La dolorosa lezione del morire in carcere di Natalino Irti Il Sole 24 Ore, 6 novembre 2022 Un giovane straniero, accusato di lieve furto, si dà morte nel carcere. Un uomo privato di libertà, e dunque offeso nella sua corporea fissità; imputato, e perciò non ancora giudicato, non ancora accertato colpevole e responsabile di delitto. Quella morte intristisce l’animo del cittadino e la mente del giurista. Si domanda il cittadino se l’impossessarsi di piccole cose, misere di valore economico, esiga la forma più dura e crudele di difesa sodale. Si domanda il giurista se nonne della Costituzione non ne siano vulnerate e tradite: la presunzione di non colpevolezza fino a sentenza definitiva; la destinazione rieducativa della pena. E soprattutto s’interroga intorno a un diritto penale, ancora fermo e saldo nelle sanzioni restrittive della libertà personale. Dove la pena sembra identificarsi e interamente coincidere con la perdita della libertà. Questa identificazione separa e isola il diritto penale dall’unità dell’ordinamento giuridico, che, per dir così, è accantonato e messo da parte in sue diverse e varie regioni. Deve pur replicarsi che, se il fatto è commesso in violazione di una norma, esso ha carattere di illiceità rispetto a tutto l’ordinamento, dal quale, nella sua unità e molteplicità, giungerà la risposta. Domanda e risposta, illecito e sanzione, non appartengono soltanto al diritto penale, e perciò non soggiacciono alla perversa identificazione tra sanzione e perdita della libertà. Si vuol dire - e si dice e insegna da maestri, italiani e stranieri, dello stesso diritto penale - che la risposta unitaria dell’ordinamento può consistere, e deve consistere, soprattutto in sanzioni di altri campi: civile, amministrativo, fiscale, e così seguitando. L’asse del diritto penale va spostato verso sanzioni diverse dalla restrizione fisica. Viene bene osservato da autorevole studioso tedesco, cattedratico in Francoforte, Klaus Liiderssen, nel saggio intorno a “Il declino del diritto penale” (che abbiamo in Italia per la cura di Luciano Eusebi), come “il diritto e la procedura penale, in linea con una malintesa tradizione, assumano (congiuntamente) compiti che in realtà attengono in via primaria ad altri settori del diritto, vale a dire, soprattutto, al diritto (e al processo) civile”. La funzione rieducativa, assegnata alla pena nel fondamentale articolo 27 della Carta (norma vincolante per il legislatore ordinario e per interpreti pratile teorici), contiene, essa stessa, un programma di “politica criminale”. Se rieducare non è trattamento medico, né terapia di violenza conformatrice, ma ardua riscoperta di consapevole libertà, onde all’uomo è dato di scegliere fra le molteplici possibilità di vita, allora la ‘politica criminale’ deve orientarsi verso un impiego limitato e accorto della restrizione fisica. La quale diventa così una sanzione eccezionale, legata al giudizio di condanna per reati ai quali il sentire comune riserva, nella sua insopprimibile mutevolezza, la risposta più grave. Il carcere, questo che, per il giovane straniero e per altri fratelli senza speranza, è luogo di morte, assume la funzione più alta del rieducare, dove non si giudica, ma si comprendono e ripercorrono le singole storie; dove il magistrato cede al pedagogo. L’art. 27 della Costituzione, nella sua generale e vincolante positività, sta oltre ogni disputa di scuola e dibattito filosofico. Esso d reca, e impone, l’immagine dell’uomo rieducabile’, e quindi suscettibile di mutamenti spirituali e di più avvertita libertà, e non di un essere stretto da deterministica necessità. L’alternativa tra libero e servo arbitrio è un capitolo storico, chiuso nei grandi e lontani nomi di Lutero ed Erasmo, e nell’urto dottrinario tra scuola positiva e scuola classica. La parola “rieducazione” genera di per sé una visione della libertà: dell’uomo, che si costruisce a mano nel cammino terreno, ed esercitala facoltà di scelta tra le possibilità di vita. Taluna possibilità è vietata dal diritto, e così ne nasce la sanzione rieducativa, cioè volta a più alta consapevolezza, a più profonda capacità di scelta Sanzione, che soltanto eccezionalmente s’identifica con la perdita della libertà fisica, e, in linea generale e ordinaria, si giova di ogni risorsa affittiva dell’ordinamento, quale offerta da tutti i rami del diritto (civile, amministrativo, fiscale, e così seguitando). Il morire in carcere è dolorosa e triste lezione, da ascoltare con animi partecipi e volontà costruttive di un altro diritto penale. Oggi abbiamo, e, come cittadini e giuristi, non possiamo non avere, il saldo punto d’appoggio nella nonna costituzionale, la quale appunto ci “costituisce” nel nostro duplice ufficio e nella nostra solidale responsabilità. Papa Francesco: “Prendersi cura dei detenuti fa bene a tutti” Il Dubbio, 6 novembre 2022 “Tu sai cosa penso io quando entro in un carcere? Perché loro e non io? È la misericordia di Dio”. Così Papa Francesco a braccio durante l’incontro di preghiera con i vescovi, i sacerdoti, i consacrati, i seminaristi e gli operatori pastorali presso la Chiesa del Sacro Cuore a Manama, in Bahrein. Il Pontefice, ricordando la testimonianza di una religiosa che presta il suo ministero tra i carcerati, ha sottolineato come sia importante “prestare loro attenzione, perché là dove ci sono fratelli bisognosi, come i carcerati, c’è Gesù, Gesù ferito in ogni persona che soffre”. “Ma prendersi cura dei detenuti fa bene a tutti, come comunità umana, perché è da come si trattano gli ultimi che si misura la dignità e la speranza di una società”, ha aggiunto. Poi Papa Francesco ha lanciato un appello contro l’egoismo. Per i cristiani “non può esserci spazio” per le divisioni, le liti, le maldicenze, le chiacchiere, ha detto. “Le divisioni del mondo, e anche le differenze etniche, culturali e rituali, non possono ferire o compromettere l’unità dello Spirito. Al contrario, il suo fuoco brucia i desideri mondani e accende la nostra vita di quell’amore accogliente e compassionevole con cui Gesù ci ama, perché anche noi possiamo amarci così tra di noi”. Lo Spirito, ha aggiunto, è “sorgente di unità e di fratellanza contro ogni egoismo”, “unico linguaggio dell’amore, perché i diversi linguaggi umani non restino distanti e incomprensibili; abbatte le barriere della diffidenza e dell’odio, per creare spazi di accoglienza e di dialogo; libera dalla paura e infonde il coraggio di uscire incontro agli altri con la forza disarmata e disarmante della misericordia”, ha concluso Papa Francesco. Ergastolo ostativo da cambiare, ma non per i mafiosi irriducibili di Pietro Grasso L’Espresso, 6 novembre 2022 Senza entrare nelle altre questioni sul tema giustizia, certamente positiva è l’attenzione con cui il Governo come primo atto ha affrontato il tema dei reati ostativi alla concessione di benefici penitenziari, il cosiddetto ergastolo ostativo, trasponendo in un decreto legge il testo approvato a larga maggioranza dalla Camera nella scorsa legislatura. Così come ho accolto con particolare favore l’annuncio del presidente Meloni, in conferenza stampa, di “passi avanti” nella lotta alla mafia e di possibili miglioramenti delle norme in sede di conversione. Si ha la consapevolezza che si tratta di un problema complesso la cui soluzione deve trovare il giusto equilibrio tra l’attuazione del principio costituzionale della funzione rieducativa della pena, messo in crisi dal “fine pena mai”, le esigenze di sicurezza sociale, travolte dalla liberazione di pericolosi condannati, e infine la salvaguardia, se non l’incentivazione, del sistema dei collaboratori di giustizia, che, superando giuramenti di eterna fedeltà alla regola del silenzio e dell’omertà, si è rivelato fondamentale per il perseguimento di quel diritto alla verità, ancora parzialmente realizzato, il solo che possa restituire dignità allo Stato e alle vittime di sanguinose stragi. Non mi appassiona l’idea di partecipare al derby tra super garantisti, magari tacciati di collusione con la mafia, e super giustizialisti, forcaioli e manettari, quelli del “buttiamo via la chiave”. La Corte costituzionale, con l’ordinanza 97/2021 ha dato un meritorio segnale di leale collaborazione istituzionale, differendo la pur palesata dichiarazione di incostituzionalità, per consentire al Parlamento di approvare le opportune modifiche. Il testo approvato a larga maggioranza dalla Camera il 30 marzo 2022 ha certamente il merito di avere superato i rilievi di incostituzionalità, tuttavia nel cercare il consenso più largo possibile ha finito per mantenere talune sovrapposizioni di norme, dubbi applicativi e inaccettabili criticità, che ne hanno provocato la mancata approvazione in Senato prima della conclusione anticipata della legislatura. a certamente superata la criticità sorta con l’introduzione di un nuovo comma (1-bis.2) e la mancata abrogazione di un comma previdente (1-ter) per identiche tipologie di reati se commessi in associazione, dal momento che non rimane chiaro, né per i condannati e tantomeno per i giudici, quale sia il regime istruttorio, l’onere probatorio, nonché l’organo competente a fornire i pareri e le informazioni. Così come perplessità sorgono nel mantenere un regime più lieve per i reati di omicidio, rapina ed estorsione aggravata rispetto, ad esempio, a forme di associazione finalizzate a reati contro la pubblica amministrazione. Il testo oggi trasfuso integralmente nel decreto-legge governativo ha accolto tanti dei suggerimenti prospettati dalla Corte, tra cui quello di considerare oltre all’attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata anche il pericolo del ripristino di tali collegamenti, tuttavia non ha avvertito la necessità - puntualmente richiesta dalla stessa Corte, ed evidenziata nella relazione della Commissione antimafia, approvata all’unanimità, di cui sono stato correlatore - di mettere ordine tra reati espressivi di criminalità organizzata e reati individuali che nulla hanno a che fare con tale criminalità, così creando una paradossale disparità a danno di condannati per reati individuali, rispetto ai quali non ha senso chiedere di dimostrare l’estraneità ad organizzazioni criminali. La ragionevolezza di una procedura rafforzata si giustifica solo per quel tipo di reati indicativi dell’estrema pericolosità e di una conclamata difficoltà nel recidere i legami con l’organizzazione criminale. Auspico che i parlamentari in sede di conversione possano far tesoro di tutti i precedenti lavori, nonché delle valutazioni espresse da vari Presidenti di importanti Tribunali di Sorveglianza, per migliorare questa legge anche su altri punti che misi in evidenza con la presentazione di precisi emendamenti che possono essere recuperati. Del resto una legge che contraddice i principi di ragionevolezza e di eguaglianza, da sempre a fondamento delle pronunce della Consulta, rischia di incorrere in nuove e diverse dichiarazioni di incostituzionalità. Per evitare effetti e rapporti giuridici che possono sorgere nel provvisorio vigore di un atto avente forza di legge che può ancora essere modificato, si auspica che la magistratura di sorveglianza possa attendere la definitiva conversione in legge del decreto, così come la Corte Costituzionale, e la Corte di Cassazione, giudice che ha rimesso la questione al vaglio della prima, possano valutare positivamente l’intento di provvedere con urgenza da parte di Governo e Parlamento, attendendo per le loro valutazioni sul superamento dei rilievi di costituzionalità i sessanta giorni di validità del decreto-legge. È troppo pretendere, nel trentesimo anniversario delle stragi del 1992, che mafiosi irriducibili che hanno rifiutato e rifiutano di contribuire all’accertamento della verità, debbano fornire per ottenere anche il più piccolo beneficio, una prova rigorosa, oltre ogni ragionevole dubbio, che sia cessata la loro appartenenza a Cosa nostra? La Giustizia secondo Nordio: un mix di idee contraddittorie di Nicola Graziano* L’Espresso, 6 novembre 2022 È un vento che soffia forte quello che alimenta la fiamma e la sua luce risplende sulle idee che uomini e donne di governo hanno da sempre portato avanti come vessilli, simbolo di quel cambiamento gridato in più direzioni e da oggi da concretizzare innanzi a un’ardua prova del nove. In questo contesto si attende la fattiva concretizzazione dell’azione del neoministro della Giustizia Carlo Nordio, già magistrato con un curriculum da fare invidia e attivo in politica da qualche anno. Sua è la partecipazione in prima persona nella battaglia sui recenti referendum sulla giustizia e fanno eco all’attualità le sue parole a sostegno del Sì referendario: “La riforma Cartabia va nella direzione giusta e infatti il sindacato dei magistrati ha proclamato lo sciopero. Ma è una riforma timida, condizionata da un Parlamento che non ha né la forza né la volontà politica di rimediare alle attuali anomalie”. Di quali anomalie intenderà farsi carico il neoministro? E con quali conseguenze nei rapporti con la magistratura associata? In attesa degli eventi futuri, non resta che fare un bilancio flash sulle prime dichiarazioni del ministro e sui primi atti ufficiali per cercare di individuare quella che potremmo definire, appunto, la Giustizia secondo Nordio. Partendo da questi ultimi emerge una volontà di cambiamento radicale molto ancorato, però, anche a una visione realistica degli equilibri della coalizione. Efficienza della giustizia, riduzione dei tempi di risposta giudiziaria alle aspettative dei cittadini, rigore, ma anche benessere lavorativo sono evidentemente gli obiettivi dichiarati nella scelta del nuovo capo di Gabinetto, Alberto Rizzo, presidente del Tribunale di Vicenza in carica. Mentre vice capo di Gabinetto è stata designata Giusi Bartolozzi, anch’essa magistrato, ma eletta alla Camera dei Deputati nella precedente legislatura. Questa nomina ha così aperto il fronte al tema, sempre attuale, della separazione tra politica e magistratura e fatto riaffiorare alla memoria le imbarazzanti polemiche che in passato hanno travolto Bartolozzi. Quanto alle prime dichiarazioni programmatiche il neoministro ha appuntato la sua attenzione su alcuni temi cruciali. La partita tra accusa e difesa, per esempio, e ci si chiede: sottende alla (non dichiarata, ma concreta) intenzione di una riforma costituzionale sulla separazione delle carriere? È questo uno degli obiettivi prioritari del neoministro e dell’esecutivo? Fanno riflettere poi le dichiarazioni sulla intenzione di abrogare l’abuso d’ufficio, che può certamente contenere in sé germi di corruzione e altri più gravi reati. Ancora: un carcere umano, come extrema ratio e quindi con incentivo alle misure alternative, ma una pena da scontare con certezza. Significativo sarà capire se il neoministro cambierà il vertice del Dap, oggi affidato a Carlo Renoldi, per la Lega, che parla di istituzione di un garante degli agenti di polizia penitenziaria e dell’abrogazione del garante dei detenuti, reo di interpretare idee troppo rivolte a una visione della pena costituzionalmente orientata. In senso opposto vanno però le norme approvate dal governo sull’ergastolo ostativo e inutile è nascondersi dietro una norma già approvata da un ramo del Parlamento perché trattasi di un decreto legge per il quale si annunciano rigorose modifiche in sede di conversione. Il neoministro, cui ironicamente la presidente del Consiglio ha dichiarato di aver tolto il bavaglio, accogliendo le sollecitazioni dei procuratori generali d’Italia sulla problematica entrata in vigore delle nuove norme del codice di procedura penale, ne ha disposto il rinvio, ma anche qui si potrebbe celare la volontà di rivedere quella che la destra italiana aveva definito una legge salva-ladri o svuota- carceri perché troppo piena di norme che potenziano le pene alternative al carcere. Insomma, appare evidente che vi è un mix esplosivo tra idee del ministro e azione di governo e non resta che aspettare gli sviluppi che all’orizzonte sorgeranno. *Magistrato Nordio vuole riformare il codice di Mussolini, ma potrebbe anche andare peggio di Astolfo Di Amato Il Riformista, 6 novembre 2022 Sorpresa e delusione. Il decreto legge approvato nel primo Consiglio dei ministri presieduto da Giorgia Meloni ha contraddetto, in materia di giustizia, tutte le attese per una svolta antigiustizialista, che si erano manifestate a seguito della scelta di Nordio come Guardasigilli. Ma c’è davvero da essere sorpresi? Uscendo dal Quirinale, dopo il giuramento, Carlo Nordio ha, tra le altre cose, affermato essere una priorità la “attuazione del codice Vassalli, un codice firmato da una medaglia d’argento della Resistenza”. È la frase meno commentata, ma, forse, è quella più significativa del programma di riforma, che ha in mente il nuovo ministro della Giustizia. Per comprenderne appieno la portata è opportuno cercare di capire, innanzitutto, quanto grande sia stata la torsione subita nella prassi dal Codice Vassalli