L’ergastolo e la mossa del Dl: che farà adesso la Consulta? di Davide Galliani* Il Riformista, 4 novembre 2022 La correttezza costituzionale è più di una mera prassi opportuna da seguire, anche se non seguirla non significa mettere in campo scelte incostituzionali. Questa la domanda: l’adozione da parte del Governo del decreto-legge 162/2022 rientra nell’ambito della correttezza costituzionale? Che in sé violi o meno l’articolo 77 comma 1 della Costituzione non è questione sulla quale la Corte Costituzionale sembra possa intervenire in sede di udienza dell’8 novembre 2022. Davvero esiste una evidente mancanza dei presupposti costituzionali della decretazione d’urgenza? Nel decreto-legge è scritto che si è utilizzata la decretazione d’urgenza in vista della “imminenza” della data dell’8 novembre. Può la Corte sostenere che l’imminenza della sua udienza non soddisfa il caso straordinario di necessità e di urgenza? Ne dubito. Vedo solo una possibilità, che tuttavia non riesce a condurre alla incostituzionalità, semmai a una presa d’atto di un comportamento al limite della correttezza costituzionale. La Consulta ha rinviato due volte l’udienza: la prima volta con l’ordinanza 97/2021, per dare un congruo tempo di intervenire “al Parlamento” e la seconda con l’ordinanza 122/2022, perché il Senato, per voce del Presidente della Commissione giustizia, ha chiesto di poter completare l’iter di approvazione della riforma. Il doppio rinvio della Consulta si è quindi basato sulla necessità di una collaborazione istituzionale tra la stessa Consulta e il Parlamento. Nel momento in cui all’udienza dell’8 novembre la Corte si ritrova per le mani un decreto-legge e non una legge ecco che siamo al limite della correttezza costituzionale. Peraltro, l’adozione e l’emanazione del decreto-legge hanno legato le mani alla Corte: come può esprimersi nel merito (è lei che lo deve fare, non il giudice a quo, avendo testualmente fatto riferimento, nell’ordinanza 97/2021, al compito di valutare, all’esito dell’intervento normativo, la disciplina risultante), se in sede di conversione potranno apportarsi emendamenti? Certo, alcuni sosterranno che la Corte giudica quello che ha di fronte e che, pertanto, potrebbe decidere vuoi per la incostituzionalità del decreto-legge rispetto ai requisiti costituzionali della decretazione d’urgenza vuoi per la incostituzionalità delle disposizioni riguardanti l’ergastolo ostativo, rispetto a uno o più parametri costituzionali e alla sua stessa giurisprudenza. Vero, nulla si può escludere, ma, da una parte, la Corte dovrebbe dire che la collaborazione istituzionale era solo con il Parlamento e, dall’altra, finirebbe comunque per esprimersi su una disposizione modificabile in sede di conversione. La soluzione più lineare, quanto meno quella con meno problemi, è che la Consulta rinvii di due mesi la sua udienza, il tempo costituzionalmente imposto per convertire in legge. E questo lo potrebbe fare calcando la mano proprio sulla questione della correttezza costituzionale: il Governo furbescamente ha trasfuso nel decreto-legge le disposizioni approvate in prima lettura dalla Camera, con qualche aggiunta, non lieve; difficile non ipotizzare qualche modifica in sede di conversione, visto che il partito oggi di maggioranza relativa fu tra i pochissimi che alla Camera si astenne, ritenendo il testo “troppo timido, balbettante, claudicante” secondo le parole di Delmastro Delle Vedove che, in sede di dichiarazione finale di voto, ha concluso: “Se deve saltare la presunzione assoluta di pericolosità sociale, introduciamo una tempesta di presunzioni relative, vincibili, con onere probatorio rafforzato, in capo al mafioso, perché dal carcere esci se non sei più mafioso. Se, invece, rimani mafioso e non collabori, nella visione della destra in carcere ci rimani e ci muori” (Resoconto stenografico, Camera, 31 marzo 2022, p. 5 e p. 37). Detto questo, e alla Corte basterebbe dire che in sede di conversione si possono apportare emendamenti, la stessa Consulta potrebbe richiamarsi proprio alla correttezza costituzionale, da lei messa in campo sotto forma di collaborazione istituzionale, che la stessa Corte intende perseguire fino a che il Parlamento non si esprimerà in proposito. Chiaro che il decreto-legge produce effetti immediati, ma fino all’udienza dell’8 novembre non vedo altra possibilità, se non quella di aggiornare i procedimenti pendenti nei tribunali di sorveglianza al giorno successivo a questa data. Una variazione di calendario quasi innocua e, del resto, non è che esistano disposizioni mitior che reclamano di essere subito applicate. *Associato di Istituzioni di diritto pubblico, Università degli Studi di Milano Sull’ergastolo ostativo: un’occasione persa? di Claudia Diaconale L’Opinione, 4 novembre 2022 Le aspettative erano alte: tutti i garantisti attendevano con ansia le prime mosse del nuovo ministro della Giustizia Carlo Nordio. Come spesso accade, però, la realtà è più amara e porta a cocenti delusioni. Sul decreto legge numero 162 del 31 ottobre 2022 presentato dal nuovo governo Meloni - in tema di riforma del processo penale, rave party ed ergastolo ostativo - si è scritto tanto, con polemiche da parte dei più. Ed è difficile non prendere in considerazione le critiche, più o meno fondate, mosse soprattutto da chi è del settore. Anche perché l’istituto stesso dell’ergastolo ostativo rischia probabilmente di imbattersi in un profilo di incostituzionalità sollevato dalla Corte. Ragione per la quale il nostro Paese è già stato sanzionato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Stessa ragione per cui la Consulta dovrà pronunciarsi il prossimo martedì 8 novembre. Ma la comprensione delle questioni giuridiche è sempre complessa quindi cerchiamo di fare un po’ di chiarezza. Nel 2019 la Corte Costituzionale, con la sentenza 235, dichiara l’illegittimità costituzionale dell’articolo 4-bis nella parte in cui non prevede che ai detenuti possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia. La stessa Consulta, con l’ordinanza 97 del 15 aprile 2021, aveva accertato l’incostituzionalità dell’ergastolo, ma non l’aveva dichiarata lasciando al Parlamento un anno di tempo per “affrontare la materia” ed elaborare una modifica delle disposizioni di ordinamento penitenziario. L’anno di tempo è stato abbondantemente superato. Il decreto legge 162 del 31 ottobre 2022, recepisce una legge già approvata alla Camera ad inizio aprile 2022: legge approvata con 285 sì, un solo voto contrario e 47 astenuti, ovvero i deputati di Italia viva, Enrico Costa di Azione e Fratelli d’Italia. Con motivazioni del tutto opposte. Ora, ritorniamo alla scadenza del prossimo 8 novembre: tra 5 giorni la Consulta dovrà tornare ad esprimersi sulla questione e questo spiega l’urgenza. E quindi il governo Meloni ha ripreso una legge già approvata alla Camera, ma che non ha votato, per cercare di “tappare il buco”. Ed in effetti il decreto legge, nella parte inerente la giustizia, sottolinea espressamente che i benefici possono essere concessi ai detenuti anche in assenza di collaborazione con la giustizia. Ora è bene ricordare che per benefici si intende, a titolo esemplificativo, permessi premio, non stare in isolamento per mesi e poter accedere a corsi di studio o corsi di formazione al lavoro, sempre nell’ambito carcerario della pena da scontare. Torniamo al decreto legge: pur avendo abolito formalmente la passata “conditio sine qua non”, ovvero la collaborazione per l’accesso ai benefici, sono stati stabiliti altri criteri per garantire il giusto percorso al detenuto. Peccato che questi criteri siano semplicemente inapplicabili. Come fa per esempio il detenuto a fornire “elementi specifici” che consentano di escludere l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata o il rischio di ripristino di tali contatti? Se il detenuto è in carcere, è sorvegliato e tutte le sue comunicazioni sono controllate, cosa altro deve dimostrare? Ma soprattutto: come può dimostrarlo? Il Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, nella sua relazione annuale al Senato dello scorso 20 giugno, aveva già segnalato tutte le criticità della legge di aprile, ripresa integralmente dal decreto legge. La stessa appendice della relazione, per chi volesse leggere meno pagine, spiega in maniera chiara tutte le criticità. Criticità che non sono state in nessun modo affrontate. Che succederà ora? La Consulta si accontenterà di questa nuova forma a discapito della sostanza inalterata, se non addirittura peggiorata? Il ministro Nordio ha dichiarato “abbiamo accolto l’indicazione della Consulta”, con una norma che “non compromette la sicurezza e la certezza della pena”. Per la serie, un colpo al cerchio e uno alla botte. Un detto popolare recita: fatta la legge trovato l’inganno… Noi speriamo vivamente che per una volta non sia così. “Io, giudice di sorveglianza, dico no a un carcere che non crea occasioni di riscatto” di Valentina Stella Il Dubbio, 4 novembre 2022 Parla Cinzia Barillà, presidente di Magistratura Democratica: “L’aumento del perimetro delle ostatività è stato la panacea di ogni male per chi decide del destino della cosa pubblica dinanzi a situazioni di recessione o di emergenza”. Ergastolo ostativo: ne parliamo con Cinzia Barillà, presidente di Magistratura Democratica e giudice di sorveglianza presso il Tribunale di Reggio Calabria. Cosa pensa dello strumento del dl utilizzato dal Governo? Non mi è sembrata una scelta felice, ma forse strategica. L’uso del decreto legge, in settori nevralgici, è sempre stata una prova muscolare per i governi di tutte le estrazioni, però sperimentarlo per regolamentare temi così controversi, da avere meritato plurimi rimpalli tra le Corti ed il Parlamento, è in sé una operazione criticabile. La versione precedente, e molto simile, di questa norma è stata approvata solo alla Camera: non è stata votata dal partito di cui è espressione l’attuale premier perché ritenuta troppo permissiva, mentre è stata plaudita come buon compromesso dalle forze dell’odierna opposizione e parte della attuale maggioranza. Cosa deduciamo? L’operazione normativa nel suo complesso da parte del Governo si presta ad essere letta come rassicurazione del proprio elettorato; si è compensato un cedimento alle proprie posizioni di durezza della risposta sanzionatoria, criminalizzando in modo esorbitante fenomeni, viceversa, di modestissimo cabotaggio per l’ordine pubblico. In un Paese che va verso un vertiginoso aumento della povertà, l’incriminazione del rave-party, già recepita da più parti come passibile di incostituzionalità per la sua formulazione generica, contribuisce ad aumentare i “muri” di distanza discriminatoria tra le marginalità ed i fenomeni dei festini di alto borgo in luoghi privati volontariamente offerti dal loro proprietario, ma tradottisi, sulla base esperienziale media, in scenari di altri e più gravi delitti contro la persona. Il “fine pena mai” termina davvero o la prova richiesta all’ergastolano è diabolica? La percezione immediata che sia diventata una corsa ad ostacoli, più che una regolamentazione responsabile e ricettiva del travaglio culturale oltre che giuridico che la precede, non è certamente venuta meno. Perché? L’accesso ai benefici è condizionato, tra l’altro, all’adempimento delle obbligazioni civili o all’assoluta impossibilità di adempiervi; ad elementi specifici volti ad escludere i collegamenti con la criminalità organizzata ma anche il ripristino di tali collegamenti, alla revisione critica della condotta criminosa, alle ragioni della mancata collaborazione, alla partecipazione al percorso rieducativo, alla mera dichiarazione di dissociazione. Missione impossibile... La sfido a non sentirsi preda di un labirinto, che non aggiunge molta sintesi alla complessità del tema. Anche le vittime ed il loro diritto all’oblio, in casi in cui il risarcimento non interessi, restano al centro della mia riflessione delle perplessità che la nuova norma mi suscita. Tuttavia anche la magistratura di sorveglianza ha già accettato questa sfida al cambiamento, con la bussola orientata verso la Costituzione, munita di buona dose di capacità di mettersi in gioco, destreggiandosi con metodi di indagine e ragionamenti probatori che le hanno fornito un buon banco di prova ed è questo uno dei campi su cui pure si gioca il futuro di questo tema: l’accrescersi graduale della professionalità dei giudici di prossimità. Questo Governo, compreso il ministro Nordio, vuole vedere questi uomini uscire dal carcere dentro una bara? Non credo affatto che il ministro voglia vedere questi uomini uscire dal carcere solo in una bara, però penso che ancora tanti italiani non sono affatto interessati a dove costoro muoiono, purché lo facciano separati da loro. Dicono che se viene ammorbidito