Nordio vuole solo nuove carceri? Ecco il buco nero sui milioni già stanziati da anni di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 5 novembre 2022 Bandi milionari nel limbo o finiti nel nulla. Progetti rimasti in sospeso come il carcere moderno di Nola. Buio sui tanti soldi già erogati. Nel frattempo non si parla più delle misure alternative. Il ministro della Giustizia Carlo Nordio, all’uscita delle tre carceri che ha visitato brevemente, ha parlato esclusivamente dell’edilizia carceraria. Nessun cenno sull’esecuzione penale, la detenzione come extrema ratio, le misura alternative. Parlare di nuove carceri, tranne la parentesi Cartabia, è la continuità con i governi scorsi. Milioni già stanziati per il rifacimento dei padiglioni di Poggioreale - Da almeno 20 anni che si opta per il “piano carceri”. Se si vuole davvero mettere mano all’edilizia in maniera pragmatica, allora per iniziare basterebbe mettere in atto ciò che è stato progettato da anni. Milioni già stanziati per il rifacimento di nuovi padiglioni come quello di Poggioreale, oppure il nuovo carcere moderno di Nola che rispecchia i parametri europei e tanto altro ancora. Eppure non si vede alcuna luce. Come mai? Partiamo dal mostro di cemento del carcere di Poggioreale, a Napoli. Nel 2016, l’allora ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio ha trasferito 12 milioni di euro al Provveditorato regionale per le opere pubbliche per far abbattere e rimodernare i 4 padiglioni disastrati di Poggioreale. “Di questi soldi - come denunciò il garante campano regionale dei detenuti Samuele Ciambriello - non è stato speso un euro”. Il bando risulta essere stato aggiudicato ad una azienda, la Sia Srl. Ma non ne sa più nulla. Ad oggi siamo al nulla di fatto. Arriviamo nel 2021 e il ministero delle Infrastrutture del governo Draghi fa indire l’ennesima gara per i lavori di adeguamento dei padiglioni Salerno, Napoli, Genova, Venezia, Italia del carcere napoletano. L’importo dell’appalto è di poco più di 13 milioni. La data dell’atto è 8 giugno 2021, poi prorogato ad agosto e con la durata prevista di 1140 giorni. Storia a lieto fine? Dal portale del ministero delle Infrastrutture, la procedura risulta ancora aperta e non c’è più alcun aggiornamento dal 15 agosto del 2021. Di fatto, i lavori ai padiglioni ancora non sono partiti. Il progetto del carcere di Nola dovrebbe rispondere alle esigenze più avanzate - Sempre solo limitandoci alla regione Campania c’è il nuovo carcere di Nola che ancora non decolla. L’inizio dei lavori è ufficialmente datata nel 2017, ma non ha trovato ancora luce. Il bando è stato vinto dalla Tecnicaer, una azienda operante nel settore della progettazione sanitaria, scolastica, carceraria e delle grandi opere pubbliche. L’area del progetto coinvolge 95.000 metri quadrati. Ed è progettato con l’intento di rispondere alle più avanzate esigenze di gestione penitenziaria attraverso soluzioni architettoniche di avanguardia. Aule e laboratori destinati alla formazione scolastica e professionale, un teatro, un cinema, palestra e piscina, aree all’aperto e campi sportivi. L’obiettivo è di fornire ai detenuti un percorso di vera riabilitazione attraverso lo studio, il lavoro, lo sport e l’arte. L’innovazione riguarderà anche l’energia: prestazioni in classe A4, con sostanziale annullamento del fabbisogno energetico e attribuzione della categoria Nzeb nonché? Carbon Zero. Nola e? una struttura impattante che rende più flessibili e sicuri gli spazi e che agevola il fine rieducativo della pena. È esattamente il modello Norvegese, come ad Halde dove le finestre non hanno sbarre, non ci sono torrette di sorveglianza, fili spinati o recinzioni elettriche. Non ci sono neanche telecamere; né nei corridoi, né nelle camere, nelle aule o nei laboratori. Gli agenti non hanno armi. Il carcere moderno di Nola ha esattamente questa ambizione. Eppure, ancora non si realizza. marzo scorso il garante regionale Ciambriello si è incontrato con il Provveditore alle opere pubbliche della Campania, Molise, Puglia e Basilicata, Placido Migliorino. L’incontro, chiesto dal garante, ha avuto come argomento anche la costruzione del nuovo carcere di Nola. Ed è lì che ha appreso la notizia che il Provveditorato alle opere pubbliche ha chiesto al ministero competente di portare dai 100 milioni, previsti per la costruzione del carcere da 1200 posti, a 300 milioni l’importo complessivo del progetto. Ma siamo quasi alla fine dell’anno e non se ne sa più nulla. Buio totale. Si parla di nuove carceri ma c’è il buio assoluto sul modello dell’esecuzione penale - Il ministro della Giustizia Nordio potrebbe iniziare da qui, far concretizzare ciò che è stato già progettato tutto con tanto di bandi vinti. Ma se da una parte c’è il buco nero dell’edilizia penitenziaria, storie antiche che si ripetono, dall’altra c’è anche il buio assoluto sul modello dell’esecuzione penale. Se si opta, tra l’altro puntualmente in maniera fallimentare, esclusivamente sulle nuove carceri, conservando l’idea di rinchiudere le persone e gettare la chiave, rimangono invariate le criticità e possono soltanto che acutizzarsi. Con il risultato che si sbattono dentro le persone per aver rubato una cuffia da 24 euro, che poi si impiccano come è accaduto a Torino. D’altronde se in Italia si cercano continuamente nuovi spazi per costruire strutture detentive, in molti paesi scandinavi le prigioni chiudono. Promettere subito nuove carceri è ingiusto e sviante: colpevole chi tace di Cesare Burdese Il Riformista, 5 novembre 2022 Ulteriore carcere, come deterrente e rimedio per più ordine e sicurezza, è proposta governativa di questi giorni che non risolve e svia. I contrari sono colpevoli di avere, nei fatti, tradito valori e principi tanto sbandierati, lasciando che la deriva del carcere che avevano in carico continuasse e non fornendo provviste strutturali sul territorio per una pena alternativa. Paradossalmente, vi sono più imputati e condannati fuori che dentro il carcere. Come i dati dimostrano, il carcere non sconfigge il crimine e non abbassa la recidiva; come l’evidenza scientifica conferma, l’introduzione di nuove pene e l’inasprimento di quelle esistenti, in line di massima non diminuiscono i reati e non aumentano la sicurezza. Il tasso di recidiva nel nostro Paese sfiora il 73%. Devianza e criminalità si risolvono fuori del carcere, ragionevolmente facendosi carico di una massiccia azione preventiva e di sostegno al disagio sociale. Il segnale dato dalla premier Meloni al suo esordio, di efficacia e di chiarezza su un tema come quello del rispetto delle regole, rimanda a quella che parrebbe essere una persistente violazione della nostra Costituzione nelle carceri. Da tempo mi occupo di architettura penitenziaria, più volte ho partecipato ai lavori ministeriali sulle questioni carcerarie. Ritengo spetti a me evidenziare criticità materiali e contraddizioni del carcere, in rapporto al monito costituzionale: “Le pene non possono consistere a trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Le nostre carceri infrangono il senso di umanità dell’individuo, perché progettate senza metterlo al centro, con i suoi bisogni materiali, psicologici e relazionali. Sono luoghi sovraffollati e degradati, spesso carenti di spazi per le attività trattamentali risocializzative. L’Italia, per lo stato delle sue carceri, è stata recentemente per due volte condannata dalla Corte di Strasburgo, per violazione dell’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu), che proibisce la tortura e il trattamento o pena disumana o degradante. Nella sentenza del 2013 è stato messo in rilievo che la vita detentiva non può risolversi nell’ozio e nell’abbandono, come accade sistematicamente nelle nostre carceri, carenti di educatori, psicologi, assistenti sociali, mediatori culturali, come la legge prevede. Comprensibilmente le opportunità di lavoro sono minime, gli agenti penitenziari e le figure professionali di sostegno operano in condizioni critiche, anche per la qualità dell’ambiente materiale nel quale operano. Il rischio di nuove condanne è reale. Il nostro carcere è una discarica sociale in crescita e non un luogo di riabilitazione, inadatto per fornire sicurezza fuori perché criminogeno, ricettacolo di una umanità derelitta, sradicata, malata e debole, in carico ad un personale carente di strumenti e mezzi e per questo inadeguato. Nei suoi edifici permangono i tratti della pena afflittiva di un tempo, superata da quella della Costituzione e dell’ordinamento penitenziario del 1975, entrambe tradite. Il sovraffollamento nelle carceri è una condizione pressoché generalizzata; la popolazione attualmente detenuta si avvicina alle 55.000 unità, le strutture detentive sono circa 190, i posti disponibili 50.000. Per realizzare e mettere in funzione un carcere in Italia non bastano 10/15 anni; le nuove carceri di Bolzano, Nola, San Vito al Tagliamento, Casale Monferrato, programmate da molti anni, sono “al palo”. Promettere subito nuove carceri è ingiusto e sviante. Per il momento sarebbe opportuno accantonare l’idea di costruire nuove carceri e concentrarsi sulla ristrutturazione di quelle esistenti. Nel contempo avviare soluzioni spaziali sul territorio che favoriscano l’uso di misure alternative al carcere, nel quadro di una decisa azione di prevenzione. Le difficoltà non mancano: le edificazioni necessarie e la loro messa in funzione, richiedono tempo e denaro consistenti, le caratteristiche della popolazione che viola la legge è in buona parte priva di legami familiari e di relazioni sociali che rendono a volte impossibile l’applicazione delle misure alternative. La cosa non preoccuperebbe, se la compagine di governo attuale e quelle che verranno, sapessero muoversi mettendo da parte le convenienze elettorali, mirando alla sostanza dei problemi. Si chiarisca sin da subito se si vuole un carcere ospizio/ospedale da 70.000 detenuti, sempre più stracolmo, dove rinchiudere una umanità eterogenea e disperata, irrimediabilmente esclusa ed emarginata, oppure uno da 10.000 detenuti, rispettoso della dignità umana e destinato a rinchiudere esclusivamente soggetti pericolosi e tendenzialmente irrecuperabili. La pena deve essere giusta e utile, e prospettata nella sua applicazione non per colpire la “pancia”, ma bensì il cervello della gente. Fughiamo la convinzione che la nostra sicurezza possa dipendere dal “pugno di ferro”, “gettare via la chiave” e “lasciare marcire in galera”. Aspirare a tutto ciò rende ingenui, rimanere in silenzio colpevoli e complici. Legge, ordine, buttare la chiave: l’idea di Giustizia secondo il governo Meloni di Gian Domenico Caiazza Il Dubbio, 5 novembre 2022 Dalla norma anti rave all’ergastolo ostativo: chi ha concepito e scritto questo decreto mostra senza riserve una naturale, istintiva insofferenza verso alcuni principi costituzionali. Il primo decreto-legge del Governo Meloni in tema di giustizia penale segnala problemi che vanno ben al di là della sgrammaticatura a tratti delirante del nuovo reato cosiddetto “anti-rave” (anche se dei rave-party non registra il benché minimo accenno). Certo, ci vuole davvero coraggio a scrivere in una norma penale che “l’invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica e la salute pubblica consiste nella invasione arbitraria di terreni … allo scopo di organizzare un raduno quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Grazie tante. Monsieur De La Palisse impallidisce e si ritira definitivamente da ogni metafora sulle ovvietà tronfiamente inutili. Senonché le norme penali che descrivono la condotta da incriminare con queste grottesche tautologie sono pericolosi fogli bianchi, dove qualsiasi agente di polizia giudiziaria, Pubblico Ministero o giudice potrà scrivere ciò che vuole. E bisogna aver esagerato nei brindisi di festeggiamento post-elettorale per inserire questo sgorbio di reato addirittura nel catalogo di quelli, micidiali, contemplati nel codice antimafia ai fini della applicabilità delle misure di prevenzione personale. Quindi un rave, secondo gli incontinenti estensori di questa roba qui, crea lo stesso allarme sociale di una cosca mafiosa, o di una associazione finalizzata alla tratta di esseri umani o alla riduzione in schiavitù, o di un sequestro di persona a scopo di estorsione. Chiamate la neurodeliri. Ma la questione che deve davvero preoccupare è un’altra, e trova coerente conferma in tutto il decreto-legge, dunque anche nella parte relativa all’ergastolo ostativo (ma in realtà a tutti i reati ostativi, compresi ad esempio quelli contro la Pubblica Amministrazione). Intendo dire che chi ha concepito e scritto questo decreto mostra senza riserve una naturale, istintiva insofferenza verso alcuni principi costituzionali, percepiti come un ostacolo fastidioso alla narrazione “law and order” che si vuole chiaramente proporre come tratto identitario del nuovo corso politico. Il primo di quei principi mal digeriti è l’articolo 17, che sancisce la libertà di riunione dei cittadini, e che limita il potere di veto da parte dello Stato esclusivamente a “comprovati motivi di sicurezza ed incolumità pubblica”. Il nuovo reato estende questi limiti a motivi di “ordine pubblico”, che è una categoria giuridica incommensurabilmente più ampia della “sicurezza pubblica”. Non sono cavillosità avvocatesche, stiamo parlando di potestà limitative di quel fondamentale diritto costituzionale che manifestamente si espandono ben oltre i limiti costituzionali. Non faccio processi alle intenzioni, segnalo - come dire - la naturalezza istintiva di un pensiero incostituzionale (al quale in verità già ci aveva abituato il governo gialloverde Conte uno). Lo stesso vale per il tema delle ostatività. La Corte Costituzionale, piaccia o no, ha stabilito che il divieto assoluto di concessione di benefici per i reati ostativi, anche i più gravi, in assenza di condotte collaborative del detenuto, viola l’articolo 27 della Costituzione, ed invita il legislatore ad uniformarsi, curando di armonizzare questo principio con la complessità del quadro normativo di riferimento. Questo decreto-legge rimuove formalmente l’automatismo, ma al contempo si industria nell’ introdurre una tale serie di condizioni impossibili ed inesigibili per la concessione dei benefici, da ottenere lo stesso risultato (anzi, più grave) che la Corte aveva inteso rimuovere. Vedremo cosa ne penserà la Corte il prossimo 8 novembre, ma questo è il segnale politico, questo è l’intento del legislatore, d’altronde reso esplicito dal solenne deposito, in esordio di legislatura, di una proposta di legge costituzionale di riforma dell’articolo 27 sulla finalità rieducativa della pena. Dunque: legge, ordine, e buttare la chiave sono i chiarissimi messaggi identitari di questo decreto, legittimi perché voluti dalla maggioranza degli elettori. Ma i limiti costituzionali non sono un optional, e le statuizioni del Giudice delle Leggi non sono opinioni che aprono un contenzioso con il legislatore. Sono atti aventi forza di legge, anche se quella legge non piace. Sarà buona cosa farsene una ragione. Volontariato in carcere. Il no profit vale l’80% delle attività sociali di Giacomo Capodivento buonenotizie.it, 5 novembre 2022 Il volontariato in carcere è una risorsa da proteggere e incentivare. A dirlo è la ricerca “Al di là dei muri”, presentata nella Casa Circondariale di Busto Arsizio e curata dall’Iref-Acli, che fornisce i numeri del ruolo del Terzo Settore nelle carceri italiane nel triennio 2018-2020. Le cifre in calo - si stima un dimezzamento del numero di volontari - mettono in evidenza uno stretto rapporto tra il volontariato e il miglioramento delle condizioni di detenzione. Nell’81,5% dei casi, l’accesso dei volontari agli istituti avviene attraverso enti e associazioni. Il Terzo Settore svolge un’importante funzione nell’apertura al territorio degli istituti penitenziari per diversi motivi. Innanzitutto perché spesso è il no profit ad offrire spazi, attività e possibilità per l’esecuzione penale in esterna, cioè per quelle misure alternative alla detenzione carceraria, note come misure di comunità. In secondo luogo, è proprio nel volontariato che si manifesta un forte impegno per la salvaguardia della dignità dei detenuti, colmando l’intervento deficitario dello Stato. Attualmente non c’è una rilevazione statistica ufficiale dei numeri dell’impegno volontario, l’unica fonte disponibile deriva dalle schede del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Rispetto al 2019, complice il covid, nel 2020 il numero dei volontari si è quasi dimezzato, passando da 19511 a 9825, dunque un volontario per ogni cinque detenuti. La presenza del volontariato in carcere è prevista dagli articoli 17 e 78 dell’Ordinamento Penitenziario (L. 354/75). Le finalità di questa misura comprendono “il reinserimento sociale dei condannati e degli internati e all’opera” e “il sostegno morale dei detenuti e degli internati e al futuro reinserimento nella vita sociale”. Il Terzo Settore ha dunque un’importanza capitale, se si considera che ad esso vanno ricollegate circa l’80% delle attività di