Reati ostativi e dintorni: Stato di diritto verso il collasso per bulimia penale di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 7 novembre 2022 Provvedimenti su onde emotive, inasprimento delle pene a ogni allarme sociale e leggi emergenziali diventate ordinarie e introdotte per ogni fattispecie ritenuta grave. E il carcere, ma non solo, esplode. Non essendo in grado di fornire risposte di tipo politico, o sociale, o culturale, o educativo a determinati fenomeni di cronaca, la politica sceglie puntualmente la via più breve, tra l’altro di facile consenso: quella di introdurre sempre nuove figure di reato, indipendentemente da qualunque fenomenologia criminale, da qualunque osservazione degli effetti che nuove pene hanno in concreto. Puntualmente, però, tali provvedimenti, a lungo termine non offrono la soluzione. E allora che fare? Si inaspriscono le pene. Ed è così che il governo ha subito emanato due decreti. Uno ‘conservativo”, ovvero rendere il più difficile possibile - se non impossibile - la concessione dei benefici penitenziari ai detenuti che rientrano tra i reati cosiddetti “ostativi”. L’altro è spacciato per “salvifico”, mentre in realtà è l’inasprimento di una pena già esistente per risolvere l’emergenza (dettata dai mass media) “rave party”. In realtà c’è il sospetto che anche il terzo decreto, quello che rimanda a fine dicembre l’attuazione della riforma Cartabia, non sia così distante dal panpenalismo. Sì, perché contempla anche la giustizia riparativa e le misure alternative. Alla luce del mantra della “certezza della pena”, potrebbero fare qualche ritocchino in senso restrittivo? Ma è solo un’ipotesi, e si spera che venga smentita dai fatti. La conseguenza, tra l’altro dettata dalla retorica populista penale “certezza della pena”, è che pena significhi sempre più carcere, e soltanto carcere. Se la legislazione si è nel tempo evoluta, nel senso di affiancare alla detenzione pene e percorsi alternativi, nell’uso politico che si fa del tema tutto questo scompare, e fare giustizia significa quasi soltanto sbattere in galera e buttar via la chiave. Gli effetti concreti ce li abbiamo davanti ai nostri occhi: il sovraffollamento carcerario. Da ricordare sempre che, oltre al discorso dell’abuso della custodia cautelare (e quindi i relativi innocenti fino a prova contraria in carcere), abbiamo il dato che il garante nazionale delle persone private della libertà ha snocciolato nella sua recente relazione al parlamento: dei 54.786 detenuti registrati a giugno scorso e dei 38.897 che stavano scontando una sentenza definitiva, ben 1319 sono in carcere per esecuzione di una sentenza di condanna a meno di un anno e altre 2473 per una condanna da uno a due anni. L’emergenza carceraria, oggi ancora più esasperata per il numero abnorme di suicidi in carcere, è anche il frutto di una politica miope (e continua ad esserlo per ricercare il consenso) che ha voluto vedere nella sanzione penale, e, quindi, nel carcere, la soluzione di ogni problema. Il panpenalismo esasperato, una volta contestualizzato in un sistema che prevede l’obbligatorietà dell’azionepenale, una volta contestualizzato all’interno di un sistema sanzionatorio penale che è basato prevalentemente sulla privazione della libertà personale, e una volta contestualizzato in un sistema di misure, in cui non sono precisamente e tassativamente delineate le ipotesi di custodia cautelare in carcere, ci sta man mano riportando a quelle condizioni che fecero scattare la famosa sentenza Torregiani della Corte Europea dei diritti umani. L’articolo 4 bis, quello ostativo, è l’esempio perfetto del panpenalismo. Una norma che nasce come una eccezione (le stragi di mafia) ma che con il passar del tempo si è ampliata e come una calamita ha attirato a sé tutti quei reati che diventano - a seconda le emozioni del momento - delle vere e proprie emergenze. Anche quando le emergenze, di fatto, non ci sono. Tant’è vero che siamo arrivati fino alla “spazza-corrotti”. La famigerata riforma Bonafede che ha allargato il 4 bis anche nei confronti di chi commette reati di corruzione nella pubblica amministrazione. Se si analizza il catalogo dei reati ostativi contemplati nelle versioni di volta in volta innovate, si può allora constatare come tale catalogo si estenda al verificarsi di fenomeni criminali che suscitano un particolare allarme sociale (traffico di immigrati, reati a sfondo sessuale, terrorismo fino ad arrivare, appunto, alla corruzione). La norma evita le che persone condannate per determinati delitti (quindi non solo mafiosi), di volta in volta ritenuti sintomatici di pericolosità sociale, possano usufruire dei permessi premi (poche ore fuori dal carcere) o la liberazione condizionale: si è creata una presunzione di pericolosità superabile solo attraverso condotte collaborative o in presenza di determinati elementi e paletti quasi insormontabili per cercare di evitare che la sentenza della corte costituzionale si pronunci definitivamente. Nulla cambia, il governo Meloni è in perfetta continuità con il passato: si continua a legiferare con decretazione d’urgenza, reiterando i provvedimenti e incidendo su quelli già vigenti in chiave di inasprimento. I problemi di ordine e sicurezza non vanno ignorati, ma è non si può rispondere sempre con i soliti strumenti penali. Non è una visione sovversiva, ma liberale. Il tempo passa, e si rischia di non controllare più il fenomeno della bulimia penale. E come ogni malattia non curata, si rischia il collasso definitivo. Opportunità di lavoro dal mondo digital: i progetti nelle carceri di Vittorio Bellagamba quotidiano.net, 7 novembre 2022 Sirti, hub di innovazione nel campo dello sviluppo delle infrastrutture di rete e dei servizi digitali e cybersecurity ha avviato progetti e iniziative volti a sensibilizzare e incentivare l’inclusione sociale e lavorativa nel settore Ict. Tra questi, attività di formazione dedicate alle giovani risorse, attuali e potenziali, e al reinserimento lavorativo di detenuti e detenute. Ma anche progetti finalizzati a promuovere l’empowerment femminile in una industry ad alto contenuto tecnologico come quella in cui opera. Spiega Clemente Perrone (nella foto in basso), Chief People, Organization & Communication Officer del Gruppo Sirti: “Sirti è un hub di innovazione nello sviluppo delle infrastrutture di rete e dei servizi digitali e di cybersecurity fondato nel 1921, che opera da oltre cento 100 anni nei settori delle telecomunicazioni e della trasformazione digitale e vanta 3.500 dipendenti. Nel nostro ruolo, ogni giorno, contribuiamo concretamente allo sviluppo del Paese, costruendo quelle infrastrutture che sono ormai considerate le autostrade della comunicazione di ultima generazione. Permettiamo alla gente e alle cose di connettersi, aspetto fondamentale dell’attuale era digitale in cui siamo immersi”. Quali i progetti per incentivare l’inclusione sociale e lavorativa nel settore ICT? “L’ultima iniziativa lanciata è il progetto #STEMinPurple, campagna di sensibilizzazione realizzata in sinergia con Nokia e diffusa sui social media, con l’obiettivo di promuovere la gender equality in ambito Stem. Crediamo sia necessario creare consapevolezza, internamente ed esternamente alle aziende, in tema di uguaglianza di genere e inclusione in un settore come quello ad alto contenuto tecnologico, spesso percepito come prettamente maschile”. Le vostre iniziative di educational sono rivolte anche alle fasce deboli? “Sì, e anche qui il tema dell’inclusione è cruciale. Circa un anno fa, abbiamo avviato l’iniziativa “Programma Lavoro Carcerario”, realizzata in collaborazione con i ministeri della Giustizia e dell’Innovazione Tecnologica e dedicata alla reintegrazione dei detenuti. Sirti ha guidato le fasi di formazione in materia di infrastrutture di rete, indispensabili per portare il servizio di banda larga in case, scuole, strutture sanitarie e siti remoti. Abbiamo implementato al carcere di Torino un programma di formazione e avviamento al lavoro nell’ambito delle carceri, tradizionalmente non in grado di offrire sufficienti opportunità lavorative ai detenuti”. Il diritto penale totale tra macerie costituzionali e decretazioni di urgenza di Michele Passione Il Dubbio, 7 novembre 2022 Con buona pace delle premesse di depenalizzazione del ministro Nordio, ecco il 434 bis: l’ennesimo reato creato “in tempo reale”. Del decreto legge n. 162 si è già scritto di tutto, vuoi con riferimento alle disposizioni concernenti la disciplina delle ostatività in materia penitenziaria (non solo per gli ergastolani), vuoi a proposito del rinvio al 30 dicembre del D.l.vo n.150 (c.d. “riforma Cartabia”), ed anche dell’introduzione del delitto di cui all’art.434 bis c.p.p. In disparte l’ulteriore disposizione in materia di obblighi di vaccinazione anti sars - cov - 2 (che conferisce alla disciplina di urgenza una eterogeneità di materia sulla quale sia la Presidenza della Repubblica che la Corte costituzionale hanno già più volte espresso in passato il loro sindacato), qui si intende svolgere alcune considerazioni cursorie sul delitto di nuovo conio, riferibili alla sua formulazione e alla sua potenziale vis espansiva. Quanto alla forma: nel primo comma del nuovo reato il Legislatore prefettizio (ha ragione Gian Domenico Caiazza, quella è la farina del fornaio) si preoccupa di spiegare maieuticamente al cittadino (corvo? ribelle? studente? operaio? Il menù è assai fornito, e destinato ad ampliarsi a ogni forma di dissenso) di cosa si parla. Si dirà, meglio essere chiari, hai visto mai non si capisca. Così, con una allitterazione senza precedenti apprendiamo che “l’invasione di terreni o edifici consiste ne… l’invasione arbitraria di terreni o edifici altrui, pubblici o privati”.Per comprendere meglio di che si tratta, il lettore dovrà comparare la norma de qua con l’art.17 Cost, scoprendo che alla sicurezza o incolumità pubblica (possibili limiti alla libertà di riunione in luogo pubblico) si aggiunge “il pericolo” (astratto? concreto? valutato come?) “per l’ordine pubblico, o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. L’ordine pubblico, come stupirsi? Quanto alla salute, la Costituzione prevede possibili limitazioni alla libertà di circolazione (come abbiamo purtroppo imparato in questi anni) per motivi di sanità (o di sicurezza), non certo di ordine pubblico. La linea di displuvio (li conteranno? con i droni, con i numerini all’ingresso? con le proiezioni rispetto alla superficie “invasa”?) è di 50 unità, superata la quale (“allo scopo di organizzare un raduno”; perché solo il rave?) il fratello minore di cui all’art.18 T.U.L.P.S. (una contravvenzione) cede il passo al neonato destrimane, con la lieve differenza che la pena massima passa da sei mesi a sei anni. Nodo gordiano o godo nordiano? Chiarito di che si parla (un’ora circa di vacatio legis, questa volta va bene così, i prefetti non han tempo da perdere; nessun Procuratore generale all’orizzonte), si avvisano poi i consociati non allineati che l’armamentario preventivo, investigativo e repressivo non si limita alla pena draconiana, ma dispone di ulteriori frecce acuminate: misure di prevenzione, confisca, intercettazioni per tutti (anche per i partecipi, non solo per i promotori, stante la previsione di cui agli artt.4, 266 c.p.p.). Però tranquilli; aumentato il bacino del panpenalismo, del diritto penale totale (Sgubbi, Amodio, Manes;dicono qualcosa a qualcuno?), con buona pace delle promesse di depenalizzazione del neo ministro Nordio, c’è chi si affretta a rassicurarci : “abituatevi a un livello di velocità tale per cui la politica darà risposte velocemente ai problemi dei cittadini”. Così il sottosegretario on. avv. Delmastro, secondo il quale in materia penitenziaria vi sono troppi “gargarismi garantistici”, e “se rimani mafioso e non collabori, nella visione della destra in carcere ci rimani e ci muori” (come a verbale nel resoconto stenografico della seduta alla Camera del 31 marzo). Non mancano le considerazioni del viceministro, on. avv. Sisto, secondo cui la norma andrà tipizzata in sede di conversione, anche con riferimento “all’uso di sostanze stupefacenti”, garantendo che “le intercettazioni non devono essere possibili, e meno che mai quelle preventive. L’unico sistema certo per ottenere questo risultato è quello di portare la pena a un livello che ne inibisca l’uso” (il che evidenzia come la pena non sia stabilita a cagione della gravità del reato, ma per lo scopo che ci si prefigge). Quanto al ministro Piantedosi, qualunque rassicurazione sulla interpretazione che verrà data alla norma “che andrà tipizzata” per superare “la pulsione di urgenza” (di nuovo Sisto; si legifera per “pulsioni”), è appena il caso di rilevare che la gestione delle piazze non viene fatta col codice in mano, ma con la legittimazione ad agire (Cornelli) che gli operatori avvertono secondo il contesto del momento, così come il formante giurisprudenziale risente evidentemente dell’humus che ha generato la novella, al quale anche i Giudici sono tutt’altro che insensibili. Ce n’est qu’un debut; ne vedremo delle belle. Si fa strada l’impalpabile microfisica del Potere, che si esprime con assiomi e tautologie tipiche di chi cerca il consenso senza senso (su “l’enunciato del Potere che non ha bisogno di definire, di giustificare… per manifestarsi come atto di Potere” si rinvia alle straordinarie considerazioni di Iacopo Benevieri, anche lui per fortuna - avvocato). Italia 2022, si marcia a destra, non solo in strada, ma anche in piazza. Macerie costituzionali, decretazioni di urgenza, Diritti storti. Si rinvia con decreto legge un decreto legislativo, ovviamente non solo per differirne l’entrata in vigore, ma per cambiarne il volto. Si interviene ad horas secondo direzioni di verso contrarie a quelle indicate dalla Corte. Si introducono disposizioni da indifferenza alla Costituzione repubblicana. Non c’è che dire; un vero manifesto del diritto penale liberale; e anche questo è un ossimoro (Donini). Nuovi reati dettati dai media: è questo il primato della politica? di Massimo Donini Il Riformista, 7 novembre 2022 Tra gli addetti ai lavori, anche in ambito internazionale, mi è accaduto di proporre alla discussione il tema della democrazia penale e degli aspetti invece tradizionalmente aristocratici deteriori di una legislazione lontana dal dibattito pubblico. Ne è sortito un piccolo dibattito tra specialisti, che da noi ha avuto scarsa eco. In Italia c’è invece la democrazia penale reale, quella dei mass media e del populismo legislativo e giudiziario. Dopo una parentesi offerta miracolosamente dal “governo dei tecnici” (che ovviamente ha fatto a suo modo politica, anche sotto la copertura di commissioni di studio) siamo ora tornati alla dimostrazione di che cosa significhi il vero primato della “politica” sulla “tecnica”. Il decreto-legge sui rave parties ne è la dimostrazione. Una norma non dettata da necessità e urgenza ha introdotto nel sistema una incriminazione non solo non discussa “democraticamente” prima della sua delibera in consiglio dei Ministri, ma non discussa neppure tra i ministri prima del giorno della votazione. Unità di tempo e luogo dell’azione come nel teatro greco. Nella tragedia. Le leggi penali sono vicine alle leggi costituzionali, perché mettono a rischio la libertà, e dovrebbero per questo tutelare davvero, e non semplicemente compromettere, i diritti fondamentali. Ma in genere producono entrambi questi effetti deteriori. Per questo è giusto che una vera discussione pubblica preceda la loro introduzione. È un aspetto della riserva di legge in senso sostanziale: che ci importa se c’è una maggioranza formale autorizzata a legiferare, se manca la discussione e la verifica tecnica, scientifica e politica previa, che è la vera garanzia “democratica” dell’aver riservato al Parlamento, anziché al Governo o a organi subordinati, la materia dei delitti e delle pene? Il tema è così avvertito tra i penalisti che almeno una significativa rappresentanza di studiosi ha proposto di introdurre una riserva rinforzata da una maggioranza qualificata per le leggi penali: non per amnistiare (decisione una tantum che lascia in vigore i reati estinti, e per la quale l’art. 79 Cost. richiede la maggioranza dei due terzi dei componenti di ciascuna Camera), ma proprio per introdurre i reati, anziché abbandonarli alla giostra massmediatica dei governanti di turno che, mediamente ogni due anni, si alternano nei palazzi delle istituzioni. Ci sono molti