l’ergastolo ostativo i condannati potrebbero cessare di collaborare... Il numero delle collaborazioni non ha mai seguito andamenti proporzionali all’incremento della risposta sanzionatoria, tuttavia il numero di anni da passare in carcere per un ergastolano condannato per reati ostativi è stato elevato a trent’anni, fortunatamente si collabora già per evitare pene temporanee di gran lunga inferiori. Esiste la tentazione di utilizzare esseri umani imprigionati a vita come simbolo e funzionali alle esigenze preventive generali? Mi pare che l’animo umano funzioni così. È più facile scacciare ogni paura del nostro bimbo dicendo che il cattivo di turno non arriverà mai a prenderlo, perché lui è al sicuro tra le mura di casa. Anche il popolo preferisce che si costruiscano più “case” e “muri” dove tenere gli altri, i cattivi, i persi lontani. Ed è più facile, perché ci solleva dal vedere che il potenziale “orco” è in ciascuno di noi. Se è vero che esiste questa tentazione, la stessa è superabile non guardando fuori ma dentro di noi. Il 4bis è applicato anche ai detenuti condannati per reati gravi contro la Pa. Corretto? L’aumento del perimetro delle ostatività è stato la panacea di ogni male per chi decide del destino della cosa pubblica dinanzi a situazioni di recessione o di emergenza provenienti anche da settori diversi dalla giustizia. Il carcere, specie per condotte che non richiedono l’applicazione di freni ad una violenza in atto, non rappresenta mai una risposta utile se non è in grado di abbinarsi al dovere/responsabilità della cura, cioè del trattamento delle cause e delle condizioni in cui ha agito la personalità che ha deragliato e del dolore arrecato alla vittima. Non sarebbe stato meglio se la Consulta avesse dichiarato l’incostituzionalità della norma senza concedere tutti questi rinvii al Parlamento? In un sistema di grande crisi delle Istituzioni democratiche occidentali, in cui il Parlamento tende a tergiversare su temi divisivi del consenso politico, molto è demandato alle Corti di interpretazione della costituzionalità delle leggi. Il loro ruolo politico e sostitutivo aumenta in modo esponenziale, come accaduto per il fine vita. In questo panorama l’esistenza di stop and go contribuisce ad aumentare la sensazione di smarrimento e di confusione dei cittadini e degli operatori, che a maggior ragione cercano luoghi di confronto collettivo per rassicurarsi e affrontare il futuro in un’ottica di nuova resistenza costituzionale che spinge dal basso verso l’alto e non il contrario. Il Governo conferma la sua deriva carcerocentrica? Lascio questo giudizio ai lettori. Le dico però che anche tra i miei colleghi occorre sfatare la preoccupazione che l’esecuzione penale esterna sia solo un modo per schivare la pena. Sono certa che l’introduzione e l’ampliamento delle sanzioni sostitutive e alternative della pena, se implementate le risorse per seguirne adeguatamente i percorsi, può costituire anche un ponte di maggiore comprensione e rispetto tra il lavoro della magistratura di cognizione e quella di sorveglianza, ampliando la percezione che il prodotto o la misura dell’impegno di ogni giudice non è caratterizzato dalla carcerazione ma dalla realizzazione di occasioni di riscatto sociale. Un detenuto suicida ogni quattro giorni: cosa sta succedendo nelle carceri italiane? di Jacopo Storni Corriere della Sera, 4 novembre 2022 Ignazio Vitale passa tutti i giorni al cimitero da suo figlio Roberto. “Lucido la sua tomba, parlo con lui, piango. La gente mi prende per matto ma è l’unico modo che conosco per vivere”. Roberto si è suicidato nel carcere Pagliarelli di Palermo lo scorso 15 settembre. Aveva 29 anni. Suo padre Ignazio, ex poliziotto, è disperato. Ha scritto una lettera aperta: “Fate sentire la nostra disperazione. Roberto è andato in paradiso e anche se ha chiesto aiuto è stato ignorato. Era bellissimo e aveva una gran voglia di vivere. Era innamoratissimo della sua famiglia e della sua ragazza. Si faccia qualcosa per questi ragazzi”. Questi ragazzi sono quelli che entrano in carcere vivi e ne escono morti. Suicidi, quasi sempre impiccati con le lenzuola legate alle inferriate delle sbarre. Nei primi dieci mesi del 2022 sono stati 74 i suicidi di detenuti in carcere, 35 in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Più di uno ogni quattro giorni. Sin dall’inizio dell’anno il fenomeno ha mostrato segni di preoccupante accelerazione, fino a raggiungere l’impressionante cifra di 15 suicidi nel solo mese di agosto: uno ogni due giorni. Molti di loro sono persone con problemi di salute mentale, a volte con dipendenze da sostanze stupefacenti. Talvolta la loro condizione psichiatrica non è compatibile con la detenzione. Però succede spesso che non ci sia posto nelle Rems, le Residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza, pensate in alternativa agli ospedali psichiatrici giudiziari. E allora questi detenuti restano in carcere, che spesso sono luoghi sovraffollati e carenti sotto il profilo dei diritti umani. Lo scorso gennaio la Corte europea dei diritti dell’Uomo ha condannato l’Italia per aver trattenuto illecitamente in carcere per più di due anni un cittadino italiano con problemi psichici. L’ultimo detenuto suicida è stato un recluso di 36 anni straniero nel carcere di Torino. È morto impiccato il 28 ottobre. Era stato arrestato pochi giorni prima per il furto di un paio di cuffiette Bluetooth in un centro commerciale ed era in attesa dell’udienza di convalida. Prima di lui, Agostino Matassa, palermitano di 64 anni. Si è tolto la vita il 21 ottobre nella sua cella del carcere Morandi di Saluzzo, in provincia di Cuneo. Si è impiccato con i lacci delle scarpe. L’uomo stava scontando una pena a 14 anni e mezzo di reclusione - che sarebbe terminata nel 2028 - dopo la condanna in via definitiva nel procedimento nato dall’inchiesta della Apocalisse riguardante le cosche mafiose palermitane. E poi Azzeddine Akouirate, marocchino che si è impiccato nel penitenziario fiorentino di Sollicciano pochi giorni fa. Anche lui aveva 29 anni. “Aveva fragilità mentali, non doveva stare da solo in cella” raccontano i familiari, che adesso pensano a una denuncia. Era arrivato a Firenze quando era poco più che adolescente per vivere con i nonni e gli zii, invece Azzeddine ha finito i suoi giorni tra le sbarre. Aveva seguito un corso per diventare parrucchiere, poi aveva cominciato a lavorare nel salone di un parrucchiere. Non riusciva però a lavorare con costanza. Inizia così a fare uso di droga, cocaina soprattutto. Ha difficoltà nell’integrazione con gli amici italiani, si rifugia tra alcuni connazionali che delinquono. E comincia a delinquere anche lui. E viene arrestato. Prima di uccidersi, ha messo la chiavetta Usb dentro un lettore musicale e ha ascoltato una canzone di Cheb Nesro, cantante algerino di raï, genere musicale tradizionale dell’Algeria molto diffuso anche in Marocco. Poi ha ascoltato il Corano. “Ogni caso di suicidio ha una storia a sé, fatta di personali sofferenze e fragilità, ma quando i numeri iniziano a diventare così alti non si può non guardarli con un’ottica di insieme. Come un indicatore di malessere di un sistema che necessita profondi cambiamenti”, spiegano dall’associazione Antigone, che da anni si occupa di carcere. “Fuori dal carcere - spiega il coordinatore di Antigone Alessio Scandurra - il tasso di suicidio è di 0,67 persone ogni 10mila abitanti. In carcere sale a 10,6 persone ogni 10mila detenuti. Dieci volte tanto”. Ne sa qualcosa Angela Di Somma, madre adottiva di Giovanni Cirillo, impiccatosi nel penitenziario di Salerno il 26 luglio 2020: “Il carcere dovrebbe essere un luogo di riabilitazione, invece il carcere è un luogo di morte”. Giovanni aveva 25 anni, origini somale, in arte Johnny, rapper per passione. Da tempo richiedeva il trasferimento in una struttura sanitaria destinata al trattamento di patologie psichiatriche. Eppure era rimasto in carcere. “Lo Stato ha ucciso mio figlio” attacca Angela. Sul caso è in corso un’indagine della Procura. Ma non è l’unico caso di suicidio su cui la magistratura cerca di far luce. Sono morti che si potevano evitare? Una domanda ricorrente, a cui i genitori delle vittime rispondono sempre sì, si poteva e si doveva evitare. Proprio come scritto da Ignazio Vitale nella sua lettera drammatica: “Roberto ha fatto quello che ha fatto perché, nonostante chiedesse aiuto ai medici per il suo stato di salute, veniva quotidianamente ignorato. Il caldo infernale lo ha distrutto, nonostante spendesse tutti i soldi che gli lasciavamo per comprare bottiglie di acqua per cercare sollievo e rianimarsi un po’. Aiutatemi a far passare questo messaggio per poter aiutare chi si trova nella stessa situazione in cui si è venuto a trovare il mio figliolo. Grazie mille e prego affinché questo non accada più. Un saluto da un padre distrutto”. Sul tema dei suicidi in carcere, il capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi, interpellato da Corriere.it, preferisce non rilasciare interviste, almeno in questa fase, ma nei giorni scorsi aveva detto queste parole: “Quest’anno, in un momento difficile per il mondo del carcere, segnato anche dal dramma dei suicidi la ministra Cartabia e tutti i dirigenti generali dell’amministrazione penitenziaria sono stati negli istituti penitenziari per dimostrare riconoscenza ai nostri operatori, vicinanza alla popolazione detenuta e per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica tutta verso la realtà penitenziaria”. Si muore in carcere, si muore quando si esce dal carcere di Sandro Libianchi La Discussione, 4 novembre 2022 Tutti sanno che le prigioni sono un posto infame, dove il degrado personale, la violenza, la sofferenza sono dietro l’angolo. E non c’è verso di uscire da questo labirinto, dove quasi sempre ci si perde. Talvolta, ma molto raramente, può anche servire a qualcosa di buono. Ricordo un giovane ugandese che durante la mia visita continuava a fissarmi negli occhi, visibilmente imbarazzato, ansioso, resistente. Gli chiesi se c’era qualche problema. Lui, in uno stentatissimo inglese/francese, mi disse che era la prima volta nella vita che vedeva un medico e che qualcuno si stava prendendo cura di lui. Non riusciva a capire, dopo una vita di violenza come ciò fosse possibile. Oggi, dopo anni di tossicodipendenza, è uscito ed è diventato un operatore di una importante comunità terapeutica. Aiutare gli altri è diventato il suo lavoro. Ce l’ha fatta. Ma non sempre va così. Quando ho cominciato a lavorare in carcere come medico, una delle prime cose che mi precisarono fu quella che non avrei dovuto occuparmi del dopo la scarcerazione, perché quello che succedeva fuori dalle mura non era compito nostro. La persona scarcerata, all’uscita avrebbe dovuto recarsi ai servizi socio-sanitari e chiedere. Io non ritenevo che il limite delle responsabilità fosse rappresentato da un muro, bensì dal contratto morale che noi attuavamo con le persone che avevamo in cura. Purtroppo però una cieca ottusità dirigenziale da “condominio di periferia”, ben lontana da questi problemi, ma ancora molto diffusa, impedisce di costruire percorsi post carcerari che sono essenziali per la sopravvivenza di questi giovani. Finché la Sanità e le comunità territoriali non sapranno correggersi non cambierà mai nulla. I volti e le storie di questi nostri giovani, morti perché incapaci di affrontare la ritrovata libertà, sono ancora visibili su alcuni social. Foto di ragazze bellissime scattate in periodi di buona, che sarebbero ancora tra noi, se solo fossero stati aiutati. Ecco alcune loro storie, per non dimenticarle. S., 30 anni, era una persona con un disperato bisogno di affetto. In carcere sempre la prima ad avvicinarsi e a cercare un contatto. Anche solo visivo. Era una presenza forte e silenziosa. Accusata di aggressione, ripeteva che si era dovuta difendere dall’aggressione di un mondo intriso di droga e di tanto alcol. Nessun contatto con la famiglia al Nord da più di dodici anni, dove lei non voleva tornare. Molto suscettibile, S. litigava sempre con le agenti e ogni osservazione la faceva sentire offesa. Ce la stava mettendo tutta. Raccontava la sua vita così provata che fin da giovanissima l’aveva costretta a vivere per strada con il suo cane. La notte di Natale avrebbe dovuto leggere una sua poesia con le altre compagne e si era anche confessata, ma, inaspettatamente scarcerata e non avendo altre possibilità, ritornò sulla strada. A causa dell’inverno freddissimo era stata accolta presso la Croce Rossa, ma poco dopo ritorna in strada dove subisce in pochissimo tempo un rapido e progressivo degrado. Aveva ricominciato a bere alcolici, la droga dei poveri. Piena di graffi e di lividi, non chiedeva nulla oltre al rispetto per le sue scelte, al massimo accettava