e, soprattutto, quale sia il ruolo della magistratura nel pensiero di Carlo Nordio. È necessario muovere da un dato di fatto. Vassalli, uno dei Maestri del diritto penale italiano e, al tempo stesso, uno dei più grandi avvocati dell’epoca, fu colui che, come componente del governo Craxi a quel tempo in carica, depotenziò gli effetti del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che si svolse alla fine degli anni 80 con esito positivo. Più testimoni hanno riferito che Craxi aveva un rispetto reverenziale verso Vassalli e che, per questo motivo, non ebbe la forza di contrastare la formulazione di quelle norme, tuttora vigenti, che hanno, di fatto, sterilizzato l’esito del referendum. Non si può, dunque, ritenere che Vassalli abbia mai avuto un atteggiamento punitivo nei confronti dell’Ordine giudiziario. A sua volta, il nuovo codice di procedura penale, varato anch’esso alla fine degli anni 80 e che è appunto noto anche come codice Vassalli, non aveva e non voleva avere alcun effetto erosivo sul ruolo e sull’indipendenza dei magistrati, sia di quelli giudicanti e sia di quelli appartenenti all’ufficio del pubblico ministero. Esso, anzi, si muoveva nella prospettiva di una maggiore e piena valorizzazione del ruolo degli uni e degli altri. Da un lato, il ruolo del pubblico ministero era enormemente esaltato dalla circostanza che tutto l’apparato investigativo veniva posto alle sue dirette dipendenze. Una delle critiche più severe, che si faceva al sistema precedente, era che, essendo le indagini svolte da apparati subordinati all’Autorità amministrativa, le stesse potevano essere facilmente “addomesticate” con la conseguenza che ne restava vanificato il principio di indipendenza dell’Ordine giudiziario. L’inevitabile gigantismo della figura del pm avrebbe dovuto essere compensata, nel disegno del codice, dalla pari dignità della difesa in dibattimento, a partire dalla raccolta delle prove, e soprattutto da una posizione nettamente terza della figura del giudice, a partire dal giudice preposto al controllo delle indagini e all’udienza preliminare. Il dibattimento, a sua volta, avrebbe dovuto essere riservato a un numero limitato di casi da approfondire, e un ruolo decisivo per la decongestione avrebbe dovuto assumere il patteggiamento, al quale non era originariamente attribuita natura di condanna. L’attacco al nuovo codice fu immediato, mediante la pubblicazione di alcune intercettazioni di mafiosi, secondo i quali il nuovo processo, con le garanzie processuali previste, avrebbe impedito qualsiasi condanna. Poi è seguita la stagione di Mani Pulite, e a furor di popolino debitamente aizzato e di intellettuali e politici che, per poter raggiungere il potere, non hanno esitato a rinnegare qualsiasi principio, quel codice, garantista e liberale, ha subito una imprevedibile torsione in senso illiberale e giustizialista. Così è avvenuto che il gigantismo del pubblico ministero non ha avuto alcun reale contrappeso, specie sui temi della libertà personale e di quello, non meno delicato, dei sequestri; la Corte di cassazione è giunta a dire che è vero che la carcerazione preventiva non doveva servire a estorcere la confessione, ma se interveniva la confessione era giustificato concedere la libertà; la Corte costituzionale ha ritenuto legittimo che una condanna potesse intervenire a seguito di una dichiarazione accusatoria, resa in carcere da un detenuto ai danni di un terzo al fine di poter ottenere la libertà, senza che l’accusatore fosse poi neppure contro esaminato da parte del difensore del terzo imputato; prima la prassi amministrativa e poi il legislatore hanno pienamente equiparato il patteggiamento a una sentenza di condanna, facendo così perdere al primo qualsiasi appeal soprattutto nei casi dubbi. In questa prospettiva si comprende, allora, che la frase di Carlo Nordio, sulla necessità di dare attuazione al codice Vassalli, assume il significato di un manifesto di politica giudiziaria di una ampiezza e di una profondità di cui va colta fino in fondo la dimensione. Nella stessa prospettiva, il ricordo della figura di Vassalli, come medaglia di argento della Resistenza, non è un mero sfoggio di cultura storica, ma ha un preciso significato politico. È servito a ricordare che figlio dei valori della Resistenza doveva essere considerato l’originario equilibrio del nuovo codice di procedura penale e non il frutto di quella oscena controriforma, che ha trasformato troppo spesso gli strumenti del processo penale in illiberali strumenti di oppressione. Ma quale è, e qui sta il punto, il ruolo della magistratura, nel pensiero di Carlo Nordio, in quell’equilibrio? Come si legge nella quarta di copertina del libro Giustizia Ultimo Atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura la sintesi del suo pensiero è la seguente: “A trent’anni da Tangentopoli, siamo ben lontani dal progetto di ripristinare la legalità nelle istituzioni. I rimedi messi in atto coi processi di Mani Pulite si sono rivelati peggiori del male che dovevano curare: la corruzione non è diminuita, come dimostra il caso del Mose, anzi ha aumentato i suoi introiti. Ma l’effetto collaterale più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. Un’investitura permessa dalla subordinazione codarda della politica, che ha voluto assegnare alle toghe un ruolo salvifico e dirimente. In questo modo alla divisione dei poteri, invocata dalla Costituzione, è subentrata invece la loro confusione pressoché totale. Quindici anni fa l’ottanta per cento degli italiani confidava ancora nei magistrati. Oggi, dopo gli ultimi scandali emersi nella Procura di Milano, le faide tra le correnti interne e gli innumerevoli episodi di protagonismo dei Pm, …. la percentuale è crollata”. Il punto centrale del suo pensiero non sta, dunque, nella preoccupazione per le garanzie dell’imputato, ma nella preoccupazione per il crollo di credibilità della magistratura. Alla quale è assegnato un ruolo sacrale. Che non è quello di un magistrato super potente a dispetto delle regole, quale si è delineato a seguito di Mani Pulite, ma quello di un magistrato rispettoso delle regole di un processo nel quale il giudice sia realmente terzo e non vassallo della pubblica accusa. Il garantismo costituisce allora, nella prospettiva di Nordio, prima ancora che l’espressione dell’esigenza che siano rispettate le regole a tutela dell’imputato, la precondizione affinché possa realizzarsi in pieno la neutralità del ruolo del giudice e, perciò, la sacralità del ruolo sia di quest’ultimo e sia dell’accusa. È, questa, una concezione del processo, che può benissimo andare a braccetto con una visione disumana e disumanizzante della pena, quale è quella sottesa alla disciplina dell’ergastolo ostativo. Anzi, proprio una visione sacrale e non laica del ruolo del giudice e dell’accusa può costituire la base ideologica di un diritto penale sostanzialmente illiberale. Né queste considerazioni sono contraddette dalla preoccupazione, che lo stesso Nordio ha espresso, sulla condizione delle carceri, trattandosi di una preoccupazione che ben può coesistere con una concezione illiberale del diritto penale. Resta, tuttavia, una riflessione. Carlo Nordio è persona, come emerge da molti suoi articoli, che ha una ricca cultura umanistica. Il rispetto per la dignità delle persone dovrebbe, perciò, essere profondamente radicato nel suo animo e, se così è, non potrà permettergli di continuare ad essere, anche in futuro, corresponsabile di una legislazione rozzamente giustizialista. Quella torsione del processo basata su emergenze inesistenti di Vincenzo Roppo Il Dubbio, 6 novembre 2022 “Il populismo penale è incubatore di giustizialismo anti-garantista che si manifesta nella moltiplicazione delle figure di reato e nella loro crescente evanescenza contraria al principio di tassatività e tipicità, nella previsione di pene sempre più dure, nel declino della presunzione di innocenza”. Giorgio Spangher e Giovanni Fiandaca insegnano che emergenze sociali come mafia e terrorismo sono intrinsecamente nemiche del garantismo. Lo mettono in tensione e spesso in crisi, enfatizzando esigenze di difesa sociale che entrano in oggettivo conflitto con le garanzie individuali. E quando la risposta pubblica non è equilibrata, finiscono per determinarsi torsioni anti- garantiste che distolgono il sistema penale dal suo compito primario di accertare singoli reati e singole responsabilità. Alessandro Barbano denuncia il rischio che la torsione vada anche oltre, piegando lo strumento penale non solo all’obiettivo improprio di “lottare” contro il “fenomeno” criminale, ma addirittura a quello - ancora più improprio - della perequazione sociale. Mi inserisco nel dibattito con qualche considerazione ulteriore. Le “sfide” al garantismo - Il garantismo è sfidato storicamente dalle emergenze mafia e terrorismo, certo. Ma anche la recente emergenza pandemica è foriera di derive anti- garantiste. In un senso diverso, però. Qui le minacce al garantismo non vengono da una legislazione - le misure restrittive anti- Covid - cui possa rimproverarsi un eccessivo sbilanciamento a favore della salute pubblica, con sacrificio intollerabile di libertà, diritti, garanzie individuali: lasciamo queste accuse ai no face mask, ai no vax, ai no green pass, che non meritano di essere seguiti nel loro esasperato estremismo libertario e un po’ anarchico. A me pare che Covid-19 abbia insidiato il garantismo in un modo indiretto, più sottile. Come? Essenzialmente, a mio avviso, scatenando molte procure nella caccia a trovare colpevoli a ogni costo, cui addebitare responsabilità penali in relazione alla pandemia. Ecco allora raffiche di indagini penali sulle “stragi” per coronavirus di anziani ricoverati in rsa o in case di riposo; sulla mancata tempestiva istituzione della “zona rossa” in certi Comuni del bergamasco; su sovraccarichi e “intasamenti” delle strutture di pronto soccorso; sulla elaborazione e l’invio di dati epidemiologici dalle Regioni all’amministrazione sanitaria centrale; e perfino su qualche ordinanza regionale per la didattica a distanza nelle scuole. Tutte situazioni da valutare ed eventualmente sanzionare sul terreno professionale, amministrativo, politico: ma rispetto alle quali al diritto e alla giurisdizione penale non sembrano competere spazi di intervento. Ma tant’è. I grandi disastri (non solo la pandemia, ma anche terremoti, alluvioni, sciagure aeree, ferroviarie, navali e quant’altro) innescano diffusi sentimenti popolari che precipitano in una precisa reazione: per tutti questi morti non può non esserci un responsabile che ad ogni costo va individuato e punito. Punire. Una passione contemporanea è il titolo del profetico libro di Dier Fassin. È un modo irrazionale di elaborare il lutto, che non di rado le procure assecondano e coltivano con un attivismo sopra le righe: vedendo dovunque improbabili “notizie di reato” su cui aprire indagini penali, e così introducendo nelle relazioni e nelle dinamiche sociali la mala pianta del pan- penalismo, che è il terreno più fertile per idee e pratiche anti- garantiste. Mafia, terrorismo o pandemia sono emergenze vere, che possono giustificare l’intervento penale (ma, s’intende, secondo modalità che siano ben bilanciato col giusto rispetto delle garanzie individuali), e però non mai un intervento penale omnibus, indiscriminato, spinto in territori da cui la logica dei delitti e delle pene dovrebbe tenersi fuori. Epperò ci sono anche emergenze inventate, o artificiosamente pompate agli occhi dei cittadini da un ceto politico ansioso di catturare consenso popolare a buon mercato: ad esse si lega il fenomeno che siamo abituati a chiamare populismo penale. Alla inquietudini, ansie, paure diffuse in un corpo sociale esposto ai contraccolpi dei nuovi problematici scenari del mondo (la globalizzazione, la società liquida, la destrutturazione del lavoro…) il ceto politico offre falsi bersagli, e falsi rimedi: in particolare il rimedio del pan- penalismo, inutile perché del tutto scentrato rispetto alla sostanza reale dei problemi, e dannoso perché deprime il livello di garantismo del sistema. Abbiamo conosciuto la brutta bestia del populismo penale in forme di particolare virulenza soprattutto nella fase recente della nostra storia (chissà se avviata al tramonto…), dove si è presentato nella sua doppia variante: la variante securitaria, incarnata in provvedimenti simbolo del salvinismo come i decreti sicurezza e la riforma della difesa (sempre!) legittima; e quella moraleggiante, rappresentata da bandiere del grillismo come la legge spazza- corrotti e il blocco della prescrizione penale. Entrambe basate sulla predicazione di emergenze fasulle, costruite ideologicamente e smentite dai dati di realtà, e comunque non aggredibili in modo efficace con lo strumento penale. Il populismo penale è un incubatore di giustizialismo - Il populismo penale è incubatore di giustizialismo anti- garantista, che si manifesta nella moltiplicazione delle figure di reato e nella loro crescente evanescenza contraria al principio di tassatività e tipicità, nella previsione di pene sempre più dure, nel declino della presunzione di innocenza. E ad ogni populismo penale corrisponde il suo proprio giustizialismo: sicché abbiamo conosciuto un giustizialismo securitario e un giustizialismo moralistico. Ma io vedo un terzo tipo di giustizialismo a matrice populista, che faute de mieux chiamo “piacione”: un giustizialismo senza bava alla bocca, non incattivito né troppo minaccioso ma composto e compunto, un giustizialismo che riflette buoni sentimenti e si mette al servizio del politicamente corretto. Sicché non sorprende che esso accomuni trasversalmente l’intero arco politico. Chi non è d’accordo che fenomeni deplorevoli come l’omicidio stradale o la violenza di genere o le discriminazioni in odio alle minoranze di ogni tipo meritino una risposta energica ed efficace? E che il massimo dell’energia e dell’efficacia si identifichi in dure risposte penali è un bias in cui cascano (o fanno finta di cascare) un po’ tutte le forze politiche. Che, anche qui, s’ingannano e/ o ingannano i governati: perché la via giusta per affrontare quei problemi sembra quella che passa per strumenti di controllo e intervento diversi dai meccanismi penali, e soprattutto per azioni di tipo culturale- educativo. Questo quadro ci parla di un sistema penale italiano che complessivamente patisce un deficit di garantismo. Ed è un quadro che chiama in causa sia il legislatore (dunque la politica) sia la magistratura, nonché i rapporti reciproci. Di qui una domanda, che formulo in termini grossolani: questo stato di cose è colpa della politica? O della magistratura? O di entrambe, e allora in che quote? Di certo la magistratura non è senza peccato. Indagini penali avventurose (come molte di quelle avviate in tempi di pandemia). Pulsioni narcisiste di pubblici ministeri che enfatizzano il momento dell’inchiesta e dell’accusa e minimizzano quello del giudizio formato in dibattimento. Impieghi talora disinvolti della custodia cautelare (fra le tante accuse rivolte a Mani pulite, molte delle quali infondate e pretestuose, questa è forse quella più condivisibile). Qualche incursione non appropriata nel campo della funzione legislativa e delle sottostanti scelte politiche. Partecipazione più o meno compiaciuta ai numeri del circo mediatico-giudiziario. E qualche volta interpretazioni poco sorvegliate della norma penale. Tutti segni con cui il giudiziario manifesta una postura poco coerente ai principi del garantismo. Ma ce n’è anche per la politica, e forse perfino di più. Nella misura in cui la legislazione anti- mafia e anti- terrorismo manifesti qualche vena anti-garantista, il peccato è primariamente del legislatore che la produce, nella sua funzione politica e secondo le sue scelte politiche. E ha radice tutta politica la pratica del populismo penale, che non è altro se non la delega (spesso in bianco, o quasi) rilasciata dalla politica alla magistratura, cui si affida il compito improprio di rispondere a domande sociali che spetterebbe alla politica affrontare, ma con cui la politica - oggi debole ed esangue non vuole o non sa misurarsi. Ne consegue l’abnorme sovra-esposizione della magistratura: da essa il corpo sociale (cui la politica racconta che la sanzione penale è lo strumento migliore per il governo della società) attende e pretende che traduca le incriminazioni in condanne, e che per questa via possa generarsi una convivenza sociale più sicura e ordinata. Il che naturalmente non avviene: e questo è letto come “insuccesso” della magistratura, che ne appanna l’immagine agli occhi del pubblico. Alla iper-responsabilizzazione della magistratura fa da contraltare la de- responsabilizzazione della politica incarnata nel legislatore: che una volta scritti i reati nelle pagine del codice, può presentarsi come quello che ha fatto il suo e altro non deve se non aspettare che la magistratura li estragga dalle pagine del