promozione sociale degli istituti penitenziari. Come si può fare volontariato in carcere? Oltre a instaurare un rapporto con il detenuto, gli operatori volontari fanno da tramite tra interno ed esterno, favorendo la sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Bisogna ad ogni modo fare una distinzione tra volontariato intramurario ed extramurario: nella prima tipologia rientrano coloro che operano all’interno del carcere; nella seconda quelli che si occupano di attività esterne, che vedono il coinvolgimento di detenuti. In Italia, la rete di volontariato in carcere si divide in attività svolte da singoli o da associazioni o gruppi di realtà coordinate da una più ampia organizzazione. Per lo più, coloro che operano nel volontariato sono coinvolti in attività di sostegno alle persone, che possono essere anche ricreative, culturali o religiose, o ancora progetti orientati alla formazione, al lavoro o occupazioni di tipo sportivo. Secondo l’Ordinamento penitenziario, per svolgere attività volontaria ci sono due modalità di ammissione all’interno del carcere: nel caso di operatori singoli la domanda (contenente dati personali, motivazioni e proposta dell’attività) va presentata al direttore dell’istituto penitenziario in cui si vuole operare. Qualora si partecipasse alle attività di risocializzazione in qualità di membro di un’associazione, bisogna far riferimento a quanto disposto dall’organizzazione per le quali è prevista un’autorizzazione di durata annuale per tutti coloro che vi appartengono. La presenza del Terzo Settore, che in Italia è molto variegata e in crescita, è dunque da tutelare e sostenere per garantire la promozione sociale. L’importanza del suo ruolo negli istituti penitenziari ne è un esempio concreto e spesso costituisce l’unico modo per far entrare la società civile nel carcere. Nordio: “Dl anti-rave da perfezionare. Riuscirò a riformare il codice di Mussolini” di Liana Milella La Repubblica, 5 novembre 2022 Il ministro della Giustizia: “Il diritto di manifestare non c’entra nulla. Sulle intercettazioni decideranno i magistrati”. La norma sui migranti? “È giusta, se la nave che li salva è tedesca, è come se fossero sbarcati ad Amburgo”. E quella sui rave party? “Un segnale di ferma e severa legalità. Può essere perfezionata, ma sulle intercettazioni valuta il magistrato”. Nella polvere la libertà costituzionale di manifestare? “Quel diritto non c’entra nulla col decreto”. Lei commissariato da Del Mastro? “Siamo entrambi garantisti”. Il Guardasigilli Carlo Nordio rilascia la sua prima intervista da ministro a Repubblica e dice: “Con Meloni puntiamo a una riforma garantista della giustizia”. Guardasigilli da due settimane, più critiche che attestati di fiducia, chi gliel’ha fatto fare? “Le critiche in democrazia sono sempre utili e persino benvenute. Tuttavia non ci sono solo critiche. Leggo dal report di Spin Factor che il governo gode di un’ampia fiducia degli italiani. Ma si può sempre fare di meglio”. Beh... agli atti ci sono tre sottosegretari “falchi” e la marcia indietro sul decreto rave che lei ha avallato, e questi sono fatti... “La distinzione tra falchi e colombe risale alla guerra del Vietnam, e oggi assume altri significati. Non mi pare che essa possa essere applicata al viceministro e ai due validi sottosegretari”. Non solo le piazzano ai fianchi il vice ministro, ma pure uno come Del Mastro Delle Vedove che certo non la pensa in nulla come lei. “Per un ministero complesso come la Giustizia un viceministro è necessario. Per il collega Del Mastro va detto che sin dall’inizio si sono ipotizzati dissensi che non esistono. Siamo entrambi convinti che il garantismo significhi da un lato l’affermazione della presunzione d’innocenza e dall’altro la certezza della pena. Certo, io ho sempre enfatizzato maggiormente il primo aspetto, e lui il secondo, ma il risultato algebrico è uguale”. Meloni ha voluto lei come “bandiera” ma l’ha messa subito sotto controllo? “Questa è un’altra ricostruzione enfatica di chi vuole introdurre argomenti polemici. Con Giorgia Meloni il rapporto non è solo di assoluta lealtà, ma anche di reciproca stima, e direi di amicizia. Lei conosceva i miei scritti già quando a gennaio mi indicò come candidato presidente della Repubblica, e io conoscevo le sue idee. Le abbiamo conciliate nell’ottica di una riforma globale della giustizia, nel duplice segno garantista. E stia certa che la faremo”. Quando ha accettato l’incarico non sapeva già di finire in bocca alla tigre? “Entrare in politica è come acquistare un’automobile nuova, il giorno dopo vale già la metà. Quindi è inevitabile che vi siano delle delusioni e delle critiche anche da parte di chi prima ti aveva sostenuto. Ma mi lasci dire che, come il giudizio su una persona si dà alla fine della sua vita, il giudizio sul nostro operato sarà dato alla fine del mandato, in fondo sono passati solo dieci giorni”. Non le crea imbarazzo la norma Piantedosi sulla richiesta d’asilo per i migranti da rivolgere al Paese cui appartiene la nave delle Ong che li ha salvati? “La mia idea, che manifesto da anni, è molto semplice. È conforme al diritto internazionale e agli accordi di Dublino: se una nave salva, com’è suo dovere, dei naufraghi in acque internazionali, lo Stato di primo accesso è quello di bandiera della nave. Se la nave è tedesca, è come se i migranti fossero sbarcati ad Amburgo. Il comandante ha il dovere di registrarli, e poi portarli, per l’assistenza nel più vicino porto sicuro. Ma poi devono andare in Germania”. State condannando migliaia di migranti a essere respinti e rimandati indietro? “È esattamente il contrario. Devono esser accolti qui, e poi andare nello Stato di bandiera della nave. Se poi il suo comandante accampasse l’alibi di non esser attrezzato per registrare i migranti, sarebbe inadempiente. Una nave, ripeto, è uno Stato che galleggia. Il suo comandante può anche celebrare matrimoni. Si attrezzi al momento della partenza, e il suo Stato gliene imponga il dovere”. Dica la verità, sulla norma rave lei avrà cercato, da giurista, di far capire che quella pena era proprio eccessiva, che le intercettazioni sarebbero state una follia, che come dicono i costituzionalisti si tornava al codice Rocco? Oppure ha detto subito sì? “La norma sul rave è stata creata perché l’attuale articolo 633 del codice penale era stato scritto quasi cento anni fa per tutelare i proprietari di beni immobili da invasioni di mandrie di bestiame. Oggi si tratta di tutelare l’incolumità e la salute quando alcuni eventi espongono questi beni a pericoli gravi, come si è visto negli anni scorsi, dove alla devastazione di proprietà altrui si sono associate intossicazioni, violenze e persino delle vittime. Naturalmente la norma, come tutte quelle dettate in via di urgenza, può essere modificata e perfezionata. Quanto alle intercettazioni essa non le impone affatto, semmai le lascia alla valutazione del magistrato. Tuttavia sull’intero sistema delle intercettazioni agiremo in modo più organico e sistematico”. Se non fosse il Guardasigilli, ma ancora il commentatore sulla giustizia del Messaggero non avrebbe tuonano contro questa norma liberticida? “Shakespeare c’insegna che una buona ragione deve cedere a una ragione migliore. Le buone ragioni che avevo come editorialista cedono oggi a quelle migliori delle necessità politiche, sia pure, come dice lei, rischiando i morsi della tigre”. Lei parla inglese e francese, manda a memoria Churchill... come fa a sottoscrivere 15 righe che negano il diritto di manifestare scritto nell’articolo 17 della Costituzione? “Mi scusi, ma il diritto di manifestare non c’entra nulla. Qui si parla di invasione arbitraria di terreni ed edifici altrui, per di più con pericoli imminenti. La norma può esser perfezionata, ma a nessun piacerebbe che così tante persone entrassero senza permesso in casa mettendo a rischio salute e incolumità propria e altrui. Quanto al mio amore per la lingua francese, esiste un principio: “reculer pour mieux avancer”. Con questa norma abbiamo inteso dare un segnale di ferma e severa legalità. Prossimamente daremo quelli di tutela dei diritti dei cittadini per quanto riguarda la loro libertà, il loro onore e la loro riservatezza in tutte le fasi del procedimento penale”. Possibile che il suo garantismo si fermi solo a cancellare l’abuso d’ufficio per sindaci e amministratori? “Non è affatto una questione di garantismo, ma di efficienza. Sono stati i sindaci, in gran parte di sinistra, a chiedere l’abolizione o la revisione di questo reato che paralizza l’amministrazione, ha creato la paura della firma e costa all’economia un intollerabile rallentamento. I sindaci stessi hanno chiesto un incontro: lo faremo entro brevissimo tempo, ascolteremo e registreremo le loro proposte e ne trarremo le conseguenze. Se poi il loro partito sarà contrario questo sarà un loro problema politico interno”. Da una contraddizione all’altra, l’ergastolo ostativo. Non ricordo un suo scritto favorevole alla linea del “marcite in galera”. Ai tempi di Mani pulite era accusato di essere morbido. Adesso come fa a difendere un testo che, contro la Consulta, mette tanti e tali paletti che nessun ergastolano potrà più sperare nella liberazione condizionale? “Ho scritto e ripeto qui che per me l’ergastolo è come l’inferno secondo i moderni teologi: esiste ma tende a svuotarsi, e se uno si pente, la misericordia dell’Onnipotente è infinita. Ma almeno un gesto di buona volontà ci dev’essere. Se un criminale si ostina a rimanere tale anche in carcere, non possiamo essere più misericordiosi del Signore, che esige un minimo di redenzione. Sarebbe un atto di arroganza blasfema. E così è per il cosiddetto ergastolo ostativo. Dove comunque sarà il giudice e decidere, proprio perché è stato eliminato l’automatismo, secondo le indicazioni della Corte Costituzionale”. Però lei si è rivolto alle famiglie dei detenuti suicidi mostrando la faccia garantista dello Stato... “È così. È stata la mia prima uscita, come simbolo di estrema attenzione sia per gli operatori sia per gli stessi detenuti. La pena non deve essere inumana, ma deve tendere a migliorare o comunque a non peggiorare la personalità del condannato. Lo scrive la Costituzione, lo impone l’etica e lo suggerisce l’utilità: il carcere non deve essere criminogeno”. Il decreto sull’ergastolo non è un altolà alla Consulta? Uno schiaffo della serie “fatti da parte che ci penso io”? “Al contrario, abbiamo ascoltato i suggerimenti della Corte, eliminando l’automatismo”. Con il rinvio della riforma penale Cartabia, ex presidente della Consulta bisogna ricordarlo, ha voluto compiacere i magistrati e ottenere la loro non belligeranza? Non rischia di scontrarsi con la Ue e far perdere i denari del Pnrr all’Italia? “Questa è bella. Dopo anni di dissensi con l’Anm ora ne cercherei il consenso. La realtà è che se le sue osservazioni sono giuste vanno accolte, se non sono condivisibili vanno respinte. In questo caso la mancanza di risorse avrebbe prodotto una paralisi del sistema giudiziario, e le istanze dei Procuratori generali erano fondate. Il rinvio consentirà di attuare la riforma rispettando i tempi, senza soffocare le Procure”. Potrebbe giurare sulla testa dei suoi amati gatti Rufus e Romeo Leonetto che questo “sacrificio” non è un prezzo pagato alla concezione carcerocentrica di Fratelli d’Italia? “Sì, e considerando l’affetto che ho per miei due gatti ci può credere”. Pensa davvero che questo governo - con le Meloni e i Salvini - consentirà il decollo della giustizia riparativa, della tenuità del fatto, delle pene sostitutive per condanne fino a quattro anni? “Penso molto di più. Che questo governo riuscirà a riformare il codice penale, firmato da Mussolini, in senso liberale secondo i dettati della Costituzione, che indicano la funzione della pena e la necessità che essa sia proporzionata al crimine”. Dopo Regina Coeli e Poggioreale visiterà altre carceri? E che potrà promettere ai detenuti in sofferenza, solo più spazio vitale ma nessuna vera garanzia? “Certamente. Il mio capogabinetto ha già programmato una serie di visite a vari istituti. I miei erano gesti soprattutto di indirizzo simbolico. La struttura del ministero agirà ora in senso operativo. Faremo di tutto per trovare le risorse e migliorare la situazione degli operatori penitenziari. Di conseguenza migliorerà anche quella delle situazioni più critiche, sempre nel rispetto della certezza e della esecuzione della pena”. Confermerà l’attuale capo del Dap Carlo Renoldi che ha fama di garantista? “Il Presidente Renoldi è stato da me pubblicamente elogiato durante queste visite per la sua opera. Per ora ho provveduto solo alle nomine più urgenti e indispensabili, quella dei capi del gabinetto e dell’Ufficio legislativo. Per le altre abbiamo fino a 90 giorni di tempo per decidere”. Il decreto Meloni riaccende la “guerra” tra magistrati di Valentina Stella Il Dubbio, 5 novembre 2022 Area Dg e Md attaccano il governo: “Norme pericolose”. Ma Magistratura indipendente replica: “Le toghe non devono diventare attori della scena politica”. I primi atti del Governo di destra-centro in materia di giustizia, sicurezza e immigrazione hanno portato indirettamente ad uno duro scontro a distanza fra tre correnti dell’Associazione nazionale magistrati, che si sono divise tra interventiste (due) e neutraliste (una) - mutuando un linguaggio da prima guerra mondiale. Sono emersi chiaramente i due modi opposti di concepire il ruolo della magistratura: da un lato quella “che scende in campo politicamente”, rifiutando l’idea dell’indifferenza rispetto ai valori costituzionali, e quella che, come ha scritto l’ex presidente dell’Anm Mario Cicala, ha come “poli ideali” “la apoliticità e la moderazione”. Md e Area contro il governo: “Norme pericolose” - Nel primo gruppo troviamo Magistratura democratica e AreaDg. Le toghe guidate da Stefano Musolino qualche giorno fa hanno pubblicato un durissimo documento per stigmatizzare il nuovo articolo 434 bis del codice penale contro i Rave party, definito una “norma pericolosa” che “entra in diretta collisione con l’art. 17 della Costituzione”. Secondo l’esecutivo di Md, “la nuova fattispecie non si applica solo ai rave party”. “Il diritto penale è un delicato sistema che aggredisce la libertà della persona, imponendone un uso sobrio e meditato - scrive l’esecutivo di Md -. Per questo, intervenire con decreto legge per prevedere nuove fattispecie non è mai una buona idea”. A distanza di poco è arrivata una nota dei magistrati capitanati da Eugenio Albamonte in merito alle navi delle ong bloccate nel Mediterraneo con migliaia di migranti a bordo che l’Italia non vuol far sbarcare, in un braccio di ferro con l’Europa: “Si impedisce, negando l’assegnazione di un porto sicuro, il soccorso in mare di persone in stato di necessità e a rischio di morte - hanno criticato le toghe progressiste -. La Corte di Cassazione ci ha ricordato che “l’obbligo di prestare soccorso dettato dalla Convenzione internazionale Sar di Amburgo non si esaurisce nell’atto di sottrarre i naufraghi al pericolo di perdersi in mare, ma comporta l’obbligo accessorio e conseguente di sbarcarli in un luogo sicuro (cd. place of safety)” (Corte di Cassazione n. 6626/2020). Soccorrere è obbligo giuridico oltre che morale di uno Stato democratico”. Il decreto Meloni riaccende la guerra tra magistrati: “Le toghe non devono fare politica” - Ed ecco che ora prende posizione contro di loro Magistratura indipendente: “La magistratura non è e non deve mai diventare un attore della scena politica. Mai, e nei confronti di qualsiasi governo, quale che sia il suo colore politico”. Proprio qualche giorno fa lo stesso segretario di Mi Angelo Piraino da questo giornale aveva smentito un accordo con Fratelli d’Italia per eleggere il nuovo vice-presidente del Csm: “La politica non deve ingerirsi nelle decisioni della magistratura e, viceversa, la magistratura non deve interferire in quelle della politica”, ci aveva detto. Quindi ieri, coerentemente, anche con la loro natura antiideologica rivendicata in più occasioni, sono entrati in polemica con i colleghi che, invece, hanno deciso di esporsi contro l’Esecutivo del Presidente Meloni: “Immaginiamo - prosegue la nota di Mi - di poter attendere, allora, nel prossimo futuro i contributi dei gruppi associativi progressisti della magistratura sulle scelte di politica economica o di politica estera del nuovo governo, nel segno di una ritrovata vitalità”. Essendo contrari a tale prospettiva, “prendiamo nettamente le distanze - conclude Mi - da un simile approccio ideologico, che ci riporta indietro alla vecchia contrapposizione tra politica e magistratura di un passato che si vuole dimenticare e che ha portato la magistratura ad essere vista dai cittadini come politicizzata”. Eppure c’è chi vorrebbe ricordare che Mi, di connotazione moderata, assimilabile alla cultura del centro-destra, - benché Piraino ci abbia ripetuto “che applicare alla magistratura italiana le categorie di destra e sinistra sia il frutto di una narrazione sbagliata e di una semplificazione grossolana” - sta beneficiando di una sorta di spoil system: a prescindere dal fatto che il ministro della Giustizia Carlo Nordio è stato eletto con Fratelli d’Italia, va sottolineato anche che il nuovo capo di Gabinetto del Guardasigilli, Alberto Rizzo, è di Magistratura indipendente, così come il nuovo capo dell’ufficio legislativo, il procuratore Antonello Mura, come pure il sottosegretario alla presidenza del Consiglio Alfredo Mantovano. “La destra fa la destra, non ci dobbiamo stupire. Ma che fanno gli altri per cambiare la visione della pena?” di Simona Musco Il Dubbio, 5 novembre 2022 Intervista a Luciano Violante, ex presidente della Camera. “In Italia manca una riflessione seria sulla natura della pena: dobbiamo continuare a considerarla come restrizione in luogo chiuso e controllato da una polizia specializzata, per un certo numero di anni? Oppure dobbiamo pensare a qualcosa che, fatto salvo il prezzo della responsabilità, riattivi un rapporto tra società e detenuto?”