modi per aggirare questa esigenza di democrazia sostanziale. Uno è quello di affidare a commissioni di studio che elaborano i testi “in segreto”, per poi immetterli in un decreto legislativo; un altro è quello di affidare le regole ai magistrati degli uffici ministeriali; un altro ancora è dato dalla scelta finale di adottare procedure deliberative che aggirano le discussioni in aula. Il decreto-legge è la forzatura più evidente. Intendiamoci. Oggi tutto è così terribilmente specialistico e tecnico che anche per vendere un panino, per confezionarlo o distribuirlo occorre rispettare una serie di regole di sicurezza alimentare. Una scuola di cucina non esiste più senza esperti di chimica organica. Non parliamo di un qualche apparato industriale più complesso, della sicurezza del lavoro, della circolazione o delle linee-guida sanitarie. Forse che per le leggi penali qualcuno si è immaginato che sia diverso? Ebbene è così. C’è chi pensa da tempo di affidare alla “democrazia massmediatica” la materia penale. Lo pensa e lo realizza. Sarebbe questo il primato della politica sui professori, sui tecnici. Sì che tutti sono autorizzati a scrivere di penale senza nessuna competenza, e quando ne parlano i “c.d. esperti” la loro voce non ha risonanza, perché utilizzano quegli argomenti che non interessano appunto alla “democrazia penale reale”. Ci sono forse al massimo due milioni di persone che possono ascoltare e leggere una pagina di competenze giuridiche professionali redatte in modo divulgativo. Ma decine di milioni che neppure la considereranno. Ecco, la democrazia penale reale si rivolge a queste decine di milioni di consociati. Gli altri, invece, non hanno o non coltivano argomenti massmediatici. Questo “metodo” di fare legislazione e pubblicità delle norme è il contrario di una tecnica legislativa seria e condanna il Paese a non avere mai una riforma organica di fondo in materia penale. Il fatto è che non si è capito, anche per mancanza di cultura e di formazione della classe politica, e non solo per interessi di consenso elettorale o quotidiano, che è davvero un problema di democrazia penale il saper affidare a competenze sia tecniche e sia dialogiche, in un contesto più allargato di tipo parlamentare e di addetti ai lavori, una materia come quella penalistica, ormai sempre più debole nel sostenere gli arcana imperii, perché tutte le sue logiche più occulte di potere o interessi privati vengono presto scoperchiate. Vediamo ora di testare quanto detto sulla normativa riguardante i rave parties. Sono feste deliranti, espressione dionisiaca della contemporaneità. In genere fanno molti meno danni di una serata alcolica tra pochi amici o in discoteca seguita da incidenti stradali. Tuttavia, aumentano il rischio dell’uso collettivo di droghe e alcoolici, con possibili effetti collaterali su ordine pubblico, salute pubblica, incolumità pubblica. Quando questa possibilità sia concreta nessuno può dirlo. Se lo si scrive in una norma, che le sanzioni scattano in presenza di questa possibilità, è come dare a polizia prima e magistratura poi un potere molto discrezionale, a meno che non si esiga che da un certo fatto sia davvero derivato un pericolo: il che esige una verifica ex post che assicura un’offesa apprezzabile. Per carità, anche clausole di questo tipo sono aggirate dalla prassi, che trasforma spesso i c.d. reati di pericolo concreto (con prova ex post di un pericolo) in reati di pericolo astratto-presunto. Orbene la norma introdotta in Cdm ha previsto un pericolo potenziale. Che è qualcosa di più di un pericolo presunto, ma di assai meno di un pericolo concreto. Sul piano tecnico non c’è nulla di scandaloso. Abbiamo norme di pericolo presunto tra i reati contro l’incolumità pubblica, dove non è richiesto che dal fatto derivi né il pericolo, né la possibilità del pericolo: un caso eclatante è la rimozione od omissione di cautele antinfortunistiche (art. 437 c.p.): mai la democrazia penale reale se ne è occupata, perché è regola a tutela dei lavoratori (pena fino a cinque anni, salvo aggravanti), e punisce il datore anche se non ci sia nessun pericolo per l’incolumità, a meno che venga reinterpretata in concreto in modo più “offensivo”. Nel caso dei rave parties, però, l’uso simbolico del penale è evidente. Si dice ai “benpensanti” che sostengono la politica della destra, che ora anche queste manifestazioni di disordine urbano o extraurbano finiranno nel carcere. Law and order passano attraverso decisioni occulte, rivelate al pubblico, e anche agli addetti ai lavori, perfino ad alcuni ministri, il giorno della delibera. Accade spesso, in ogni contesto, che quando si arriva alla decisione senza la discussione previa, si “debba” votare per solidarietà politica. Votare di tutto. La democrazia penale può infine aggiustare le cose a posteriori. I tecnici e gli esperti faranno critiche e opposizioni. Il testo potrà essere migliorato. Ma non emendabile è che sia stato deciso al di fuori di ragioni di necessità e urgenza: ragioni esistenti per altre regole approvate (ergastolo ostativo e legge Cartabia), ma non per le feste deliranti. Ora a noi non interessa qui dare consigli, che già in tanti, esperti e assai meno, si affrettano a proporre. Dopo diciotto mesi di aristocrazia penale del governo Draghi, nella quale un dialogo almeno tra esperti è stato tentato, è riesplosa la democrazia massmediatica sui criminali. Né vogliamo fare professione di garantismo “contro la destra” magari senza averlo fatto contro le leggi della sinistra prima: uno sport che sta crescendo in questi giorni. Certo. Una riunione alcolica e tossica di più di cinquanta persone non è un fatto che si possa dire irragionevolmente ritenuto pericoloso almeno quanto la consegna di un apparecchio non a norma ai lavoratori. Ma di fatto quella consegna è punita come contravvenzione, senza scomodare il sopra menzionato delitto di cui all’art. 437 c.p. (applicato “discrezionalmente”, nella prassi, solo quando i fatti pericolosi sono più intensi o seriali), e viceversa le invasioni abusive di edifici anche pubblici, se realizzate da studenti o lavoratori, non vengono perseguite, sempre di fatto, (non) applicando un delitto da sempre esistente come l’art. 633 c.p. Questo delitto già basterebbe anche contro i rave parties che siano davvero, come scrive la norma, realizzati invadendo arbitrariamente edifici privati o pubblici, cioè realizzando, appunto, il reato previsto dall’art. 633 c.p., perseguibile d’ufficio (e punito fino a quattro anni) se commesso da più di cinque persone. Il fatto è, peraltro, che nel bilanciamento interno a una incriminazione nuova, tra i diritti lesi potenzialmente (per es. di terzi o per l’ordine pubblico), e quelli sacrificati realmente (per es. di occupanti animati da istanze non ludiche), si deve tener conto delle manifestazioni in scuole, università, fabbriche, sostenute da ragioni politico-sindacali che hanno sempre trattenuto la magistratura dall’applicare, salve eccezioni, un delitto come l’art. 633 c.p. Non è in gioco, tuttavia, il diritto di associazione, se lo si esercita comunque commettendo un delitto comune come l’art. 633 c.p. In ogni caso una politica di destra potrebbe sostenere anche solo l’utilizzo delle norme esistenti, che non mancano affatto. Ciò di cui si deve discutere, a livello massmediatico, è della qualità e dello stile della legislazione, la democrazia penale costituzionale, non quella reale. Quella reale la conosciamo, quella costituzionale ce la siamo da tempo solo immaginata. Non sappiamo in un governo “politico” ci siano tecnici che al suo interno hanno un peso decisorio, o se abbia senso immaginare un dialogo a distanza con loro. Se neppure i ministri “garantisti” conoscono in anticipo le leggi che vanno a votare, mancano i presupposti, i fondamentali per discutere della democrazia penale costituzionale che abbiamo immaginato. La giustizia del doppio binario. Il debutto di Nordio conferma i dubbi sul suo garantismo di Claudio Bragaglia stradeonline.it, 7 novembre 2022 Se il buongiorno si vede dal mattino, la prima intervista del neo Guardasigilli Carlo Nordio a Liana Milella su Repubblica preannuncia un pessimo giorno. Quantomeno per chi pronosticava un cambio di passo e di impostazione in senso liberale e garantista in materia di giustizia dal nuovo governo presieduto da Giorgia Meloni. Chi scrive non è particolarmente stupito perché già dalla lettura degli editoriali del quotidiano “Il Messaggero” era possibile scorgere i connotati tipici del sostanzialismo securitario del futuro inquilino di via Arenula che, tuttavia, ha goduto e tuttora gode di una apertura di credito - a mio avviso eccessivamente benevola - da parte di chi in passato ha criticato la cultura dell’emergenza che da decenni governa il settore. Quella cultura che, modificando di volta in volta i settori di attenzione (dal terrorismo alla mafia, dalla corruzione all’immigrazione), tende a sorvolare, ignorandoli, sui precetti costituzionali ed a ragionare con la pancia e con un occhio vigile al facile consenso. La nostra Costituzione, è bene non dimenticarlo, è garantista (nel senso di attenta alla presunzione di non colpevolezza ed al giusto processo) ed è umanitaria nell’esecuzione della pena, vale a dire contraria ai trattamenti disumani e degradanti, obbligatoriamente tendente alla rieducazione del condannato. I due aspetti non sono scindibili, in quanto entrambi emanazione storica della concezione liberale e democratica del diritto inteso come limite all’arbitrio del potere, esecutivo, legislativo o giurisdizionale che sia. Il testo dell’intervista di Nordio su Repubblica, al contrario, evidenzia come il neo ministro ritenga si possa rafforzare (per ora solo nelle intenzioni) la presunzione di non colpevolezza nel corso del processo affievolendo, in nome del nuovo dogma della “certezza della pena”, il significato e la pregnanza dei caratteri umanitari nella fase di esecuzione, grazie al sostegno dei sondaggi di opinione che incoraggiano scelte dettate da esigenze di sicurezza. Certezza della pena che non viene intesa nel significato, ancora una volta democratico e liberale, di sottrazione all’arbitrio del potere (è ovvio che una pena dal termine finale incerto significherebbe possibilità di limitare in eterno la libertà) quanto nel senso, ben più allarmante, del carcere sino all’ultimo giorno come auspicabile garanzia di ordine e pubblica tranquillità. Le norme “anti rave” sono certamente pessime: fatico a comprendere quale fosse la necessità e l’urgenza di introdurre per decreto pene spropositate per un nuovo reato che brilla per indeterminatezza, con una formulazione che disegna in forma di fattispecie di pericolo un puro divieto di assembramento, tanto più se l’ordinamento già prevede i divieti di invadere l’altrui proprietà e di spacciare sostanze stupefacenti. Il peggio, se possibile, mi sembra, tuttavia, rinvenibile nella normativa riguardante l’ergastolo ostativo, che riguarda i condannati all’ergastolo per mafia o terrorismo che non abbiano collaborato con la giustizia: qui l’impronta panpenalista ed il substrato di pensiero autoritario mi sembra ancora più evidente, specie nella parte, rivendicata con orgoglio nell’intervista, che confonde il reato con il peccato e la delazione con la redenzione. Tralascio i dettagli tecnici di una normativa in cui è disagevole il coordinamento sostanziale e processuale tra le disposizioni e pongo l’attenzione all’obbiettivo, che emerge con evidenza, di sterilizzare la nota sentenza della Corte Costituzionale che, da un lato, ha censurato la preclusione assoluta di accesso ai benefici (dai permessi premio alla liberazione condizionale) ai non collaboranti, concedendo, tuttavia, un termine (già in passato prorogato una volta ed oggi in scadenza all’8-11-2022) per una nuova legge ad opera del Parlamento. Non si può omettere di ricordare che la Corte Costituzionale, con l’ordinanza 15 aprile 2021 n.97, aveva accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo “ostativo” ma non l’aveva definitivamente dichiarata, concedendo al Parlamento un anno di tempo (poi prorogato sino al prossimo 8 novembre) per affrontare la materia ed elaborare una modifica delle disposizioni in materia esecutiva coerenti con le censure. Censure della Corte che partivano da una premessa: anche il semplice ergastolo “ordinario” era stato sino ad allora salvato dal giudizio incostituzionalità (per incompatibilità della pena perpetua con la finalità rieducativa) proprio in virtù della previsione della liberazione condizionale perché - questo era il ragionamento della Consulta - la possibilità di accedere alla liberazione condizionale per il condannato all’ergastolo (seppur dopo un periodo minimo di 26 anni di detenzione) garantisce per chiunque il diritto alla speranza. Al contrario, un ordinamento che non preveda la possibilità di sperare si pone in insanabile contrasto con il testo costituzionale e con le convenzioni europee dei diritti dell’uomo, che vietano la pena di morte classica così come la pena di morte civile. La soluzione adottata dal nuovo governo con il decreto legge 162/2022 è stata quella di aggirare la tagliola della prevedibile dichiarazione di incostituzionalità (quella che sarebbe derivata da una nuova inadempienza del Parlamento alla scadenza dell’8 novembre) attraverso una disciplina che rende di fatto inesigibile (per impossibilità oggettiva di adempiere) l’accesso per i non collaboranti alla liberazione condizionale. Il decreto legge 162/2022 prevede infatti all’articolo 1, comma 1, lettera a), n. 2), che i richiedenti misure alternative “non collaboranti” dovranno dimostrare “di avere adempiuto alle obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna, ovvero l’assoluta impossibilità di tale adempimento, e allegare specifici elementi che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso, nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”. Non basta: l’onere di allegazione dovrà essere parametrato alle “circostanze personali e ambientali”, e “alle ragioni eventualmente dedotte a sostegno della mancata collaborazione, della revisione critica della condotta criminosa e di ogni altra informazione disponibile”. Gli elementi specifici da allegare, inoltre, dovranno essere “diversi ed ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo e alla mera dichiarazione di dissociazione dall’associazione di eventuale appartenenza”. Come si può agilmente notare, si tratta di una vera e propria “probatio diabolica”, la cui stesura appare finalizzata a garantire ossequio solo apparente alle prescrizioni della Corte Costituzionale, stravolgendo, in modo potenzialmente eversivo, i principi generali in materia di gerarchia delle fonti, magari sperando di guadagnare un ulteriore periodo di proroga in attesa della conversione del decreto in Parlamento. Che tutto ciò sia stato rivendicato con orgoglio da Giorgia Meloni, che ha parlato in conferenza stampa a reti unificate di un “importante segnale di legalità antimafia” e dal neo Ministro Nordio, che ha sottolineato su Repubblica gli stessi concetti con gli stessi toni, appare una conferma di continuità nel segno della politica della giustizia volta al proclama più che ai principi, anche se di rango costituzionale. Dai rave all’ergastolo ostativo, l’idea che trapela è quella di rassicurare l’opinione pubblica che chiede più carcere in modo non dissimile a quanto già visto in altri tempi con un ministro come Bonafede che indossava la divisa della Polizia Penitenziaria presenziando all’atterraggio in aeroporto di Cesare Battisti, latitante di lungo corso per reati di terrorismo. Ciò che può cambiare, di volta in volta, è l’oggetto dell’emergenza: la corruzione, la mafia o il terrorismo. Resiste, tuttavia, anche con Nordio, nonostante la dichiarata professione di fede liberale, la prassi sostanzialista di chi utilizza il diritto penale per lanciare segnali sperando di guadagnare consenso, come se la giustizia fosse più un problema di percezione che di prudente bilanciamento tra principi. Sperando di essere smentito nell’immediato futuro, se il buongiorno si vede dal mattino, il decreto antirave e antimafia preannuncia una stagione di politica della giustizia contrassegnata da un pericoloso doppio binario, con i colletti bianchi meritevoli di riguardo e garanzie e gli altri, sporchi e cattivi, per i quali è meglio buttare la chiave, con il rischio molto concreto che aumenti l’apprezzamento degli elettori. Lo vedremo presto ed un importante