codice facendoli funzionare come strumento effettivo di difesa sociale. Che se poi non funzionano come sperato, la colpa non sarà del legislatore che ha creato lo strumento, ma dei magistrati che non l’hanno voluto o saputo ben manovrare. È chiaro che una dinamica del genere distorce il giusto schema di ripartizione dei poteri, dei ruoli e delle responsabilità fra i protagonisti della funzione legislativa e della funzione giudiziaria. E così ferisce quel fondamentale postulato del garantismo che è l’osservanza della rule of law: il rispetto dei giusti confini e dei giusti equilibri fra i diversi poteri pubblici, senza di che non c’è Stato di diritto. E allora che dire quando si sente la politica accusare di anti-garantismo la magistratura? Il minimo è ricordare l’ammonimento evangelico che esorta a fare i conti con la trave ficcata nel proprio occhio, prima di strepitare contro la pagliuzza nell’occhio del fratello (Matteo, 7, 1- 5). Contro la “paura della firma” regole chiare e trasparenti di Tommaso Miele* L’Espresso, 6 novembre 2022 È opinione diffusa che le lentezze delle amministrazioni pubbliche nello svolgimento dell’attività amministrativa e nella realizzazione delle opere pubbliche siano determinate dalla cosiddetta burocrazia difensiva, e cioè, dalla paura di amministratori e dirigenti pubblici di incorrere nella responsabilità di dover risarcire eventuali danni erariali che possono derivare dai loro provvedimenti. Si è così diffuso nell’opinione pubblica e nella classe politica il convincimento che a bloccare i cantieri e a rallentare l’azione amministrativa sia la cosiddetta “paura della firma”, cioè, la paura di firmare provvedimenti da cui possono derivare danni erariali che gli stessi amministratori e dirigenti pubblici possono essere chiamati dalla Corte dei conti a risarcire. Proprio per attenuare le responsabilità ed aiutare amministratori e dirigenti pubblici a superare la paura della firma, nel 2020 il Governo Conte approvò una norma, l’articolo 21 del decreto semplificazioni n. 76/2020, che ha limitato al solo dolo la responsabilità per danno erariale derivante da condotte commissive, eliminando, di fatto, la responsabilità per danno erariale dovuta a comportamenti connotati da colpa grave, e cioè, da grave negligenza. Non si può negare che la paura della firma esiste, ma la soluzione non è certamente quella di eliminare o di mitigare le responsabilità di chi è chiamato ad amministrare la cosa pubblica e a gestire ingenti somme di denaro, e tollerare che tali somme vengano gestite con superficialità e leggerezza - atteso che in questo consista la colpa grave - perché in democrazia autonomia e responsabilità sono una endiadi inscindibile. Eliminare o attenuare i controlli e le responsabilità significa abbassare il livello di attenzione e creare sacche di impunità nella corretta gestione delle risorse pubbliche e nel controllo della spesa pubblica. Significherebbe, in altre parole, gettare via il bambino con l’acqua sporca, cosa che, soprattutto in un momento come quello attuale, in cui le amministrazioni pubbliche sono chiamate a gestire le ingenti risorse del Pnrr, non ci possiamo assolutamente permettere. Il Paese, l’Europa, le imprese, le famiglie e i cittadini, invece, non solo chiedono di non abbassare la guardia, ma hanno diritto di pretendere da amministratori e dirigenti pubblici che quelle risorse vengano gestite con la massima oculatezza e diligenza, anche perché gran parte delle stesse dovranno essere restituite dai nostri figli e dalle generazioni future. Il rimedio per superare la paura della firma non è, quindi, quello scelto dal governo Conte nel 2020 con l’art. 21 del decreto semplificazioni, eliminando o attenuando le responsabilità derivanti da colpa grave per i fatti commissivi, perché questa soluzione ha creato un vero e proprio vulnus nella sana e corretta gestione delle risorse pubbliche. La soluzione per superare la paura della firma sta, piuttosto, nell’intervenire sulla qualità della regolazione e della legislazione. Per mettere le pubbliche amministrazioni in condizione di realizzare i programmi e di intercettare le risorse del Pnrr, ci vogliono regole chiare, occorre migliorare e semplificare la legislazione e, in particolare, il Codice degli appalti. È, pertanto, auspicabile che il Parlamento e il Governo che si sono appena insediati non solo non abbassino la guardia su controlli e responsabilità nella sana e corretta gestione delle risorse pubbliche, ma che intervengano in maniera decisa e radicale sulla qualità della regolazione e della normazione. Occorre una legislazione chiara e semplice, snella, accessibile a tutti, occorrono regole chiare per dare indicazioni precise alle amministrazioni pubbliche, alle imprese e ai cittadini, e agli stessi operatori del diritto. Oltre alla paura della firma per le possibili ipotesi di responsabilità per danno erariale, si eviterebbero il frequente contenzioso e i ricorsi al giudice amministrativo che assai spesso bloccano i cantieri e rallentano l’azione amministrativa. *Presidente aggiunto della Corte dei Conti e Presidente della Sezione giurisdizionale della Corte dei Conti del Lazio I ragazzi dei rave trattati “come” mafiosi Il Dubbio, 6 novembre 2022 Il Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale: “Incongruo l’inserimento di questa fattispecie tra le ipotesi di pericolosità specifica di cui al codice antimafia, legittimando in tal modo persino l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali”. Il Consiglio direttivo dell’Associazione italiana dei professori di diritto penale manifesta preoccupazione per il ricorso ad un decreto-legge in materia penale, il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, che presenta plurimi, preoccupanti profili di illegittimità costituzionale. Il Consiglio direttivo, anzitutto, ribadisce il contenuto del proprio comunicato del 29 ottobre 2022, nel quale, aderendo ai rilievi del Garante nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, aveva espresso le proprie preoccupazioni in ordine alla posposizione dell’entrata in vigore del d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150 che ha coinvolto anche le parti sulla riforma del sistema sanzionatorio penale che, non oggetto di peculiari criticità rilevate dalla dottrina e dalla prassi, avrebbe ben potuto entrare in vigore. Gli articoli da 1 a 4 introducono nuove disposizioni in relazione alla disciplina dei reati ostativi. La disciplina nasce dalle sollecitazioni della Corte costituzionale che con le ordinanze nn. 97/2021 e 122/2022 aveva rimesso al Parlamento l’intervento sulla disciplina vigente, della quale aveva evidenziato profili di illegittimità anche alla luce della sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo Viola c. Italia del 2019. Della disciplina di cui al decreto-legge, che riproduce, salvo quanto indicheremo, il testo approvato dalla Camera dei deputati il 31 marzo 2022 (n. 2574), si evidenziano una serie di profili critici che inaspriscono la disciplina dei c.d. reati ostativi in termini che vanno ben al di là delle indicazioni che erano state date dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 97/2021: a) risulta impropria la previsione di una disciplina estremamente restrittiva in ordine alle condizioni per essere ammessi ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale: sebbene la formulazione dell’art. 4-bis, comma 1-bis si esprima in termini di “allegazione”, da parte dei detenuti o internati per uno dei reati ostativi, l’oggetto dell’allegazione si traduce in una sorta di probatìo diabolica, in quanto diventa difficile, se non impossibile, addurre “elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo, alla mera dichiarazione di dissociazione dall’organizzazione criminale di eventuale appartenenza, che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva e con il contesto nel quale il reato è stato commesso nonché il pericolo di ripristino di tali collegamenti, anche indiretti o tramite terzi”; b) non convince il passaggio da ventisei a trent’anni di pena scontata affinché i condannati alla pena dell’ergastolo possano accedere alla liberazione condizionale: il legislatore fa un passo indietro non solo rispetto alla l. 663/1986, che aveva previsto il limite di ventisei anni, ma anche rispetto all’originaria disciplina, introdotta con 1. 25 novembre 1962, n. 1634, che aveva stabilito che l’ergastolano potesse essere ammesso alla liberazione condizionale dopo aver scontato ventotto anni di pena; c) la nuova disciplina accentua, in termini manifestamente irragionevoli, la disparità di trattamento tra detenuto collaborante e non collaborante: ai sensi dell’art. 16-nonies d.l. 15 gennaio 1991, n. 8, conv. in 1. 15 marzo 1991, n. 82 il condannato all’ergastolo collaborante può accedere alla liberazione condizionale dopo l’espiazione di almeno dieci anni di pena; questa disposizione non si estende al condannato alla pena dell’ergastolo non collaborante, ma ammesso ai benefici alle condizioni di cui all’art. 4-bis, comma 1-bis, che potrà accedervi solo dopo aver scontato trent’anni di pena. La disciplina predisposta per il detenuto non collaborante appare di difficile compatibilità con gli artt. 3 e 27, comma 3, Cost. d) appare altresì irragionevole l’estensione da cinque a dieci anni della durata della libertà vigilata, applicata a seguito della concessione della liberazione condizionale, perché il periodo di libertà vigilata si aggiunge a una pena da scontare che è stata ulteriormente aumentata a trent’anni. Anche questa disposizione appare in contrasto con gli art. 3 e 27, comma 3 Cosi, in quanto fonda una presunzione di pericolosità, la cui irragionevolezza è accentuata dall’estensione temporale della durata della libertà vigilata; e) risulta parimenti ingiustificata l’estensione del novero dei reati ostativi al di là dei fatti di criminalità organizzata, comune e terroristica: i) al nuovo comma 1-bis. 1 dell’art. 4-bis ord. penit. sono ricompresi alcuni delitti contro la pubblica amministrazione (in particolare i reati di peculato per appropriazione, concussione, corruzione per l’esercizio della funzione, corruzione propria, corruzione in atti giudiziari, induzione indebita a dare o promettere commessa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di un pubblico servizio, istigazione alla corruzione): preoccupa il consolidamento delle scelte fatte con la 1. 3/2019, secondo una fuorviante lettura che, nell’individuazione degli strumenti penali, assimila questi reati alla criminalità organizzata; in questi casi, peraltro, l’ulteriore profilo di irragionevolezza deriva dal requisito richiesto per superare l’ostatività, ossia l’allegazione di “elementi specifici, diversi e ulteriori rispetto alla regolare condotta carceraria e alla partecipazione del detenuto al percorso rieducativo, che consentano di escludere collegamenti, anche indiretti o tramite terzi, con il contesto nel quale il reato è stato commesso”, essendo del tutto generico e ambiguo il riferimento al “contesto nel quale il reato è stato commesso”, che aggrava l’onere di allegazione a carico del condannato; il) a differenza del testo approvato alla Camera, il decreto-legge introduce una disciplina di ulteriore ampliamento dell’ostatività, estendendo le preclusioni ex art. 4-bis, comma 1 ord. penit. anche ai “delitti diversi da quelli ivi indicati [delitti ostativi di prima fascia], in relazione ai quali il giudice della cognizione o dell’esecuzione ha accertato che sono stati commessi per eseguire o occultare uno dei reati di cui al medesimo primo periodo ovvero per conseguire o assicurare al condannato o ad altri il prodotto o il profitto o il prezzo ovvero l’impunità di detti reati” (art. 4-bis, comma 1, ultimo periodo): un qualsiasi reato, quando è presente l’indicato legame teleologico, è attratto, irragionevolmente, nel regime delle preclusioni. Preoccupa, in sintesi, il fatto che strumenti progettati per contrastare la criminalità organizzata, comune o terroristica, per la quale può essere ragionevole prevedere una disciplina penale più severa, purché in linea con le garanzie costituzionali e sovranazionali, vedano esteso il loro ambito applicativo, senza che vi siano specifiche evidenze empiriche che giustifichino peculiari presunzioni di pericolosità e regimi differenziati. La nuova figura delittuosa introdotta dall’art. 5, d.l. n. 162/2022 appare frutto di una tecnica legislativa davvero approssimativa e lacunosa, e si distingue per indecifrabilità del tipo criminoso e incontrollabilità della sfera di applicazione. L’enunciato normativo si caratterizza, infatti, sia per la tautologica e circolare descrizione del fatto penalmente rilevante, sia per la peculiare anticipazione dello stadio di tutela insita nella scelta di incentrare il reato sull’invasione commessa allo scopo di organizzare un raduno potenzialmente pericoloso. Rimane imprecisato come e quando si realizzi un pericolo per l’ordine pubblico, per l’incolumità pubblica o per la salute pubblica, referenti di valore che risultano intrinsecamente affetti da irrimediabile vaghezza se non vengono tipizzate le modalità di offesa. A differenza di quanto avviene nell’ambito delle fattispecie di pericolo comune mediante violenza, in cui il legislatore provvede all’indicazione del contesto e dei modi di aggressione all’interesse collettivo, nel caso dell’art 434-bis c.p. ci si limita a evocare suggestivamente oggettività giuridiche suscettibili di essere messe a repentaglio, senza alcuna precisazione in ordine al profilo modale della messa in pericolo. Per converso, il generico riferimento alla potenziale - o presumibile - pericolosità del raduno per l’ordine pubblico si traduce nell’attribuzione di rilevanza penale a proiezioni offensive indimostrabili e indimostrate: la vaghezza e la latitudine di significato che tale macro-interesse da sempre palesa quale oggetto di tutela penale fa sì che, grazie alle larghe “maglie” della fattispecie, possano risultare tipici comportamenti solo ipoteticamente o indirettamente pericolosi. L’evanescenza e la comprensività del termine di riferimento del giudizio di pericolosità non consentono, infatti, di attribuire alla - solo apparente - connotazione concreta del pericolo alcuna funzione discretivo-selettiva, giacché ogni assembramento o riunione cui prendano parte più di 50 persone può risultare implicitamente pericoloso per l’ordine pubblico. Di fatto, quali comportamenti rientrino effettivamente nell’alveo della tipicità sarà il giudice a stabilirlo ex post e le forze dell’ordine hic et nunc, in rapporto alla gestione di esigenze di sicurezza poste dal caso concreto: una discrezionalità che rischia seriamente di essere declinata nella forma dell’arbitrio. Con buona pace della funzione di orientamento della norma penale, della prevedibilità della decisione giudiziaria, dell’uniformità applicativa e della parità di trattamento. Gravi le ricadute: l’indefinitezza e l’inafferrabilità delle condotte incriminate potrebbero, infatti, comportare effetti di “congelamento” di libertà e diritti, il cui esercizio rischierebbe di interferire con l’ampia sfera di operatività della fattispecie, con effetti inibenti e paralizzanti, stigmatizzati a più riprese dalla Corte di Strasburgo con riferimento alla libertà di riunione, sancita all’art. 11 Cedu e all’art. 17 della nostra Costituzione. A questo riguardo, alla luce della evidenziata sostanziale incapacità selettiva degli elementi di concreta pericolosità, deve segnalarsi una ulteriore criticità - se non un autentico cortocircuito logico - che sembra affliggete la norma, specie con riferimento alla “invasione” di un terreno o edificio “pubblico”. Infatti, a differenza di un terreno o edificio privato - dove l’arbitrarietà discende dalla mancanza di consenso del proprietario - l’arbitrarietà di una occupazione di spazi pubblici, di regola liberamente fruibili da ciascuno, viene a dipendere solo dalla assenza di previa autorizzazione amministrativa alla riunione o manifestazione, cosicché il reato - apparentemente centrato sull’”invasione arbitraria” e su diafani elementi di pericolosità - viene di fatto a focalizzarsi solo sulla mancanza di autorizzazione o assenso dell’autorità competente al raduno organizzato: ipotesi, questa, in relazione alla quale in più occasioni la Corte europea dei diritti dell’uomo ha ritenuto contrastare con l’art. 11 Cedu, disposizioni penali che prevedano - in particolare - pene detentive, appunto ritenendo che la minaccia di simili sanzioni rappresenti una ingerenza sproporzionata - e non “necessaria in una società democratica” - rispetto al diritto fondamentale sancito all’art. 17 Cedu, giungendo persino a ritenere - in taluni casi - convenzionalmente inammissibile, per i meri partecipanti all’adunanza, qualsiasi sanzione amministrativa in caso di mancato preavviso. Non si può fare, inoltre, a meno di rilevare come la previsione - quale massimo edittale della pena - della