. A dirlo è Luciano Violante, ex presidente della Camera ed ex magistrato, che commenta i primi provvedimenti del governo Meloni invitando la società a ragionare sul concetto stesso di carcere. “Non mi sorprende che la destra faccia la destra, ma dobbiamo chiederci se, dall’altra parte, la reazione non debba essere culturalmente adeguata”. Il primo provvedimento di questo governo ha svelato da subito la natura giustizialista dell’esecutivo. Come giudica questa prima mossa, sia in termini di metodo che di merito? Determinare le priorità è compito del governo e ogni governo lo fa secondo i propri codici ideali. L’opposizione, se non è d’accordo, le critica e propone le sue alternative. Il tema dell’ordine pubblico, in particolare, è proprio di tutte le destre del mondo; in Italia ha individuato, sia con la questione delle ong sia con quella dei rave, il terreno sul quale affermare i propri principi. Il decreto anti-rave è però vago e per molti costituzionalisti lascia spazio a una possibile pronuncia di illegittimità. È così? Direi che è stata scritta in fretta, anche perché non punisce i rave, ma l’invasione allo scopo di organizzarli. La norma è scritta un po’ male e senza dubbio il Parlamento interverrà per correggere alcuni aspetti. Per quanto riguarda la pena, è stata fissata per consentire le intercettazioni ed evitare le misure alternative al carcere. Ma la misura pena non può essere uno strumento per definire i mezzi di indagine o assegnare una afflittività ulteriore. Non discuto l’opportunità della norma, anche perché i Paesi vicino al nostro ne hanno di simili, il problema è fare in modo che sia costruita per evitare abusi. Anche stabilendo espressamente che non sono punibili manifestazioni studentesche, sindacali o politiche. Il rischio sarebbe un uso strumentale della norma? Sì. Inoltre, nel quadro della tutela dell’ordine pubblico, forse bisogna evitare che continui l’occupazione di un grande stabile centrale a Roma, da parte di Casapound. Il decreto riguarda anche l’ergastolo ostativo: il Consiglio dei ministri ha ripreso la proposta approvata dalla Camera, proposta che Fratelli d’Italia non aveva votato ritenendola inefficace. Questa nuova versione della norma può superare i dubbi della Consulta? Ed è adeguata ad evitare abusi in senso contrario al fine rieducativo della pena? Stiamo parlando di misure che, in caso di ergastolo scattano dopo 30 anni. Mi pare che il tempo sia ampiamente sufficiente, forse eccessivo, per valutare il comportamento di una persona. Credo che la civiltà del diritto penale comporti il riallacciamento di un rapporto tra chi ha commesso il delitto e la società. Questo è essenziale affinché una società sia più civile. Io sono contrario all’ergastolo ostativo e credo che la sentenza della Consulta, che ha criticato l’automatismo, sia importante. Questo decreto certamente risponde alle esigenze poste dalla Corte. Qualcuno può obiettare che le previsioni siano ancora troppo rigide, ma stiamo attenti: abbiamo a che fare con personaggi dall’elevata caratura criminale. La cosa importante è, innanzitutto, che si valuti caso per caso. E a quel punto si può anche pensare di ridurre a 20 anni il tempo da scontare in carcere prima di poter presentare la richiesta di accesso ai benefici: mi sembra un tempo sufficiente per stabilire se i rapporti con l’organizzazione criminale di origine siano stati recisi. Ma questa è solo una mia valutazione personale: vedremo cosa dirà il Parlamento. Nello stesso decreto è stato previsto un rinvio dell’entrata in vigore della riforma Cartabia: pensa che stiano cercando di smantellare la riforma? Non mi baso su sospetti. Credo che ci fossero senz’altro dei problemi di disciplina transitoria, segnalati da molti giuristi. Ma aggiungerei una cosa: c’è quasi dappertutto un’assoluta impreparazione delle cancellerie ad usare il digitale. Il ministro Nordio conosce questi problemi e spero che applichi la sua attenzione anche all’apparato amministrativo, non solo alla magistratura. La parte relativa alle sanzioni alternative non poteva essere subito applicata, data anche la situazione disastrosa delle carceri? La questione radicale, per me, è che cosa dev’essere la pena nel 21esimo secolo. La società di questo secolo ha interesse a riallacciare un rapporto con il reo? Altrimenti il carcere diventa una scuola criminale. È il carcere, per sua logica interna, ad essere deleterio. In tutti i paesi del mondo è un male necessario, perché nessuno ha ancora inventato una soluzione diversa, però bisogna riprendere il tema della pena con molta maggior convinzione. Fratelli d’Italia lo sta facendo, ma in senso opposto: il deputato Cirielli ha depositato una proposta di legge per modificare l’articolo 27 della Costituzione per “limitare la finalità rieducativa” e “salvaguardare e garantire il concetto di certezza della pena”... La destra fa la destra. Non ci dobbiamo stupire. Ma faccio un’altra domanda: dall’altra parte c’è una reazione adeguata? C’è una riflessione seria e penetrante nella società italiana su cosa dev’essere la pena, sulla sua natura, sui suoi effetti? Dobbiamo incolpare chi presenta progetti di legge in cui crede o chi non promuove un’azione culturale diversa su questa questione? Questo governo, tendenzialmente carcerocentrico, ha un ministro garantista, come Nordio, e tra le sue fila una forza liberale come Forza Italia. C’è un equilibrio tra queste diverse anime o intravede un conflitto, come molti commentatori dicono in queste ore? Non faccio supposizioni: preferisco guardare i fatti. Crede che ci sia una responsabilità della sinistra rispetto alla deriva giustizialista di questo Paese? Alla sinistra si chiede di far tutto, ma non ha la bacchetta magica per risolvere i problemi. È il mondo della cultura in generale a non essersi impegnato. Quello che manca oggi, su questi temi, è un rapporto tra cultura giuridica, politica, avvocatura e magistratura, quattro campi privi di interscambio, se non in pochissime occasioni e incidentalmente. Ma un’integrazione tra questi attori sarebbe necessaria, perché solo da questo intreccio può nascere una riflessione sufficientemente forte nella società italiana per convincere a cambiare indirizzo sul concetto di pena e sulla sua funzione. Nordio ha definito alcune delle possibili riforme: separazione delle carriere, abolizione o modifica dell’abuso d’ufficio e della legge Severino e inappellabilità delle sentenze di assoluzione. Cosa ne pensa? Sull’abuso d’ufficio ha ragione il ministro Nordio. Così com’è, è certamente uno strumento inutilmente iugulatorio nei confronti di chi riveste funzioni pubbliche. Per quanto riguarda la separazione delle carriere, ritengo che se il pm ha fatto il giudice - e viceversa - non potrà che far meglio il suo lavoro. Inoltre oggi, con la legge Cartabia, il cambio è limitato ad una sola volta, quindi la situazione non è drammatica. Fare due carriere diverse significa far dipendere il pm dall’esecutivo, altrimenti avremmo migliaia di super poliziotti indipendenti in giro per l’Italia. Il problema è che i pm devono incorporare la cultura della valutazione della prova e i giudici quella della sua acquisizione. Per quanto riguarda la legge Severino, sono d’accordo col fare alcune modifiche. Ci sono state giunte regionali e comunali trascinate nel ludibrio, pagine intere di giornali e poi assoluzioni. Ma nel frattempo dignità, reputazione e maggioranza sono andate perse. Ultimo e scandaloso, il caso del governo regionale della Val d’Aosta. Sull’inappellabilità, infine, farei una distinzione in base al tipo di reato: toglierei l’appello per i reati più lievi. Ma è il concetto stesso di appello che prevede la possibilità di modificare una sentenza: non ne farei un dramma. “È un governo che si fa Stato-padre, ma spero ancora in Nordio” di Rocco Vazzana Il Dubbio, 5 novembre 2022 Intervista a Roberto Saviano: “A sinistra si continua a sbandierare il tema della “questione morale” sollevato da Berlinguer. E la questione morale è digradata in moralismo giudiziario”. “Se volessimo guardare oltre il ridicolo e il grottesco di cui tutto questo è espressione, potremmo dire che siamo al cospetto di un governo che si fa Stato-Padre, che traccia una via - per me angusta - e sanziona, o almeno vorrebbe sanzionare, chiunque voglia allontanarsi dalla strada maestra”. Così Roberto Saviano commenta l’atto di esordio del governo Meloni: il decreto anti rave. “La famiglia è quella tradizionale, l’aborto è peccato, la patria è degli italiani. Però sa cosa le dico? Fanno bene a temere i giovani, sono le loro feste a mettere in ridicolo un governo che si prende talmente sul serio da sembrare una macchietta. Mi verrebbe da dirgli: una risata vi seppellirà”. Condivide i timori di quanti credono che questo nuovo reato sia un cavallo di Troia per colpire qualsiasi forma di dissenso? È il testo della legge che, nella sua genericità, conferma i timori. Alla luce di questo, la precisazione di Piantedosi sull’applicabilità solo ai rave fa pensare che il ministro, oltre a non saperle scrivere le norme, non sappia nemmeno leggerle, nonostante le abbia scritte il suo ufficio. Se la norma venisse corretta, circoscrivendola solo ai rave, sarebbe comunque normale concepire pene così severe per la trasgressione giovanile? Ovviamente no, è una cosa ridicola che però è in continuità con la tecnica legislativa utilizzata da tutti negli ultimi 20 anni. Dobbiamo capire che il livello di compromissione della nostra democrazia lo cogliamo nel valore propagandistico che ormai la legge penale ha agli occhi e nelle azioni della politica. Che sia chiaro, di qualsiasi colore. Alcuni schifosissimi decreti sicurezza sono stati partoriti da governi di centro sinistra. Non è un caso che l’ultimo ministro degli Interni dichiaratamente di sinistra - del resto è finito in Leonardo - sia stato definito “criminale di guerra” da Papa Francesco, che non mi risulta abbia mai smentito questo giudizio definitivo. Più carcere per chi non capisce che “la pacchia è finita”, per citare Salvini e Meloni, e manganelli agli studenti della Sapienza. Che idea si è fatto del ministro dell’Interno Piantedosi? Pessima, ma soprattutto perché ho l’impressione che abbia gravissime lacune sul piano tecnico. Piantedosi è stato già protagonista, come capo di gabinetto con Salvini ministro, dei decreti sicurezza che sono stati dichiarati incostituzionali. Adesso il suo primo atto di governo è una legge palesemente incostituzionale, e questo potrebbe rilevarlo anche uno studente che si stia approcciando al diritto penale. E non è un caso che giuristi autorevolissimi (tra loro Fiandaca e Padovani) abbiano parlato in maniera espressa di “analfabetismo giuridico”. Su Piantedosi c’è una cosa da dire: dà l’impressione di voler nascondere l’incapacità con la cattiveria. Non ci riesce. Mentre noi chiacchieriamo, 234 profughi a bordo della nave Ocean Viking sono ancora bloccati in mare in attesa di un porto sicuro. È possibile che dopo una pandemia e con una crisi energetica in corso il tema migranti riesca ancora a riscuotere successo? Se mai la destra ha avuto una identità, la sua identità è questa: essere forte con chi non ha diritti, e debole con i prepotenti, con i violenti, con chi sistematicamente viola le regole alla luce del sole. La destra per statuto è questo, da sempre. E non ha nemmeno il coraggio di rappresentarsi nella sua disumanità: parla di geopolitica e di difesa dei confini ma in realtà ha enormi difficoltà a considerare esseri umani chi si trova in mare, in pericolo di vita e chi si trova in Libia, vittima di criminali estorsori e torturatori. Il “signor” Meloni non ha avuto alcun problema a rivolgersi col tu all’onorevole Aboubakar Soumahoro. In quel tu c’è oggettivamente una questione razziale. Oltre alla norma anti rave, nel primo decreto del nuovo governo viene riproposto il testo sull’ergastolo ostativo licenziato dalla Camera nella scorsa legislatura. Secondo lei quel testo risponde alle obiezioni sollevate dalla Corte costituzionale? No. È una truffa perché è una norma che ha come unica ratio e obiettivo quello della sua impossibile applicazione. Al condannato è di fatto richiesta una prova diabolica. Però devo riconoscere, in questo caso, una maggiore onestà intellettuale da parte della destra che si è accorta dell’esistenza dell’articolo 27 della Costituzione e ha deciso di modificarlo, eliminando la finalità rieducativa della pena; una cosa enorme che, se ci fermiamo a riflettere, solo la spensieratezza degli ignoranti può concepire. Come si può ripensare il concetto di pena per provare a reinserire i detenuti in generale e in particolare quelli condannati per mafia? Sicuramente non utilizzando come argomentazione la costruzione di nuove carceri. Più che di edilizia, ci si deve occupare di diritti e credo che da questo punto di vista la base di partenza non possono che essere i dati statistici a nostra disposizione in tema di recidiva, oltre alla necessità di considerare un altro dato oggettivo: il carcere, così come è, fatto salvo rarissime eccezioni, è criminogeno ed è un volano di affiliazione alle organizzazioni criminali. La norma sull’ergastolo ostativo mette d’accordo quasi tutti i partiti. Non è solo un problema della destra… Io su questo, nel corso degli anni, mi sono fatto un’idea. A sinistra si continua a sbandierare, di solito quando non si sa cosa dire, il tema della “questione morale” sollevato da Berlinguer. E la questione morale - in seguito alle emergenze che abbiamo vissuto negli anni ‘90, sia a causa della stagione stragista che dei gravissimi fatti di corruzione oggetto delle inchieste di Tangentopoli - è via via digradata in un moralismo giudiziario che sul piano culturale è sostanzialmente complottista. Quindi la logica è diventata: in materia di giustizia penale sono ammesse solo pene rigide, solo carcere certo e nessuna misura alternativa alla detenzione. Chi la pensa diversamente è un paramafioso. Ciò detto, è evidente come tutto questo nel nostro paese accada perché, chi si è sempre professato garantista, è stato ed è in realtà solo diversamente giustizialista, ergo garantista pro domo sua. È l’intero paese ad essere profondamente qualunquista, e il qualunquismo ha sempre una cifra inquisitoria. Il ministro Carlo Nordio doveva rappresentare la “quota garantista” al governo, sostenitore della depenalizzazione di molti reati anche per svuotare le carceri italiane. Invece, durante la visita a Regina Coeli, ha parlato più di edilizia carceraria che di prigioni da svuotare. Come giudica questi primi passi? A Nordio ho fatto un’apertura di credito proprio per quanto aveva dichiarato sulle carceri. Credo che, nel suo caso, sia un po’ presto per fare ogni valutazione, che sia positiva o negativa. Va sottolineato però che, nel caso del ministro Nordio, non ci troviamo al cospetto dei problemi di inadeguatezza al ruolo che sono invece evidenti nel caso di Piantedosi. Tra gli obiettivi del governo sembra esserci la sostanziale cancellazione del reddito di cittadinanza. Oltre a salvare dalla fame milioni di italiani, crede questo strumento sia stato utile anche per sottrarre manovalanza mafiosa ai clan? Certo che lo è stato. Non abbiamo la possibilità di conoscere esattamente in quali percentuali, perché il periodo di prima erogazione del reddito di cittadinanza ha coinciso con il lockdown, quando, per forza di cose, i reati predatori hanno subito una netta diminuzione. Ma è evidente che se percepisci un reddito di 700 euro al mese, non rischi il carcere per piccoli furti. Ciò detto, anziché fare il madornale errore di cancellare una norma che dà dignità a milioni di persone, bisogna migliorarla. Il reddito di cittadinanza ha, volente o nolente, creato un intorpidimento, ma lo ha fatto in un mercato del lavoro che, in molte regioni del nostro Paese, è del tutto privo di alternative. Se nel sud Italia non c’è lavoro, è perché per decenni nessuno si è mai preoccupato di creare le condizioni perché lavoro ci fosse; prendersela con una misura assistenziale, quando non esiste altro paracadute, è una carognata tipica di chi è forte con i deboli e scodinzola al