Così la destra ha salvato l’ergastolo (e la Consulta) di Andrea Pugiotto Il Riformista, 8 novembre 2022 Il fine-pena-mai ostativo è stato riformato, eppure Meloni rivendica di averlo conservato. Collaborare non è più una condizione per accedere ai benefici, ma tra i benefici e i detenuti è stato alzato un muro. 1. Il lapsus mente raramente. La dice lunga, quindi, quel “carcere ostativo” (invece di “ergastolo ostativo”) pronunciato alla Camera dalla presidente Meloni in replica al dibattito sulla fiducia al governo. Traducibile nell’hastag #iorestoincarcere, svela l’intima adesione a una teologia della dannazione perenne (“fine pena mai”, “deve marcire in galera”, “buttare via la chiave”) che è l’esatto contrario del riscatto rieducativo iscritto in Costituzione. Non a caso, è stata già depositata da Fratelli d’Italia la proposta di legge costituzionale per la modifica dell’art. 27 Cost. (AC 116). Leggetela. Vi si afferma “la netta volontà di subordinare e limitare la finalità rieducativa della pena” a favore delle esigenze di difesa sociale, così da sdoganare “la possibilità, per il giudice, di irrogare pene esemplari”. È in questo orizzonte che si inserisce il decreto legge n. 162, in vigore dal 31 ottobre, contenente “misure urgenti in materia di divieto di concessione dei benefici penitenziari” in assenza di condotte collaboranti. Diverso era il titolo del testo unificato, approvato alla Camera nella scorsa legislatura e ora travasato nel provvedimento del governo: “Disposizioni in materia di accesso ai benefici penitenziari” per i non collaboranti (AS 2574). “Accesso”, non “divieto”. Torno a dire: il lapsus mente raramente. 2. Sbobiniamo quanto è accaduto. L’ergastolo ostativo è certamente illegittimo, laddove individua nel collaborare con la giustizia l’unica via possibile per accedere alla liberazione condizionale. Nell’accertarlo, la Consulta ha sollecitato il Parlamento a ridisciplinare l’istituto in conformità alla Costituzione, concedendogli un tempo congruo per farlo. Nella scorsa legislatura la Camera aveva approvato una riforma, il cui iter legislativo non si è concluso in Senato “solo a causa dello scioglimento [anticipato] delle camere”. Nel frattempo incombeva la data odierna dell’8 novembre, fissata dalla Consulta per adottare la propria decisione in assenza di un intervento legislativo. Ecco perché solo un provvedimento del Governo, di cui “è indubbia la ricorrenza dei presupposti di necessità e urgenza”, poteva consentire di adempiere in tempo ai moniti della Corte costituzionale. Questa è la narrazione accreditata nella relazione illustrativa e nel preambolo del decreto legge. Evidentemente persuasiva per il Quirinale, che lo ha firmato senza rilievi di sorta, nemmeno nella forma soft dell’emanazione con dissenso (secondo una prassi introdotta dal suo predecessore, Giorgio Napolitano). Eppure i decreti legge si giustificano solo a fronte di “casi straordinari” (art. 77, comma 2, Cost.), cioè imprevedibili, e tale non può certo considerarsi un’udienza iniziata 18 mesi fa e calendarizzata da tempo. A Palazzo della Consulta ne saranno certamente sollevati. Lo jus superveniens giustificherà la restituzione degli atti al giudice che aveva eccepito l’incostituzionalità dell’ergastolo ostativo (la Cassazione, sez. I penale): ad esso spetterà verificare la rilevanza processuale della nuova disciplina e le sue eventuali criticità costituzionali, anche alla luce delle possibili modifiche inserite in sede di conversione. Se e quando verrà riproposta la quaestio, solo allora la Consulta giudicherà la conformità a Costituzione delle norme effettivamente introdotte dal legislatore. Oggi, i giudici costituzionali potranno cavarsela con una nuova ordinanza interlocutoria, dopo le due precedenti con le quali ogni decisione era stata rinviata allo scopo di rimettere in termini il Parlamento. Messe in fila, esse rivelano un qualche timoroso imbarazzo nel rispondere a un’ovvia domanda: quando dichiarerete l’incostituzionalità di un regime che pure ritenete incostituzionale? “Non ora” (ord. n. 97/2021); “non ancora” (ord. n. 211/2022), “chissà” (ordinanza odierna). Alle Camere è certa la conversione del decreto legge, ricalcante un testo approvato quasi all’unanimità nella scorsa legislatura. Nessun gruppo parlamentare potrà credibilmente sottrarsi al mantra, ripetuto come un atto di fede, secondo cui l’ergastolo fino alla morte è uno strumento irrinunciabile nel contrasto alle mafie: in ciò, davvero, l’unione fa la forca (e questo non è un lapsus). Fratelli d’Italia, all’epoca contrari alla riforma perché scaturita da “gargarismi garantistici” (così l’on. Delmastro Delle Vedove, oggi neo-sottosegretario alla Giustizia), potranno sempre tentare di emendarla in peius, innestando altre norme nella già sadica articolazione numerica del nuovo art. 4-bis ord. penit., con i suoi commi 1-bis, 1-bis.1, 1-bis.2. Le norme bis sono, da sempre, la maschera di obbrobri giuridici. 3. Dunque, l’ergastolo ostativo è stato riformato. Eppure la premier rivendica, “fiera”, di averlo conservato. La contraddizione si scioglie nel gioco tra apparenza e sostanza normativa. Il decreto legge, infatti, ammette la possibilità anche per gli ergastolani non collaboranti di dimostrare l’assenza di legami con il crimine organizzato, ai fini dell’ammissione alla liberazione condizionale. In tal modo, l’originario manicheismo secondo cui “o collabori e ti mettiamo fuori, o stai dentro finché campi” viene meno, e con esso ogni illegittimo automatismo legislativo. È stato così rimosso il cellophane della presunzione assoluta che avvolgeva l’ergastolo ostativo, ora imballato con una presunzione relativa, suscettibile di prova contraria, valutata dal giudice caso per caso. Tanto basta per dire - come ha fatto il distratto Guardasigilli - che le criticità costituzionali segnalate dalla Consulta sono state superate. Ciò è vero, ma solo formalmente. In realtà, il contenuto del decreto legge configura una stretta alla concessione di qualsiasi beneficio penitenziario, tale da renderla concretamente irrealistica. Vale specialmente per la liberazione condizionale, modificata anche nella sua disciplina sostanziale. Così però l’ergastolo ostativo, intollerabile a parole, risulta tollerabilissimo nella realtà. È superato de jure, ma non de facto. 4. Un primo giro di vite è nell’incremento dei reati ostativi. L’ostica formula tecnica che apre il decreto legge (il divieto di sciogliere il cumulo di pene concorrenti, in caso di accertata connessione teleologica tra reati) produrrà l’effetto di trascinare nel regime penitenziario ostativo delitti altrimenti comuni. Prosegue così la malsana abitudine di ampliare la già lunga blacklist dell’art. 4-bis. L’effettività rinnegante della nuova normativa emerge, poi, nell’abnorme facondia di condizioni da soddisfare per accedere a qualsiasi misura extramuraria. Non sono sufficienti, infatti, le risultanze positive del percorso trattamentale. Né gli ulteriori elementi che comunque il giudice dovrà considerare: dalle circostanze personali e ambientali alle ragioni dedotte a sostegno della mancata collaborazione, dalla revisione critica della propria condotta criminosa alle iniziative a favore delle vittime, fino a ogni altra informazione disponibile. Serve altro. È necessario dimostrare l’adempimento delle obbligazioni civili conseguenti alla condanna (o “l’assoluta impossibilità” di adempiervi). È necessario dimostrare l’assenza di collegamenti attuali, “anche indiretti o tramite terzi”, con la criminalità organizzata e con “il contesto” (?) nel quale il reato è stato commesso. È necessario allegare elementi specifici che escludano il pericolo di un futuro “ripristino” di tali collegamenti (autentica probatio diabolica). Contestualmente, vanno disposti accertamenti patrimoniali nei confronti del reo e del suo nucleo familiare. Siamo di fronte a un perenne “non basta”, introdotto intenzionalmente per rendere difficili cose complicate attraverso richieste impossibili, tanto più se rivolte a ergastolani ristretti in carcere da decenni. Che il decreto legge sia orientato a ostacolare il loro diritto alla speranza emerge anche dalla nuova configurazione della liberazione condizionale. La sua concessione slitta sempre più nel futuro, con l’estensione a 30 anni (contro i 26 attuali) del termine per accedervi e a 10 anni (contro i 5 attuali) della durata della successiva libertà vigilata. È peggio che prima della legge Gozzini. Così, per l’ergastolano non collaborante, il tempo della detenzione si dilata fino a togliere il respiro, obbligandolo ad un’apnea esistenziale prossima a renderlo postumo in vita. E ancora. Il decreto legge abroga i casi di collaborazione impossibile o irrilevante, assorbiti nella più generica ipotesi di “assenza di collaborazione con la giustizia” all’interno della kafkiana procedura di accesso ai benefici penitenziari già descritta. Viene così sbarrato il solo ponte verso misure extramurarie fino ad oggi transitabile da tutti i condannati per reati ostativi, ergastolani compresi, quando veniva accertata una loro inesigibile collaborazione. Scelta doppiamente irragionevole. Perché non si può chiedere di fare ciò che è impossibile fare, come accade se la collaborazione non è “naturalisticamente e giuridicamente” esigibile (sent. n. 89/1989). Perché non sono assimilabili le posizioni di chi è silente “per scelta” e di chi lo è “suo malgrado” (avendo poco o nulla da riferire per la limitata partecipazione al reato o per l’integrale accertamento di fatti e responsabilità o perché vittima di errore giudiziario): lo ha ribadito la Consulta con una recente sentenza (n. 20/2022) che il provvedimento governativo ignora o finge di ignorare. Questa, nell’essenziale, è la pista da cui dovrebbe decollare, verso il rientro in società, l’ergastolano ostativo che abbia dato prova di “sicuro ravvedimento” (art. 176 c.p.). Cadrà nel vuoto, come un aeroplanino di carta. 5. Alla fine - come denuncia, non a torto, l’UCPI - l’operazione gattopardesca messa in piedi si rivela un “espediente solo formale” per accreditare l’attuazione dei moniti della Consulta, in realtà aggirati con “un vero e proprio atto di ribellione” normativa. Vedremo, oggi, se e come la Corte costituzionale troverà il modo di replicare. La Consulta può evitare lo scontro sul decreto truffa sull’ergastolo ostativo di Andrea Morrone Il Dubbio, 8 novembre 2022 La Consulta rischia un conflitto con il nuovo governo: i giudici sono chiamati a verificare se la nuova disciplina sull’ergastolo ostativo ha eliminato il vizio che rendeva la vecchia illegittima. La vecchia prevedeva la presunzione assoluta di pericolosità dei mafiosi condannati all’ergastolo, la nuova è problematica: è contenuta in un decreto legge precario in attesa di conversione e, quindi, suscettibile di essere modificato. Allunga la durata della carcerazione, da 26 a 30 anni, decorsi i quali il reo può chiedere di avviare la procedura per accedere al beneficio della libertà condizionata, ma provarne la non pericolosità è quasi impossibile. La Consulta potrebbe passare la palla al giudice ordinario, consentirebbe alla Consulta di esaminare la legge una volta diventata legge ordinaria, svelando a quel punto che la norma è cambiata, ma la sostanza no. Sull’ergastolo ostativo, oggi si materializzerà un primo probabile scontro tra il governo e la Corte costituzionale. I giudici verificheranno se la nuova disciplina ha eliminato il vizio che rendeva la vecchia illegittima. La presunzione assoluta di pericolosità dei mafiosi condannati all’ergastolo, dalle stragi di Capaci in poi, cadeva solo in caso di collaborazione con la giustizia. In mancanza, nessun condannato avrebbe avuto la speranza della libertà. Il peccato originale - Il peccato giuridico della norma era stato disvelato più volte. Prima la Corte di Strasburgo poi la Corte costituzionale avevano ritenuto il “fine pena mai” un trattamento disumano, in contrasto con la funzione rieducativa della pena (articolo 3 Cedu e 27 della Costituzione). Non potendo riscrivere la norma, i nostri garanti avevano sollecitato un intervento del parlamento, rimandando per ben due volte la decisione di annullare la norma. Ora il governo ha provveduto, anzi, ha giustificato il ricorso a un decreto legge eterogeneo - tra le altre cose punisce i rave party e riabilita i medici e gli infermieri no-vax - proprio per l’esigenza di rispondere alle sollecitazioni della Consulta e di farlo prima dell’udienza dell’8 novembre. Cambiare per non cambiare - La nuova disciplina è problematica. È contenuta in un decreto legge precario in attesa di conversione e, quindi, suscettibile di essere modificato dalle camere. Allunga la durata della carcerazione, da 26 a 30 anni, decorsi i quali il reo può chiedere di avviare la procedura per accedere al beneficio della libertà condizionata. Sono soprattutto le condizioni, alternative alla collaborazione, che dovrebbero permettere il fine pena, ad apparire per molti motivi insormontabili. Molte autorevoli voci hanno sottolineato, a ragione, che il decreto trasforma la precedente presunzione assoluta di pericolosità in una prova impossibile di non pericolosità. Se così fosse saremmo di fronte a una classica truffa delle etichette: anche se le parole della regola cambiano, nella sostanza nulla è cambiato. E, allora, la Corte costituzionale potrebbe colpire questa nuova disciplina, annullandola, sferrando così un duro colpo alla credibilità del governo? Quel che impedisce di decidere - Questo ennesimo pasticcio normativo potrebbe sfuggire alla mannaia della Consulta. E, forse, almeno per ora, non sarebbe un male. Provo a spiegarlo in modo semplice, anche se la cosa è molto complicata. Un cavillo procedurale potrebbe impedire ai giudici di decidere subito: si chiama “rilevanza”. Il decreto legge, infatti, ha cambiato l’oggetto del giudizio di costituzionalità: non più la vecchia e illegittima norma sull’ergastolo ostativo, ma, al suo posto, la nuova disciplina probatoria per accedere alla libertà condizionata. La corte dovrebbe spogliarsi della questione. O forse no. Si troverà piuttosto a un bivio: o trasferire il giudizio dalla vecchia alla nuova norma, o restituire gli atti al giudice che le ha sottoposto la questione di costituzionalità sulla vecchia norma. I presupposti sono diversi. Il trasferimento della questione, da una disposizione all’altra, è rarissimo, possibile solo se identico è il contenuto normativo di entrambe. Non è il nostro caso, perché il decreto ha riscritto la disciplina. La seconda alternativa, invece, si impone, come adesso, quando interviene una nuova regola sulla materia: la Corte costituzionale si spoglia della questione, rimettendo al giudice di merito di valutare se permangono o meno i dubbi di costituzionalità, nonostante le nuove norme. Evitare il conflitto - Passare la palla al giudice ordinario è un atto dovuto, dunque, ma non un dramma. Consentirebbe alla Consulta di evitare, oltre a un conflitto col governo oggi inopportuno, alcune insidie. Quella di pronunciarsi, come detto, su un decreto non ancora convertito, e di cimentarsi su una disciplina sospetta ma solo ipoteticamente di incostituzionalità, mancando riscontri empirici in tale senso. Restituire gli atti permetterebbe di guadagnare il tempo necessario alla conversione in legge del decreto e, in più, darebbe al giudice del caso concreto il compito di valutare se il nuovo testo codifica effettivamente una probatio diabolica. In caso affermativo - ed è molto probabile che ciò accadrà - la questione ritornerebbe al vaglio della Consulta, che così avrebbe tutti i titoli, processuali e sostanziali, per giudicare nel merito, smascherando e annullando la truffa del nuovo ergastolo ostativo. La Consulta ha tre strade davanti al pasticcio dell’ergastolo ostativo di Giulia Merlo Il Domani, 8 novembre 2022 Restituire gli atti al giudice, rinviare di nuovo l’udienza o dichiarare l’incostituzionalità della nuova norma contenuta nel decreto legge: queste le ipotesi davanti ai giudici costituzionali. Delle tre, la prima ipotesi è la più probabile. Oggi, martedì 8 novembre, la Corte costituzionale terrà l’udienza sulla questione di costituzionalità dell’ergastolo ostativo. In una ordinanza, la Corte ha già dichiarato l’incostituzionalità del cosiddetto “fine pena mai”, che prevede che i detenuti ostativi condannati per reati di mafia, terrorismo o associazione per delinquere non abbiano modo di accedere ai benefici carcerari se non accettano di collaborare con lo stato. La legge che prevedeva una presunzione assoluta di pericolosità del detenuto che non ha collaborato è stata dichiarata incostituzionale ma la Corte aveva concesso del tempo al legislatore perché riformulasse la norma rispettando il principio della finalità rieducativa della pena. Ora il governo ha approvato un decreto legge che contiene anche questa nuova norma - che il precedente parlamento non aveva fatto in tempo ad approvare - ma anche il nuovo testo presenta profili problematici. In particolare, aumenta da 26 a 30 gli anni dopo i quali il detenuto “ostativo” può chiedere il beneficio, ma per ottenerlo senza collaborare deve dimostrare di aver reciso completamente i rapporti con la criminalità, di aver risarcito le vittime e di aver tenuto una condotta esemplare, su valutazione dei magistrati di sorveglianza. Questa previsione - che era stata redatta e votata dalla Camera con l’astensione anche di Fratelli d’Italia ma non è arrivata in Senato - è considerata problematica da molti giuristi. In particolare, si ritiene che si passi da una presunzione assoluta di pericolosità a una prova impossibile di non pericolosità. Nei fatti, quindi, per il detenuto rimane comunque impossibile accedere ai benefici penitenziari. In ogni caso, anche dopo l’approvazione del decreto legge che andrà convertito entro 60 giorni, la parola spetta comunque alla Consulta. La legge ordinaria, infatti, non supera automaticamente - in quanto successiva - il vaglio dei giudici costituzionali. In particolare, i giudici potranno percorrere tre strade. Restituisce gli atti - La prima e la più probabile è quella di restituire gli atti al giudice del procedimento. La questione dell’ergastolo ostativo, infatti, deriva da un ricorso incidentale, ovvero che nasce da un procedimento penale ed è stata sollevata da un giudice. Ora quello stesso giudice dovrà applicare la nuova norma del decreto. La Corte, dunque, gli può restituire gli atti della causa e dargli modo di valutare se la questione di costituzionalità si sia risolta. In altre parole: il giudice deciderà se, nella causa di ergastolo ostativo che sta trattando, la nuova norma risolve il dubbio di costituzionalità. Se così non fosse, lo stesso giudice potrà risollevare la questione davanti alla Consulta per un nuovo giudizio, questa volta sul nuovo testo. Rinvia di nuovo l’udienza - Una seconda strada per la Corte è quella di rinviare nuovamente l’udienza, come ha già fatto in due occasioni. Nei due casi precedenti, il rinvio serviva per dare tempo al legislatore di redigere la nuova disciplina. In questo caso, invece, potrà essere giustificato dall’esigenza di far decorrere i sessanta giorni per la conversione del decreto legge. Il fatto che le nuove previsioni siano contenute nel decreto legge le espone al fatto