reclusione fino a sei anni comporti il fatto che, durante la vigenza del decreto-legge, possano prodursi effetti limitativi e restrittivi di diritti e libertà individuati che non sono circoscritti alla sola possibilità di effettuare intercettazioni. E la conseguenza di un evidente difetto di proporzionalità e ragionevolezza del trattamento sanzionatorio, cui si aggiunge l’ingiustificata previsione dell’obbligatorietà della confisca delle cose indicate nel comma 4. La disposizione in esame è destinata a sollevare ulteriori dubbi sotto il profilo della reale necessità politico-criminale, stante la disposizione dell’art. 633 c.p. che prevede già il reato di occupazione abusiva di terreni o edifici e che consente l’adozione di misure cautelari quali il sequestro del terreno o dell’edificio; al comma secondo di tale fattispecie è, del resto, prevista una specifica circostanza aggravante - sanzionata con la pena della reclusione da due a quattro anni - applicabile ove il fatto sia “[…] commesso da più di cinque persone […]”, e alla quale si aggiungono i diversi presidi penali già esistenti applicabili nel caso di peculiari condotte delittuose che possano essere realizzate nel corso dello specifico raduno (basti pensare alle diverse fattispecie di reato previste nel d.pr. n. 309/1990). Non minori le perplessità, anche in una prospettiva prammatica, che discendono dall’incongruo inserimento di questa fattispecie tra le ipotesi di pericolosità specifica di cui al codice antimafia, legittimando in tal modo persino l’applicazione di misure di prevenzione personali e patrimoniali. In definitiva, la fattispecie di cui all’art. 434-bis c.p. pone seri dubbi di legittimità costituzionale e convenzionale, sotto i diversi profili della determinatezza, della proporzionalità rispetto al diritto di riunione, e della ragionevolezza/proporzionalità del complessivo trattamento sanzionatorio. Prof. Marco Pelissero Presidente Prof. Giuliano Balbi Prof. Luigi Foffani Prof. Alberto Gargani Prof. Vittorio Manes Prof. Enrico Mezzetti Prof.ssa Rosaria Sicurella Lettera aperta al Ministro della Giustizia, Carlo Nordio di Andreina Corso Ristretti Orizzonti, 6 novembre 2022 Da veneziana, mi viene in mente la frase che mia zia Gegia, nomade per vocazione e saggia come una monaca buddhista, pronunciava davanti alle ingiustizie “Amor porta amor, crudeltà distrugge”. Certo non era una giurista, aveva l’animo della viandante, sapeva appena leggere e scrivere, ma era dotta e intelligente quasi come il celebre Cesare Beccaria, che neppure lui era un giurista, ma un laureato in economia. Mi perdonerà l’accostamento improbabile dottor Carlo Nordio? Mi soffermo con lei, se troverà il tempo per ragionarci, sulla parola “crudeltà” e mi spiego. Le affido un pensiero che Nietzsche, in una lettera (anche lui), scritta a un amico, parla “della freddezza spietata con cui coloro che vivono in disparte, vengono accantonati, liquidato”. Per interpretare il mondo, ci dice il filosofo tedesco, bisogna saper “ruminare”, perché l’unica forza che ci è rimasta per opporci al caos, è quella della cultura, della ragione. Avverto nelle parole e nei silenzi degli aderenti alla linea del Governo, un disprezzo della compassione. Lo dice, lo dicono, il piglio giustizialista, l’indifferenza, la cecità nei confronti dei più deboli e sconfitti. Le persone che vivono nelle nostre incivili carceri, non esistono, nonostante i richiami della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, che ha ammonito duramente il nostro Paese per le celle pollaio e per le condizioni e il degrado che vige indisturbati nelle patrie galere italiane. Come si fa a riabilitarsi, a opporsi alla “banalità del male”, concetto profondo che ha ispirato il libro di Hannah Arendt, quando si vive in una cella buia e angusta, non si vedono i parenti, non si lavora, si macerano pensieri e afflizioni che solo quest’anno hanno provocato, come denuncia l’Associazione Antigone, 74 suicidi. L’articolo 27 della Costituzione, non mi permetto di ricordarlo a Lei, per ovvie ragioni, ma insisto sulla sua mancata applicazione. I promotori della tutela della famiglia tradizionale a tutto tondo, non si fanno scrupolo di lasciare uomini donne e bambini al freddo in mezzo al mare. Son lontani, non si vedono. Penoso quel voler verificare chi sono, se sono autorizzati, per la nostra “sicurezza”. Ministro, abolirà la legge Bossi Fini? E permetterà che famiglie provate dalle difficoltà dei viaggi, stremate dagli stenti vengano divisi, (eventualmente?). Donne e bambini a terra e uomini invece in carcere sulle navi? Per quale reato? L’aver cercato salvezza? “Dio ga un brasso eongo”, diceva ancora la zia Gegia, e se è vero che Dio tutto vede, forse quegli ultimi della terra li aiuterà. Forse. Intanto il suo Governo ha rinnovato il Patto Italia - Libia: complimenti per aver ignorato anche Medici Senza Frontiere che ha dichiarato “A cinque anni dall’accordo Italia-Libia, sono sempre più numerose le prove che dimostrano come le politiche di contenimento dei flussi migratori perpetuino violenza, respingimenti, sfruttamento e detenzione arbitraria e alimentino nel Mediterraneo il numero delle morti in mare e ci appelliamo a Lei, Presidente Mattarella affinché l’Italia torni a rispettare gli obblighi di protezione e assistenza delle persone. Presidente, chieda al Parlamento di cancellare gli accordi Italia-Libia. Intesa mai ratificata dallo stesso Parlamento, ma la cui attuazione ha creato un sistema di sfruttamento, estorsioni e abusi cui sono sottoposti migranti e rifugiati in Libia”. Evidentemente il ‘ruminare’ di Nietzsche non ha interessato i membri di questo Governo, perché la pazienza del brucare, assaporare e assimilare la terra e i suoi umori, per capire e condividere, è stata ignorata. E sostituita con l’ostinazione di chi ha alzato la voce e poi un muro, e relegato i più deboli all’abbandono, all’indifferenza e all’invisibilità. In fondo sono solo detenuti colpevoli: carta straccia. Faccia qualcosa, per piacere, giudice Carlo Nordio, per arginare questa deriva, affinché questo impoverimento culturale e umano non ci invada rendendoci ancor più sordi e ciechi nei confronti dei nostri simili. Sardegna. Carceri, sovraffollamento in tutta l’Isola. A Tempio la maggiore emergenza sardiniapost.it, 6 novembre 2022 Disagi, sovraffollamenti, violenze. La situazione dei detenuti e del personale nelle carceri sarde continua a peggiorare. Quella più critica a Tempio, dove ci sono detenuti dell’alta sicurezza e per 170 posti ci sono 193 ristretti (113,5 per cento). Al limite le carceri di Oristano, Nuoro e Cagliari. Lo studio dell’associazione Socialismo diritti riforme, partendo dati forniti dall’ufficio statistica del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria sulla realtà detentiva al 31 ottobre 2022. “Condizioni di disagio - dice l’esponente di Sdr, Maria Grazia Caligaris - si registrano a Oristano (263 detenuti per 267 posti), Nuoro (246 per 375 ma un’ala di circa 100 posti è chiusa in attesa di ristrutturazione e recentemente si è verificato una caduta di calcinacci), Sassari-Bancali (428 per 454 - 90 presenze al 41bis) e Cagliari-Uta (537 presenze per 561). In molti istituti, poi, tra cui il carcere di Tempio, manca un direttore in pianta stabile. “Ciò che manca nel resoconto ministeriale è la reale condizione delle celle e delle problematiche connesse con la gestione dei ristretti - ha continuato Caligaris. Il neo ministro della Giustizia Carlo Nordio ha posto in cima alle sue azioni la conoscenza della realtà del carcere e sta effettuando visite nelle strutture più problematiche: l’auspicio è che il tema non sia solo quello di nuove carceri. Servono strutture alternative, centri e comunità dove le persone, quando è necessario, vengano davvero curate e gestite in modo che possano essere reintegrate in società. Servono poi direttori e operatori penitenziari, occorrono più psicologi e psichiatri e più educatori, mediatori e operatori culturali”, conclude la portavoce di Sdr. Busto Arsizio. Detenuto albanese trentenne si impicca in carcere di Sarah Crespi La Prealpina, 6 novembre 2022 Il giovane era tornato in prigione da un mese. La sua è la settantatreesima croce che il sistema penitenziario nazionale porta sulle spalle dall’inizio del 2022. Aveva trent’anni l’albanese che venerdì sera si è tolto la vita nel carcere di Busto Arsizio. Giulio - che nel 2019 patteggiò quattro anni e quattro mesi per spaccio di stupefacenti - era rientrato lo scorso 8 ottobre dopo un periodo di differimento pena per motivi di salute, ventotto giorni trascorsi in seconda sezione, durante i quali i suoi evidenti disturbi psichici lo avevano reso incompatibile con chiunque. Forse per questo negli ultimi giorni era stato collocato in una singola, per evitare zuffe continue. La solitudine però è stata complice del suicidio. Nessuno si è accorto del cappio che aveva annodato e nessuno ha potuto evitare che il suo disagio interiore sconfinasse in tragedia. Gli agenti della polizia penitenziaria lo hanno trovato esanime e senza più alcuna speranza di rianimarlo. Che si sia trattato di un gesto volontario non ci sono dubbi, tuttavia il pubblico ministero Ciro Caramore ha disposto l’autopsia per escludere eventuali concause. Novara. Travolto da un treno mentre fugge dai carabinieri, morto 17enne di Floriana Rullo Corriere di Torino, 6 novembre 2022 La vittima è un ragazzo di origine magrebina senza fissa dimora. Stava tentando di fuggire dai carabinieri dopo essere stato sorpreso a rubare all’interno della farmacia comunale del paese di Dormelletto quando è stato travolto da un treno merci. Hamza aveva solo 17 anni e non voleva finire in carcere. Ci era già stato in passato. Il giovane era già conosciuto alle forze dell’ordine per piccoli precedenti analoghi ma aveva continuato a mantenere la stessa condotta. Per questo, una volta bloccato dai militari, ha tentato di divincolarsi e di nascondersi tra i binari dei treni della stazione della città novarese, alle porte di Arona, sul lago Maggiore. Non si è però accorto stesse passando il treno merci che lo ha investito e ucciso. Il giovane magrebino e senza fissa dimora, era riuscito poco prima ad entrare nell’attività chiusa per la notte con un altro complice di 22 anni. Avevano in mente di mettere a segno il furto e poi fuggire. Ma appena entrati nel negozio sono bastati pochi attimi per far scattare l’allarme e fare arrivare così i carabinieri sul posto. Alla vista dei militari i due giovani hanno tentato di fuggire ma sono subito stati fermati dopo essere stati individuati vicino ai binari. Il più grande aveva già anche le manette ai polsi. I carabinieri stavano procedendo anche con Hamza quando il rumore del treno ha sorpreso tutti. È stato proprio in quel momento, mentre gli altri erano distratti, che il diciassettenne è riuscito a divincolarsi e fuggire di nuovo. Pochi passi sui binari fatti proprio mentre arrivava il treno. Uno dei due carabinieri, vicino al giovane, ha tentato anche di trattenerlo e salvarlo ma il 17enne è stato travolto sotto i loro occhi dal convoglio che si è accorto della sua presenza solo all’ultimo e non ha potuto fare nulla per evitarlo. Sul posto, oltre ai militari di Arona, anche il personale del 118 che ha tentato il tutto di tutto per salvarlo. Ma per il 17enne ma non c’è stato nulla da fare: era già morto sul colpo a causa del trauma riportato. Sotto choc anche il macchinista. Anche lui è stato aiutato dai sanitari e portato in ospedale per le cure del caso mentre la linea ferroviaria è stata chiusa in attesa del medico legale che ha constatato il decesso della vittima. Cuneo. Carcere di Fossano: il riscatto attraverso il lavoro e la comunità di Agata Pagani lafedelta.it, 6 novembre 2022 Quasi tutti i detenuti sono impegnati tra scuola, progetti e laboratori. Un carcere in cui si crescono progetti e opportunità. Il Santa Caterina è un luogo in cui si cerca, concretamente, di dare una seconda opportunità ai detenuti. È quanto emerge dal racconto che hanno fatto la direttrice Assuntina Di Rienzo, il comandante Lorenzo Vanacore e le educatrici dell’area trattamentale Antonella Aragno e Michela Manzone, che abbiamo incontrato per conoscere più a fondo la realtà del carcere, al centro della città. Come sottolineato dal Garante regionale Bruno Mellano, il carcere di Bollate dipinto da Cosima Buccoliero e Serena Uccello nel libro “Senza sbarre”, presentato proprio al Santa Caterina nelle scorse settimane, è molto simile a quello di Fossano. Nella città degli Acaja, infatti, il carcere è a custodia attenuata: vi risiedono, in sostanza, detenuti con pene lievi, a fine pena, o con percorsi detentivi per i quali sono stati previsti percorsi formativi o di reinserimento lavorativo. Dei 90 detenuti attualmente ospitati nel carcere di Fossano 11 lavorano nei laboratori che hanno sede nel secondo e terzo cortile, 10 in esterno, 10 frequentano il corso di saldo carpenteria, 30 si alternano in attività lavorative interne alla struttura, 15 frequentano la scuola (tra loro due hanno iniziato l’università) e una decina sono pensionati o invalidi: “Non esiste, insomma, un detenuto, che non sia in pensione o invalido, che non sia impegnato in attività di studio o lavoro” ci hanno spiegato. Quella raccontata è la storia di un percorso complesso che sta realizzando la missione del carcere di custodia attenuata: creare opportunità di lavoro e di apprendimento o,per dirlo in altre parole, di riscatto. “Sono a Fossano da febbraio 2019 e in questi giorni ho avuto la proroga fino al 2025 - ci ha detto Assuntina Di Rienzo, la direttrice -. Fossano è lo stimolo che mi mancava. Ne avevo sentito parlare tanto e sono molto contenta. Dico sempre che tutto va coltivato, come i fiori, e che si parte dal lavoro di squadra. Poco dopo di me è arrivato anche il comandante Vanacore e, con l’area trattamentale, abbiamo costituito un gruppo di lavoro molto proficuo. Siamo anche stati fortunati perché abbiamo avuto un importante contributo economico dal Provveditorato che ha dato la possibilità di realizzare le idee che avevamo. Anche l’ingresso della cooperativa Perla in carcere è stata una circostanza fortunata. Sembra un bisticcio di parole, ma è una vera perla. Tutti insieme crediamo fortemente in quello che facciamo, nel creare opportunità”. Grazie al contributo ricevuto è stato infatti possibile dare vita a idee e progetti che direttrice, comandante ed educatrici condividevano da tempo e che hanno dato una svolta agli inserimenti lavorativi. In questo momento ci sono 5 laboratori in carcere, due nel secondo cortile, quello detentivo e tre nel terzo, quello non detentivo dove hanno accesso detenuti che possono essere assegnati a lavori in esterno o in semi libertà. Nel terzo cortile c’è il laboratorio di trasformazione dei prodotti della cooperativa Pensolato coordinato dalla cooperativa Perla. Da giugno 2022 i prodotti lavorati all’interno del carcere, a Fossano, oltre che nel negozio di via Sacco e agli orti del Casalito, sono in vendita anche al mercoledì con un banco al mercato dei produttori. Sempre nel terzo cortile c’è il laboratorio di panificazione con Mondo Pane e quello di restauro mobili con Blue Lab e cooperativa Perla. Nel secondo cortile c’è il laboratorio di assemblaggio materiale plastico, coordinato da Dream Green, che in questo momento assembla giocattoli per la ditta Quercetti, e “Fili della stessa trama”, laboratorio di ceramica sempre gestito dalla cooperativa Perla. Cinque opportunità di lavoro che hanno una missione in comune: offrire una seconda opportunità a chi, dopo aver commesso un errore, intende rientrare nella società civile nel rispetto della legalità che passa, principalmente, attraverso lavoro e affetti stabili. Anche sul fronte degli affetti, infatti, il carcere di Fossano ha fatto un passo importante: “Siamo l’unico carcere in Italia ad aver organizzato una cena per tutti i detenuti e tutte le loro famiglie. Abbiamo offerto una cena preparata con i prodotti dei nostri laboratori. Altre carceri hanno fatto dei pranzi e per alcuni detenuti scelti. Noi li abbiamo… Scelti tutti” ha detto il comandante Vanacore. I progetti non si fermano perché i dati parlano chiaro: quando la pena non è castigo, ma formazione e riscatto, il rischio di recidiva scende moltissimo: “L’anno prossimo attiveremo un corso per panificazione e pasticceria: si tratta di professionalità molto richieste in questo momento quindi danno vere opportunità lavorative per quando il detenuto uscirà” - ci spiegano. Poi ci sono i sogni, che con collaborazione e determinazione possono trasformarsi in obiettivi concreti: “Sarebbe bello aprire un negozio che dia su via San Giovanni Bosco, una porta sull’esterno” spiega Antonella Aragno, una delle educatrici. Ancora più in grande sogna il comandante Vanacore: “Vorrei aprire il terzo cortile alla città, farlo diventare una piazza su cui si affacciano i laboratori. Un luogo dove vendere ciò che si produce in carcere