cospetto dei padroni del vapore. C’è da sciogliere un equivoco: Nordio non è un mite garantista di Astolfo Di Amato Il Riformista, 5 novembre 2022 Dopo il giuramento il Guardasigilli ha detto di voler dare piena attuazione al codice Vassalli, sulla carta più liberale ma poi neutralizzato dalla sbornia forcaiola di Mani Pulite. Ma potrebbe andar peggio. Sorpresa e delusione. Il decreto legge approvato nel primo Consiglio dei ministri presieduto da Giorgia Meloni ha contraddetto, in materia di giustizia, tutte le attese per una svolta antigiustizialista, che si erano manifestate a seguito della scelta di Nordio come Guardasigilli. Ma c’è davvero da essere sorpresi? Uscendo dal Quirinale, dopo il giuramento, Carlo Nordio ha, tra le altre cose, affermato essere una priorità la “attuazione del codice Vassalli, un codice firmato da una medaglia d’argento della Resistenza”. È la frase meno commentata, ma, forse, è quella più significativa del programma di riforma, che ha in mente il nuovo ministro della Giustizia. Per comprenderne appieno la portata è opportuno cercare di capire, innanzitutto, quanto grande sia stata la torsione subita nella prassi dal Codice Vassalli e, soprattutto, quale sia il ruolo della magistratura nel pensiero di Carlo Nordio. È necessario muovere da un dato di fatto. Vassalli, uno dei Maestri del diritto penale italiano e, al tempo stesso, uno dei più grandi avvocati dell’epoca, fu colui che, come componente del governo Craxi a quel tempo in carica, depotenziò gli effetti del referendum sulla responsabilità civile dei magistrati, che si svolse alla fine degli anni 80 con esito positivo. Più testimoni hanno riferito che Craxi aveva un rispetto reverenziale verso Vassalli e che, per questo motivo, non ebbe la forza di contrastare la formulazione di quelle norme, tuttora vigenti, che hanno, di fatto, sterilizzato l’esito del referendum. Non si può, dunque, ritenere che Vassalli abbia mai avuto un atteggiamento punitivo nei confronti dell’Ordine giudiziario. A sua volta, il nuovo codice di procedura penale, varato anch’esso alla fine degli anni 80 e che è appunto noto anche come codice Vassalli, non aveva e non voleva avere alcun effetto erosivo sul ruolo e sull’indipendenza dei magistrati, sia di quelli giudicanti e sia di quelli appartenenti all’ufficio del pubblico ministero. Esso, anzi, si muoveva nella prospettiva di una maggiore e piena valorizzazione del ruolo degli uni e degli altri. Da un lato, il ruolo del pubblico ministero era enormemente esaltato dalla circostanza che tutto l’apparato investigativo veniva posto alle sue dirette dipendenze. Una delle critiche più severe, che si faceva al sistema precedente, era che, essendo le indagini svolte da apparati subordinati all’Autorità amministrativa, le stesse potevano essere facilmente “addomesticate” con la conseguenza che ne restava vanificato il principio di indipendenza dell’Ordine giudiziario. L’inevitabile gigantismo della figura del pm avrebbe dovuto essere compensata, nel disegno del codice, dalla pari dignità della difesa in dibattimento, a partire dalla raccolta delle prove, e soprattutto da una posizione nettamente terza della figura del giudice, a partire dal giudice preposto al controllo delle indagini e all’udienza preliminare. Il dibattimento, a sua volta, avrebbe dovuto essere riservato a un numero limitato di casi da approfondire, e un ruolo decisivo per la decongestione avrebbe dovuto assumere il patteggiamento, al quale non era originariamente attribuita natura di condanna. L’attacco al nuovo codice fu immediato, mediante la pubblicazione di alcune intercettazioni di mafiosi, secondo i quali il nuovo processo, con le garanzie processuali previste, avrebbe impedito qualsiasi condanna. Poi è seguita la stagione di Mani Pulite, e a furor di popolino debitamente aizzato e di intellettuali e politici che, per poter raggiungere il potere, non hanno esitato a rinnegare qualsiasi principio, quel codice, garantista e liberale, ha subito una imprevedibile torsione in senso illiberale e giustizialista. Così è avvenuto che il gigantismo del pubblico ministero non ha avuto alcun reale contrappeso, specie sui temi della libertà personale e di quello, non meno delicato, dei sequestri; la Corte di cassazione è giunta a dire che è vero che la carcerazione preventiva non doveva servire a estorcere la confessione, ma se interveniva la confessione era giustificato concedere la libertà; la Corte costituzionale ha ritenuto legittimo che una condanna potesse intervenire a seguito di una dichiarazione accusatoria, resa in carcere da un detenuto ai danni di un terzo al fine di poter ottenere la libertà, senza che l’accusatore fosse poi neppure contro esaminato da parte del difensore del terzo imputato; prima la prassi amministrativa e poi il legislatore hanno pienamente equiparato il patteggiamento a una sentenza di condanna, facendo così perdere al primo qualsiasi appeal soprattutto nei casi dubbi. In questa prospettiva si comprende, allora, che la frase di Carlo Nordio, sulla necessità di dare attuazione al codice Vassalli, assume il significato di un manifesto di politica giudiziaria di una ampiezza e di una profondità di cui va colta fino in fondo la dimensione. Nella stessa prospettiva, il ricordo della figura di Vassalli, come medaglia di argento della Resistenza, non è un mero sfoggio di cultura storica, ma ha un preciso significato politico. È servito a ricordare che figlio dei valori della Resistenza doveva essere considerato l’originario equilibrio del nuovo codice di procedura penale e non il frutto di quella oscena controriforma, che ha trasformato troppo spesso gli strumenti del processo penale in illiberali strumenti di oppressione. Ma quale è, e qui sta il punto, il ruolo della magistratura, nel pensiero di Carlo Nordio, in quell’equilibrio? Come si legge nella quarta di copertina del libro Giustizia Ultimo Atto. Da Tangentopoli al crollo della magistratura la sintesi del suo pensiero è la seguente: “A trent’anni da Tangentopoli, siamo ben lontani dal progetto di ripristinare la legalità nelle istituzioni. I rimedi messi in atto coi processi di Mani Pulite si sono rivelati peggiori del male che dovevano curare: la corruzione non è diminuita, come dimostra il caso del Mose, anzi ha aumentato i suoi introiti. Ma l’effetto collaterale più pernicioso è stato portare la magistratura al controllo dei partiti e alla tutela del Paese, fino al punto di sovvertire il responso delle urne e modificare gli equilibri parlamentari. Un’investitura permessa dalla subordinazione codarda della politica, che ha voluto assegnare alle toghe un ruolo salvifico e dirimente. In questo modo alla divisione dei poteri, invocata dalla Costituzione, è subentrata invece la loro confusione pressoché totale. Quindici anni fa l’ottanta per cento degli italiani confidava ancora nei magistrati. Oggi, dopo gli ultimi scandali emersi nella Procura di Milano, le faide tra le correnti interne e gli innumerevoli episodi di protagonismo dei Pm, …. la percentuale è crollata”. Il punto centrale del suo pensiero non sta, dunque, nella preoccupazione per le garanzie dell’imputato, ma nella preoccupazione per il crollo di credibilità della magistratura. Alla quale è assegnato un ruolo sacrale. Che non è quello di un magistrato super potente a dispetto delle regole, quale si è delineato a seguito di Mani Pulite, ma quello di un magistrato rispettoso delle regole di un processo nel quale il giudice sia realmente terzo e non vassallo della pubblica accusa. Il garantismo costituisce allora, nella prospettiva di Nordio, prima ancora che l’espressione dell’esigenza che siano rispettate le regole a tutela dell’imputato, la precondizione affinché possa realizzarsi in pieno la neutralità del ruolo del giudice e, perciò, la sacralità del ruolo sia di quest’ultimo e sia dell’accusa. È, questa, una concezione del processo, che può benissimo andare a braccetto con una visione disumana e disumanizzante della pena, quale è quella sottesa alla disciplina dell’ergastolo ostativo. Anzi, proprio una visione sacrale e non laica del ruolo del giudice e dell’accusa può costituire la base ideologica di un diritto penale sostanzialmente illiberale. Né queste considerazioni sono contraddette dalla preoccupazione, che lo stesso Nordio ha espresso, sulla condizione delle carceri, trattandosi di una preoccupazione che ben può coesistere con una concezione illiberale del diritto penale. Resta, tuttavia, una riflessione. Carlo Nordio è persona, come emerge da molti suoi articoli, che ha una ricca cultura umanistica. Il rispetto per la dignità delle persone dovrebbe, perciò, essere profondamente radicato nel suo animo e, se così è, non potrà permettergli di continuare ad essere, anche in futuro, corresponsabile di una legislazione rozzamente giustizialista. La giustizia lumaca e le misure per velocizzarla di Francesco Di Ciommo Il Sole 24 Ore, 5 novembre 2022 Con il decreto-legge approvato lunedì il governo Meloni ha rinviato al 30 dicembre l’entrata in vigore della Riforma Cartabia (legge n. 206 del 2021). Il provvedimento, di fatto, sospende le nuove norme destinate a operare nell’ambito penale. Resta ferma la data di entrata a regime del processo civile riformato, già fissata al 30 giugno prossimo. Questi, allo stato, i tempi previsti per l’operatività della riforma della giustizia promessa dall’Italia all’Europa. Il cui obiettivo principale, indicato anche nel Pnrr, consiste nel ridurre sensibilmente la durata dei processi. In particolare, per quanto riguarda quello civile, si prevede una riduzione del 40% dei tempi medi di giudizio entro giugno 2026. Una piaga, quella della durata dei processi, che - come recentemente confermato dal decimo rapporto della Commissione europea per l’efficienza della giustizia del Consiglio d’Europa (Cepej), pubblicato il 5 ottobre - insieme ad altre criticità (ad esempio, il numero esiguo di magistrati) relega, in termini di efficienza, il sistema giudiziario italiano agli ultimi posti in Europa. Per fermarci al contenzioso civile, a fronte di una durata media europea di 237 giorni, in Italia i giudizi di primo grado nel 2010 avevano una durata media di 493 giorni e nel 2020 di 674. Con la conseguenza che, pur avendo registrato negli ultimi dieci anni una riduzione del contenzioso pendente del 33%, la nostra giustizia civile risulta la più lenta del Vecchio continente. Con le inevitabili ricadute in termini di grave disagio per famiglie e imprese. E, più in generale, con una drammatica perdita di competitività per il sistema-Paese che viene stimata in un valore tra l’uno e i due punti percentuali di Pil. Che una profonda trasformazione della giustizia (non solo) civile in Italia fosse necessaria, non è dunque in dubbio. E in tale prospettiva va valutata la recente riforma, su cui il giudizio, nel complesso, non può che essere positivo, se pure con qualche riserva. A cominciare dalla nuova disciplina del giudizio ordinario di cognizione, nel quale gli obiettivi di semplicità, concentrazione, effettività della tutela e ragionevole durata del processo, si sono tradotti, in estrema sintesi: 1) nella valorizzazione delle fasi anteriori allo svolgimento della prima udienza di trattazione, che si caratterizzeranno per lo scambio di memorie integrative tra le parti; 2) nella sostituzione dell’udienza di precisazione delle conclusioni con lo scambio di note scritte; 3) nella riduzione di termini difensivi. La riserva qui riguarda la scelta di rendere la prima udienza di trattazione un traguardo a cui la causa dovrà arrivare già definita nelle domande, nelle eccezioni e nelle prove, in modo da consentire al giudice di avere già chiaro in quella sede il thema probandum e decidendum. Il punto è che perché tutto funzioni occorrerà che il giudice, al contrario di quanto accade adesso, arrivi a tale udienza avendo studiato in modo completo il fascicolo. Il che senz’altro impatterà in modo rilevante sull’organizzazione degli uffici e potrebbe indurre i giudici a differire il più possibile lo svolgimento dell’udienza stessa, con conseguente tradimento del principio di speditezza che ha ispirato il legislatore. Senza riserve, possono essere, invece, salutate con favore le numerose novità in materia di procedimento esecutivo, volontaria giurisdizione e alternative dispute resolution. In particolare, risulta significativo lo sforzo realizzato per promuovere il più possibile la mediazione, che sembra destinata a trasformarsi, da strumento alternativo al giudizio, a vera e propria giurisdizione complementare. Decisamente improntato alla speditezza e finalizzato a consentire lo smaltimento dell’arretrato risulta, infine, il nuovo procedimento di Appello, destinato a impattare proprio laddove il nostro processo civile risulta maggiormente in sofferenza. Le nuove norme a riguardo prevedono la reintroduzione del giudice istruttore designato dal presidente del Collegio, al quale deve essere delegata l’espletazione di tutte le fasi preliminari e propedeutiche alla decisione finale, compresa l’eventuale udienza in cui le parti tratteranno oralmente il tema della manifesta infondatezza, che potrà essere successivamente dichiarata con sentenza succintamente motivata, e compresa l’udienza di trattazione dell’istanza di sospensione dell’efficacia della sentenza di primo grado. Il rischio che il giudizio di appello finisca per essere governato integralmente da un giudice unico è evidente, e ciò malgrado l’art. 350 c.p.c. confermi che la decisione di secondo grado, quando di competenza della Corte d’Appello, è sempre collegiale. Ma tant’è. Veneto. Giustizia predittiva, una piattaforma e un algoritmo per aiutare i giudici di Mitia Chiarin La Nuova Venezia, 5 novembre 2022 Più di 800 sentenze dei Tribunali del Veneto consentono alla prima piattaforma di questo tipo in Italia di aiutare nella valutazione delle sentenze. Il 14 novembre a Ca’ Foscari dati e presentazione. Predire l’esito di un giudizio, una frontiera che finora sembrava impossibile ma che sta divenendo realtà grazie al progetto di ricerca, unico in Italia, dell’Università Ca’ Foscari Venezia (Centro Studi Giuridici) in collaborazione con La Corte di Appello di Venezia e Unioncamere del Veneto e realizzato grazie all’apporto tecnico di Deloitte. Grazie alla piattaforma, realizzata dal dipartimento di Intelligenza artificiale di Deloitte (partner del progetto) è possibile navigare e analizzare le fattispecie giuridiche del licenziamento per motivi soggettivi e relativi orientamenti in modo dinamico e interattivo. Più di 800 sentenze dei Tribunali del Veneto sono alla base dell’algoritmo che regola la piattaforma. Con l’utilizzo di tale applicativo, si vuole favorire la conoscenza effettiva degli orientamenti giurisprudenziali, per evitare conflitti inconsapevoli e strutturare e arricchire le banche dati, indicizzando con statistiche e metriche informative facilmente consultabili. Si chiama giustizia predittiva ed è un settore del diritto di recente sviluppo che consiste nel prevedere l’esito di un giudizio attraverso l’intelligenza artificiale applicata alla Giurisprudenza. In questo caso si tratta di uno strumento di Intelligenza Artificiale basato su Natural Language Understanding & Processing per favorire la conoscenza dell’orientamento giuridico prevalente per alcune tematiche di interesse giuslavoristico (licenziamento per giusta causa e giustificato motivo soggettivo). Risultati e prospettive del progetto vengono discussi il prossimo 14 novembre in un convegno con avvio dalle 11 all’Aula Baratto di Ca’Foscari. Antonio Rughi, senior partner di Deloitte, afferma che “la soluzione tecnologica sfrutta la capacità dell’Intelligenza Artificiale e in particolare degli algoritmi di comprensione del linguaggio naturale per l’analisi semantica della lingua italiana utilizzando tecnologie in grado di comprendere concetti e relazioni semantiche tramite analisi logiche e algoritmi di disambiguazione proprietari”. Adalberto Perulli, Ordinario di diritto del lavoro a Ca’Foscari e direttore del Centro Studi Giuridici dell’ateneo veneziano, precisa che “si tratta, del primo prototipo di intelligenza artificiale applicata alla giurisprudenza realizzato in Italia. La Corte di Appello di Venezia e l’Università Ca’Foscari hanno operato in stretta collaborazione con l’allora Presidente dell’Ordine degli Avvocati, avv. Sacco (oggi componente del CNF). Un team di ricercatori e avvocati ha supervisionato la realizzazione dell’algoritmo, al fine di garantire il controllo umano dell’intelligenza artificiale. I risultati cui siamo giunti sono sorprendenti e fortemente innovativi. Grazie a questo strumento e alla collaborazione dei Giudici del lavoro dei Tribunali del Veneto e al Presidente della Sezione Lavoro della Corte di Appello, dott. Perina, che ringrazio per la preziosa collaborazione, è stato infatti possibile raccogliere e indicizzare tutta la giurisprudenza di un triennio in materia di licenziamento per motivi soggettivi relativa al distretto della Corte di Appello di Venezia, catalogarla e anonimizzarla, per consentire all’algoritmo