza del diritto alla dignità di cui ogni persona, pure ristretta, è portatrice, nonché l’intangibilità fisica e psichica di ogni essere umano qualunque sia la sua colpa, la sua debolezza, il suo doloroso bagaglio. Dobbiamo porci il problema del dentro ma anche del domani e del fuori, perché quelle persone prima o poi usciranno. E quasi mai - conclude l’esperta di diritti umani e immigrazioni che, tra gli altri incarichi, da anni segue la famiglia di Giulio Regeni - viste le carenze sistemiche evidenziate nella relazione, potranno uscirne migliorate”. Per questi motivi, da oggi, Ferruccio Sansa inizia il suo digiuno: “Tutte le persone che vivono senza libertà in strutture che spesso non garantiscono la loro dignità hanno diritto a un garante, eppure da 2 anni il Consiglio non decide, paralizzato da veti incrociati. Sono due anni che chiedo inutilmente a ogni consiglio di mettere fine a questa vergogna, non mi resta oggi che cominciare uno sciopero della fame finché non arriverà la nomina del garante”. Udine. Detenuto di 22 anni si impicca nella cella di isolamento di Anna Dazzan udinetoday.it, 9 novembre 2022 È stato trovato nel pomeriggio di lunedì 7 novembre, in fin di vita, nella sua cella di isolamento dove era stato rinchiuso perché aveva rapporti tesi sia con gli altri detenuti che con il personale di Polizia penitenziaria. Per lui, però, non c’è stato nulla da fare. È morto così a 22 anni Leudi Gomez, trasferito a Udine dalla casa circondariale di Trieste lo scorso 22 settembre, dove era stato condotto nell’agosto del 2021 con l’accusa di tentato omicidio per fatti accaduti nel capoluogo giuliano nel giugno di quell’anno. Il giovane, come ci conferma il garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Comune di Udine Franco Corleone, era in carcere con l’accusa di tentato omicidio avvenuto a Trieste. “Aveva avuto per un periodo i domiciliari, poi era uscito da casa e la madre aveva avvertito i carabinieri di Trieste e per questo era rientrato in carcere e mandato a Udine, non si sa perché. Aveva un carattere difficile e rapporti tesi sia con detenuti che con personale di polizia. Domenica aveva litigato con il compagno di cella e poi aveva preso bomboletta di gas aprendola e usandola per minacciare agenti, così è stata presa la decisione di metterlo in stanza di isolamento con sorveglianza particolare. Un agente gli ha parlato alle 15 e poi lo ha trovato in fin di vita: è stato fatto un tentativo di rianimazione ma non c’è stato nulla da fare”, racconta Corleone. Dall’inizio dell’anno sono 74 i detenuti suicidi in tutta Italia. “Sono morti che testimoniano che c’è una situazione estremamente difficile nelle carceri”, commenta Corleone. “Con il covid, le chiusure, le quarantene e la sospensione delle attività, la situazione è diventata davvero pesante. Nessun c’è stato, infatti, alcun ristoro per i detenuti che hanno fatto una galera più pesante del previsto e ogni proposta di considerare forme di detenzione diverse sono cadute nel vuoto”. Questo il grido d’allarme del garante, che non nasconde la preoccupazione per il futuro. “Ora c’è addirittura la tendenza a restringere spazi e i diritti per i detenuti. Il clima è quello che è e si aggiunge al tema del sovraffollamento”. Anche il capoluogo friulano, ormai, deve fare i conti con una situazione al limite dell’emergenza. I posti disponibili sono 86 ma da tempo si è ormai sull’ordine delle 140 persone presenti in via Spalato. “La situazione è difficile, il sovraffollamento anche a Udine ormai è notevole. Inoltre i casi che meriterebbero più attenzione annegano nella gestione dell’emergenza: se non si affrontano le questioni legate a droga, piccoli reati e tossicodipendenza, con persone che dovrebbero trovare una soluzione diversa dal carcere, si continua a vivere pericolosamente”. Per Corleone, che in questi ultimi anni ha lanciato diversi appelli, creando una rete associativa sul tema delle carceri, la questione riguarda soprattutto un sistema detentivo alternativo. “Ci sono persone con disturbi più o meno gravi, mentali o di comportamento, che non hanno soluzioni esterne. Ho sollecitato anche l’assessorato alla Sanità della Regione Fvg, perché bisognerebbe trovare dei luoghi affinché alcune persone scontino la loro pena con un’assistenza psicologica in strutture diverse dal carcere. Finora Udine si era salvata, ma ora non si può far finta di niente ed episodi come quello di ieri incidono sull’equilibrio del carcere”. Conclude Corleone: “A metà dicembre ci sarà un seminario sugli aspetti di detenzione e faremo un bilancio per rilanciare un impegno, ma il punto è che tutti devono fare qualcosa a partire dalla ricerca di misure alternative, meno incarcerazione per piccoli reati. Il carcere è una realtà che ha bisogno di speranza, perché se c’è solo buio ci sono le rivolte, i suicidi e la depressione”. Nulla a che fare con la riabilitazione sociale, insomma. Ravenna. Suicida in carcere a 23 anni, la madre fa riaprire il caso di Lorenzo Priviato Il Resto del Calino, 9 novembre 2022 Dal giudice lo psichiatra che lo visitò: lo specialista accusato di omicidio colposo per avere abbassato lo stadio di vigilanza su un detenuto 23enne da media a bassa. Giuseppe aveva 23 anni ed era morto suicida nel carcere di Ravenna. Il 16 settembre 2019 le guardie lo trovarono impiccato a un cappio rudimentale e il decesso fu constatato in ospedale. Dell’iniziale procedimento per istigazione al suicidio, a carico di ignoti, fu chiesta l’archiviazione. Ma la battaglia intrapresa dalla madre, che non si è mai rassegnata a quel tragico epilogo, convinta del fatto che le richieste di aiuto del figlio fossero rimaste inascoltate, ha portato la magistratura a riaprire il caso e questa mattina, davanti al Gup di Ravenna Andrea Galanti, comparirà lo psichiatra del carcere indagato con l’accusa di omicidio colposo. La donna è tutelata dall’avvocato Marco Catalano e pronta a un’eventuale costituzione di parte civile. Il giudice dovrà decidere se accogliere la richiesta di rinvio a giudizio, già avanzata dalla Procura, o se pronunciare la sentenza di non luogo a procedere, qualora dovesse ritenere insufficienti gli elementi acquisiti. Di ogni detenuto, al momento dell’ingresso in carcere, viene valutato lo stadio di vigilanza da porre in essere. Soglia che nel corso dell’ultima visita a Giuseppe, di una decina di giorni precedente al decesso, lo specialista avrebbe abbassato, da media a bassa. Quella mattina del 16 settembre il giovane era stato visitato dal medico di base del carcere, il quale aveva prescritto una nuova visita con lo psichiatra, presente nella casa circondariale ma con saltuarietà. Purtroppo non ve ne fu il tempo. Il giovane era in carcere in regime di custodia cautelare da circa un mese, dopo essere stato arrestato per il furto di un borsello a un altro giovane nel corso di una zuffa dai contorni mai chiariti. In quei giorni, però era stato raggiunto anche da un’ordinanza di custodia cautelare per stalking in seguito dalla denuncia sporta dalle ex. Inoltre, attendeva risposta da una comunità di recupero in cui scontare ai domiciliari una misura cautelare più morbida, ma a causa del periodo festivo le pratiche erano state rallentate dall’apposita commissione. Inizialmente fu aperto un procedimento per istigazione al suicidio, la richiesta di archiviazione del Pm fu opposta dal legale della madre che, allegando una consulenza medica di parte, secondo la quale i segnali d’allarme sulle condizioni del giovane erano stati diversi, ottenne riscontro dal Gip Janos Barlotti, che chiese un supplemento di indagine dal quale è derivata l’iscrizione sul registro degli indagati dello psichiatra del carcere, ora tecnicamente già imputato. “La mia tenacia e sete di giustizia - spiega la madre - mi porta a far riaprire il caso e dopo accurate indagini della Procura, finalmente una parte di verità esce allo scoperto. Come cittadina e come mamma di un ragazzo, accusato ingiustamente (perché, finché non viene emessa una condanna, si è innocenti) e privato, di un diritto alla salute e alla vita, chiedo giustizia e verità su quanto accaduto. Attendiamo di sapere cosa sarà deciso nell’udienza preliminare, ma se qualcuno ha sbagliato è giusto che paghi. Mio figlio aveva il diritto di difendersi dalle accuse infondate e di affrontare un processo con dignità. In quei giorni, in cella, ha scritto un testo per una sua canzone e da lì si evince tutta la sua sofferenza”. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Il sottosegretario voleva premiare gli agenti del pestaggio di Nello Trocchia Il Domani, 9 novembre 2022 Nel 2020 il deputato di FdI Delmastro Delle Vedove chiedeva l’encomio per la “spiccata professionalità” dei responsabili della spedizione punitiva a Santa Maria Capua Vetere. Ora è al ministero della Giustizia. “Se il ministro interpellato intenda sollecitare da parte del direttore generale dell’amministrazione penitenziaria il conferimento dell’encomio solenne al corpo di polizia penitenziaria in servizio presso l’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere che, in operazione di particolare rischio, ha dimostrato di possedere, complessivamente, spiccate qualità professionali e non comune determinazione operativa”. Recitava così l’interpellanza parlamentare presentata alla Camera il 15 giugno 2020 dai deputati di Fratelli d’Italia che chiedevano l’encomio solenne per i poliziotti penitenziari coinvolti in una delle pagine più buie della storia carceraria italiana. Il primo firmatario era Andrea Delmastro Delle Vedove che, nel nuovo governo di Giorgia Meloni, è diventato sottosegretario alla Giustizia, il ministero che decide sulle sospensioni degli agenti. L’interpellanza, rimasta senza risposta, era destinata proprio al dicastero dove l’allora deputato oggi occupa la poltrona di sottosegretario. Il deputato criticava l’operato della magistratura, arrivava a proporre un premio e ricostruiva le vicende seguendo le indicazioni dei vertici dell’amministrazione, dell’allora governo M5s-Pd e dei sindacati, ricostruzioni che si sono rivelate totalmente false e che erano già state messe in discussione dall’avviso di garanzia notificato a 44 agenti. Il reato contestato era quello più grave per chi indossa la divisa: tortura. Il giorno della mattanza - Il 6 aprile 2020, nel carcere Francesco Uccella, 283 poliziotti penitenziari entrarono e massacrarono di botte i detenuti inermi del reparto Nilo. Nell’aula bunker del tribunale di Santa Maria Capua Vetere è iniziato il processo a carico di 105 persone accusati di tortura pluriaggravata, lesioni, falso, calunnia. In 77 sono stati sospesi dal servizio, altri hanno continuato a lavorare con tanto di avanzamento di carriera. Decisioni che spettano al dipartimento dell’amministrazione penitenziaria e proprio al ministero della Giustizia. Ma cosa c’era scritto in quell’interpellanza? I deputati di Fratelli d’Italia ricostruivano i fatti così: “Il giorno 5 aprile 2020 è esplosa una violentissima rivolta nell’istituto penitenziario di Santa Maria Capua Vetere nel corso della quale circa 150 detenuti, dopo aver occupato alcuni reparti, hanno minacciato gli agenti della polizia penitenziaria con olio bollente e alcuni coltelli”. Non era andata così. Nessuna protesta violentissima era esplosa, il dato era facilmente desumibile dalle parole pronunciate all’esterno del carcere dal magistrato di sorveglianza, Marco Puglia. “Il profilo dell’ordine e della sicurezza è sotto controllo, c’è stata solo una protesta, rientrata”, aveva detto al tg regionale della Rai. La ricostruzione dei deputati continuava riferendo dei fatti accaduti l’indomani. “Il giorno 6 aprile 2020, a seguito di una perquisizione straordinaria disposta dalla amministrazione penitenziaria, sono state ritrovate e sequestrate diverse spranghe, bacinelle piene di olio, numerosi pentolini per far bollire l’olio e altri oggetti contundenti nella disposizione dei detenuti; nel corso della predetta perquisizione gli animi si sono surriscaldati e vi sono stati alcuni contusi che, comunque, non hanno riportato conseguenze tali da essere ricoverati in ospedale fra i detenuti mentre 50 agenti della polizia penitenziaria sono stati refertati”. Le bacinelle piene d’olio non c’erano e neanche le spranghe, le fotografie erano state manipolate. I poliziotti erano stati refertati, ma le ferite erano le conseguenze dei pugni, degli schiaffi e delle botte sferrate ai detenuti inermi. Quattro giorni prima della presentazione dell’interpellanza c’era stata la notifica di 57 decreti di perquisizione e di 44 avvisi di garanzia ad altrettanti agenti del carcere. Ma anche l’atto della magistratura, la perquisizione, veniva bollata come un’operazione “spettacolare di dubbia utilità investigativa”, veniva citato anche l’intervento del procuratore generale di Napoli, Luigi Riello, che “ha avvertito la necessità di intervenire sulle modalità spettacolari dell’azione diretta dalla procura”. Gli interroganti concludevano ricordando anche un’aggressione avvenuta, il 12 giugno 2020, ai danni di alcuni agenti prima di sottoporre all’attenzione del ministro della Giustizia, Alfonso Bonafede, l’insolita richiesta perché “è necessario riaffermare, oltre alla indipendenza della magistratura, che nel caso di specie condurrà le indagini, anche l’indipendenza della politica”. Il 6 aprile veniva definita “una necessaria operazione di contenimento della rivolta carceraria”. Abbiamo contattato il sottosegretario per chiedergli se intende promuovere l’iniziativa dell’encomio oppure si è pentito, ma non ha risposto. Tra gli interpellanti, oltre ad Andrea Delmastro Delle Vedove, c’erano Wanda Ferro ed Emanuele Prisco, diventati sottosegretari al ministero dell’Interno; Alessio Butti, nominato sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri e Galeazzo Bignami, diventato sottosegretario alle Infrastrutture. Sono stati tutti promossi. Torino. I baby detenuti devastano l’Ipm Ferrante Aporti di Irene Famà La Stampa, 9 novembre 2022 Materassi in fiamme e muri sfondati: 24 ore di proteste nel carcere. Materassi in fiamme, arredi divelti, muri sfondati, estintori svuotati nei corridoi e nelle aule dei laboratori. La rabbia dei ragazzi del Ferrante Aporti è esplosa nel tardo pomeriggio dell’altro ieri. Inarrestabile. Difficile da gestire, come sono complesse da governare le ire, i disagi, le dipendenze degli adolescenti. E le difficoltà aumentano se questi abusano di sostanze stupefacenti, hanno sempre vissuto per strada, randagi in giro per il mondo, lontani da una famiglia lasciata chissà dove per cercare fortuna. Le tensioni, nel carcere minorile di Torino, dove i detenuti sono 46 e la maggior parte non ha ancora compiuto sedici anni, covano da tempo. Alcuni disordini erano avvenuti la notte di Halloween. L’altro giorno la rabbia è esplosa, travolgendo e distruggendo la quarta sezione del plesso. Le forze dell’ordine hanno fatto irruzione in tenuta antisommossa. E “non è cosa di routine”, assicura chi lavora lì dentro da molti anni. Tre agenti della polizia penitenziaria sono rimasti feriti, tra cui la comandante del Corpo. Uno è stato colpito al volto con un bastone, un altro con una macchinetta artigianale per fare i tatuaggi. L’equipe del 118 ha soccorso un adolescente che partecipato alla rivolta: ha avuto una crisi comportamentale ed è stato sottoposto a una visita psichiatrica, dopo il ricoverato all’ospedale Regina Margherita. Dagli accertamenti è emerso che di anni ne ha