che, in sede di conversione in parlamento, queste vengano modificate. Quindi la Corte potrebbe decidere di rinviare fino a quando la nuova norma non sarà definitiva, così da esprimersi sul testo approvato dalle camere e non sul decreto legge potenzialmente modificabile subito dopo. Dichiara l’incostituzionalità - La terza strada astrattamente possibile ma anche la meno probabile è quella che la corte si esprima sulla costituzionalità del nuovo testo. La Corte può ritenere di trasferire la questione di costituzionalità sul nuovo decreto. Tradotto: può ritenere che la nuova disciplina di fatto non intacchi i rilievi di costituzionalità presentati con l’ordinanza. Quindi, sostituendo il vecchio testo con il nuovo, potrebbe esprimersi comunque dichiarandolo incostituzionale. Questa ipotesi, che significherebbe anche una forte censura politica all’operato del governo in carica, è però difficilmente concretizzabile. Il testo dell’attuale decreto legge, infatti, deve ancora essere convertito e quindi è provvisorio: per la Consulta, quindi, significherebbe censurare con l’incostituzionalità un testo che non è nemmeno ancora stato convertito in legge. Con tutta probabilità, dunque, la Corte sceglierà di restituire gli atti al giudice. Con il risultato che, con altrettanta probabilità, il giudice stesso lo rimanderà alla Consulta sollevando gli stessi dubbi di costituzionalità che aveva proposto sulla vecchia legge. Così si sarebbe di nuovo daccapo: con una legge sull’ergastolo ostativo appena convertita in legge e la Consulta pronta a dichiararla di nuovo incostituzionale. Ergastolo ostativo, i docenti di diritto: “Il decreto peggiora le cose” di Valentina Stella Il Dubbio, 8 novembre 2022 Oggi la pronuncia della Consulta, che potrebbe rinviare ancora la propria decisione, in attesa della conversione in legge del provvedimento governativo. Oggi la Corte costituzionale si riunirà nuovamente per discutere di ergastolo ostativo. Lo farà a otto giorni dal varo di un decreto legge con cui il governo Meloni ha affrontato pure questa materia. Da quanto appreso, l’Avvocatura dello Stato non ha presentato memorie, ma ha allegato agli atti il testo del decreto con una nota di Palazzo Chigi in cui si lascia intendere che il provvedimento si sarebbe adeguato alle indicazioni della Consulta. Secondo il professor Marco Pelissero, presidente dell’Associazione italiana di professori di Diritto penale, “la soluzione più lineare è quella secondo cui la Corte domani (oggi per chi legge, ndr) rinvii per la terza volta, in attesa che il Dl venga convertito. È vero che al momento è vigente, ma il testo potrebbe essere emendato dal Parlamento”. Quindi, in un contesto connotato da assenza di procedura specifica, lo scenario che ipotizza l’ordinario di Diritto penale all’Università di Torino è che “la Corte si aggiorni in modo da riunirsi di nuovo al termine dei 60 giorni previsti per la conversione, quindi probabilmente a inizio gennaio. A quel punto, se la riterrà contrastante con i principi in precedenza affermati, potrebbe dichiarare incostituzionale la nuova disciplina, sulla quale il giudizio di legittimità costituzionale si trasferirebbe; oppure, qualora ritenesse la nuova disciplina rispettosa dei principi a suo tempo fissati, dovrebbe rinviare gli atti al giudice rimettente, ossia la Cassazione, affinché applichi la nuova disciplina al caso concreto”. E se il decreto-legge non fosse convertito in legge dal Parlamento? “Ritengo questa ipotesi molto improbabile considerata la maggioranza che sostiene questo Governo. Comunque qualora non dovesse essere convertito, la Consulta sarebbe chiamata a pronunciarsi sulla disciplina originaria (ossia quella vigente prima dell’entrata in vigore del decreto-legge) della quale aveva già evidenziato i profili di illegittimità costituzionale, dichiarandone definitivamente l’incostituzionalità, nei termini che la Corte indicherà”. Intanto il Consiglio direttivo dell’Associazione presieduta da Pelissero ha pubblicato un durissimo documento contro il decreto legge del 31 ottobre su norma anti rave, rinvio della riforma Cartabia ed ergastolo ostativo, appunto. Su quest’ultimo punto i giuristi ritengono che “una serie di profili critici” “inaspriscono la disciplina dei c. d. reati ostativi in termini che vanno ben al di là delle indicazioni che erano state date dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 97/2021”. In particolare, “da parte dei detenuti o internati per uno dei reati ostativi, l’oggetto dell’allegazione si traduce in una sorta di probatio diabolica, in quanto diventa difficile, se non impossibile, addurre “elementi specifici” “che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”“. A questo si aggiunge il fatto che “non convince il passaggio da ventisei a trent’anni di pena scontata affinché i condannati alla pena dell’ergastolo possano accedere alla liberazione condizionale: il legislatore fa un passo indietro” “anche rispetto all’originaria disciplina, introdotta con l. 25 novembre 1962, n. 1634, che aveva stabilito che l’ergastolano potesse essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventotto anni di pena”. Inoltre “la nuova disciplina accentua, in termini manifestamente irragionevoli, la disparità di trattamento tra detenuto collaborante e non collaborante”; “appare altresì irragionevole l’estensione da cinque a dieci anni della durata della libertà vigilata”; “risulta parimenti ingiustificata l’estensione del novero dei reati ostativi al di là dei fatti di criminalità organizzata, comune e terroristica”. Insomma una stroncatura netta da parte degli esperti. Che non ci vanno leggeri, anzi, neanche in merito alla norma anti- rave: per i professori di diritto penale la nuova fattispecie di reato “appare frutto di una tecnica legislativa davvero approssimativa e lacunosa, e si distingue per indecifrabilità del tipo criminoso e incontrollabilità della sfera di applicazione”. Infatti “rimane imprecisato come e quando si realizzi un pericolo per l’ordine pubblico, per l’incolumità pubblica o per la salute pubblica, referenti di valore che risultano intrinsecamente affetti da irrimediabile vaghezza se non vengono tipizzate le modalità di offesa”. Per i giuristi “non si può fare, inoltre, a meno di rilevare come la previsione - quale massimo edittale della pena - della reclusione fino a sei anni comporti il fatto che, durante la vigenza del decreto- legge, possano prodursi effetti limitativi e restrittivi di diritti e libertà individuali che non sono circoscritti alla sola possibilità di effettuare intercettazioni. E la conseguenza di un evidente difetto di proporzionalità e ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, cui si aggiunge l’ingiustificata previsione dell’obbligatorietà della confisca delle cose indicate nel comma 4”. Ma forse l’aspetto più grave e non abbastanza evidenziato nel dibattito pubblico è l’ “incongruo inserimento di questa fattispecie tra le ipotesi di pericolosità specifica di cui al codice antimafia, legittimando in tal modo persino l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali. In definitiva, la fattispecie di cui all’art. 434 bis c. p. pone seri dubbi di legittimità costituzionale e convenzionale, sotto i diversi profili della determinatezza, della proporzionalità rispetto al diritto di riunione, e della ragionevolezza/proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio”. Infine, per quanto concerne il rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia, che tra l’altro prevede la riforma di diverse disposizioni del codice di procedura penale, l’Associazione esprime preoccupazione per il rinvio in blocco dell’entrata in vigore del decreto legislativo 150/ 2022, in quanto sono state coinvolte “anche le parti sulla riforma del sistema sanzionatorio penale che, non oggetto di peculiari criticità rilevate dalla dottrina e dalla prassi, avrebbe ben potuto entrare in vigore”. Docenti e magistrati divisi su norme antirave e reati ostativi di Giovanni Negri Il Sole 24 Ore, 8 novembre 2022 Le prime mosse del Governo in materia di giustizia dividono e fanno discutere non solo le forze politiche, ma anche accademia, magistratura e avvocatura. Con posizioni non sempre coincidenti tra le varie associazioni e gruppi organizzati, con sintonie inedite e rotture inaspettate. Il tutto mentre la Corte costituzionale l’8 ottobre si pronuncerà sul nuovo assetto dell’ergastolo ostativo. Tre le strade a disposizione: un nuovo rinvio della decisione, per verificare, a decreto legge convertito, la nuova disciplina; la restituzione degli atti alla Corte di cassazione per un nuovo accertamento dei profili di tensione costituzionale, anche dopo le modifiche; un verdetto di illegittimità. E sulle nonne, dall’Associazione dei professori di diritto penale arriva un affondo centrato su due punti principalmente: l’intervento sui reati ostativi e la nuova fattispecie antirave. Sul primo, si osserva che risulta impropria la previsione di una disciplina estremamente restrittiva sulle condizioni per essere ammessi ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale. Per i detenuti gli oneri di allegazione rischiano di essere una sorta di probatio diabolica. Preoccupa poi “il fatto che strumenti progettati per contrastare la criminalità organizzata, comune o terroristica, per la quale può essere ragionevole prevedere una disciplina penale più severa, purché in linea con le garanzie costituzionali e sovranazionali, vedano esteso il loro ambito applicativo, senza che vi siano specifiche evidenze empiriche che giustifichino peculiari presunzioni di pericolosità e regimi differenziati. Quanto al nuovo reato, questo “appare frutto di una tecnica legislativa davvero approssimativa e lacunosa, e si distingue per indecifrabilità del tipo criminoso e incontrollabilità della sfera di applicazione”. L’Associazione tra gli studiosi del processo penale, invece, vede accolto il proprio appello lanciato a poche ore dall’entrata in vigore della riforma Cartabia: il rinvio era ritenuto necessario per ottenere “un più attento coordinamento tra gli interventi abrogativi e la disciplina transitoria, in modo da mantenere sotto controllo le afasie sistematiche suscettibili di crearsi nell’impegnativo passaggio tra la precedente e la nuova disciplina normativa, la quale incide su innumerevoli e nevralgici settori dell’ordinamento processuale penale”. Ma lo slittamento dovrebbe anche incoraggiare futuri interventi normativi per meglio bilanciare il rapporto tra efficienza e garanzie, nel rispetto di tutti i principi del “giusto processo”. Una scelta tuttavia criticata duramente da un passato presidente dell’Associazione, Ennio Amodio che senza mezzi termini scrive di “brutta pagina” di condivisione del governo Meloni, di endorsment alla linea di politica giudiziaria del nuovo esecutivo. Frizioni anche all’interno della magistratura, dove Magistratura democratica mette nero su bianco che “il diritto penale è un delicato sistema che aggredisce la libertà della persona, imponendosene pertanto un uso sobrio e meditato. Per questo, intervenire con decreto legge per prevedere nuove fattispecie non è mai una buona idea”. Di più, la nuova fattispecie, per Md, non si applica solo ai rave party, ma entra in diretta collisione con l’articolo 17 della Costituzione, “affidando la selezione tra l’esercizio di un diritto costituzionalmente garantito (quello di riunione e manifestazione pubblica) e la consumazione di un gravissimo reato (punito con pene esemplari che vanno da tre a sei anni, oltre la multa) a giudizi prognostici, collegati non già ad un evento ben definito, ma a valutazioni soggettive”. Secca la conclusione, “se questo è il biglietto da visita del nuovo esecutivo in materia penale, ci aspetta una lunga stagione di resistenza costituzionale”. Prende le distanze Magistratura indipendente per la quale la magistratura non è e non deve mai diventare un attore della scena politica e, quanto al nuovo reato, per il segretario Angelo Piraino “la lamentela circa la compressione della libertà di riunione prevista dall’articolo 17 della Costituzione lascia, invece, perplessi, perché la norma sanziona innanzitutto l’invasione di terreni o edifici altrui e libertà di riunirsi non vuol dire libertà di invadere le proprietà altrui”. Concorda Unicost: “Siamo in democrazia - ricordala presidente Rossella Marro - e ciascuno è libero di scegliere il proprio canone di comunicazione. Noi riteniamo che la magistratura abbia un dovere, oltre che il diritto, di fornire il proprio contributo quando si parla di istituti giuridici di nuova adozione che possano avere un impatto sulla giurisdizione. Ma lo spirito deve essere di leale e corretta collaborazione”. Ergastolo ostativo, cosa non convince di Henry John Woodcock Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2022 Sono perplesso sul binomio inscindibile tra concessione dei benefici per un mafioso e il concetto di pentimento, che il nostro legislatore declina solo come confessione, o peggio “delazione”. Come è noto a tutti, l’11 maggio 2021 sono state depositate le motivazioni dell’ordinanza n. 97/2021 con la quale la Corte costituzionale si è pronunciata sull’annosa questione della legittimità costituzionale del così detto “ergastolo ostativo”, nozione elaborata nei primi anni 90 nel contesto di quella “legislazione di emergenza” - che rappresentò la risposta dell’ordinamento alle stragi di mafia e, prima ancora, del terrorismo che avevano insanguinato il Paese. Si tratta di una normativa che prevede una serie di limitazioni alla concessione di benefici (quali l’accesso al lavoro esterno, ai permessi premio, alla semilibertà, alle misure alternative alla detenzione e, da ultimo, alla liberazione condizionale) per i detenuti condannati all’ergastolo per delitti commessi con metodo o finalità mafiosi, salvo che il detenuto non abbia collaborato con la giustizia. Un regime dunque che - in una logica squisitamente “neo retribuzionistica” - ha delineato un sistema mirante all’annientamento di un presunto “nemico”, e bandito qualsivoglia prospettiva di un suo reinserimento nella società civile, lasciandogli come unica via d’uscita la “scelta” imposta di collaborare con la giustizia. Ebbene, tale sistema è stato definitivamente scardinato dalla pronuncia della Corte costituzionale del 15 aprile 2021 con la quale la Consulta, sulla base delle precedenti sentenze della stessa Corte e della Cedu, sembra aver definitivamente eliminato il sopra richiamato automatismo della presunzione assoluta di pericolosità sociale fissata dall’articolo 4 bis dell’ordinamento penitenziario, riaffermando, anche rispetto ai detenuti condannati all’ergastolo per i delitti di mafia e di terrorismo, il fondamentale principio della polifunzionalità della pena, e in particolare la funzione rieducativa della pena stessa sancita dal 3 comma dell’articolo 27 della Costituzione, passando, tuttavia - con una tecnica che, a mio avviso, non può che suscitare qualche perplessità - il “testimone” al legislatore ordinario che dovrà, entro il termine di un anno, approntare una riforma che sia coerente con i principi affermati dalla Consulta. Per quanto mi riguarda, la disciplina dell’ergastolo ostativo di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario mi ha lasciato da sempre non poco perplesso. E qualche perplessità mi viene anche dalla pronuncia della Corte costituzionale dell’aprile 2021, sia per la tecnica utilizzata del rinvio al legislatore, sia per alcune indicazioni che la stessa Consulta, tra le righe, sembra dare sulla scelta dei parametri e dei criteri a cui dovrà essere ancorata l’abolizione della preclusione alla concessione della libertà condizionale (mi riferisco in particolare al passo nel quale il giudice delle leggi suggerisce che il legislatore potrebbe fissare, tra le condizioni cui subordinare la concessione dei benefici, anche la sussistenza o l’accertamento di “specifiche ragioni della mancata collaborazione” da parte del detenuto condannato all’ergastolo per i delitti sopra indicati). Invero, ho solo avuto - per ragioni anagrafiche - la possibilità di ascoltare e di leggere nei media alcuni interventi di Giovanni Falcone, acuto e tenace investigatore, unico e “moderno”, e mi è parso in tutta franchezza culturalmente e ideologicamente lontano da alcune delle più che rispettabili posizioni che capita in questi giorni di leggere sui giornali. Mi auguro tuttavia di non essere tacciato e additato come uno che non rispetta la sua memoria e degli altri “eroi” che hanno immolato la loro vita per contrastare mafia e terrorismo, se dico e sostengo in modo convinto che l’aspetto più odioso della disciplina ostativa dell’ordinamento penitenziario è proprio quello di aver subordinato la concessione di benefici (e il venir meno della presunzione assoluta di pericolosità) alla collaborazione, e quindi a una condotta delatoria del detenuto. Ciò che giustifica pienamente il sospetto che si tratti in realtà di un regime che vuole punire chi non “si pente” o, peggio ancora, di una sorta di tortura intesa a favorire la “collaborazione”, e ciò perché per “pentimento” nella nostra prassi giudiziaria non si intende affatto quel travaglio morale che porta a una revisione critica del proprio passato, e di conseguenza a un autentico ravvedimento con la conseguente decisione di cambiare vita. No, significa solo confessione e, soprattutto, delazione. Insomma, proprio la finalità tipica che si propone la tortura. Orbene, proprio questo è il fulcro e l’aspetto nodale della questione tornata, negli ultimi giorni, agli onori della cronaca. Il problema non è quello di stabilire se un numero più o meno elevato di mafiosi debbano o meno uscire dalle “patrie galere” (come invece, per la verità in modo un po’ semplicistico, viene mediaticamente rappresentato); non si tratta, cioè, di stabilire se soggetti (mafiosi e non) che hanno anche ammazzato decine di persone spesso innocenti, possano, in assoluto, godere o meno di alcuni benefici. Si tratta, invece, di stabilire se la collaborazione (e cioè se la delazione) costituisca o meno l’unico e solo presupposto che consenta di accedere ai benefici in questione a quelle stesse persone che hanno commesso quegli stessi crimini efferati, stabilendo, dunque - evidentemente solo in relazione a tale categoria di detenuti - una coincidenza esclusiva e una assoluta sovrapponibilità tra il percorso “rieducativo” cui fa riferimento l’art. 27 della Costituzione e la delazione. È proprio questo binomio inscindibile, ovvero questo vero e proprio sillogismo aristotelico tra la concessione dei benefici e la delazione che non solo non mi convince, ma che trovo personalmente in qualche modo aberrante, oltreché in stridente contrasto con la sopra richiamata funzione rieducativa della pena stessa sancita dal richiamato 3 comma dell’articolo 27 della Costituzione, e la Costituzione è una “cosa seria” che va applicata sempre e comunque e non una volta sì e una volta no. Dunque, il legislatore del rinvio dovrà - almeno a mio modesto avviso - oltremodo valorizzare, come fondamentale parametro da utilizzare ai fini di tale delibazione, l’aspetto rappresentato dal tempo trascorso in espiazione della pena. Come anche la Corte costituzionale ha avuto modo di osservare in passato, il trascorrere del tempo