di fornire una valutazione probabilistica dell’esito di una causa. Siamo passati quindi dalle idee ai fatti concreti e ora disponiamo di uno strumento prezioso per il futuro della Giustizia”. Conclude Perulli: “Non si tratta assolutamente di sostituire il giudice con un algoritmo, ma di fornire al giudice - ed eventualmente anche agli altri operatori della giustizia - un applicativo ausiliario realmente “intelligente”, in grado di rendere più efficiente, consapevole e veloce l’attività decisionale, che rimane e deve rimanere saldamente in capo agli esseri umani. Auspico che il Ministero della Giustizia, tra i cui obiettivi vi è l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale alla Giustizia, non “ricominci da zero”, ma condivida gli importanti risultati raggiunti e fornisca linee di indirizzo per proseguire questo progetto anche su scala più ampia”. Milano. Famiglie senza giustizia: ai parenti delle vittime a cui finora è stata negata la verità di Francesca Del Vecchio La Stampa, 5 novembre 2022 L’avvocato dei Regeni: “Un dolore indescrivibile”. Il fratello di Borsellino: “C’è chi perde la fiducia”. Quando ho compiuto 50 anni ho pensato che non avrei mai visto giustizia per Giulio”. Alessandra Ballerini, avvocata dei coniugi Regeni, genitori del ricercatore torturato e ucciso in Egitto nel 2016, evoca la “generosità” di queste famiglie - quella di Giulio, ma anche quella di Mario Paciolla, cooperante napoletano morto in Colombia nel 2020 sulla cui sorte fu gettata l’ombra del suicidio, che hanno reso pubblica la loro battaglia di giustizia e verità. La generosità di cui parla Ballerini è la medesima di Antonella Penati, mamma e presidente dell’associazione “Federico nel cuore”, che dal 2009 combatte perché il suo bambino, ucciso dal padre durante un colloquio protetto, abbia finalmente giustizia. Le storie di Giulio e di Mario raccontate da Ballerini, e quella del piccolo Federico raccontata dalla madre e dal suo legale Federico Sinicato, sono state il filo conduttore del convegno “Giustizia e verità negata. Deficit giudiziario o ipocrisia del sistema” che si è svolto ieri a Milano. Un incontro in cui si sono intrecciati i racconti di vite spezzate sulle quali non è stata fatta pienamente luce, come quella del giudice Paolo Borsellino, raccontata dal fratello Salvatore, e altre, come quella del piccolo Federico che non hanno avuto giustizia a causa di un vuoto normativo. Ma anche quella dei 268 migranti siriani morti durante il naufragio del 12 ottobre 2013: quando una nave della Marina Militare Italiana non rispose alle richieste di soccorso. “Nella narrazione di queste storie”, prosegue Ballerini che assiste i familiari delle persone morte nel naufragio, “è frequente la retorica del “se l’è andato a cercare”: nel caso di Giulio si disse “Cosa ci faceva in Egitto”, nel caso dei migranti “Ma perché si affidano agli scafisti”. Chi sopravvive, “come i genitori di Giulio o Antonella”, aggiunge l’avvocata Ballerini, “non ha parole per esprimere il “dolore da ingiustizia” perché un vocabolo non esiste. Possono solo tenere la memoria attiva, come dicono Paola (Deffendi) e Claudio (Regeni)”. Ma in molti casi, come dimostra la storia di Antonella Penati, portare avanti una battaglia simile rappresenta un sacrificio anche economico: “Possiedo solo la casa in cui vivo, niente di più. E l’ho già ipotecata due volte”, spiega commossa. “Spesso c’è anche chi perde la fiducia nello Stato perché si vede osteggiato nella sua ricerca di verità”, commenta amaro Salvatore Borsellino. L’incontro - al quale hanno partecipato anche il Sostituto Procuratore di Ravenna, Cristina D’Aniello, e Vittoria Tola della Segreteria Nazionale di Udi, Unione delle Donne in Italia - ha interrogato i relatori sul tema del cortocircuito tra deficit giudiziario e giustizia per le famiglie. “C’è un solo modo per contrastare questo vulnus: continuare a combattere. Non solo nelle aule di tribunale ma facendo anche un lavoro culturale”, conclude l’avvocato Sinicato, anche legale dei familiari delle vittime della strage di piazza Fontana del dicembre 1969. Santa Maria Capua Vetere (Ce). In sedia a rotelle con due costole rotte, sta solo in cella di Rossella Grasso Il Riformista, 5 novembre 2022 Il garante Ciambriello: “Deve stare in un luogo più sereno e curato”. “Mio figlio ha 38 anni, le costole rotte per una colluttazione che ha avuto in carcere. Sta sulla sedia a rotelle e avrebbe bisogno di un piantone ma dal carcere mi hanno detto che nessuno ci vuole andare. Vive da solo in una cella fatiscente. Mentre facevamo la videochiamata mi ha mostrato un topo, un ratto, che stava con lui in cella”. Sono queste le parole di preoccupazione della mamma di un detenuto ristretto nel carcere di Santa Maria Capua Vetere. Il grido di dolore di una madre che conosce le condizioni fisiche e psicologiche di suo figlio, che da solo non riesce a fare nulla, ma che lei non può aiutare in nessun modo. La vicenda del 38enne è nota anche al Garante dei detenuti della regione Campania, Samuele Ciambriello, che da mesi ne segue le evoluzioni. “Lo abbiamo visitato ripetutamente - ha detto al Riformista - Ha dei disagi, disturbi multipli ed è sulla sedia a rotelle. Tempo fa ha avuto un incidente stradale ed è anche stato in coma. Poi in carcere ha riportato la frattura alle costole, una vicenda che ha anche denunciato. In passato ha anche tentato il suicidio. È in isolamento ma dovrebbe stare in un luogo più sereno e curato. Con tutti i disagi che ha, certamente non è autosufficiente. E invece è in una stanza da solo e senza un piantone”. Viene dunque spontaneo chiedersi: una persona in questo stato può badare a se stessa anche nelle più piccole cose come la sua igiene personale e la pulizia della sua cella? È davvero in grado di vivere da solo? La mamma racconta al Riformista che suo figlio ha già scontato 4 anni di carcere e gliene rimangono ancora 8. Ciambriello racconta che da tempo chiede il trasferimento in un altro carcere fuori dalla Campania. “Voleva fare i corsi dell’Università - continua la mamma - ma non c’è stato nulla da fare. È come se il carcerato fosse l’ultima ruota del carro, qualcosa che può finire in una pattumiera. Chi ha sbagliato deve pagare ma con dignità, non in mezzo all’immondizia e con i topi. Lui sta impazzendo lì dentro”. Le foto della cella sporca, piena di spazzatura e del ratto sono rimbalzate sui social. “Può un detenuto con problemi di salute, che non riesce a pulirsi la cella, senza piantone, essere costretto a convivere con un ratto? - ha scritto Monica Bizaj attivista per i diritti i con #RecidivaZero - Da Santa Maria Capua Vetere passo e chiudo”. Fermo. Il carcere tra passato e presente, necessari progetti ed educatori di Antonietta Vitali cronachefermane.it, 5 novembre 2022 L’evento ideato dal professor Italo Tanoni, giornalista professionista, docente universitario, già Garante dei Diritti degli adulti e dei bambini della Regione Marche, che lo ha voluto realizzare in collaborazione con l’Unipop Università Popolare di Fermo. L’articolo 27 della Costituzione, al comma 3, dispone che “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, eppure “c’è chi dice teniamo tutti dentro e buttiamo via la chiave e chi dice tutti fuori perché le carceri non sono educanti”. Con questa citazione Daniela Alessandrini, vicepresidente Unipop ha aperto l’incontro “Il mondo del carcere tra passato e presente” da lei coordinato e tenutosi ieri pomeriggio a Fermo presso il Palazzo dei Priori. Un evento ideato dal professor Italo Tanoni, giornalista professionista, docente universitario, già Garante dei Diritti degli adulti e dei bambini della Regione Marche, che lo ha voluto realizzare in collaborazione con l’Unipop Università Popolare di Fermo, associazione di promozione sociale che ha finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale, e che collabora strettamente con l’Ente del Terzo Settore “Fermo Città dell’Apprendimento” per contribuire alla realizzazione degli obiettivi assegnati alla Città di Fermo con il conferimento del titolo di “Learning City” dell’Unesco. “Quando il Professor Tanoni - ha dichiarato il Presidente dell’Unipop, Ettore Fedeli già Sindaco di Fermo - ci ha proposto di raccontare storie che vengono dal carcere, da questa realtà che spesso noi rimuoviamo dalla nostra consapevolezza, abbiamo accettato subito perché, se lo scopo della nostra associazione è anche quello di promuovere il senso di comunità di una città qui riunita nelle sue articolazioni più importanti, anche queste voci di chi sta vivendo l’esperienza del carcere devono essere ascoltate e rese parte della comunità”. Si è parlato della sfera affettiva dei detenuti come del loro diritto alla salute, ma anche dello spazio limitato dovuto al sovraffollamento dei luoghi di detenzione, della violenza tra detenuti e detenuti e tra detenuti e forze di sorveglianza, dei suicidi divenuti sempre più frequenti non solo tra i detenuti ma anche tra gli agenti di polizia penitenziaria, del volontariato e del lavoro. Su quest’ultimo punto si sono soffermati gli interventi non solo di Tanoni ma anche di altri intervenuti come il sindaco Paolo Calcinaro, avvocato penalista lui stesso, che ricordando di un incontro recentemente avvenuto con un ex detenuto ha puntato l’attenzione sulla difficoltà al reinserimento in società di chi termina il periodo di detenzione. “Importante - per Calcinaro - è lavorare anche sulla giornata del detenuto per renderla lavorativa e volta ad un futuro inserimento nella società”. Dello stesso avviso del sindaco Nicola Arbusti già educatore presso la Casa di Reclusione di Fermo fino al 2019 e che ha ricordato con stima e affetto la figura di Nicolò Amato “il quale - ha dichiarato - credeva fortemente nel recupero del detenuto e appoggiava ogni iniziativa nata con questo intento”. Molte le iniziative organizzate da Arbusti durante il suo mandato come teatro, biblioteca, giornalino, corsi scolastici, corsi da parrucchiere, di pizza, di musica, di educazione motoria, di falegnameria, proprio per favorire il recupero sociale dei detenuti. Tuttavia “dopo i fatti di Modena e di Santa Maria Capua Vetere - ha ricordato Arbusti - le carceri sono diventate dei luoghi chiusi, adesso è un luogo troppo chiuso e inaccessibile dove i detenuti non hanno contatti con l’esterno. Se non si apre la rieducazione diventa impossibile. Fondamentale che la prevenzione cominci dalle scuole - ha continuato Arbusti - per insegnare ai giovani quanto sia facile incappare in una detenzione”. Sono stati inoltre relatori dell’evento la giornalista Angelica Malvatani e Giorgio Magnanelli. Molte le personalità invitate all’incontro che sono state ringraziate dalla moderatrice Daniela Alessandrini quali il vescovo dell’Arcidiocesi di Fermo, Rocco Pennacchio, e la Caritas, organizzazione che fattivamente collabora con il carcere di Fermo, il colonnello Gino Domenico Troiani del Comando Carabinieri di Fermo accompagnato dal tenente colonnello Luigi Lubello, comandante del Reparto operativo dell’Arma, Maria Raffaella Abbate, dirigente della Squadra Mobile in rappresentanza della Questura di Fermo, Daniela Valentini, direttrice del Carcere di Fermo e che non ha potuto essere presente, Andrea Albanesi, presidente della Camera Penale, Katia Marilungo, presidente dell’Ordine degli Psicologi che non ha potuto essere presente, Franco Elisei, presidente dell’Ordine dei Giornalisti delle Marche che ha patrocinato l’evento, Giancarlo Giulianelli, attuale Garante dei Diritti degli adulti e dei bambini della Regione Marche, Alessandro Lavieri, coordinatore dell’Ats19, e il presidente dell’Ordine degli Avvocati di Fermo, Stefano Chiodini che ha ringraziato ilprofessor Fedeli per aver voluto organizzare l’evento che porta all’attenzione un tema così delicato e, spesso non considerato, come quello della realtà carceraria italiana. Piacenza. “Un carcere fatto di persone e incontri”: in Fondazione la mostra fotografica Libertà, 5 novembre 2022 Un carcere fatto di persone, storie, incontri. Lo racconta, rivolgendosi direttamente alle scuole e agli studenti, la mostra “San Vittore quartiere della città” che dal 7 novembre al 10 dicembre sarà allestita nello Spazio espositivo della Fondazione di Piacenza e Vigevano grazie all’associazione “Verso Itaca APS”. La mostra è un progetto nato a Milano, proposto alla casa circondariale di San Vittore. È un percorso di immagini e parole, che rappresenta la sintesi di un lavoro di fotografie, realizzate da Margherita Lazzati, e di frammenti tratti da sessanta interviste a operatori penitenziari, persone detenute, volontari, insegnanti, medici, assistenti spirituali. Il risultato è una narrazione del carcere come spazio di incontro di persone diversissime. Ad emergere non è un pianeta a sé stante, ma un luogo della città che vive di dolori, emozioni, debolezze, fatiche, passioni e fragilità. A Piacenza “San Vittore quartiere della città” ha il sostegno della Fondazione di Piacenza e Vigevano e il patrocinio della Casa Circondariale di Piacenza, del Comune e della Camera Penale. Sarà inaugurata lunedì 7 novembre alle 17.30. Interverranno Mario Magnelli, Vicepresidente della Fondazione di Piacenza e Vigevano; Maria Gabriella Lusi, Direttore della Casa Circondariale di Piacenza; la fotografa Margherita Lazzati autrice delle immagini esposte; Alberto Gromi, già Garante dei Diritti delle persone private della libertà, da anni impegnato in progetti per le scuole piacentine; Carla Chiappini, Presidente dell’associazione “Verso Itaca APS”, realtà che dal 2014 è in prima linea per aprire un dialogo sulla giustizia, sulle scelte, sulle responsabilità personali e sociali, rivolgendosi soprattutto ai giovani. Per tutta la durata della mostra accanto agli spazi espositivi, in una saletta attrezzata, saranno organizzati incontri con gli studenti delle scuole medie e superiori, sul tema del carcere e sulle implicazioni sociali e personali della detenzione. Milano. “Disagio dentro”, in tribunale ci sono tante foto quanti suicidi nelle carceri milanotoday.it, 5 novembre 2022 Una mostra fotografica racconta la situazione allarmante in cui vivono i detenuti. Tante fotografie quante sono le persone che, rinchiuse in carcere, si sono tolte la vita. È la mostra allestita al palazzo di Giustizia di Milano dal 7 al 26 novembre. La rassegna, intitolata “Disagio dentro” ha l’obiettivo di innescare “una riflessione collettiva dei soggetti coinvolti nell’esecuzione penale sulla situazione attuale delle carceri, di cui il numero impressionante di suicidi è solo uno dei tanti segnali di allarme”. A promuovere la mostra è la Camera Penale milanese, insieme al provveditorato regionale per l’amministrazione penitenziaria della Lombardia, al consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano e alla sezione milanese dell’Associazione nazionale magistrati. ‘Disagio dentro’, spiegano gli organizzatori, “vedrà esposte alcune fotografie (in numero simbolicamente pari a quello delle persone che si sono tolte la vita in carcere nel 2022) scattate nelle carceri milanesi da persone detenute e agenti di polizia penitenziaria nell’ambito del progetto Ri-scatti, attualmente in esposizione al Pac”. Lunedì 7 novembre alla biblioteca dell’Ordine degli avvocati” nel palazzo di Giustizia si terrà l’inaugurazione. “Parlami dentro”, il valore liberante della parola di Luigi Laguaragnella cittanuova.it, 5 novembre 2022 Un’iniziativa volta a mettere in relazione cittadini fisicamente “liberi” e detenuti, condividendo attraverso la scrittura le proprie catene e prigioni interne in un rapporto di intimità. Rivolgersi a un destinatario, anche se sconosciuto, attraverso la scrittura di una lettera resta un atto romantico. Eppure questo gesto è capace di tessere legami e spezzare catene interiori ed esteriori contribuendo a ricostruire l’identità di alcune persone obbligate dalla reclusione, prive della libertà individuale. È questo l’obiettivo di “Parlami dentro”, progetto della Fondazione Vincenzo Casillo, realtà pugliese con sede a Corato nella provincia di Bari, che mette in campo azioni a sostegno dell’istruzione, dell’educazione e dello sviluppo degli individui collaborando con enti no profit pugliesi e su scala nazionale, ridona alla parola la sua autentica essenza empatica. Preziosa è la collaborazione con “Liberi dentro - Eduradio & TV”, programma radio-televisivo bolognese di informazione e servizi per le persone detenute con l’obiettivo di ri-educare attraverso contenuti e format multimediali e creando un collegamento tra il mondo esterno della città e il carcere. Avviato dall’aprile 2020, in coincidenza del lockdown a causa del coronavirus podcast e programmi televisivi si sono sviluppati grazie alla rete di insegnanti, formatori, assistenti spirituali, operatori dei servizi istituzionali e volontari che da anni operano all’interno del carcere di Bologna portando parte del mondo di fuori in carcere e dando spazi di libertà immaginaria e di speranza a molte persone obbligate a stare in cella. Il progetto “epistolare” a cui è possibile partecipare inviando una lettera all’indirizzo