tredici. Non è imputabile: in carcere non ci sarebbe dovuto nemmeno entrare. Due adolescenti, ritenuti tra i leader della rivolta, sono stati trasferiti uno al penitenziario di Bari, l’altro a quello di Catania. Cos’ha scatenato quella furia “Mancavano le sigarette”, spiega qualcuno. “Un gruppo disturbava e un altro non riusciva a dormire”, suggerisce qualcun altro. Nei giorni scorsi, al Ferrante Aporti sono arrivati dal milanese alcuni detenuti giovanissimi. Tutti minori non accompagnati, accusati di rapina, furto, rissa, spaccio. Così gli equilibri già molto precari del carcere minorile sono cambiati. Basta poco a scatenare i tumulti e a mettere in ginocchio l’intero istituto, è sufficiente che due o tre persone incitino gli altri. Di certo c’è che quel gruppo di nuovi arrivati, dietro le sbarre non ci vuole stare. È vero, le pareti sono colorate, gli agenti della polizia penitenziaria non indossano le divise, le giornate sono scandite da lezioni e attività: ma il Ferrante Aporti resta pur sempre un carcere. E così, nel giorno in cui era in visita il garante nazionale dei detenuti, si è scatenata una rivolta. Contro l’ordine costituito? Contro la polizia? Nulla di tutto questo. Gli incendi, i muri sfondati, le pietre lanciate in direzione di chicchessia rappresentano disagio, rabbia, abuso di sostanze, violenza imparata in strada. “È l’unica casa che abbiamo”, dicono i ragazzi. La tensione, i sindacati di polizia penitenziaria Osapp, Uil Pa, Sinappe, Fns Cisl, Fsa Cnpp, Cgil Fp l’avevano già segnalata nelle scorse settimane tramite comunicati stampa. “La situazione è drammatica”, avevano scritto. “Il personale è esiguo e abbandonato a se stesso”. Ci sono le segnalazioni di chi lavora in carcere. E la sofferenza di chi è dentro per scontare una pena o su misura cautelare. Uno tra tutti: un recluso che nei giorni scorsi cercava una corda per impiccarsi. Dietro le sbarre del minorile ci sono fragilità violente: necessitano cure, assistenza, regole. Se il sistema non se ne cura? Esplode la rabbia. Brescia. Celle affollate, nessuna alternativa. La meta del reinserimento è lontana di Federica Pacella Il Giorno, 9 novembre 2022 La relazione della Garante comunale delle persone private della libertà mette a nudo la situazione delle carceri. Il carcere? Un autobus sovraccarico che fatica ad arrivare a destinazione. Così Cesare M., membro del gruppo P4HR dalla casa circondariale “Nerio Fischione” di Brescia ha voluto rappresentare visivamente il concetto di sovraffollamento, per far capire al mondo “fuori” che non si tratta solo di numeri, ma di essere umani che, stipati in spazi angusti ed inidonei, difficilmente potranno intraprendere percorsi per costruire un futuro migliore, per sé e per la comunità nella quale ritorneranno. L’immagine è stata usata per introdurre la relazione della garante delle persone private della libertà personale bresciana, Luisa Ravagnani, ma la metafora vale per tutto il sistema carcerario lombardo e nazionale. In Lombardia, al 31 ottobre, secondo i dati del ministero della Giustizia, risultavano detenute 8150 persone, a fronte di una capienza regolamentare di 6161 posti nei 18 istituti lombardi. A Brescia, il Nerio Fischione conta 296 detenuti a fronte dei 189 posti, mentre a Verziano sono in 107 rispetto ai 71 posti di capienza regolamentare. Tutte le strutture lombarde risultano avere più detenuti dei posti disponibili: al Resmini di Bergamo si parla di 533 su 319 posti, a Como 364 su 242, a Sondrio 405 su 240, a Lecco 76 su 53. “In questa situazione - spiega Ravagnani - la meta del reinserimento si fa sempre più lontana. La responsabilità è dell’intero sistema: chi dirige e lavora negli istituti penitenziario è esso stesso vittima del sovraffollamento”. I suicidi sono un altro indicatore che qualcosa non sta andando. Dall’inizio del 2022 sono già 71 le persone che in carcere si sono tolte la vita, due delle quali a Brescia (una era una donna). Se all’esterno del carcere il tasso di suicidi è pari a 0,67 ogni 10000 abitanti, in ambiente penitenziario sale immediatamente a 10,6 morti ogni 10.000 detenuti. Il 5,6% nel 2022 di suicidi ha riguardato donne: un segno allarmante, se si considera che negli anni precedenti i casi erano pressoché nulli. “L’intero sistema carcerario andrebbe gestito in altro modo - prosegue Ravagnani. Il carcere non può essere l’unica risposta a tutti i reati, dovrebbe essere invece relegata a situazioni in cui non si può fare altro”. Difficile, però, costruire delle alternative senza la collaborazione di chi è all’esterno. Emblematica la questione delle residenze: quando un detenuto esce dal carcere difficilmente l’ultimo Comune di residenza accetta di riprenderlo tra i suoi cittadini. “Noi vogliamo cambiare vita - testimonia Valter - ad esempio c’è chi vuole seguire percorsi terapeutici, ma per andare in comunità serve un indirizzo valido che non sia via Spalti San Marco (l’indirizzo del Nerio Fischione, ndr)”. “Una volta spostata la residenza in carcere - aggiunge Ravagnani - è difficile riportarla altrove. Questo rende difficile, ad esempio, anche semplicemente avere il medico di base”. Milano. “Mitiga”, un’impresa sociale fatta dai detenuti per i detenuti di Laura Pasotti osservatoriodiritti.it, 9 novembre 2022 Meno di 16 mila detenuti lavorano per il carcere, mentre sono ancora pochi quelli occupati con datori di lavoro esterni. Ma non tutti si arrendono a questa situazione. E a Milano Bollate nasce “Mitiga”, un’impresa sociale fatta dai detenuti per i detenuti. Ne abbiamo parlato con uno dei fondatori, Vincenzo Dicuonzo. Il lavoro è uno dei pilastri del trattamento penitenziario e uno strumento essenziale per il reinserimento sociale delle persone detenute. Ma quante di queste lavorano? E quante hanno seguito corsi di formazione professionale? I numeri non sono confortanti, come emerge dall’ultimo rapporto dell’associazione Antigone (Il carcere visto da dentro - 2022), anche se il quadro è molto variegato. Ci sono istituti in cui tutti i detenuti lavorano, è il caso delle colonie agricole e degli Istituti a custodia attenuata per il trattamento dei tossicodipendenti (Icatt), mentre ce ne sono altri in cui le uniche attività disponibili sono la spesa, la cucina e le pulizie per il carcere. E non ci sono nemmeno per tutti i carcerati, perché la copertura finanziaria non è sufficiente e quindi i detenuti sono costretti a fare i turni. Spesso poi sono pagati per meno ore rispetto a quelle lavorate. La formazione professionale invece risulta carente un po’ dappertutto. E la pandemia sembra aver bloccato gran parte dei corsi: in 35 istituti su 96 visitati da Antigone non era attivo nemmeno un corso. Carcere e lavoro: ecco quali sono le occupazioni delle persone detenute Nei 96 istituti visitati da Antigone il 33% dei detenuti era impiegato alle dipendenze dell’amministrazione penitenziaria (circa 16 mila persone), in buona parte in mansioni di tipo domestico. Solo il 2,2% dei presenti lavorava per altri soggetti (2.130), ma con percentuali molto diverse tra istituti: in Emilia-Romagna sono il 4%, in Campania meno dell’1 per cento. In 37 carceri nessun detenuto lavora per un datore diverso dal carcere. Le lavorazioni attive negli istituti sono 244, di cui 115 gestite dall’amministrazione penitenziaria con 1.742 posti garantiti contro un potenziale di 2.142. Quelle più diffuse sono vivai, serre, allevamenti, sartoria e maglieria, lavanderia, panificio, pizzerie e pasticceria. A Grosseto, per esempio, la casa circondariale non ha spazi per le lavorazioni interne e i detenuti sono impiegati, a turni, solo nelle attività domestiche. Inoltre, non ci sono corsi di formazione professionale né lavori di pubblica utilità per carenza di risorse economiche e