sia qui che in altre case di reclusione, dove ospitare, magari, un ristorante”. Un sogno che ha già dimostrato di essere realizzabile dal punto di vista della sicurezza, con iniziative come il “Natale di Barabba” di qualche anno fa o i momenti conviviali alla partenza della camminata Passi di riscatto. Intanto proseguono i progetti e i percorsi di formazione e inserimento lavorativo con l’uscita dal carcere, ogni giorno, di detenuti: “Vorremmo che sempre più persone sapessero che a Fossano non c’è una ‘bestia’, ma un edificio che ospita persone e potrebbe diventare luogo produttivo per la comunità lavorando insieme” è l’ultimo appello che lanciano dal Santa Caterina. Rimini. Reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro e promozione della salute di Roberto Di Biase emiliaromagnanews24.it, 6 novembre 2022 Al via il bando per la gestione dei progetti annuali ‘Progetto Carcere’ e ‘Percorsi di Inclusione Sociale’, entrambi in mano al Distretto socio-sanitario di Rimini Nord e finanziati per il 70% da risorse regionali. Il primo, più nel dettaglio, ha un costo complessivo di 64.732 euro (di cui 45.312 euro da parte della Regione e 19.419 da parte del Comune) e ha l’obiettivo di promuovere la salute in carcere, il reinserimento delle persone in esecuzione penale e azioni di contrasto all’esclusione sociale delle persone in condizione di povertà estrema o a rischio di marginalità, mentre il secondo, che comporta un investimento pari a 11.423 euro (di cui 7.996 provengono dal bilancio regionale mentre 3.426 da quello comunale), è finalizzato a promuovere, in collaborazione con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna, azioni di accompagnamento per un graduale rientro nel tessuto socio-lavorativo delle persone in esecuzione penale esterna e dei soggetti che abbiano terminato di scontare la pena. “Investire energie e risorse per aumentare il reinserimento dei detenuti nel mondo del lavoro e nella legalità è un interesse di tutta la comunità, il buonismo non c’entra niente - spiega l’assessore comunale ai servizi sociali e il presidente del distretto di Rimini Nord Kristian Gianfreda - Una comunità giusta e coesa è una comunità più sicura. Una volta terminata la detenzione l’obiettivo del detenuto deve essere ricoprire un ruolo attivo nella società attraverso il recupero delle competenze personali”. Ecco perché, “quando parliamo di contrasto all’emarginazione sociale e alle vulnerabilità, - continua Gianfreda - dobbiamo considerare anche le persone che si trovano in carcere e che, è interesse di tutti che possano acquisire quegli strumenti, quelle conoscenze e quella fiducia in sé stessi per reinserirsi progressivamente nella quotidianità della vita ed essere ben integrati con il tessuto sociale ed economico. Per la nostra amministrazione comunale è e sarà fondamentale un lavoro di squadra con le associazioni e con le realtà che hanno a che fare con le fragilità e con i problemi che riguardano le prigioni, così da individuare iniziative che facilitino percorsi di partecipazione alla vita sociale al di fuori delle mura e, in parallelo, promuovano il diritto alla tutela della salute. Come istituzioni dobbiamo guardare al futuro dei carcerati e lavorare affinché possano avere un futuro diverso. Dobbiamo abbattere la recidiva, cioè la reiterazione del reato: solo in questo modo possiamo porre le basi per una collettività più unita e sicura.”. Le finalità generali dei progetti, coerentemente con il principio di sussidiarietà orizzontale, possono essere meglio specificate e realizzate attraverso una procedura di co-progettazione attraverso il coinvolgimento di soggetti del terzo settore, sinergie pubblico-privato e l’apporto delle reti di volontariato. Torino. Carcere e impresa. Quando la “pena” è strumento di formazione e cambiamento iltorinese.it, 6 novembre 2022 Il 7 novembre dalle 18,30 si svolgerà nella sede di Torino di Fondazione Casa di Carità (via Orvieto 38) un seminario che permetterà di approfondire e discutere sui risultati del Progetto L.E.I, acronimo di Lavoro, inclusione ed emancipazione, svolto da diversi anni nel carcere Lorusso e Cutugno e sostenuto dalla compagnia di San Paolo. Come il lavoro e la formazione contribuiscono a costruire il futuro di persone detenute? Il dibattito si svilupperà attorno ai risultati di questo progetto che prevede differenti azioni sia all’interno del carcere (corsi di formazione e laboratori professionalizzanti di sartoria e cucina, corsi di educazione finanziaria e alfabetizzazione informatica), che fuori dal carcere (accompagnamento socio-educativo, ricerca di un’abitazione ove necessario, supporto all’inserimento lavorativo, sostegno psicologico, mediazione familiare e voucher formativi spendibili per frequentare percorsi professionalizzanti anche alternativi ad attività di cucito/sartoria e cucina), e include iniziative mirate alla cura della persona. Si confronteranno: la direttrice del carcere di Torino, Cosima Buccoliero, e alcune associazioni del privato sociale e imprenditori che intervengono a vario titolo per trasformare la pena in occasione di riscatto sociale e di ritorno alla legalità: Relazioni introduttive di Damaris Paolone (Ente Esseri Umani), Claudio Amisano (Cooperativa Impatto Zero), Claudia Ducange (Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri. Modera, Cinzia Pecchio, di Aidda. Il seminario è promosso da Ucid Torino e da Fondazione Casa di Carità Arti e Mestieri, con l’adesione di Aidda (Associazione Imprenditrici e Donne Dirigenti d’Azienda). Per informazioni: segreteria.fondazione@casadicarita.org. Carpi (Mo). Abolire il carcere è una strada praticabile? Se ne discute a Ne Vale la Pena temponews.it, 6 novembre 2022 Tre gli appuntamenti in programma a Carpi nel mese di novembre per la rassegna “Ne vale la pena”. S’inizia martedì 8 novembre, alle 20.45, presso l’Auditorium dell’ex Convento di San Rocco in via San Rocco 1, dove l’arcivescovo di Modena Erio Castellucci, il senatore Luigi Manconi e il magistrato Gherardo Colombo si confronteranno sul tema “Abolire il carcere. Tra certezza della pena, necessità di giustizia per le vittime e recupero del reo”. Tre gli appuntamenti in programma a Carpi nel mese di novembre per la rassegna Ne vale la pena. S’inizia martedì 8 novembre, alle 20.45, presso l’Auditorium dell’ex Convento di San Rocco in via San Rocco 1, dove l’arcivescovo di Modena Erio Castellucci, il senatore Luigi Manconi e il magistrato Gherardo Colombo si confronteranno sul tema Abolire il carcere. Tra certezza della pena, necessità di giustizia per le vittime e recupero del reo. Giovedì 10 novembre, alle 20.45, all’Auditorium Loria di via Rodolfo Pio,1 appuntamento con Francesco Filippi storico della mentalità e formatore per l’Associazione di Promozione Sociale Deina, partecipa alla programmazione e alla realizzazione di viaggi di memoria e percorsi formativi in tutta Europa. Per Bollati Boringhieri ha pubblicato “Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo” (2019), “Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto” (2020) e “Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie” (2021). Il suo ultimo libro è “Guida semiseria per aspiranti storici social” (2022). Sabato 26 novembre, alle 17, di nuovo all’Auditorium Loria incontro con Giovanni Fasanella con il libro “Nero di Londra. Da Caporetto alla marcia su Roma: come l’intelligence militare britannica creò il fascista Mussolini”. Giovanni Fasanella, giornalista e ricercatore, ha pubblicato libri sull’”indicibile” della storia contemporanea italiana. Tutti gli incontri sono a ingresso libero fino a esaurimento posti. Milano. Detenuto a chi? Quei “matti” che ci fanno scoprire chi siamo di Alessandro Cozzi ilsussidiario.net, 6 novembre 2022 C’è chi vive una prigionia fisica dietro le sbarre e chi la vive nella propria mente. A Opera un incontro pieno di stupore tra questi due mondi. Da qualche mese all’interno della Casa di reclusione di Opera avviene una cosa particolarissima e geniale. Per iniziativa dell’Associazione In Opera, un gruppo di una quindicina di reclusi incontra per alcune ore alla settimana alcuni ospiti della Fondazione Sacra Famiglia di Cesano Boscone, pazienti del centro diurno Il Camaleonte, che assiste e si occupa di persone affetto da disagio psichico. Tutti noi “ospiti” di Opera che siamo stati chiamati a far parte del progetto, ben ricordiamo le preoccupazioni e le perplessità iniziali: c’è stato chi dubitava, chi diceva impossibile l’iniziativa, chi temeva “i matti” immaginandosi chissà che… Sicuramente lanciarsi in questa impresa è stato ardito: da parte di In Opera che ha spinto perché l’attività iniziasse; di Sacra Famiglia e del Camaleonte che hanno accettato di portar qui alcuni loro pazienti; pure da parte della direzione del carcere, che ha favorito e reso possibile la cosa, mettendo a disposizione spazi adeguati. Ma nessuno, né qui né a Sacra Famiglia, osava sperare che accadesse ciò che è successo. Perché quasi da subito, dopo una o due volte che ci si vedeva, è nato qualcosa di grande; è successo che blocchi, diffidenze, e pregiudizi (perché c’erano, i pregiudizi, eccome!), sono evaporati e si è generato un Incontro. Un vero, autentico, sincero incontro tra persone. Ci siamo vicendevolmente riconosciuti come “reclusi”: chi nella prigione, chi nel disagio mentale, che probabilmente è la prigionia più gravosa. Proprio partendo da questa base comune tutti abbiamo potuto guardarci in viso per esplorare stati d’animo e pensieri, atteggiamenti e abitudini, modi di fare e linguaggi. Da giugno dunque stiamo insieme discutendo e chiacchierando, disegniamo e costruiamo piccole cose, confrontiamo le nostre idee, scherziamo su di noi, sulle nostre manie, sul tifo calcistico. E ci diciamo cose serie, imparando molto gli uni dagli altri. Per noi che viviamo a Opera è risultato bello constatare come loro riuscissero a raccontarsi con sincera tranquillità, con calma, con profondità; un esempio per noi, dal momento che questo è invece un luogo in cui tutto concorre a nascondere le personalità autentiche sotto maschere costruite. Di contro per loro è stata una sorpresa vedere che non entravano in luoghi oscuri, in “segrete” umide e sporche: soprattutto che incontrano gente “normale”. Certo, gente che ha il vissuto di almeno un errore che li ha portati qua, ma non per questo sono contorti o distorti. Ci siamo guardati, dicevamo, ci siamo scoperti; stanno nascendo rapporti distesi, un clima aperto e fraterno, una conversazione pacata, a tratti allegra, sempre rispettosa e molto piacevole. Dobbiamo ringraziare questa piccola, grande meraviglia; un passo forte del cammino di ripresa che vale per tutti: noi detenuti in carcere e loro detenuti nella mente, che annuncia lo sviluppo dell’amicizia, molto oltre le aspettative di ciascuno. Roma. MedFilm Festival, l’8 novembre la rassegna “Voci dal carcere” agenziacult.it, 6 novembre 2022 L’evento è organizzato in partenariato con il Commissario Straordinario per il recupero dell’ex carcere borbonico di Santo Stefano Ventotene, Silvia Costa. Cantone (Dap): “È importante creare delle sensibilità e attraverso queste delle opportunità per fare altro nella vita”. Si terrà martedì 8 novembre alle 17 presso il cinema Savoy di Roma (via Bergamo 25), la rassegna “Voci dal carcere” nell’ambito del MedFilm Festival, organizzata in partenariato con il Commissario Straordinario per il recupero dell’ex carcere borbonico di Santo Stefano Ventotene, Silvia Costa. Dopo la proiezione ci sarà un breve spazio di confronto sull’importanza delle pratiche artistiche che coinvolgono la popolazione carceraria ai fini della funzione rieducativa della pena, che si colloca nel più ampio dibattito sulla ricerca e la formazione sui temi connessi all’esecuzione penale. Interverranno Carmelo Cantone (Vice Capo del Dipartimento Amministrazione Penitenziaria), Susanna Marietti (Associazione Antigone), Sabina Minutillo Turtur (Responsabile Comunicazione del Progetto Ventotene), Marco Ruotolo (Ordinario di Diritto Costituzionale di Roma3), Salvatore Striano (Attore e autore di laboratori artistici nelle case di detenzione). “L’esperienza degli audiovisivi, così come quella teatrale, si è rivelata fondamentale quanto meno per dare la possibilità alle persone di guardare al di là del proprio naso, di creare delle attenzioni e delle curiosità”, sottolinea Cantone ad Agenziacult. “Sono attività che non impattano sulla singola persona ma su vere e proprie comunità di detenuti e operatori e questa dimensione di gruppo è un aspetto molto importante. Così come è importante creare delle sensibilità e attraverso queste delle opportunità per fare altro nella vita”. Il Vice Capo del Dap ricorda quindi la proposta di legge sul teatro in carcere il cui iter si è interrotto per la fine anticipata della XVIII legislatura: “Una legge come questa, che prende le mosse da esperienze decennali, incentivando certi meccanismi serve a far crescere questo tipo di esperienze. Non le crea ma le fortifica”. Questi i film che saranno proiettati l’8 novembre: “Viva” di Marianna Turturo e Alessandra Ardito (in collaborazione con la Casa di reclusione femminile di Trani nell’ambito del progetto Liberi in carcere 2020-21 con il supporto dell’E.P.A.S.S.S e ASL BAT); “29000 giorni” di Massimo Montaldi in collaborazione con Carcere di Rieti Ass. Inclusione Attiva Lazio APS, Ass Camera 23; “Un anno di attività in tempo di pandemia” e “Profughi da tre soldi” di Sandro Baldacci (video rappresentativi dell’attività teatrale svolta dall’Associazione Culturale Teatro Necessario Genova con i detenuti della Casa Circondariale di Genova Marassi in questi ultimi due anni); “La parola agli imputati” regia Serenella Di Michele, Angelo Petrone in collaborazione con la Casa Circondariale di Chieti Progetto Fenice Felice - Rinascere con l’Arte (Regione Abruzzo - Ministero delle Politiche sociali); “Da Babele alla Città Celeste”, Casa di reclusione di Padova (Maria Cinzia Zanellato regista e responsabile artistica del progetto Teatrocarcere Due Palazzi); “Bellum”, di e con Giovanni Cukon Regia Casimiro Gatto; “Casa Circondariale di Castrovillari ‘Rosetta Sisca’”, in collaborazione con l’Associazione culturale Aprustum e il sostegno della Fondazione Carical. Cosenza. Sul palco del Rendano il riscatto dei detenuti di Enrica Riera quotidianodelsud.it, 6 novembre 2022 Messo in scena al Rendano di Cosenza lo spettacolo ispirato a “Il deserto dei tartari” di Buzzati e interpretato dai detenuti del Cosmai. Accarezzare i velluti rossi della platea, sedersi sulle poltroncine e osservare le mille luci del teatro dove forse non s’è mai messo piede, sentirsi piccoli davanti ad anni e anni di Storia e tradizione. È ciò che hanno fatto, oltre che provato, i detenuti della casa circondariale “Sergio Cosmai” di Cosenza: liberi, per un intero pomeriggio (quello di giovedì 3), di esserlo davvero. Tutto ciò grazie allo spettacolo teatrale che hanno messo in scena al “Rendano” dopo i laboratori che per tutto l’anno hanno seguito, guidati dall’attore e regista cosentino Adolfo Adamo. Quarto capitolo del progetto “Amore sbarrato”, la rappresentazione è stata tratta - in maniera assai rivisitata - da “Il deserto dei Tartari” di Dino Buzzati. Giovanni Drogo, d’altronde, attendeva qualcosa, al pari dei reclusi-attori che, qui e ora (“Hic et nunc”, più in particolare, il titolo dello spettacolo), aspettano il futuro, la vita e le sue seconde possibilità. Le anime dello spettacolo dei detenuti al Rendano di Cosenza - Andrea Bevilacqua, Nicola Campolongo, Nicola Fazzari, Danilo Giannone, Sandro Maestro, Carlo Migliori, Francesco Pellegrino e Francesco Mango le “anime” del progetto: il “Quotidiano del Sud” le ha seguite sin dalle prove, all’interno del penitenziario, quando già allora la voglia di mettersi in gioco era moltissima, così come quella di riscattarsi agli occhi dei propri familiari o semplicemente di provare una cosa nuova, una cosa che avesse a che fare col magico mondo del teatro. Teatro che, da quando i ristretti del “Cosmai”, l’hanno per l’appunto conosciuto, ha avuto su di loro un effetto realmente catartico. “Da quando ho conosciuto l’arte, questo cella è diventata una prigione”, dice l’attore detenuto in un bellissimo film dei fratelli Taviani: battuta che calza a pennello per il “cast” di Adolfo Adamo che, tra l’altro, insieme ai detenuti ha recitato (l’aveva fatto anche nel precedente capitolo del suo progetto, quello che ha portato alla rappresentazione di “Moby dick” di Melville). Un’ora circa, dunque, di spettacolo: si parte proprio con gli attori che si confondono tra il pubblico e poi, in un luogo non luogo e in un tempo non tempo (la scenografia l’ha firmata Alessandro Bruni), si punta sui dialoghi, carichi di significato. Ma c’è un momento, nella specie, che fa impazzire gli spettatori coi loro applausi scroscianti: è il ballo dei detenuti sulle note di “Senza fine” di Gino Paoli. Grande commozione nel finale - Una scena