un po’ di tabacco, una tisana calda, una serata al cinema per sfuggire, almeno per qualche ora, al freddo. In una sua rara confidenza ci disse che quando stava peggio non voleva che i suoi amici o conoscenti la vedessero così. A febbraio contrae una brutta polmonite e, seppur ricoverata, muore in pochi giorni. Unica consolazione. era riuscita a ritrovare il suo cane che aveva perso. Ora restava solo un funerale, tristissimo, da fare in piena pandemia e coprire le spese della cremazione. T., 21 anni. Il giorno prima che uscisse dal carcere l’educatore penitenziario si preoccupa perché non aveva dove andare e non aveva un soldo. Lei aveva una grande paura. Sperava che all’uscita dal carcere non ci fosse “quello lì’”, altrimenti, diceva, “va a finire male”. Non voleva tornare a casa per vergogna nei confronti della madre, brava lavoratrice, ma scoraggiata dopo aver lottato tutta la vita contro con il sui “drago”, la droga. Non dimenticheremo mai l’ultimo giorno di detenzione e il giorno successivo, appena liberata, avrebbe di nuovo scelto la droga con una dose fatale, dopo una vita di lotta. Na., 32 anni, anche lei una esistenza molto complicata. Dopo l’uscita dal carcere viene accolta in una casa-famiglia, ma le antiche amicizie l’avevano indotta a tornare a consumare alcool, malgrado si fosse disintossicata. Tra le tante violenze subite e agite, tanto da farla entrare e uscire dal carcere molte volte, c’era anche quella intra familiare, di cui conservava traccia con una cicatrice sul volto, che copriva con una ciocca di capelli. In carcere lavorava e aveva ripreso un po’ di sicurezza in sé stessa. Aveva degli affetti. Una volta uscita era stata per poche settimane ospite di una casa-famiglia da dove veniva allontanata poco dopo per “comportamento inadeguato”. Dopo pochi giorni decede in un casolare diroccato e isolato. Ni., 37 anni. Dopo una vita fatta solo di droga e carcere muore lo scorso agosto suicida e in costanza di detenzione. Durante gli ultimi giorni di vita aveva minacciato più volte di volerla fare finita mentre cresceva la sua rabbia contro tutti. Ormai non usciva più dalla stanza. Poi la trovano, troppo tardi. Cucchi è morto in carcere e di carcere col via libera di un giudice. Ma non si può dire di Iuri Maria Prado Il Riformista, 4 novembre 2022 Ci sono almeno due verità sul caso della morte di Stefano Cucchi: una disputata; l’altra negletta. La verità disputata, per quanto infine sigillata in una decisione giudiziaria, è che Stefano Cucchi è stato ucciso, e che la morte è avvenuta a causa del pestaggio cui il giovane è stato sottoposto da parte dei carabinieri che l’avevano in custodia dopo l’arresto. La verità negletta riguarda invece il tempo e i fatti che vanno da quella violenza al decesso. C’è stato un bel film (Sulla mia pelle, 2018) a lambire quest’altra verità, ma non poteva ridondare da quell’opera cinematografica la somma di trascuratezza burocratica e istituzionale che contrassegna questa tragedia. Molto si è indugiato, e con contrapposte propalazioni, su quel che successe dal momento dell’arresto, la sera del 15 ottobre del 2009, sino al mattino successivo: la sopraffazione patita da Cucchi, il drogato intemperante rimesso in riga, secondo l’oscena rappresentazione di certa pubblicistica, o il povero uomo che entra sano in una caserma e ne esce massacrato; le forze dell’ordine, ingiustamente messe alla berlina per qualche comprensibile eccesso su un malvivente che resisteva alla cautela di cui era destinatario, o il poveretto su cui gratuitamente infieriva l’aguzzino in divisa, impegnato a nascondere le prove del proprio misfatto e a coprire le complicità di chi vi aveva partecipato; lo scrutinio della fedina penale e persino della moralità di questo spostato, vittima della propria devianza e della propria dipendenza dalla droga (“E’ stata la droga a portarlo lì!”, proclamava l’avvocatura d’ufficio del benpensante reazionario), o invece la triste considerazione che una persona fragile, quando è affidata alle cure di chi tutela la pubblica sicurezza, deve riceverne semmai di più, non meno perché tanto è solo un tossico. E febbrile discussione pubblica si è avuta dopo, con una ricognizione a ritroso dal momento della morte sino a quel mattino del 16 ottobre 2009: quando Stefano Cucchi, dopo il pestaggio, è portato davanti ai magistrati chiamati a convalidarne l’arresto. E furono investigazioni e requisitorie sui depistaggi, sulle contraffazioni dei verbali, sulle responsabilità dei medici, ancora su quelle dei militari e dei secondini… Ma poca attenzione, e tanto meno angosciata, si ritenne di prestare ai motivi per cui Stefano Cucchi era subordinato a giustizia: la gestione di modestissime quantità di stupefacenti, per un’ipotesi di reato moderatamente offensiva e non per caso disciplinata in modo assai tenue. E nulla, soprattutto, si obiettò circa il fatto che Stefano Cucchi, che versava in condizioni giudicate allarmanti quando si trattava di valutare il comportamento anteriore e noncurante dei militari e dei medici che poche ore prima l’avevano a disposizione, e ai quali si addebitavano autonome responsabilità per aver lasciato correre quella situazione di bisogno e sofferenza, nulla, dicevo, si argomentò, tanto meno per denunciarne l’urtante evitabilità, a proposito del fatto che un magistrato dell’accusa pubblica, prima, e un giudice, poi, quel giorno di ottobre rispettivamente chiesero e ordinarono che Stefano Cucchi fosse imprigionato. Non andò solo, Stefano Cucchi, alla caserma in cui fu pestato: vi fu portato dai carabinieri che percepirono la commissione di quel lieve delitto, quei pochi grammi di sostanza proibita. Ma Stefano Cucchi non andò solo nemmeno nel carcere in cui la sua vita fu interrotta: chiese l’accusa pubblica che vi fosse mandato, e fu un giudice a disporre che ci andasse. Pestato da quei carabinieri, Stefano Cucchi morì in carcere e di carcere. Qualcuno reclamò e qualcuno decise che quel disgraziato, con gli occhi enfiati e gravi di quei vistosi depositi di sangue, claudicante, carico delle percosse che sarebbero diventate l’esclusiva ragione di scandalo e riprovazione per l’orribile vicenda che lo ha coinvolto, da quell’udienza dovesse essere mandato non a casa propria, eventualmente in ristrettezza domiciliare, non in una struttura sanitaria, non in un centro di riabilitazione, ma dietro le sbarre di un carcere. Tutte queste cose sono note, ma appunto neglette. Perché si può ancora dire che un cittadino muore malmenato dai carabinieri, ma non che muore in nome della legge. Dossier carceri per Meloni, Nordio e Sisto di Enrico Sbriglia* L’Opinione, 4 novembre 2022 È il momento che la premier Giorgia Meloni, il ministro Carlo Nordio e il viceministro Francesco Paolo Sisto, mostrino con i fatti, “acta non verba”, come cita pure il brocardo di una delle maggiori organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria, la massima attenzione verso il mondo penitenziario, sia sul versante del personale, demotivato da anni di devastante abbandono, che su quello delle condizioni dei detenuti, e un tanto non per bontà d’animo, per quanto non costituisca un peccato, ma per fare proprio “sicurezza”. Le carceri, infatti, rischiano di trasformarsi in una sorta di cluster-bomb sociale, con conseguenze imprevedibili, ora che gli imbonitori politici di sempre hanno levato le tende, lasciando però sul campo le più fedeli vedette, indifferenti ai principi del buon andamento e dell’imparzialità dell’amministrazione. Può bastare una piccola scintilla, infatti, per riaccendere, e questa volta per davvero, le micce di antiche e legittime rivendicazioni, giocando ancora una volta sulla memoria corta degli italiani, oggi distratti dalle bollette elettriche e del gas, invece che dalla richiesta di soccorso che proviene dal profondo delle nostre carceri, all’interno delle quali, in una straordinaria rivisitazione del principio uguaglianza, si fanno soffrire, insieme, prigionieri e custodi, nel nome della inevitabile copresenza. Si riparla, tra l’altro, dell’ennesimo piano-carceri; noi che studiamo anche il mondo penitenziario ne abbiamo perso il conto, mentre le nostre prigioni sembrano quelle di sempre: disorganizzate, assolutamente irrispettose delle condizioni di vita e di lavoro degli stessi operatori penitenziari, criminogene e fortemente punitive verso quelli che, impiegando l’insidioso linguaggio politically correct, vengono appellati come “utenti”: persone costrette a vivere nei caravanserragli della giustizia, luoghi di regola poco funzionali ma, nel contempo, buco nero per il pubblico erario. La cosa grottesca è che potrebbero essere chiamati come soccorritori proprio quanti siano stati i protagonisti di questo sfacelo; quanti si sono distinti per le proposte di soluzioni spesso estrose, ispirandosi semmai alle carceri spagnole, oppure a quelle brasiliane, ovvero a quelle norvegesi, o anche, sotto sotto, a quelle di una “sana” e robusta educazione siberiana, se non all’ulteriore concorrente di tipo cinese, ipotizzando in ogni caso la necessita di grandi nuove carceri e arrivando, persino, a proporre la conversione dei tradizionali antichi corridoi, all’interno delle sezioni detentive, in moderni decumani, dove i detenuti, come in Via del Corso a Roma, o in Via Toledo a Napoli, o in Via dell’Indipendenza a Bologna, avrebbero potuto trascorrere le loro ore libere passeggiando, una volta lasciate le “stanze di pernottamento”; insomma, novelli turisti del booking penitenziario; così come hanno suggerito di realizzare strutture di legno, doverosamente ecocompatibili, sotto le quali i detenuti avrebbero trovato riparo dall’arsura del sole d’estate e dal cattivo tempo d’inverno. Forse, così, nessuno avrebbe contestato eventuali errori di progettazione per l’assenza di idonee coperture presso le aree aperte dei passeggi: i cosiddetti “cortili”, per quanto ciò fosse previsto dalle norme penitenziarie (articolo16, n. 4 del Regolamento di esecuzione della legge penitenziaria). Si proponevano perfino dei modelli, tipo case-famiglia, dimentichi che i nuclei familiari o meno (ivi compresi quelli malavitosi) si formano, normalmente, per scelta dei componenti o nascita, non certo per decisione amministrativa; nel frattempo, però, il sistema carcerario italiano ha continuato ad essere fuori controllo (vedasi l’allarmante numero di persone detenute suicide, così come quello delle aggressioni subite dagli stessi poliziotti penitenziari, così come le liti tra detenuti e, in taluni casi, ipotizzando pure la commissione di reati ben più gravi fino all’omicidio), con una impennata di evasioni, talvolta eclatanti, o con il verificarsi di storie opache, ancora sub iudice, ove si ipotizzano gravi condotte da parte degli stessi operatori penitenziari, come nella vicenda di Santa Maria Capua Vetere). Se, però, ci fosse per davvero uno spirito riformatore e rispettoso della legalità, quella che si tocca con il dito, come il San Tommaso di Caravaggio, consiglio ai nuovi governanti di essere radicali e di buttare al macero tutti i vecchi copioni, diffidando da subito verso quanti, assiepati da sempre in uffici prestigiosi, non hanno mai risolto alcunché, scrivendo però diffusamente sul vuoto cosmico penitenziario. Per verificarlo, i nostri, si rechino senza alcun preavviso a visitare le carceri, possibilmente di notte, o nelle giornate festive e prefestive, quelle nel corso delle quali perfino i maggiori responsabili delle strutture usufruiscono della settimana corta, lasciando il timone del comando ai soldati di sempre, mentre le pene continuano a rimanere lunghe. Così vedranno lo squallore dei luoghi, il dolore dei visi, la tensione dei nervi, lo spegnimento delle speranze, la promiscuità che sorride beffarda. Diffidino dei “Santoni” del mattone ad ogni costo, si insospettiscano verso quanti vogliano cancellare l’esistenza degli istituti malmessi, per farne dei nuovi e, in tal modo, distruggere la prova provata di decine di anni di malgoverno e di cattiva programmazione, rifacendosi così la verginità forse mai posseduta; abbiano i nuovi conductores tale civico coraggio! Scoprano l’anatocismo delle pene e delle prigioni, mentre i servizi più semplici verso la persona all’interno delle stesse continuano a mancare. Negli ultimi anni, in molti istituti, è stato violato ogni principio di proporzioni tra cubature detentive e spazi aperti, stuprate le poche aree verdi ancora disponibili, cassate le superfici libere, che ben avrebbero potuto essere impiegate per realizzare centri di formazione professionale per i detenuti, aule scolastiche, fattorie, laboratori artigiani, luoghi di culto, locali attrezzati per le attività trattamentali in genere, preferendosi, invece, realizzare ulteriori padiglioni penitenziari e così trascurando le conseguenze di un