mancanza di sinergia con il territorio. Tra i detenuti che lavorano per esterni ci sono 677 semiliberi e 506 persone in articolo 21 (che hanno cioè la possibilità di uscire dal carcere per lavorare o studiare), mentre all’interno degli istituti lavorano per imprese esterne in 160 e in 777 per cooperative. Le agevolazioni fiscali previste dalla legge Smuraglia per le aziende che assumono i detenuti ammontano a circa 10 milioni di euro (dati 2020), ovvero circa 4.695 euro per ciascuno dei 2.130 detenuti. Su 148 corsi attivati, ne sono stati portati a termine 100 (dati al 30 giugno 2021), ossia meno di un corso professionale per istituto e uno ogni due per quelli conclusi. Nel primo semestre del 2021 si sono iscritti 1.545 detenuti, di cui poco più di mille hanno terminato il corso. In Molise, Puglia, Sardegna e Valle d’Aosta non sono stati attivati corsi, mentre in Umbria e Basilicata quelli attivati non sono stati portati a termine. Le regioni più virtuose sono la Lombardia, con 28 corsi attivati, la Sicilia e il Friuli Venezia Giulia con 23 e l’Emilia-Romagna con 17. La maggior parte dei corsi riguardano la cucina e la ristorazione, il giardinaggio, l’agricoltura, l’edilizia, l’arte e la cultura. Come precisa l’associazione Antigone, negli ultimi 25 anni l’offerta di formazione professionale si è ridotta in modo significativo: se nel 1996 si coinvolgeva l’8% dei detenuti, dal 2016 non si arriva al 3 per cento. Dal rapporto di Antigone emerge dunque una situazione drammatica per il lavoro e la formazione in carcere. Le criticità sono molte: dai fondi insufficienti allo stigma nei confronti di chi ha commesso un reato e scontato la pena fino alla mancanza di un’idea progettuale mirata al reinserimento socio-lavorativo della persona. “Il carcere italiano vive la persona reclusa come oggetto del trattamento, un’entità inerme che subisce ciò che viene deciso da altri. Se vuoi rieducare, al contrario, devi responsabilizzare, incentivare l’autodeterminazione, sostenere la persona nella formazione, nella capacità di fare scelte costruttive, darle strumenti per migliorarsi, per svelare attitudini e aumentare il ventaglio di possibilità di vita. E invece quello che succede è che tu sei in carcere, quando vai nei termini ti fanno fare un corso, poi esci e se va bene ti ritrovi con una borsa lavoro di 3 o 6 mesi pagata 450 euro, e basta”, dice Vincenzo Dicuonzo, tra i promotori di Mitiga, impresa sociale ideata da persone detenute presso il carcere di Milano Bollate. Vincenzo Dicuonzo ha 42 anni, di cui quasi 11 passati in carcere, e, come racconta a Osservatorio Diritti, è alla sua seconda detenzione: “Il mio fine pena è previsto per il 2028, ora sono in regime di articolo 21, quindi esco la mattina e rientro la sera in istituto. Nel 2023, se tutto va bene, dovrei accedere all’affidamento in prova”. Dopo Roma, Pavia e Como, Dicuonzo è a Milano Bollate. In questi anni di detenzione ha incontrato moltissime persone, diventando una sorta di “diario umano”. “Tutti mi hanno riportato la stessa fotografia di quelle che sono le disfunzionalità del carcere, che poi si traducono in un’alta recidiva, nel sovraffollamento, nelle multe dall’Europa per i trattamenti disumani. Ho parlato anche con volontari, educatori, preti, persone che entrano in carcere e tutte convenivano sugli stessi punti. Il problema è che tutti lo sanno, ma si fa ben poco per migliorare le cose. È nata da qui l’idea di Mitiga”, dice Dicuonzo. L’idea di Mitiga è nata tra il 2017 e il 2018. La pandemia ha bloccato tutto, ma il gruppo - composto da sei detenuti di cui due in articolo 21 e diversi professionisti tra imprenditori, volontari, docenti universitari, giornalisti, esperti di comunicazione - non si è arreso. Oggi Mitiga è un’impresa sociale che ha sede nel complesso della RimaFlow (dove ha la sede operativa anche Osservatorio Diritti), progetto di lavoro basato sul mutuo soccorso, solidarietà, uguaglianza e autogestione nato all’interno della Maflow di Trezzano sul Naviglio, storica fabbrica dell’automotive chiusa nel 2012. L’obiettivo è innanzitutto quello di trovare lavoro alle persone detenute, dialogando direttamente con le imprese. “Stiamo finendo di creare il primo database interno a un carcere con i profili lavorativi delle persone. Abbiamo creato un software che incrocia i dati anagrafici con i termini giuridici per accedere alle misure alternative, ma anche con le esperienze pregresse e i titoli acquisiti durante la detenzione”, racconta Dicuonzo. L’idea è che non si possono applicare norme standardizzate perché le persone sono diverse, hanno diversi background e capacità ricettive. “L’ordinamento penitenziario prevede un trattamento specifico, ma rimane sulla carta perché spesso il lavoro che si offre è temporaneo e sottopagato, la formazione non tiene conto delle esperienze pregresse della persona ed è qualcosa che serve solo a toglierti dalla routine afflittiva del carcere. Ma se non ci si approccia alla persona con un’idea progettuale volta al reinserimento sociale, se non la si accompagna nella formazione, transdisciplinare prima che professionale, ciò che si ottiene è che quella persona lavorerà controvoglia perché non è qualcosa che gli piace o per cui è portata e alla prima avversità potrebbe tornare indietro”, dice Dicuonzo. Il sistema è a doppio binario: Mitiga offre alle imprese le figure di cui ha bisogno e se non ce ne sono le forma. “Da una parte la formazione viene fatta in base a una specifica richiesta da parte dell’azienda. Dall’altra si propone una formazione che segua vocazioni, attitudini ed esperienze pregresse della persona. È una sorta di agenzia interinale di detenuti per i detenuti”. Sono un centinaio i nomi mappati finora e ora Mitiga è in attesa del via libera da parte della direzione del carcere. Società e persone in carcere: oltre i pregiudizi - Il secondo obiettivo di Mitiga è quello di sensibilizzare la società per superare la demonizzazione e i pregiudizi verso le persone detenute. “Ciò che non si conosce fa paura, ecco perché serve fare una campagna di sensibilizzazione e di informazione per far capire che la persona non si esaurisce nel reato che ha commesso, ma è un universo con mille sfaccettature, con capacità e carenze. E il carcere dovrebbe colmare le carenze e valorizzare le capacità. Invece tutto questo non esiste, anzi si tende a identificare la persona con il reato che ha commesso. Se hai sbagliato, vieni annullato”, conclude Dicuonzo. Gela (Cl). Progetto Fuori Le Mura, l’arte entra in carcere e regala bellezza alla città esperienzeconilsud.it, 9 novembre 2022 L’arte entra in carcere e diviene strumento di risarcimento per la persona e per la società intera. È questo l’obiettivo raggiunto dai Laboratori di Arteterapia per la Giustizia e la Bellezza di Comunità realizzati all’interno della Casa Circondariale di Gela e in corso al Circolo Arci “Le Nuvole” grazie al progetto Fuori Le Mura, finanziato dalla Fondazione Con il Sud e guidato dalla cooperativa catanese Prospettiva Futuro, in collaborazione con l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna (Uepe) di Caltanissetta-Enna. Le attività di arteterapia guidate dallo psicoterapeuta espressivo Giovanni Quadrio e dall’artista Luigi Giocolano, con il supporto della mediatrice penale Selenia Campanaro, hanno permesso ad un gruppo di undici detenuti del carcere di Gela di sperimentare la trash art e realizzare una splendida scultura da donare alla città. Giovedì 10 novembre alle ore 11 presso il Circolo Arci “Le Nuvole” di Gela, l’amministrazione comunale riceverà l’opera d’arte e annuncerà l’area della città nella quale sarà esposta con il fine di riqualificare un’area urbana degradata. Nel corso dell’incontro inoltre saranno