modifica qualsiasi cosa, purtroppo o per fortuna, da tutti i punti di vista; in oltre un quarto di secolo tutto cambia (o comunque non può a priori escludersi che tutto cambi), dalla natura e dal vissuto del condannato, fino alle dinamiche e agli equilibri criminali. È evidente che, trattandosi di detenuti condannati alla pena dell’ergastolo per reati gravissimi, occorre necessariamente che il passare del tempo si accompagni a un conclamato percorso di ravvedimento e di autentica dissociazione dall’originario contesto criminale, emblematico, dunque, dell’autentica volontà del detenuto di reinserirsi nella società. Ma un tale percorso non ha nulla a che vedere con la “delazione” che spesso, come si diceva, è sintomatica di tutto, tranne che di autentico ravvedimento. Gratteri sarà il nuovo capo del Dap? di Tiziana Maiolo Il Riformista, 8 novembre 2022 Sarebbe un vero tragico poker d’assi nemico della giustizia, se il governo Meloni accompagnasse le prime tre carte - ergastolo ostativo eterno, riforma Cartabia rinviata e insidiata, decreto sul divieto di riunione - con la quarta, quella decisiva per il poker, la cacciata del capo del Dap, Carlo Renoldi. E la sua sostituzione con un campione dell’antimafia come Nicola Gratteri. Non è un incubo, la possibilità c’è. Se ne parla nel mondo delle toghe e i sostenitori del procuratore di Catanzaro, che da tempo sta cercando una nuova casa (gli andrebbe bene Napoli, ma dirigere il mondo delle carceri sarebbe il massimo), stanno già affilando i coltelli. E preparandogli il biglietto di viaggio per Roma. Sarebbe una bella compensazione, dopo il fallimento delle sue aspirazioni su Milano, il vertice della procura antimafia e il Csm, oltre a tutto il meglio retribuito. Si tratta di 320.000 euro all’anno, che si trasformano in vitalizio al termine dell’incarico, anche quando fosse stato breve. Ma noi sappiamo che il dottor Gratteri più che altro ha vere ambizioni di tipo professionale e di politica giudiziaria. In questo momento è un vero capo, con i suoi blitz e i maxi-processi in Calabria, dopo che sono tramontati i vari Scarpinato di Sicilia. E soprattutto perché la ‘ndrangheta calabrese pare ormai l’unica forma di mafia esistente, anche se somiglia più a un insieme di comitati d’affari che non di criminalità sanguinaria. Ora però, se davvero esiste la candidatura Gratteri al Dap e se veramente esiste qualcuno nel governo, magari la stessa Presidente Meloni, intenzionato a dare una svolta così radicale sul carcere, si aprono problemi gravissimi. E se è vero, principio cui crediamo moltissimo, che la civiltà di un Paese si misura sulle sue prigioni, dovremmo concludere che ci stiamo avviando non a nuove forme di neo-fascismo, ma sicuramente a una precipitazione nell’inciviltà. In cui il “carcere normale”, quello in cui in cella si va solo a dormire, voluto e creato dal direttore Luigi Pagano quando inventò Bollate, e dai pochi riformatori che si sono avvicendati alla guida degli istituti di pena, lascerà il posto a una storia che conosciamo già. Quella in cui il Dap era diretto dai pm antimafia. I quali hanno dimostrato non solo di non aver mai visto un carcere nel corso della loro carriera, ma anche di aver portato con sé all’interno delle mura la forma mentis dell’”antimafia”. Quella per cui tutto è criminalità organizzata, tutti i detenuti che non collaborano con l’accusa sono irriducibili destinati a morire in galera. La storia di questi ultimi anni ha messo più di una volta sotto i riflettori il metodo-Gratteri: grandi retate, pesca a strascico, ricerca del consenso e della pubblicità, lamentazione se i giornali non danno sufficiente rilievo al blitz, conferenze stampa in cui si privilegia la presenza tra gli arrestati di “colletti bianchi” rispetto agli uomini d’ onore. Nessuna importanza per il fatto che subito dopo, tra decisioni di gup, tribunali del riesame e Cassazione, il castello delle accuse cominci a sgretolarsi. E la famosa area grigia delle complicità si riduca al famoso concorso esterno, dopo che i fatti a base dell’accusa non esistono più. Poi nasce il “Rinascita Scott”, con centinaia di imputati. E si costruiscono il Maxiprocesso, la Maxi-aula e il Maxi-flop, con giudici ricusate che si astengono ma vengono tenute lì, in modo illegittimo. O addirittura, come nel caso della dottoressa Germana Radice, giudice istruttore in una causa civile che riguarda l’imputato avvocato Francesco Stilo, che viene chiamata a fare parte del collegio del “Rinascita Scott”, dove sia pure in veste di supplente, si ritrova a giudicare in chiave penale lo stesso imputato. Anomalie di un processo anomalo. Nel quale però con pervicacia si mantengono agli arresti lo stesso avvocato Stilo, gravemente malato di leucemia e il suo collega Giancarlo Pittelli, che il dottor Gratteri vorrebbe addirittura rispedire in carcere. Si, è proprio adatto a dirigere il Dap, il procuratore di Catanzaro. È il più adatto a tenere in mano le chiavi delle prigioni e a non aprire quelle porte. Chi sarà mai, al suo cospetto, quel giudice della sparuta sinistra garantista di nome Carlo Renoldi che è stato chiamato a dirigere le carceri nella “primavera Cartabia”? Certo, non uno che cita Giovanni Falcone solo per ingaggiare una gara della serie il mio Maxi è più lungo del tuo, ma per ricordarne lo spirito riformatore. Quello che piace anche al ministro Carlo Nordio, come la separazione delle carriere e i principi del processo accusatorio. Per questo non crediamo che mai il neo-guardasigilli potrà coltivare l’idea balzana di tornare a mettere a capo del Dap un pm “antimafia” e soprattutto uno come il dottor Gratteri. L’idea, pensiamo, sarà venuta a qualcun altro. Poi, se proprio i due non si conoscono, l’ex procuratore di Venezia potrebbe sempre telefonare a un altro suo ex collega, l’ex procuratore generale Otello Lupacchini. Quello che aveva con successo condotto l’inchiesta sulla “mafia del Brenta” e che è andato in pensione con un po’ di anticipo a causa dei capricci del suo caro “amico” di Catanzaro. Tenga a dirigere il Dap Carlo Renoldi, signor ministro, perché è un bravo giudice e un riformatore. Lasci perdere Gratteri, se non vuole essere ricordato come colui che dopo la “primavera Cartabia” ci ha fatto precipitare nell’”autunno Nordio”. L’anarchico Cospito in sciopero della fame al 41 bis. Il caso arriva in Parlamento di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 8 novembre 2022 Dal 20 ottobre non mangia più. È al regime duro del Bancali per aver veicolato pensieri anarchici pubblici. Il senatore De Cristofaro si rivolge al ministro Nordio: “Stravolto il senso del 41 bis”. È al 41 bis e da venti giorni è in sciopero della fame. Parliamo dell’anarchico Alfredo Cospito, una vicenda che Il Dubbio ha approfondito dopo che la guardasigilli precedente gli ha disposto il carcere duro. Una misura che ha sollevato numerose critiche da parte di diversi avvocati. Ora la sua vicenda arriva in parlamento grazie a una interrogazione parlamentare sollevata dal senatore Giuseppe De Cristofaro di Alleanza Verdi e Sinistra. Rivolgendosi al ministro della Giustizia Carlo Nordio, il senatore De Cristofaro premette che Alfredo Cospito, detenuto all’interno della casa circondariale di Bancali, a Sassari, ha intrapreso dallo scorso 20 ottobre lo sciopero della fame per denunciare le condizioni cui si trova costretto dal regime del 41 bis, al quale è sottoposto dall’aprile 2022, nonché per protestare contro l’ergastolo ostativo comminatogli. Un reato che non è stata contestato neanche per le stragi di mafia - L’interrogante, ricorda che nel corso della recente vicenda giudiziaria conclusasi nel luglio scorso, Cospito ha riportato nei primi due gradi di giudizio condanna per strage contro la pubblica incolumità (art. 422 del codice penale) per due ordigni a basso potenziale esplosi presso la scuola allievi Carabinieri di Fossano, senza causare né morti né feriti. Un reato che prevede la pena non inferiore ai 15 anni. Lo scorso luglio, tuttavia, la Cassazione ha riqualificato il fatto in strage contro la sicurezza dello Stato (art. 285 del codice penale), reato che prevede l’ergastolo, anche ostativo, pur in assenza di vittime. Nello specifico, si evidenzia - come tra l’altro ha sottolineato Il Dubbio - che quella della strage contro la sicurezza dello Stato è una fattispecie che non è stata contestata nemmeno agli autori degli attentati che uccisero i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. “Considerato che fino all’aprile scorso, essendo stato Cospito sottoposto per 10 anni al circuito vigente nelle sezioni di cosiddetta alta sicurezza (AS2), il detenuto poteva comunicare con l’esterno, inviare scritti e articoli e così partecipare al dibattito della sua area politica, contribuire alla realizzazione di due libri, ricevere corrispondenza e beneficiare dell’ordinario regime trattamentale in termini di socialità, colloqui visivi e telefonici, ore di aria, palestra e biblioteca”, sottolinea il senatore De Cristofaro rivolgendosi al ministro della Giustizia. “Da quando è sottoposto al regime del 41-bis - prosegue l’interrogazione parlamentare - e più precisamente a far data dal maggio 2022, le lettere in entrata vengono trattenute e questo, di conseguenza, induce il detenuto a limitare e ad autocensurare le proprie”. Viene ricordato che al 41 bis del carcere di Bancali, le ore d’aria dell’anarchico Cospito sono ridotte a due, interamente trascorse in un cubicolo di cemento di pochi metri quadrati; la “socialità” è limitata a un’ora al giorno, il detenuto non ha inoltre accesso alla biblioteca di istituto, e fruisce di un unico colloquio mensile e nessuna telefonata. Il senatore De Cristofaro: “Stravolto il senso del 41 bis!” - Il senatore del gruppo Alleanza Verdi e Sinistra, sottolinea che questa condizione detentiva ha gravi conseguenze sul benessere psicofisico di Cospito traducendosi in una vera e propria deprivazione sensoriale, che finisce “con l’ottundere e deprimere la sua personalità e se tali condizioni venissero protratte ulteriormente condurrebbero ad un concreto ed irrimediabile danno alla salute”. Non solo, a parere del senatore (che è anche il parere degli avvocati che firmarono l’appello redatto dal legale di Cospito, Flavio Rossi Albertini, assieme alla sua collega Maria Teresa Pintus che l’assiste al carcere duro di Bancali) nella vicenda si è al cospetto “di uno stravolgimento del senso del regime di cui all’art. 41-bis dell’ordinamento penitenziario, posto che non è coerente con la ratio della norma l’estensione del regime differenziato ad un anarchico individualista”. Nel dettaglio, infatti, il regime nasce per impedire i collegamenti tra il detenuto e l’associazione criminale di appartenenza, mentre nel caso specifico si sarebbe inteso perseguire la finalità di interrompere e impedire a Cospito di continuare a esternare il proprio pensiero politico, attività, tra l’altro, da lui svolta pubblicamente, pertanto, né occulta né segreta, destinata non agli associati, bensì ai soggetti gravitanti nella sua area politica di appartenenza. Sempre a giudizio dell’interrogante, l’aver inteso il rapporto epistolare di Cospito con l’area anarchica quale comunicazione tra sodali irradia di luce fosca l’essenza argomentativa del provvedimento ministeriale, il quale sottintende una valutazione di appartenenza di tutti gli anarchici, indistintamente considerati, al sodalizio per cui è stato condannato lo stesso Cospito. “Tutto ciò - solleva l’interrogazione parlamentare - in mancanza di alcuna evidenza giudiziaria, posto che mai, in nessuna inchiesta, si è proposto un simile teorema, e ciò perché rappresenterebbe uno sfregio all’assetto giuridico costituzionale liberale che tutela qualsiasi ideologia, anche la più odiosa, come più volte ricordato dalla Corte suprema di cassazione”. Ancora non è stata fissata l’udienza per il reclamo del difensore - L’interrogazione rivolta al guardasigilli evidenza il fatto che la magistratura di sorveglianza non ha ancora fissato e conseguentemente celebrato l’udienza camerale stabilita dall’art. 41-bis, comma 2-sexies, dell’ordinamento penitenziario a seguito del reclamo proposto dal difensore, nonostante la disposizione normativa preveda il termine di 10 giorni per deliberare sul decreto applicativo del ministro. Cosicché nonostante il detenuto si trovi sottoposto da 6 mesi al peculiare e afflittivo regime detentivo ed abbia intrapreso lo sciopero della fame, l’autorità giudiziaria non si è ancora espressa in merito al provvedimento adottato dall’Esecutivo. Per tutti questi motivi, il senatore chiede se il ministro della giustizia non ritenga doveroso riesaminare le motivazioni poste a fondamento del decreto adottato dal suo predecessore ed eventualmente intraprendere le misure necessarie atte a ripristinare la coerenza tra regime differenziato e ratio della norma; se non reputi di dover disporre dei propri poteri ispettivi previsti dalla legge, al fine di comprendere le ragioni del ritardo nella fissazione dell’udienza per decidere il reclamo; se sia a conoscenza delle motivazioni giuridiche che hanno indotto la Corte di Cassazione ad adottare la qualificazione giuridica dell’art. 285 del codice penale per un fatto certamente grave, ma non equiparabile ad altre vicende storico-giudiziarie avvenute in Italia qualificate ai sensi dell’art. 422 del codice penale, anche in considerazione del fatto che attribuire all’episodio criminoso citato l’idoneità di attentare alla sicurezza dello Stato presuppone, ad avviso dell’interrogante, “un giudizio tendenzioso in ordine alla fragilità delle istituzioni democratiche del Paese”. Nel frattempo, diversi gruppi anarchici si mobilitano attraverso azioni simboliche contro il 41 bis e l’ergastolo ostativo. Domenica mattina, a Milano, due militanti del circolo Galipettes, un uomo e una donna, sono saliti in cima alla gru che svetta nel cantiere di via Verdi della Scala. E lì hanno srotolato uno striscione nero con la striscia bianca “41 bis=Tortura”. “Abolire la legge Severino serve solo a tutelare la casta: pure Nordio sbagliava” di Gianni Barbacetto Il Fatto Quotidiano, 8 novembre 2022 Felice Casson è stato senatore indipendente nelle liste Pd dal 2006 al 2018, Felice Casson, dopo aver fatto il giudice istruttore e il pm a Venezia, indagando sull’eversione nera, Gladio, i reati ambientali di Porto Marghera. “Dopo la politica, non ho ritenuto opportuno tornare a fare il magistrato: sono andato in pensione e ora sono in Colombia e Messico per conferenze e incontri sui desaparecidos, sui delitti ambientali e la corruzione”. Negli anni in cui fu varata la legge Severino, lei era senatore, componente della commissione Giustizia e della giunta delle Elezioni e delle immunità parlamentari, quella che decretò l’uscita di Silvio Berlusconi dal Senato dopo la condanna definitiva per frode fiscale... Sì, e ancora ricordo il mio stesso stupore per il comportamento dei parlamentari di Forza Italia, che votarono la legge Severino, senza rendersi conto che il loro capo stava andando verso la condanna definitiva che lo avrebbe fatto escludere dal Parlamento. Sono trascorsi dieci anni dal varo di quella legge. Ha funzionato? Che bilancio possiamo fare oggi? Ha funzionato bene. Ha dato un segnale importante, che andava dato, in un momento in cui la credibilità dei politici italiani era bassissima. È stata necessaria, per convincere gli italiani che comunque c’erano in Parlamento dei politici che volevano cambiare la situazione, che rispettavano la Costituzione la quale impegna i politici a servire le istituzioni con dignità e onore. Oggi molti la vorrebbero cambiare. O eliminare... Sarebbe un pessimo segnale politico e sociale. Negativo per i cittadini che ancora non si fidano dei politici, positivo per i politici che cercano in tutti i modi di abbassare il livello di controllo di legalità. Molti dicono che la legge Severino va modificata perché è “retroattiva”, perché colpisce comportamenti anche precedenti alla sua entrata in vigore... Sì, lo dice anche l’attuale ministro della Giustizia Carlo Nordio. Non deve aver letto le sentenze delle Corti supreme, della Cassazione e delle Corti europee, che ribadiscono che la decadenza e l’ineleggibilità previste dalla legge Severino non sono pene accessorie, ma sanzioni amministrative collegate al fatto reato. Dunque la retroattività non c’entra nulla. Abolire o modificare la legge Severino, allargandone le maglie - come in qualche momento vorrebbe fare anche il Pd - sarebbe un segnale pessimo per la politica. Sarebbe un segnale di tutela della casta. La legge andrebbe invece rafforzata. E i parlamentari che siedono nella giunta delle Elezioni e delle immunità dovrebbero agire e decidere come giudici imparziali, non come colleghi di casta. Un politico o amministratore, insomma, è ineleggibile o decade dalla carica - secondo la legge Severino - per il suo stato presente di condannato, anche se i fatti per cui è stato condannato sono precedenti. Ma oggi si vorrebbero ammorbidire anche abuso d’ufficio e intercettazioni... È già stato abolito l’interesse privato in atti d’ufficio (articolo 324) e ci si è concentrati sul cosiddetto “abuso innominato” (articolo 323) che è stato comunque anch’esso più volte cambiato, anche dal centrosinistra. Si sono allargate le maglie della legge, sostenendo che un sindaco o un amministratore non può firmare alcun atto perché rischia sempre di commettere un reato. Ma non è vero. Nordio vorrebbe ridurre anche le intercettazioni, che invece in Italia sono uno strumento fondamentale di contrasto alla criminalità. Il decreto sui rave punta solo a colpire le manifestazioni, per questo va abrogato di Gaetano Pecorella Il Dubbio, 8 novembre 2022 La politica si è divisa in due fazioni nettamente contrapposte rispetto alle norme in materia di occupazioni abusive e organizzazione dei “raduni illegali”, introdotte con il decreto legge 31 ottobre 2022, b. 162: lo schieramento di centro- destra giura che si tratta di impedire i rave che violano la proprietà pubblica o privata e sono occasione di uso collettivo di droga, e, conseguentemente, che non limitano la libertà di riunione prevista dall’art. 17 della Costituzione. Lo schieramento di centro- sinistra sostiene al contrario che è in gioco un diritto costituzionale, che è una norma mal scritta e che, comunque, è una norma inutile perché a tutela di terreni e edifici c’è già l’art. 633 c.p. L’opinione pubblica, a questo punto, non può che essere perplessa, visto che si tratta di interpretare una legge penale, e che l’interpretazione non può essere così profondamente diversa a seconda delle diverse posizioni politiche: tant’è che, fuori dalle stanze della politica, c’è la sensazione che né gli uni, né gli altri, siano credibili, e che o gli uni o gli altri stanno imbrogliando sulla vera portata di quelle norme. È così che la distanza tra la classe politica e il Paese si fa sempre maggiore, e la fiducia sempre più scarsa. Non si può negare che “l’uomo qualunque” abbia ragione: le norme debbono essere interpretate secondo delle precise regole ermeneutiche e, se anche ammettono interpretazioni diverse, debbono consentire una lettura condivisa quanto meno dei beni protetti e del loro scopo. Al lume di queste regole è possibile comprendere se l’art. 434- bis c. p. è un attacco alla