liberatoria, agrodolce. Senza fine, d’altronde, è la voglia di respirare l’aria fuori dalla cella; senza fine sono i rimorsi; senza fine sono i rimpianti - di tutti quanti. Adamo, comunque, non “usa” solo musica italiana. C’è il maestro Gabriele Bolognesi che suona il sax e poi le canzoni, in sottofondo, di altri artisti. Uno su tutti? Johnny Cash. Sarà che ogni persona, nella propria esistenza, cammina sul filo del rasoio, ha delle croci con cui fare i conti. Grande la commozione generale sul finale. La direttrice del carcere della città bruzia, Maria Luisa Mendicino, sale sul palco e dice che “esperienze come questa fanno comprendere quanto i penitenziari non rappresentino esclusivamente sicurezza”. A noi del giornale Mendicino dice pure che “non è scontato che progetti come quello sul teatro vengano posti in essere, soprattutto vista e considerata la carenza di personale che rappresenta una delle criticità del “Cosmai”“. Il plauso del sindaco Franz Caruso - Segue, inoltre, il plauso per l’iniziativa del sindaco di Cosenza Franz Caruso e della consigliera comunale Chiara Penna. “Progetti come questo contribuiscono - affermano - non solo a dare effettività al principio, spesso dimenticato, della funzione rieducativa della pena, ma puntano a scardinare il pregiudizio nei confronti di chi è detenuto: avvicinare i cittadini alla conoscenza del mondo carcerario è un piccolo passo rivoluzionario che mai come in questo momento storico, pervaso da sentimenti giustizialisti e da una profonda ignoranza del sistema penitenziario, è necessario portare avanti”. Da citare, infine, coloro che hanno pure contributo alla riuscita dello spettacolo: la costumista Fiorella Ciabocco e Michele Basile, responsabile delle luci e delle elaborazioni multimediali. Unica criticità la logistica. Sì, proprio la disposizione dei posti in platea: posti riservati alle autorità in prim’ordine, posti riservati agli ospiti subito dopo, terzo blocco per le famiglie dei carcerati. Sarebbe stato bello, insomma, se accanto al magistrato presente o al legale partecipante avesse preso posto una madre, un padre, una sorella di un attore detenuto. Sarebbe bello, in definitiva, se la vita, qualche volta, imitasse l’arte. Brescia. Si torna a giocare a calcio in carcere con l’Uisp di Elena Fiorani uisp.it, 6 novembre 2022 L’impegno Uisp rivolto alle persone detenute prosegue su tutto il territorio nazionale, in varie forme nelle diverse carceri, ma sempre proponendo l’attività motoria e sportiva come diritto e occasione di recupero e socialità. La crisi pandemica ha portato all’interruzione di molti programmi di attività che però, finalmente, stanno ora riprendendo il via. Come accade a Brescia, dove il Comitato Uisp ha una lunga storia di collaborazione con le carceri del territorio, Verziano e Nerio Fischione. “Le iniziative realizzate dall’Uisp Brescia all’interno delle carceri hanno una lunga tradizione e risalgono alla metà degli anni ‘80 - dice Paola Vasta, presidente Uisp Brescia - l’obiettivo rimane quello di offrire la possibilità di attività ricreative ed educative, come forma di socializzazione e strumento di relazione, anche mettendo in comunicazione la realtà del carcere con l’esterno, favorendo le relazioni anche con il tessuto sociale cittadino” “Sono ormai tanti anni che entriamo nelle carceri bresciane - racconta Luciano Ungaro, responsabile arbitri Uisp Brescia e coordinatore del calcio in carcere - con i nostri tornei di calcio per gli uomini e con varie attività sportive e ricreative per le donne. A Verziano siamo fermi da febbraio 2020 e sabato 5 novembre torniamo a giocare a calcio a 7 con la prima Coppa d’autunno. In campo due squadre di detenuti e due esterne, nel carcere entreranno circa 30 giocatori provenienti da società Uisp che militano nel nostro campionato, ma anche semplici appassionati”. Il secondo appuntamento è in programma sabato 19 novembre con la prima Coppa d’inverno, in campo ancora due squadre interne e due esterne, tra cui una di giovani migranti, i Sans papiers. Infine, il 3 dicembre ci sarà un’altra giornata di incontri, mentre il campionato vero e proprio, con un solo girone e 6 squadre esterne, si giocherà a febbraio 2023. “Saremo in campo fino a inizio giugno quando ci saranno finali e premiazioni: in quella giornata potranno entrare all’interno del carcere anche i familiari dei detenuti, infatti a Verziano gli spazi sono ampi e permettono maggiore libertà di movimento e organizzazione”. Al Nerio Fischione le attività sono iniziate giovedì 3 novembre con il 56° Torneo di calcetto, cui partecipano 8 squadre di detenuti. Il torneo terminerà l’8 dicembre, ma in questo caso in forma più raccolta: “Al Fischione giochiamo nella piazza in cui i detenuti fanno la camminata nell’ora di libertà, è uno spazio di passaggio, quindi dobbiamo essere più ordinati e veloci”. In questi due anni di pandemia, le uniche attività realizzate dall’Uisp sono state due tornei interni svolti al Nerio Fischione a dicembre 2021 e maggio 2022: “I detenuti l’hanno chiesto alla direzione ed io mi sono reso disponibile per renderlo possibile, facendo grande attenzione alla sicurezza, e concedere loro almeno qualche ora di svago”. Inoltre, negli anni l’Uisp Brescia ha organizzato anche diversi corsi per arbitri all’interno di Verziano: “I partecipanti il lunedì sera uscivano con i nostri volontari per andare a dirigere le gare Uisp, due di loro sono rimasti nel nostro comitato una volta scontata la pena. Per il futuro spero di poter organizzare nuovi corsi, per fornire a queste persone un’occasione di ripartenza per quando torneranno in libertà”, conclude Ungaro. Le mille voci del pacifismo di Emanuele Giordana e Massimo Franchi Il Manifesto, 6 novembre 2022 La Pace non Russa. Più di 100 mila sfilano a Roma fino a piazza San Giovanni: “Diversi ma uniti, la fraternità unica arma per battere chi vuole la guerra”. “Vorrei dire al Viminale che oggi qui ci sono più di cinquanta persone radunate”. La battuta la fa Maurizio Landini. Intervento che strappa una risata e chiude la manifestazione per la pace di ieri a Roma. Più di 100mila persone da tutta Italia sono arrivate in treno, autobus, auto in piazza della Repubblica dove la coalizione “Europe for Peace” ha chiamato a raccolta un movimento ampio e persino disomogeneo (tanti i fischi al Pd di Enrico Letta) ma che ha rilanciato la partecipazione come sasso lanciato nello stagno melmoso della rassegnazione della società italiana. Un movimento che si impone chiedendo a gran voce negoziato subito, cessate il fuoco, Conferenza di pace sulla guerra ucraina. La piazza, a pochi passi dalla stazione, si riempie subito. E verso l’una muove i primi passi con puntualità svizzera. Ma la testa di un corteo lungo chilometri parte solo alle 13.15 quando arriva Gualtieri, il sindaco di Roma, e un funzionario di polizia dà luce verde: “Ora - dice alle pattuglie nel microfono - c’è pure il sindaco e si può partire”. La testa del corteo, un tripudio di bandiere che rappresentano un po’ tutte le sigle che hanno organizzato la manifestazione, imbocca via Cavour con lentezza. E bisogna aspettare due ore perché gli ultimi di piazza della Repubblica, con uno striscione bianco con la parola pace in molte lingue, possano partire in marcia. La testa intanto è già arrivata a San Giovanni, una piazza molto ampia che fatica a contenere il “popolo della pace”. Un popolo variegato, che ha aderito alla piattaforma di “Europe for Peace” ma non rinuncia però ai suoi cartelli e ai suoi distinguo. Come sulla vicenda delle armi a Kiev, capitolo divisivo e che nella piattaforma non c’è. Ma non c’è nemmeno un clima da buttafuori in un corteo che sembra voler ricordare altre tempi. Nessuno fa questione nemmeno a una bandiera del Pci nuova di zecca, ben diversa da un vecchio stendardo del Psi un po’ stazzonato col sole nascente e la falce e il martello. Il corteo parte sulle note di Bella Ciao e subito si nota la presenza forte della Cgil che marcia nelle prime file e che dimostra lo sforzo organizzativo del sindacato in tutta Italia: metalmeccanici, ferrovieri, pensionati, consigli di fabbrica. Fa strano vedere il mitico “servizio d’ordine” della Cgil scortare il primo striscione sorretto da boyscout. Seguono le bandiere dell’Unione degli universitari, uno dei rari spezzoni a forte componente giovanile. Poi il Movimento non violento, l’associazione delle Ong italiane, Mir, Libera. Seguono le Acli, presenza forte con molti palloncini e bandiere bianche seguite da quelle blu di Sant’Egidio. In mezzo c’è Banca Etica. Dopo Legambiente arriva il camion dell’Arci, una gigantografia di Guernica circondata da palloni rossi. Sono già le tre meno un quarto e manca ancora un bel pezzo al resto del corteo ancora bloccato in Piazza Repubblica. Arriva Emergnecy e poi l’Anpi. E in mezzo ci sono le rappresentanze di chi soffre altre guerre: bandiere palestinesi ma anche iraniane. C’è un gruppo di Hazara, comunità perseguitata in Afghanistan, e un gruppo di birmane dell’associazione Italia-Birmania. Tra loro, come sempre, non mancano le suore. La loro presenza dà il senso di una solidarietà richiamata nella piattaforma di Europe for Peace con le vittime di “tutte le guerre”. Il premio al miglior striscione va allo slogan pro-immigrati: “La miglior difesa è l’attracco”. La polizia resta una presenza discreta. Proprio come se Landini il suo messaggio l’avesse davvero mandato al Viminale. Un gruppetto di agenti a viso scoperto si mette in posa per l’obiettivo di un fotografo del National Geographic. Si dà da fare la polizia locale e il corteo arriva a San Giovanni puntuale per i discorsi di chiusura. Sono una decina e durano solo pochi minuti tranne gli ultimi tre. Al microfono si alternano per tre minuti, scelta oculata anche se risalta una modesta presenza femminile, a parte Lisa Clark (Ican), Raffaella Bolini (Arci), Rossella Miccio (Emergency) e Francesca Giuliani che legge la piattaforma. Carico di tensione il racconto di Nicolas Marzolino (Vittime civili di guerra-Anvcg), mutilato da un ordigno inesploso. Un grazie alla piazza lo danno Flavio Lotti della Tavola della pace e Francesco Scoppola, capo scout dell’Agesci. Gianpiero Cofano ricorda la presenza costante in questi mesi delle carovane di StopTheWarNow. Giuseppe De Marzo (Forum Numeri Pari) aggiunge che “non c’è pace senza giustizia sociale e diritti” mentre Gianfranco Pagliarulo (Anpi) ricorda la presenza di atomiche a Ghedi e Aviano. Scalda la piazza don Luigi Ciotti con un intervento nel quale la retorica è usata per lanciare concetti innovativi. “Noi siamo qui perché abbiamo la malattia della pace, per cercarla sono necessari conflitti nella nostra coscienza, una coscienza inquieta di dubbi, non di certezze. Sono i dubbi che aprono le porte al confronto, al dialogo: diffidate di chi ha troppe certezze. Noi dalla politica aspiriamo ad avere meno solidarietà e più giustizia sociale. Occorre pensare la pace per renderla possibile: si costruisce anche dal linguaggio, oggi ha troppa ferocia. I veri costruttori di pace sono i medici, le Ong, i religiosi che portano il vangelo non come credo ma come strumento di dialogo, i giovani che coltivano la terra sottratta alla mafia, le donne dell’Iran”. Il fondatore di Libera conclude con due proposta: “Chiediamo una legge per creare il Dipartimento della difesa non violenta e un’opzione fiscale: se sei per la pace puoi destinare il tuo sei per mille a chi lavora per la pace”. Sul palco c’è una strana coppia: fianco a fianco ci sono il fondatore di Sant’Egidio Andrea Riccardi con Maurizio Landini, l’unico con cravatta. Anni fa si sarebbe detto: il diavolo e l’acqua santa. Andrea Riccardi prende il testimone stupito dalla piazza che ha davanti: “La pace deve essere possibile per l’Ucraina violentata dalla Russia. Ma la pace è stata archiviata da troppo tempo forse perché noi europei l’abbiamo data per scontata, forse perché è scomparsa la generazione che ha subito la Seconda guerra mondiale e la Shoah. Sento parlare di “pace come tradimento”, invece si tradisce la pace se la si considera in questo modo. La pace è impura, come ha detto il presidente Macron, perché nasce dalla guerra che è la cosa più sporca. Quella in Siria, che ancora continua, è stata la prova generale di quella ucraina. Oggi le guerre cominciano e mai finiscono e così i popoli si spengono: non lasciamo che il popolo ucraino si spenga”. Lancia una proposta: “Apriamo corridoi per chi vuole abbandonare la Russia”. Conclude il suo intervento rilanciando l’appello del papa per una “vera trattativa”: “La pace non è debolezza, la pace è di tutti: siate audaci”. Il comizio finale tocca a Maurizio Landini, l’uomo che più ha mediato per allargare al massimo la manifestazione. “Siamo più di 50 ma non siamo pericolosi”, scherza pensando al decreto Rave del governo ma poi il segretario della Cgil che parla “a nome del movimento sindacale” diventa subito serio: “Noi non vogliamo rassegnarci alla guerra, il mondo non può vivere senza la pace: non è retorica avendo alle spalle il ‘900. Ci sono sommergibili nucleari in giro per il Mediterraneo, l’uomo sta mettendo a rischio la sua stessa esistenza”. Per Landini “ora è il tempo della politica”. “La bellezza di questa piazza è l’unità, l’aver messo assieme tante diversità, questa è la piazza della fraternità”. Poi arriva l’attacco a Calenda e Renzi: “Non hanno capito assolutamente nulla, non siamo equidistanti, siamo contro chi ha voluto questa guerra e difendiamo il popolo ucraino. Dopo 8 mesi se non riparte la diplomazia rischiamo una guerra nucleare”. Poi torna sindacalista: “Il mondo del lavoro sta pagando sulla sua pelle questa guerra: aumentano le diseguaglianze e i poveri. Per questo non siamo utopisti ma, nel chiedere la pace, i più realisti”. Lancia richieste precise: “Ratifica del trattato dell’Onu per eliminare le armi nucleari e gli investimenti in armamenti”. Poi rilancia guardando al futuro: “Dobbiamo rivolgerci alle altre capitali per una manifestazione internazionale per la pace”. E alla piazza dice: “Non so come chiamarvi: compagni, amici, fratelli. Non ci fermeremo finché non ci sarà la pace e il popolo ucraino potrà vivere in pace sulla propria terra”. Centomila a Roma per dire sì alla pace. Derby delle sinistre di Concetto Vecchio La Repubblica, 6 novembre 2022 L’assenza del centrodestra. Il feeling dei manifestanti col capo del M5S Conte. Alcuni contestano il leader dem Letta: “Guerrafondaio, basta armi”. Ci sono tante sinistre in questo corteo che reclama la pace, ma sono molto diverse e infatti marciano da separate in casa. Centomila persone. Corteo imponente. Il primo nazionale dall’inizio della guerra in Ucraina a febbraio è lo specchio di quel oggi è il centrosinistra. Niente bandiere di partito. Niente discorsi dei leader. La destra grande assente. “Crosetto non si azzardi a decidere un nuovo invio di armi senza un confronto in Parlamento”, avvisa Giuseppe Conte. “Stia sereno”, replica il ministro della Difesa. “Il ministero seguirà le leggi come ha sempre fatto dalla istituzione in età repubblicana”. Enrico Letta precisa la linea: “Vaglieremo la proposta del governo quando arriverà il decreto sull’invio di armi. Lavoreremo in continuità con quello che si è fatto e in linea con le alleanze europee e internazionali di cui facciamo parte”. “Dov’è Conte?” chiede un signore. “Laggiù, sotto la bandiera di Berlinguer, attorniato dalle telecamere”. Alle 12,30 il leader M5S è in piazza Esedra, piazzato dietro lo striscione “Dalla parte della pace”, compiaciuto di attirare su di sé l’attenzione. Con lui grillini vecchi e nuovi, Taverna, Bonafede, Sarti, Castellone, Floridia, Silvestri, Patuanelli. “Conte!” “Conte!”, gridano i militanti giunti con gli autobus dal Sud. Anche il signore si fa largo nella ressa, vuole un selfie. “Presidente, sia intransigente!”, lo precede una ragazza. L’elegantissimo Giuseppe Conte - giacca e lupetto - le dà un buffetto sulla guancia. “Non vi deluderò”, risponde con aria da attore. “I giovani sono con voi”, gli assicura la donna. E Letta, dov’è? “Non c’è ancora”, dicono un po’ imbarazzati quelli del Pd. La nutritissima pattuglia parlamentare ha trovato posto più avanti, in via delle Terme di Diocleziano, tra le Acli e Sant’Egidio, due associazioni cattoliche amiche. Gianni Cuperlo dice che lui è arrivato alle undici. “Sono un vecchio militante, e la piazza la capisci all’inizio. L’ho girata tutta e non ho trovato ostilità. Certo, le differenze ci sono, ma è un movimento vero. Trovo fuoriluogo che Calenda che l’abbia definita “della resa”. Una signora molisana avvicina Cuperlo. Lo chiama “presidente!” - l’Italia è il Paese dei presidenti - e gli chiede una foto ricordo. Graziano Delrio racconta che quelli di Articolo Uno gli hanno chiesto di marciare con loro, “aspettate un mesetto e vengo con voi”, gli ha risposto per scherzo. Piero Fassino fa notare a Cuperlo che davanti a loro sventola la bandiera anarchica, i ragazzi di sant’Egidio gridano “pace subito!”, da Bologna si è presentato il governatore Stefano Bonaccini: “Sarà compito del nuovo segretario provare a fare dialogare le varie opposizioni che sono qui, altrimenti la destra governerà per i prossimi vent’anni”. È tutta una contraddizione, in effetti. Pierluigi Bersani sta facendo delle foto ricordo con alcuni militanti proprio mentre alle sue spalle i Carc espongono lo striscione con la scritta “Cacciare la Nato dal governo del Paese”. Spuntano gli ex girotondini Pancho Pardi e Paolo Flores d’Arcais. Pardi sventola una bandiera ucraina, “l’ha cucita mia moglie”, e nel silenzio generale comincia a urlare nel megafono: “Putin go homeeeee!”