banco di prova sarà la verifica dell’approccio in tema di immigrazione. Pagelle ai magistrati, valutazione doverosa ma con qualche rischio di Gianluca Amadori Il Gazzettino, 7 novembre 2022 La riforma Cartabia sulla giustizia ha introdotto nuovi e più stringenti criteri di valutazione del lavoro dei magistrati. Un intervento per certi versi positivo, in quanto è doveroso sottoporre ad un controllo l’attività di giudici e pm per verificarne la qualità ma anche ai fini della possibilità di progressione di carriera ed eventualmente di ricoprire incarichi direttivi. Scelta, quest’ultima, in passato spesso effettuata più per l’appartenenza ad una determinata corrente che non per le effettive qualità del candidato all’incarico direttivo, come ha mostrato lo scandalo Palamara. L’impatto di tale novità dovrebbe però essere vagliato con estrema attenzione e cautela, in quanto questi nuovi criteri di valutazione potrebbero avere effetti concreti sulle decisioni di merito (proseguire o meno un’indagine, assolvere o condannare) e dunque provocare danni al sistema giustizia e, di conseguenza, ai cittadini. La riforma dell’ordinamento giudiziario (la cui entrata in vigore è stata rinviata al prossimo 30 dicembre) vincola la valutazione positiva del magistrato alla percentuale di accoglimento dei provvedimenti da lui emessi. Misura in linea di principio condivisibile, ma con qualche problema nella sua applicazione pratica. Non sempre, infatti, un’assoluzione pronunciata a conclusione di un dibattimento significa un errore del pm. L’inquirente ha a disposizione un numero di elementi meno ampia (e soprattutto più parziale) per valutare i fatti e chiedere un rinvio a giudizio rispetto di quelli che il giudice racoglie nel corso di un processo. E quando le sentenze vengono riformate in appello o annullate dalla Cassazione, ciò non sempre accade a causa di errori commessi dal primo giudice, ma perché nel frattempo sono stati acquisiti nuovi elementi (non emersi nel processo di primo grado) oppure la legge è stata modificata oppure è scattata la prescrizione. La valutazione della correttezza del primo provvedimento dovrà essere dunque fatta con attenzione, non essendo sufficiente l’assoluzione dopo una richiesta di rinvio a giudizio, o la condanna dopo una richiesta di archiviazione per provocare in automatico un voto negativo al magistrato. Il rischio di una brutta pagella potrebbe far scegliere al pm o al giudice la strada meno “pericolosa”, condizionando in qualche modo la sua scelta. Assolvere un imputato, ad esempio, riduce per un giudice la possibilità di vedersi dar torto nei gradi successivi: le procure, infatti, non hanno le risorse sufficienti per poter impugnare tutte le sentenze che danno torto alla pubblica accusa, mentre le difese presentano appello nella quasi totalità dei casi, confidando se non in un’assoluzione, quantomeno nella prescrizione di tutti o di una parte dei reati, con riduzione della pena. Fantagiustizia? Può essere. Sicuramente la maggior parte dei magistrati sono preparati e coscienziosi e non si faranno condizionare dal rischio del brutto voto, continuando a decidere esclusivamente secondo i principi di giustizia. Ma il rischio c’è e non può essere sottovalutato: i due mesi di rinvio concessi prima dell’entrata in vigore della nuova normativa potrebbero servire per mettere a punto qualche correttivo anche su questo aspetto della riforma. Ennio Amodio: “L’ossessione panpenalista minaccia le nostre libertà” di Valentina Stella Il Dubbio, 7 novembre 2022 Il professore emerito di procedura penale all’Università di Milano: “Il diritto penale minimo è un principio che va raccordato con quello della proporzionalità”. Il primo atto del governo in materia di giustizia, ossia la creazione del nuovo reato “anti rave party”, ha riacceso la vecchia polemica su uno dei grandi mali che affligge il nostro sistema giudiziario: il panpenalismo, ossia la tendenza di potere risolvere tutto con il codice penale. Ne parliamo con Ennio Amodio, avvocato penalista, professore emerito di procedura penale all’Università di Milano, che ci spiega il legame tra questo fenomeno e le derive autoritarie, populiste e vittimo-centriche. Professore i primi atti del governo sono stati in materia di giustizia. Senza entrare per il momento nel merito dei tre provvedimenti, qual è il suo giudizio in generale? Gli esponenti del nuovo corso politico, subito dopo la vittoria elettorale, hanno esibito un inappuntabile doppio petto. Appena messo piede a Palazzo Chigi hanno però abbandonato moderazione e ragionevolezza togliendosi la giacca e rimboccandosi le maniche della camicia. Ne è venuta fuori la loro autentica vocazione autoritaria che ha ispirato tre provvedimenti in tema di giustizia e sicurezza. Nel decreto-legge firmato dal nuovo governo c’è anzitutto la rimasticatura a denti stretti del regime dell’ergastolo ostativo, poi il rinvio della riforma Cartabia per quanto riguarda il processo penale e, infine, la creazione del reato di occupazioni abusive a fini di rave party. Sono tutti interventi che, a ben vedere, traducono nel legalese ministeriale la formula tanto cara a Matteo Salvini secondo cui “la pacchia è finita “, usata spesso per annunciare la discontinuità rispetto alla tolleranza manifestata in passato verso una diffusa illegalità. Scendiamo nel dettaglio ossia sul rinvio della riforma Cartabia. Era necessario? Il rinvio della riforma Cartabia serve al centro destra per rimettere le mani nella pasta del lavoro legislativo. Il pretesto è quello di raccogliere il “grido di dolore” delle Procure tanto inquiete per l’imminente svolta nel senso della massima speditezza della macchina giudiziaria. Il vero obiettivo è però un altro, come conferma il richiamo della Presidente Meloni all’esigenza di migliorare il testo varato dal governo Draghi. Si vuole riscrivere la riforma evidentemente in ossequio ad un sano sentimento giustizialista 434 bis: è il nuovo reato illustrato dal ministro Piantedosi. Che ne pensa? L’incriminazione delle occupazioni abusive di terreni o edifici per raduni illegali è davvero la scelta che esprime nettamente l’avvio sulla strada del diritto penale totale, come usava dire Filippo Sgubbi. Non solo: si dà vita ad una fattispecie che funge da grande contenitore di tutte quelle condotte di raduno generatrici di un qualche pericolo, anche del tutto estranee alla finalità di un rave party. C’è di più. Si capisce benissimo che è un intervento additivo che accresce l’efficacia punitiva già derivante da preesistenti norme penali. Si tratta di una legge manifesto? È fin troppo chiara l’opzione per una legge-manifesto, una previsione criminosa simbolica che impatta su un fatto recente come quello del grande raduno di Modena. Ciò che più rileva per chi scrive la norma bandiera non è tanto la sequenza delle parole che definiscono la fattispecie, ma l’etichettamento che ne deriva in termini di impronta criminosa cucita addosso a chi si trova in una certa situazione. A proposito di simboli, ergastolo ostativo e pena: esiste la tentazione di utilizzare esseri umani imprigionati a vita come simbolo e funzionali alle esigenze preventive generali? Si ha il timore che una persona, pur avendo scontato una lunga pena per un grave reato, torni a delinquere se lasciata libera. È questa una credenza molto diffusa e sta alla base dell’avversione dei benefici penitenziari. Nel carcere, come dice spesso pure Salvini, bisogna andarci e marcire, così i cittadini sono sereni e tranquilli. Poi c’è indubbiamente come diceva lei l’aspetto di prevenzione generale: si pensa che più si può sbandierare il fatto che pericolosi mafiosi e terroristi stanno in carcere segregati e più si dimostra che lo Stato difende la collettività. Ma in realtà sono credenze errate... Questo problema è stato studiato da tempo. Consiglio di leggere un libro molto famoso che nel 2007 uscì negli Stati Uniti: “Governing through Crime: How the War on Crime Transformed American Democracy and Created a Culture of Fear”: governare attraverso il crimine, enfatizzando la paura del delitto e quindi spingere i cittadini a mettersi nelle braccia dei governanti. In che direzione stiamo andando? Siamo quindi di fronte ai primi atti di una stagione politica che sembra puntare sulla leva del giustizialismo per governare la materia della sicurezza pubblica e del controllo della criminalità. Forse vedremo realizzarsi una fusione. Da un lato, il credo populista con il primato attribuito alla pena come risposta emotiva generata dalle vittime del reato. Dall’altro, l’autorità politica che usa il diritto penale come la medicina necessaria a combattere il virus della delinquenza. Tutto questo scenario non stride con l’esigenza invece di una forte depenalizzazione del nostro sistema? Certamente. È una posizione assolutamente antitetica ma risponde a una esigenza che è tipica della politica della destra di avere un diritto penale sempre pronto ad intervenire in qualsiasi evento di rilievo sociale per far vedere che lo Stato è sempre vicino alle vittime e riesce a colpire anche al di là del sistema vigente. È una immagine che si vuole dare dello Stato pronto a colpire il delinquente in qualsiasi momento e in qualsiasi occasione. Il potere di punire, “tanto terribile quanto necessario” ha assunto “delle dimensioni esorbitanti e non solo in Italia: c’è un panpenalismo che connota il nostro tempo fatto di abuso e invasività del diritto penale” per cui “creare aggravanti o innalzare le pene è la scorciatoia” con cui si risponde ai problemi. Lo aveva detto lo scorso anno l’ex ministro Cartabia. Stiamo rafforzando questo quadro? Condivido il pensiero dell’ex Guardasigilli. Siamo nella linea di una ricerca del diritto penale minimo, per riservare l’intervento punitivo alle violazioni più gravi proprio per far intendere a tutti che la pena carceraria è la sanzione più capace di incidere sulla vita delle persone. La pena dovrebbe rieducare ma di per sé distrugge l’individuo: il costo che implica per la persona che la deve scontare è talmente alto alcune volte da impedire che si realizzi la rieducazione voluta dalla Costituzione. Negli altri casi lo Stato può utilizzare sanzioni amministrative o le pene pecuniarie. La stessa riforma Cartabia del processo penale ha ridotto anche l’intervento penale aumentando i casi di perseguibilità a querela. È l’indice di una posizione contrapposta a quella che sembra aver sposato il governo di destra. Diversi pubblici ministeri hanno criticato questa parte della riforma... Evidentemente non sono a favore di un diritto penale minimo e lo trovo incomprensibile considerato che tale visione gioverebbe al fine di accrescere la funzionalità delle loro indagini. La recente iniziativa del governo mette in evidenza non solo la creazione di un nuovo reato ma anche pene draconiane ad esso connesse... Il diritto penale minimo è un principio che va raccordato con quello della proporzionalità. Nei regimi autoritari si calpesta la proporzionalità. Secondo questo principio la risposta punitiva deve essere graduata sull’effettivo disvalore che nasce dal reato. È tutto il contrario di quello che afferma il populismo, vale a dire che tutte le volte che viene commesso un reato, la sanzione deve essere espressa nella chiave reattiva ed emotiva della vittima stessa. E come? Con la pena massima, che non può essere mai estinta o attenuata dal perdonismo del giudice, ma che va scontata fino in fondo. In Italia soffriamo di vittimo-centrismo? Certamente, abbiamo cominciato a soffrirne molto quando si è sviluppata la politica penale del Movimento Cinque Stelle e della Lega. Nel mio libro “A furor di popolo” ho cercato di individuare la trama di questo nuovo pensiero populista che abbandona i principi dell’Illuminismo e predica una penalità sempre più severa, che sgorga appunto dalla sete di vendetta delle vittime e scavalca il potere dei giudici. In che senso? Si dubita persino che i giudici siano in grado di interpretare il desiderio di applicazione della pena che arriva dalle vittime. Quindi si cerca di circoscrivere l’intervento discrezionale del giudice, considerandolo come lassista, un atteggiamento che un sistema non si dovrebbe permettere, in quanto la sanzione penale deve essere sempre dura e inflessibile. Tra partiti politici, quali si sono mossi nella direzione di un diritto penale minimo? In passato è sempre stata la sinistra a orientarsi in questa direzione ma non con sufficiente consapevolezza. In teoria ci si proclama favorevoli a riservare la sanzione penale solo ai casi più gravi. Però quando accade un evento che impatta fortemente sulla coscienza dei cittadini ecco allora che molti invocano la pena di morte o pretendono interventi durissimi nei confronti del reo. E quindi c’è sempre questo andamento fluttuante: il diritto penale minimo viene proposto e coltivato dalla dottrina più illuminata, ma trova poi degli ostacoli nella pratica attuativa. A volte il legislatore riduce l’ambito di applicazione del diritto penale ma poi nel momento in cui ci sono gli scossoni emotivi allora si ritorna a pensare di introdurre nuovi reati, come accaduto adesso per i rave party. Ma quali sono le ragioni per cui nel nostro Paese il diritto penale “totale” è invocato in ogni situazione come intervento salvifico? Si tratta di una componente quasi connaturale alla fisionomia e al sentire degli individui. Non a caso l’antecedente storico del diritto è la vendetta. Essa è una risposta che scaturisce dall’animo di chi ha subìto un certo torto e considera la riparazione e la pena come interventi da calibrare sull’entità della sua sofferenza. Invece, la forza del diritto penale moderno è quella di portare tutto il sistema verso proporzionalità, razionalità e rispetto della dignità dell’uomo. “Una simile espansione del sistema penale scriveva Filippo Sgubbi - comporta il sacrificio dei principi fondamentali di garanzia, con l’aiuto del vigente clima di populismo e giustizialismo”. Quali sono dal suo punto di vista i rischi che corrono le garanzie individuali? Sono evidentemente quei rischi che derivano dalla moltiplicazione delle figure di reato. Il diritto penale è retto dai principi di legalità e tassatività, e quindi ciascuno si comporta nella vita ben avendo presente che se supera una certa soglia può rispondere di un reato. Ma se a un certo punto il legislatore con la bacchetta magica può far diventare reato qualsiasi atto, allora il cittadino è nelle mani dello Stato e quindi non ha più la garanzia della sicurezza e della sua libertà, perché questa gli può essere sottratta in ogni momento. Una possibile via di uscita? A far da diga agli oscuri pensieri che rinnegano la dottrina di Beccaria sarà la nostra Costituzione. Almeno fino a quando non si vorrà modificarla per farle dire che il processo è giusto solo quando tutela il bene della difesa sociale. Tommaso Greco: “Dominati da chi guarda soltanto a sanzioni e carcere” di Gennaro Grimolizzi Il Dubbio, 7 novembre 2022 Il professore dell’Università di Pisa è autore del saggio “La Legge della fiducia”. “Tutto ormai si basa sulla diffidenza nei confronti del cittadino”. Tommaso Greco, ordinario di Filosofia del diritto nell’Università di Pisa, è autore di un saggio - “La legge della fiducia. Alle radici del diritto” (Laterza) - molto utile per comprendere quanto accade intorno a noi. Il volume ha vinto pochi giorni fa la 66ma edizione del “Premio nazionale letterario Pisa” per la sezione saggistica. Un segnale confortante per la cultura giuridica. Professor Greco, nell’evoluzione del pensiero giuridico moderno l’uomo è potenzialmente un reo. Un assunto che influenza anche il legislatore? Direi di sì. Anche se non dovrebbe essere così, se guardiamo alla nostra Costituzione. Non solo con riguardo alla funzione rieducativa della pena, ma in generale pensando all’impianto personalistico della Carta costituzionale. Nonostante questo, una sorta di ‘machiavellismo giuridico’ condiziona la legislazione, che si basa su una diffidenza di fondo nei confronti dei cittadini e dei funzionari chiamati ad applicare le regole. Lo stiamo vedendo anche in questi giorni, nei quali abbiamo avuto interventi normativi dall’evidente impianto sfiduciario. Un impianto che fa passare il senso del diritto dalla sua dimensione coattiva e sanzionatoria piuttosto che dalla sua dimensione relazionale. L’ostatività del carcere mette da parte la funzione rieducatrice della pena. Ritorna il concetto dell’uomo reo e, in alcuni casi, eternamente reo? Il carcere