accresciuto carico antropico sulle strutture, sui servizi e sottoservizi, con continue problematiche per le reti fognarie, gli impianti elettrici, le centrali termiche, già stressate e sull’orlo del collasso; scopriranno così che da anni, in tante realtà, non venivano puntualmente eseguite le periodiche manutenzioni ordinarie, preferendo che anche il più modesto graffio si trasformasse in una ferita profonda e deturpante, necessitando poi della sala operatoria, per poi dichiarare come l’intervento fosse perfettamente riuscito, ma il paziente, perché poco collaborativo, invece morto. Le vecchie carceri, tra l’altro, se soltanto si intervistassero gli stessi operatori penitenziari ed i detenuti, risulterebbero spesso, e di gran lunga, non solo più vivibili rispetto a quelle più recenti, perché, di regola, le prime realizzate in una visione armonica con le città ed il territorio, ma anche più sicure dal rischio di evasioni, mentre le nuove, pure a motivo delle logiche costruttive e della qualità dei materiali impiegati, rimangono, spesso, un punto di domanda: per conoscerne le criticità, occorre che trascorra del tempo e che vi transitino generazioni di detenuti e sorveglianti. Quello che tutti, però, lamenteranno sarà il peso dell’insopportabile carico umano detentivo, non corrispondente a quello che i pure abili architetti di un tempo avevano semmai considerato, non appartenendo ad essi il principio del cosiddetto “sovraffollamento penitenziario”. Termine moderno, adottato nel linguaggio della burocrazia penitenziaria allorquando non un affollamento dei detenuti all’interno delle carceri si constati, ma qualcosa di ancora più grande e devastante, il sovraffollamento per l’appunto, il cui riproporsi ha trasformato il lemma in una espressione assolutamente “ordinaria”. Certo che occorrerebbero delle nuove carceri, perché gonfiandosi a dismisura il catalogo delle pene, nonché imperando la convinzione che quella detentiva sia la risposta più efficace alla risoluzione di ogni più complessa problematica sociale, il numero degli incarcerati, rectius, degli “utenti”, è cresciuto esponenzialmente. Ma se si intenderanno effettivamente edificare nuovi istituti, oltre che doverosamente riqualificare quelli già esistenti, almeno un principio dovrà essere rispettato per assicurare carceri civili ed umane: che a ogni detenuto corrisponda una ed una sola cella. Cella, parola che ai più delicati “penitenziaristi” fa senso, per quanto comprensibile da chiunque, preferendosi l’ipocrita fictio di “stanza detentiva” o, ancora più irridente, di “stanza di pernottamento”, in attesa di quella “dell’amore”. Oggi, in verità, noi costringiamo a disumane sofferenze ogni persona detenuta, a prescindere dalla sua eventuale innocenza; obblighiamo i rei o i presunti tali a vivere coattivamente gli uni con gli altri, per ogni frazione di tempo della loro carcerazione, stipandoli in ambienti collettivi che, frequentemente, appaiono insalubri ed angusti. L’assenza di adeguati e banali servizi igienici (doccia nella camera, bidet, lavabo, e in locale distinto da quello dove si dorma) sono quasi sempre la regola; in quegli ambienti, già malsani di loro, consentiamo che si possano perfino manipolare i cibi e cucinare, non avendo destinato nemmeno un modesto angolo attrezzato al riguardo. Non assicuriamo neanche la dotazione di un piccolo frigorifero per conservare i cibi deteriorabili, minando così sia la salute dei ristretti che quella degli altri operatori, ove sorgessero casi di patologie infettive di origine alimentare; ditemi, per favore, è questa la “sicurezza” che offriamo alla collettività libera? La nostra organizzazione carceraria, tra l’altro, è così lungimirante ed attenta che, immancabilmente, ogni anno, si pone d’estate il problema del caldo e d’inverno quello del freddo da fronteggiare. Per il primo, la soluzione tipo pare che ormai sia quella di piatire, rivolgendosi alle Caritas ed alle altre organizzazioni di volontariato, oppure alle fondazioni bancarie e agli enti locali, dei ventilatori portatili: Vergogna! Spesso le dimensioni delle finestre delle celle, ridotte a causa di sbarre e reti metalliche che ne sottraggono la luce, sono di un’ampiezza che non consente il naturale ricircolo dell’aria e una illuminazione non artificiale del locale, con tutto ciò che ne deriva in termini di clima e salute. Però nelle celle si fuma a gogò, ed è difficile che il detenuto mingherlino redarguisca quello grande e grosso perché smetta, immediatamente, di impestare il piccolo ambiente con il suo fumo; il motivo ve lo lascio indovinare, e poi un puzzo in più oppure in meno lascia indifferenti, seppure con il fumo passivo ci si ammali. Alla gerarchia delle fonti giuridiche si oppone quella, alternativa, dei regolamenti non scritti delle stanze detenute collettive: il detenuto che ha in mano lo scettro del telecomando televisivo, titillandolo a suo piacimento, esibisce la propria regalità criminale, gli altri devono accettarlo. Capirete, allora, come in un contesto così banalmente descritto, con quale capacità di concentrazione un detenuto possa attendere e prepararsi in prossimità di una udienza, come possa impegnarsi nella lettura degli atti giudiziari, già difficili da interpretare quando si sia perfettamente rilassati, mentre attorno a lui si scontrano il vocio arrabbiato dei compagni che giocano a carte, i suoni delle radioline che trasmettono musica rap o quella dei neomelodici, o radio-carcere, la quale ripete la litania dell’amnistia o dell’indulto, oppure trovarsi ricostretti a sentire i racconti delle prime dosi di eroina o delle ultime rapine di alcuni coinquilini; nel frattempo, però, c’è chi spazza con una consunta ramazza la stanza perché è il suo turno, chiedendo agli occupanti di spostarsi ad un altro angolo della suite, per non intralciare il lavoro di pulizia, e semmai, in quei frangenti, accedono anche gli agenti per la cosiddetta “battitura dei ferri”, cioè il controllo delle sbarre d’acciaio delle finestre, percuotendole con una piccola mazza metallica al fine di riscontrare eventuali tagli sulle stesse. Per pietas, saltiamo il tema dell’hard violento che si può subire e dell’insopprimibile bisogno di eros; i curiosi, se lo vorranno, potranno attingere dalle cronache anche recentissime. Sono quelli che descrivo, brevemente, i luoghi dove si vivrà, sfiorandosi, con persone molte volte sconosciute, di cui non si condividono lingue, religioni, culture, storie. E poi ci si meraviglia dei suicidi; quanti ad oggi, 71, 72 o di più? Per tanto, se davvero si vuole fare un salto di civiltà agita, sarà necessario immaginare non solo delle carceri che, come da articolo 5, 1° capoverso, della legge penitenziaria del 1975, dovranno essere realizzate “in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati”, ma dovrà procedersi, con una puntuale e trasparente pianificazione degli interventi, ad una riqualificazione progressiva anche di quelle più datate. È una partita grossa, enorme, ma non più rinviabile. Dopotutto i privati trasformano i vecchi manieri in lussuosi alberghi a 5 e più stelle, per cui sarà certamente possibile, per la migliore architettura e la più capace ingegneristica italiana, trasformare le più modeste carceri in strutture ricettive salubri e, soprattutto, sicure. In fondo si chiedono carceri dotate di celle singole, possibilmente con una superfice per stanza non inferiore a 9 metri quadri, che abbiano un angolo cottura e un austero bagno completo dei necessari servizi, tenendo in debito conto che lo spazio per sedersi sul water e sul bidet, o la distanza tra il lavabo e la parete, andranno calcolate tenendo a mente le dimensioni medie della corporatura fisica di una persona adulta che pesi almeno 85 chili, nonché prevedendo pure delle stanze dove possano essere ospitati i detenuti obesi i quali, ad oggi, in molti istituti avrebbero perfino difficoltà ad accedere in un bagno e che, in caso di malore, risulterà finanche faticoso trascinarle, a peso morto per davvero, fuori da quegli angusti locali. Dubito che al ministero, che perse la “Grazia” ma conservò la “Giustizia”, abbiano detto le cose che provo a declinare al nuovo Guardasigilli Nordio ed al suo viceministro Sisto, pure perché essi, giustamente, replicherebbero: “Ma perché allora le avete realizzate così?”, creando un comprensibile imbarazzo e un curioso silenzio da parte dei migliori progettisti del dicastero e di quello delle infrastrutture. È evidente che, ove solo si procedesse come suggerisco, diversi istituti risulterebbero temporaneamente inadeguati, o meglio, andrebbero svuotati, il che imporrebbe altre ulteriori decisioni, quelle sì per davvero politiche e coraggiose. In tal modo, però, si avrebbe un più ragionevole quadro dei bisogni spaziali che oggi è, praticamente, falsato e si potrebbe programmare cosa davvero fare, nell’arco almeno dei prossimi 5-10 anni d’adesso, prima che sia troppo tardi per tutti. Così come dovrebbero prevedersi dei punti telefonici, uno in ogni stanza detentiva ad uso esclusivo dei ristretti. La telefonia andrà assicurata (cosa che in parte già avviene) impiegando delle schede telefoniche a pagamento e con tagli che vadano da un minimo di 5 euro ad almeno 50 e loro multipli, ovviamente a spese degli stessi detenuti. Le schede magnetiche, dotate di pin, dovranno essere utilizzate soltanto dai legittimi proprietari e, allo stesso tempo, andrà tolto ogni limite al numero di chiamate, modificando l’attuale norma, articolo 39 del Regolamento e successivi, che risale, al tempo in cui nessuno di noi sapeva cosa fosse uno smartphone. Le telefonate autorizzate non uccidono, non fanno evadere, sono indifferenti al sistema della sicurezza, pure perché, se altre e illecite fossero le intenzioni del detenuto, poco ragionevole sarebbe che impieghi la telefonia sottoposta a controlli; la scheda gli consentirà di chiamare esclusivamente quei numeri telefonici preventivamente individuati e autorizzati dalle competenti autorità giudiziarie e/o amministrative; in tal modo, si eviteranno pericolose processioni all’interno dei reparti detentivi di detenuti che si rechino a telefonare presso i pochi punti telefonici attualmente presenti, talvolta neanche scortati dagli agenti perché quest’ultimi insufficienti come organico. Così si ridurranno i rischi per la sicurezza, attualmente accresciuti e spesso denunciati dalle stesse organizzazioni sindacali della polizia penitenziaria. Un detenuto (uguale ragionamento vale per le detenute), prima di uscire dalla cella, dovrebbe essere sempre perquisito, nonché accompagnato o indirizzato fino alla cabina telefonica (quando c’è); se occupata, dovrà però attendere il suo turno. Immaginate quindi quali rischi e cosa possa accadere in caso di telefonate ritenute urgenti, oppure allorquando si chieda la precedenza o si intenda riprovare a chiamare, soprattutto se si tratti di detenuti stranieri, i cui fusi orari dei Paesi di provenienza rendano più difficili le comunicazioni, perché semmai a quell’ora in quelle realtà è piena notte o sono le prime ore del mattino, talché contattare un familiare, un avvocato, un amico, diventa cosa estremamente complessa se non improbabile, aumentando stress e tensioni tra detenuti e gli stessi agenti. Com’è noto, sono presenti sul mercato mondiale, accreditate dai governi e dagli apparati securitari, delle società specializzate che operano esclusivamente nello specifico segmento della telefonia all’interno delle carceri, le quali sarebbero ben felici di avviare, anche in Italia, una qualche sperimentazione, pure facendosi carico degli oneri d’installazione, purché siano poi invitate a partecipare ad eventuali procedure d’appalto di telefonia fissa all’interno delle carceri italiane. Le apparecchiature fisse all’interno delle stanze detentive potrebbero disporre anche di un schermo touch (come avviene in altri Paesi), e attraverso la interoperabilità dei sistemi si potrebbe consentire di effettuare degli acquisti di beni consentiti sul mercato on line controllato, sempre nel rispetto dell’ammontare di spesa già previsto per ogni detenuto, così come di formulare e trasmettere quella corrispondenza già consentita in ambito carcerario, quali quella riferita alle richieste di udienze con gli operatori penitenziari o con il magistrato di sorveglianza, oppure quelle di consulti e visite specialistiche sanitarie a proprie spese o presso i servizi pubblici, oppure per la partecipazione ad attività trattamentali, religiose, nel rispetto, ovviamente, delle regole contemplate ed eliminando le cosiddette “domandine”. Si consentirebbe, così, di alleggerire di molto il lavoro attuale, soprattutto quello della polizia penitenziaria, meglio impegnandola nella sicurezza, con il pregio di conservare traccia di ogni richiesta e procedura. Come noto, i