. Poi il corteo si muove con molta lentezza. Fa freddo. Roma autunnale. Età media piuttosto alta. Bandiere arcobaleno. Cosa chiedono? Lo stop alle armi e che l’Italia, l’Unione Europea e gli stati membri, le Nazioni Unite “si assumano le responsabilità di un negoziato”. Un signore urla a un altro: “Me so fatto ventotto mesi de carcere per essermi rifiutato di fare il militare, tu non mi dici che io qua non ci posso stare”. Si canta “Bella ciao” e “El pueblo unido, jamás será vencido”. Tra lo spezzone del Pd e quello del M5S c’è di mezzo un oceano arcobaleno: l’Arci, il Banco del mutuo soccorso, le commoventi donne iraniane che gridano “Donna, vita, libertà!”, Emergency, il tavolo cremonese per la pace, la sinistra anticapitalista (“No Putin, no war no Nato”), la Cgil, l’Udu, Greenpeace, l’Anpi, da Cagliari a Udine. Bisogna camminare parecchio. Le due principali forze si tengono a distanza anche qui, ed ecco spiegato il dramma italiano. Con l’Anpi cammina anche Sergio Cusani, ci sono Michele Santoro, don Ciotti, Roberto Giachetti a nome del Terzo Polo. Le donne ucraine della parrocchia Santa Sofia urlano “Russi fascisti”; un tizio inalbera uno striscione in cui invece dà dei fascisti a chi invia le armi. La torcida meridionale del M5S ogni tanto intona “Conte!”, “Conte!”. Conte enormemente compiaciuto fa di sì con la testa. E Letta? Entra nel corteo alle 15,15, all’inizio di via Merulana. Scambia qualche parola con il leader della Cgil Landini. Solo due signori rompono il clima di civile convivenza. “Guerrafondaio!” “Servo degli americani”, gli dicono. Una signora prova a calmarli: “State ad esagerà, s’è pure dimesso!”. Il corteo imbocca via Cavour, poi via Merulana piena di foglie secche, gira in via Manzoni, e a quel punto i primi raggiungono piazza San Giovanni, troppo piccola per contenerli tutti: per la questura erano 40mila. “Una manifestazione così fa sempre bene alla democrazia”, commenta Fassino. “C’era tanta gente nostra”, assicura Francesco Boccia. Marco Tarquinio, direttore di Avvenire, uno delle anime della marcia, è raggiante. “Hai visto? Fantastico!”, dice a Piefrancesco Majorino del Pd milanese. “Questa è un’Italia che non ha rappresentanza, né rappresentazione, e invece oggi se l’è data”, spiega il giornalista. Affiorano le prime ombre della sera. Landini dal palco dice che “ora è il tempo della politica”, per don Ciotti occorre diffidare dei neutrali, “questa è la maggioranza silenziosa”, assicura Conte. Lui e Landini si stringono la mano. La piazza canta Bella ciao. “Con Letta vi siete incontrati?”, chiediamo a Conte, alle prese con gli ultimi selfie. “No”, dice con esibita fierezza. Migranti. Il Viminale insiste: “Conta lo Stato di bandiera”. Le Ong: “Violate la legge” di Francesco Grignetti La Stampa, 6 novembre 2022 Quattro navi al largo della Sicilia, Piantedosi: non deflettiamo da questo principio. Il governo è ormai deciso al muro contro muro sulla questione dei migranti. Le quattro navi umanitarie sono entrate o sono sul punto di entrare nelle nostre acque territoriali, ma l’autorizzazione, temporanea ed esclusivamente per fini “umanitari” concessa alla Humanity 1 sarà allargata alle altre. Il principio è che tutte le navi umanitarie che strutturalmente fanno il pattugliamento del Mediterraneo non sono gradite. Alle navi sarà cioè concesso di arrivare per fare uno screening tra soggetti “fragili” e non; poi dovranno sgomberare al più presto. In sostanza, il ministro Matteo Piantedosi contesta l’ordinaria interpretazione della Convenzione sul Mare, quella che impone di indicare un porto sicuro a chi vuole sbarcare dei naufraghi. Il ministro la spiega così: “Non intendiamo deflettere dal principio che c’è una responsabilità dello Stato di bandiera”. E ammette: “Siamo consapevoli che i partner non accetteranno in maniera acritica questo principio del radicamento giuridico secondo la bandiera”. Le Ong hanno già risposto che questa nuova posizione italiana va contro tutte le Convenzioni internazionali. “È illegale”, dice la Ong tedesca Humanity, che nella notte arriverà a Catania. Dichiara Juan Matias Gil, Medici senza frontiere: “L’unica soluzione è lo sbarco al più presto in un luogo sicuro. Stiamo aspettando da oltre 10 giorni per i 572 sopravvissuti a bordo”. Secca anche la posizione di Open Arms: “I naufraghi soccorsi sono tutte persone vulnerabili e hanno tutte diritto a sbarcare come stabilito dalla legge. Questo è un respingimento ed è vietato dalla Convenzione di Ginevra e dalla nostra Costituzione”. Puntuale e attesa, è arrivata però la risposta sprezzante del ministro Matteo Salvini: “Lezioni da una Ong tedesca l’Italia non ne prende, grazie. Berlino vi aspetta”. E mentre si profilano gli ennesimi ricorsi davanti alla magistratura, per il governo è già importante avere aperto il caso diplomatico in Europa. “Questo principio è di difficile attuazione nel rapporto con gli altri Paesi - dice ancora Piantedosi -, questo governo ha il merito di aver posto la questione e di aver cominciato a registrare qualche apertura alla discussione. Non voglio dire che sarà accettato domattina dai nostri partner europei, però la giornata di ieri (venerdì, ndr) ci ha dimostrato, con le interlocuzioni che hanno avuto il presidente del Consiglio e il ministro degli Esteri, che si è registrata una discussione che noi volevamo riattivare”. Intanto il mare si fa sempre più agitato. A bordo delle quattro navi umanitarie ci sono mille persone. E il braccio di ferro che il governo Meloni vuole ingaggiare in Europa passa anche sulla loro pelle. Il ministro dell’Interno lascia trapelare che alla fine qualcosa succederà: “Siamo consapevoli - dice - che sono discussioni che non si attuano con azioni di forza illimitate, e men che meno a scapito di persone in condizioni di fragilità”. La questione è diventata anche politica. Sono in tanti a sinistra a chiedere di sbloccare lo stallo. Dice ad esempio Matteo Orfini, Pd: “Il decreto di Piantedosi su Humanity 1 non rispetta le norme internazionali”. Il deputato Aboubakar Soumahoro, Verdi e Sinistra italiana, è a Catania e vuole salire a bordo “da persona che rifiuta l’indifferenza, resiste alla disumanità, e da deputato che onora i valori della Carta”. Anche Sant’Egidio si appella alle convenzioni: “In questa situazione confusa chiediamo che prevalga il buon senso e si autorizzi almeno lo sbarco delle donne gravide, dei bambini e dei fragili”. E Maurizio Landini, il segretario della Cgil, strappa così l’applauso alla oceanica folla dei pacifisti di Roma: “Chi scappa dalla guerra e dalla fame è un nostro fratello e non c’è colore di pelle che tenga. È inqualificabile che non si aiutino quei ragazzi e quei bambini, quelle persone che sono sulle navi nel Mediterraneo. È inaccettabile” Migranti. Via alle ispezioni delle navi Ong di Carlo Lania Il Manifesto, 6 novembre 2022 Si comincia con la Humanity One, a terra solo le persone malate. Potrebbe avvenire al più tardi questa mattina (ma non è escluso durante la notte) la prima ispezione a bordo della nave Humanity One per verificare la presenza di migranti in precarie condizioni di salute, i soli ai quali verrebbe permesso di sbarcare a terra. A comunicarlo è stato ieri sera il Viminale con una nota che dava per imminente il sopralluogo a bordo - dove si trovano 179 persone, tra le quali cento minori e un neonato di sette mesi - di personale specializzato. In questo modo il governo dà seguito alla procedura varata dal ministro Piantedosi per proseguire il doppio braccio di ferro avviato dal governo sia con le navi delle ong che con l’Europa. Ieri due persone, una donna originaria della Guinea e un uomo della Costa d’Avorio, sono state evacuate da un’altra nave, la Rise Above della ong tedesca Mission Lifeline e trasferite all’ospedale Umberto I di Siracusa. Bisogna vedere adesso se la strategia di intervenire soltanto sui migranti cosiddetti “fragili”, si rivelerà vincente oppure no per il governo. Piantedosi, al termine di un vertice tenuto in prefettura a Milano, ha nuovamente rivendicato la decisione di vietare l’approdo alle quattro navi con più di mille migranti che da settimane chiedono inutilmente un porto sicuro. “Questo governo ha il merito di aver cominciato a registrare qualche apertura alla discussione” da parte dei partner europei, ha detto. Niente marce indietro, dunque, ma “senza venir meno agli obblighi di natura umanitaria”. Quello di cui nessuno sembra però tener conto è che le condizioni psicologiche e sanitarie a bordo non solo della Humanity One, ma anche della Ocean Viking, della Geo Barents e della Rise Above, le altre tre navi in attesa, si complicano ogni ora in più passata in mare, rendendo così di fatto impossibile l’assurda “selezione” tra sani e bisognosi di cure. “Tutti i 179 sopravvissuti a bordo sono persone salvate da un’emergenza in mare, sono fuggiti dalla Libia dove sono stati esposti a violazioni dei diritti umani come la tortura. In quanto rifugiati sono in stato vulnerabile, alcuni di loro visibilmente traumatizzati: hanno bisogno di cure mediche e psicologiche” ha spiegato l’ong Sos Humanity, aggiungendo che il comandante della nave ha ricevuto il provvedimento, firmato da Piantedosi con il ministro delle Infrastrutture Salvini e quello della Difesa Crosetto, che impone alla nave di sostare nelle acque territoriali italiane solo il tempo necessario alle operazioni di soccorso e assistenza. Dopo di che dovrà prendere il largo con i migranti rimasti a bordo in attesa secondo il governo che la Germania, Paese di bandiera della Humanity One, si assuma la responsabilità del suo carico umano. La ong intanto si prepara a una battaglia legale imperniata sul fatto che quanti si trovano a bordo delle navi umanitarie debbano essere considerati rifugiati e non migranti. “I decreto del ministro dell’Interno italiano è illegale”, ha detto ieri la legale della ong, Mirka Schafer. “Respingere i rifugiati al confine italiano viola la Convenzione di Ginevra e il diritto internazionale”. Tutte le persone che si trovano a bordo delle navi delle ong, ha aggiunto, “hanno bisogno di protezione. L’Italia è obbligata a lasciare che tutti i sopravvissuti scendano a terra immediatamente”. Per il giurista, avvocato ed esperto di diritti umani Fulvio Vassallo Paleologo, invece, il decreto del governo che impone una sosta temporanea alle navi delle ong conterebbe un errore già nella sua premessa: “Cita il Regolamento europeo 1624 del 2016 che è stato abrogato nel 2019 - spiega Paleologo - e non fa, invece, riferimento al Regolamento 656 del 2014 che invece richiama in modo cogente gli obblighi di soccorso a carico degli Stati previsto da Diritto internazionale”. Intanto le navi delle ong proseguono la loro navigazione. A parte la Ocean Viking, rimasta al di fuori delle acque territoriali italiane, come la Humanity One anche la Geo Barents e la Rise Above si trovano a poche miglia dalle coste siciliane in attesa di sapere dove dirigersi. Altre due imbarcazioni non di ong, con a bordo complessivamente, 147 migranti e due cadaveri, sono arrivate nel porto di Augusta, nel Siracusano. Si tratta della Jean Francois Deniau, dell’assetto Frontex, che ha soccorso 88 persone, e della petroliera Zagara che, in due operazioni, ha messo in salvo 59 migranti, recuperando anche due corpi. Migranti. Il naufragio a processo di Giansandro Merli Il Manifesto, 6 novembre 2022 In un solo caso per i soccorsi nel Mediterraneo sono alla sbarra due ufficiali dello Stato. Martedì la sentenza. L’11 ottobre 2013 si ribaltò un barcone: 268 morti, tra cui 60 bambini. Martedì prossimo il tribunale di Roma deciderà se il “naufragio dei bambini” che l’11 ottobre 2013 costò la vita a 268 persone, tra cui 60 minori, ha dei responsabili oppure no. È l’unico processo penale sul Mediterraneo in cui alla sbarra non ci sono trafficanti, migranti alla guida di barconi oppure Ong, ma funzionari dello Stato italiano. Sul banco degli imputati siedono gli ufficiali Luca Licciardi e Leopoldo Manna. Al tempo dei fatti erano, rispettivamente, comandante della sezione operazioni reali correnti di Cincnav, il Comando in capo della squadra navale della marina militare, e responsabile della sala operativa della guardia costiera. Sono stati rinviati a giudizio per rifiuto di atti d’ufficio e omicidio colposo. La notte del 10 ottobre di nove anni fa, intorno a Lampedusa si cercavano ancora i cadaveri del grande naufragio che una settimana prima era costato la vita a quasi 400 persone. 278 chilometri più a sud, intanto, un peschereccio si lasciava alle spalle le coste libiche di Zuara. Stracarico di migranti. La prima richiesta di soccorso da bordo parte alle 12.26: un telefono satellitare chiama il centro di coordinamento del soccorso marittimo italiano. Il barcone è stato raggiunto da una raffica di mitra poco dopo la partenza, lo scafo imbarca acqua e ci sono dei feriti. Le autorità italiane individuano, attraverso i sistemi della società di telecomunicazioni Thuraya, la posizione. È a una sessantina di miglia da Lampedusa e circa al doppio da La Valletta, ma l’area di responsabilità per la ricerca e il soccorso è quella maltese. Nelle vicinanze si trova la nave militare italiana Libra. Alle 13.05 Malta dice di assumere il coordinamento del caso, alle 14.35 lo formalizza per iscritto. Per tre ore i migranti a bordo continuano a chiedere aiuto. Da Roma gli viene ripetuto: rivolgetevi a La Valletta. Questa manda un assetto aereo sulla scena solo dopo le 16. Alla guida c’è il pilota George Abela che per primo avvista l’imbarcazione: “overcrowded and unstable”, sovraffollata e instabile. Dopo quella missione il militare si dimetterà per l’impotenza provata di fronte a centinaia di persone che annegavano e l’”inutilità” dell’azione delle forze armate. Alle 16.22 Malta invia un fax alla guardia costiera italiana in cui chiede l’impiego della nave Libra. Alle 17.05 il barcone si ribalta. A quel punto la Libra riceve l’ordine di raggiungerlo. Una decina di minuti più tardi di farlo a tutta velocità. Nelle ore precedenti la nave, condotta dalla comandante Catia Pellegrino, è stata lasciata a ombreggiare il target: cioè a seguirlo a distanza senza far percepire la propria presenza. Evitando anche di farsi trovare sulla rotta dei maltesi. “Non deve farsi vedere altrimenti tornano indietro”, dice Licciardi in una telefonata acquisita agli atti in cui dice alla Libra di allontanarsi dal barcone. Durante il processo l’ufficiale sosterrà che voleva evitare di intralciare le operazioni di una motovedetta partita da Malta. Il procedimento ha origine dagli esposti presentati alla procura di Palermo da Jammo Mohanad, Wahid Hasan Yousef e Hashash Manal (tre dei sopravvissuti alla strage in cui hanno perso figli e mogli) e ai pm di Agrigento dal giornalista Fabrizio Gatti. Un ruolo importante il suo anche per il determinato lavoro di inchiesta giornalistica, con numerosi articoli e il documentario “Un unico destino”. Le indagini aperte dalle procure siciliane sono trasferite per competenza a Roma, dove i pm chiedono l’archiviazione di tutte e sei le persone originariamente indagate. Il Gip Giovanni Giorgianni, però, distingue due diverse fasi della vicenda con il fax delle 16.22 a fare da spartiacque tra un prima, caratterizzato dall’assunzione del coordinamento da parte dei maltesi, e un dopo, in cui La Valletta richiede l’impiego della Libra. Il 10 novembre 2017 dispone, per questo secondo momento, l’imputazione coatta di Manna e Licciardi e un supplemento di indagini sulla comandante Pellegrino, a cui il pilota dell’aereo avrebbe inviato via radio delle richieste dirette di intervento. Tre anni dopo iniziano le udienze presso il tribunale della capitale. Durante il dibattimento le difese degli imputati hanno insistito su due argomenti principali: Malta coordinava il caso; fino al ribaltamento del gommone non si trattava di un evento Sar (search and rescue). Di fatto, e nonostante le varie richieste di aiuto e le comunicazioni sulla presenza di feriti a bordo, il caso è stato considerato un evento di “immigrazione clandestina” fino al suo sviluppo più drammatico. Il 4 ottobre scorso i pm hanno, anche stavolta, chiesto l’assoluzione degli imputati: “il fatto non sussiste”. Dello stesso avviso le avvocature dello Stato. Nella sua requisitoria il procuratore aggiunto Sergio Colaiocco ha negato che