Costituzione, e in particolare al diritto di riunione, o se, per quanto scritto male, e addirittura superfluo, questo articolo ci lascia tranquilli in quanto non limita il diritto di riunione o altri diritti costituzionali. La disposizione va letta all’interno del sistema penale partendo proprio da quell’art. 633 c. p. che, secondo molti, renderebbe inutile il nuovo intervento del legislatore, posto che le due norme sono sostanzialmente sovrapponibili. Questa lettura “integrata” dell’art. 434- bis c. p. ci darà una risposta non politica, ma strettamente tecnica: ci dirà se è una norma “ideologica”, nel senso che incide sui diritti del cittadino, o se è una norma “tecnica”, magari scritta male, ma fuori da ogni sospetto di incostituzionalità. La lettura parallela e sistematica delle due norme ci dà un risultato sorprendente, nel senso che l’art. 633 c. p. sembra più facilmente applicabile ai c. d. rave party (o free party), mentre l’art. 434- bis c. p. appare scritto su misura per colpire talune manifestazioni politiche collettive. Qual è, dunque, la differenza tra le due fattispecie? L’art. 633 c. p. punisce, a querela della persona offesa, “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto”. La pena è aumentata, e si procede d’ufficio, “se il fatto è commesso da più di cinque persone”. L’art. 434- bis c. p. richiede che l’invasione di terreni o edifici, pubblici o privati, deve avere lo scopo di “organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. L’invasione deve essere commessa da un numero di persone superiore a cinquanta”. È subito evidente che l’art. 633 c. p. è sempre applicabile ai rave- party, senza che sia richiesto un determinato numero di persone, né che vi sia lo scopo di riunirsi, né che vi sia un pericolo per l’incolumità o l’ordine pubblico. Perché mai l’invasione deve essere commessa da più di cinquanta persone, piuttosto che trenta o sessanta? Come può conoscersi il numero originario degli “invasori” se a questi si sono aggiunti altri soggetti a invasione compiuta? Né dai rave party può derivare, di regola, un pericolo per la pubblica incolumità, per la salute pubblica, e per l’ordine pubblico. Il codice penale conosce i reati contro l’ordine pubblico, contro l’incolumità pubblica e contro la salute pubblica. I delitti contro l’incolumità e la salute pubblica sono previsti dal Titolo VI del II libro del codice penale, e consistono in fatti che presentano la caratteristica di esporre a pericolo la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone. Per usare le parole di un insigne giurista: tali reati hanno una tal forza espansiva da produrre “effetti che trascendono i singoli colpiti o minacciati, in quanto si propagano o possono propagarsi a un numero rilevante e non determinabile di individui” (Antolisei). Fanno parte di questa categoria la strage, il disastro, gli attentati, l’epidemia, il commercio di sostanze pericolose ecc. I rave party, però, si svolgono in luoghi appartati, fuori da ogni contatto con un numero indeterminato di individui, con un rischio eventualmente per chi vi partecipa, e non certo per la popolazione. Sino ad oggi, almeno, è sempre stato così. I reati contro l’ordine pubblico sono previsti nel Titolo V del libro II del codice penale. Pur segnalando che la determinazione esatta delle caratteristiche di questa classe di reati “non è scevra di difficoltà”, si definisce come ordine pubblico - ai fini del diritto penale - “il buon assetto e il regolare andamento della vita sociale: è l’armonica pacifica coesistenza dei cittadini sotto la sovranità dello Stato”. In breve: i reati contro l’ordine pubblico si sostanziano, il più delle volte, nel “turbamento della pace pubblica” (Antolisei). Per l’esperienza del nostro Paese i rave party si sono svolti sempre in aperta campagna o in un capannone abbandonato. Come possono aver turbato la “pace sociale”? Il codice comprende in questa categoria la pubblica istigazione a violare le leggi, l’associazione per delinquere, l’associazione di tipo mafioso, la devastazione e il saccheggio, ecc. Le rave party hanno lo scopo di trovarsi per ascoltare la musica, eventualmente per consumare droga (fatto che non costituisce reato): tant’è che, ove il capannone, o il terreno, fossero presi in affitto, non ricorrerebbe alcuna delle ipotesi di reato contro l’ordine pubblico. È ben diversa la situazione che si profila per le manifestazioni politiche o sindacali. In questo caso vi è una vera e propria “riunione”, che è richiesta dall’art. 434- bis c. p., e non dall’art. 633 c. p., e consiste nell’adunanza di più persone che si trovano per discutere, conversare, o come forma di protesta collettiva. È in questo senso che la parola “riunione” viene utilizzata nell’art. 17 della Costituzione secondo cui i cittadini hanno diritto di riunirsi pacificamente e senz’armi, disposizione che è collocata tra i diritti e i doveri dei cittadini, unitamente al diritto alla libertà personale, alla inviolabilità del domicilio, alla libertà e segretezza della corrispondenza, alla libertà di circolazione. Fuori dai conflitti politici, dai pregiudizi, dagli interessi di parte, l’analisi parallela degli art. 434- bis c. p. e 633 c. p., letti alla luce del sistema penale, porta alla conclusione che l’art. 633 c. p. era ed è sicuramente applicabile ai rave party, mentre l’art. 434- bis c. p. è più direttamente applicabile alle occupazione di scuole o università, all’occupazione delle fabbriche, ai picchetti, alle manifestazioni di piazza, ecc., e pertanto non è modificabile: la sola strada praticabile è la sua abrogazione, bastando per i rave party l’art. 633 c. p., che, inspiegabilmente, non risulta applicato né a Viterbo, né a Modena. *Avvocato penalista, già presidente della Commissione Giustizia alla Camera Le Iene sono pericolose, chi sarà la prossima vittima del loro manganello televisivo? di Selvaggia Lucarelli Il Domani, 8 novembre 2022 Sono due decenni che si assiste allo scempio che le Iene fanno del giornalismo, che accettiamo le immagini di macchiette in giacca e cravatta all’inseguimento di persone per strada, sul proprio posto di lavoro, nelle proprie abitazioni private. A microfoni sbattuti sui denti per strappare manate e parolacce che serviranno a dimostrare chi è il cattivo, a errori grossolani, a giustizialismo spacciato per giustizia, a ghigliottina spacciata per giornalismo. Le Iene sono un programma socialmente pericoloso. Lo sostengo da anni, ho scritto numerosi articoli (l’ultimo due settimane fa) denunciando la disinformazione che la squadra di Davide Parenti continua a diffondere da Stamina in poi, ma il problema non è mai stato solo questo. Come più volte ho ricordato, il problema a monte è il metodo. Sono due decenni che si assiste allo scempio che le Iene fanno del giornalismo, che accettiamo le immagini di macchiette in giacca e cravatta all’inseguimento di persone per strada, sul proprio posto di lavoro, nelle proprie abitazioni private. A microfoni sbattuti sui denti per strappare manate e parolacce che serviranno a dimostrare chi è il cattivo, a errori grossolani, a giustizialismo spacciato per giustizia, a ghigliottina spacciata per giornalismo. La tv usata come manganello sui detrattori, da sempre. E’ per questo che quello che è accaduto in questi giorni - il suicidio di un uomo a seguito di un servizio di Matteo Viviani e Marco Fubini de Le Iene- non mi stupisce affatto. I precedenti - Il metodo di lavoro di Matteo Viviani è noto e ne avevo parlato su Domani di recente. L’inviato, ex modello e ballerino in discoteca, è anche quello che fece disinformazione sul fenomeno Blue Whale (che non è mai stato un fenomeno, per giunta) montando immagini di finti suicidi di adolescenti con conseguenze molto gravi. Ma è anche colui che si occupa spesso di pedofilia utilizzando il mezzo tv con estrema superficialità quando va bene e con drammatiche conseguenze quando va meno bene. Un prete, nel 2010, si è gettato sotto un treno a seguito di un servizio di Viviani in cui un attore lo aveva trascinato in una trappola per dimostrare che adescasse ragazzini. Ovviamente quel prete era stato riconosciuto, licenziato, si sentiva addosso lo stigma. “II suicidio del prete mi ha scosso, sì. Quando, dall’altra parte, c’è una persona palesemente colpevole di qualcosa di orribile come può essere la pedofilia, tutti noi ci siamo autorizzati a scrivere ‘Ti sparerei’, ‘Ammazzati’. Ma quando vieni a sapere che una persona si è tolta la vita a causa dell’interazione che ci è stata fra te e lui… beh, pensi tanto. Pensi ai suoi genitori. Pensi alle persone, ignare della sua ‘deviazione’, che gli volevano bene. Non soffrire di una simile notizia denoterebbe ottusità mentale. Ho tanti difetti, ma non quello di essere ottuso”, aveva dichiarato proprio Matteo Viviani in un’intervista sull’accaduto. Dopo dieci anni, un altro uomo si è suicidato a seguito di un servizio da lui confezionato: ben 22 minuti, roba che neppure su Totò Riina. Ma andiamo ai fatti. Matteo Viviani ha raccontato la brutta storia di catfishing con epilogo drammatico che ha coinvolto Roberto, 64 anni, e il ventiquattrenne Daniele. Il catfishing è una sorta di inganno via web che consiste nel crearsi un’identità falsa per raggirare gli altri, spesso intrattenendo rapporti sentimentali che durano mesi o anni e non necessariamente a scopo di lucro. Talvolta, dietro a questi inganni, ci sono persone con disturbi della personalità o che fanno fatica ad ammettere il proprio orientamento sessuale e che dietro una falsa identità sui social possono essere quello che non riescono ad essere nella vita reale: uomini che si fingono donne e viceversa. In questo caso, il sessantaquattrenne Roberto fingeva di essere un’avvenente ragazza di nome Irene. Con questa falsa identità aveva adescato Daniele, con cui aveva avuto una relazione virtuale per circa un anno, finché l’altro non aveva scoperto l’inganno e si era suicidato. Era seguito un processo, il sessantaquattrenne era stato condannato a una multa per sostituzione di persona ma non era stato ritenuto colpevole del suicidio del ragazzo (le altre ipotesi di reato erano state archiviate). Insomma, tra processo e multa, Roberto aveva pagato il suo debito con la giustizia. I genitori del ragazzo suicida però ritenevano comprensibilmente che la giustizia fosse stata troppo clemente con lui e se ne erano lamentati pubblicamente, chiedendo maggiore severità per queste condotte. Doppia punizione - E qui arrivano le Iene. Iene che non si accontentano di raccontare la storia e accendere una luce su quanto si possa arrecare dolore con le truffe sentimentali, no, dovevano andare a caccia del colpevole. Le legge non lo ha punito a sufficienza, serve la gogna in prima serata. Serve che il giudice- poliziotto Matteo Viviani vada a stanarlo. Un po’ come il Dexter della serie americana che fa a pezzi con la motosega i criminali che se la sono scampata con la giustizia. Il servizio è agghiacciante. Viviani compie l’agguato: insegue questo signore per le stradine di Forlimpopoli, 13.000 abitanti, senza uno traccio di pietà per il contesto. Roberto infatti, quando viene assalito dalle telecamere, sta spingendo la sua anziana madre in carrozzina. È dunque presumibilmente il suo caregiver. “Perchè lo hai fatto?”, “Quale era il tuo scopo?”, gli urla per strada. Roberto, che non sembra una persona in uno stato mentale normalissimo, gli urla di lasciarlo, accelera il passo, la carrozzina con la madre sopra sbatte su una colonna, la signora anziana spaventata grida, volano dei fogli, un signore in monopattino si ferma per aiutare l’anziana che ne frattempo era stata scagliata con la sua sedia a rotelle contro Viviani. Viviani continua, legge ad alta voce i messaggi che l’uomo inviava via chat al ragazzo suicida. Legge anche messaggi sessualmente espliciti, tipo “Voglio vedere il tuo ca..o duro”, messaggi che non hanno alcuna utilità ai fini della ricostruzione giornalistica, ma che servono solo ad alimentare il senso di vergogna. Intanto viene inquadrata l’abitazione dell’uomo. Vengono rubate delle frasi registrate di nascosto. Tutti in paese lo riconoscono. A questa gogna si aggiungono interviste a una psicanalista che mai aveva incontrato l’uomo e che rincara la dose sottolineando il suo piacere sadico nel fare ciò. E stabilendo che c’è una causa-effetto chiarissima tra la condotta di Roberto e il suicidio di Daniele. Evidentemente la psicanalista Giuliana Barberi conosce molto poco le dinamiche del catfishing perché non si tratta necessariamente di sadismo ma anche, per esempio, di un problema di identità sessuale. E il fatto che questi individui (per esempio Roberto) costruiscano una rete di fake compresi finti amici e parenti del loro fake principale, cosa che Viviani trova essere un’aggravante sorprendente, è un elemento tipico in questi fenomeni. Alcun costruiscono interi finti alberi genealogici. La psicanalista non si è preoccupata neppure di capire che vita potesse fare un anziano che si prende cura di una madre disabile, non si è domandata se la costruzione di identità meravigliose nel virtuale non possa rendere meno brutte vite faticose. La depressione - Nel servizio, poi, viene fuori che il povero Daniele aveva confessato al fake di soffrire di depressione, e in effetti nella lettera di addio confessa di non aver avuto mai amici o fidanzate. Alla finta Irene diceva: “Sei la cosa più bella che mi sia capitata nella vita”. A 24 anni non aveva mai avuto rapporti sessuali. Pur col massimo rispetto per il suo dolore e con profondo disgusto per l’inganno che aveva subito, non si può dire che il suicidio sia avvenuto in un contesto privo di concause. Esisteva una sofferenza pregressa, probabilmente non compresa nel profondo da chi lo amava o forse dissimulata bene. Questo servizio de Le Iene, così feroce nei confronti di un uomo che per quanto colpevole non si poteva rieducare con un agguato mortificante e la vergogna mediatica, ha provocato un’ondata di violenza nei confronti di Roberto: messaggi di odio sui social, minacce, insulti. E poi dei manifesti apparsi nel suo paese dove ormai tutti sapevano chi fosse con la scritta “devi morire”. Anche Roberto, travolto da vergogna e sensi di colpa, si è tolto la vita mandando giù un mix di farmaci. Matteo Viviani può essere soddisfatto, giustizia è fatta. Del resto gliel’aveva gridato per strada: “Fino all’ultimo continueremo a chiedere perché lo hai fatto!”. Ecco, quell’uomo ha capito che la sua vergogna avrebbe avuto un vestito preciso: il completino giacca e cravatta nero del grande giustiziere de Le iene. Chi sarà la prossima vittima? L’alta corte televisiva delle “Iene”, una gogna senza appello di Paolo Delgado Il Dubbio, 8 novembre 2022 Non succederà, ma il suicidio di Roberto Zaccaria, 64 anni, dovrebbe porre un problema serio non su una specifica trasmissione, nel caso specifico “Le Iene”, ma su un intero modo di intendere e praticare il giornalismo televisivo e sul suo impatto sulla cultura politica dell’Italia. Roberto Zaccaria è l’uomo che, fingendosi ragazza, aveva intrecciato una lunga storia d’amore virtuale con un giovane, Daniele, 24 anni, conclusasi poco più di un anno fa con il suicidio del ragazzo. Non è chiaro se a determinare la tragedia sia stata la scoperta del raggiro oppure le pressioni emotive alle quali Zaccaria esponeva quella che era a tutti gli effetti la propria vittima. Ma il particolare è qui poco importante anche se non secondario per mettere a fuoco le responsabilità, comunque indiscutibili e pesanti, dell’uomo: per quanto riguarda il ruolo della tv e del giornalismo televisivo, conta soprattutto quel che è successo dopo il suicidio di Daniele. La famiglia, passando al vaglio il cellulare del suicida, scopre la relazione virtuale, si rende conto di quanto sia stata determinante nel provocare la tragedia, individua il falsario e lo denuncia. La procura però non ravvisa gli estremi del reato di procurata morte, per il quale chiede l’archiviazione, ma solo quelli di furto d’identità, passibile di una multa di 850 euro. Insoddisfatta, la famiglia si rivolge quindi alle “Iene”, che procedono come d’abitudine: con una plateale messa alla gogna pubblica. L’uomo viene inseguito in pieno giorno per le strade di Forlimpopoli, mentre porta in carrozzina la madre paralitica. Viene assediato, accusato a voce altissima di aver provocato la morte di un ragazzo, braccato sin sulla porta di casa, filmato quando perde la testa, cerca di fuggire, lancia la carrozzina contro il persecutore. Il tutto viene mandato in onda limitandosi a offuscare il volto dell’uomo ma in modo tale da renderlo perfettamente riconoscibile, e non ce ne sarebbe neppure stato bisogno essendo l’intera scena svoltasi in pubblico e in piena luce. Naturalmente si può discutere sulla decisione della procura, si può ritenere ingiusta la richiesta d’archiviazione. È del tutto lecito e comprensibile che la famiglia intendesse battere tutte le vie legali per ottenere una risposta negativa a quella richiesta. Tra queste vie, però, non dovrebbe essere contemplato il rivolgersi alla televisione come a una sorta di tribunale d’ultima istanza, una specie di Super Corte di Cassazione invocata per influenzare la scelta della magistratura suggestionando e incitando l’opinione pubblica. Ma se ai familiari di Daniele è venuta in mente questa strada, inimmaginabile in uno Stato di diritto, è perché si tratta ormai della norma. Innumerevoli programmi non solo indagano, come è compito e diritto dei giornalisti fare, ma giudicano, si schierano a favore dell’innocenza o molto più spesso della colpa, inevitabilmente, e persino al di là della loro volontà, influenzano o rischiano fortemente di influenzare le indagini propriamente dette, e le scelte della magistratura. La trasmissione che ha spinto Zaccaria al suicidio però è andata oltre il giudizio dell’Alta Corte Televisiva, passando direttamente a emettere ed eseguire seduta stante la sentenza. Esporre una persona a quel tipo di gogna, in pubblico e rendendola riconoscibile, equivaleva infatti, soprattutto in un paese come Forlimpopoli, a una condanna eterna alla gogna e alla vergogna, era un invito alla messa al bando. Del resto anche nei confronti di Daniele, “Le Iene” non ci erano andate leggere: non si erano limitate a raccontare la già tragica e tristissima vicenda, ma avevano forzato i toni spiattellando dettagli tanto intimi quanto assolutamente inutili ai fini dell’indagine e della denuncia. Preziosi però ai fini della spettacolarizzazione della tragedia, proprio come la finalità dello spietato stalking contro Zaccaria era lo spettacolo, non la ricerca della verità o della giustizia. È piuttosto abbietto invocare la libertà di stampa per reclamare la libertà di fare spettacolo e audience su tragedie già accadute. Ma anche da questo angolo visuale, le punte estreme raggiunte dai programmi più sfacciatamente trash, o “spazzatura” per dirlo in italiano, non sarebbero possibili senza una tendenza generale che va da tempo in quella direzione e che si maschera da coraggioso giornalismo d’inchiesta. Bisognerebbe avere il coraggio di dire che inseguire un politico indagato con un codazzo di telecamere, braccarlo ponendogli domande assurde e all’apparenza stupide (“È colpevole? È davvero corrotto? Si giustifichi!”) non è giornalismo. È ricerca