dati informatici possono essere più facilmente archiviati e controllati quando occorra. Insomma, le nuove tecnologie possono aiutare a meglio governare le strutture penitenziarie ed a sorvegliare, attraverso l’esercizio di un soft-power, la popolazione detenuta, ma di questo parleremo in un’altra sessione, immaginando anche l’utilizzo dei droni per la vigilanza, piuttosto che vederli impiegati esclusivamente dai criminali. Nel frattempo, però, sarebbe già un serio traguardo se fossero assicurati efficienti sistemi antincendio e la loro puntuale manutenzione, perché ne va di mezzo l’incolumità dei detenuti e del personale penitenziario. Questo è solo un primo assaggio del dossier carceri, che trova su l’Opinione, quotidiano liberale e libertario, uno spazio di attenzione. Sono temi che davvero occorrerà, finalmente, affrontare, se si vuole fare sicurezza nella legalità, nei fatti e non a chiacchiere. *Penitenziarista, presidente dell’Osservatorio internazionale sulla legalità (Aps) di Trieste Nordio: “Edilizia carceraria prioritaria per modernizzare e umanizzare” di Antonella Barone gnewsonline.it, 4 novembre 2022 Prime visite in carcere per il ministro della Giustizia. Lo aveva annunciato subito dopo il suo insediamento, lo ha fatto oggi, prima a Regina Coeli poi a Poggioreale. “Abbiamo preso atto del grande lavoro che è stato fatto e che sarà potenziato da noi per migliorare le condizioni di vita dell’amministrazione penitenziaria e dei detenuti” ha dichiarato Carlo Nordio all’uscita del carcere romano. Accompagnato dal capo del Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria, Carlo Renoldi, dal direttore generale del Personale e delle risorse, Massimo Parisi, dal provveditore regionale reggente, Pierpaolo D’Andria, il Guardasigilli ha incontrato una rappresentanza del personale amministrativo e di Polizia penitenziaria, prima di visitare alcuni reparti detentivi. Nordio ha sottolineato che le prime tre visite esterne dal giorno del suo insediamento - la prima per il calendario della Polizia penitenziaria, quindi alla commemorazione dei caduti dell’Amministrazione e quella di oggi, 3 novembre 2022, a Regina Coeli per proseguire poi a Poggioreale - “devono essere un messaggio significativo di estrema attenzione al mondo penitenziario”. Tra le priorità da affrontare l’edilizia penitenziaria, indispensabile “per proseguire nell’opera di modernizzazione e di umanizzazione - ha dichiarato il ministro - Questione non solo di fondi, ma anche di permessi: Roma come Venezia ha problemi di compatibilità tra innovazione edilizia e tutela dei siti storici. Bisognerà, quindi, trovare un coordinamento tra i vari ministeri e anche tra beni giuridici protetti, perché l’innovazione passa attraverso la modifica dei luoghi, e se modifica significa sacrificio di qualche reperto archeologico, questo va fatto, perché non ci possiamo fermare”. Ancora in materia di edilizia, Massimo Parisi, durante l’incontro con i vertici e con il personale della casa circondariale romana, ha ricordato lo stanziamento di 2 milioni di euro per interventi di ristrutturazione dell’ottava sezione dell’Istituto, che versa in condizioni di grave difficoltà. Il direttore del Personale e delle risorse ha poi tracciato un quadro generale delle assunzioni già programmate e delle procedure in corso, per far fronte alle carenze di personale di tutte le aree: “Dopo 25 anni dall’ultimo concorso sono stati assunti nuovi direttori, 1478 sono gli agenti che prenderanno servizio a dicembre e ulteriori 2000 lo faranno entro il prossimo anno”. A conclusione della visita, il Ministro ha anche voluto ricordare un pezzo di storia dell’istituto di Regina Coeli, dove Giuseppe Saragat e Sandro Pertini furono tenuti prigionieri in attesa di esecuzione durante la II Guerra mondiale. “La loro evasione - ha raccontato Nordio - fu organizzata grazie a documenti di scarcerazione falsificati da Giuliano Vassalli, che in futuro sarebbe divenuto Ministro della Giustizia. Doppia emozione vedere queste celle e sedere sulla sedia che è stata di Vassalli”. Poi la giornata del Guardasigilli è proseguita verso Napoli per la visita al carcere di Poggioreale. Con lui, insieme a Renoldi e Parisi, il provveditore regionale per la Campania, Lucia Castellano, il direttore dell’Istituto, Carlo Berdini, e il comandante Gaetano Diglio. “Noi siamo abituati a esprimerci sempre in termini di criticità e di negatività. Sicuramente, vi sono molti problemi dovuti alle strutture, alla carenza di personale, alla carenza in generale di risorse Però vi è anche un lato buono: l’assoluta professionalità del personale che ho incontrato, dai massimi dirigenti fino agli operatori” ha detto il Ministro al termine della visita nel carcere di Poggioreale. “Ho visitato la pizzeria, la falegnameria e tutta una serie di strutture dove i detenuti lavorano e non vi è niente quanto il lavoro che possa riparare dall’ozio e anche dalla disperazione. Io spero che questa parte di Poggioreale, che è in via di sviluppo, aumenti sempre di più e venga diffusa anche negli altri istituti perché non tutti, per ragioni logistiche, sono in grado di attuare questa straordinaria opera che invece è stata attuata qui”. “Non c’è nulla quanto il lavoro e lo sport, sempre nell’ambito della certezza della pena che deve essere eseguita che possa rieducare il detenuto secondo quanto impone la nostra Costituzione” ha concluso Nordio. Più reati, più pene, più carceri: è questa la linea garantista di Nordio? di Piero Sansonetti Il Riformista, 4 novembre 2022 I casi sono due: o tutti noi avevamo ricordi sbagliati sull’ex magistrato Carlo Nordio sulle sue convinzioni, sulle sue idee, sulla sua cultura giuridica - oppure l’ex magistrato Carlo Nordio, che ora è diventato ministro della Giustizia, ha subito, abbastanza di recente, qualche shock che ha ribaltato tutte le sue idee. Lo conoscevamo come garantista di prim’ordine, liberale, difensore strenuo dello Stato di diritto, e anche per questo non riuscivamo a capire perché Silvio Berlusconi si opponesse alla sua nomina a ministro della Giustizia e chiedesse che ministro (o ministra) diventasse la Elisabetta Casellati. Evidentemente Berlusconi sapeva molte più cose di noi su Nordio. Ed altrettanto evidentemente noi del “Riformista” ci siamo sbagliati clamorosamente, nei giorni scorsi, a scrivere ripetutamente che la nomina di Carlo Nordio era l’unica cosa da salvare del governo Meloni. È successo che la svolta garantista che ci aspettavamo non c’è stata e invece, come un fulmine a ciel sereno, è avvenuta una svolta giustizialista che chiude l’epoca Cartabia e torna, ma ancora più sfacciatamente, all’epoca di Bonafede. Ieri, quando abbiamo letto che Nordio andava a visitare il carcere di Regina Coeli e poi quello di Poggioreale, avevamo sperato che finalmente pronunciasse qualche frase liberale. Chiudendo la settimana nera della legge anti-raduni, della conferma degli ergastoli e delle norme speciali per i reati contro la pubblica amministrazione (bidello o mafioso per me pari sono...) e del rinvio dell’entrata in vigore della riforma della giustizia varata dal precedente governo. E invece Nordio è andato a Poggioreale a Regina Coeli e non ha promesso, come ci aspettavamo, riduzione delle pene, fine della moltiplicazione dei reati, scarcerazioni, pene alternative, freno alle misure cautelari. No. Ha detto: costruiremo più carceri e carceri più grandi, anche a costo - a Roma e a Venezia - di rovinare il patrimonio archeologico. Più carceri, più pene, più reati, più prigionieri, meno archeologia e storia. Ecco a voi servita la svolta. Voglio vedere chi ha il coraggio di sostenere che la nostra definizione della politica giudiziaria del nuovo governo (“fasciogrillina”) sia una esagerazione. Sulla giustizia il governo sta facendo il contrario di quello che pensa il suo ministro di Carlo Canepa pagellapolitica.it, 4 novembre 2022 Dal reato contro i rave all’ergastolo ostativo, passando per le intercettazioni, sono stati approvati provvedimenti che vanno contro quanto difeso da Carlo Nordio, di recente e in passato. Prima della nascita del governo guidato da Giorgia Meloni, una delle nomine più attese era quella del futuro ministro della Giustizia, che secondo molti quotidiani sarebbe stata attribuita con tutta probabilità all’ex magistrato Carlo Nordio, eletto deputato con Fratelli d’Italia. Così è poi stato: Nordio è stato nominato ministro, secondo fonti stampa, su esplicita richiesta di Meloni. In questi primi giorni di governo, però, alcuni provvedimenti presi dall’esecutivo sembrano andare nella direzione opposta rispetto a quanto dichiarato da Nordio di recente e durante la sua lunga carriera nel mondo della giustizia. Il 22 ottobre, dopo il giuramento come ministro al Quirinale, Nordio ha elencato alcuni dei provvedimenti che intenderà adottare alla guida del Ministero della Giustizia. Tra le altre cose, Nordio ha sottolineato (min. -0:30) che, a detta sua, “la velocizzazione della giustizia transita attraverso una forte depenalizzazione, quindi una riduzione dei reati”. Bisogna “eliminare questo pregiudizio che la sicurezza e la buona amministrazione siano tutelati dalle leggi penali: questo non è vero”, aveva ribadito il ministro. “Lo abbiamo sperimentato sul campo, soprattutto quelli come me che hanno fatto per quarant’anni i pubblici ministeri”. Con “depenalizzazione” si intende il processo con cui si decide di non classificare più come reati alcune azioni, ma come illeciti amministrativi. In passato, Meloni stessa aveva più volte criticato i precedenti governi, accusandoli di aver ridotto il numero dei reati, depenalizzandoli o abrogandoli, senza costruire nuove carceri. Il 31 ottobre, pochi giorni dopo le dichiarazioni fatte da Nordio, il Consiglio dei ministri ha approvato un decreto-legge, che, tra le altre cose, ha introdotto un nuovo reato, con l’articolo 434-bis, contro l’”invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. La norma, pensata per contrastare l’organizzazione dei rave party, in realtà è piuttosto vaga e rischia di applicarsi ad altri tipi di manifestazioni. Dunque, con il primo decreto-legge il governo è andato subito nella direzione opposta rispetto a quella tracciata dal suo ministro della Giustizia, che chiedeva di ridurre i reati, e non di crearne di nuovi. Il 2 novembre, Nordio è intervenuto sulla vicenda con una nota, difendendo la norma e ricordando che ora il Parlamento potrà modificarla, prima di convertire in legge il decreto. La questione delle intercettazioni - Di recente, così come in passato, Nordio è poi intervenuto per criticare l’eccessivo utilizzo delle intercettazioni fatte dalla magistratura italiana nei confronti degli indagati. Il 24 ottobre, in un’intervista a Il Messaggero, il ministro ha per esempio ricordato, citando una cifra corretta, che lo Stato italiano spende circa 200 milioni di euro ogni anno per le spese in intercettazioni. In generale, la posizione di Nordio sulle intercettazioni, così come su altri temi relativi alla giustizia, si inserisce nel filone del cosiddetto “garantismo”, ossia l’idea che un indagato o un imputato debbano essere tutelati il più possibile e considerati innocenti fino all’ultima sentenza. La nuova norma sui rave party, introdotta dal governo Meloni, tocca pure la questione delle intercettazioni. Tra le altre cose, il provvedimento punisce chiunque “organizza o promuove” un raduno illegale, con più di 50 persone e mettendo a rischio l’ordine, l’incolumità o la salute pubblici, con una “reclusione da tre a sei anni e con la multa da euro mille a euro 10 mila”. In base al codice di procedura penale, le intercettazioni sono consentite per procedimenti relativi a vari reati, tra cui quelli che hanno pene superiori ai cinque anni di carcere. In questo caso, il governo Meloni ha dunque introdotto una norma che potrebbe portare le autorità a usare uno strumento, quello delle intercettazioni, che secondo Nordio è già oggi troppo utilizzato. Il 1° novembre il viceministro della Giustizia Francesco Paolo Sisto (Forza Italia) ha comunque dichiarato che in Parlamento “basterà abbassare la pena sotto i cinque anni e le intercettazioni non saranno consentite”, anticipando quella che potrebbe essere una prima modifica al testo. Il dibattito sull’ergastolo ostativo - Il decreto-legge approvato dal governo Meloni il 31 ottobre è intervenuto anche sul cosiddetto “ergastolo ostativo”, ossia il regime carcerario che esclude gli autori di alcuni reati particolarmente gravi, tra cui quelli di stampo terroristico o mafioso, da possibili benefici penitenziari, a meno che questi non decidano di collaborare con la giustizia. Nel 2021 la Corte costituzionale aveva dichiarato incompatibile con la Costituzione l’attuale regime dell’ergastolo ostativo, invitando il Parlamento a