parlamidentro@gmail.com fino all’11 dicembre è una vera e propria chiamata alle lettere, appunto. Ogni cittadino, in forma anonima o autografata può scrivere ad un detenuto sconosciuto il racconto della giornata, un aneddoto personale, una storia; può inviare lo stralcio di un libro o di una traccia musicale, l’immagine di un dipinto. È un tentativo di avvicinare i due mondi esterno-interno scavando però nell’intimità che ad ogni livello è legata da catene, che in molti casi, solo la scrittura riesce a liberare. “Scrivere lettere è un modo diretto di raccontare di sé e donare ad una persona ciò che è seminato nel proprio intimo, è un atto generoso e di coraggio. Chiediamo di raccontare al mondo di dentro il mondo di fuori” - dice Marilù Ardillo ideatrice del progetto promosso dalla Fondazione pugliese nata in memoria dell’attività imprenditoriale nel settore del grano di Vincenzo Casillo, che dal suo piccolo molino di San Severo nel foggiano, con impegno e sacrificio ha creato, nel corso degli anni un’azienda, punto di riferimento nel settore. Scrivere in modo personale, sebbene possa sembrare un gesto inizialmente difficile, scomodo per la difficoltà di scavare le emozioni più profonde, sollecita la creatività e la fantasia trasformandolo in gesto liberante. La prima lettera spedita per “Parlami dentro” è da parte di una giovane mamma che conferma il senso di reciprocità che si viene a creare in un rapporto epistolare: “Anche se non ci sarà una vera e propria interazione tra mittente e destinatario, la potenza della parola può creare incastri e affinità anche tra persone che percepiscono in modo differente il concetto di libertà” afferma Marilù. Lo scopo è di raccogliere lettere per donarle ad ogni singolo detenuto della casa circondariale di Bologna. Le produzioni epistolari saranno lette giornalmente attraverso i canali di Eduradio & TV nel mese di dicembre. L’emittente produce interessanti rubriche e contenuti trasmessi in differita sui canali YouTube e, appoggiandosi sulle emittenti regionali e possono essere visti e ascoltati all’interno del carcere emiliano. Ricorda l’ideatrice del progetto: “Già nel periodo del primo lockdown è nata la collaborazione con questa realtà associativa emiliana. Venne creato un progetto sulla genitorialità nelle carceri dal titolo “Padri in pena” nell’istituto penitenziario di Trani. Nel periodo pandemico occorreva far sentire meno solo i detenuti che, a causa delle restrizioni sanitarie, non potevano ricevere visite di familiari e dei cari. “Parlami dentro” è l’ampliamento di questa esperienza ripartendo dal valore liberante della parola”. Proprio del valore della progettualità di percorsi riabilitativi parla Antonella Cortese di Eduradio & TV: “Tutti i progetti creati all’interno del carcere rappresentano ipotetici spiragli per le persone di lavorare all’esterno; sono la vera misura alternativa al carcere perché rendono la persona capace di potersi ricostruire il futuro”. E in fondo poter ricollocare uomini e donne in un contesto lavorativo è sintomo di una società che è riuscita ad accogliere. Uno degli ostacoli però è lo stigma negativo nei confronti dei reclusi da parte di molti cittadini. Inoltre, le strutture carcerarie sono impostate prevalentemente per gli uomini, tralasciando esigenze, dinamiche e progettualità specifiche per le donne la cui presenza nelle carceri è data al 4%. Un dato significativo, che sottolinea anche Antonella, è che proprio le persone detenute in mancanza di processi rieducativi e riabilitativi nel 70% dei casi sono recidivi. “Rintegrarsi nel contesto sociale è un processo lento, che procede a tappe per permettere di riabituarsi ai ritmi della vita della società civile, ma servono adeguati finanziamenti” afferma la rappresentante di Eduradio & TV che in seguito descrive il senso di straniamento che percepiscono i detenuti: “Durante la pandemia, con il permesso di partecipare alle video chiamate una persona in carcere da oltre 20 anni, ha potuto rivedere la propria casa e i parenti più lontani, la strada del suo quartiere, ha potuto riassaporare, insomma, parte delle sue abitudini e affetti che il tempo ormai aveva addirittura portato a non riconoscere. Ha notato le variazioni imposte dalla realtà. La realtà, anche quella a cui si appartiene, è vista con differenze di percezione e a volte può risultare davvero destabilizzante”. L’appello a scrivere lettere per i detenuti è rivolto anche alle scuole chiedendo agli studenti, agli insegnanti per attivare processi virtuosi che valorizzino le buone parole per uno scopo empatico che tende al bello accennando alle tematiche sui concetti di libertà, di giustizia e di prossimità verso persone in difficoltà o che comunque vivono uno stato di reclusione e isolamento. Questa iniziativa si rivolge ad ogni cittadino concretamente libero, ma che in fondo convive con le prigioni invisibili nella propria vita che la scrittura permette di sprigionare e condividere. Fenomenologia della questione penale. Una storia italiana di Federica Graziani Il Dubbio, 5 novembre 2022 Tra i bravi garantisti, e sparuti, e i cattivi giustizialisti, e onnipresenti, s’è da sempre giocato un conflitto ideologico chiaro. Da una parte l’aderenza alle regole dello Stato di diritto, la temperanza e la misericordia, dall’altra il colpevolismo, l’orrore del farla franca, l’invocazione di più carcere come panacea per la disonestà dilagante. Tutto chiaro. Tutto chiaro finché fra i due schieramenti avversari non ha attecchito una versione recente dell’antica tradizione di denuncia della cultura del piagnisteo. Nella mondanità giornalistica e sociologica s’è cominciato a portare lo sbuffo e, pontifica tu che minimizzo io, ora lo sbuffo è dilagato. Si ha in sospetto di luogo comune il richiamo ai principi costituzionali, ci si spazientisce con la saggistica sui diritti civili, si è impazienti di tacciare di litania la denuncia delle condizioni indecenti in cui versa il sistema della giustizia. Certo che le gogne mediatiche, i furori sanzionatori e i poveri cristi buttati in galera sono materia seria e grave, ma che barba e che noia, lasciateci pur divertire con qualche libertà di coscienza, siamo fra adulti! La situazione s’è ingarbugliata ancora di più con i risultati delle urne. Ha vinto il centro destra e non sarà che la colpa vada attribuita al poco appeal dei temi cari a quella che ci si ostina con eccesso di nostalgia a definire sinistra? Manca lo slancio ideale ma manca pure la concretezza, non c’è presa sentimentale però anche l’ironia stufa, i problemi si accavallano e le priorità si confondono. Ma il centro destra non solo s’è permesso di vincere, s’è poi pure messo a governare. E il primo decreto legge del governo Meloni, siglato da appena una settimana, ecco che torna a schiarire le idee di tutti coloro che tanto si sono annoiati delle tenzoni in sospetto di politicamente corretto sulla giustizia. Un decreto per tre provvedimenti: il tentativo di salvare l’ergastolo ostativo prima che la Corte Costituzionale si pronunciasse sulla sua incostituzionalità, la previsione di un nuovo reato che vorrebbe essere una norma anti- rave ma per ora vieta i raduni di più di 50 persone “pericolosi per l’ordine pubblico, l’incolumità pubblica o la salute pubblica” e la sospensione della cosiddetta riforma Cartabia del processo penale, che fra le altre cose prevedeva sanzioni alternative al carcere per i reati minori comminabili già in sentenza. Tutti per un panpenalismo, un panpenalismo per tutti. Il decreto- legge è infatti uno zibaldone coerente e luminoso dei caratteri dominanti del populismo penale, passione punitiva che avrà pure annoiato i commentatori ma in fondo mette alla fine sempre un po’ tutti d’accordo, opinione pubblica e governanti d’ogni colore. E che è per l’ennesima volta descritta in “Le pene e il carcere”, dettagliata fenomenologia della questione penale italiana negli ultimi 30 anni a firma di Stefano Anastasia, docente di Filosofia e Sociologia del diritto all’Università di Perugia, Portavoce dei Garanti territoriali delle persone private della libertà e Garante per le Regioni Lazio e Umbria. La definizione di pena e quali siano le sue concrete articolazioni, la dinamica qualitativa e quantitativa del campo penitenziario italiano, la questione della sicurezza e del populismo penale, i diritti umani dei detenuti e la giurisprudenza umanitaria, la legittimità penale e la sopravvivenza del sistema penitenziario sono i capitoli di un abbecedario che si propone di bucare la bolla degli annoiati e dei distratti, investigando lo sfondo culturale al cui interno il panpenalismo così in auge prende forma. Torniamo ai nostri giorni e al decreto legge appena licenziato dal governo Meloni con le immancabili chiose dei: “Volevamo dare un segnale”, “L’Italia mai più maglia nera in materia di sicurezza”, “Provvedimento importante e simbolico”. E leggiamo Anastasia: “La definizione dei confini del diritto penale e la sua concreta applicazione in ambito giudiziario costituiscono, sì, azioni ad alto valore simbolico, talvolta manomessi fino a rinnovare rituali sacrificali, ma restano strumenti, non fini, di qualsivoglia idea di giustizia. Per intenderci: in nome di una qualche idea del bene si sono potute tagliare le teste, deportare esseri umani o lanciarli in mare da aerei in volo, ma mai alcun carnefice ha potuto sostenere che quegli abusi fossero il bene ultimo perseguito dalla propria parte politica, quanto piuttosto una necessità per il conseguimento, il consolidamento o la salvezza di qualcos’altro. Come nel rituale più antico, il sacrificio è un voto (addirittura una rinuncia) per il bene, non il bene in sé. Tutto ciò non rende plausibile aggiungere al novero delle altre possibili una specifica ideologia penal- populista, quasi fosse una idea a sé stante di società giusta o di bene comune, la società della punizione o il bene della maggior possibile sofferenza inflitta legalmente. Il diritto e la giustizia penale restano strumenti per un’idea ulteriore di giustizia, maggioritariamente condivisa o imposta ai consociati da chi detenga il potere politico. In fondo, anche dopo l’avvento delle carte dei diritti e della costituzionalizzazione dei valori, l’individuazione legale delle ipotesi di reato resta il più grande esercizio pubblico della loro specificazione, traducendo in norme giuridiche condotte lesive dei beni costituzionalmente tutelati secondo la scala di gravità delle loro conseguenze sanzionatorie. Che poi questo esercizio possa dare luogo ad abusi o ad aberrazioni, questo è problema nostro, di chi - legittimamente - non si riconosca nella selezione dei beni tutelati dalla legge penale e ne contesti la sua corrispondenza ai valori costituzionali, o addirittura contesti le stesse previsioni costituzionali, sulla base di un diverso orizzonte valoriale”. Dietro a quel primo decreto allora sta una idea della giustizia, e quindi della vita, che vuole l’esecuzione capitale di chi commette reato, che teme alcune forme di raduno giovanile, che crede poco nei valori costituzionali ma molto nel diritto del nemico e che inventa emergenze a giustificazione di quelle che crea con la sua azione. Il libro di Anastasia, come il suo lavoro, sono tutto ciò che serve per irrobustire le fila di chi vorrà avversarle. Basta leggerlo e rileggerlo. Perché sta male un prefetto al Viminale di Francesco Pallante Il Manifesto, 5 novembre 2022 Matteo Piantedosi è il quarto prefetto chiamato a ricoprire la carica di ministro dell’Interno. Prima di lui è stato il turno di Luciana Lamorgese (governi Conte II e Draghi), Annamaria Cancellieri (governo Monti), Giovanni Rinaldo Coronas (governo Dini). Nessun caso nella prima fase della storia repubblicana (1948-1993); tutti e quattro nella seconda (1994-oggi). Si tratta di un fenomeno che merita di essere approfondito, perché sintomo - l’ennesimo - dell’allontanamento dai principi del costituzionalismo. Cosa sia il costituzionalismo va forse ricordato: non, semplicemente, la scienza che studia la costituzione (quale essa sia), ma il filone della filosofia politica che riflette sui pericoli derivanti dall’acquisizione del monopolio della violenza legittima in capo agli Stati contemporanei e individua in un certo tipo di costituzione lo strumento più idoneo a contenerli. A tal fine, due sono gli strumenti indispensabili. La separazione del potere, in base alla quale sono stabilite regole costituzionali di competenza e di procedura che vincolano i titolari del potere rispetto al chi lo esercita e al come lo fa. E la limitazione del potere, in base alla quale sono stabilite, sotto forma di diritti, regole costituzionali di merito che vincolano i titolari del potere rispetto al cosa devono, possono e non devono fare. Il secondo profilo è senz’altro quello oggi più misconosciuto. “Abbiamo vinto le elezioni, lasciateci lavorare e tra cinque anni ci giudicherete”: è il refrain che sempre ricorre in bocca ai “vincitori” delle elezioni (da ultimo, nella versione Piantedosi: “Questo governo ha ottenuto un forte mandato elettorale dai cittadini su temi precisi. So cosa devo fare”). Una visione banalizzante le dinamiche politico-costituzionali, a partire dalla pretesa che le elezioni servano a sancire vincitori e vinti, mentre, in realtà, valgono a misurare il consenso di cui le varie opzioni politiche godono presso l’elettorato. Ma, soprattutto, una visione radicalmente avulsa dal costituzionalismo: che entra in gioco proprio nel momento in cui una parte politica (per di più, minoritaria) assume le leve del potere, per impedire che possa abusarne. Chiarissimo, in tal senso, l’art. 1, co. 2, della Costituzione: “La sovranità appartiene al popolo, che la esercita nelle forme [separazione del potere] e nei limiti [limitazione del potere] della Costituzione”. Ciò significa che i diritti esercitano, per loro stessa natura, una funzione antimaggioritaria e antigovernativa. Servono, prima di tutto, a proteggere le minoranze, e più in generale i governati, contro il pericolo che i governanti abusino del potere di cui sono titolari. Abusi che possono essere commissivi (chiudere i porti, nonostante sia previsto il dovere di soccorrere i naufraghi) o omissivi (non curare i malati, nonostante sia previsto il diritto alla salute) e il cui nucleo primigenio, sin dalla Magna Carta del 1215, è la necessità di proteggere i cittadini dagli eccessi della forza fisica a cui, in ultima istanza, lo Stato può fare ricorso (per esempio, per imporre l’esecuzione di una pena o per sciogliere una manifestazione violenta). Primo destinatario polemico dei diritti è, dunque, il governo (non a caso, la Costituzione prevede che qualsiasi limitazione dei diritti costituzionali debba avvenire nei casi e nei modi previsti dalla legge approvata dal parlamento e sulla base di un provvedimento motivato adottato dalla magistratura: sancendo così un quadro in cui il governo agisce come mero esecutore); e, all’interno del governo, destinatarie principali ne sono le forze dell’ordine, titolari del più potente potere dello Stato: quello - appunto - di fare ricorso alla forza fisica. Ecco perché stride con il costituzionalismo porre un funzionario di polizia, qual è essenzialmente un prefetto, a capo del ministero dell’Interno: perché le forze dell’ordine vanno esse stesse protette dalla sempre sottesa tentazione di agire a fini liberticidi (dal G8 di Genova al caso Cucchi i precedenti, purtroppo, non mancano) e un membro della pubblica sicurezza è, al di là delle sue stesse intenzioni, la figura funzionalmente meno indicata a farlo. C’è dunque da stupirsi che, nell’ambito di un esecutivo law and order, la prima mossa del nuovo ministro dell’Interno sia stata minare la più politica delle libertà liberali, quella di riunione? E che, a goffa giustificazione del passo falso compiuto, abbia avanzato l’incredibile pretesa di essere lui stesso il solo autentico interprete della reale portata della norma (“trovo offensivo attribuirci la volontà di intervenire in altri contesti in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento”)? Tutti insieme per far tacere le armi di Sergio Bassoli e Giulio Marcon* Il Manifesto, 5 novembre 2022 Europe for peace. Oggi manifestiamo per dire che la logica della pace prevalga sulla logica della guerra, che lo spirito di riconciliazione abbia la meglio sullo spirito di vendetta, che la ragione della nonviolenza la vinca sulla follia bellicista. Per questo le armi devono tacere. Sono donne e uomini, studenti, sindacalisti, scouts, attivisti sociali, cooperanti delle Ong, ragazze e ragazzi in servizio civile, religiosi e religiose, pensionate/i, migranti, operatori di pace che hanno a cuore un’unica cosa: che la guerra in Ucraina - le guerre in tutte il mondo - finisca al più presto. Senza altra sofferenza per la popolazione ucraina, senza ulteriori persecuzioni contro gli obiettori di coscienza e i pacifisti russi. La manifestazione di oggi è stata convocata da “Europe for Peace”, una coalizione di oltre 600 organizzazioni della società civile italiana, impegnate con iniziative, mobilitazioni, proposte per la