spasmodica e sfrenata di spettacolarità, cioè di audience, cioè di guadagno realizzata ricorrendo a un modello sempreverde: quello della gogna e del linciaggio. Il giornalismo stalker non cambia né diventa più accettabile se invece di una persona qualsiasi prende di mira un politico o un personaggio pubblico. Pessimo giornalismo e pessima televisione? Non solo, anche se sarebbe già abbastanza. Il peggio è che la tv e la realtà dalla tv filtrata formano mentalità, danno l’impronta agli approcci politico- culturali. Un giornalismo televisivo, per usare parole forti, di questo genere non si limita ai danni immediati. Fomenta una concezione della politica come giustizia sommaria, anche ma certo non solo ai danni dei politici stessi, “la casta”. Ma esalta anche la fiducia nei politici in grado di adoperare quei metodi spicci. Due tendenze che nell’ultimo decennio hanno sempre più condizionato gli umori dei telespettatori, che per inciso sono anche elettori. Postò un video social dal carcere di Padova, assolto dal Tribunale Il Mattino di Padova, 8 novembre 2022 Il giudice ha ritenuto la “tenuità del fatto”, ma era riuscito ad avere il telefonino collegato ad internet in cella. Con il cellulare, si era fatto un video dall’interno della sua cella nel carcere Due Palazzi di Padova, caricandolo poi su Instagram: lo si vedeva fumare una sigaretta, con in sottofondo la hit di Sfera Ebbasta, “Bottiglie Privè”. Quelle immagini avevano fatto il giro dei social e gli erano costate l’ennesima denuncia della sua giovane vita, questa volta per introduzione e detenzione in carcere di un cellulare: un reato specifico, da poco entrato a far parte del codice penale. D’altra parte, come immaginare che un detenuto possa usufruire liberamente di uno smartphone collegato a Internet? Per quel video, il 23enne Angelo Valerio Alesini è stato però assolto dal Tribunale di Padova: il giudice ha ritenuto, infatti, la “tenuità del fatto” ed ha fatto cadere le accuse a suo carico, come richiesto dall’avvocato difensore Anna Sambugaro. Quando ha girato il filmato, il giovane - una lunga lista di denunce e processi a suo carico, tra aggressioni, pestaggi, danneggiamenti, ritenuto per anni alla testa di un gruppo di scatenati minorenni mestrini - stava scontando una serie di pene per furti, tentata estorsione, danneggiamenti. Condanne e patteggiamenti, come i 3 anni e 10 mesi di reclusione concordati tra accusa e difesa al Tribunale di Venezia per nove furti, un danneggiamento e una tentata estorsione commessi tra giugno e agosto 2018, tra cui quelli in danno della sede dei vigili urbani di Marghera (rubati un cinturone, gradi da divisa, un distintivo, e paletta ministeriale) e in un deposito di Veritas. Poi erano arrivati altri 9 mesi per furti tentati e consumati. E nelle scorse settimane, un’altra condanna in primo grado a 2 anni e 6 mesi per lesioni nei confronti di due giovanissimi a Mestre, che la difesa intende impugnare in appello. Ora Alesini sta seguendo un percorso di recupero in comunità, con fine pena a marzo, anche se ha altri processi in arrivo dal Tribunale dei minori per ricettazione, danneggiamenti e stalking nei confronti di una giovane. Trovato in carcere con un cellulare, il giudice assolve 29enne: “Il fatto non costituisce reato” agrigentonotizie.it, 8 novembre 2022 Il magistrato non ha ritenuto provata la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato: dolo a titolo generico. “Il fatto non costituisce reato”. Lo ha stabilito il giudice della seconda sezione penale del tribunale di Agrigento, Fulvia Veneziano, che - con formula pienamente liberatoria - ha assolto Ebrima Ceesay, gambiano di 29 anni, difeso dall’avvocato di fiducia Gaspare Lombardo. L’immigrato è finito sotto processo perché, in concorso con ignoti, mentre era detenuto alla casa circondariale “Pasquale Di Lorenzo” di Agrigento ha indebitamente ricevuto ed utilizzato un telefono cellulare. Il pm, durante la requisitoria, aveva chiesto la condanna dell’imputato ad un anno di reclusione. La difesa - rappresentata appunto dall’avvocato Gaspare Lombardo - aveva invece chiesto l’assoluzione. La polizia penitenziaria del carcere di contrada Petrusa di Agrigento, nel luglio del 2021, aveva trovato l’immigrato, nel cortile della casa circondariale, in possesso di un telefono cellulare. Telefonino, comprensivo di scheda telefonica, che era stato, naturalmente, subito posto sotto sequestro. Secondo quanto ha fatto rilevare la difesa dell’imputato, il giorno prima - subito dopo l’arresto e al momento dell’ingresso nella casa circondariale - il gambiano aveva consegnato un telefonino. Indossava però un paio di pantaloncini multitasche laterali. È emerso durante il processo (era stato rinviato a giudizio il 24 gennaio di quest’anno) che l’imputato, al momento dell’ingresso in carcere, non si ricordava di averlo in tasca, a differenza degli altri oggetti consegnati. Quando è stato tenuto in isolamento fiduciario, il giovane non ha indossato i pantaloncini perché sentiva caldo. Li ha indossati invece il giorno dopo durante l’ora d’aria, realizzando appunto di avere con se il telefonino. Non pensava - tanto è emerso sempre durante il processo - di non poterlo utilizzare visto che non gli era stato sequestrato. Poiché il cellulare era scarico, il gambiano ha pensato di chiamare l’agente di polizia Penitenziaria per chiedergli come fare a ricaricarlo. È vero che il giovane immigrato è stato trovato in possesso di un dispositivo elettronico, la cui detenzione in carcere è appunto vietata, ma alla luce della versione dei fatti narrata dall’imputato, il giudice non ha ritenuto provata la sussistenza dell’elemento soggettivo del reato: dolo a titolo generico. Durante il processo, sulla base delle dichiarazioni testimoniali, è emerso infatti che non è escluso che il cellulare fosse sfuggito tanto alla polizia Penitenziaria quanto al giovane immigrato. Si è arrivati quindi, grazie a quanto evidenziato dall’avvocato di fiducia Gaspare Lombardo, ad una sentenza di piena assoluzione. Udine. Detenuto si toglie la vita. Corleone: “Il 76º caso da inizio anno in Italia” Messaggero Veneto, 8 novembre 2022 Un ragazzo di 22 anni di origini dominicane, detenuto per l’ipotesi di reato di tentato omicidio, ieri si è tolto la vita nel carcere di via Spalato. Quello di Udine è il 76º suicidio avvenuto in una struttura detentiva in Italia dall’inizio dell’anno. “Siamo di fronte a una continua emergenza - commenta il garante dei diritti delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale del Comune di Udine Franco Corleone - e non bisogna abituarsi a queste tragedie. Speravo che Udine si “salvasse”, ma non è stato così. La maggior parte dei suicidi - indica - avviene all’inizio del periodo detentivo. Il 22enne è arrivato da Trieste lo scorso 22 settembre e da poco si trovava in regime di isolamento in seguito a una lite avvenuta con un compagno di cella e con un agente”. Il garante sottolinea ancora una volta il problema del sovraffollamento. “Servono maggiori misure alternative per chi ha pene brevi - ritiene infatti Corleone. Poi c’è il problema di chi soffre di disagi psicologici e dei tossicodipendenti che dovrebbero stare in strutture per loro più tollerabili e adeguate: senza di loro, che costituiscono un’ampia fetta di detenuti, il carcere sarebbe meno sovraffollato e di più facile gestione. Il carcere - conclude - non deve essere una discarica sociale, ma volta al recupero dei suoi ospiti”. Vibo Valentia. Detenuto tenta suicidio: ora è ricoverato in coma di Antonio Alizzi lacnews24.it, 8 novembre 2022 Una settimana fa avrebbe provato anche a tagliarsi le vene. L’uomo ha 55 anni e sta lottando tra la vita e la morte. Era ristretto nella Casa circondariale dove stava scontando un cumulo di pena per i reati di tentata rapina e furto. Un detenuto originario di Cerisano, comune delle Serre cosentine, è in condizioni disperate all’ospedale di Vibo Valentia, dove si trova ricoverato dopo aver tentato il suicidio nella casa circondariale in cui era ristretto. Lo comunica al nostro network il suo avvocato Gianluca Garritano del foro di Cosenza. Secondo quanto si apprende, il detenuto G. P, 55 anni, stava scontando un cumulo di pena per i reati di tentata rapina e furto. Già una settimana fa avrebbe tentato di togliersi la vita, tagliandosi le vene. L’uomo, infine, stava presentando un’istanza al tribunale di Sorveglianza per ottenere gli arresti domiciliari. Ora sta lottando tra la vita e la morte. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Iniziato il processo per il pestaggio di Stato di Nello Trocchia Il Domani, 8 novembre 2022 Si è aperto davanti alla corte d’Assise del tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in provincia di Caserta, il processo a carico di 105 persone, uomini e donne dello stato, coinvolte a vario titolo nel pestaggio che si è consumato nel carcere il 6 aprile 2020. A processo c’è l’intera catena di comando dell’istituto di pena Francesco Uccella, gli agenti della polizia penitenziaria e l’ex provveditore regionale della Campania. Quel giorno quasi 300 poliziotti penitenziari, provenienti anche da altri istituti, sono entrati in carcere e per oltre 4 ore hanno massacrato di botte e colpi di manganello i detenuti, una mattanza documentata dai video che Domani ha pubblicato nel giugno del 2021. I reclusi protestavano e chiedevano, dopo il primo caso di contagio in carcere, mascherine e dispositivi di sicurezza. L’udienza è iniziata alle dieci, nell’aula bunker che ha ospitato il processo Spartacus, il dibattimento che ha messo in ginocchio il clan dei Casalesi. Per due ore il presidente Roberto Donatiello, a latere Alessandro De Santis, ha scandito i nomi degli imputati, delle parti offese, degli avvocati e delle associazioni che si sono costituite parte civile. A processo c’è l’ex provveditore, il commissario coordinatore della polizia penitenziaria del carcere, il comandante del nucleo traduzioni, le comandanti dei nuclei operativi e parte del gruppo di supporto e interventi. Agenti e componenti del vertice dell’istituto, in tutto 77, sono stati sospesi dal ministero, nel giugno 2021, quando il giudice ha disposto le misure cautelari mentre altri hanno continuato a lavorare con avanzamenti di carriera. Ora si ritrovano a processo insieme anche a medici e funzionari. Rispondono, a vario titolo, di tortura aggravata, falso in atto pubblico, favoreggiamento personale, lesioni, maltrattamenti, calunnia e falso. Il pestaggio - Il 6 aprile 2020 c’è stata una vera e propria mattanza di stato con quattro ore di pestaggi contro detenuti inermi, picchiati in ogni angolo del reparto Nilo dalle scale all’area socialità, dai corridoi alle celle. Barbe tagliate, disabili colpiti con manganelli, capannelli di agenti che infliggevano ogni tipo di violenza e umiliazione ai reclusi. Ma non è finita con il pestaggio, si è scritta nelle ore successive un’altra pagina che trova spazio nei faldoni del processo: il depistaggio. False informative, foto di pentolini d’acqua fatti passare per recipienti d’olio bollente, video e scatti manomessi, materiale che doveva servire a giustificare quanto accaduto il 6 aprile. Una ricostruzione alla quale ha creduto il governo, allora a guida M5s-Pd, che in aula, il 16 ottobre 2020, rispondendo a un’interrogazione parlamentare ha parlato di ripristino della legalità. Le opposizioni, Matteo Salvini in testa, hanno sempre espresso vicinanza e solidarietà agli agenti diffondendo la tesi della protesta violenta dei detenuti e del lavoro egregio svolto dai poliziotti penitenziari per contenerla. Era una menzogna e adesso un processo accerterà le singole responsabilità, ma il pestaggio è un fatto accertato e consegnato alla storia. L’udienza - Durante l’udienza si sono costituiti parte civile altri venti detenuti. Le difese, invece, hanno sollevato diverse questioni a partire dalla nullità del rinvio a giudizio perché indisponibili tutti i filmati del giorno del pestaggio, ma anche per il mancato deposito di tutti i brogliacci. È stata posta una questione anche in merito alla costituzione di un’associazione come parte civile, così come è stata chiesta l’estromissione di alcune parti che si era già costituite come il garante nazionale per i detenuti e il ministero della Giustizia. Alcuni avvocati di difesa hanno chiesto l’incompetenza della corte d’Assise, questioni che già erano state sollevate e discusse durante l’udienza preliminare. In quella sede il giudice, che ha disposto il rinvio a giudizio, aveva accolto la tesi dell’accusa che ha contestato ad alcuni imputati il reato di tortura con l’aggravante per la morte del detenuto algerino, Lamine Hakimi, che si è spento il 4 maggio 2020 per l’assunzione di un mix letali di farmaci, ma anche a seguito del violento pestaggio. Le questioni sollevate saranno discusse nella seconda udienza, prevista il prossimo 14 dicembre. A inizio ottobre, la procura ha chiesto la proroga delle indagini per altri 41 indagati, identificati successivamente, un altro filone d’indagine che potrebbe concludersi con una nuova richiesta di rinvio a giudizio e l’apertura di un secondo processo sulla mattanza di stato. Milano. Bilal esce dal carcere: ha solo 13 anni. Il baby rapinatore torna in Comunità Il Giorno, 8 novembre 2022 la decisione del gip del tribunale dei minori dopo una perizia sul ragazzino: non è imputabile. È stato scarcerato dal Cpa di Torino Bilal, il ragazzino marocchino protagonista nelle ultime settimane di una raffica di furti, rapine e fatti violenti soprattutto nella zona della stazione Centrale di Milano. È uscito nei giorni scorsi ed è stato ricollocato in una comunità con una misura di sicurezza. Lo ha deciso il gip del Tribunale per i minorenni di Milano dopo l’ultimo accertamento medico legale che ha stabilito che non c’è alcuna certezza che il ragazzino abbia 14 anni e dunque che sia imputabile. Anzi, secondo l’ultima perizia disposta dal gip avrebbe poco più di 13 anni. Bilal era stato arrestato lo scorso 20 ottobre dopo l’ennesima rapina, preceduta dall’ennesima fuga dalla comunità. La Procura per i minorenni aveva chiesto per lui il carcere minorile, sulla base del fatto che dagli ultimi accertamenti la sua età era stata “alzata” a 14 anni. Il gip aveva accolto la richiesta disponendo però ulteriori approfondimenti. Analisi che hanno stabilito che non si possa dire affatto che ha 14 anni e da qui la decisione della scarcerazione. Il minore, dunque, torna in comunità perché non imputabile, anche se il giudice ha disposto in più una misura di sicurezza per cercare di impedire che il ragazzo possa allontanarsi ancora una volta. Nelle scorse settimane Bilal era già stato bloccato almeno quattro volte nel giro di pochi giorni, ma non arrestato perché ritenuto dodicenne, quindi non imputabile. Poi l’arresto, perché nuovi accertamenti avevano portato l’età a 14 anni (soglia minima dell’imputabilità). Il gip il 22 ottobre, disponendo la misura cautelare, aveva accolto la richiesta della Procura dei minori, impegnata ad occuparsi di un caso di non facile soluzione. Il ragazzo - esile ma alto un metro e sessantacinque con una leggera peluria che lo fa già apparire adolescente - ha raccontato di essere scappato dal Marocco a nove anni, di essere stato in Francia, Spagna, Germania, Olanda e di essere a Milano da mesi. Probabilmente tossicodipendente (teneva pillole di uno psicofarmaco nello zaino), con la scabbia, ha continuato a scappare da ogni comunità dove è stato portato dopo ogni rapina. Gli ultimi accertamenti sono stati effettuati dal laboratorio di Antropologia e Odontologia Forense dell’Università degli Studi di Milano su disposizione del giudice. Secondo questa perizia Bilal avrebbe poco più di 13 anni. Il Tribunale per i minorenni tornerà a valutare, con ulteriori accertamenti, il caso di Bilal tra un mese circa. Nel frattempo, si spera che anche sulla base della misura di sicurezza, una sorta di rafforzamento del controllo, Bilal non scappi ancora una volta dalla comunità. Cosenza. “La certezza della pena non è la certezza del carcere” di Antonio Alizzi cosenzachannel.it, 8 novembre 2022 Confronto tra avvocati, magistrati e docenti universitari. Sollevate tante criticità che ogni giorno i penalisti toccano con mano, nel difendere i diritti degli ergastolani e dei detenuti in generale. Giornata di studi dedicata all’ergastolo ostativo e alla situazione delle carceri italiane, quella organizzata dalla Camera Penale di Cosenza “Fausto Gullo”, nella sala della biblioteca “Arnoni” del Palazzo di Giustizia, alla presenza di numerosi avvocati, magistrati e docenti universitari. Un confronto aperto su temi che sono d’interesse nazionale, dopo il primo Decreto Giustizia del Governo Meloni che ha scontentato soprattutto l’avvocatura italiana. Il convegno di Cosenza ha avuto la finalità di sollevare le tante criticità che ogni giorno i penalisti toccano con mano, nel difendere i diritti degli ergastolani e dei detenuti in generale. Oggi quindi la questione è al centro del dibattito politico, dopo la decisione della maggioranza di centrodestra di rivedere il testo sul 4 bis in forma peggiorativa rispetto agli iniziali dettami della Corte Costituzionale, alla quale il governo presieduto da Giorgia Meloni ha rimandato la “palla”. Quasi in tribuna. “La certezza della pena non è la certezza del carcere, perché nei nostri principi costituzionali il carcere non è inteso come una punizione, ma un momento in cui al detenuto deve essere data una seconda possibilità di inserirsi in un contesto sociale diverso” ha detto l’avvocato Roberto Le Pera, presidente della Camera Penale di Cosenza “Fausto Gullo”, intervistato dal nostro network. Interessanti anche gli interventi del professore Silvio Gambino, Emerito di Diritto Pubblico all’Università della Calabria di Rende, del neo garante regionale dei detenuti, l’avvocato Luca Muglia, e infine del procuratore di Cosenza, Mario Spagnuolo che ha affrontato in particolare il tema dell’ergastolo ostativo, spiegando ai presenti che la procura di Cosenza era pronta a lavorare con le nuove disposizioni previste dalla riforma penale voluta dall’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia. Ecco le interviste complete. Avezzano. (Aq). Le condizioni delle carceri al centro dell’incontro tra Garante e delegati Aiga di Luna Zuliani marsicalive.it, 8 novembre 2022 Si è svolto, nella sede della Regione Abruzzo, l’incontro tra il Garante regionale delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale, Professore Gianmarco Cifaldi e i delegati dell’Associazione Italiana Giovani Avvocati, Andrea Cocchini, nella veste di componente della Giunta Nazionale, Elio Carlino, in qualità di componente dell’Ufficio Legislativo, Fernando Alfonsi, quale coordinatore della Regione Abruzzo ed Elisa Di Giacomo, consigliere della Sezione di Avezzano. I delegati Aiga hanno avuto la possibilità di presentare al Garante l’Osservatorio Nazionale Aiga sulle Carceri (Onac), istituito dall’Associazione per accendere i riflettori in un momento come quello attuale, prossimo all’entrata in vigore di importanti riforme, sulla condizione delle carceri italiane e che ha già consentito alla giovane avvocatura di accedere, nella scorsa Domenica delle Palme, negli istituti penitenziari del nostro Paese grazie all’autorizzazione