è il luogo fisico e ideale nel quale teoricamente si dovrebbe realizzare il passaggio dall’uomo reo all’uomo che ha ritrovato la sua inclinazione positiva verso la società e verso l’altro. Purtroppo, non sempre è così. Nella maggioranza dei casi, anzi, non è così, perché le condizioni nelle quali versano i detenuti non aiutano a far ritrovare quella fiducia che è necessaria a riabilitare una persona costretta dentro un istituto penitenziario. Nonostante alcuni sforzi che sono stati fatti in questa direzione, persiste la considerazione del carcere come luogo totalmente afflittivo, come luogo dove si deve provocare una sofferenza ritorsiva nei confronti di chi ha compiuto un delitto. Si fa fatica a pensarlo e soprattutto a realizzarlo, ammesso che ciò sia possibile, come un luogo davvero di rinnovamento, in cui le persone che hanno commesso dei reati possano vincere una sfida con sé stessi e ritrovare una nuova via per rifarsi una vita. Prendiamo il caso di un ergastolano. Dopo 25 o 30 anni di carcere, cosa si può pretendere ancora da lui in termini di fiducia verso la legge e la società? Anche se qui è difficile fare discorsi in termini generali e bisognerebbe fare riferimento ai singoli percorsi, indubbiamente è difficile pensare che si possa sperare di ottenere qualcosa solo aumentando l’afflizione. Ricollegandoci alle ultime vicende politiche e legislative, è chiaro che alcune misure si spiegano solo con una idea della pena che non è quella della riabilitazione, ma è quella della retribuzione più severa, del far pagare il male compiuto con altrettanto male o addirittura con un male che non deve finire. È come se alcune persone che hanno commesso certi delitti venissero considerate non redimibili, cioè perdute per sempre, come se non potessero più ritrovare quel bene, la cui possibilità muove il discorso costituzionale della pena. Lei affronta il tema del “modello sfiduciario”. Verso la legge? Di cosa si tratta? E cosa fa da contraltare a tale modello? Io parlo di “modello sfiduciario”, perché vedo che il nostro diritto e la nostra cultura giuridica, sia quella dei giuristi di professione sia quella dei cittadini in generale, considerano il diritto essenzialmente come uno strumento per punire i soggetti, piuttosto che per agevolare le forme della cooperazione. La sanzione, certo, è qualcosa di essenziale per il diritto, ma concentrare tutto su un “modello sfiduciario” e verticale, cioè sulla dimensione della punizione, fa perdere in fondo l’elemento della responsabilità reciproca. Quello che si perde di vista nel “modello sfiduciario” è il fatto che ogni norma giuridica si rivolge sempre a qualcuno che deve fare qualcosa verso qualcun altro. Ogni norma ci chiede sempre di fare qualcosa nei confronti di un altro soggetto. Pensare al diritto in termini di sanzioni ci fa vedere il nostro rapporto con lo Stato, ma ci fa perdere il senso di ciò che facciamo agli altri. Se cambiassimo il nostro sguardo, saremmo più attenti anche all’aspetto del consenso necessario alla base del diritto e quindi alla chiarezza della sua formulazione. Per tornare al decreto legge di qualche giorno fa: si è detto che è scritto male, che vengono usate espressioni vaghe. Tutte cose verissime. Ma si deve aggiungere che è letteralmente illeggibile per un cittadino normale perché si tratta di un testo composto da infiniti rimandi legislativi. È davvero impossibile scrivere le norme in un modo comprensibile per tutti? Pensare al diritto, a partire da un “modello fiduciario”, vuol dire prendere sul serio il fatto che le norme servono innanzitutto ai cittadini per cooperare e svolgere la loro vita di relazione. Ci si appassiona e ci infervora di fronte a certi temi solo quando il legislatore fa passi sbagliati. È il segnale che la cultura giuridica è stata posta negli anni ai margini per fare spazio ad altro? La scomparsa di un grande giurista come Paolo Grossi, già presidente della Corte costituzionale, ha lasciato un vuoto incolmabile? Purtroppo, la cultura giuridica in Italia è molto trascurata ed è considerata una cultura di nicchia che riguarda solo gli specialisti. Questo è avvenuto in gran parte per responsabilità dei giuristi, che, spesso, usano un linguaggio complicato ed esoterico. Ma la responsabilità è anche di chi, nelle occasioni in cui potrebbe farlo, tiene ai margini la cultura giuridica. Nelle ultime vicende i giuristi avrebbero potuto dire molte cose. Prima in occasione del Covid, poi con la guerra e ora con le vicende legislative italiane si ascoltano molti commentatori, ma solo in rare occasioni vengono interpellati i giuristi. Una conferma eclatante di questa messa ai margini della cultura giuridica l’abbiamo avuta in occasione della morte di Paolo Grossi, ex presidente della Corte costituzionale, un giurista importantissimo molto conosciuto anche all’estero. La sua scomparsa è stata quasi del tutto trascurata dagli organi di informazione. Peccato per questo atteggiamento. Nel nostro Paese non mancano giuristi raffinati e capaci di parlare al grande pubblico. Bisogna però dargli l’occasione di esprimersi. Occorre insistere sul fatto che la cultura giuridica riguarda tutti noi, dato che ogni giorno, anche se non ce ne accorgiamo, abbiamo a che fare con il diritto. Se il sistema dell’informazione si impegnasse un po’ di più su questo fronte, sarebbe un’ottima notizia. Santa Maria Capua Vetere (Ce). Via al processo per i pestaggi: alla sbarra 105 imputati di Biagio Salvati Il Mattino, 7 novembre 2022 L’aula bunker del carcere di Santa Maria Capua Vetere dove 24 anni fa iniziò il maxi-processo alla camorra del clan dei Casalesi, noto come “Spartacus”, questa mattina tornerà a pullulare di imputati e toghe per un nuovo processo riguardante le violenze ai danni dei detenuti avvenute proprio nell’adiacente penitenziario il 6 aprile del 2020. Centocinque imputati, tra poliziotti penitenziari, medici e funzionari del Dap, compariranno davanti ai giudici della Corte di Assise di Santa Maria Capua Vetere per la prima udienza di un processo che si preannuncia epocale dal momento che, in qualche modo, è sotto accusa anche una sorta di “sistema” usato dagli agenti penitenziari, ciò stando alle accuse nate da testimonianze e dalle immagini catturate dalle telecamere di sicurezza del penitenziario. Per l’occasione, appena tre giorni fa, quell’aula ed una più piccola attigua in cui si celebrò il processo ai “Casalesi”, sono state consegnate dopo una ristrutturazione ed un adeguamento tecnologico durato tre mesi. A fine processo “Spartacus”, nel 2005, erano diventate oramai inutilizzabili o usate per attività di poco conto, subendo infiltrazioni dal tetto ed assumendo un aspetto fatiscente, finendo così in uno stato di abbandono. Lo spazio, oggi, è però sufficiente per ospitare un nuovo processo con numeri da capogiro dove tra avvocati (almeno 100), parti civili (177), cancellieri e forze dell’ordine si supera abbondantemente il numero degli imputati, per un totale di oltre trecento persone. Per loro, ci sarà un’aula da 600 metri quadrati con 400 posti a sedere, 120 postazioni con microfono, un maxi-schermo e diverse tv per una visione completa e uniforme. Almeno duecento persone saranno sistemate in massima parte nella grande aula (la B2) e il resto nella più piccola (la B1), con 120 posti a sedere e collegata in videoconferenza con la “sorella maggiore”. Le due aule bunker, insieme agli altri locali dell’edificio che le ospita, sono state ristrutturate nel tempo record di due mesi dal Ministero della Giustizia con una spesa di 600mila euro (400mila per la parte impiantistica, 200mila per quella edile). Nel frattempo, la Procura della Repubblica di Santa Maria Capua Vetere, ha individuato altri cento poliziotti penitenziari che potrebbero finire imputati nello stesso maxi-processo. Nessuno, avrebbe mai immaginato che a finire processati in queste aule del carcere, sarebbero stati gli agenti che per anni sono stati addetti alla sicurezza o alle traduzioni degli imputati reclusi nel carcere sammaritano. I reati contestati a vario titolo sono tortura pluriaggravata, maltrattamenti pluriaggravati, lesioni personali pluriaggravate, abuso di autorità contro detenuti, perquisizioni personali arbitrarie, falso in atto pubblico anche per induzione, calunnia, frode processuale, depistaggio, favoreggiamento personale, rivelazioni di segreti d’ufficio, omessa denuncia, e cooperazione nell’omicidio colposo ai danni di un detenuto algerino Hakimi Lamine, deceduto nel carcere un mese dopo le violenze. Napoli. Il mistero del detenuto che dorme da un anno: è malato o fa finta? di Andrea Ossino, Valentina Ruggiu La Repubblica, 7 novembre 2022 Il mistero del detenuto che dorme da un anno: è malato o fa finta? Ahmad Ali sta affrontando un processo penale in cui è accusato di violenza sessuale su minore. Ma nessuno riesce più a parlargli. Da oltre un anno Ahmad Ali sta affrontando un processo penale in cui è accusato di violenza sessuale su minore, un fattaccio avvenuto tra le strade del rione Materdei di Napoli. Il commerciante pakistano di 28 anni tuttavia non si difende. Dorme. Da un anno. Quando il suo avvocato prova a parlargli, lui dorme. Quando il giudice si rivolge a lui, dorme. Quando il pm lo interroga, dorme. Quando lo visitano i dottori nominati dal tribunale, dorme. Medici, infermieri, mediatori culturali, compagni di cella ed esperti di diritto, in molti hanno provato a parlargli, ma lui dorme. Solo il gip di Civitavecchia ha avuto l’onore di ascoltare la voce di Ahmad, quando all’indomani dell’arresto il ragazzo si è dichiarato innocente. Poi è stato portato nel carcere di Regina Coeli, dove ha smesso di mangiare, di bere, di parlare e infine di alzarsi dalla branda guadagnandosi l’appellativo coniato dagli altri detenuti de “il simulatore”. La diagnosi dei carcerati è parzialmente corretta. I medici la chiamano sindrome di Ganser ed è una questione a tratti pirandelliana: “Il detenuto cerca di recitare più o meno consapevolmente la parte del malato di mente in conformità a quello che egli ha imparato o ritiene essere la malattia mentale”, scrivono i periti nominati quando al tribunale è sorto il dubbio che quell’uomo dormiente non stesse tanto bene. Ahmad è malato, dicono i dottori: ha “una sofferenza psicologica reattiva alla detenzione”. Ma non lo è: il suo atteggiamento “non è certamente conseguenza di una patologia psichiatrica”, scrivono. Non è dato sapere se si sia ammalato a furia di fingere o se finge in quanto malato. Difficile addentrarsi nei dubbi amletici della psicologia. “Sei a metà tra la simulazione e la psiconevrosi, per questo è controversa come diagnosi”, dice l’esperto, il dottor Antonio del Casale, ricercatore alla Sapienza e responsabile di Salute Mentale al Sant’Andrea. La cartella clinica redatta dai medici dell’ospedale Pertini, struttura che Ahmad ha visitato una serie di volte, racconta anche di “ipotesi diagnostica di simulazione” e in un caso i dottori si sono insospettiti: “Viene riferita attivazione notturna in contrapposizione con l’atteggiamento catatonico diurno”, scrivono. Alla fine è stato deciso che Ahmad può affrontare il processo. Non la pensa così il suo difensore, Donato Vertone, che è tornato a chiedere un’altra perizia perché la sindrome di Ganser “sebbene insorga volutamente per ottenere un vantaggio successivamente permane e si stabilizza…con meccanismi inconsci”. Al momento i giudici vanno avanti, gli avvocati si oppongono e i dottori si scervellano. Nel frattempo Ahmad è a Secondigliano, dove dorme avvolto da un sonno pirandelliano: “Così è se vi pare”. Milano. Grazia Grena, l’ex terrorista che dà voce ai detenuti: “In carcere non c’è speranza” di Carlo d’Elia Corriere della Sera, 7 novembre 2022 Fu condannata a 8 anni per organizzazione di banda armata e rapina durante gli Anni di piombo. Non ha mai rinnegato il passato. Oggi si batte per i diritti dei reclusi a Lodi: “Il rinvio della riforma della giustizia mi preoccupa”. Ha sempre con sé un quaderno dove appunta tutto. Le parole di chi incontra, qualche pensiero, gli appuntamenti di ogni giorno dentro e fuori dal carcere. Lo custodisce all’interno di una borsetta a tracolla rossa che per lei ha un “valore inestimabile” perché a regalargliela è stata Agnese Moro, la figlia del segretario della Democrazia Cristiana rapito il 16 marzo 1978 dalle Brigate Rosse e ucciso dopo 55 giorni di prigionia, una persona che ha conosciuto bene nel suo percorso di giustizia riparativa, iniziato qualche anno fa. Chi è Grazia Grena - Grazia Grena, oggi ha 72 anni e la grinta di una ragazzina di 20, proprio gli stessi di quel periodo della sua vita in cui ha partecipato alla lotta armata tra le fila di Prima linea. Un passato da terrorista che non ha mai voluto rinnegare, anzi. Grena, bergamasca di nascita, che dal 2003 abita a Lodi insieme a suo marito (Roberto Vho, arrestato nel dicembre 1982 durante le indagini sulla colonna “Walter Alasia” delle Brigate Rosse) e al figlio di 31 anni, dopo essersi dissociata pubblicamente dalla lotta armata, oggi si batte per i diritti di chi vive nel carcere di Lodi. E lo fa attraverso l’associazione “Loscarcere”, gruppo di volontari nato nel 2006, di cui è diventata presidente da un paio d’anni. Accanto ai detenuti - Così, almeno una volta a settimana, varca il cancello della Cagnola ed entra in casa circondariale per stare accanto ai detenuti, capire i loro bisogni, comprendere le loro frustrazioni. “Le persone in carcere devono essere ascoltate, non imponendo il nostro punto di vista, ma cercando di comprendere le loro necessità e i problemi - spiega Grena -. L’ho imparato sulla mia pelle durante gli anni in cella tra Voghera e San Vittore”. L’ex terrorista non ha mai rinnegato nulla del suo passato: il lavoro da infermiera al Policlinico di Milano a 19 anni, la militanza in Prima linea, i due anni trascorsi, dal 1980 al 1982, in clandestinità, prima di essere arrestata in via Biondi a Milano insieme a Susanna Ronconi. Condannata per organizzazione di banda armata e rapina, durante gli “Anni di piombo” Grena aveva fama di dura, come registrano le cronache dell’epoca. L’esperienza in carcere - In tribunale, davanti ai giudici, appellava come “infami” gli ex compagni di lotta che si erano pentiti. Alla fine degli anni ‘80 ha scontato la sua pena a 8 anni, restando in carcere e poi in semilibertà, fino al suo ritorno nella società. “Non dimenticherò mai la detenzione - ricorda l’ex terrorista -. Ora cerco con altri mezzi di lottare per cambiare le cose in carcere, un luogo che ha ben poco di rieducativo”. Ad affiancarla in “Loscarcere” ci sono una decina di volontari, quasi tutti professionisti, gli ultimi arrivati neolaureati di 23 anni. “Un bel segnale, perché abbiamo bisogno di giovani interessati al dramma che vive una persona in carcere”, dice Grena, tornando alla carica sui problemi delle case circondariali in Italia e in particolare a Lodi. “Oltre alle strutture fatiscenti e sovraffollate, oggi mancano percorsi per aiutare i detenuti a sopravvivere. Come Loscarcere abbiamo portato innovazione nel territorio. Ci occupiamo di adulti, ma da qualche anno anche di minori, un problema gigantesco. I progetti e l’ascolto - A Lodi stiamo riorganizzando la biblioteca carceraria e continuiamo con l’ascolto. Teniamo rapporti con le famiglie, con gli avvocati e con i patronati. Vogliamo essere il filo che collega un detenuto all’esterno per iniziare a riprendersi la propria vita, anche perché chi è a Lodi sta scontando pene brevi che quasi sempre non superano i 5 anni”. Quello del carcere in Italia è un tema sempre di attualità. In questi giorni ancora di più. Nei primi 10 mesi del 2022 sono 74 i detenuti morti suicidi, un record assoluto. Grazia Grena è preoccupata: “È il segnale evidente che il carcere non è un luogo di recupero. Serve una riforma, subito”. L’ex di Prima Linea è tra i sostenitori della giustizia riparativa, il percorso portato avanti dall’ex ministro della Giustizia Marta Cartabia. “La giustizia riparativa è una possibilità per una società più giusta - sottolinea. Una riforma che il nuovo governo Meloni vuole rinviare. Si rischia un pericoloso passo indietro”. Quasi poveri, la resistenza in famiglia di Maria Novella De Luca La Repubblica, 7 novembre 2022 Viaggio tra le famiglie del ceto medio che tra rinunce e strategie provano a resistere al caro vita e a non cadere nell’indigenza. Quando sono finiti i soldi per la palestra, Salvatore, Miriam e Lorenzo, 20, 17 e 14 anni, non si sono arresi. “Un