illustrate le finalità risocializzanti dei laboratori che stanno proseguendo e daranno vita ad un’ulteriore opera d’arte che contribuirà anch’essa a regalare bellezza alla città di Gela. L’interessante dibattito sarà guidato da Rosanna Provenzano, Direttore Uepe Caltanissetta, Domenico Palermo, responsabile del progetto Fuori Le Mura, Luciana Carfì, Presidente del circolo Arci “Le Nuvole” di Gela, dallo psicoterapeuta espressivo Giovanni Quadrio e dall’artista Luigi Giocolano. Parteciperà all’incontro il Sindaco di Gela Lucio Greco, la Prefetta di Caltanissetta Chiara Armenia, il Presidente del tribunale di Gela Roberto Riggio, il Procuratore del Tribunale di Gela Fernando Asaro, Renata Giunta Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Caltanissetta, Emanuele Ricifari Questore di Caltanissetta, la Direttrice della Casa Circondariale di Gela Cesira Rinaldi, l’Assessora ai Servizi Sociali del Comune di Gela Nadia Gnoffo, la Presidente dell’Ordine degli avvocati di Gela Maria Antonia Giordano e Rocco Guarnaccia, Presidente della Camera Penale di Gela. Ravenna. I “detenuti-pasticcieri” sfornano per la Giornata contro la violenza sulle donne ravennatoday.it, 9 novembre 2022 Il ricavato della vendita delle Caterine, tradizionali e coloratissimi biscotti di pasta frolla a forma di bambolina, sarà interamente devoluto al Centro Antiviolenza. In occasione del 25 novembre, Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le Donne, da calendario il giorno di Santa Caterina, la tradizione ravennate impone di regalare alle più piccole e ai più piccoli coloratissimi biscotti di pasta frolla a forma di bambolina, le Caterine appunto. Una tradizione che da tempo il Centro Antiviolenza di Ravenna ha fatto anche suo, grazie alla collaborazione e al sostegno del Sindacato Panificatori Artigiani della Provincia di Ravenna, che insieme alle volontarie di Linea Rosa impasta e cucina migliaia di Caterine per una speciale vendita di beneficenza. E anche quest’anno l’usanza si rinnova con un’importante novità. La produzione dei dolci è avvenuta con l’aiuto dei detenuti della Casa Circondariale della città, grazie al progetto di recupero sociale “Colto con le mani in pasta”. Delle 3.500 Caterine realizzate 1.000 sono già state donate: di queste 850 ad Ageop, Associazione Genitori Ematologia Oncologia Pediatrica, per i/le bambini/e ospedalizzati del Sant’Orsola di Bologna, e 150 agli ospiti della Casa Circondariale di Ravenna. Le restanti sono disponibili presso la sede di Linea Rosa ODV in via Mazzini 57/A al prezzo di 2,5 euro. Chiunque fosse interessato all’acquisto può chiamare il numero 0544216316 o scrivere a linearosa@racine.ra.it. Il ricavato sarà interamente devoluto al Centro Antiviolenza. Migranti. Così Roma viola le leggi europee di Vladimiro Zagrebelsky La Stampa, 9 novembre 2022 Per giorni e giorni ad alcune navi di soccorso ai migranti raccolti in mare di diverse Organizzazioni non governative è stata negata l’indicazione del “porto sicuro”, che è obbligo degli Stati, poiché il soccorso non si esaurisce con la presa a bordo delle persone in pericolo, ma implica lo sbarco sicuro a terra (così le Convenzioni sul soccorso in mare ed anche la Corte di cassazione italiana). Ora il ministro dell’Interno ha imposto a due di queste - nel frattempo attraccate al porto di Catania- il divieto di sostare nelle acque territoriali italiane oltre il termine necessario perché le autorità provvedano al soccorso e all’assistenza alle persone in condizioni di emergenza o in precarie condizioni di salute. Dopo tale termine la nave dovrebbe uscire dalle acque italiane portando con sé i migranti ritenuti non vulnerabili, cui non è concesso di sbarcare. Sono quindi iniziati gli accertamenti di tipo sanitario sui migranti. Molti migranti sono sbarcati e molti altri sono trattenuti a bordo. Il decreto ministeriale è stato impugnato al Tribunale Amministrativo. La vicenda non è conclusa, né sul versante della legalità su cui si pronuncerà il Tar, né su quello politico. Sull’un piano e sull’altro è possibile esprimere ragioni di dissenso. Sul piano del diritto, nonostante il diffuso argomentare esposto a sostegno del decreto, sono ben chiare le ragioni della sua contrarietà al diritto internazionale ed europeo, che disciplina la materia. Non si tratta tanto della selezione che viene effettuata tra i migranti sulla nave, ammettendone a terra alcuni e non altri. In effetti la legge prevede il divieto di respingimento e di espulsione per coloro che ricadono nella elencazione di una nutrita serie di persone vulnerabili, prevalentemente per ragioni debolezza fisica. Si tratta però di un elenco più ampio di quello che si legge nel decreto del ministeriale. Per costoro il divieto opera qualunque sia il loro status giuridico rispetto ad altre condizioni previste dalla legge e dalle convenzioni internazionali. E si può immaginare che il soccorso che tali persone ricevono a terra consenta loro anche di presentare domanda di asilo o delle altre forme di protezione internazionale umanitaria previste dalla legge. Ma è proprio questa possibilità che viene invece negata ai migranti che rimangono sulla nave. Sono le norme in vigore ad imporre agli Stati di consentirla a tutti e di riconoscer loro le garanzie anche procedurali previste, tra l’altro, dalla Convenzione europea dei diritti umani (come il diritto al ricorso al giudice contro l’eventuale decreto di espulsione o respingimento). La Corte europea ha già condannato l’Italia per fatti simili di respingimento in mare verso la Libia, in quel caso effettuato da una nave militare, senza che i migranti che la nave aveva raccolto ricevessero le necessarie informazioni e potessero presentare domanda di protezione secondo le procedure e le garanzie italiane e della Convenzione. In quel caso, come sta avvenendo in quello odierno, il respingimento era stato effettuato senza l’identificazione di ciascun migrante, senza ricostruzione della sua individuale condizione in Libia e nel Paese di origine nazionale, senza decisione individuale e senza possibilità di ricorso. Si era trattato, come questa volta, di un respingimento collettivo (sempre vietato, perché senza analisi delle situazioni individuali). Una simile condotta espone i migranti, in Libia come nei Paesi di origine, al rischio di torture e trattamenti inumani essendo note in particolare le condizioni degli stranieri migranti che si trovano in Libia. Le organizzazioni umanitarie e delle Nazioni Unite che operano (cercano con difficoltà di operare) in Libia sono unanimi nell’indicare l’orrore della situazione dei migranti e nell’escludere che la Libia offra ora dei porti sicuri ove le navi umanitarie possano attraccare. Rispetto ai diritti di ciascun migrante e ai doveri dell’Italia che ne stata richiesta, nulla importa il fatto che altri Stati si sottraggano o si siano sottratti ai loro. Malta lo fa sistematicamente (si tratta però di una piccola isola e non di un grande Paese). La Libia poi non ha nemmeno un sistema di asilo. In ogni caso i diritti umani spettano alle singole persone ed è inammissibile di esse far strumento di una politica, come quella migratoria, che spetta ai governi, ma nel rispetto delle norme nazionali e internazionali. Poiché proprio di questo si tratta: il governo sceglie di rendere la vita impossibile alle ONG e ai migranti in modo da spaventarli e farli desistere dall’intraprendere il passaggio in mare ed arrivare in Italia. E se i giudici, oltre all’Europa, si metteranno di traverso, un risultato ci sarà comunque. Ci sarà chi avrà mostrato i muscoli a difesa dei confini della Patria, mentre altri verranno indicati come nemici che quella difesa impediscono. L’intimazione fatta dal governo ai Paesi di bandiera