intervenire, prima di un nuovo giudizio sul tema, previsto per il prossimo 8 novembre. Visti i tempi ristretti, Meloni - da sempre contraria all’abolizione dell’ergastolo ostativo - ha deciso di intervenire sulla questione con il primo decreto-legge, riproponendo un testo approvato dalla Camera a marzo 2022, che però non era riuscito ad avere il via libera definitivo del Senato. In base al decreto, i condannati per reati connessi, tra le altre cose, all’associazione di tipo mafioso, alla tratta illegale di stranieri e al traffico illecito di sostanze stupefacenti, potranno accedere ai benefici penitenziari anche senza aver collaborato con la giustizia, a patto che rispettino una serie di condizioni: dovrà essere esclusa la presenza di legami attuali con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva; il condannato dovrà aver adempiuto a tutte le obbligazioni civili e agli obblighi di riparazione pecuniaria conseguenti alla condanna; e il giudice dovrà valutare la presenza di iniziative dell’interessato a favore delle vittime. Inoltre, potranno essere ammessi alla libertà condizionale solo i detenuti che hanno scontato almeno due terzi della pena temporanea oppure, in caso di condanna all’ergastolo, almeno trent’anni di pena. In pratica, il governo vuole provare a mantenere in piedi il regime dell’ergastolo ostativo, introducendo alcune modifiche. Questa posizione sembra però essere in contrasto con quanto detto in passato da Nordio. “Io penso che l’ergastolo ostativo, il principio cioè che al reo non venga concessa la possibilità di alcun beneficio, sia un’eresia contraria alla Costituzione”, aveva dichiarato l’ex magistrato al direttore del Foglio Claudio Cerasa, nel suo libro Le catene della destra, uscito ad agosto scorso. “Bisogna strutturare la legge in modo che l’ergastolo possa rimanere come principio ma bisogna anche ricordarsi cosa dice l’articolo 27 della Costituzione: “Le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Spiace per chi a destra la pensa cosi?, ma il punto e? evidente: il fine pena mai non e? compatibile, al fondo, con il nostro Stato di diritto”. Il 31 ottobre, durante una conferenza stampa, Nordio ha comunque difeso il decreto approvato dal governo, dicendo che l’esecutivo si è adeguato alle indicazioni della Corte costituzionale. Vedremo se questo sarà vero, una volta che i giudici si esprimeranno di nuovo sul testo. Riforma Cartabia blindata dall’Ue: norme garantiste legate al Pnrr di Errico Novi Il Dubbio, 4 novembre 2022 È remota l’ipotesi che il rinvio del testo possa favorire la soppressione delle novità sulle pene alternative. Nordio, in visita a Regina Coeli e Poggioreale, sposa la linea Meloni: “Servono nuove carceri”. Passa per una strettoia sottilissima l’ipotesi che la maggioranza di centrodestra possa modificare la riforma Cartabia, come temono in molti e innanzitutto i penalisti. Tutto sta a verificare se un ridimensionamento di pene alternative e giustizia riparativa, contenute in quel provvedimento, metterebbe a rischio gli accordi con l’Ue per la concessione dei fondi legati al Pnrr. Secondo il governo precedente, quel pericolo esiste eccome. Perché, si legge nella relazione che ha accompagnato il decreto legislativo sul penale (approvato in via definitiva lo scorso 28 settembre dal governo di Mario Draghi e Marta Cartabia), “modifiche al sistema sanzionatorio” e “Pnrr” sono legati a doppio filo. Più precisamente, secondo i tecnici dell’ex premier e dell’ex guardasigilli, “l’idea guida che ha ispirato le modifiche al sistema sanzionatorio, è che un processo che sfocia in un’esecuzione penale inefficiente non è un processo efficiente, come gli obiettivi della legge delega e del Pnrr impongono”. Si parte da qui. Da un’affermazione chiara. Che andrà smentita qualora la nuova maggioranza volesse invece ridurre le innovazioni garantiste della riforma Cartabia. Se l’Italia non vuol vedersi costretta a restituire parte delle risorse europee, deve, tra l’altro, ridurre del 25%, entro il 2025, la durata media dei processi penali. E Bruxelles ha preteso una riforma ad hoc, come per il processo civile, che rendesse realistico quel traguardo. Il testo di Cartabia risponde esattamente a quelle richieste dell’Ue. Solo che il decreto legge di lunedì scorso, oltre a istituire il “reato di rave party” e a riformare l’ergastolo ostativo, ha anche rinviato al 30 dicembre l’entrata in vigore della riforma penale di Cartabia. E in fase di conversione, la possibilità teorica che quel testo venga modificato, esiste. Non si tratta di una faccenda solo tecnico-giuridica, ma di una questione terribilmente politica. Perché il partito di maggioranza relativa, Fratelli d’Italia, non condivide la “decarcerizzazione” teorizzata, e in parte attuata, da Cartabia. Non a caso, i deputati di Giorgia Meloni, l’estate scorsa, non hanno votato il parere favorevole al decreto legislativo dell’ex guardasigilli. Ora, in molti temono che il rinvio a fine anno del testo attuativo sul penale (che avrebbe dovuto entrare in vigore il 1° novembre) risponda non solo all’esigenza di definire un regime transitorio, come chiesto dalla magistratura, per le misure che riguardano la fase preliminare, ma anche alla nascosta intenzione di rettificare la linea garantista della riforma Cartabia nella sua seconda parte, riservata appunto a pene alternative e giustizia riparativa. È stata innanzitutto l’Unione Camere penali, nel documento diffuso subito dopo l’emanazione del decreto Giustizia, a paventare un “assalto” al testo sul penale. La “pretestuosa estensione” del rinvio anche alla parte sulle sanzioni, si legge nella nota dei penalisti, “autorizza la convinzione che detto ingiustificato rinvio preluda ad una riscrittura di questa parte della riforma, attesa la sua evidente incompatibilità con la fosca narrazione identitaria del “buttare la chiave” che, all’evidenza, vuole ispirare i primi passi del nuovo governo in tema di giustizia penale”. Certo, la valutazione allarmata dell’Ucpi non ha trovato finora riscontro in alcuna dichiarazione del governo, della premier, o di parlamentari del suo partito e della Lega. Ma la politica penitenziaria dell’esecutivo, e del guardasigilli Carlo Nordio, difficilmente potrà contraddire la linea Meloni, convinta che il “sovraffollamento” e la tragedia dei “suicidi” (siamo già a quota 74) vada risolta con un “nuovo piano carceri”, come la presidente del Consiglio ha detto nel chiedere la fiducia in Parlamento. A riprova che è questo l’indirizzo, basta citare le dichiarazioni arrivate ieri dal ministro della Giustizia. Garantista convinto, Nordio ha visitato Regina Coeli e Poggioreale. Ha sì ribadito che le carceri saranno “una priorità”, e che le sue prime iniziative esterne riservate agli istituti di pena “devono essere un messaggio significativo di estrema attenzione”. Ma il ministro non si è affatto sbilanciato sull’ipotesi, o almeno sulla necessità, di misure deflattive per decongestionare le carceri. Ha invece indicato due direttrici: “L’edilizia penitenziaria” come una delle “priorità” senza le quali “non proseguiamo nell’opera di modernizzazione e di umanizzazione”, concetto coerente con la linea Meloni”; e l’importanza del “lavoro” e dello “sport” negli istituti di pena, giacché nulla più di queste attività, “sempre nell’ambito della certezza della pena che dev’essere eseguita” può “recuperare e rieducare il detenuto secondo quanto impone la nostra Costituzione”. Non le misure alternative e i benefici, dunque, ma lavoro e sport come corollari della “pena certa”. In carcere. Architrave, addirittura, della strategia penitenziaria di Alfonso Bonafede. C’è un’evidente contraddizione con le valutazioni che il guardasigilli ha compiuto solo pochi giorni fa, quando ha ricordato che “la pena non è solo carcere”. Nordio è il ministro della Giustizia di un governo guidato da Giorgia Meloni. Non può andare contro la premier, a meno che non intenda dimettersi. Quindi nessuna particolare sorpresa. Casomai una conferma: sulle carceri si segue la linea del rigore estremo, senza concessioni alle misure alternative. Con la sola variabile del decreto penale di Cartabia. Che appunto, su pene extra murarie e giustizia riparativa (pure parzialmente alternativa alla detenzione), introduce diverse novità. E c’è sempre da fare i conti con la tesi, citata all’inizio, della relazione illustrativa di Cartabia: “Un processo che sfocia in un’esecuzione penale inefficiente non è un processo efficiente, come gli obiettivi del Pnrr impongono”. Chiarissimo. Scolpito. È una interpretazione di parte, certo, di un governo in cui c’era una guardasigilli garantista certamente più libera di Nordio nell’attuare la propria visione. Ma se pure nella maggioranza, in Fratelli d’Italia e nella Lega, ci fosse la tentazione di stravolgere il testo Cartabia nelle sue parti orientate alla “decarcerizzazione”, si dovranno trovare argomenti convincenti per smentire quella relazione illustrativa. E, così, su due piedi, la missione sembrerebbe ai limiti dell’impossibile. Riforma penale Cartabia spostata al 2023, chiesto il primo rinvio in un processo di Francesco Machina Grifeo Il Sole 24 Ore, 4 novembre 2022 La richiesta presentata per beneficiare degli aspetti più favorevoli della norma che prevede una udienza filtro che vaglia la “ragionevole probabilità di condanna”, in caso contrario scatta il non luogo a procedere. Come si aspettavano gli operatori del diritto, il primo effetto dello spostamento in avanti di due mesi, dell’entrata in vigore della cd. riforma penale targata Marta Cartabia, è un rinvio, richiesto peraltro da un indagato eccellente, per beneficiare delle disposizioni più favorevoli contenute nel Dlgs 10 ottobre 2022, n. 150. Sul decreto legislativo, infatti, è intervenuto il decreto legge 162/2022, approvato dal primo Consiglio dei Ministri presieduto da Giorgia Meloni (pubblicato sulla G.U. il 31/10/2022) che ha spostato a inizio 2023 l’avvio della riforma. Nelle intenzioni del Governo la dilazione recepisce l’allarme - “Il grido di dolore”, copyright del Ministro Nordio - delle Procure che in una lettera al Guardasigilli si erano dichiarate impreparate a gestire i nuovi adempimenti previsti in particolare per la fase delle indagini preliminari. Si terrà così il 18 gennaio 2023, quando probabilmente sarà entrata in vigore la riforma Cartabia che affida al Gup un effettivo potere di “filtro”, l’udienza davanti al giudice di Brescia, Cristian Colombo, del procuratore aggiunto di Milano Fabio De Pasquale e del pm Sergio Spadaro (oggi in forza alla Procura europea) ai quali viene contestato il reato di “rifiuto d’atto d’ufficio” per non aver voluto depositare nel 2021 prove potenzialmente favorevoli agli imputati del processo per corruzione internazionale Eni-Nigeria, conclusosi con l’assoluzione di tutti gli imputati. E nei prossimi 60 giorni potrebbe essere numerose le richieste di rinvio da parte degli indagati, con un effetto anche sul numero dei procedimenti chiusi nell’anno e sul carico con cui parte il 2023, per beneficiare degli effetti favorevoli della riforma. Come spiega oggi sul “Il Dubbio” il prof. Mitja Gialuz, ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Genova, nonché componente della Commissione Lattanzi, il rinvio “sul piano tecnico è potenzialmente foriero di problemi più gravi di quelli che risolve”. “La riforma - prosegue - contiene diverse disposizioni favorevoli agli imputati, sia di natura sostanziale, sia di natura processuale. L’effetto pratico del differimento sarà quello di determinare molti rinvii dei processi su richiesta degli imputati in attesa dell’entrata in vigore”. Mentre se i rinvii non venissero concessi, aggiunge Gialuz, “potrebbero sorgere dei problemi di legittimità costituzionale”. Tornando al caso dell’inchiesta Eni Nigeria, l’avvocato difensore Malavenda, ha chiesto procedere con la normativa Cartabia che dispone il giudizio a fronte di una “ragionevole previsione di condanna” e non più dunque come accadeva prima, ma a questo punto accade ancora, a fronte soltanto di “elementi idonei” per una condanna. In particolare, a fare da spartiacque è il nuovo articolo 425, comma tre, del codice di procedura penale dove ora si prevede che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentano una ragionevole previsione di condanna. Non solo, il Gup deve fare la scelta momento, con il superamento del precedente indirizzo giurisprudenziale che disponeva il dibattimento in presenza di qualsivoglia situazione probatoria suscettibile di una possibile evoluzione. Zanettin (Fi): “Nessun dietrofront sulla riforma, ora la sfida è depenalizzare” di Errico Novi Il Dubbio, 4 novembre 2022 Intervista al senatore di Forza Italia: “Faremo sentire la nostra voce, a cominciare dalle norme sui rave, per le quali già annunciato