nostro amico personal trainer ci manda dalla Sicilia un video con gli esercizi, noi ci alleniamo in salotto, gli mandiamo le immagini così, nel caso, lui ci corregge”. “Tre iscrizioni in palestra, 150 euro al mese, non potevamo più sostenerle e i ragazzi si sono ingegnati”, dice con un sorriso e un soffio di malinconia Pinella Crimì, 48 anni, prof di filosofia e religione al liceo “Augusto” di Roma, mentre guarda con orgoglio i suoi tre figli, Miriam e Lorenzo che fanno il liceo classico, Salvatore che studia Storia con un obiettivo chiarissimo: “Vorrei entrare in diplomazia”. Borgata Borghesiana, agro romano, strade lacerate di buche senza marciapiedi, pedoni costretti a camminare in fila indiana. La famiglia Rosano, Pinella, prof precaria e Davide, tecnico di telefonia, più Salvatore, Miriam e Lorenzo, abita qui, “ottocento euro al mese, è stato l’unico affitto che potevamo permetterci quando ci siamo trasferiti dalla Sicilia, gli spaventosi aumenti di cibo ed energia ci hanno fatto, accantonare, momentaneamente, il sogno di spostarci dentro Roma”. Accantonare, rinunciare, dire no. Non solo ai libri, che Miriam adora, o al teatro, passione di Pinella, ma anche al pesce, alla carne, alla frutta. Per capire il vero crollo del ceto medio, quello dei due stipendi con i quali, in un modo o nell’altro, si arrivava alla “quarta settimana” (l’ossatura dell’Italia con una definizione cara Giuseppe De Rita) bisogna entrare nelle case di chi oggi, sul filo della resistenza, nella corsa impazzita dei prezzi, sente sulla pelle il rischio concreto della povertà. Da Roma a Milano, le storie di Pinella Macrì e Davide Rosano, le loro acrobazie sempre più faticose per assicurare ai figli istruzione, salute, ma anche una cena decente. La tenacia di Antonio Sansalone, 47 anni, che grazie ad una avviatissima edicola al “sogno” del ceto medio ci era arrivato. Poi la crisi della carta stampata, il Covid, hanno portato la sua famiglia ad avere un budget, per mangiare, di 200 euro al mese. In tre. Alla periferia di Corsico, Milano, Antonio racconta gli schiaffi in faccia della vita. E poi c’è Anna B. avvocata, l’unica a chiederci l’anonimato, “non posso far sapere ai miei clienti le mie difficoltà”, una brutta separazione alle spalle, una figlia all’università, l’altro al liceo, una mamma in lotta con il Parkinson. Il capitombolo da una vita agiata alla difficoltà. “Il dolore sarà dover dire a mia figlia: non puoi più studiare veterinaria a Padova. Il sudore freddo è la paura di non riuscire a pagare un mutuo di 1500 euro al mese”. Famiglie impoverite - Secondo una ricerca di “Nomisma” dal titolo “Sguardi familiari”, oggi il 65% delle famiglie giudica “inadeguato” il proprio reddito, il 62% vive con meno di 2000 euro al mese, il 25% ha subito una riduzione di reddito, 6 famiglie su 10 non riescono a risparmiare. E come si tradurrà, socialmente, questa nuova povertà sulla struttura del Paese lo rivela un altro dato essenziale: il 19% delle famiglie, dice l’indagine “affronterebbe con difficoltà la nascita di un nuovo figlio o non potrebbe affrontarla affatto”. Una crisi che non vuol dire (ancora) pacchi alimentari, ma restrizioni nel carrello della spesa, nella vita sociale, nella possibilità di curarsi. Da quella condizione “media”, più o meno in alto o in basso nella scala sociale, alla condizione di “penultimi”. Oltre c’è l’indigenza. L’aumento dei generi alimentari sembra una corsa impazzita: il burro costa il 38,1% in più, il riso il 26,4%, la pasta il 21,6%, il latte il 19%. In una approfondita ricerca sulle rinunce alimentari viste con gli occhi degli adolescenti, “Action Aid” ha indagato l’impatto della crisi sulla vita familiare e sociale dei giovani tra gli 11 e i 16 anni. Ciò che ne emerge, dalle intense testimonianze dei ragazzini, è il senso di sconforto davanti al frigorifero vuoto o ai banchi del supermercato, vedere i genitori che si tolgono il cibo dal piatto per darlo a loro. Pinella e Davide, gli acrobati - L’allegria non manca in casa Rosano. Sul muro della cucina-salotto le foto degli incontri con Mattarella e papa Francesco, perché Pinella e Davide fanno parte del “Forum Famiglie”. “Possiamo contare su 2800 euro di entrate fisse, di cui 800 vanno via per l’affitto. Restano duemila euro per vivere in cinque, cibo, vestiti, bollette, libri di scuola. Vuol dire che una visita medica da 60 euro fa sballare i conti”. Sposati da 21 anni, “tre figli per scelta”, Pinella, Davide e i tre ragazzi sono diventati “acrobati” del risparmio. Salvatore, che grazie ad una borsa di studio non pagherà l’università, è il “cacciatore di offerte”. “Setaccio i volantini dei supermercati della zona: dove trovo a minor prezzo corro e compro. Con gli amici la sera ceniamo a casa e poi usciamo, nessuno può più pagare un ristorante”. Dei tre ragazzi è Miriam che sembra patire di più, forse, il clima di tagli: “Vorrei più vestiti. E più i libri: ma ormai i prezzi sono assurdi. Sono appassionata noir, sapete quanto costa l’ultimo di Carrisi? Ventidue euro. Una follia per me”. Pinella Crimì è il motore di tutto. “Mi pesa non poter più mettere a tavola un po’ di pesce, carne di qualità. Taglio di qua e di là per comprare loro un paio di scarpe da ginnastica, qualcosa alla moda, perché non si sentano diversi. Ma l’importante è che possano studiare: ai loro sogni di futuro non rinuncerò mai”. Antonio, il lottatore - Chiede discretamente di sedersi su una panchina appartata, lontano dal bar, “dove tutti mi conoscono”. Corsico, piazza Europa, quadrilatero disadorno, aiuole secche. Da quando ha dovuto chiudere l’edicola di Porta Genova, con la quale aveva conquistato un relativo benessere, Antonio, sposato con una figlia, fa l’idraulico quando capita e dà una mano ai volontari della onlus “La Speranza” che distribuisce pacchi alimentari. “A me sembrava di avercela fatta, erano anni belli, all’inizio del Duemila, vendevo 300 copie di Repubblica e 200 del Corriere al giorno, gadget, avevo comprato la casa, l’estate al mare. Come molte partite Iva quando il Covid ci ha spezzato le gambe, ho chiesto il prestito di 25mila euro garantito dallo Stato nel 2020. Ciò che restava del lavoro di edicolante è stato spazzato via dalla crisi dei giornali, oggi mi ritrovo senza un reddito, ma dovendo pagare il prestito, più il mutuo della casa. Mi restano soltanto queste”. Antonio mostra le mani e racconta di una quotidianità dove nella caccia ai discount si trovano pacchi di pasta da un chilo a 50 centesimi, una volta alla settimana un po’ di carne di maiale, il formaggio simil gruviera, “lo dividiamo in piccoli pezzi, un pezzetto al giorno”. Tutto ciò che si risparmia va a Giada, che fa il secondo liceo, per gli occhiali, per qualche - rara - uscita con gli amici. Ma Antonio non si arrende: “Mia moglie guadagna 1200 euro al mese, quando non ce la facciamo chiediamo aiuto, Giada un bel paio di Nike ce le ha. A cosa serve lamentarsi?”. Anna, il coraggio di cambiare - “Il cibo? Il prosciutto crudo e il pesce sulla nostra tavola non ci sono più”. Le finestre del salotto di Anna guardano il Tevere, tra i palazzi eleganti di questo angolo di Prati, a Roma, con i pavimenti di graniglia antica. “Da questa prospettiva affermare di aver paura di diventare poveri sembra un insulto, ma la verità è che può accadere. Ho visto miei clienti liberi professionisti perdere le case, non sapete quante aste ci sono. È come una valanga che ti travolge. Eravamo una famiglia agiata, dopo la separazione è caduto tutto sulle mie spalle. Ho dovuto per forza diminuire il lavoro, oggi guadagno circa 4mila euro al mese, di cui 1500 se ne vanno per il mutuo e altri 500 per l’affitto dello studio”. Anna B. ha 50 anni ma sembra una ragazza. “Quando i prezzi hanno cominciato ad impazzire ho capito di essere sull’orlo di un crepaccio. Duemila euro con una mamma malata, una figlia che studia fuori, vuol dire perdere tutto. Così ho deciso: venderò questa casa meravigliosa, ci spostiamo in periferia, forse, così, sopravvivremo”. I Neet in Italia sono 3 milioni: ritratto di una generazione esclusa da tutto di Gloria Riva L’Espresso, 7 novembre 2022 Non studiano, non lavorano, non si integrano con la società. Ma sono ragazzi tutt’altro che sdraiati: fragili, preda del crimine, disoccupati e sfiduciati. E ora uno studio li esamina, cancellando finalmente i comodi stereotipi. “Non mi hanno rinnovato il contratto”, la voce di Gaia trema. Sono passati cinque mesi da quando l’azienda di moda l’ha sostituita “con una stagista neppure retribuita”, ma ancora non si dà pace. Per lei, che ha 25 anni, quel tirocinio era il riscatto di una vita di sacrifici. I suoi sacrifici, certo, ma soprattutto quelli della madre, cassiera in un supermercato di Cormano, periferia Nord di Milano. Andrea di anni ne ha 17, vive a Tor Bella Monaca, frazione di Roma, c’è un’associazione che sta provando a coinvolgerlo in un progetto teatrale, per riportarlo a scuola. Ma in quale scuola se il quartiere ha tassi di dispersione scolastica da record? Poi c’è Fatima, 33 anni, eritrea d’origine, ha tre figli, parla poco italiano, non esce quasi mai di casa e al lavoro neanche ci pensa. Gaia, Andrea e Fatima non hanno granché in comune. Gaia ha in tasca una laurea triennale e a lavorare c’ha provato, anche se l’essere stata respinta alla prima occasione l’ha demoralizzata; Andrea pensa che la strada sarà la sua scuola e fa spavento perché lì comanda un microcosmo autarchico in mano alla rete criminale dello spaccio; Fatima non ha mai sognato un futuro per davvero, guarda il mondo dalla finestra di una casa popolare di Verona. In comune hanno l’emarginazione dalla società, della scuola, dal lavoro. Il che li rende identificabili fra i tre milioni di Neet italiani, acronimo di Not engaged in education, employment or training. Tradotto: essere uno dei tanti che in quel momento non studia, né lavora, né riceve una formazione. Persone dette per l’appunto “né-né”. Il Censis le fotografa come una marea crescente: hanno fra i 15 e i 34 anni, più donne che uomini, in preda ad agorafobia, depressione, disagio. Dopo la Turchia, il Montenegro e la Macedonia, l’Italia è il Paese con il maggior tasso di né-né in Europa, attorno al 25 per cento, incidenza che raddoppia al Sud ed è più frequente fra figli di migranti e donne. Ma continuare a considerarli un’unica omogenea degenerazione della società non serve granché. Lo hanno capito Action Aid e Cgil che presenteranno l’8 novembre il dossier “Ai margini del fenomeno Neet”, qui anticipato da L’Espresso, nel quale il comitato scientifico - le sociologhe Chiara Saraceno e Giuliana Orientale Caputo e il demografo Alessandro Rosina - hanno per la prima volta scattato una nitida fotografia di chi sono i Neet per sfatare alcuni luoghi comuni (tipo che se ne starebbero tutti sul divano, ingrassati dal reddito di cittadinanza), arrivando a stroncare l’unica misura che le istituzioni dal 2016 a oggi hanno messo in campo per aiutarli, Garanzia giovani, che “non ha scalfito il fenomeno e ha lasciato indietro i più vulnerabili, quelli che ne avrebbero avuto più bisogno”, si legge nel report. Un testo che dovrebbe aiutare il governo a meglio indirizzare le misure a sostegno dei giovani, specialmente quelle del Pnrr. Peccato che il governo Meloni abbia così a cuore la situazione dei giovani italiani da aver affidato il tema ad Andrea Abodi, ovvero il nuovo ministro dello Sport e dei giovani (per l’appunto), uno con un curriculum lunghissimo ma nel mondo del calcio e del Coni. Eppure il problema dell’Italia non è il calcio, piuttosto il fatto che un giovane su tre, che ha tra i 25 e i 35 anni non ha uno straccio di futuro, come avvertono Action Aid e Cgil: “Più si cresce con l’età, più aumenta la loro quota. “La maggioranza, il 42,2 per cento, ha un diploma di maturità, i laureati sono più di uno su dieci, mentre chi ha la licenza media è il 35 per cento”, dice il rapporto, che per la prima volta dimostra come Gaia, Andrea e Fatima sono per l’Italia tre problemi diversi e come tali vanno affrontati, ministro permettendo. I giovanissimi fuori da scuola - “Qui le chiamano scuole parcheggio. Si iscrivono quelli che finiscono le medie senza le idee chiare. Sono istituti di periferia, hanno scarsa presa sui ragazzi che si sentono insoddisfatti, prima bigiano qualche lezione e nel giro di poco finiscono per abbandonare definitivamente. È un copione visto e stravisto”, a parlare è Alessandro Bongiardina, psicologo di strada del gruppo Abele che bazzica i quartieri torinesi Barriera di Milano, Vallette, Borgo Vittoria: “Si buttano nel contesto di quartiere, gironzolano coi più grandi, per noia fanno qualche crimine. Raggiungerli è difficile”. A Torino come a Roma: “I clan che nella capitale spadroneggiano hanno gioco facile ad affiliare i più giovani, sfiduciati e consapevoli che il merito, l’impegno, lo studio non li porteranno da nessuna parte. Laddove non arriva lo Stato e l’istruzione, in quelle zone grigie, si infila la mafia. I giovani stanno sul divano? Magari. I più vengono assoldati dal crimine”, avverte Giuseppe De Marzo, portavoce della Rete dei numeri pari. Sono i giovanissimi fuori da scuola, hanno fra i 15 e i 19 anni e il report di Action Aid e Cgil li descrive come ragazzi in cerca di nulla, tanto meno di un primo impiego, trasversali a tutto il Paese, vivono con la famiglia, non ricevono alcun sostegno economico dallo Stato, sono dimenticati dalla scuola e non ancora intercettati dai servizi sociali. Se, per fortuna, qualche associazione del terzo settore prova a rimetterli in carreggiata, non è detto che ci riesca. Alla ricerca del primo impiego - Vivono al Sud, hanno fra i 20 e i 24 anni, hanno un diploma. Spesso vivono in città metropolitane con un solo genitore e sono per lo più maschi. Con entusiasmo scemante cercano il primo impiego: “È il gruppo più numeroso e mette ancora una volta in luce la fragilità del mercato del lavoro del Sud, dove nonostante le azioni di ricerca e l’immediata disponibilità al lavoro, i giovani hanno difficoltà ad introdursi per la prima volta nel mercato occupazionale. Sarebbe interessante approfondire quanto influisca il lavoro sommerso, molto diffuso nel Meridione”, si legge nel report. La condizione di sfiducia, l’assenza di prospettive, il rancore assumono le sembianze della violenza, dice Salvatore Inguì, assistente sociale di Palermo: “Pestaggi, estorsioni, sequestri, lesioni anche dentro casa. Sono fenomeni coerenti con i modelli diffusi dalla società. Però c’è anche voglia di offrire solidarietà, di partecipare a processi di trasformazione, di migliorare lo stato delle cose. È lì che bisogna insistere per evitare che una generazione affondi nella disperazione e nella rabbia perché si è resa conto che non ha più margini di riscatto”. Ex occupati in cerca - Al terzo girone si incontrano i giovani dai 25 ai 29 anni, che hanno perso o abbandonato un lavoro e ne stanno cercando uno nuovo. Sono principalmente maschi, con un alto livello di istruzione, vivono isolati e percepiscono un sussidio di disoccupazione. Vivono nel Centro Italia e sono i meno numerosi, soprattutto perché chi ha buone carte da giocare trova presto una nuova opportunità, spesso all’estero, gli altri sprofondano verso la quarta categoria dei né-né, gli scoraggiati. Gli scoraggiati - Sono i cosiddetti giovani adulti, hanno fra i 30 e i 34 anni. Per un po’ hanno lavorato, poi sono stati messi alla porta. Vivono al Nord, non in città ma in periferia o in provincia. Sono donne, senza figli, una buona quota ha un passaporto straniero. Sono i più numerosi. Non hanno un diploma per reagire hanno perso qualsiasi fiducia nel futuro. “Se i 15enni si affacciano al mondo del lavoro senza formazione ed esperienza, i 30enni hanno sviluppato una relazione diversa con il mondo dell’occupazione. I primi sono privi di orientamento, i secondi saprebbero come muoversi ma hanno perso la speranza”, si legge nel report di Action Aid e Cgil, che prosegue: “Questa consapevolezza ci permette di sostenere che è necessario sviluppare e immaginare politiche di reinserimento lavorativo e scolastico diverse a seconda del target e della fascia d’età dei Neet a cui si rivolgono”. Tutto il contrario di quanto fatto finora. Il flop Garanzia giovani - Nata nel 2016 con l’obiettivo di attivare i né-né grazie a una dote da 1,3 miliardi di euro, i risultati di Garanzia giovani stanno a zero, visto che il numero di Neet - tre milioni - negli ultimi sei anni è andato aumentando. Oggi i giovani registrati al progetto sono 