delle navi di occuparsi della sicurezza e dell’avvenire dei migranti che esse hanno a bordo e la ricerca, che il governo dichiara, di un coordinamento europeo, con la ricollocazione dei migranti in altri Paesi membri dell’Unione prima ancora che essi sbarchino sulla terraferma italiana, non ha fondamento giuridico nelle convenzioni internazionali e assume un tratto autoritario che è l’esatto contrario dell’atmosfera dialogante che potrebbe dar frutto. Ha invece altro effetto, che concorre ad indicare all’opinione pubblica e all’elettorato di riferimento di questo governo quanto Italia sia maltrattata dagli altri governi e dall’Unione europea. Ciò facendo il governo nasconde l’ovvia realtà che vede anche gli altri governi tener conto e non contrastare quella loro opinione pubblica interna che è contraria alla accoglienza dei migranti. Insomma, le prove di forza (che si riveleranno di breve durata e inutili) sul piano europeo sono politicamente controproducenti, tanto più quando persone umane sono trattate come ostaggi, funzionali alla sfida. Esse sono invece immediatamente produttive di grave offesa all’immagine e alla dignità della nazione che pur si vorrebbe promuovere. Tanto più gravi sono questo ed altri simili episodi perché finiscono con l’annullare un’altra e contrapposta realtà italiana: quella del continuo, pesante e generoso lavoro che svolgono la Guardia costiera, la Guardia di Finanza e la Marina anche nel salvare e portare a terra migranti in balia delle acque del Canale di Sicilia, integrate in ciò dalle navi delle Ong (che fanno come loro!). Non si prova quindi soltanto sconcerto perché in uno Stato di diritto il governo dovrebbe piegarsi alle leggi, siano esse nazionali o internazionali. Si prova anche vergogna, senza che conti il fatto che, in materia, l’Italia non sia sola a mostrare insofferenza per le leggi e per le esigenze umanitarie. Migranti. Battaglia (politica) sul ruolo delle navi Ong di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 9 novembre 2022 È uno scontro quasi solo emblematico quello in corso, nonostante gli sbarchi. Ma le opposte ideologie si affrontano sul destino di vere persone, spesso disperate. È un braccio di ferro quasi soltanto simbolico quello sulle navi Ong ferme nelle acque italiane in queste ore. Col grave dettaglio che i simboli su cui si fronteggiano opposte ideologie sono esseri umani, spesso disperati. Non stupisce che Giorgia Meloni rivendichi la sua linea di “difesa dei confini e della legalità”. Ma per capire di cosa parliamo davvero, in una vicenda che oppone in Italia destra e sinistra da trent’anni, occorre dare un’occhiata a qualche dato. Numeri complessivi e affidabili si trovano nel dossier del Viminale pubblicato ogni anno a Ferragosto per la riunione del Comitato nazionale per l’ordine e la sicurezza pubblica. Allora gli sbarchi da inizio 2022 risultano circa 45 mila, poco più della metà di quelli registrati a oggi, tre mesi dopo, dal Cruscotto del ministero: ma ciò che conta, e non varia se non di poco, sono le proporzioni. Su quel totale, gli sbarchi autonomi (barchini e carrette del mare che arrivano direttamente sulle nostre coste) sono il 53,2%. I migranti raccolti a seguito di “eventi Sar” (cioè i naufraghi veri o presunti salvati tra le nostre coste e quelle africane) sono il 46,7%. Di questi, appena il 16% sono quelli presi a bordo da navi delle Organizzazioni non governative, una percentuale abbastanza costante negli ultimi anni: nel 2020 erano poco meno del 20%; e, secondo l’autorevole istituto Ispi, nei primi otto mesi del 2019, con Salvini agli Interni, su 3.073 migranti solo 248 sono arrivati con le navi Ong, mentre 2.825 sono approdati per via autonoma sulle spiagge italiane, sotto il naso del ministro, proprio mentre imperversava il decreto Sicurezza 2. Davvero il motivo del contendere sarebbe lo sbarco tramite Ong di qualche migliaio di persone l’anno per un Paese di 60 milioni di abitanti? È evidente che stiamo parlando d’altro: ovvero del vettore del salvataggio, ciò che un Di Maio ancora sovranista nel 2018 chiamava “taxi del mare”, i battelli delle organizzazioni umanitarie che spesso issano bandiera non italiana, un pezzo di Europa che ci fa la morale e ci scarica addosso i problemi. E quindi è il senso stesso della solidarietà a essere posto in questione: a chi tocca? Anche il Papa ha detto che gli europei non devono lasciarci soli. Il nuovo governo Meloni tenta, per mano del ministro Piantedosi, di stabilire con la prova di forza di questi giorni un principio su cui è difficile non concordare in astratto: i confini dell’Unione Europea vanno fissati a Lampedusa, non ai valichi alpini dove i poliziotti francesi respingono i migranti passati dall’Italia. Il ministro, che da capo di gabinetto di Salvini ha fatto tesoro degli errori e degli eccessi del leader leghista, appare più cauto nella tattica. Donne, bambini, minori, malati e fragili sbarcano subito, in via “umanitaria”, evitando le maggiori complicazioni giudiziarie. Così, però, i restanti migranti bloccati sulle navi in rada appaiono ancor più simbolici (“sbarchi selettivi”, protesta l’opposizione lasciando riecheggiare nella memoria ben altre selezioni). Sono migranti “economici”, si dice. Ma, a parte l’ambiguità della definizione, chi lo stabilisce prima di una procedura d’accertamento? Chi fissa con una visita di quattro minuti il grado di “vulnerabilità” di un ragazzo fuggito dai lager libici e neppure in grado di spiegarsi senza interprete? In ballo ci sono leggi del mare, trattati internazionali, Costituzione: chi scappa da morte e persecuzioni va accolto, i naufraghi vanno salvati e portati nel primo approdo sicuro che, di tutta evidenza, dal Mediterraneo del Sud non è la Norvegia o la Germania, Paesi di bandiera delle navi Ong. Si può impedire a costoro di chiedere asilo in Italia? E ove mai chiedessero asilo a bordo, potrebbero poi essere trasportati in aereo nei Paesi di bandiera delle navi subito dopo lo sbarco in Italia? Gli sbarchi di ieri sera possono sbloccare lo stallo, non risolvere il problema. L’apertura del porto di Marsiglia alla Ocean Viking, “senza selezioni”, da un lato ci aiuta, dall’altro ci sferza un po’. La nostra croce è da sempre Dublino: il trattato che carica al Paese di primo approdo la gestione del migrante. Migranti. Ecco i ricorsi delle Ong contro il governo: finora in tribunale hanno sempre vinto di Alessandra Ziniti La Repubblica, 9 novembre 2022 I verdetti dei giudici di Catania e del Tar del Lazio contro lo sbarco selettivo e il decreto Piantedosi sono attesi in tempi brevi. I precedenti che hanno portato Salvini alla sbarra e l’assoluzione di Carola Rackete. Il Viminale non cede, i comandanti non intendono ripartire. Da oggi, per superare l’impasse nel braccio di ferro tra le organizzazioni umanitarie e il governo che non vuole concedere lo sbarco di tutte le persone salvate, la parola passa ai giudici: quelli del tribunale del Lazio, innanzitutto, ai quali il pool di legali che ha preparato il ricorso per la Ong tedesca Sos Humanity chiede di annullare il decreto interministeriale che vieta alla nave di permanere in acque italiane dopo lo sbarco dei fragili, ma anche quelli del tribunale civile di Catania ai quali è stato invece chiesto di attivare immediatamente la procedura per consentire anche ai migranti rimasti bloccati nel porto di Catania di presentare richiesta di asilo. I verdetti, vista la situazione, sono attesi in tempi molto brevi. I due ricorsi - Il primo ad essere stato presentato è quello al tribunale civile di Catania nell’interesse dei 35 migranti rimasti a bordo della Humanity 1. Tutti hanno già chiesto al pool di legali il riconoscimento della protezione internazionale. A presentare il