emendamenti”. “Sulla giustizia il governo non è partito al meglio, è vero. Eppure sono molto fiducioso rispetto a quelli che potranno essere i suoi prossimi passi”. Pierantonio Zanettin, senatore di Forza Italia e capogruppo azzurro in commissione Giustizia alla Camera nella scorsa legislatura, è stato fra i primi a evidenziare alcune “criticità” nell’azione del governo Meloni. Fino a presentare una delle prime interrogazioni al ministro della Giustizia, in cui ha chiesto “quali urgenti iniziative di propria competenza” l’esecutivo intenda assumere “per far fronte alla drammatica situazione del sistema carcerario italiano”. Quesito rivolto proprio mentre il rinvio al 30 dicembre dell’entrata in vigore della riforma Cartabia sembrerebbe aprire la strada, in fase di conversione del decreto su ergastolo e rave parti, a un ridimensionamento delle norme su pene alternative e giustizia riparativa previste dall’ex guardasigilli. Senatore Zanettin, è perplesso sulle prime mosse dell’esecutivo in materia di giustizia? Prima di tutto credo sia necessaria una riflessione. Ci troviamo per la prima volta con una coalizione di centrodestra sbilanciata più a destra che al centro. Con le ovvie conseguenze. Forza Italia sulla giustizia ha una storia molto diversa da quella di Fratelli d’Italia e della Lega. E che margini di manovra potrà avere, il suo partito, in un quadro del genere? Premesso che sosterremo convintamente il governo, sui temi della giustizia cercheremo di spingere per un maggiore garantismo. Come ho già avuto modo di dire, le sensibilità all’interno dell’esecutivo non sono le stesse ma, con il vicepremier Antonio Tajani e, alla Giustizia, il viceministro Francesco Paolo Sisto, credo si possa raggiungere un soddisfacente punto d’incontro. In un’interrogazione al guardasigilli Nordio l’altro giorno ha ricordato il tragico dato dei suicidi in carcere. Ha scritto che su questo “impressionante aumento” ha inciso “una politica ispirata ad una convinzione carcerocentrica che ha finito per aggravare il fenomeno”. Ora questa linea restrittiva può rafforzarsi? Guardi, sono anni che si innalzano le pene e che, soprattutto, che si creano nuovi reati. Praticamente viviamo in un panpenalismo spinto secondo cui qualsiasi emergenza deve essere risolta con il carcere. La pessima gestione di Alfonso Bonafede al ministero della Giustizia ha aggravato la situazione. I grillini avevano un approccio manettaro e forcaiolo che non ha nulla a che fare con lo Stato di diritto. Serve una inversione di rotta. Bisogna procedere con una seria ed efficace depenalizzazione. Può farci qualche esempio? L’equiparazione, introdotta con la spazzacorrotti, dei reati contro la pubblica amministrazione a quelli di mafia e terrorismo è stata un abominio giuridico. Oppure l’utilizzo indiscriminato del trojan, uno strumento per le intercettazioni quanto mai invasivo sul quale è necessaria, alla prima occasione, come ho chiesto più volte, una revisione normativa che limiti fortemente la possibilità di farvi ricorso. Ieri il ministro Nordio ha visitato le carceri di Regina Coeli e Poggioreale, da sempre in condizioni drammatiche di sovraffollamento, e ha dichiarato che se ne esce con un investimento sull’edilizia penitenziaria. Condivide l’idea? Io di principio non sono contrario alla costruzione di nuove carceri, quindi di strutture dignitose per i detenuti e per chi vi lavora all’interno, e mi riferisco innanzitutto al personale della polizia penitenziaria. Certamente, però, è fondamentale porre in essere anche degli strumenti in modo tale che la pena non sia solo afflittiva e da scontare in carcere ma serva, come dice la Costituzione, per l’effettiva riabilitazione del condannato al fine del suo reinserimento nella società. Fra i primi atti del governo vi è stato il rinvio della riforma Cartabia sul processo penale. L’Anm ha accolto positivamente la decisione, i penalisti assai meno... Anche su questo tema dobbiamo ricordare cosa era accaduto. Quando si insediò il governo Draghi, sui temi della giustizia tutto pareva essere rimasto come ai tempi del governo giallorosso, con relatori provenienti solo da Pd e M5S. Tanto per rinfrescare la memoria, per la riforma del Csm, relatori sono stati il dem Alfredo Bazoli e il pentastellato Eugenio Saitta. Sulla delega penale Franco Vazio, sempre del Pd, e Giulia Sarti, anche lei 5S. E pensi che per la Commissione parlamentare d’inchiesta sull’uso politico della giustizia erano stati nominati come relatori Stefano Ceccanti, Pd, e Federico Conte di Leu. E pure in questo scenario penso che i risultati ottenuti siano stati soddisfacenti. Quindi va bene il rinvio, ma vanno preservati i risultati raggiunti. Che per voi sono comunque parziali, mentre per altri partiti della maggioranza, FdI innanzitutto, sono fin troppo spinti verso una linea garantista... La riforma Cartabia è un compromesso, non serve girarci tanto in torno. Bisognava assicurare la tenuta dell’accordo di governo. Però ha raggiunto gli obiettivi storici del nostro patrimonio culturale piuttosto che quelli del giustizialismo grillino. Abbiano ottenuto la separazione delle funzioni, con un cambio, e non era facile. Sulle porte girevoli fra politica e magistratura era dal 2001 che presentavo progetti di riforma e ci siamo riusciti. Poi il voto degli avvocati nei Consigli giudiziari. E il fascicolo del magistrato per evitare quello che è successo alle toghe che condannarono Enzo Tortora, e che fecero una strabiliante progressione di carriera. L’Anm ha fatto sciopero contro questa riforma. L’ultimo lo aveva proclamato contro il governo Berlusconi. Ed è realistico che il decreto penale resti immacolato nelle sue aperture garantiste, ora che il rinvio lo espone a correttivi? Guardi, ribalterei il discorso: in quel testo, di errori sono stati commessi, nella fretta di chiudere per rispettare le scadenze del Pnrr qualche sbavatura ci può essere stata. Però penso che con il rinvio di due mesi si potranno aggiustare le cose che non vanno. Su quali riforme della giustizia puntate, in questa legislatura? FI farà sentire la propria voce. Spero solo che non ci siano più i testi blindati come durante il governo Draghi, con la discussione parlamentare di fatto sterilizzata. Vi farete sentire anche sul decreto anti rave? Certamente. Ci sono 60 giorni di tempo per la conversione. E abbiamo già detto che proporremo modifiche. Se la destra riesuma l’adunata sediziosa di Concita De Gregorio La Stampa, 4 novembre 2022 Adunata sediziosa, è lì che si torna. I rave non c’entrano niente. Difatti non sono mai menzionati, nel decreto di cui si parla da due giorni. Nemmeno in eventuale traduzione (che so: assembramenti deliranti) in ossequio alla compianta italianizzazione della lingua, quando Churchill era da scriversi Ciorcil e cocktail si diceva bevanda arlecchina per volontà del Duce, statista ispiratore. No, non sono menzionati. I rave con questo decreto non c’entrano niente, ripetiamolo in coro. E che Giorgia Meloni, nel suo post pomeridiano su Facebook, senta di dover “rassicurare tutti i cittadini che non negheremo a nessuno di esprimere il dissenso” è una freccia al neon, se ce ne fosse bisogno. Perché sì, è questo il timore: diciamo pure che è la realtà, almeno per il tempo di vita del decreto che il Parlamento, speriamo, potrebbe radicalmente emendare. È - questo - un provvedimento di legge che mira esattamente al centro del bersaglio: sorvegliare, schedare, reprimere persino preventivamente, dissuadere e punire chiunque si riunisca (in più di cinquanta persone, in luoghi pubblici o privati, sottolineo privati) mettendo in pericolo “l’ordine, l’incolumità o la salute pubbliche”. Cioè sempre, cioè tutti: qualunque assemblea o occupazione studentesca, picchetto in fabbrica o sul luogo di lavoro, occupazione di edifici abbandonati per restituirli all’uso comune ma persino feste private, se stiamo alla lettera del testo: persino un addio al nubilato a casa di amici (“edificio altrui, privato”) se per dire un vicino ravvisa pericolo per la salute (la sua? Quella di chi festeggia?) o per l’ordine e l’incolumità, qualunque cosa siano. Intendo: chi stabilisce i parametri del pericolo? Un favoloso pretesto. È a discrezione delle forze dell’ordine che intervengono? Non mi sentirei tranquilla, a giudicare dallo storico anche recentissimo: per un funzionario che sgombera dialogando ce n’è sempre un altro, più d’uno, che lo fa col manganello. Abbiamo Ilaria Cucchi eletta in Senato, non mi dilungherò sulla retorica delle “mele marce” e delle mele buone. Ma di nuovo: non può essere discrezionale, una valutazione del genere. Mai, per nessuna ragione, in uno stato di diritto. E neppure, presidente Meloni, valgono le rassicurazioni personali, scritte e verbali. Né le sue, né quelle del ministro Piantedosi saranno allegate agli atti di un procedimento giudiziario quando ci sarà da applicare la legge, perché le leggi questo fanno: parlano da sole, indipendentemente dalle intenzioni di chi le ha scritte - e qui applico il principio della buona fede, sempre dovuto. Se il mondo fosse abitato da miliardi di cloni di Ghandi e di Madre Teresa ne basterebbero forse tre o quattro, alla convivenza civile, di leggi: non è quando le intenzioni sono buone, che servono. È per farle rispettare a chi ne ha di pessime e potrebbe in qualunque momento, diciamo per fare un esempio teorico anche domani, fare irruzione sulla scena. Torniamo al testo del decreto, scritto malissimo o al contrario benissimo, qualora l’obiettivo fosse quello di fare pesca a strascico di qualunque forma di dissenso. È punito (in modo severissimo, con la possibilità di intercettare i sospetti) chiunque organizzi o partecipi a un “raduno” di più di cinquanta persone “invadendo”, cioè occupando lo spazio di “terreni o edifici altrui pubblici e privati”. Il reato si attiva quando si riscontrino genericissimi e non meglio declinati pericoli, si diceva: salute incolumità e ordine pubblico. Mi astengo dall’indugiare sul fatto che il ministro Piantedosi era prefetto di Roma all’epoca dell’assalto alla Cgil, capitanato da Roberto Fiore e da altri leader di Forza Nuova - alcuni dei quali non avrebbero potuto essere in piazza perché appunto già giudicati “pericolosi” e sottoposti a Daspo - di come lavorino i servizi di sicurezza e le autorità collegate certe volte proprio non si capisce. Né che non abbia mai proceduto allo sgombero di Casa Pound, fra i primi dieci immobili da liberare a Roma secondo la lista di priorità allora in suo possesso. Ma questa potrebbe essere stata persino una scelta liberale, sempre ostinandomi nel principio di buona fede, speculare e simmetrica rispetto alla volontà di non sgomberare neppure altri luoghi considerati “di sinistra”. Non è andata esattamente così, non sempre, ma insomma quel che vorrei dire è che le occupazioni, a Roma in Italia e nel resto del mondo, sono vivai di pensiero e di azione, motore di economie più che legali e benvenute, luogo di elezione di quei giovani di cui sempre si parla (Meloni, nel discorso di insediamento: “Non vi limiterò mai, son stata io la prima, vengo da lì: siate liberi”). Sono laboratori di possibilità e correttori di ingiustizie sociali. Per restare a Roma, città dove vivo - non nei quartieri alti, che pena doverlo precisare, ma proprio accanto a un centro occupato di cui osservo la quotidiana attività - alcune delle esperienze culturali più interessanti, mi verrebbe da dire le uniche davvero interessanti, sono nate dall’occupazione illegale, abusiva di spazi pubblici e privati sovente pericolanti. La stagione magnifica del Teatro Valle Occupato, da cui sono passati Peter Brooke e altri giganti del Novecento. L’Angelo Mai, che dà casa ed è casa di Mariangela Gualtieri, immensa poeta, di Silvia Calderoni, Giorgina Pi e delle avanguardie nostre acclamate in Europa. Il Cinema America, oggi una delle realtà più fertili non solo della Capitale, direi ormai un’istituzione riconosciuta e frequentata dai massimi artisti del mondo - vedere il programma per credere - nasce dall’occupazione abusiva di uno spazio pericolante e abbandonato ad opera di studenti che avevano, prima, occupato molte volte il loro liceo facendone teatro di incontri pubblici. Ma anche fuori dagli spazi culturali, sebbene il confine fra società e cultura sia un assoluto arbitrio, le case occupate - il diritto alla casa - sono il terreno su cui si sono esercitate alla politica generazioni: la sindaca in carica di Barcellona, Ada Colau, viene da quella storia e non è, direi, una pericolosa sovversiva. Solo a Roma 4stellehotel, Spin Time Labs e moltissimi altri edifici occupati fanno da ammortizzatore a ingiustizie sociali che le istituzioni non sono e non sono state in grado di sanare. A Santa Croce in Gerusalemme, dove vivono cinquecento persone di cui cento