1,7 milioni, ma quelli contattati dai centri per l’impiego sono 1,4 milioni e le Regioni in cui i Neet sono più numerosi - Lombardia, Campania, Sicilia, Puglia - sono quelle in cui il servizio è più debole. “Dai dati si capisce che uno dei limiti di Garanzia giovani è la difficoltà di raggiungere i più vulnerabili, i più svantaggiati che sarebbero dovuti essere i primi beneficiari del servizio”, dicono Action Aid e Cgil. Solo alla metà dei ragazzi registrati è stata fatta una proposta - un tirocinio, un corso di formazione, un incentivo occupazionale - e al termine dell’intervento sono 540mila gli occupati: in sintesi un terzo di chi si affida a Garanzia giovani ce la fa. Eppure la voglia di riuscirci è tanta se si considera che il 92 per cento dei ragazzi a cui è stata fatta una proposta ha concluso l’intero percorso. Parte del flop viene dalla tendenza a utilizzare per lo più il tirocinio, che “non funziona per chi ha bassi titoli di studio e chi è più scoraggiato nella ricerca di lavoro”, dice il report, che parla anche di un effetto San Matteo perché Garanzia giovani finanzia politiche che funzionano per chi è meno svantaggiato, condannando all’invisibilità i più fragili. I suggerimenti per invertire la rotta ci sono: creazione di misure ad hoc per i quattro gruppi di Neet, maggiore presa sui territori, investimenti su scuole, politiche attive e sociali, nuove politiche del lavoro, meno precarietà e più riqualificazione professionale, progetti innovativi per dedicare gran parte dei fondi del Pnrr a quei giovani che continuano a essere una risorsa sprecata per l’Italia, che senza i suoi ragazzi rischia di invecchiare veramente troppo rapidamente. Le forze della pace senza un corpo politico di Marco Damilano Il Domani, 7 novembre 2022 Quanto contano i manifestanti del 5 novembre? Al di là delle parole d’ordine sulla guerra in Ucraina, rappresentano dopo anni il ritorno fisico della società civile che non si riconosce nel governo della destra. Non è una soluzione, è un’attesa. Che i partiti non devono tradire “Noi contiamo”. Andrea Riccardi ha chiuso con queste parole il suo intervento dal palco di piazza San Giovanni, alla manifestazione della pace di sabato 5 novembre. In quel momento soffiava un vento di tramontana, il fondatore della Comunità di Sant’Egidio si è stretto nel giaccone, senza cravatta, a differenza di Maurizio Landini, si è unito a cantare Bella Ciao, di cui ha dimostrato di conoscere le parole meglio di Carlo Calenda. Noi contiamo: dopo mesi di assopimento, la società civile laica e cattolica è tornata in piazza. La notizia va al di là dell’occasione: chiedere il cessate il fuoco in Ucraina, una piattaforma a rischio di ambiguità che i promotori, va detto, hanno cercato in ogni modo di smentire. I primi passi del governo Meloni coincidono con l’afasia e la spaccatura dell’opposizione. E ancora una volta tocca a una piazza extra partitica dare un segno di risveglio ai partiti che si sono presentati drammaticamente divisi e che hanno finito per fare la notizia: Enrico Letta contestato e quasi spaurito nel corteo, Giuseppe Conte a collo alto come uno chansonnier francese, i presenti, gli assenti. La notizia, invece, era un’altra. Quante divisioni? Noi contiamo, ha detto Riccardi, ma quanto contano? Di quante divisioni dispone la società civile organizzata? Non è la prima volta che accade. Nel 1994, il 25 aprile, a Milano una scia di ombrelli colorò la manifestazione antifascista dopo la prima vittoria della coalizione di Silvio Berlusconi, c’era anche un partito di governo, la Lega di Umberto Bossi, orgogliosamente di dichiararsi erede del vento del nord, della Resistenza. Era un segnale: il governo Berlusconi cadde per divisioni interne e per l’addio della Lega appena otto mesi dopo. Nel 2001 e nel 2002, di fronte allo smarrimento dei partiti del centrosinistra sconfitto alle prese con il loro congresso, i Ds e la Margherita, con Rifondazione comunista nella parte dell’incomodo, una serie di manifestazioni e di movimenti provarono a coprire il vuoto. Nel 2002, sono passati giusto venti anni, era il 9 novembre, Firenze ospitò la riunione del Social Forum, un anno dopo la macelleria di Genova, durante il vertice dei grandi. Nella sala della vecchia stazione di Leopolda, non ancora diventato la Mecca del renzismo, ho visto un tappeto umano di giovani seduti per terra applaudire in fondo al buio un leader naturale che si chiamava Gino Strada. Un applauso ogni minuto. Rileggo i miei appunti di quella mattina: “L’Italia è uno strano paese in cui chi possiede l’informazione possiede anche il ministero degli Esteri” (in quel momento da dieci mesi il premier Silvio Berlusconi ricopriva ad interim la carica). “Fuori l’Italia dalla guerra, fuori l’Europa dalla guerra” (eravamo alla vigilia dell’intervento in Iraq del 2003). “Ce la possiamo fare. Siamo ottimisti!”. La giornata fu conclusa da un grande corteo pacifico, grazie anche all’operato del ministro dell’Interno Giuseppe Pisanu, in quel momento in quota Forza Italia ma già democristiano moroteo, un politico di razza educato alla mediazione, non come i prefetti al Viminale, evanescenti o al contrario fin troppo protagonisti. Sul mio taccuino restò un ultimo appunto: “Non c’è un manifestante vestito uguale all’altro. Non si può abbracciare in un’unica definizione questo popolo”. Le intuizioni giuste - A distanza di venti anni si può dire che le parole d’ordine erano ingenue o poco politiche, ma non mancavano di intuire i meccanismi malati della globalizzazione che in quell’inizio di secolo sembrava ancora il miglior futuro possibile. Il 2002, con il berlusconismo trionfante al governo, l’opposizione provò a ritrovare l’unità nelle piazze, di diverso genere. Di estrazione borghese e anti berlusconiane in senso classico quelle dei girotondi riunite attorno alla figura simbolo di Nanni Moretti, indisponibile ad assumere un ruolo di supplenza nella leadership politica. Giovani e radicali le piazze dei Social Forum, stroncate dalla violenza di Genova e della tortura di stato della scuola Diaz, poi confermata dai processi, con le responsabilità riconosciute nel 2017 dall’allora capo della polizia Franco Gabrielli. Di lavoratori e iscritti il movimento contro la modifica dell’articolo 18 messo su dalla Cgil guidata da Sergio Cofferati. Il 23 marzo 2002 ero con gli altri cronisti accanto al segretario di Corso d’Italia mentre avanzava da san Giovanni al Circo Massimo. Tra due ali di folla, ieratico, vestito di scuro, la barba già candida, con una rosa in mano, in processione, metà Berlinguer metà Padre Pio, nel corteo spuntò un prete a benedirlo. Nicola Piovani suonò La notte di San Lorenzo, l’epica del lavoro e della Resistenza, D’Alema firmava autografi, sul palco altissimo era salito solo il segretario della Cgil, con la sua oratoria rocciosa, “il corpo del povero cadrebbe a pezzi se non fosse legato dal filo dei sogni”, la cravatta rossa sventolava come una bandiera. Senza corpi politici - I cortei, i movimenti, le manifestazioni dell’epoca avevano non uno, ma ben due interlocutori politici (almeno). Il primo era il governo del centrodestra, da contrastare. Il secondo era l’insieme dei partiti del centrosinistra, da richiamare (nell’ordine) a non trattare con Berlusconi, a essere coerente, a ritrovare l’unità. Due interlocutori ben piantati nella società italiana. Oggi i “corpi di pace”, come li ha definiti ieri mattina Avvenire, sono senza punti di riferimento politici. Sono senza un corpo politico, si direbbe. A sua volta, la società civile in questi anni si è scomposta, frammentata, fa i conti con mille contraddizioni. Ad esempio il sindacato espressione di un’antica sinistra sociale, ma attraversato dai venti che soffiano in direzione opposta, con lavoratori e operai che non sentono fratture tra la tessera della Cgil e il voto nel recente passato alla Lega e oggi a Fratelli d’Italia. Il mondo cattolico diviso ancora di più tra vertici ecclesiastici o laicali in linea con gli obiettivi indicati da papa Francesco e una base di praticanti attratta dalle parole tradizionaliste della destra meloniana o leghista, dopo la fascinazione per l’antipolitica degli anni scorsi. Terreni di conquista. Anche una piazza come quella del 5 novembre riflette più una richiesta, una attesa che una soluzione. Quelle del 2002 erano piazze politiche: al punto che il 14 settembre a concludere la manifestazione dei girotondi nella stessa piazza san Giovanni di due giorni fa salì sul palco l’anziano Vittorio Foa, che della storia del Novecento italiano, del movimento sindacale e della necessità di un rapporto con la sinistra politica era un simbolo vivente. I leader dei partiti, i parlamentari, per scelta degli organizzatori erano rimasti sotto il palco, ma era una presenza attiva, non erano comparse. C’era la richiesta di un’altra politica, come la chiamava Stefano Rodotà. Oggi la politica è totalmente da ricostruire, prima di tutto nel suo rapporto con la società, un divorzio da cui entrambi i mondi sono usciti impoveriti. È la cesura degli ultimi quindici anni da cui è nato il ciclone dell’antipolitica intercettato dal Movimento 5 stelle. Una politica più chiusa, barricata in logiche di palazzo, con il governo (andare al governo, restare al governo) come unico obiettivo dell’agire, anche a dispetto del consenso. E movimenti radicalizzati, che della politica ignorano il lessico, la cultura, le mediazioni, i compromessi, che non sono parole ignobili come gli apostoli mediatici della setta no-politica fanno ritenere. Una separazione che ha prosciugato e inaridito entrambi i mondi. Aggravata dalla mancanza di rappresentanza politica per le battaglie di genere, generazionali e ambientaliste. E dai social che danno l’idea di esserci ma che in realtà polverizzano la partecipazione. La pace è impura, come la politica - Di fronte a una destra che svela in pochi giorni il suo profilo ideologico non si può affidare l’opposizione alle ong che fanno un altro lavoro, salvare vite in mare. Anche la piazza del 5 novembre si confrontava con la tragedia epocale della guerra in Ucraina, non era per definizione una piazza anti governativa né poteva, tanto meno, essere trasformata nella piazza di una fazione del centrosinistra contro un’altra. In quella piazza c’era un popolo di sinistra senza una casa, un pezzo importante di mondo cattolico che non ha una interlocuzione politica anche se agisce politicamente perfino su scala internazionale, come fa la Comunità di Sant’Egidio (il meeting sulla pace di Roma di fine ottobre è stato tra gli eventi più rilevanti degli ultimi mesi), moltissimi astenuti del 25 settembre. Un rebus politico da sciogliere. Non lo può fare, da solo, un Pd chiamato a congresso, paralizzato nel labirinto delle regole e delle autocandidature mentre il paese affronta emergenze reali. Non lo può fare neppure il Movimento 5 stelle, partito personale di Giuseppe Conte, generato dall’idea di Gianroberto Casaleggio dell’autorappresentanza, il cittadino in solitudine che come atomo singolo prende parte alla intelligenza collettiva. Anche il risultato alle elezioni del 25 settembre al sud del M5s è frutto non di un meticoloso lavoro sul territorio, ma di una relazione diretta tra l’avvocato e il Popolo, senza altre mediazioni. La presenza di Conte in piazza è il riconoscimento che quella fase si è conclusa e che la battaglia per l’egemonia nel centrosinistra passa anche da qui, dalla capacità di parlare e rappresentare quei mondi vitali. Mentre il Pd rischia di ritrovarsi straniero in patria, tra i suoi elettori, in quelle parti di società che ne hanno costituito la linfa. Un pericolo che i suoi dirigenti e gli aspiranti candidati alla segreteria dovrebbero considerare letale. E che non si risolve rispolverando l’antica identità della sinistra. Perché quelle piazze e quei mondi sono qualcosa di più, e certo di diverso, da molti anni. I corpi intermedi sono stati l’obiettivo degli ultimi anni, l’effetto è che ci ritroviamo in una politica e in una società senza corpi e senza mediazioni. Il ritrovarsi in piazza, anche soltanto per un pomeriggio, a strappare ai salotti tv e alle dispute social la questione più rovente che dilania le coscienze, continuare a sostenere con l’invio di armi la resistenza ucraina e al tempo stesso chiedere l’inizio di una trattativa anche con il nemico, è soltanto l’inizio di una ricostruzione possibile. Il vuoto c’è, i tre oratori conclusivi sul palco, i tre tenori vorrei dire, don Luigi Ciotti, Andrea Riccardi, Maurizio Landini, sono l’espressione di risposte possibili. “La pace è impura”, ha detto il presidente francese Emmanuel Macron alla Comunità di Sant’Egidio, “ontologicamente impura perché accetta squilibri, scomodità che rendono possibile la convivenza con l’altro da me”. Anche la politica lo è. Papa Francesco: “Salvare i migranti, ma l’Ue non può lasciare sola l’Italia” di Iacopo Scaramuzzi La Repubblica, 7 novembre 2022 Sul volo di ritorno dal Bahrein apertura di credito di Bergoglio a Meloni: “Sui rifugiati non credo che questo governo voglia tornare indietro. Gli auguro il meglio ma sia un governo di collaborazione, non un governo dove ti fanno cadere se non ti piace una cosa o l’altra. Finiamola con questi scherzi!”. Poi parla anche della rivolta in Iran (“La donna non è un cagnolino dell’uomo!”), di Ucraina, degli abusi dei sacerdoti e delle polemiche nella Chiesa tedesca. Apertura di credito del Papa a Giorgia Meloni: sul volo di ritorno dal Bahrein, Francesco, conversando con i giornalisti al seguito, ha augurato “il meglio” al nuovo governo, auspicando che “possa portare l’Italia avanti” e augurandosi che non cada in tempi brevi a causa delle fibrillazioni politiche che hanno segnato le sorti dei governi nella storia recente del Paese (“Finiamola con questi scherzi!”). Quanto allo sbarco degli immigrati dalle navi delle ong, Jorge Mario Bergoglio si è detto persuaso che il nuovo governo “non voglia” abbandonare il principio che “la vita va salvata”, e ha sottolineato che l’Unione europea “non può lasciare a Cipro, Grecia, Italia e Spagna la responsabilità di tutti i migranti che arrivano”. Nel corso della conferenza stampa, il Papa ha toccato anche il tema delle proteste delle donne in Iran (“Il maschilismo uccide la società”), la guerra in Ucraina (“Sono in mezzo a due popoli a cui voglio bene”), ha condannato l’infibulazione femminile in uso in alcuni Paesi musulmani, ha promesso di rivedere i casi di pedofilia del clero che in passato non sono stati giudicati con la dovuta chiarezza e ha messo in guardia la Chiesa tedesca dal rischio di diventare “protestante”. Nel Mediterraneo ci sono quattro navi di ong con i migranti, non tutti possono sbarcare: lei teme che in Italia sia tornata la politica dei porti chiusi? Come valuta i Paesi del nord Europa? E che giudizio dà del nuovo governo italiano, che per prima volta è guidato da una donna? “È una sfida! I migranti vanno accolti, accompagnati, promossi e integrati. Inoltre ogni governo dell’Unione europea deve mettersi d’accordo su quanti migranti può ricevere, altrimenti solo quattro Paesi sono quelli che li ricevono, Cipro, Grecia, Italia e Spagna, coloro che nel Mediterraneo sono più vicini. La vita va salvata: oggi il Mediterraneo è un cimitero, forse il cimitero più grande del mondo. E l’Unione europea deve prendere in mano una politica di collaborazione. La politica dei governi italiani fino a questo momento è stato salvare le vite, fino a un certo punto… Credo che questo governo abbia la stessa politica, non sarebbe umano fare diversamente: non conosco molto la situazione italiana ma non penso che voglia allontanarsi da quella linea. Da quello che ho sentito ha fatto sbarcare già i bambini e le mamme e i malati, almeno l’intenzione c’era. Ma l’Italia, questo governo o un altro, non può fare nulla senza l’accordo con l’Europa: la responsabilità è europea. E poi c’è un’altra responsabilità europea, come ha detto la Merkel: il problema dei migranti va risolto in Africa. Se pensiamo che l’Africa va sfruttata è logico che la gente scappi da quello sfruttamento. L’Europa deve cercare di fare piani di sviluppo in Africa. È una ipocrisia risolvere il problema dei migranti in Europa, andiamo a risolverlo a casa loro. Quanto al nuovo governo, incomincia adesso, gli auguro il meglio: io sempre auguro il meglio a un governo perché un governo è per tutti. Gli auguro il meglio perché possa portare l’Italia avanti. E tutti gli altri che sono contrari al partito vincitore che collaborino: con le critiche, con l’aiuto, ma che sia un governo di collaborazione, non un governo dove ti fanno cadere se non ti piace una cosa o l’altra. Per favore su questo io richiamo alla responsabilità: è giusto che dall’inizio del secolo fino ad adesso l’Italia ha avuto 20 governi? Ma finiamola con questi scherzi!”