ottenuta dal DAP e dal Ministero della Giustizia. La suddetta iniziativa, ha raccontato l’avvocato Andrea Cocchini: “ha avuto il pregio di consentire di fotografare le reali condizioni delle carceri, dare ascolto alla voce dei detenuti, e verificare la validità delle iniziative di reinserimento sociale oggi praticate e, all’esito, elaborare un documento di sintesi delle attività svolte”. Punto di forza del neocostituito Osservatorio, come precisato dall’ avvocato Elio Carlino: “è quello di poter garantire, grazie alle 130 sedi dell’Associazione sparse su tutto il territorio nazionale, una concreta mappatura di tutti gli Istituti Penitenziari mentre l’obiettivo è quello di, da una parte, sensibilizzare l’opinione pubblica e, dall’altra, attirare l’attenzione del legislatore sulla tematica delle carceri al fine di avviare un serio dibattito sulla riforma dell’ordinamento penitenziario”. Il Garante ha quindi (dopo aver dato il proprio positivo riscontro e apprezzamento alle attività promosse da Aiga) avuto il merito e la lungimiranza di proporre una fattiva collaborazione tra i delegati Aiga e il proprio Ufficio al fine di intensificare l’attività di osservazione e visita delle strutture carcerarie abruzzesi. Dal suddetto incontro e grazie alla sensibilità mostrata dal Garante dunque, è nata una “sinergia di risorse umane”, come spiegato dall’avvocato Fernando Alfonsi: “che rende la ragione Abruzzo capofila rispetto a tutto il territorio nazionale, sul quale potrà peraltro, ovviamente, replicarsi ed estendersi l’ideato progetto attraverso la collaborazione dei rispettivi referenti territoriali”. Conclude quindi, l’avvocato Elisa Di Giacomo con i ringraziamenti al Garante “costantemente impegnato ad assicurare nelle carceri Abruzzesi, attraverso l’attività di osservazione e dialogo, il rispetto alla salvaguardia di diritti e comportamenti conformi alla legge e che ha avuto il merito di garantire, anche alla giovane avvocatura, uno spazio di ascolto e costruttivo confronto”. Milano. Disagio “dentro”: in tribunale esposte le foto di detenuti e agenti della Penitenziaria Il Giorno, 8 novembre 2022 La mostra, fino al 26 novembre, è frutto di un progetto ideato dal Pac e da Ri-Scatti Onlus. Si tratta di una serie di scatti il cui sottotitolo è “Il carcere di oggi visto dagli operatori”. Ieri, a tenere a battesimo l’esposizione, un incontro a cui hanno partecipato fra gli altri, Carlo Renoldi, il direttore del Dap, il Dipartimento amministrazione penitenziaria; Mauro Palma, il presidente dell’Ufficio garante nazionale persone private della libertà personale e Giovanni Di Rosa, il presidente del Tribunale di sorveglianza di Milano. La mostra è frutto del progetto ideato e organizzato dal Pac, il Padiglione d’arte contemporanea di Milano e da Ri-Scatti Onlus. Obiettivo è raccontare le complessità, le difficoltà ma anche le opportunità della vita negli istituti di reclusione, “al di là delle semplificazioni e delle stigmatizzazioni”, come si legge nella presentazione. Protagonisti di questa edizione sono detenuti e agenti penitenziari delle quattro carceri milanesi: Opera, Bollate, San Vittore e il minorile Beccaria che hanno frequentato il corso di fotografia e hanno scattato le foto in carcere. Sede della mostra è un altro luogo legato all’amministrazione della giustizia: le immagini, infatti, verranno esposte nell’atrio centrale del Tribunale di Milano, al primo piano fino al 26 novembre. La mostra è promosso da Camera Penale di Milano, Ordine degli avvocati di Milano, Associazione nazionale magistrati e Provveditorato regionale amministrazione penitenziaria per la Lombardia. Roma. Ieri la presentazione del libro “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia” agensir.it, 8 novembre 2022 Ieri si è svolta presso la parrocchia dei Santi Antonio e Annibale di Roma la presentazione del libro “Non tutti sanno. La voce dei detenuti di Rebibbia”, scritto da suor Emma Zordan. Il volume tratta della difficile situazione all’interno delle carceri e del percorso di redenzione di alcuni detenuti. Nell’introduzione il parroco, padre Pasquale Albisinni, ha sottolineato come, per il cammino della comunità, l’incontro sia stato propedeutico alla Giornata mondiale dei poveri. Il parroco ha inoltre voluto che questo appuntamento costituisse l’incontro mensile delle famiglie, proprio per aprire gli occhi su una realtà da pochi conosciuta. Emilio Monti, ex detenuto, ha offerto la sua testimonianza: il tempo in carcere lo ha profondamente cambiato perché ha compreso in maniera più profonda l’importanza di alcune cose, come la famiglia. È intervenuta anche la madre condividendo le sue sofferenze. Emilio ha parlato dei pregiudizi all’esterno e della difficoltà di reinserimento sociale, ma anche della grande umanità all’interno del carcere, trovata molto più che all’esterno. Anche le Istituzioni si sono rese presenti tramite la figura del garante per i diritti dei detenuti per la città di Roma Gabriella Stramaccioni, la quale ha ribadito che l’art. 27 della Costituzione stabilisce che il fine specifico della pena è la rieducazione, Parlando dell’importanza delle pene alternative, ha raccontato l’esperienza molto positiva realizzata in collaborazione con il Servizio Giardini di Roma Capitale, che ha permesso a 130 detenuti di poter ottenere il tesserino da giardiniere e trovare lavoro dopo la reclusione. A sorpresa è intervenuto anche Stefano Ricca, per 18 anni direttore del carcere di Rebibbia, il quale ha raccontato alcuni aneddoti ed episodi di questi anni, in particolare ha sottolineato lo stupore provato da un detenuto, che non era mai stato in un museo, quando si è trovato dinanzi le opere d’arte ammirate nei Musei Capitolini. Suor Emma, autrice del libro, ha raccontato di come abbia superato con piccoli gesti il disagio provato all’inizio di questa esperienza nelle carceri. Ha chiesto ai detenuti di mettere nero su bianco le loro testimonianze, alcune di esse sono riportate nel suo libro. Napoli. La casula dei detenuti-sarti di Secondigliano donata al Papa di Rosanna Borzillo Avvenire, 8 novembre 2022 Il paramento, che Francesco indosserà già domenica, è frutto di un laboratorio di sartoria: “Ecco come è nato”. Antonio e Giuseppe domani mattina consegneranno a papa Francesco la casula che indosserà domenica per la Giornata mondiale dei Poveri. Sono detenuti del reparto Mediterraneo del carcere di Secondigliano a Napoli e la casula è frutto di un laboratorio di sartoria, nato all’interno dell’area circondariale e fortemente sostenuto dall’amministrazione penitenziaria, che ha fornito macchine da cucire, ricamatrici, materiali e ogni altra attrezzatura necessaria. Il pulmino da nove posti porterà in Vaticano, insieme ai detenuti, la direttrice Giulia Russo, l’ispettore generale dei cappellani nelle carceri don Raffaele Grimaldi e il cappellano don Giovanni Russo. La casula che sarà donata al Papa è dorata e con un gallone mariano “perché - spiega don Giovanni - i ragazzi hanno scelto di esprimere il carisma dell’attività del laboratorio sartoriale attraverso Maria, per passare dal culto del sacro a ciò che è santo e chiedono alla Madre della speranza, di sostenere i nostri passi e di suggerire al nostro cuore “Alzati! Guarda avanti, guarda l’orizzonte”. Il percorso - dal suggestivo nome “Albus sacer” - mira alla possibilità di creare opportunità lavorative. I detenuti hanno anche ideato una locandina per pubblicizzare i loro prodotti: casule e dalmatiche con ricamo diretto, stole damascate perché i paramenti liturgici, realizzati con estrema cura e dettagli nelle finiture, sono il risultato di un percorso di formazione finalizzato, prima che alla specializzazione sartoriale, ad un avvicinamento al sacro. “Per usare le parole di don Tonino Bello - spiega ancora il cappellano - i nostri fratelli potranno passare dal “culto della sacralità a quello della santità” ed esserne testimoni dentro e fuori il carcere”. L’idea, infatti, è che il laboratorio venga esternalizzato e possa trasferirsi in locali dove i detenuti, una volta scontata la loro pena, trovino la possibilità di realizzare le attività produttive e di vendita di taglio, cucito, stampa e logistica con l’obiettivo di avviare percorsi di inclusione. Durante la pandemia, nel laboratorio del carcere è stata realizzata un’idea condivisa tra amministrazione, polizia penitenziaria, educatori e detenuti, per aiutare le famiglie e le persone più indigenti: sono state cucite oltre 10mila mascherine distribuite gratuitamente in tutta la città. “Il progetto nasce nel 2016 - aggiunge la direttrice Giulia Russo - quando i detenuti si sono impegnati a rendere riutilizzabili divise, cappotti e tute di servizio, ormai fuori uso, messe a disposizione dalla polizia penitenziaria: ne è nata così una linea con i princìpi di una economia di “riciclo”, che ha permesso loro di acquisire competenze e professionalità riconosciute, realizzando la mission educativa dell’amministrazione penitenziaria”. Norme e messaggi, se la legge diventa un simbolo di Angelo Panebianco Corriere della Sera, 8 novembre 2022 Provvedimenti dal contenuto volutamente vago e impreciso, che lasciano una amplissima sfera di libertà nell’interpretazione che ne daranno amministratori e magistrati. Dalla legge-comando alla legge-simbolo. Forse i giuristi devono rivedere il modo in cui suddividono e classificano la legislazione. Il decreto sul rave party ha suscitato e sta suscitando proteste per il fatto che i suoi contenuti potrebbero in futuro prestarsi a interpretazioni lesive del diritto costituzionale di radunarsi e manifestare. Il Foglio ha subito indicato alcune evidenti somiglianze fra questo decreto e il disegno di legge Zan, bocciato dal Parlamento nella passata legislatura. In entrambi si intravvede una ispirazione panpenalista (anche se di segno politico opposto), la spinta ad allargare l’area dei comportamenti penalmente punibili. Ma c’è forse anche un altro aspetto da considerare. I due provvedimenti in questione ma anche tanti altri decreti e tante altre leggi che non hanno attirato uguale attenzione da parte dell’opinione pubblica, hanno una cosa in comune. Non sono complessi di norme che, grazie alla loro chiarezza, al loro rigore e alla loro precisione, debbano essere applicati da un’amministrazione a cui restano margini di interpretazione ristretti e sul cui rispetto sia chiamata a vegliare la magistratura. No, sono leggi dal contenuto volutamente vago e impreciso, leggi che, a causa della loro fattura, lasciano una amplissima sfera di libertà nell’interpretazioneche ne daranno amministratori e magistrati. I giuristi si mettono le mani nei capelli e parlano di analfabetismo giuridico dei nostri politici. Ma a parte il fatto che nella schiacciante maggioranza, se non nella totalità di questi testi, ci mettono le mani i funzionari, il problema è che invocare una vera o presunta incapacità tecnico-giuridica non è sufficiente. E forse è persino sbagliato. Perché potrebbero essersi verificati cambiamenti strutturali, che, giunti a questo punto, rendono superflua la competenza giuridica. Anzi tale competenza, in molti casi, potrebbe essere addirittura un ingombro. Questo vale per molte leggi e, sicuramente, per tutte le leggi che hanno, dal punto di vista di chi le confeziona, un valore politico-identitario. In questi casi ciò che conta della legge non è altro che il “messaggio” che si manda ai propri elettori nonché l’indirizzo di massima a cui si invitano amministratori e magistrati ad attenersi. Tanto, comunque, toccherà a loro, (amministratori e magistrati), e solo a loro, dare delle norme l’interpretazione che preferiscono e, eventualmente - ma è raro che ciò avvenga - sostituire rigore a sciatteria, chiarezza a confusione. Se la legge non è altro che un messaggio e un indirizzo politico di massima non c’è bisogno di altra competenza se non quella politica, la capacità di agire con efficacia entro l’arena politica. Il cambiamento strutturale riguarda il declino relativo della politica rappresentativa e il contestuale rafforzamento della potenza delle magistrature e dei vertici dell’amministrazione civile. È un processo in atto da decenni, da quando entrò in crisi il sistema dei partiti che aveva dominato la Repubblica dalla fine della Seconda guerra mondiale fino ai primi anni Novanta. Da allora, ai partiti con il fortissimo radicamento sociale di un tempo si sono sostituite formazioni politiche molto più fragili al servizio dei rispettivi leader. Inoltre, causa la forte eterogeneità delle coalizioni di governo, non è mai stato possibile dare vita a esecutivi forti e stabili. La debolezza della politica, mentre, dal lato dell’elettorato, generava frustrazione, elevata mobilità elettorale, alto astensionismo e movimenti di protesta, dal lato dei rapporti fra governi, amministrazione e magistrature, consolidava una tendenza i cui inizi risalgono alla rivoluzione giudiziaria dei primi anni Novanta: lo spostamento del baricentro del potere dalla politica rappresentativa alle istituzioni amministrative e giudiziarie. Oggi, si dice (forse troppo frettolosamente) che si è ricostituito un potere politico forte con la vittoria delle destre. Per giunta, lo stato comatoso dell’opposizione lascia pensare che la destra potrebbe governare più o meno indisturbata per più di una legislatura. Vedremo. Ma resta comunque il fatto che anche una leader con la forza e le capacità di Giorgia Meloni si trova alla testa di una coalizione di governo sgangherata. Come tutte le precedenti coalizioni di governo. C’è da dubitare che possa riuscire a ribaltare i rapporti di forza fra politica rappresentativa e Stato burocratico-giudiziario. E, anzi, potrebbe contribuire ad aggravare il problema. Più leggi-simbolo vengono accatastate, più libertà di interpretazione si assegna a amministratori e magistrati e più si espande lo spazio della politica “burocratico-giudiziaria” (l’autonoma attività degli apparati dello Stato) a scapito dello spazio di cui dispone la politica rappresentativa. Al momento, ciò che chiamiamo democrazia, ossia la politica rappresentativa, è ancora insostituibile. Fornisce la necessaria legittimazione, e le necessarie coperture, senza le quali lo Stato burocratico-giudiziario non potrebbe reggersi in piedi. La democrazia rappresentativa è ancora l’unico gioco politico ufficialmente possibile, l’unico che porti stampato il bollino della legalità (costituzionale). Legalità e legittimità politica non sono sinonimi e possono non coincidere ma in questo caso sì. Al momento, e nonostante tutti gli sfilacciamenti, anche gravi, che si verificano praticamente ovunque, la democrazia rappresentativa gode ancora di forti protezioni nel mondo occidentale. Basti pensare al club europeo. Non se ne può fare parte se non si è una democrazia. L’Ungheria che ne ha indebolito alcuni istituti, è diventata un sorvegliato speciale. Anche la Polonia era nella stessa condizione ma poi la guerra in Ucraina, la sua posizione anti-russa e la sua collocazione strategica, hanno messo momentaneamente la sordina alle proteste per certe sue scelte istituzionali di segno illiberale. In ogni caso, la democrazia, in Occidente, gode ancora di forti sostegni interni e di una rete di ancoraggi internazionali. Ma se quella rete si indebolisse troppo, che accadrebbe a un Paese come il nostro? Al momento, e si spera anche in futuro, lo Stato burocratico-giudiziario non può disfarsi della politica rappresentativa. Non può farlo perché ha cento teste e non una soltanto. E non può farlo perché non dispone di una fonte di legittimazione autonoma. Ma se la crisi della democrazia in Occidente dovesse aggravarsi, un giorno le cose potrebbero cambiare. Chi continua ad apprezzare la democrazia nell’unica forma possibile, quella rappresentativa, spera che quel giorno non arrivi mai. Il tramonto dei partiti alla marcia per la pace di Lucia Annunziata La Stampa, 8 novembre 2022 La società civile, senza bandiere politiche, è stata la vera protagonista del corteo di sabato a Roma il segnale di un nuovo corso del Paese: lo scontento ha fortemente indebolito la rappresentanza. La manifestazione per la pace a Roma è stata una sorta di sguardo sul futuro. O meglio, di quel che potrebbe essere il futuro prossimo della politica nel nostro Paese. Sei ore a guardare passare la sfilata sull’itinerario scelto, da piazza della Repubblica a Piazza San Giovanni, il classico percorso che a Roma ha fatto da scenografia a centinaia di altri cortei, restituivano la mappa visiva del cambiamento che c’è stato negli ultimi decenni nel nostro Paese. Era per definizione una manifestazione della società civile, dunque senza la partecipazione ufficiale, con bandiere, dei partiti; ma il numero e la diversità delle organizzazioni presenti sono stati sorprendenti. Fra i promotori va intanto citata la Rete italiana pace e disarmo, guidata da Europe for Peace, coalizione di oltre 400 organizzazioni, associazioni, reti, sindacati e comunità, che da mesi promuove eventi per protestare contro il conflitto ucraino e quelli nel resto del mondo. Molte le sigle del Comitato editoriale di Vita: Arci, Acli, Agesci, Coopi, Federsolidarietà - Confcooperative, Legacoopsociali, ActionAid, Amref, Ancc Coop, Anpas, Ciai, Cbm, Cittadinanzaattiva Onlus, Confederazione Nazionale delle Misericordie d’Italia, Fish, Federazione italiana per il superamento dell’handicap, Fondazione Arché, Fondazione Ebbene, Fondazione Exodus, Fondazione Albero della vita, Intersos, Mcl - Movimento cristiano lavoratori, Save the children Italia, Sos Villaggi dei bambini Italia e We World e il Mean (Movimento europeo di azione nonviolenta) che Vita ha contribuito a promuovere. Alla lista che qui riporto, vanno aggiunte tutte le altre decine di altre sigle, da quella di Sant’Egidio, alla rivista Micromega, ad Articolo 1, a Robin (collettivo di cui non ho capito lo scopo) a Parents for the future, e tantissime altre. Ogni sigla una causa di impegno - il clima, i diritti, l’appoggio contro il precariato, la difesa della legge sull’aborto, e quella della cittadinanza. Se facciamo il conto della differenza fra quelle citate (33) e quelle che hanno aderito (400), immaginate una ulteriore lista fatta da altre 367 sigle. E se fra queste 367 inseriamo le bandiere come sempre perfette e dominanti della Cigl, è molto probabile che, dopo 5 ore, la partecipazione sia stata effettivamente di 100mila persone. Ma anche fosse la metà, 50mila, è un numero significativo da mettere insieme per una mobilitazione della società civile. Non rilevata quasi in questa mappa visiva la società politica. I partiti, come abbiamo detto, sono venuti - per scelta- con una adesione “non invasiva” di questa identità sociale. Per cui erano assenti volutamente senza schieramenti organizzati e bandiere. Tuttavia, le organizzazioni presenti, di cui le più grandi erano M5s e Pd, hanno mantenuto un profilo da cittadini singoli. Il M5s ha fatto uno sforzo in più per avere propri aderenti anche da altre città, il Pd ha inviato i suoi (pochi) dirigenti a ranghi più sciolti. Che sia stata una scelta giusta o sbagliata, non è questo il punto. Rilevante è che per la prima volta da anni abbiamo visto sfilare una manifestazione ufficiale e impegnata in una grande causa nazionale, senza che fosse dominante il profilo dei grandi partiti. Questo