pace in Ucraina, contro la guerra, il riarmo, il pericolo nucleare. L’elenco delle adesioni si trova su www.retepacedisarmo.org e quello delle iniziative e della mobilitazione di queste settimane su www.sbilanciamoci.org Oggi manifestiamo per dire che la logica della pace prevalga sulla logica della guerra, che lo spirito di riconciliazione abbia la meglio sullo spirito di vendetta, che la ragione della nonviolenza la vinca sulla follia bellicista. Per questo le armi devono tacere. Per questo l’unica strada è quella della diplomazia delle Nazioni unite per l’immediato cessate il fuoco ed il negoziato, fondato sul rispetto del diritto internazionale e della sicurezza condivisa, tra tutte le parti in causa e - in prospettiva - la convocazione di una conferenza internazionale di pace. È una guerra che può durare ancora molti mesi. È una guerra esposta al drammatico rischio del ricorso alle armi nucleari. È una guerra che non può essere “vinta”. È una guerra che può produrre una escalation incontrollabile e che abbiamo il dovere di fermare. E abbiamo il dovere di chiederlo alle nostre istituzioni -al nostro governo, al nostro parlamento- perché facciano tutto quello che è in loro potere per mettere in campo una politica di pace, senza alimentare una logica di guerra. La guerra non è mai giusta, solo la pace lo è. A pagare il prezzo delle guerre sono sempre le popolazioni civili e la prima di vittima di ogni guerra è la ragione e con essa il dialogo, la possibilità di trovare altre soluzioni nonviolente al conflitto. Sappiamo da che parte stare e lo sanno tutti quelli che oggi hanno scelto di essere in piazza a Roma: dalla parte della popolazione ucraina e degli aggrediti, dalla parte degli obiettori di coscienza e pacifisti russi che si oppongono all’aggressore, dalla parte delle vittime di tutte le guerre. E siamo dalla parte delle Nazioni Unite e di chiunque - come dice l’incipit del primo articolo della carta dell’Onu - consideri la guerra come un “flagello dell’umanità”. La guerra è inaccettabile, un crimine internazionale e ha fallito ovunque, dall’Afghanistan all’Iraq, dalla Libia alla Siria. La sicurezza del pianeta non può essere garantita dalle alleanze o potenze militari contrapposte, da un nuovo equilibrio del terrore, da cui pensavamo di esserci liberati per sempre. Solo una sicurezza condivisa - fondata sul ruolo riconosciuto e legittimato delle Nazioni Unite - può dare una prospettiva di stabilità e di pace al pianeta. Bisogna investire nella pace e non nella guerra, nella diplomazia e nella cooperazione e non sulla contrapposizione militare, sul disarmo e non sul riarmo. Quelli che con noi oggi marciano a Roma pensano che la politica deve fare i conti con la pace e con la richiesta di pace che viene da gran parte della società che sta pagando anche il prezzo delle conseguenze economiche e sociali (e per l’emergenza energetica) che la guerra in Ucraina sta provocando nel mondo: a partire dalle popolazioni dei paesi poveri che a causa dell’interruzione degli approvvigionamenti di grano stanno cadendo di nuovo in una drammatica condizione di insicurezza alimentare. La politica deve ascoltare il messaggio della piazza di oggi, deve dialogare con le forze della pace, ascoltando le ragioni di chi rifiuta la guerra come un’opzione di risoluzione dei conflitti e le armi come lo strumento di pace. La guerra e le armi producono solamente distruzione, violenza, perdita delle libertà e dei diritti, odio, vendette e nuove guerre. L’umanità ed il pianeta debbono liberarsi dalle guerre e dalle armi nucleari. La sfida per tutti noi - e per la politica e le istituzioni, nazionali ed internazionali non deve essere più quella di vincere una guerra, ma di vincere la pace. Solo questa strada è realistica, solo questa strada può essere costruita e percorsa. La strada della guerra ci porta in un incubo sempre più terribile. Per questo marciamo tutti insieme e uniti chiediamo alle nostre istituzioni di assumere questa agenda di pace e che si adoperino in ogni sede europea ed internazionale per la sua piena affermazione. *Europe for Peace - Comitato promotore manifestazione nazionale per la pace Vignarca: “Siamo pacifisti, non filo Putin. Oggi in piazza 100mila persone” di Giovanna Casadio La Repubblica, 5 novembre 2022 Il leader della Rete Pace e Disarmo: “Tutti i leader un passo indietro e senza bandiere di partito. Colpiti dalla lettera di Zuppi”. Tensioni? “Ci aspettiamo una bella festa di popolo”. La piazza pacifista è pronta. Francesco Vignarca, della Rete Pace e Disarmo - una delle organizzazioni che hanno dato vita al network internazionale “Europe for peace”, a capo della mobilitazione di sabato - prevede una marea di gente: “Alla manifestazione a Roma che chiede la pace in Ucraina, il cessate il fuoco subito e il negoziato, attendiamo fino a 100 mila persone: il doppio rispetto al 5 marzo scorso, l’altra grande manifestazione”. Allora furono in 50 mila. I progressisti sostenevano il governo Draghi ed erano presenti in ordine sparso. Le polemiche erano sull’invio di armi a Kiev e il sospetto di equidistanza tra aggressore (Putin) e aggrediti (il popolo ucraino). Ma adesso, l’appello della piazza pacifista allontana i dubbi: assicura Vignarca. Vignarca, l’appello per il corteo che a Roma sabato da piazza della Repubblica confluirà alle 15 in piazza San Giovanni, sgombera il sospetto che pacifismo significhi equidistanza e filo putinismo? “Ma non è mai stato così. Siamo sempre stati con il popolo ucraino. Voglio ricordare qui gli aiuti umanitari e le carovane “stop the war now” per l’Ucraina. Abbiamo denunciato la responsabilità politica di Putin, i crimini di guerra e la violazione del diritto internazionale. Però se vuoi essere attore di un negoziato, non puoi allinearti a uno schieramento. La Croce Rossa insegna”. Tuttavia avete smussato la vostra piattaforma dove è stato tolto il riferimento al “no alle armi” e reso esplicito che state con il popolo ucraino? “L’appello dice: condanniamo l’aggressore, rispettiamo la resistenza ucraina, ci impegniamo a sostenere e soccorrere il popolo ucraino”. Ma le pallottole per voi non hanno colore, si equivalgono? “La strada giusta per combattere i tiranni non è quella violenta. Noi crediamo in una politica “nonviolenta”, che significa togliere risorse alle spese militari per destinarle ai bisogni dei popoli. Però questo viene dopo. La pace è da chiedere adesso. E la pace non è filoputinismo, tutt’altro. È un processo per garantire diritti, democrazia e giustizia”. Sarà una piazza con i leader dei partiti progressisti, a cominciare da Giuseppe Conte dei 5Stelle che ha provato a mettere il cappello sulla piazza pacifista, e gli avete dato l’alt. Ci sarà anche il Pd con Enrico Letta, la sinistra di Fratoianni e Bonelli. Ma tutti un passo indietro? “Tutti un passo indietro e senza bandiere di partito, sabato. Poi vorremmo che facessero un passo avanti, che cioè dal giorno dopo si impegnino politicamente per la trattativa e il cessate il fuoco. Non so se verranno anche al corteo o solo a San Giovanni. Comunque bene che ci siano e che ascoltino cosa ha da dire Europe for peace. Però, ripeto, dal giorno dopo agiscano nella direzione della pace”. Le posizioni sono diverse: il Pd è per l’invio di armi all’Ucraina, ad esempio. “L’importante è che chi aderisce condivida i punti-chiave dell’appello, tra i quali la richiesta per il disarmo nucleare globale” A Milano nello stesso giorno c’è la manifestazione per l’Ucraina organizzata da Calenda e Renzi che contestano la piazza arcobaleno, cosa risponde? “Noi siamo concentrati sulle nostre iniziative e non possiamo pensare alle polemiche, vista la gravità della situazione. Però è inaccettabile che si dipinga la piazza di Europe for peace come contrapposta alla popolazione ucraina e “favorevole” a Putin. Magari da parte di chi in passato stringeva accordi commerciali con il governo russo (nonostante l’embargo europeo) , mentre noi denunciavamo vendite di armi e rischio di trasferimento di tecnologia a vantaggio del programma di riarmo di Putin”. L’elenco delle adesioni è lungo una quaresima: Arci, Acli, Cgil-Cisl-Uil, Comunità di Sant’Egidio, Tavolo per la pace, la rete di Ong, Libera, Anpi, Legambiente, Wwf e tantissime altre. Le ultime adesioni quali sono? “Si sono aggiunte tra gli altri, realtà religiose come Comunione e Liberazione, la Diaconia valdese, Coreis comunità religiosa islamica italiana, l’Istituto buddista italiano Soka Gakkai. Dopo otto mesi di guerra, niente è più urgente della pace. “. Il cardinale Matteo Zuppi, presidente della Cei, vi ha inviato una lettera. Era attesa? E cosa l’ha colpita? “Sono parole bellissime in cui invita tutti a mettersi in marcia per la pace. Scrive Zuppi: ‘Uccidere un uomo significa uccidere un mondo intero. E quanti mondi dobbiamo vedere uccisi per fermarci? Quante volte devono volare le palle di cannone prima che siano bandite per sempre? Quante orecchie deve avere un uomo prima che possa sentire la gente piangere?’ Sono parole toccanti. Speravamo di ricevere una sua lettera, ma il contenuto e le riflessioni vanno oltre le nostre aspettative”. Si temono infiltrazioni dei centri sociali sabato? “Ci aspettiamo una bella festa di popolo, non ci sembra che ci siano tensioni”. Migranti. Navi Ong bloccate, Piantedosi: “Sbarcheremo solo donne incinte e minori” di Francesca Basso e Rinaldo Frignani Corriere della Sera, 5 novembre 2022 Dopo il Consiglio dei ministri: “Cerchiamo di fare rispettare quello che secondo noi è il diritto internazionale”. Sulla Humanity1 ci sono 179 persone, di cui 100 minorenni. “Ci faremo carico solo delle esigenze umanitarie, bambini e donne incinte: la nave Humanity1 potrà rimanere in rada di fronte a Catania ma all’esito della verifica le persone che non rientrano nei requisiti dovranno tornare in acque internazionali”. Così il ministro dell’Interno Matteo Piantedosi al termine del Consiglio dei ministri di ieri sera, con la premier Giorgia Meloni che aggiunge: “Cerchiamo di fare rispettare quello che, secondo noi, è il diritto internazionale”. Il provvedimento è stato siglato anche dai ministri delle Infrastrutture e dei Trasporti Matteo Salvini e della Difesa Guido Crosetto. Proprio il vice premier sottolinea: “Come sempre garantiremo soccorso e assistenza ma vietiamo la sosta nelle acque italiane alle Ong straniere”. La forzatura - Piantedosi precisa che questo è il “primo atto per non deflettere agli obblighi dei paesi di bandiera delle ong” visto che l’equipaggio della nave della Ong tedesca Sos Humanity, sulla quale ci sono 179 persone, oltre 100 delle quali minorenni, “ha forzato entrando in acque territoriali italiane senza ottemperare a quelle che erano state le nostre richieste, ovvero chi sono le persone a bordo, dove sono state tratte in salvo e quali fossero le oggettive condizioni. Le risposte avute - conclude il ministro - non sono state all’altezza delle nostre aspettative”. La seconda nave - È una prima svolta in una vicenda che si trascina da due settimane, mentre un’altra nave carica di migranti è in acque italiane diretta a Siracusa. “A bordo c’è una rivolta”, rivela il responsabile del Viminale. Si tratta della Rise Above, di un’altra Ong tedesca, la Mission lifeline, che ha raccolto da tre natanti alla deriva altre 95 persone: “Le difficili condizioni meteo non permettono di restare ancora in mare: serve subito un porto sicuro di sbarco”, avvertono i volontari. Nelle prossime ore è prevista infatti una tempesta con onde alte fino a sei metri. Il sì francese - La giornata di ieri si era tuttavia aperta con la prospettiva di un’imminente soluzione del caso della nave norvegese Ocean Viking, con 234 a bordo, al centro di una trattativa con Francia e Germania, soprattutto su chi accoglierà donne e bambini. Parigi ha dato la sua disponibilità per una parte almeno delle categorie fragili, come del resto l’Italia. “Non ho alcun dubbio che Roma rispetterà il diritto internazionale che è molto chiaro - aveva detto il ministro dell’Interno francese Gerald Darmanin -: quando una nave chiede di accostare con naufraghi a bordo, è il porto più sicuro e più vicino che deve accoglierla”. Il no di Oslo - In cambio dell’apertura francese, l’Italia dovrebbe però concedere un porto sicuro alla Ong. Decisione che appare a questo punto lontana. Dalla questione la Norvegia è sembrata volersi chiamare fuori. Oslo, secondo l’ambasciatore in Italia Johan Vibe, non ha “nessuna responsabilità ai sensi delle convenzioni sui diritti umani o del diritto del mare per le persone imbarcate a bordo di navi private o di ong battenti bandiera norvegese nel Mediterraneo”. Si cerca l’accordo - L’emergenza profughi a bordo di quattro navi vicino alle coste italiane, secondo le Ong, aumenta di giorno in giorno: oltre mille migranti sono allo stremo, con scarsi viveri e casi di febbre per le temperature sempre più rigide.Le prossime ore saranno decisive. A Bruxelles l’Italia sta lavorando con Francia, Germania, Norvegia, con la Commissione Ue (che però non ha il compito di coordinamento) e la presidenza ceca di turno dell’Ue per applicare il meccanismo sul ricollocamento volontario, ma ancora non c’è nessun accordo. L’appello dal mare - Ma non si tratta solo sulla Ocean Viking. C’è l’altra norvegese, la Geo Barents, che ospita 572 passeggeri, con Medici senza Frontiere che ne sollecita lo sbarco superando la questione delle modalità di accoglienza ed escludendo l’identificazione a bordo dei profughi. “Alleviare la pressione degli arrivi sull’Italia e su Malta: per noi l’importante è che la Ocean Viking raggiunga il porto sicuro più vicino e speriamo che questo avvenga il più presto possibile”, è l’invito degli attivisti di Sos Mediterraneé, che lanciano un appello ai Paesi dell’Ue per intervenire entro breve. Hotspot affollato - Intanto nell’hotspot di Lampedusa ci sono ormai più di mille ospiti, rispetto ai 400 previsti, dopo sette sbarchi in meno di 24 ore, con 251 persone assistite sull’isola. L’elenco degli ultimi soccorsi comprende quelli a Pozzallo, con 37 migranti salvati da un mercantile francese, e al largo di Siracusa con 99 afghani e pachistani su un veliero - il Blue Diamond - con bandiera ucraina, ma tre russi ai comandi, poi fermati per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina. Migranti. Richieste d’asilo sulle navi straniere: l’ipotesi del Viminale per non accoglierli di Gianni Rosini Il Fatto Quotidiano, 5 novembre 2022 L’esperto: “Boutade difficile da realizzare”. “Non è ancora stata presa una decisione”, dicono dal Viminale. Ma l’idea contempla la possibilità per i naufraghi soccorsi dalle navi delle ong di presentare la propria richiesta di protezione internazionale già prima dello sbarco sulla terraferma. Questo sposterebbe le responsabilità dell’accoglienza dai Paesi che offrono i loro porti a quelli di bandiera della nave, essendo essa formalmente territorio nazionale “Un’opzione percorribile ma non ancora valutata”. Così dal Viminale rispondono alle richieste di chiarimento dopo le indiscrezioni diffuse da Repubblica secondo le quali il nuovo ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, sta valutando la possibilità di spingere migranti e operatori a bordo delle navi delle ong a favorire le domande di protezione internazionale già a bordo delle imbarcazioni. In questo modo, la pratica verrebbe avviata formalmente sul territorio dello Stato di bandiera delle navi, alleggerendo il flusso di domande in arrivo nei Paesi costieri, come l’Italia, che così potrebbero offrire i loro porti per uno sbarco rapido e il trasferimento nei Paesi coinvolti. Un’ipotesi, mentre si aggrava la situazione dei naufraghi a bordo delle tre navi al largo delle coste italiane, che aggirerebbe i Trattati di Dublino, penalizzanti per i Paesi di primo approdo, su tutti Italia, Grecia, Malta e Spagna. Ma secondo l’avvocato Guido Savio, esperto di diritto delle migrazioni e membro dell’Associazione per gli Studi Giuridici sull’Immigrazione (Asgi), “si tratta soprattutto di una boutade politica e difficilmente realizzabile. Anche perché richiederebbe modifiche delle normative interne dei singoli Stati membri”. “Non è ancora stata presa una decisione e non avverrà nel breve termine. Ma non possiamo escludere una valutazione in tal senso. Stessa cosa vale per altre possibili soluzioni”, chiariscono dal ministero. Ma l’idea stuzzica il nuovo governo che presto dovrà dare una risposta all’impasse nel Mediterraneo. La proposta, tra l’altro, non provocherebbe nemmeno un pericoloso scontro diretto con l’Europa, come avvenuto con la “chiusura dei porti” voluta dall’ex titolare del Viminale, Matteo Salvini, ma aggirerebbe le regole di Dublino spingendo tutti gli Stati interessati a sedersi a un tavolo e ridiscutere la normativa sull’accoglienza europea. L’idea contempla la possibilità per i naufraghi soccorsi dalle navi delle ong di presentare la propria richiesta di protezione internazionale già prima dello sbarco sulla terraferma. Questo sposterebbe le responsabilità dell’accoglienza dai Paesi che offrono i loro porti a quelli di bandiera della nave, essendo