. Lei appoggia le proteste delle donne in Iran? “Talvolta per i diritti della donna è una lotta continua, in alcuni posti la donna arriva a avere una uguaglianza con gli uomini ma in altri posti no. Parlo globalmente. Come mai oggi, ad esempio, nel mondo non possiamo fermare la tragedia dell’infibulazione alle ragazzine? È terribile che non si riesca a fermare questo crimine. Ho sentito dire che le donne sono materiale usa e getta, una specie protetta, ci sono questi episodi dove le donne sono di seconda classe se non meno. Ma Dio non ha creato l’uomo e poi gli ha dato un cagnolino per divertirsi. Una società che non è capace di mettere la donna al suo posto non va avanti. Il maschilismo uccide la società. In Vaticano io ho nominato alcune donne, ad esempio al Governatorato o nel Consiglio per l’Economia: ogni volta che una donna entra a lavorare in Vaticano, le cose migliorano”. Cosa sta facendo il Vaticano per l’Ucraina? Ha sentito Putin? “Il Vaticano è continuamente attento, la Segreteria di Stato si muove bene. Io parlo di Ucraina ‘martoriata’ perché mi colpisce la crudeltà: non è del popolo russo ma dei mercenari, preferisco pensarla così perché ho alta stima del popolo russo, dell’umanesimo russo, basta pensare a Dostoevskij. Ho un grande affetto per il popolo russo e un grande affetto per il popolo ucraino. Sono in mezzo a due popoli a cui voglio bene, non solo io ma la Santa Sede. Quando gli imperi si indeboliscono, da una parte e dall’altra, hanno bisogno di fare guerra per sentirsi forti e vendere le armi. Oggi credo che la calamità più grande che c’è nel mondo sia l’industria delle armi”. I cattolici francesi sono nuovamente scioccati dopo aver scoperto che la condanna a un vescovo che aveva compiuto abusi sessuali è stata tenuta segreta: le sanzioni canoniche secondo lei dovrebbero essere rese pubbliche? “Il problema degli abusi non c’è solo nella Chiesa, ma la Chiesa, dopo che uscì lo scandalo del cardinale Bernard Law di Boston, ha preso consapevolezza. Non dobbiamo stupirci che vengano fuori casi come questi. Ci sono persone dentro la Chiesa che ancora non la vedono chiara, a volte c’è la tentazione del compromesso, ma la volontà della Chiesa è chiarire tutto. Ho ricevuto negli ultimi mesi due lamentele di abuso che erano state coperte, non giudicate bene dalla Chiesa, e subito ho detto: si studia di nuovo, e si sta facendo un nuovo giudizio. Bisogna fare la revisione di giudizi vecchi non ben fatti. Andiamo avanti, anche con il vostro aiuto”. Cosa pensa della Chiesa tedesca che perde ogni anno 300mila credenti ed è impegnata in un percorso sinodale? “La Germania ha una antica storia religiosa complicata, di lotte… Io ai cattolici tedeschi dico: la Germania ha una grande, bella chiesa protestante, non ne vorrei un’altra, la voglio cattolica, in fratellanza con la protestante. Delle volte cadiamo nelle discussioni ‘eticistiche’, politiche, ecclesiastiche, che non sono quello che pensa il santo popolo fedele di Dio. Se non ci sarà incontro con Gesù Cristo, sarà ‘eticismo’ travestito di cristianesimo”. Il dialogo con l’Islam che ha avuto ad Abu Dhabi e ora in Bahrein sta dando frutti? “Sono rimasto colpito delle cose che sono state dette nel consiglio degli anziani musulmani sulla salvaguardia del creato: questa è una preoccupazione comune e di tutti, islamici, cristiani, tutti. Adesso sullo stesso aereo dal Bahrein si recano al Cairo (per il vertice sul clima Cop27, ndr) il Segretario di Stato vaticano e il grande imam di al Azhar: insieme come fratelli”. Migranti. Humanity 1: “Non lasceremo il porto”. Duello tra Viminale e Ong di Marta Serafini Corriere della Sera, 7 novembre 2022 A Catania due navi con centinaia di persone e una terza in arrivo. Sbarcano minori e “fragili”. La Ong Sos Humanity annuncia un ricorso al Tar contro la decisione del governo. Prima emergenza sbarchi del governo Meloni, giorno secondo. Gli occhi di Muhammad, 25 anni, dal Pakistan si fanno liquidi per l’incredulità. “Sono scesi quasi tutti. Forse perché non sono abbastanza malato?”, chiede. Sono 35 i migranti rimasti a bordo della Humanity 1, la nave della Ong tedesca arrivata in porto la sera di sabato, da cui sono sbarcati in 144, compresi 102 minori, 100 non accompagnati. “Hanno visto andare via i loro compagni di viaggio, è stato straziante”, raccontano gli operatori mentre viene distribuito un pasto caldo. L’atmosfera è trattenuta. Un gruppetto di ragazzi pachistani si stringe nelle coperte di lana. “Hanno in tanti i segni delle torture sul corpo. Ma durante gli screening sanitari dal personale del ministero della Salute e dalla Croce Rossa non c’erano nemmeno i traduttori”, si arrabbia Camilla Kranbusch, 27 anni, dello staff. Sul ponte, anche un legale del pool formato per le richieste di asilo. La paura, ora, è che qualcuno decida di gettarsi in mare e fuggire. “Il momento più difficile? Un ragazzo si è sentito male, ha avuto un vero e proprio crollo”, spiega ancora Kranbusch, seduta sulla banchina del molo di Levante. Alle 11.30 arriva l’ingiunzione da Roma, secondo quello che è ormai il protocollo degli “sbarchi selettivi”, come li chiama chi li critica. La Ong Humanity 1 deve lasciare il porto e tornare al largo con i 35 a bordo. Dal Viminale la linea dunque non cambia: si salvano donne bambini e fragili ma non si accetta il ricatto delle Ong. Per questo se la nave non deciderà di uscire dal porto non è esclusa la richiesta di sequestro dell’imbarcazione alla magistratura e la denuncia per il comandante. In quel caso i migranti scenderebbero a terra e scatterebbe poi l’ordine di espulsione. Sul molo il via vai si fa più frenetico. Il senatore del Pd Antonio Nicita e il deputato e vicesegretario del partito Beppe Provenzano vanno avanti e indietro senza sosta. “A monitorare le ispezioni devono essere anche gli psicologi. Stiamo parlando di persone traumatizzate e abusate”, dicono. Il deputato di Verdi e Sinistra italiana, Aboubakar Soumahoro, rivolge un appello al presidente Sergio Mattarella mentre un centinaio di attivisti urlano nei megafoni: “Scendeteli tutti”. Poi, è la volta del capitano della nave. Joachim Ebeling, tedesco, di Brema, 59 anni, da 20 anni in mare. “Io dal porto non mi muovo: violerei decine di leggi del diritto internazionale se obbedissi al governo italiano”, spiega ai giornalisti. Sorride, gentile. Se è teso non lo dà certo a vedere. “Non sono pronto ad essere il nuovo Rackete”, scherza. Poco prima delle 15.30, in ritardo di oltre due ore rispetto alla convocazione di Roma, entra in porto anche la Geo Barents di Medici Senza Frontiere. A bordo ha molti più migranti di Humanity 1: 572 di cui 60 minori di sesso maschile, 50 non accompagnati e 6 di sesso femminile di cui 3 incinte. Nazionalità prevalenti, Pakistan e Bangladesh. Ma ci sono anche siriani, libici. Poco meno di due ore e tra i primi a toccare terra c’è M., neonata con il labbro leporino, dal Togo. Il cappellino di lana verde acqua la copre dal freddo. Il papà e la mamma la alzano in aria in braccio per farla sorridere tra le luci al neon del bus. Hanno lavorato in Libia per mettere i soldi da parte per curarla, cercando contemporaneamente di ottenere un visto per l’Europa che è stato sempre negato. Stessa procedura adottata per la Humanity 1 vale per la Geo Barents ma più in grande. Prima salgono a bordo gli ispettori della sanità marittima, osservano i naufraghi, un primo rapido controllo per stabilire chi è in lista. A chi scende viene messo un braccialetto rosso di plastica. Poi, una volta a terra, le visite mediche nelle tende e gli autobus pronti a partire per i centri di accoglienza. La precedenza ai minori non accompagnati, le donne e i nuclei familiari. Solo alla fine sarà la volta degli adulti maschi fragili. “In troppi dicono di avere meno di 18 anni ma non è vero”, dice a bassa voce un funzionario. Segue le operazioni Riccardo Gatti, coordinatore dei soccorsi di Medici Senza Frontiere. “C’è già stato qualche momento di tensione”, racconta. Alle 22 saranno 357 gli sbarcati, di cui 56 minori non accompagnati, 3 donne e 41 componenti di nuclei familiari. A bordo ne restano 215. “Farete anche voi come Humanity 1 se dovessero chiedervi di ritornare in mare?”, è la domanda. “Per noi un salvataggio prevede lo sbarco di tutti in un luogo sicuro”, risponde Maurizio Debanne, portavoce della Ong. Cala la notte su Catania, tornata ai giorni della Diciotti e dei sequestri delle navi mentre arriva l’annuncio di Sos Humanity: faremo ricorso contro al Tar del Lazio. Intanto nelle chat gira un nuovo messaggio: “La prossima potrebbe essere la Ocean Viking di Sos Méditerranée”, che però fin qui - a differenza delle altre navi - è rimasta sul limitare delle acque territoriali. Trasporta 234 naufraghi. Cecilia Strada: “Noi rispettiamo le leggi è il governo che le viola” di Francesca Paci La Stampa, 7 novembre 2022 L’attivista di Resq People: “Prima si salvano le persone poi si bussa all’Ue”. Cecilia Strada segue da Milano la sorte di quel “carico residuale” che secondo il ministro dell’interno Matteo Piantedosi dovrebbe riprendere il largo e secondo lei è la misura del limite. Se il cantiere navale di Napoli dove la sua Resq People è in riparazione darà l’ok, nel giro di qualche settimana sarà di nuovo in mare. In due giorni siamo tornati indietro al 2019, il braccio di ferro tra il diritto e la politica sulla pelle dei migranti. Cosa succede adesso? “Stiamo assistendo alla violazione gravissima dei diritti umani dei naufraghi ma anche di quelli dell’equipaggio delle navi, in attesa da giorni di sbarcare un migliaio di persone in un paese di 60 milioni di abitanti. La situazione è chiara, da una parte ci sono l’umanità e il diritto, dall’altra il governo italiano. Una brutta storia cominciata con il vagheggiamento del blocco navale nel nome della sicurezza. Ma qualsiasi popolo dovrebbe essere terrorizzato da un governo che calpesta i diritti dei deboli e le leggi internazionali”. Se lo aspettava? “Temevo un clima pessimo dopo una campagna elettorale giocata anche sui presunti blocchi navali, ancorché inapplicabili. Ma che a 72 ore dall’insediamento la priorità del Paese fosse già la guerra a un migliaio di poveracci da selezionare tra fragili e “carico residuale” questo no, non me lo aspettavo, non così presto”. Sos Humanity ha annunciato il ricorso al Tar contro il provvedimento. Otterrà l’avvallo dei giudici? “Certamente, come sempre, perché la ragione sta dalla parte del diritto. È un film già visto. Da cinque anni le navi delle ong vengono descritte come navi pirata. È vero invece il contrario: siamo gli unici, insieme ai mercantili, a rispettare il diritto e le convenzioni internazionali che impongono di soccorrere i naufraghi. La guerra contro di noi non nasce in queste ore, in cui assistiamo a violazioni palesi e oscene: da anni si demonizza chi sta in mare a colmare il vuoto dei Paesi europei, che hanno abbandonato il Mediterraneo. La politica dovrebbe agire a monte e non sulla frontiera di un cimitero liquido. Le navi rispettano l’imperativo giuridico di cercare un porto sicuro contattando gli Stati costieri con la zona Sar. La Libia, la cui guardia costiera è stipendiata dall’Europa per riportare i migranti nelle mani dei trafficanti, ha una Sar ma non è un porto sicuro. Malta viola da tempo gli obblighi internazionali e rifiuta di coordinare i soccorsi. Resta l’Italia, che alla fine concede sempre il porto, ma è una sua responsabilità”. L’Italia, si dice, è la Cenerentola d’Europa. A che livello bisognerebbe intervenire per non ritrovarci sempre allo stesso bieco stallo? “Le navi fanno la loro parte. La politica no: avrebbe potuto non rifinanziare la missione in Libia o, ancora più a monte, avrebbe potuto porre il problema in sede europea, dove si discutono i meccanismi di accoglienza. Ma urge distinguere il soccorso in mare dalla redistribuzione, che pure apre altre voragini etiche e legislative nel ragionare in termini di rifugiati meritevoli e immeritevoli migranti economici, altrimenti detti “carico residuale”. Il problema è la riforma del Trattato di Dublino che penalizza i Paesi di primo arrivo e che in Europa viene bloccata precisamente dai Paesi alleati del governo Meloni. Lavoriamoci, giusto. Nel frattempo però, non possiaamo lasciare in mare i migranti e le navi, impossibilitate così a salvare altre vite”. Che mesi ci attendono? “Retorica e disumanità sulla pelle dei più deboli. Fare politica sui bisogni reali degli italiani è difficile: ragionare di lavoro, casa, assistenza sanitaria. Meglio prendersela con i soliti migranti e con le navi che pure nell’ultimo anno hanno effettuato meno del 15% dei soccorsi in mare, la maggior parte degli sbarchi sono stati infatti autonomi o guidati dalla guardia costiera. Non c’è alcuna invasione in corso e non c’è alcuna emergenza, come prova la sacrosanta e doverosa accoglienza degli ucraini in fuga dalla guerra. Parliamo del nulla per non parlare della vita delle persone, come se il valore della vita fosse stimabile in una graduatoria a punti”. Musumeci: “La nave batte bandiera tedesca, deve chiedere alla Germania di farsi carico dei migranti” di Virginia Piccolillo Corriere della Sera, 7 novembre 2022 Musumeci, ministro delle Politiche del mare e per il Sud: l’inerzia della Ue è un aiuto ai trafficanti. Nello Musumeci, da primo ministro delle Politiche del mare e per il Sud, pensa che il governo sugli sbarchi stia violando la legge? “Premesso che le mie competenze sono altre, non è così. Chi si trova in difficoltà in mare va sempre soccorso. Ma una nave è un pezzo di Stato. E la legge impone a quello Stato di farsi carico di chi ha soccorso”. E la solidarietà? “Tutti dobbiamo sperare che l’Ue sappia esserlo. La sua inerzia diventa, senza volerlo, sponda per chi fa commercio di esseri umani. Il presidente Meloni si è espressa in modo così compiuto in Europa che resta poco da aggiungere”. Intanto però restano persone a bordo. Condivide lo sbarco selettivo? “Il ministro Piantedosi in Cdm ha illustrato la linea, approvata all’unanimità. I casi umani dei fragili saranno tenuti in considerazione, ma la nave che batte bandiera tedesca ha il dovere di chiedere al governo tedesco di prendersi in carico quei migranti”. Vi accusano di calpestare diritti e umanità. Perché non farli scendere? “Il governo ha fatto scendere donne, bimbi e malati. Sa che fine fanno molti degli irregolari? Basta guardare ai bordi di qualche strada statale con decine di ragazze sfruttate o nelle aree rurali chi è pagato 4 euro l’ora. Migliaia di minori, dopo lo sbarco, sono scomparsi. Sono “invisibili” di cui non parlano i buonisti in cerca solo dei titoli di giornali”. Sui porti ha la delega Salvini. Prevede discussioni? “No. Le deleghe sono specifiche. Il mio ministero funziona da coordinamento e programmazione tra quei ministeri che riconducono al sistema mare. Alle Infrastrutture è in capo, dal punto di vista funzionale, la Guardia costiera”. E il progetto di Meloni di fare del Sud un hub energetico del Mediterraneo? “Resta. E non solo. Gran parte del traffico mercantile che arriva dal Canale di Suez va verso Gibilterra, diretto al Nord Europa. Una occasione persa. Serve quindi una adeguata infrastrutturazione marittima e va fatta al Sud, perché prima della politica lo vuole la geografia”. Spesso prima è arrivata la criminalità. Come impedirlo? “Nel Sud come ovunque, ormai, quando c’è un flusso di denaro le mafie alzano la testa. Bisogna dotarsi di anticorpi. Il pericolo criminalità non deve scoraggiare gli investimenti al Sud”. Pensa al Pnrr? “Quelle risorse non servono per le infrastrutture strategiche, che si realizzano in 10-15 anni, con queste leggi. La scadenza del 2026 prevista dal Pnrr ne condanna gran parte a restare incomplete. FdI ha chiesto la proroga, altrimenti in economia di guerra è impossibile. A meno che non si voglia modificare il codice degli appalti”. Che intende? “Per tre anni si potrebbe applicare al Sud il modello Genova, sotto lo stretto controllo dello Stato. Pochi obiettivi e procedure snelle”. Un commissario anche per il ponte di Messina? “Il ponte non è un capriccio, un tir ci mette anche 3 ore a passare lo Stretto. Assurdo! Finora il centrosinistra