ricorso urgente è stato l’avvocato Riccardo Campochiaro che, nell’atto, osserva come tutti i 179 salvati dalla Humanity 1 (144 dei quali fatti scendere) hanno presentato richiesta di asilo e come tutti siano da considerare naufraghi con l’obbligo che ne discende di concludere l’evento Sar portando a terra nel porto più vicino le persone salvate. L’udienza, alla quale non parteciperà la parte avversa del governo, potrebbe essere trattata da un giudice unico o da un collegio. Il secondo ricorso invece, presentato al Tar del Lazio punta all’annullamento del decreto firmato dai ministri Crosetto, Piantedosi e Salvini che - tra l’altro - non risulta pubblicato in Gazzetta ufficiale ma è stato comunque notificato alle parti interessate, al momento solo la Sos Humanity e Msf ma non ancora a Sos Mediterranée. Il decreto per altro non ha una scadenza entro la quale i comandanti delle navi fatte attraccare temporaneamente devono poi lasciare il porto. “Non si può dare il Pos (Place of safety) solo ad alcune persone - spiega l’avvocata Giulia Crescini del collegio difensivo di Sos Humanity - Nel momento in cui viene dato tutti i naufraghi devono poter scendere da quella nave”. Il ricorso contesta diversi punti del decreto a cominciare quindi dalla legittimità dello sbarco selettivo. Contestato è anche l’assunto del decreto secondo il quale le navi umanitarie non potrebbero entrare in porto per ragioni di sicurezza. “Nel momento in cui la nave entra e sbarca alcuni dei naufraghi - osserva ancora l’avvocata Crescini - evidentemente queste ragioni di sicurezza non esistono perché una parte dei naufraghi è sbarcata”. Il precedente del Tar del Lazio per la Open Arms - Prezioso precedente, ovviamente, è il precedente della pronuncia del Tar del Lazio del 13 agosto 2019 quando, su ricorso urgente presentato dalla Open Arms che era in mare da quasi due settimane con diverse centinaia di migranti a bordo, i giudici annullarono il decreto con il quale i ministri Salvini, Trenta e Toninelli, in applicazione del decreto sicurezza, aveva vietato l’ingresso in acque italiane alla nave della Ong spagnola. In quell’occasione i giudici diedero il via libera alla nave affermando che gli obblighi internazionali assunti dall’Italia hanno un valore superiore rispetto alle leggi ordinarie e naturalmente anche rispetto a un decreto. E che quindi l’obbligo di sbarco delle persone soccorse e la valutazione delle richieste di asilo sulla scorta della convenzione di Ginevra sono premimenti rispetto al controllo delle frontiere. Dopo la decisione del Tar del Lazio, la Open Arms entrò in acque italiane e rimase ferma davanti Lampedusa ancora per diversi giorni. Poi fu l’intervento della Procura di Agrigento, giudicate insostenibili la situazione sanitaria e di sicurezza della nave, a far scendere i migranti. L’inchiesta è quella che ha poi portato al processo, attualmente in corso a Palermo, che vede Matteo Salvini sul banco degli imputati. L’assoluzione di Carola Rackete - Ma il precedente forse più importante di tutti è la sentenza con la quale il 16 gennaio 2020 ha dato ragione a Carola Rackete, comandante della Sea Watch arrestata in flagranza a Lampedusa il 29 giugno 2019 per essere entrata di forza nel porto di Lampedusa speronando persino una motovedetta della guardia di finanza che le sbarrava la strada. Al di là della contesta sulla configurazione giuridica della motovedetta come “nave da guerra”, il responso della Cassazione afferma definitivamente che “Carola Rackete agì correttamente seguendo le disposizioni sul salvataggio in mare perché l’obbligo di prestare soccorso non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro”: Da qui la giustificazione dell’atto di forza della Rackete e l’annullamento dell’ordine di custodia cautelare. La vicenda poi si concluse con l’assoluzione per la comandante della Sea Watch. Una disobbedienza nel nome dell’umanità di Alessandra Algostino Il Manifesto, 9 novembre 2022 Dalle navi che hanno salvato vite sbarcano i “fragili”, i “vulnerabili”: quelli che nemmeno una politica disumana - e contro il diritto - poteva ancora costringere in mare. In balia delle onde e del tormento dell’attesa in condizioni che non garantiscono la dignità, dopo una fuga da torture e violenze. Due considerazioni. La prima. Lo sbarco non è una gentile concessione, con la quale graziare chi si è reso colpevole di attentare con il suo esistere all’invalicabilità delle frontiere nazionali, nel riverbero di un pallido senso di umanità o, meglio, nell’impossibilità, di fronte a palesi violazioni, di perseverare. Essere condotto in un “luogo sicuro” è un diritto di ogni naufrago e, come ribadisce la Corte di Cassazione, nel caso Rackete, “non può essere qualificato “luogo sicuro”, per evidente mancanza di tale presupposto, una nave in mare che, oltre ad essere in balia degli eventi metereologici avversi, non consente il rispetto dei diritti fondamentali delle persone soccorse”. Ancora: la nostra Costituzione (art. 10, c. 3) sancisce il “diritto d’asilo nel territorio della Repubblica”, ovvero il diritto di ingresso nel territorio per chiedere l’asilo, e il diritto di permanervi (quantomeno) sino all’esito della domanda. Concepire i diritti come concessione e negarne l’universalità, li trasforma, con una eterogenesi dei fini, da strumento di dignità e di emancipazione, nel presupposto di rapporti di uguaglianza, a elementi attraverso i quali esercitare un potere e delimitare lo spazio della diseguaglianza. Quando si recinta (che sia la terra oppure l’esercizio dei diritti), si afferma una logica escludente, nasce la disuguaglianza e con essa rapporti di dominio. Seconda considerazione. Il ricorso a categorie come vulnerabilità e fragilità, è funzionale a frantumare la presenza di un’unica condizione, indebolendo “la forza del numero” e del collettivo; altro è considerare in chiave emancipante le condizioni, ovvero “gli ostacoli di ordine economico e sociale” (art. 3, c. 2, Cost.), di ciascuno e di tutti. È accattivante l’immagine della protezione dei vulnerabili e dei fragili, ma ricorda le ambiguità della garanzia del “nucleo essenziale” di un diritto o i “livelli essenziali delle prestazioni” (art. 117 Cost., c. 2, lett. m)): dietro la parvenza di una (maggior) tutela, si annida un restringimento dei titolari dei diritti o un indebolimento del loro contenuto. È la stessa logica sottesa alla politica dei bonus, dei click day, delle restrizioni al riconoscimento del reddito di cittadinanza: non tutti sono liberati dai bisogni che ostacolano il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione alla vita della società, ma solo alcuni. Non è solo un “divide et impera”, ma anche un modo per scaricare la “colpa” della propria condizione in capo alle persone: non abbastanza veloci con la tastiera per prenotarsi il beneficio, non abbastanza fragili per essere ammessi sul territorio. Perdenti nella competizione, non meritevoli: la competitività come paradigma e il merito che legittima la disuguaglianza, colpevolizza l’esclusione e infrange l’universalità dei diritti. È la visione individualista del neoliberismo, che pervade lo spazio dei diritti, ne trasfigura il senso. I diritti, come ai loro albori nel giusnaturalismo, con lo ius migrandi di Vitoria a legittimare le conquiste spagnole, sono piegati alle esigenze, economiche o politiche, e naufragano nel momento in cui a rivendicarli “sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche, tranne la loro qualità umana” (Arendt). La nave Humanity One che resiste in porto difende i diritti e il diritto contro abusi del potere. Il decreto interministeriale che intima alle navi di riprendere il mare senza consentire lo sbarco di tutti i naufraghi sarà impugnato di