essa formalmente territorio nazionale. A queste condizioni l’Italia, ma anche gli altri Stati costieri, potrebbero offrire rapidamente un porto sicuro e organizzare immediatamente il trasferimento verso i vari Stati nei quali è stata presentata la domanda e che saranno quindi incaricati di esaminarla. In questo modo l’Italia si libererebbe dalla morsa dei Trattati di Dublino che, ad oggi, riversano sui Paesi di primo approdo la responsabilità di accogliere e gestire le richieste di protezione internazionale delle persone arrivate sul loro territorio. Una disposizione che negli anni ha messo sotto pressione questi Paesi, mentre nel resto d’Europa è stata dimostrata scarsa solidarietà tra Stati membri. In tutti questi anni, l’unica intesa raggiunta, e solo tra 19 cancellerie sulle 27 parte dell’Ue, è stata quella dello scorso giugno con il Patto Migrazione e Asilo. Questo prevede che i Paesi aderenti siano obbligati a fornire una qualche forma di sostegno a scelta tra l’ospitare una quota di migranti sul proprio territorio, farsi carico di alcuni rimpatri o fornire contributi finanziari o sotto forma di personale al Paese sotto pressione. Troppo poco per ridare fiato alle strutture d’accoglienza ingolfate nei Paesi di primo approdo. L’ipotesi che circola nelle stanze del Viminale deve fare i conti però con la mancanza di volontà e la scarsa solidarietà intraeuropea dimostrata in questi anni dai governi. Anche per questo, secondo Savio, è destinata a rimanere solo un’idea o, al massimo, una provocazione. “Mi sento di dire che, nel caso in cui dovesse concretizzarsi, si tratterebbe più di un’operazione politica con l’obiettivo di lanciare un messaggio forte all’Europa, ma difficilmente realizzabile. La reputo un’idea un po’ campata in aria”. Questo perché, spiega, “è vero che la richiesta è valida dal momento in cui si entra nel territorio di uno Stato estero, ma per renderla effettiva è necessario che venga raccolta da uffici o personale preposto, come Questure, Prefetture o almeno personale di polizia o di organizzazioni internazionali delegate. Ma non credo, viste le posizioni espresse a Bruxelles, che la Germania o altri Paesi abbiano intenzione di fare concessioni di questo tipo. Sarebbe certamente una svolta”. Come spiega l’avvocato dell’associazione che ha assistito numerosi casi di richiedenti asilo in Italia, esistono diversi cavilli legali per cui è complicato rendere questa pratica strutturale: “Sarebbero necessarie modifiche alle normative interne dei singoli Paesi - continua - Ma come detto non sembra proprio che ci sia la volontà politica delle cancellerie di aumentare il proprio contributo per l’accoglienza. Se bastasse mettere piede su territorio straniero per formalizzare una richiesta di protezione internazionale, non sarebbe necessario intraprendere un viaggio pericoloso e costoso come quello verso la Libia o la Tunisia. Basterebbe recarsi in un consolato o ambasciata straniera e fare richiesta. Ma non è una procedura contemplata, se non in casi eccezionali”. Domande e risposte sui migranti, tutti i numeri dell’invasione che non c’è di Alessandra Ziniti La Repubblica, 5 novembre 2022 Nel 2022 sono entrate in Italia 87mila persone, in aumento del 35%. Ma molte meno rispetto alle 111mila del 2017. E ad accogliere più richiedenti asilo sono Germania, Francia e Spagna. Solo quarta l’Italia che ospita nei centri di accoglienza 73mila profughi in meno rispetto a 5 anni fa. La guerra contro l’invasore che non c’è. Basta guardare i numeri degli sbarchi in Italia negli ultimi sei anni, confrontare gli arrivi autonomi con quelli dalle navi delle Ong, verificare quali sono gli Stati che ricevono la maggior parte delle richieste di asilo, per dimostrare come in Italia non ci sia alcuna emergenza immigrazione. E come, in Europa, ci siano molti altri Paesi che accolgono più migranti. Quante persone sono arrivate in Italia nel 2022? Il cruscotto del Viminale, al 4 novembre, conta 87.370 persone, il 35% in più rispetto alle 54.373 del 2021: un dato sempre in crescita dal 2018 ma nettamente inferiore rispetto ai 111.401 migranti del 2017. L’insediamento del governo Meloni ha segnato un’inversione di rotta negli arrivi? No, dal giorno del cambio della guardia a Palazzo Chigi sono oltre 9.000 i migranti che hanno messo piede sul suolo italiano. Un numero molto più alto dei 1.778 sbarcati negli stessi dieci giorni del 2021. Che ruolo ha avuto la flotta umanitaria negli arrivi? Sempre guardando i dati degli ultimi dieci giorni, a fronte di 9.000 sbarcati in Italia, sono solo 1.080 le persone prese a bordo dalle quattro navi umanitarie in missione. Come ha riferito il ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi, la flotta umanitaria nel 2022 ha portato in Italia appena il 16% dei migranti sbarcati. I dati confermano come la narrazione delle Ong come pull factor, il fattore di attrazione dei flussi migratori, sia infondata. Come sono arrivati allora tutti gli altri migranti? La maggior parte è stata portata a terra da motovedette della Guardia costiera e della Guardia di finanza, intervenute per soccorrere grossi pescherecci o barconi partiti dalla Libia, o in arrivo dalla rotta turca, e riusciti a entrare in zona Sar italiana. Ma sono intervenute anche imbarcazioni di Frontex. Gli altri sono sbarchi autonomi. Dalla Tunisia a Lampedusa, a bordo di piccoli barchini, nel 2022 sono arrivate 16.873 persone. L’Italia è il Paese europeo che accoglie più migranti? Assolutamente no. Gli ultimi dati dell’Easo, l’agenzia europea dell’asilo, vedono l’Italia al quarto posto. Le richieste di protezione internazionale avanzate nel 2021 sono state 648.000, un terzo in più del 2020, ma allo stesso livello del 2018, anno pre Covid. Il Paese europeo che ha accolto di più è la Germania, con ben 191.000 richieste di asilo, quasi un terzo del totale, seguita dalla Francia, con 121.000, la Spagna (65.000), mentre l’Italia è solo quarta, con 53.000. In rapporto al numero di abitanti, il Paese che accoglie di più è Cipro, seguito da Austria e Slovenia. Il patto di redistribuzione dei migranti in Europa dopo lo sbarco funziona? Il patto di solidarietà, firmato a giugno scorso, conta l’adesione di 23 Paesi, 19 Stati membri dell’Ue e 4 paesi associati a Schengen. Di questi, tredici Stati membri hanno accettato di fornire impegni di ricollocazione per oltre 8.000 persone e finora Danimarca, Paesi Bassi, Repubblica Ceca e Svizzera hanno fornito contributi finanziari. Dall’Italia però sono stati ricollocati solo 112 migranti: 38 in Francia e 74 in Germania. I centri di accoglienza in Italia sono in emergenza? No, il numero dei migranti in accoglienza in Italia al 31 ottobre è di 103.161: 68.962 sono nei centri, 32.397 nel sistema Sai in piccoli appartamenti, 1.802 negli hotspot di Sicilia e Puglia, che sono in sofferenza per i continui arrivi di sbarchi autonomi. Ma nel 2017, i migranti in accoglienza erano più di 180.000. Cosa può fare il governo italiano per impedire l’approdo in Italia delle navi umanitarie? Il ministro dell’Interno Piantedosi ha ventilato la possibilità di un decreto che vieti l’ingresso nelle acque territoriali italiane alle navi giudicate “offensive” per la sicurezza nazionale. Il governo potrebbe anche autorizzare evacuazioni sanitarie di emergenza per persone a bordo in precarie condizioni di salute o fragilità. Cosa possono fare le navi per riuscire a sbarcare i migranti? Se nessuno dovesse concedere un porto e le condizioni sanitarie o di sicurezza a bordo fossero considerate a rischio, il comandante può dichiarare lo stato di necessità che lo autorizzerebbe a fare ingresso in porto senza autorizzazione. Esattamente come fece Carola Rackete nel 2019 al timone della Sea Watch 3, entrata di forza a Lampedusa speronando una motovedetta che ostruiva l’ingresso. La Rackete, arrestata per quel gesto, venne poi assolta: i giudici ritennero il suo comportamento giustificato dall’obbligo prioritario del comandante di una nave di portare in salvo le persone a bordo. La Turchia di Erdogan, vent’anni di equilibrismi per restaurare l’Impero di Lucio Caracciolo La Repubblica, 5 novembre 2022 Il 3 novembre del 2002 il suo partito ottenne una vittoria schiacciante alle elezioni. Fu l’atto di nascita dell’ascesa del “nuovo Sultano”. Un giorno gli storici parleranno di “èra Erdogan” per qualificare gli ultimi vent’anni della Repubblica Turca, segnati dalla preminenza del suo attuale presidente. Chiunque abbia a che fare con lui, quale ne sia il giudizio politico o ideologico, ne percepisce la personalità autocentrata. Tutti ricordiamo la piccola frase di Mario Draghi, che lo bollò “dittatore”. Ma quel che conta non è tanto la vastità dei poteri di Erdo?an, quanto la capacità di offrirsi riferimento sia per le masse islamo-conservatrici dell’Anatolia profonda che per buona parte dell’élite kemalista. Su questo “compromesso storico” poggia l’ambizione turca di ascendere al grado di grande potenza. Così compiendo la parabola più che trentennale che l’ha elevata da sentinella atlantica alla frontiera meridionale dell’Unione Sovietica a potenza autonoma, centrata sui propri interessi nazionali. Più che nazionali, imperiali. Il ventennio erdoganiano disegna fra mille contraddizioni, incertezze e sconfitte la traiettoria geopolitica della Turchia - miracolosamente sopravvissuta alla Prima guerra mondiale - verso la riaffermazione della sua storica matrice imperiale. Sultanale. Quindi anche califfale. Erdo?an si considera protettore dei musulmani ovunque si trovino. La sua radice di Fratello Musulmano non è più rilevante come un tempo - anche perché la Fratellanza pare in crisi terminale - ma incide sulla sua visione del mondo. Non abbastanza da impedirgli di ricostruire almeno in parte il rapporto privilegiato con Israele che la Turchia aveva stabilito nello scorso secolo, senza perciò rinnegare l’appoggio alla causa palestinese, per quel poco che ancora conta nel mondo arabo-islamico. Se squaderniamo davanti a noi le carte dell’Eurasia e dell’Africa scopriamo quanto pervasivo sia l’imperialismo turco. Dall’Asia centrale al Medio Oriente, dal Nordafrica al Sahel, dai Balcani al Mediterraneo, le tracce pesanti dell’influenza turca sono immediatamente percepibili. Ne sappiamo qualcosa noi italiani. Cent’anni dopo la spedizione dell’Italietta giolittiana in Libia, sottratta agli ottomani, troviamo di nuovo i turchi a Tripoli. Domani forse anche in Cirenaica, loro obiettivo strategico, specie se i russi dovessero spedire in Ucraina i mercenari della Wagner che presidiano l’Est libico. La strategia di Erdogan e delle Forze armate che lo sostengono è di mutare la potenza anatolica in potenza marittima. “Patria Blu”, marchio inventato da un ammiraglio tutt’altro che simpatizzante per il suo presidente, a conferma del sostegno delle strutture profonde dello Stato all’espansionismo neo-imperiale. Non certo invenzione di Erdogan. È la missione di lungo periodo che accompagna i turchi, la cui idea di sé è nettamente superiore alle risorse di cui dispongono. Mantenersi in equilibrio su questa contraddizione è l’abilità di Erdo?an. Almeno finora. La pulsione imperiale porta Erdogan a muoversi al di fuori dell’interpretazione americana della Nato, talvolta contro, però senza rompere con Washington. Il suo intenso rapporto con Putin, bilanciato dall’aiuto militare agli ucraini, testimonia dell’equilibrismo erdoganiano. Questa Turchia non metterà mai tutte le sue uova in un solo cesto. Sicché dopo essersi installato a Tripoli Erdogan ha incentivato i rapporti economici e commerciali con l’Italia, storicamente uno dei partner europei più apprezzati ad Ankara. Forse l’anno prossimo, sotto la pressione della guerra, dell’inflazione galoppante, della refrattarietà di quote rilevanti dell’opinione pubblica al suo paternalismo dal pugno duro - ma soprattutto di un potere troppo prolungato - Erdo?an non riuscirà a rivincere le elezioni. Ma chiunque gli succeda difficilmente devierà dal corso geopolitico dell’ultimo ventennio. Anche perché se ci provasse non potrebbe essere certo di concludere il suo mandato. Il Papa in Bahrein: “Sia faro di diritti, dai migranti ai detenuti” dire.it, 5 novembre 2022 Il Bahrein “sia faro nel promuovere in tutta l’area diritti e condizioni eque e sempre migliori per i lavoratori, le donne e i giovani, garantendo in pari tempo rispetto e attenzione per quanti si sentono più ai margini della società, come gli emigrati e i detenuti”. Questo l’appello che Papa Francesco ha lanciato in occasione del suo primo discorso tenuto in Bahrein, meta del suo 39° viaggio apostolico. Il Pontefice è atterrato alle 14,45 ora italiana alla Sakhir Air Base di Awali, la seconda città del Paese, a circa 30 chilometri dalla capitale Manama, dove è stato accolto da una delegazione guidata da re Hamad bin Isa bin Salman Al Khalifa. Lo riporta Agensir, riferendo che il Pontefice si tratterrà nel regno fino a domenica 6 novembre anche per partecipare al Forum di dialogo tra Oriente e Occidente per la pacifica convivenza umana. Un appuntamento di cui Bergoglio ha lodato gli organizzatori, aggiungendo: “Gli impegni si traducano in fatti” affinché “la libertà religiosa diventi piena e non si limiti alla libertà di culto; affinché uguale dignità e pari opportunità siano concretamente riconosciute ad ogni gruppo e ad ogni persona; perché non vi siano discriminazioni e i diritti umani fondamentali non vengano violati, ma promossi”. Francesco ha voluto poi citare “il grande contributo di persone da paesi differenti, che ha consentito un notevole sviluppo del Paese”. Ma il lavoro “non è solo necessario per guadagnarsi da vivere: è un diritto indispensabile per sviluppare sé stessi e plasmare una società a misura d’uomo”, un monito che Bergoglio lancia al Bahrein e al mondo. Pensando alla Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici (Cop27), che inizia domenica in Egitto, il Papa esorta: “sia un passo in avanti” affinché siano prese “scelte concrete e lungimiranti, pensando alle giovani generazioni, prima che sia troppo tardi e si comprometta il loro futuro”. Il programma del primo giorno ha previsto la visita di cortesia al Re del Bahrein, presso il Sakhir Royal Palace, seguita alle 18,10 (16,10 in Italia) dalla cerimonia di benvenuto nel cortile del palazzo. A seguire, l’incontro con le autorità, la società civile e il Corpo diplomatico, occasione del suo primo discorso di sette totali. Sarà la prima volta che un papa visita il Barhrein, ma per Francesco non sarà la prima volta che raggiunge la penisola arabica: nel 2019, infatti, Agensir ricorda che Bergoglio ha compiuto un viaggio già considerato storico negli Emirati Arabi, dove ha firmato con il Grande Iman di Al-Azhar il Documento sulla Fratellanza umana, che da allora il Santo Padre offre in dono a tutti i Capi di Stato che incontra e riceve in Vaticano, insieme agli altri volumi dei documenti del magistero papale e al Messaggio per la Giornata mondiale della pace. L’estradizione in Cina è un problema Il Foglio, 5 novembre 2022 Che cosa dice l’importante sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Il mese scorso la Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha emesso una sentenza importante. Il caso era quello del cittadino taiwanese Hung Tao Liu, sul quale pendeva dal 2016 un red notice, un mandato d’arresto internazionale dell’Interpol, da parte della Repubblica popolare cinese. Dopo essere stato arrestato in Polonia, nel 2018 un tribunale di Varsavia aveva autorizzato l’estradizione verso Pechino. Le accuse contro di lui erano di frode telematica. Liu si è rivolto quindi alla Corte europea, e il 6 ottobre è arrivata la decisione dei giudici: la sua estradizione è in violazione dell’articolo 3 della convenzione sui Diritti umani, quella che proibisce i trattamenti “inumani o degradanti”, e in violazione dell’articolo 5, quello sul “diritto alla libertà e alla sicurezza”. Le argomentazioni dei giudici sono essenziali per capire quanto siano controversi, a oggi, i trattati di estradizione in essere con la Repubblica popolare cinese, in quella che l’ong Safeguard Defenders ha definito una “decisione epocale” per la tutela dei diritti umani in Europa. Secondo la Corte, considerati gli ultimi report sulla situazione giudiziaria in Cina, le garanzie di un giusto processo, e il fatto che “la pratica della tortura e dei maltrattamenti” siano “ancora profondamente radicati” nel sistema cinese per estorcere confessioni, Liu non deve essere estradato in Cina. È una riflessione che vale non solo per lui, ma per tutte le richieste pendenti da parte di Pechino. La vicenda del taiwanese Liu è tornata a far discutere in questi giorni in cui si parla moltissimo in Europa delle cosiddette “stazioni di polizia cinesi” all’estero - la cui vicenda, per quanto riguarda la presenza in Italia, è stata rivelata per la prima volta da questo giornale - perché aumenta il sospetto di una rete di controllo, intimidazione e sorveglianza cinese su territori stranieri molto più estesa di quanto si possa pensare. Anche le istituzioni al più alto livello se ne stanno rendendo conto.