è lo sguardo sul futuro. E se oggi, ancor prima di domani, fosse questo il profilo della politica reale, dello spazio di scelta nel nostro Paese, mentre ci affanniamo come classe politica, o media, a osservare, raccontare e discutere una realtà che non c’è più? Non è per nulla fantapolitica. I migliori politologi del nostro Paese, Sartori, Pasquino, Ignazi per citarne alcuni, hanno affrontato il tema, soprattutto nella forma del distacco dei cittadini. Ma soprattutto questa fine progressiva dell’influenza dei partiti è nella nostra esperienza quotidiana. Queste organizzazioni che per tanto tempo hanno costituito l’ossatura della partecipazione, il punto di contatto fra strati sociali ed élite (come si direbbe oggi), o, anche, il canale attraverso cui salivano ascensori sociali che non passavano in altri spazi, sono finite con la Prima repubblica. Come scrive Pasquino nel 2002, “nel corso della Prima Repubblica, di partiti rilevanti, vale a dire che abbiano, come esige la teoria di Sartori, potenziale di coalizione e di ricatto, non ne nascono. Anzi pochissimi sono i partiti che nascono...e ancora meno numerosi sono i partiti che muoiono”. Ignazi così descrive, nel 1997, la staticità del sistema: “Ancora alle elezioni del 1992 la staticità del sistema partitico è impressionante: gli otto partiti tradizionali (dalla Dc al Pr) sono ancora tutti presenti, con l’unica variante della trasformazione del Pci in Pds”. Ed è interessante che citi proprio la trasformazione del Pci in Pds, perché uno dei grandi cambiamenti che pesa sui nostri partiti è proprio la stessa data fatidica che ha ridisegnato il mondo, il 1989, con la caduta del muro di Berlino. A questo vanno aggiunti i tanti altri fattori che abbiamo vissuto, le inchieste di Mani pulite, la fine dell’idea di un partito cattolico dopo la uccisione di Moro, i referendum elettorali, l’eccesso di debito pubblico, e l’ingresso in Europa. Nasce nella Seconda Repubblica non a caso l’inarrestabile trend dell’astensionismo, segno della disaffezione ai partiti e petrolio per la macchina del populismo, da cui nasce una nuova galassia di piccoli e grandi partiti, spesso più veloci nel distruggersi che nell’affermarsi. Potremmo continuare estendendo il discorso all’equivalente velocità e caducità della durata di governi e ruoli istituzionali dal 2011 fino ad ora. Ma quello detto fin qui basta, giusto per ricordare in che tempesta è da anni la politica nel nostro Paese. Lo dico perché spesso, e con troppa superficialità, si continua a scaricare sui partiti quella che è una crisi di sistema. Ed è tuttavia vero che i partiti oggi hanno come credibile prospettiva quella di ridursi ulteriormente a dimensioni così irrilevanti da essere quasi una sparizione. Sparire d’altra parte è un fatto di efficacia - di sicuro queste organizzazioni di efficacia ne hanno già sempre meno. Il più grande partito che ha di fronte il problema di cambiare o perire è oggi il Pd, ma questo è vero anche per il M5stelle per il quale il rischio si è materializzato molto presto. Il rischio è presente per altro forze politiche anche al governo, come Lega e Forza Italia, e se oggi Fratelli d’Italia è vincente, ricordiamoci che la sua forza attuale è il risultato dello scontento della crisi di tutti gli altri partiti nominati - e lo scontento è materiale troppo liquido per permettere grandi consolidamenti. Quante possibilità ci sono dunque che un sistema così scosso riesca a riprendersi? Non dovremmo, forse, cominciare a prendere atto che le organizzazioni onnipotenti, che abbracciano ogni aspetto della vita pubblica e offrono soluzioni a ogni aspetto della vita individuale dei cittadini, sono perse definitivamente? E che, forse, dovremmo accettare che il gigantismo politico dei partiti è solo l’alimento del loro continuo bisogno di potere per restare in piedi? Non ho soluzione a queste domande, ma forse non è sbagliato innestarle nella discussione in corso. In un Paese di vecchi i giovani sono fuori legge di Cinzia Dato Il Domani, 8 novembre 2022 In un paese di anziani, che si fingono eterni giovani e sono infastiditi dai giovani veri, dove nascono pochi figli, dal quale i giovani migliori emigrano, si avverte una emergenza giovani. Da troppo tempo le istituzioni non si preoccupano dei giovani, della loro domanda di politiche che garantiscano opportunità formative, spazi dove esercitare la creatività e coltivare interessi culturali, artistici e musicali, di università economicamente accessibili, di attenzione per l’ambiente, di contrasto al disagio sociale, di opportunità lavorative. Questo chiedono i giovani che, invece, sono oggetto di attenzione solo in termini di azioni repressive. Né l’opinione pubblica prevalente riserva loro più sensibilità, essa esprime diffidenza soprattutto per le iniziative collettive. Un esempio si è avuto con i centri sociali. Mentre Berlino su questi ha costruito una nuova e brillante identità culturale, da noi “giovani dei centri sociali” è un’espressione che sottintende anomia, devianza, violenza, marginalità, anziché socialità, creatività, capacità di organizzazione e fruizione culturale a bassi costi, capacità propulsiva di iniziative anche pregevoli, inquietudine fattiva alla ricerca di opportunità di apprendimento ed espressività, lontane purtroppo dalla capacità di proposta istituzionale. L’identità è una dimensione del sociale e noi rimandiamo loro un’immagine orribile di se stessi, anziché vederli e sostenerli per quel che sono: la più grande riserva di energia e innovazione del Paese. Nel tumulto dell’età evolutiva (ormai lunghissima) e prima del passaggio alla maturità, si manifestano in maniera collettiva, libera, spontanea e a volte caotica, con idealità, passione, sperimentazioni, pulsioni, bisogno di individuare limiti, di rasentare il rischio, provocare, modificare, sfidare. Tutto per conquistare sicurezza, forgiare capacità e carattere, esprimere potenzialità in un clima di intensa socialità. Questo vuol dire essere giovani. Dobbiamo difenderci dai giovani o dobbiamo difendere loro dalla società di cui noi siamo responsabili? Sono il nostro futuro, ma noi li abbiamo privati del futuro che per loro è un’angosciosa minaccia. Come si affrontano gli aspetti inquietanti della condizione giovanile? Due milioni di Neet (giovani che non studiano e non lavorano), l’abbandono scolastico, una scuola che ha rinunciato a formare persone inseguendo il mito dell’utilità dell’istruzione, uno dei più bassi tassi di laureati dei paesi Ocse, un mercato del lavoro che non offre sbocchi, l’impossibilità di procreare nell’età biologicamente giusta e di rendersi indipendenti dalla famiglia, lo spreco della loro energia innovativa, che dopo i trent’anni va scemando. Questi sono i veri problemi. “Ma nei rave girano droghe!”. Allora chiudiamo anche discoteche e scuole, anche lì girano droghe. O forse è preferibile che affondino il loro malessere, come molti adulti, facendo uso di antidepressivi e farmaci di ogni tipo o consumando droghe in solitudine? “Ma occupano spazi di altri!”. Quali spazi alternativi offriamo loro? “Ma ascoltano musiche insopportabili!”. Nella storia dell’umanità i giovani ne hanno sempre avuto bisogno. I vecchi non possono capire. I veri giovani ci infastidiscono, ci spaventano, preferiamo gli inutilmente giovani, i giovani che sembrano adulti e gli adulti che sembrano giovani. Essere giovani ci pare davvero un reato. Mettiamo fuori legge la giovinezza? Mettiamo in galera il nostro futuro? Migranti. Bruxelles avverte l’Italia. Ma Tajani: serve il sostegno della Ue di Francesca Basso Corriere della Sera, 8 novembre 2022 Il monito della Commissione europea: gli Stati membri hanno il dovere morale e legale di salvare le vite in mare. I toni sono pacati e sono affidati alla portavoce della Commissione Ue che si occupa di Affari interni e migrazione, Anitta Hipper, ma il contenuto non lascia dubbi anche quando risponde sugli sbarchi dell’Italia, concessi a minori, donne e fragili: l’esecutivo accoglie “con favore” che domenica siano stati fatti scendere a terra circa 500 migranti “con l’Italia che ha permesso lo sbarco delle persone vulnerabili” ma “esiste un dovere e una competenza che spetta agli Stati membri. Chiediamo a tutti gli Stati membri di salvare vite umane e di garantire che assumano i loro obblighi legali per assicurare che le persone in pericolo vengano salvate”. L’invito all’Italia c’è ma non è diretto. Hipper ricorda poi che “la Commissione non è responsabile del coordinamento delle operazioni in mare né di scegliere il porto di sbarco”. Per l’esecutivo comunitario il diritto internazionale è chiaro: “Esiste un dovere sia morale che legale di salvare vite a prescindere dalle circostanze che hanno portato le persone a una situazione di emergenza in mare” e aggiunge che “nelle norme internazionali dovrebbe essere fatto ogni sforzo per garantire che il tempo sia ridotto al minimo per le persone che rimangono a bordo di queste navi e la consegna in un luogo sicuro dovrebbe tenere conto anche delle circostanze particolari del caso”. Inoltre aggiunge che “ogni caso è diverso ma incoraggiamo tutte le autorità a collaborare in modo da agevolare lo sbarco”. Invitata a intervenire sulle parole di papa Francesco - che ha detto che “l’Unione Europea deve fare una politica di collaborazione e aiuto, non può lasciare a Cipro, Grecia, Italia e Spagna la responsabilità di tutti i migranti per mare” - la Commissione non ha commentato, come spesso accade in questi casi, ma ha ricordato che “l’Ue fornisce un supporto concreto all’Italia nella gestione della migrazione. Nell’ambito del nuovo meccanismo volontario di solidarietà, la Commissione sostiene i trasferimenti di ricollocamento, in collaborazione con le autorità nazionali e insieme all’Agenzia dell’Ue per l’asilo e all’Organizzazione internazionale per le migrazioni”. Il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha detto che al consiglio Affari esteri del 14 novembre andrà “a dire che l’Italia deve avere il sostegno dell’Europa perché la questione immigrazione è una grande questione che deve essere risolta a livello comunitario”. Lo sforzo da parte di Bruxelles è di non andare allo scontro con il governo italiano, tanto più che la titolare agli Affari interni, la commissaria Ylva Johansson, non ha avuto ancora occasione di incontrare o parlare con il ministro Matteo Piantedosi perché impegnata in diverse missioni all’estero che si concluderanno con il G7 dei ministri degli Interni in Asia la prossima settimana. Resta il nodo delle richieste d’asilo da parte dei migranti sulle navi delle Ong. Per il ministro della Giustizia Carlo Nordio “il Trattato di Dublino è chiarissimo: la gestione deve essere fatta dallo Stato di primo accesso. E se una nave straniera in acque internazionali accoglie dei migranti, lo Stato di primo accesso è quello di bandiera di quella nave”. Ma in Europa non sono tutti d’accordo. Migranti. Il diritto residuale del mare di Fulvio Vassallo Paleologo Il Manifesto, 8 novembre 2022 Piantedosi e Salvini minacciano i comandanti delle navi che si rifiuteranno di riportare in acque internazionali persone considerate come “carico residuale” e non obbediranno ad un decreto illegittimo, sia nelle premesse che fanno riferimento a Regolamenti europei ormai abrogati, che nel dispositivo, secondo il quale il comandante della nave, dopo la selezione dei naufraghi “vulnerabili”, dovrebbe uscire dal porto e ritornare in acque internazionali. Prosegue lo stallo dentro il porto di Catania, con due navi delle Ong (Humanity 1 e Geo Barents) bloccate per il mancato sbarco di tutti i naufraghi, l’Ocean Viking di Sos Mediterranée rimasta al limite delle acque territoriali per completare in un porto sicuro le attività di salvataggio intraprese oltre una settimana fa, mentre la Rise Above si è diretta verso Reggio Calabria, dopo essere rimasta per giorni al largo della costa orientale siciliana. Intanto la Commissione europea richiama l’Italia, invitandola a “minimizzare la permanenza delle persone a bordo delle navi”. Come peraltro prescrivono il diritto internazionale del mare e il Regolamento europeo n.656 del 2014. Ma il governo italiano replica con i consueti slogan propagandistici sulla difesa dei confini e si profilano le prime sanzioni pecuniarie nei confronti delle Ong, mentre non si possono escludere iniziative giudiziarie da parte della Procura di Catania, che ha indagato per anni, senza alcun esito, sui soccorsi operati dalle navi umanitarie. Piantedosi e Salvini minacciano anche i comandanti delle navi che si rifiuteranno di riportare in acque internazionali persone considerate come “carico residuale” e non obbediranno ad un decreto illegittimo, sia nelle premesse che fanno riferimento a Regolamenti europei ormai abrogati, che nel dispositivo, secondo il quale il comandante della nave, dopo la selezione dei naufraghi “vulnerabili”, dovrebbe uscire dal porto e ritornare in acque internazionali. Anche se nessuno Stato, incluso quello di bandiera, ha dato disponibilità per garantire un porto di sbarco sicuro dopo gli “sbarchi selettivi” effettuati nel porto di Catania. Sono infatti rimaste senza risposte le “note verbali” trasmesse dalla Farnesina ai paesi di bandiera delle navi soccorritrici, che si basavano sulla tesi che la competenza ad indicare un porto di sbarco doveva essere assunta dallo Stato di bandiera delle navi che avevano operato i soccorsi. Una tesi priva di basi legali e già in passato, nei processi contro le Ong, smentita dai provvedimenti di archiviazione delle accuse formulate dagli organi di polizia. Ma il governo italiano ha preferito raccogliere il plauso di Orbán per questa nuova prassi di “difesa dei confini esterni dell’Unione Europea”. Mentre Salvini torna a parlare di “viaggi organizzati”, baluardo della sua difesa nel processo in corso a Palermo sul caso Open Arms, la scelta dell’attuale governo di fare entrare le navi per sbarcare solo una parte dei naufraghi costituisce una novità rispetto al passato, quando si vietava addirittura l’ingresso nelle acque territoriali o nei porti. Adesso le navi delle Ong sono entrate in porto su richiesta delle autorità marittime italiane, che dunque non hanno evidentemente considerato come passaggio “non inoffensivo” in base alla Convenzione Unclos (art.19) il loro ingresso nelle acque territoriali italiane. È fallito così il tentativo di configurare come attività contro le leggi sull’immigrazione le operazioni di ricerca e soccorso in acque internazionali svolte nel Mediterraneo centrale da navi inviate da organizzazioni non governative. Ai comandanti della Humanity 1 e della Geo Barents, in base al decreto Piantedosi, è stato tuttavia vietato “di sostare nelle acque territoriali nazionali oltre il termine necessario ad assicurare le operazioni di soccorso e assistenza nei confronti delle persone che versino in condizioni emergenziali e in precarie condizioni di salute segnalate dalle competenti Autorità nazionali”. “A tutte le persone che restano sulla imbarcazione sarà comunque assicurata l’assistenza occorrente per l’uscita dalle acque territoriali”. Sotto questo profilo si è introdotta una prassi discriminatoria che nega l’accesso al territorio ed alla procedura di asilo a una parte soltanto dei naufraghi, sulla base di accertamenti medici che potrebbero nascondere, sulla base dei risultati noti, una precisa selezione in base alla nazionalità, come se coloro che provengono dagli orrori della Libia ma sono originari del Bangladesh o del Pakistan non avessero diritto al riconoscimento di uno status di protezione in Italia. Eppure i Tribunali e la Cassazione hanno, in numerosi casi, ribaltato le decisioni negative delle Commissioni territoriali ed hanno riconosciuto anche per persone provenienti da questi paesi uno status di protezione. Il Regolamento Dublino III del 2013, che le destre europee non hanno voluto modificare, e le Direttive sulle procedure non prevedono la selezione dei naufraghi a bordo delle navi e tantomeno la presentazione delle domande di asilo ai paesi di bandiera delle stesse. Si minacciano nuovi processi contro i comandanti delle Ong. Non si può restare in attesa che la magistratura penale faccia il suo corso, particolarmente accidentato qualora dovessero emergere responsabilità ministeriali. Occorre che i cittadini solidali si organizzino per denunciare le inadempienze delle autorità governative e per promuovere iniziative sul territorio di concreta solidarietà ai migranti, in difesa dei loro diritti. Non si possono utilizzare i corpi e le vite delle persone bloccate sulle navi o abbandonate in mare per eludere gli obblighi di soccorso e ricattare l’Unione europea in vista della modifica del Regolamento Dublino, trasformando esseri umani in ostaggio. Migranti. Flick: “La linea Piantedosi è incostituzionale e contraria alla legge del mare” di Liana Milella La Repubblica, 8 novembre 2022 Il provvedimento Piantedosi? “È contrario alla legge del mare, alle convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia, e alla nostra Costituzione”. Distinguere a bordo tra chi è fragile e chi no? “Le nostre leggi vietano di discriminare in base al sesso, all’età, oppure a un’infermità in atto”. Non ha dubbi Giovanni Maria Flick, ex presidente della Consulta ed ex Guardasigilli del primo governo Prodi. Il ministro dell’Interno è Piantedosi, e non Salvini, ma sembra proprio che siamo tornati a 4 anni anni fa e alla “guerra” dell’Italia contro i migranti. “Sì, è proprio così, ma questa è una guerra più che contro di loro contro chi li salva applicando la legge fondamentale del mare, l’ordinamento internazionale, e la nostra Carta”. Di che leggi parla? “Di tutte quelle che prevedono il salvataggio di chi rischia la vita in mare e che impongono di accogliere subito la nave in un porto sicuro e vietano di rimandare nello stesso posto da cui è fuggito chi si trova in pericolo”. Se le cose stanno così il decreto di Piantedosi è illegittimo... “Lo ritengo contrario alla legge del mare, alle convenzioni internazionali e alla nostra Costituzione”. In che senso è incostituzionale? Perché blocca i migranti sulle navi e pretende di distinguere tra chi è “fragile” e chi no? “Per entrambe queste ragioni. Perché la vita è sacra e la Costituzione non attribuisce all’autorità pubblica il diritto di distinguere il grado di pericolo e la diversità di posizione tra coloro che rischiano la vita o che comunque verrebbero respinti. L’accoglienza in un porto “sicuro” è il presupposto necessario per verificare se quelle persone possano essere accolte oppure no”. Questa “selezione” il governo vuole farla direttamente sulle navi. È mai possibile? “Forse potrebbe esserlo su navi che battono bandiera italiana e sono parte del territorio nazionale. Ma non può esserlo su navi straniere e da parte di chi sta tentando di salvare persone in pericolo”. Certo è paradossale pensare che l’equipaggio di una Ong possa assumere le funzioni proprie di un ufficio di polizia di frontiera... “Sono d’accordo. Non si possono imporre questi obblighi a chi sta operando un salvataggio per spirito umanitario e per giunta in condizioni di grande difficoltà”. Esiste un criterio per decidere che una mamma e un bambino possono scendere a terra perché “fragili”, mentre il marito e padre deve restare a bordo? “Mi pare