fronte al TAR Lazio, per plurime violazioni di norme internazionali, europee e nazionali, così come si annunciano esposti alla magistratura per violazioni dei diritti, resta che disobbedire in casi come questo significa esercitare una resistenza costituzionale. Il capitano della nave non va lasciato solo, la sua resistenza in porto è nel solco di una disobbedienza nel nome di “tutto ciò che si interpone tra un futuro per l’umanità e la fine della civiltà” (Fromm). I rave, i “diversi” e la politica della paura di Vincenzo Scalia Il Manifesto, 9 novembre 2022 Sin dagli albori dello Stato moderno, la paura si connota come elemento fondativo della politica. È proprio per assicurarsi l’incolumità fisica, la protezione dei propri beni, la tutela della sfera privata, che gli esseri umani, secondo il paradigma hobbesiano, danno vita all’entità statuale. La narrazione hobbesiana, in realtà, finisce per arenarsi su due scogli: il primo riguarda i meccanismi di autoriproduzione del potere: se lo Stato si fonda sulla paura dei suoi cittadini, la utilizzerà sempre come strumento per legittimarsi e perpetrarsi. In secondo luogo, la società è lungi dal costituire un’entità compatta e omogenea. Conflitti sociali, culturali e politici, la attraversano. Le paure altro non sono che panico morale, ovvero la percezione e la rappresentazione di specifici individui e gruppi sociali come una minaccia da parte della società affluente. Per neutralizzare il pericolo, si mobilitano gli apparati ideologici e repressivi, in particolare quando le lacerazioni del tessuto sociale appaiono ancora più marcate. Il risultato è quasi sempre quello delle limitazioni delle libertà civili e politiche, a partire dalla stigmatizzazione e della presunzione di colpevolezza delle classi pericolose di turno. Il decreto 162 del 31 ottobre prevede un nuovo articolo del Codice Penale, il 434bis, che definisce i rave come minaccia all’ordine pubblico, alla salute e all’incolumità pubblica, segue lo schema sopra delineato. La neonata coalizione di governo sa bene di rappresentare non più di un quarto degli Italiani, nonché di essere attraversata da pesanti divisioni interne. Uscendo dal Palazzo, le conseguenze della pandemia e della guerra in Ucraina si stanno riverberando nell’aggravamento della crisi economica, comportando il peggioramento delle condizioni di vita di strati sempre più vasti della popolazione. La maggioranza attuale non dispone né dell’autorevolezza né dei margini di manovra necessari a fare fronte a questo contesto critico, anche perché l’agenda economica è ancorata alle linee guida europee. In questo contesto, ecco che la paura, declinata nella sua accezione di panico morale, diventa la risorsa principale che la coalizione governativa adotta. All’interno della maggioranza, il ricorso alla legge e all’ordine serve a ricompattare le divisioni. All’esterno, oltre a lanciare il messaggio che il governo “sta facendo qualcosa”, la proposizione di un pacchetto di politiche penali repressive, in cui rientra anche la riproposizione dell’ergastolo ostativo, sortisce l’effetto di una cortina fumogena che copre i vuoti progettuali e programmatici del governo. Non si ha memoria di un rave che sia degenerato in risse, morti, atti di vandalismo, danneggiamenti, saccheggi, scontri violenti. Eppure, lo sgombero di un raduno “illegale” a Modena, fornisce il pretesto per un decreto che, a partire dall’individuazione di una nuova categoria di criminali, ovvero i ravers, introduce la reclusione da 3 a 6 anni per gli organizzatori e pene minori per i partecipanti. Ci troviamo dentro un immaginario in parte collodiano in parte da Strapaese, in cui i Lucignoli di turno trascinano i Pinocchi sprovveduti alla perdizione, a colpi di balli sfrenati, droghe e alcool, in preda al quale questa umanità minacciosa assalirebbe la proprietà privata e minaccerebbe l’incolumità della gente, magari invogliandola a infoltire le schiere del rave. Il tutto, ripetiamo, senza alcun riscontro sul piano reale, e in aperta violazione dell’articolo 17 della Carta costituzionale, laddove l’assembramento dei neofascisti a Predappio viene derubricato a manifestazione folcloristica. Non ci piace questo governo, e non si tratta di una questione pregiudiziale, bensì di constatare che, all’autoritarismo congenito, si sommano insipienza e malafede. E della malafede bisogna avere paura. Non dei ravers. Egitto. Regeni, Il Cairo indaga i 4 agenti. Poi archivia tutto di Chiara Cruciati Il Manifesto, 9 novembre 2022 Il governo egiziano comunica all’Italia che l’archiviazione è irrevocabile, basta insistere sugli indirizzi per notificare l’incriminazione a Roma. L’ennesima presa in giro che i governi premiano con gli accordi commerciali e militari. Lunedì nel colloquio tra la presidente del consiglio Giorgia Meloni e il presidente egiziano Abdel Fattah al-Sisi, la prima - secondo Palazzo Chigi - ha sollevato la questione irrisolta dell’omicidio di Giulio Regeni. Senza apparentemente chiedere, la nota non lo dice, un chiarimento rispetto alla notifica mossa al ministero della giustizia italiano da quello egiziano: “A fronte delle insistenti richieste italiane di ricevere gli indirizzi dei quattro imputati egiziani” per poter notificare loro l’iscrizione nel registro degli indagati per sequestro, tortura e omicidio, “la Procura generale (del Cairo) ha già svolto indagini nei confronti degli stessi quattro imputati nel procedimento italiano. Indagini conclusesi il 26 dicembre 2020 con un decreto di archiviazione”. Insomma, basta chiedere collaborazione giudiziaria, per al-Sisi il caso è chiuso. Lo dice un documento depositato al tribunale di Roma dal capo dipartimento per gli affari giustizia, Nicola Russo. Il ministero egiziano appone poi la pietra tombale: “La Procura generale egiziana ritiene che il provvedimento (di archiviazione) abbia natura decisoria irrevocabile”. Che i quattro agenti dei servizi che la Procura di Roma prova a portare a processo siano stati indagati dal Cairo apre a molte domande. A partire da quella più dirimente: seppur si tratti di ordinamenti diversi, l’ostinazione egiziana a non fornire gli indirizzi - necessari a notificarne l’incriminazione in Italia e dunque a processarli in contumacia - di ex dipendenti dello Stato egiziano (da questo indagati per lo stesso reato) è l’ennesima prova dell’arrogante assenza di collaborazione, una presa in giro politica che i governi italiani di ogni colore continuano a “premiare” con un trattamento speciale fatto di accordi commerciali e militari inamovibili. Dopo la stretta di mano di Meloni e al-Sisi, a Sharm el-Sheikh prosegue la conferenza sul clima su cui pesa come un macigno la repressione egiziana. Ieri a dare pessimo spettacolo di sé è stato il deputato Amr Darwish, portato via di forza da una tavola rotonda dopo aver aggredito Sana’a Seif, attivista egiziana e sorella di Alaa Abdel Fattah, il più noto dei prigionieri politici. Sana’a parlava quando Darwish ha iniziato a urlarle in faccia, chiedendo come mai definisse il fratello “detenuto politico” e perché la sua famiglia mendicasse aiuto internazionale per attaccare l’Egitto. Le ha strappato via il microfono, prima di essere portato via di peso. Ma, nonostante i tentativi anche imbarazzanti di soffocare il dissenso, per il secondo giorno consecutivo di Cop27 il nome di Abdel Fattah, in sciopero della fame da oltre 215 giorni e della sete da lunedì, è stato ripetuto spesso. Prima dal premier britannico Sunak, poi dal cancelliere tedesco Scholz, infine dall’Onu: Volker Turk, alto commissario per i diritti umani, ha chiesto “al governo egiziano di rilasciare subito Abdel Fattah e fornirgli cure mediche. Lo sciopero della fame e della sete ne pone a rischio la vita”.