ha perso tempo in questioni di lana caprina”. Si dice che lei potrebbe avere anche la delega sulla Protezione Civile. “Non ne ho mai parlato col presidente Meloni”. Si occuperà degli stabilimenti balneari? “Santanché ha chiesto di rinunciare alla delega, d’accordo con il presidente del Consiglio. Ce ne faremo carico e fra i primi temi che affronteremo ci sarà quello. Le opinioni sul tema sono divergenti, dobbiamo trovare una sintesi senza penalizzazioni o favoritismi”. Come può convivere la tutela dell’ambiente marino e paesaggistico con l’avvio di nuove trivellazioni? “I razionamenti, già iniziati, impongono qualche sacrificio in più per superare un momento difficile. È mancata in passato la programmazione e in emergenza abbiamo il dovere di sfruttare le nostre risorse. E fin quando non avremo rinnovabili sufficienti, il fossile resterà indispensabile. Mia nonna diceva: “Non si può avere la botte piena e la moglie ubriaca”. Puntiamo a “una moglie un po’ inebriata ma con una botte semipiena”. Minacce e regimi, la libertà è diventata un bersaglio di Walter Veltroni Corriere della Sera, 7 novembre 2022 In tutto il mondo sono la maggioranza i sistemi che hanno ridotto le libertà concesse ai cittadini, le democrazie sono recenti e sono poche. La democrazia e la libertà sono un’eccezione nella storia umana. Non dovremmo mai dimenticare questa verità. Per il resto, nei secoli, il potere è stato detenuto da re, imperatori, dittatori, forme diverse di dominio assoluto. Secondo i dati del Democracy Index del 2021 - che tengono conto di cinque fattori: processo elettorale e pluralismo, libertà civili, funzione del governo, partecipazione politica e cultura politica - la popolazione mondiale che vive in regimi autoritari è il 37,1% e quella che si trova in sistemi definiti ibridi raggiunge il 17,2. La tendenza, specie dopo la pandemia, è verso un ulteriore calo di questi indici, che oggi sono al livello più basso dal 2006. E, secondo la ricerca di Freedom House in questi ultimi anni sono la maggioranza i sistemi che hanno ridotto le libertà concesse ai propri cittadini. Ma anche in questa parte del mondo, classificata nell’area dei regimi democratici perfetti o imperfetti, emergono problemi e scricchiolii che dovrebbero destare attenzione. Nella democrazia più solida del pianeta, quella americana, terra che non ha mai conosciuto dittature, abbiamo assistito a un tentativo di colpo di stato, chiamiamolo con il suo vero nome, mediante l’occupazione del Campidoglio. E non è detto sia finita. Non per caso Joe Biden, parlando in prossimità di elezioni che possono segnare il rilancio della parte più estremista dei repubblicani, ha parlato di “pericolo per la democrazia” per gli Stati Uniti d’America. Obama ha aggiunto: “Avete visto nel mondo cosa succede, quando rinunci alla democrazia. I governi ti dicono quale libri puoi leggere; i media fanno solo propaganda e i giornalisti finiscono in prigione; non conta per chi voti perché tanto il risultato è già scritto, e la corruzione è rampante perché non c’è alcun controllo. Quando questo accade la gente soffre”. In Gran Bretagna, dopo lo sciagurato referendum sulla Brexit, il sistema, consolidato da secoli, ha cominciato a decomporsi, fino alla farsa della nomina e delle subitanee dimissioni della premier Truss. In tre anni sono cambiati, in un sistema considerato stabile, quattro primi ministri e l’economia inglese si prepara, come ha detto la Bank of England portando i tassi di interessi al livello più alto da 14 anni, a una fase di recessione che potrebbe essere la più lunga degli ultimi cento anni. In Israele si è votato per la quinta volta in tre anni e in Francia, Paese con istituzioni solide, si sperimenta di nuovo la coabitazione. In Italia ci sono stati, dal 2015, cinque governi non eletti dal popolo e per due volte il Parlamento non è riuscito a eleggere il nuovo presidente della Repubblica. Si deve considerare in questo quadro anche la deriva di sistemi come quello ungherese o polacco, il successo elettorale di formazioni di stampo sovranista e comunque ostili all’Europa e ai suoi valori. Sotto gli occhi di tutti è quello che accade in Russia, in Cina, in Iran per ciò che riguarda le libertà politiche e personali, fino alla persecuzione o all’assassinio degli avversari politici, o la situazione drammatica del Brasile dove Bolsonaro, sostenuto in passato anche da insospettabili amicizie italiane, soffia sul fuoco di rivolte popolari contro il voto che ha sancito la vittoria di Lula. La democrazia soffre della crisi drammatica dei partiti e dei soggetti dell’intermediazione sociale. Soffre perché non è stata capace di pensarsi in una società fluida, senza quella rigida organizzazione in classi sociali che è stata riferimento politico lungo il novecento. Soffre perché i processi di formazione e diffusione della comunicazione sono veloci e frammentati e lasciano il campo a un’emotività diffusa e spesso a comportamenti irrazionali. Soffre perché non riesce a trovare quel nuovo equilibrio tra crescente volontà di partecipazione civile - unico fattore positivo di questa fase - il voto, le istituzioni rappresentative, la sfera del governo e della decisione. La democrazia perde fascino, perché sembra un treno vecchio e lento, incapace di rispondere in modo veloce e ravvicinato ai bisogni del popolo. Popolo è una parola che la democrazia non può dimenticare. Bisogna riportare sempre alla memoria il primo articolo della nostra Costituzione: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro. La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione”. Senza popolo nella democrazia, vincono i populismi. Senza la possibilità di rendere operative le proprie scelte, specie in tempi di acuta crisi sociale, la democrazia rischia di sembrare un utensile arrugginito. La democrazia, non parlo solo dell’Italia, richiede capacità di decisione dell’esecutivo e forza cogente di controllo del parlamento, richiede il coraggio di inventare nuove forme di governo diffuso in regime di sussidiarietà, richiede di definire nuove regole con chi oggi detiene un potere immenso e inedito nella storia umana e ha il dovere di armonizzarlo con le esigenze della comunità. La democrazia di marmellata, chiacchiere e distintivi, lascia il campo al sovranismo, al populismo, alle avventure autoritarie di ogni segno. La forza della democrazia sta nella garanzia di libertà che essa porta con sé. Ma la storia ci ha insegnato che quando urgono problemi drammatici che entrano in ogni casa e riguardano ciascuno, l’opinione pubblica può essere disposta a scambiare libertà per decisione. Il 28 ottobre è trascorso ma bisognerebbe sempre ricordare come il potere democratico si sfarinò, nel 1922. La vecchia politica non si fece da parte, non riconobbe i propri errori, non fu capace di reagire, paralizzata da furbizie, estremismi, paure. La sulfurea gelatina delle sue leggiadre procedure fu spazzata via in un giorno. E fu regime e guerra. Due parole che, lo dimostra l’invasione dell’Ucraina da parte di un regime autoritario, tornano nel nostro vocabolario. Altro che fine della storia. Sembra essere la democrazia il vero bersaglio delle “nuove” culture politiche. L’Occidente dovrebbe portare sempre con sé il ricordo più recente dell’invasione del Campidoglio di Washington. Non era folclore, era la minaccia che corre oggi la più preziosa delle nostre conquiste: la democrazia. L’urlo dell’etnia divide l’Europa di Paolo Rumiz La Stampa, 7 novembre 2022 Il tramonto del nostro Occidente è iniziato con la lacerazione dell’ex Jugoslavia, oggi la storia di ferocia e indifferenza si ripete con la deflagrazione dell’Ucraina. Non distogliete lo sguardo, per favore. Qui vi si chiede di leggere fino in fondo, senza saltare le parti più scabrose, perché non si dica ancora: “Non sapevo”. Vi si chiede di prendere atto del limite dove può arrivare il sadismo degli umani. Non bestie: peggio di bestie. Nessun animale tortura e uccide un suo simile per piacere. Qui a Omarska, in Bosnia-Erzegovina, è accaduto. Nel cuore d’Europa, a tre ore di macchina dall’Italia. Questo libro è il rapporto di un’anima scampata allo sterminio che si è sobbarcata il peso solitario e bestiale della memoria. Uno che vi fa toccare con mano la ferocia che può scatenarsi nel vostro vicino di casa se la propaganda gli devasta il cervello, se l’urlo dell’etnia lo convince da un giorno all’altro che il vostro cognome, religione e cultura sono un’entità demoniaca, e che la pace regnata fino ad allora tra voi è stata solo una tregua, un’illusione. Gran parte di quegli aguzzini sono vivi e impuniti a Omarska e dintorni. Capita che le vittime incontrino per strada chi gli ha massacrato il figlio, il padre, la moglie. La vita continua, come niente fosse, in una pace senza giustizia voluta dall’Occidente, in una rimozione generale che può riaccendere il conflitto in qualsiasi momento. Una pace senza monumenti alla memoria. Senza istituzioni che chiedano scusa. Oh sì, dei due supremi mandanti, uno - Miloševi? - è morto in carcere, l’altro - Karadži? - ci resterà per sempre, ma non si chieda alla giustizia più di un capro espiatorio. Oblio e cloroformio sulle ferite della guerra. Nessuno ha voglia di ricordare, né nella Republika Srpska di Bosnia né altrove. Nemmeno le vittime ne hanno più la forza. Figurarsi noi, che siamo nati nella parte “giusta” d’Europa. Noi, che supponiamo di essere diversi (“loro barbari, noi civili”) e invece abbiamo avuto un ruolo decisivo in tutto questo. Noi, che abbiamo perso l’innocenza, accettando dai belligeranti l’idea che la separazione etnica potesse portare la pace. Provate a dividere con un taglio netto una coppia di mani fraterne intrecciate fra loro. Ne uscirà sangue a fiotti. È quello che è successo nei luoghi dove serbi, croati e bosgnacchi erano più connessi tra loro. Un mondo jugoslavo fatto di matrimoni misti, di classi medie emergenti, laiche e profondamente europee. Smantellarlo, con le nostre proposte di “cantonizzazione”, non ha fatto che incoraggiare anziché interrompere la barbarie della pulizia etnica. E ha picconato il fondamento stesso di un’Europa plurale. Tutto è cominciato allora. La divisione della Bosnia ha spinto il Kosovo alla secessione dalla Serbia, un esempio che ha autorizzato il distacco del Donbass, provocando la guerra in Ucraina che, come un boomerang, ricade su di noi lacerando il tessuto della nostra madre terra europea con uno strappo purulento che ci porta sull’orlo di un terzo conflitto mondiale. Per questo oggi l’Unione stellata tace, cammina quasi rasente ai muri, in un momento in cui dovrebbe essere protagonista. Tace perché ha rinnegato se stessa già negli Anni 90. La nostra è una comunità che, rinunciando ai principi, si è ridotta a tutelare i soli interessi. Ma anche gli interessi, se non sorretti da principi, perdono senso e vigore. Col risultato che oggi l’Occidente europeo non sa tutelare nemmeno le proprie convenienze, se è vero che consente a Russia e America di combattersi sul suo territorio, delegando ignominiosamente l’iniziativa di una possibile mediazione ad autocrazie straniere come Cina e Turchia. Un tramonto annunciato. Una decadenza iniziata decenni fa in Jugoslavia. Noi, immersi in una realtà virtuale, ci scopriamo incapaci di capire che la terra della democrazia, dei diritti, della filosofia e del welfare è sotto attacco e sta alla fin fine balcanizzandosi, con l’Inghilterra fuori gioco, la Francia spaccata in due, l’Italia in caduta libera come prestigio e la Germania impaurita dalla propria ombra. Non capiamo che, per evitare di diventare una colonia altrui, è proprio questo il momento di fare il salto coraggioso verso una politica estera e di difesa comune. Restiamo imbambolati, sonnambuli, come alla vigilia della Grande guerra. Passiamo dal menefreghismo all’insonnia, dall’aperitivo della happy hour alla visione spaventosa di un fungo nucleare. Di fronte ai segni inequivocabili della crisi - conflitti, riscaldamento climatico, inflazione, epidemie globali e migrazioni in massa - ci ostiniamo a credere che la nostra vita possa continuare allo stesso modo. L’Africa, il Sudamerica e l’Asia hanno capito da tempo verso quali orizzonti di sfruttamento dell’umanità sta andando il mondo. Noi no. La lezione delle ultime catastrofi non è servita. Siamo appiattiti su un pensiero unico - atlantico, bipolare e manicheo - e rinunciamo a proclamare e difendere la nostra millenaria diversità di Terra di mezzo. Senza memoria di ciò che è accaduto appena ieri, e soprattutto senza ricordare cosa abbiamo finto di non vedere nei Balcani, noi europei smetteremo di vivere l’alterità e le differenze come risorsa e saremo anche noi vittime della logica degli antagonismi. Imboccheremo insomma anche noi la scorciatoia tribale dell’etno-nazionalismo, che ci porterà come sempre a definire noi stessi in negativo, in antagonismo a qualcuno, non più in rapporto al sogno che ci ha fatto nascere. Una scelta pericolosa, foriera di nuovi conflitti a catena. Per definirci, non basta capire contro chi siamo. Serve sapere da dove veniamo e cosa vogliamo. In Jugoslavia la dissoluzione violenta è iniziata dall’incendio di uno storico territorio-cuscinetto chiamato Krajina, cioè “frontiera”. Oggi la storia si ripete con la deflagrazione dell’Ucraina, il cui nome ha esattamente lo stesso significato. Vorrà pur dire qualcosa. Ma la storia non insegna un bel niente, nemmeno ai gestori della sicurezza globale. I quali non riflettono sul fatto che l’America ha due oceani per tutelarsi. Noi europei no. Sul lato delle steppe abbiamo a disposizione solo un’intercapedine di spazi neutrali, e proprio di quegli spazi ci stiamo privando, con la Nato che ora va a “proteggere” anche Svezia e Finlandia. Tutto come allora dunque: con Mosca che vuole de-ucrainizzare l’Ucraina e Kiev che vuole de-russificarla. Una fotocopia di quanto accadde fra Belgrado e Zagabria. Due pulizie etniche contrapposte che produrranno altro sangue, miseria, infelicità e migrazioni nel cuore del Continente per il gioco egemonico di due superpotenze e per l’ignavia vergognosa dell’Unione. Come Auschwitz, anche Omarska può sempre ritornare. Iran. Un’altra studentessa uccisa a Teheran di Monica Ricci Sargentini Corriere della Sera, 7 novembre 2022 Nasrin Ghadri aveva 35 anni ed era una dottoranda di Filosofia. È morta ieri dopo essere stata aggredita durante le manifestazioni di venerdì. Un’altra donna morta per mano della polizia iraniana come accadde a Mahsa Amini, la 22enne curda uccisa dalla polizia morale a metà settembre mentre era in arresto per un velo fuori posto. Nasrin Ghadri aveva solo 35 anni ed era una dottoranda in filosofia a Teheran. Venerdì scorso era scesa in piazza nella capitale, come ormai avviene da quasi due mesi, per gridare “Donne, vita, libertà”, lo slogan coniato dal movimento di liberazione delle donne curde e diventato il simbolo della protesta. La polizia ha reagito con il pugno di ferro attaccando i manifestanti e colpendo la ragazza alla testa con un manganello più volte. In ospedale la situazione è apparsa subito disperata e la giovane è deceduta sabato dopo essere entrata in coma. A riferirlo è Hengaw, un’associazione per i diritti umani che fa base in Norvegia e segue da vicino la situazione nel Paese islamico. Ufficialmente, però, le autorità non hanno comunicato la causa del decesso. Nasrin è stata sepolta in fretta e furia all’alba di domenica per volere delle autorità che temevano nuove tensioni. Il padre della ragazza, poi, ha spiegato che la figlia era morta per una “malattia” o una “intossicazione”, una versione simile a quella adottata dalle autorità per il caso di Mahsa Amini. Un comportamento inaccettabile per gli abitanti di Marivan, la città di origine della donna, nel Kurdistan, che sono scesi in piazza gridando “Morte a Khamenei”, bloccando alcune strade, tirando pietre contro gli uffici governativi e bruciando. Nei video, diffusi sui social, si vedono gli agenti reagire con grande violenza sparando sui dimostranti e ferendo almeno 35 persone. Dall’inizio delle proteste per la morte di Mahsa Amini ci sono stati più di 250 morti, tra i quali 32 bambini, e gli arrestati che superano i 12.500 secondo l’agenzia di notizie Hrana. Un bilancio drammatico che potrebbe peggiorare se, come chiesto ieri dalla stragrande maggioranza dei 290 deputati iraniani, si applicherà la legge del taglione contro i “mohareb” (nemici di Dio) cioè “coloro che hanno incitato le rivolte, tra cui alcuni politici”.