veramente sconcertante. Quando la nave entra nel territorio italiano chi è a bordo è soggetto alla nostra legge. Che non discrimina le condizioni di fragilità in base al sesso, all’età, oppure a un’infermità in atto. Ogni migrante ha alle spalle un viaggio drammatico, forse le torture nei campi libici, e adesso incombe su di lui pure il rischio di essere rimandato indietro”. Queste navi non sono italiane. Si può chiedere al comandante una simile procedura? “Le convenzioni internazionali impongono il diritto-dovere di portare la nave in un porto sicuro; non certo quello di operare o condividere discriminazioni tra un migrante e l’altro”. Ma proprio a quel comandante l’Italia, con le nuove regole del ministro dell’Interno, ordinerà di rimettersi in mare con il suo carico di migranti, a quel punto parziale... “L’Italia non può imporre una simile procedura, deve risolvere prima il problema a livello europeo, perché ha sottoscritto gli accordi di Dublino che l’hanno investita della funzione di controllo delle frontiere europee lungo 800 km di costa. Il nostro Paese ha il dovere di accogliere i migranti e di verificare poi, quando tutti sono in salvo, chi possa restare e chi no”. Ma ha letto cosa propone il governo? L’asilo spetterebbe alla nazione cui appartiene la Ong che ha salvato i migranti... “L’Italia, lo ripeto, non può dimenticare le convenzioni e gli accordi che ha sottoscritto in cui questa nuova soluzione ovviamente non è prevista e peraltro contraddice la necessità che la nave venga accolta “sollecitamente” in un porto sicuro. In ogni caso non possono essere i migranti a pagare il prezzo delle diatribe tecniche e politiche del nostro governo in conflitto con gli altri membri della Ue, né tantomeno si possono “monetizzare” gli stessi migranti perché vengano trattenuti da paesi che non rispettano i diritti umani o perché non vengano usati per creare difficoltà alla Ue”. Spagna. Dalla vendetta alla riparazione di Giovanni Zavatta L’Osservatore Romano, 8 novembre 2022 Le conclusioni del Congresso di pastorale penitenziaria. Quattro appelli - alla Chiesa, alla società, ai giudici, ai mezzi di comunicazione - per studiare insieme, se e quando possibile, misure restrittive alternative al carcere e, più in generale, per tracciare un profilo diverso del sistema detentivo spagnolo. È quanto contiene la dichiarazione finale del decimo Congresso nazionale di pastorale penitenziaria svoltosi nei giorni scorsi a El Escorial (Madrid) su iniziativa dei relativi organismi della Conferenza episcopale. Otro cumplimiento de pena es posible il titolo dell’incontro che ha riunito 240 tra ecclesiastici (presente fra gli altri il cardinale arcivescovo di Barcellona, Juan José Omelia Ornella, presidente dell’episcopato) e laici, specialisti del settore, in tavole rotonde suddivise in tre aree, religiosa, sociale e giuridica. Si è partiti da un interessante dato di fatto: durante il lungo periodo di pandemia, in Spagna molti detenuti hanno scontato la pena attraverso misure alternative, come terzo grado (che consente di uscire di prigione e dormire in un centro specifico collegato), controllo telematico, sospensione della pena, Tbc (impiego a beneficio della comunità), laboratori. “Ciò che sorprende”, si legge nella nota, “è che in nessun caso tali misure hanno prodotto più reati o più detenuti. Questo ci ha portato alla convinzione che un altro modo di scontare la pena sia possibile, senza necessariamente andare in carcere”. Il congresso ha avuto una partecipazione varia e plurale: erano presenti cappellani, delegati diocesani, volontari, avvocati, lavoratori dell’amministrazione penitenziaria, responsabili di associazioni impegnate nel settore, che hanno offerto la loro testimonianza con l’obiettivo di aprire “un orizzonte di speranza” a chi viene raggiunto da una sentenza di condanna. Una sfida difficile perché “la società in cui viviamo continua a premere per pene più dure”. Una giustizia “vendicativa”, punitiva, alla quale si vuole opporre una giustizia “riparativa”, educativa, umana. Tra i dati emergenti, il profilo del recluso generalmente caratterizzato da povertà e dissoluzione della famiglia, la presenza di detenuti con malattie mentali (con la necessità di cure che vadano oltre il carcere), l’aumento di reclusi stranieri colpiti da decreto di espulsione e senza possibilità di regolarizzazione, la necessità di una riforma della giustizia minorile nonché dello studio di programmi specifici, alternativi, psicoeducativi per i diversi reati. Si auspica, in particolare, che “le pene alternative non siano un’eccezione ma la regola che concorre al reinserimento del detenuto”, oltre all’elaborazione di politiche preventive attraverso “un’educazione ai valori che aiutino la persona a crescere nella responsabilità e nella libertà”. Alla Chiesa la Commissione episcopale di pastorale sociale e promozione umana (dalla quale dipende il Dipartimento di pastorale penitenziaria) chiede un “atteggiamento samaritano affinché, attraverso l’accoglienza, l’ascolto e l’accompagnamento dei privati della libertà, si possa nobilitare la loro condizione di persone e figli di Dio”. Una “sensibilità misericordiosa” che aiuti il detenuto nel suo cammino di riconciliazione con se stesso, con la vittima e con Dio. Tale cammino deve coinvolgere le comunità cristiane: “Siano aperte ad accogliere i detenuti in semilibertà come un membro in più della comunità” nel cammino verso il loro reinserimento sociale e spirituale; e “promuovano il volontariato come mezzo di incarnazione della Chiesa nel mondo carcerario e con spirito di redenzione”. La società è invece sollecitata a “un cambio di mentalità”: superare il binomio crimine-carcere, immaginare il prigioniero sulla via della reintegrazione, investire in politiche di prevenzione e sviluppo e favorire una maggiore giustizia sociale. A magistrati e giudici si chiedono sentenze che prendano in considerazione il condannato “senza condizionamenti sociali e mediatici”, ipotizzando (“con coraggio”) quando possibile misure alternative al carcere e favorendo il suo futuro reinserimento. In particolare, per i malati di mente, che “la cella sia l’ultima soluzione possibile”, privilegiando strade che aiutino il trattamento sanitario e l’eventuale guarigione. La scommessa è quella della “giustizia riparativa” come via per “responsabilizzare, riconciliare e reintegrare vittima, delinquente e società, per il bene di un sistema penale e penitenziario più giusto e umano”. Ma anche i mezzi di comunicazione sono chiamati a fare la loro parte, per esempio bandendo il sensazionalismo e l’invadente copertura mediatici dei crimini, e inoltre pubblicando i risultati positivi raggiunti fuori dal carcere dai detenuti in semilibertà. Il sogno - conclude la dichiarazione - è quello di “un mondo in cui ci siano sempre meno prigionieri, un mondo che vada oltre il carcere per il recupero delle persone, in cui le pene vengano eseguite attraverso misure alternative in un ambiente sociale e familiare positivo, consapevoli che isolare un individuo non lo aiuta alla sua guarigione”. Il dialogo Italia-Egitto alla prova dei fatti di Francesca Paci La Stampa, 8 novembre 2022 Abbiamo due date per capire se l’incontro di oltre un’ora tra la premier italiana Giorgia Meloni e il presidente egiziano Al Sisi segnerà oltre alla rinnovata collaborazione economica tra i due Paesi un reale cambio di passo sui casi, diversissimi ma paralleli, di Giulio Regeni e Patrick George Zaki. La prima è il 29 novembre prossimo, quando lo studente dell’università di Bologna tornerà in aula, l’ennesima udienza di un processo kafkiano che lo vede accusato di cospirazione contro lo Stato per un articolo sulla reale persecuzione dei cristiani copti nel suo Paese. La seconda è il 13 febbraio 2023, data a cui, appena un mese fa, è stata aggiornata l’udienza del procedimento sull’omicidio di Regeni nella speranza che, nel frattempo, l’Italia riesca ad ottenere dalle autorità del Cairo gli indirizzi dei quattro agenti dei servizi segreti indagati perché ritenuti i responsabili materiali della morte di Regeni. Se è vero che, come ci dicono le note delle diplomazie incrociate, il bilaterale di ieri a Sharm el Sheikh ha visto l’Italia manifestare una “forte attenzione” per i due casi e l’Egitto raccoglierla non mancherà modo di vederne i frutti. A strettissimo giro. Altrimenti saremo di fronte all’ennesima, magari ultima, tappa di avvicinamento alla normalizzazione dei rapporti tra due Paesi separati da un ingombrantissimo convitato di pietra. Non è una grande novità in sé che Italia e Egitto programmino di lavorare insieme per ottenere verità e giustizia sulla sorte del ricercatore friulano assassinato al Cairo, dopo una settimana di torture, il 3 febbraio 2016. Da quasi sei anni qualsiasi premier italiano impegnato in un meeting con il presidente Al Sisi inizia il suo discorso ricordando che, grazie all’irriducibile lavoro della magistratura di Roma, sappiamo come sono andate le cose al punto da conoscere i nomi di quattro presunti assassini del nostro connazionale. E da sei anni la controparte assicura di voler collaborare con la Procura di Roma salvo negare poi, mese dopo mese, non solo le accuse ma il principio stesso del processo, la consegna degli indirizzi degli 007 indagati a cui notificare l’atto. Un rumore di fondo fastidioso, certo, ma che, al netto di un grande permanente imbarazzo, non ha impedito il partnerariato tra i due Paesi, dalla gestione dei flussi migratori ai rapporti commerciali. Così come da quasi tre anni il governo ma soprattutto il Parlamento italiano non hanno smesso di pressare per la liberazione di Zaki, arrestato il 7 febbraio 2020 e da allora prigioniero di un limbo giuridico senza fine. Invano. Cosa cambia oggi o cosa può cambiare, dopo l’incontro tra Giorgia Meloni e Abdel Fattah Al Sisi? Tanto per cominciare l’Egitto ha oggi un ruolo geopolitico che non aveva negli anni passati, un ruolo importantissimo per l’Italia sia sul piano delle forniture di gas, mai tanto necessarie come in questi mesi, sia su quello dei migranti, su cui il Cairo sta cercando di ritagliarsi il ruolo di Erdogan del Mediterraneo. Ed è un fatto che la geopolitica non si misuri con i parametri dell’etica. Finora l’Italia è sembrata voler mantenere i rapporti con l’Egitto senza dichiararlo troppo, senza tanto clamore, almeno fin quando non avesse ottenuto verità e giustizia. Il nuovo governo ha aperto una nuova finestra di collaborazione ricordando il rispetto dovuto alla propria sovranità nazionale: abbiamo di fronte due date per capire se è cambiata stagione e come. Egitto. “Se Alaa muore in carcere sarà sangue sulle mani dei governi occidentali” di Francesca Caferri La Repubblica, 8 novembre 2022 Parla la sorella del dissidente. Sanaa Seif, 28 anni, combatte nel nome del fratello maggiore, che è in sciopero della fame da 220 giorni nelle prigioni del Paese. La voce di Sanaa Seif da Sharm el Sheik è un filo d’acciaio. Fredda, dura, precisa. Salvo interrompersi per dare spazio a un singhiozzo contenuto quando non ce la fa più. È di suo fratello maggiore che parla quando dice “su un corpo così deteriorato è questione di ore, non di giorni”. Sanaa è l’ultima figlia di una famiglia, quella di Ahmad Seif e di sua moglie Laila, fra le più importanti dell’intellighenzia egiziana. A 28 anni, ne ha già passati diversi in prigione per la sua attività in difesa dei diritti umani: compresi quelli in cui suo padre si è ammalato e poi è morto senza che potesse salutarlo. Ora tiene alta l’attenzione sulla sorte di Alaa Abdel Fatah, 40 anni, ingegnere, blogger, attivista, volto e cervello di Piazza Tahir, da 220 giorni in sciopero della fame in una cella egiziana, da domenica anche in sciopero della sete. Sanaa, come sta Alaa? “Non lo sappiamo. Ieri mia madre ha aspettato tutto il giorno fuori dal carcere la sua lettera settimanale. A tarda sera le hanno detto che Alaa non voleva scriverle. Che vuol dire che non ce la faceva. O che loro non avevano gradito ciò che aveva scritto. Abbiamo bisogno che il governo britannico (Alaa, come tutta la sua famiglia, ha la cittadinanza britannica ndr) sia ammesso a visitarlo. Ci serve la prova che sia in vita”. La gente si chiede il perché di una protesta così estrema... “Alaa non è arrivato qui per caso. Viene da nove anni di cella e di promesse mancate: di sentenze scontate e poi di nuove accuse e condanne contro di lui, in un ‘fine pena mai’ che non gli permette di vedere luce. Se vedesse un termine alla sua condanna avrebbe speranza, ma non lo vede. La sua vita, la nostra vita, è paralizzata da nove anni: suo figlio è cresciuto senza di lui. Nostro padre è morto e non lo ha salutato. È troppo per tutti. Qualcuno ha deciso che la nostra famiglia debba essere di esempio, debba pagare perché tutti rimangano in silenzio. Lui ha fatto l’unica scelta che gli era rimasta: essere un esempio ma in modo diverso”. Quando lo ha visto l’ultima volta? “Ad agosto, in carcere. Era già pelle e ossa, mamma dice che ora è fragilissimo. Su un corpo così l’assenza di liquidi può portare alla morte nel giro di ore, non di giorni, come nei corpi in stato normale di forma”. Davvero crede che il governo egiziano lo farà morire in cella? “Io sono stata in quelle celle. Conosco quei medici. Non sono persone normali. Il governo egiziano prima dice che Alaa non è in sciopero della fame perché mangia tre volte al giorno, poi promette che lo alimenterà con la forza se dovesse servire. Qual è la verità? Eppure con le telecamere h24 che gli tengono puntate addosso dovrebbero saperlo”. C’è qualcosa che la fa sperare? “La mobilitazione della gente. I gruppi della società civile che domenica, in apertura di conferenza, hanno ripetuto nei loro interventi ‘Non siamo ancora stati sconfitti’, che è il titolo del libro di Alaa”. I governi? “Poco. Riceviamo solidarietà a parole ma vediamo pochi fatti reali. Se Alaa morirà il suo sangue sarà prima di tutto sulle mani dell’Egitto e della Gran Bretagna, suo secondo Paese. Ma anche di tutti quei governi che in questi anni hanno lasciato carta bianca ad Al Sisi chiudendo gli occhi davanti a quello che accade in Egitto: la Germania, la Francia e anche l’Italia. So che per voi è diverso, che avete già un martire, Giulio. Ma proprio per questo chiedo anche a voi aiuto perché mio fratello possa vivere ancora”. Filippine. Il direttore del sistema carcerario arrestato per l’omicidio di un giornalista agenzianova.com, 8 novembre 2022 Il direttore dell’Ufficio per le carceri delle Filippine, Gerald Bantag, è stato incriminato per l’assassinio di Percival Mabasa, giornalista che lo aveva accusato di aver trasformato il sistema penitenziario in “un’organizzazione criminale”. Lo si legge in un comunicato diramato dal ministero dell’Interno e dalla polizia nazionale, secondo cui Bantag, ora sospeso dal proprio incarico, avrebbe organizzato l’omicidio offrendo una somma pari a 9.300 dollari a tre capi di un’organizzazione criminale detenuti in uno dei penitenziari sotto il suo controllo. Per l’assassinio di Mabasa è stato arrestato un individuo identificato come Joel Escorial, che avrebbe confessato di essere stato assoldato da un detenuto di nome Jun Villamor. Quest’ultimo sarebbe stato successivamente ucciso in carcere su ordine di Bantag e di un altro funzionario di sicurezza, Ricardo Zulueta, anch’egli sospeso. “Bantag aveva un chiaro motivo per ordinare gli omicidi”, si legge nel comunicato. Il giornalista Mabasa è stato ucciso lo scorso 3 ottobre a colpi d’arma da fuoco. Bantag ha negato il suo coinvolgimento sia nell’assassinio del reporter che in quello del detenuto Villamor. Qatar. Dai diritti negati ai morti nei cantieri: le ombre che pesano sui Mondiali di calcio di Francesca Caferri La Repubblica, 8 novembre 2022 Gli organizzatori temono le proteste delle minoranze e dei discriminati. “Siamo stanchi dei doppi standard. È ironico che certi commenti su di noi vengano da Paesi in Europa che si definiscono democrazie liberali. È una cosa arrogante, e se devo essere franco, razzista”. A meno di due settimane dall’inaugurazione dei Mondiali di calcio in Qatar, i guanti sono definitivamente volati via e le critiche che sin dal momento dell’assegnazione hanno accompagnato questa edizione della Coppa del mondo sono esplose. Protagonista dell’ultimo botta e risposta è stato il ministro degli Esteri qatarino Mohammed bin Abdulrahman Al-Thani, che in un’intervista alla Frankfurter Allgemeine Zeitung ha risposto senza mezza termini alle critiche arrivate nei giorni scorsi dalla Germania. Parole dure che non bastano però a fermare la pioggia di critiche all’indirizzo di Doha. Il mancato rispetto dei diritti dei lavoratori, delle persone Lgbtq+ e delle differenti posizioni politiche, assieme alle accuse di aver comprato migliaia di tifosi con biglietti e soggiorni gratuiti a patto che cantino, applaudano e sventolino le loro bandiere, sono solo alcuni dei punti sollevati nei giorni scorsi. Nel cuore della tempesta è finito il presidente della Fifa Gianni Infantino. Il suo invito alle squadre ad occuparsi solo di calcio ha provocato reazioni durissime. “Se vuole che il mondo si concentri sul calcio, la soluzione è semplice: la Fifa inizi ad occuparsi delle gravi questioni riguardanti i diritti umani anziché spazzarle sotto il tappeto”, ha detto il direttore del Programma giustizia sociale ed economica di Amnesty International, Steve Cockburn. Alla sua hanno fatto eco molte altre voci. Da Londra un rapporto dell’associazione Equidem ha raccolto le testimonianze di decine di lavoratori africani e asiatici che hanno subito abusi sessuali, discriminazioni e sono stati costretti a lavorare senza paga e senza assistenza nei cantieri degli alberghi. Su giornali e tv di tutto il mondo si sono moltiplicate le testimonianze dei lavoratori rimandati a casa senza salario prima del fischio di inizio. Ed è tornata a farsi sentire la voce di Malcolm Bidali, guardia di sicurezza kenyota che lo scorso anno aveva denunciato in via anonima la vita dei lavoratori stranieri in Qatar, salvo essere individuato, incarcerato per tre mesi (di cui 28 giorni in isolamento) e infine espulso. “Tutto quello che dicono sulle riforme è falso”, ha scritto. Giudizio in parte ingeneroso: negli ultimi anni il Qatar ha approvato le leggi più avanzate della regione in tema di tutela dei diritti dei lavoratori stranieri. Il problema è che l’applicazione di queste norme è rimasta spesso sulla carta, complice la fretta di costruire da zero le infrastrutture necessarie per una delle più grandi manifestazioni sportive del mondo. Di qui le critiche. A pochi giorni dalla cerimonia di apertura, è evidente che tutto questo non è servito a fermare il Mondiale. Ma i campionati non saranno il trionfo che il Qatar auspicava e per il quale ha investito, secondo le stime, 300 miliardi di dollari. A disturbarli ci penseranno le fasce arcobaleno che indosseranno il capitano dell’Inghilterra, Harry Kane, e una decina di altri colleghi; le figurine, replica di quelle ufficiali, che al posto dei volti dei calciatori riprodurranno quelli dei lavoratori (6.500 secondo il Guardian) morti nei cantieri per i Mondiali; e altri gesti che di certo non mancheranno. Come quelli di sostegno ai movimenti di protesta di cui sono già stati protagonisti i calciatori iraniani.