si tratti di un processo ai responsabili del naufragio, perché questi sono i trafficanti di uomini. Per i pubblici ministeri tutte le procedure sono state rispettate. Hanno anche sottolineato come sia impossibile calcolare con precisione il numero di morti e stabilire se una condotta differente della Libra, relativamente al lasso di tempo a processo, avrebbe potuto salvare delle vite. Di parere opposto gli avvocati delle parti civili, cioè i parenti delle vittime ammessi al dibattimento. “Perché quando arriva il fax da Malta non mandiamo subito la Libra e la marina risponde “vi faremo sapere”? O c’è un problema di sicurezza nazionale, che durante il processo non è emerso, o la nave si deve inviare immediatamente”, ha affermato in aula l’avvocato Stefano Greco. I suoi colleghi hanno insistito sulla contestualizzazione di quel fax, che non arriva come un fulmine a ciel sereno ma dopo numerose richieste di aiuto. Hanno anche contestato i tecnicismi procedurali delle difese sostenendo che la tutela della vita umana non è stato il fattore preminente dell’azione degli imputati. “Quanto è successo ha un movente politico”, ha sostenuto l’avvocata Alessandra Ballerini, che attribuisce ritardi e rimbalzi di responsabilità alla volontà di far sbrigare la vicenda a Malta (che per il naufragio non ha portato nessuno davanti al giudice). Anche in caso di condanna, comunque, i reati contestati andranno in prescrizione 12 giorni dopo la sentenza, che è di primo grado. Si aprirebbero però le porte a possibili richieste di risarcimento danni in sede civile. In ogni caso si scriverà una pagina significativa per quanto accade lungo la rotta migratoria del Mediterraneo centrale e in particolare in quel tratto di mare più vicino a Lampedusa ma nell’area di responsabilità maltese. Dove invece della cooperazione tra stati sembra valere una gara allo scaricabarile. Malta, infatti, assume raramente il coordinamento degli eventi Sar e tende a intervenire solo in casi rarissimi, limitando l’interpretazione di “imbarcazioni in difficoltà” (distress) solo ai mezzi alla deriva. Ha anche coordinato veri e propri respingimenti illegali in paesi come Libia o Egitto. L’Italia, dal canto suo, ha smesso quasi completamente di intervenire fuori dalla propria zona Sar, che a sud di Lampedusa coincide quasi con le acque territoriali. Nell’ultima puntata del documentario sul naufragio “Un unico destino” il dottor Ayman Mostafa, che ad Aleppo era primario di una clinica privata e nella tragedia ha perso moglie e figlia, si rivolge agli ufficiali chiedendo: “Perché non siete venuti prima?”. Quella stessa domanda continua a passare di bocca in bocca tra madri, padri, figli, amici delle persone che ancora oggi sono inghiottite dal mare. Nell’Egitto liberticida, le mancate promesse del nord del mondo di Daniela Passeri Il Manifesto, 6 novembre 2022 Cop27. Oggi al via nel paese nordafricano la Conferenza Onu sul clima: si apre con i (pochi) soldi mai erogati dai paesi ricchi per frenare i cambiamenti climatici. Divisioni anche dentro la Ue. Responsabilità, giustizia climatica e soldi (pochi) promessi e mai erogati. Al tavolo della Cop 27, la Conferenza delle parti delle Nazioni unite sul clima in programma da oggi al 18 novembre a Sharm el-Sheikh (Egitto), i paesi ricchi e industrializzati siedono sapendo di non aver onorato le promesse di finanza climatica nei confronti del Sud del mondo. Di fronte, avranno paesi in via di sviluppo che nutrono la legittima aspettativa di farsi aiutare ad affrontare gli impatti di una crisi di cui non sono affatto responsabili. Sulla discussione pesano i quattromila miliardi di dollari di profitti (stima del Guardian) incassati in questo 2022 dall’industria fossile globale, che fanno sembrare briciole i 100 miliardi di dollari l’anno di finanza climatica per investimenti in energie rinnovabili e per affrontare gli impatti del clima, fondi promessi alla Cop 15 di Copenaghen nel 2009 (una delle più fallimentari nella storia della diplomazia climatica) e solo parzialmente arrivati a destinazione nel 2020, per lo più in forma di prestiti invece che a fondo perduto, aggravando il debito dei paesi più poveri. Oggi scopriamo che 100 miliardi l’anno non bastano: secondo un rapporto Unep (programma ambientale dell’Onu) pubblicato nei giorni scorsi, ai paesi in via di sviluppo di miliardi ne servirebbero almeno 340 ogni anno per affrontare il clima impazzito. Al vertice di Sharm el-Sheikh Giorgia Meloni presenterà lunedì 7 il Fondo italiano sul clima, dotazione di 840 milioni di euro l’anno per cinque anni, messa a disposizione a Glasgow lo scorso anno e ora inserita nella legge di bilancio 2022. Secondo l’inviato speciale per il clima Alessandro Modiano, nominato nel gennaio scorso dai ministri Di Maio e Cingolani, “il governo italiano è deciso a mantenere gli impegni di mitigazione che invece vengono messi in discussione in ambito G20”. Dunque, è più al G20 di Bali in programma il 15/16 novembre che bisognerà guardare per capire che clima farà. Quel tetto di 1,5° C di aumento della temperatura media globale da non sforare, messo nero su bianco nell’Accordo di Parigi nel 2015, non è ancora un dato assodato, ma oggetto continuo di pericolose negoziazioni al rialzo. “Questa Cop deve salvaguardare i risultati ottenuti lo scorso anno a Glasgow, su questo l’Ue non intende arretrare: vista la situazione, sarebbe già un successo. Certo è che il rispetto di questi vincoli implica trasformazioni profonde”, ha ammesso Modiano. Il primo sforzo negoziale della Cop 27 sarà quello di “ricostruire la fiducia - come sottolinea un documento di Greenpeace - tra tutti i governi che devono cooperare e trovare un terreno comune per affrontare l’emergenza climatica che minaccia l’esistenza stessa dell’umanità”. Se il multilateralismo sul clima arranca, quando si affronta il capitolo perdite e danni (loss & damage), cioè strumenti finanziari di compensazione in caso di disastri climatici richiesti dal gruppo G77+Cina, le divisioni emergono anche a livello dei paesi Ue che alla Cop 27 negoziano con un vincolo comune, ma con un fronte per niente compatto e per di più con il pacchetto Fit for 55% ancora da approvare nel merito. Entro il 2050, i danni da mettere in relazione al clima stravolto e in conto ai paesi che ne sono più responsabili, potrebbero ammontare a mille miliardi di dollari, cifra che spiega lo stallo dei negoziati. Intanto, la comunità scientifica non si stanca di ripetere che ogni decimo di grado può fare la differenza per minimizzare i rischi peggiori, visto che il cambiamento climatico è già una realtà, in particolare in Europa dove le temperature sono aumentate il doppio della media globale, come certificato dal sistema satellitare Copernicus dell’Ue. Per stabilizzare l’aumento della temperatura entro 1,5°C, i grandi emettitori di gas serra dovrebbero presentarsi alla Cop 27 con nuovi impegni di riduzione delle emissioni e la rinuncia a nuovi investimenti nell’estrazione dei combustibili fossili, come indicato anche dall’Agenzia internazionale per l’energia nel suo scenario per la decarbonizzazione. Con gli impegni espressi finora dagli stati, e solo se venissero effettivamente tutti rispettati, la temperatura media globale aumenterebbe di 2,5°C entro la fine del secolo, una catastrofe secondo i climatologi. Il metodo “più veloce, più fattibile e più conveniente per limitare il cambiamento climatico e i suoi effetti” sarebbe puntare alla riduzione delle emissioni di metano, come veniva riconosciuto nella dichiarazione finale del G20 di Roma dello scorso anno, a guida di Mario Draghi. Di quell’impegno preso in un primo tempo da Ue e Usa, poi formalizzato a Glasgow e sottoscritto da 125 paesi, noto come methane pledge (impegno per il metano), che comporta il taglio del 30% delle emissioni entro il 2030, non si parla più (“Dobbiamo discuterne con il nuovo ministro”, si è limitato a dire Modiano), mentre fonti Ue ammettono che sarà un obiettivo difficilmente raggiungibile, non solo per il maggiore utilizzo del gas naturale liquido (Gnl) che implica maggiori emissioni, ma anche perché nulla ancora è stato deciso sul fronte della limitazione degli allevamenti che sono tra le maggiori fonti di metano in Europa. Un ulteriore grande interrogativo sulla Cop egiziana riguarda la possibilità per la società civile di parteciparvi ed esercitare il suo ruolo di pressione. Il rischio di tensioni e violazioni di diritti umani è alto: lo sponsor della Cop 27, Coca-Cola, doveva tenerne conto. Il dissidente in sciopero della sete che minaccia la Cop27 di al Sisi: se muore conferenza a rischio di Francesca Caferri La Repubblica, 6 novembre 2022 Oggi al via l’incontro di Sharm el Sheik sul clima. La preoccupazione delle sorelle di Alaa Abdel Fatah, che da una settimana non assume più le 100 calorie al giorno che consentivano la sopravvivenza: “È uno scheletro, solo pelle e ossa”. Un fantasma si aggira sui lavori della Cop27, la conferenza internazionale sul clima che si apre oggi a Sharm el Sheik, in Egitto. Alaa Abdel Fatah è “uno scheletro, solo pelle e ossa”, secondo le parole della sorella alla conclusione dell’ultima visita in carcere: e dopo la situazione è peggiorata ulteriormente. Il più importane attivista egiziano è in sciopero della fame da 215 giorni: da una settimana non assume più le 100 calorie al giorno che gli hanno fin qui consentito di sopravvivere. Da oggi, giorno di apertura della conferenza, rifiuterà anche di assumere liquidi, arrivando alla più estrema delle forme di protesta. Abdel Fatah manifesta in questa maniera contro le condizioni in cui vivono migliaia di detenuti nelle carceri egiziane: privati del diritto di comunicare con famiglie e avvocati, ammassati in celle con condizioni igieniche insostenibili, senza la possibilità di accedere a libri o materiale per scrivere, né di uscire per prendere aria. “Combatte con l’unica arma che gli è rimasta, il suo corpo”, hanno detto le sorelle, Mona e Sanaa, nella conferenza stampa che hanno tenuto a Londra due giorni fa. Una lotta che lo ha trasformato in un’icona per l’intero mondo arabo, e non solo. Perciò il destino di questo ingegnere quarantenne, blogger, anima e cervello della rivoluzione del 2011 in piazza Tahrir, padre di un bambino di dieci anni afflitto da una forma di autismo, non riguarda solo la sua famiglia. Da mesi, il governo britannico fa pressione su al Sisi per ottenere la liberazione dell’attivista, che ha doppia cittadinanza, egiziana e britannica appunto: ma gli appelli personali di Boris Johnson prima e di Liz Truss dopo non sono riusciti a smuovere il presidente egiziano. Insieme a loro, oltre alle maggiori organizzazioni per i diritti umani di tutto il mondo, si sono mosse decine di deputati e senatori americani, il governo tedesco e quelli di altri Paesi del Nord. Due giorni fa quindici premi Nobel per la pace hanno scritto un appello ai leader mondiali perché chiedano la libertà di Abdel Fatah nei discorsi che pronunceranno a Sharm. A inizio settimana, al sit in di Sanaa Seif di fronte al Foreign Office di Londra, è arrivata Greta Thunberg, che proprio lì ha sottolineato l’impossibilità per gli attivisti di tutto il mondo di prendere parte alla conferenza di fronte alle continue violazioni dei diritti umani di cui è responsabile il governo egiziano. Per quanto non ci siano reazioni ufficiali a questi appelli - nei mesi scorsi il Dipartimento di Stato Usa si era detto “estremamente deluso” dall’ultima condanna imposta dai giudici all’attivista, cinque anni per “diffusione di notizie false” - è ben chiaro nelle cancellerie occidentali che se Abdel Fatah morisse i lavori della conferenza potrebbero esserne gravemente danneggiati, se non saltare del tutto. Troppo pesante è la storia di quest’uomo che sul suo corpo ha scelto di riassumere l’ingiustizia a cui sono sottoposti i più di 60mila detenuti politici incarcerati in Egitto, troppo forte l’impronta che il suo pensiero ha lasciato sulla generazione araba che ha vissuto le rivoluzioni del 2011 e che ancora oggi continua ad auspicare un futuro diverso per la regione . “Abbiamo paura che muoia. Lui stesso ci sta preparando alla sua morte. Ma lui e noi andiamo avanti sapendo che Alaa ha già vinto la sua battaglia, a prescindere da come finirà”, fa sapere da Londra la sorella Mona. L’ex detective in missione: “Così abbiamo liberato oltre mille donne afghane” di Armando Di Landro Corriere della Sera, 6 novembre 2022 Per anni all’Interpol in mezzo mondo, oggi gestisce un’agenzia di sicurezza a Singapore: con tre colleghi ha organizzato una missione di intelligence clandestina che ha consentito a 1.029 ragazze di lasciare il Paese e il regime talebano. Come in un film, in un’operazione dei servizi segreti con tanto di infiltrati nei gruppi governativi, rotte e case sicure, satelliti utilizzati per controllare i posti di blocco, contatti tra ex colleghi dentro e fuori le principali organizzazioni di polizia internazionale. Ma qui non ci sono Robert Redford o Brad Pitt in un’operazione “Cena fuori”, né tantomeno emergenti attori in serie tv che ricostruiscono i retroscena di un clamoroso attentato. C’è una storia vera, di gente vera, abituata a maneggiare per lavoro informazioni che scottano. Con un piano clandestino, segreto, l’ex poliziotto italiano Angelo Bani - per anni in servizio all’Interpol in mezzo mondo e oggi titolare di un’agenzia di sicurezza a Singapore - insieme ad altri tre esperti di intelligence, ha portato 1.029 donne afghane a lasciare il loro Paese dopo i fatti di oltre un anno fa, quando tornò il regime dei talebani. Studentesse e atlete liberate, partite verso altri Paesi nel mondo, per poter studiare o fare sport: “For the Education” come sottolinea Tim Ellis, neozelandese e già funzionario al servizio del suo governo, che ha coordinato la raccolta di informazioni durante l’operazione. Ellis, Bani, Jake Winslow, canadese esperto nell’utilizzo dei satelliti, e Carl Fareday, britannico (tra i suoi ultimi incarichi anche la responsabilità della sicurezza per Ineos Uk Team all’America’s Cup). In quattro a comporre una moderna squadra segreta che, tramite Ellis, è stata chiamata in causa ad agosto 2021 dalla ong Ascend (ascendathletics.org), quando 46 ragazze afghane, alpiniste, furono respinte all’aeroporto di Kabul: vietato lasciare il Paese, travolto dal caos e dal regime. Nacquero così i Descend Irregulars (il nome adottato dai quattro): “Ci siamo ispirati alla Special Operation Executive britannica e ai suoi componenti, Baker Street Irregulars, che svilupparono la cosiddetta linea Britannia, per la fuga dai nazisti durante la Seconda guerra mondiale” racconta Bani, che iniziò la carriera da poliziotto in via Fatebenefratelli a Milano, poi nella sua Bergamo, quindi in questura a Roma, prima di dedicarsi all’Interpol in Francia, Iran, India, Afghanistan, Cambogia, Laos, Colombia e Salvador. Oggi il gruppo decide di svelarsi perché ritiene che non ci siano più rischi per la sicurezza. E perché a Wellington, il Professional New Zealand Institute of Intelligence ha riservato ai Descend Irregulars un riconoscimento. Una storia che finora era rimasta materia degli esperti di settore. Ma anche una storia di volontari, che hanno messo alla prova i propri agganci, la propria professionalità, su più piani. Fareday è stato l’uomo sul campo: a Islamabad, in Pakistan, ha individuato le case sicure per un primo approdo delle ragazze in fuga. “Dall’inizio della nostra operazione al viaggio delle prime 46 ragazze - ricorda Bani - sono passati due mesi. Di mezzo c’è stata una preparazione imprescindibile”. Oltre a Fareday il resto del gruppo è stato operativo da remoto: “I dati da verificare e i riscontri da ottenere sono stati molti - prosegue l’ex poliziotto -. Con i satelliti Jake ha verificato lo stato delle principali strade, dei posti di blocco. L’utilizzo dei social e di vecchie fonti, soprattutto da parte mia, è stato ampio”. Non sono mancati contatti con gruppi pro talebani, anche tramite infiltrati sul campo, per esempio in un’accademia militare afghana. Oppure con realtà anti governative. “Anche applicando quelle tecniche in cui la polizia italiana ha fatto scuola, dopo gli anni dei collaboratori di giustizia, per capire se un interlocutore sta dicendo la verità o se qualcosa scricchiola”. La rotta maestra per i viaggi è stata tracciata tra Kabul e Mazar-e-Sherif, per poi varcare il confine con il Pakistan. Altri viaggi sono seguiti al primo, con diverse varianti di percorso. E con camion messi a disposizione dall’Ong oppure tramite autisti contattati dai Descend Irregulars. Dalle aree più torride alle montagne, anche con tratti in mezzo alla neve: in tutto 1.029 giovani donne che hanno lasciato l’Afghanistan da agosto 2021 a maggio di quest’anno. “Una gioia indescrivibile, per noi, l’arrivo delle prime ragazze a Doha, in aereo dal Pakistan”, ricorda Ellis. E la “sensazione di aver fatto qualcosa di buono” per Bani, l’ex poliziotto che ha esplorato il mondo.