bambini, dove c’è un laboratorio di restauro di opere sacre, la redazione di un giornale ideato e scritto da persone sotto i 25 anni e dove si fa teatro sul tetto, quando il Comune staccò la luce intervenne Konrad Krajewsi, elemosiniere di Papa Francesco, a farla riattaccare. Dio Patria e famiglia, d’accordo, ma sempre però: il Dio è di tutti, sì, comunque lo si chiami, la patria è di chi ci vive, le famiglie sono di ogni forma e colore. Questo dice la voce di chi non ha voce, questo è il terreno del legittimo dissenso costitutivo della democrazia e d’altronde per colpire chi delinque le leggi ci sono già, il caso del tanto citato rave di Modena lo dimostra. Dove non ci sono, le leggi, o non sono rispettate né si vigila che lo siano è nelle curve criminali degli stadi, negli assembramenti di nostalgici tollerati come simpatico folklore. Nell’abuso di alcol e di droghe in chi si mette alla guida e si uccide, ogni notte, o uccide persone incolpevoli - spesso ragazzi, anche loro - che solo per caso quella sera erano scesi sotto casa a parlare con un amico. Non serve il reato di adunata sediziosa. Serve applicare la legge che c’è. Non serve questo decreto. Che il riscatto politico, sentimento legittimo, non diventi vendetta, questo serve. Che non si traduca in “non faremo prigionieri”, come già si è sentito dire una volta da un ministro in questo Paese, in un governo di centrodestra che rivendica di essere il padre di questo. Padre nobile, addirittura. Avanti con la nobiltà d’animo e d’intenti, allora, padri e figli. Non siate timidi. Il manifesto del populismo penale scritto da analfabeti del diritto di Edmondo Bruti Liberati La Stampa, 4 novembre 2022 Il caso rave ci insegna che la politica non sa come intervenire: quando l’ha fatto c’è stato il G8 di Genova. La questione ergastolo è delicata, ma non era un “liberi tutti”: uno Stato forte deve dare segnali diversi. Di ogni legge ci sono le chiacchere attorno e il testo. Meglio stare alla Gazzetta Ufficiale del 31 ottobre su: “Misure urgenti in materia di...”. Ci si aspetterebbe di leggere subito “prevenzione e contrasto dei raduni illegali”, che però si trova solo dopo ergastolo ostativo, riforma Cartabia e medici No-vax. Ma proprio la normativa No Rave esprime la filosofia e il livello tecnico-giuridico di tutto il Decreto-legge. Sulla tecnica normativa hanno già detto illustri giuristi: “analfabetismo legislativo” (Tullio Padovani), “ignoranza del diritto” (Gaetano Pecorella), “discrezionalità confinante con l’arbitrio” (Giovanni Fiandaca). Di fronte all’analfabetismo si può correre ai rimedi, come indicava la memorabile trasmissione Tv del maestro Alberto Manzi “Non è mai troppo tardi”. Ma il peggio è la filosofia sottostante, nella quale Giovanni Maria Flick ha colto il rischio di “scivolare sul crinale della democrazia securitaria, traduzione istituzionale del populismo penale” (La Stampa 2 novembre). Allarme forse eccessivo, ma stiamo a fatti. Garantismo, depenalizzazione, rispetto della legge, limitazione delle intercettazioni. Belle parole spese da esponenti del governo nei giorni scorsi subito smentite. La norma sui rave party è il manifesto del populismo penale. Legge e ordine, sì, ma dipende: il rispetto delle leggi richiesto ai ragazzi dei rave diventa un optional per i medici No-vax. Un messaggio che è un manifesto: questi medici sarebbero stati reintegrati a fine anno, fra sessanta giorni, ma ora è uno schiaffo anche ai loro colleghi, tra i quali magari qualcuno non del tutto convinto, che hanno rispettato la legge. Rave party si svolgono ovunque e numerosi anche in Italia negli anni scorsi: illegali certo, ma non hanno creato grandi problemi. L’uso di stupefacenti leggeri, ma anche pesanti, non sembri un paradosso, è più controllato in quei contesti che non sulle strade delle nostre città ogni notte. Quando vi erano i presupposti è stato applicato l’art. 633 del codice penale vigente. Viterbo ha fatto notizia, per le dimensioni numeriche eccezionali e la conseguente difficoltà di intervento da parte delle forze di polizia. Il caso di Modena ci insegna che la gestione sul terreno va lasciata all’apprezzamento dei funzionari di polizia sul posto, che hanno l’esperienza e la professionalità per dosare fermezza e prudenza. Quando interviene la politica centrale abbiamo avuto Genova G8, che non dobbiamo mai dimenticare. Il benemerito abbandono di ogni nostalgia per il fascismo non comporta l’abbandono della rigorosa tecnica legislativa del Codice penale Rocco. La nuova norma si apre con una definizione, quasi da dizionario, del concetto di invasione di terreni o di edifici. Con gli strumenti di revisione dei testi contiamo 61 parole: tante parole che non definiscono nulla, lasciando spazio enorme alla discrezionalità dell’interprete, tanto vago è il concetto di “pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Il rischio di applicazioni lesive del diritto costituzionalmente garantito di riunione e manifestazione esiste e a nulla valgono le riassicurazioni verbali dei responsabili politici. La discussione sul Decreto-legge in Consiglio dei ministri, secondo quanto riportato dalle cronache, avrebbe avuto aspetti surreali. Sia nella bozza, sia nel testo definitivo il nuovo reato prevede una pena fino a sei anni di reclusione e dunque consente le intercettazioni. Eppure diversi esponenti del governo si affrettavano ad assicurare che le intercettazioni erano escluse. Ma nessuno aveva a disposizione un codice di procedura penale in cui è agevole reperire l’art. 266 ove si dice che l’intercettazione è consentita in caso di pena superiore a cinque anni? E sei, a quanto pare, è superiore a cinque. L’entrata in vigore della riforma Cartabia sul processo penale ha destato preoccupazioni soprattutto per la mancanza di norme transitorie. Quando si introducono riforme procedurali è opportuno che il legislatore chiarisca se si applicano o meno anche ai procedimenti già in corso: su questo punto è opportuno intervenire. Ma non vi era ragione di rinviare la più ampia applicazione delle pene sostitutive al carcere e tutte le misure ispirate alla riduzione dell’intervento penale per i casi meni gravi, anche attraverso l’estensione della perseguibilità a querela. E neppure di rinviare l’applicazione della regola deflattiva dei dibattimenti con i nuovi criteri per l’archiviazione. Il rinvio in blocco non era necessario e apre lo spazio, in questo clima di rinnovato populismo penale, all’abbandono delle innovazioni più innovative e garantiste. La questione dell’ergastolo è tema assai delicato e proprio per questo affrontato con gradualità dalla Corte Costituzionale, pur a fronte del principio non aggirabile sulla finalità rieducativa della pena dell’art- 27 Costituzione. La mafia siciliana è sconfitta nella sua versione “militare”, ma rischia di sopravvivere con modalità sotterranee non meno pericolose. Per non parlare della criminalità mafiosa pugliese, le indagini degli ultimi anni mostrano il radicamento della ‘ndrangheta attraverso il perdurare negli anni di vincoli familistici. Nessuna sottovalutazione dunque dei pericoli. Ma l’attuazione della prima decisione della Corte Costituzionale che nel dicembre del 2019 ha aperto la possibilità dei brevi permessi anche per gli ergastolani ostativi ci offre un dato di riferimento per il passo successivo. In due anni e mezzo sono stati accordati poco più di una ventina di permessi: non vi è stato il “liberi tutti”. Non si capisce per quale ragione quella magistratura che è stata così prudente sul beneficio minore del permesso dovrebbe d’improvviso diventare lassista su quello maggiore della liberazione condizionale. Nessuno degli ergastolani in permesso, per lo più persone molto anziane e spesso in precarie condizioni di salute, ha creato problemi, ché altrimenti lo avremmo saputo da articoli in prima pagina sui giornali. Da magistrato con una qualche esperienza so bene che la “buona condotta” in permesso non esclude di per sé il rischio di una ripresa di contatti con l’ambiente criminale. In non pochi casi la mancata collaborazione è dipesa dal timore per rappresaglie sulle famiglie, che purtroppo lo Stato non sempre ha saputo prevenire. Uno Stato forte può, correndo qualche misurato rischio, lanciare alle famiglie dei mafiosi, alle generazioni dei figli e dei nipoti di quegli ergastolani, il segnale che da quell’ambiente si può uscire. Roma. Nordio visita Regina Coeli: “L’edilizia penitenziaria è una priorità” di Davide Varì Il Dubbio, 4 novembre 2022 Il guardasigilli lancia “un messaggio significativo di estrema attenzione”. Prima visita in carcere questa mattina per Carlo Nordio. Il ministro della Giustizia si è recato nella Casa circondariale di Roma Regina Coeli dove ha incontrato una rappresentanza del personale amministrativo e di polizia penitenziaria per poi visitare i reparti detentivi. Il Guardasigilli è stato accompagnato dal capo del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria Carlo Renoldi, dal direttore generale del personale e delle risorse Massimo Parisi, dal provveditore regionale reggente Pierpaolo D’Andria, dal direttore dell’istituto Claudia Clementi e dal comandante del reparto di Polizia Penitenziaria Maria Lancieri. Presente anche il garante nazionale per i detenuti, Mauro Palma. Nel pomeriggio il ministro della Giustizia sarà a Napoli per visitare il carcere di Poggioreale. Si tratta delle prime visite di Nordio, come aveva anticipato nei giorni scorsi lo stesso ministro intervenendo alla cerimonia di presentazione del calendario 2023 del corpo di polizia penitenziaria: “Il carcere - aveva detto il Guardasigilli - è una delle mie priorità, ho deciso che la mia prima visita esterna sarà in alcune carceri in particolare difficoltà”. “Abbiamo preso atto del grande lavoro che è stato fatto e che sarà potenziato da noi per migliorare le condizioni di vita ovviamente di tutta l’amministrazione penitenziaria e degli stessi detenuti”, ha detto il ministro della Giustizia al termine della visita nel carcere romano. “È stato interessante ma non nuovo per me, dopo 40 anni di pubblico ministero, perché l’ambiente carcerario - ha sottolineato il ministro - lo conosco bene con tutte le criticità e tutto quello che c’è da fare. Per noi sarà una priorità come dimostrano le mie prime tre visite esterne: la prima per il calendario della polizia penitenziaria, ieri la commemorazione dei defunti e quella di oggi” a Regina Coeli che poi proseguirà al carcere di Poggioreale a Napoli “devono essere un messaggio significativo di estrema attenzione”. “L’edilizia penitenziaria è una priorità senza quella non procediamo nell’opera di modernizzazione e umanizzazione”, ha sottolineato il guardasigilli. “È una questione non solo di fondi, ma anche di permessi - ha spiegato il ministro - Nel caso di città come Roma e Venezia c’è il problema della compatibilità tra innovazione edilizia e tutela dei siti storici. Bisogna trovare un coordinamento tra i vari ministeri e anche tra beni giuridici protetti. L’innovazione in città di grande storia transita attraverso una modifica dei luoghi, e se questo significa il sacrificio di qualche reperto archeologico questo va fatto perché non ci possiamo fermare”. “Vorrei dire una cosa che mi ha particolarmente emozionato perché ho visitato l’ala dove Saragat e Pertini erano stati tenuti prigionieri in attesa di esecuzione durante la Seconda Guerra mondiale. E ho ricordato anche ai collaboratori, essendo un appassionato di storia, che la loro evasione fu organizzata falsificando i documenti di scarcerazione da quello che sarebbe diventato ministro della Giustizia. Giuliano Vassalli, infatti, che all’epoca era un eroe della Resistenza poi sarebbe diventato ministro della Giustizia. Quindi una doppia emozione nel vedere queste celle e sedere sulla sedia che fu di Giuliano Vassalli”, ha concluso Nordio ricordando l’evasione di Sandro Pertini e Giuseppe Saragat dal carcere romano. Napoli. Nordio in visita al carcere di Poggioreale: “Qui sforzo straordinario per il lavoro dei detenuti” di Leandro Del Gaudio Il Mattino, 4 novembre 2022 Una realtà complessa, ricca di criticità ma anche di risorse, che potrebbe diventare modello nazionale per le altre carceri del Paese. Eccolo il ministro della Giustizia Carlo Nordio, nella sua prima visita a Napoli da Guardasigilli. Per quasi due ore ha incontrato i vertici del sistema penitenziario regionale, qui nel carcere di Poggioreale, ha stretto la mano ad agenti di polizia penitenziaria e ha avuto modo di visitare i padiglioni dell’antico carcere cittadino. Ed è andato al di là dei nodi di sempre (tra sovraffollamento e limiti strutturali), per apprezzare gli sforzi compiuti per rendere concreta la speranza di riabilitazione dei detenuti. Ha spiegato ieri il ministro, dopo un sopralluogo di quasi due ore: “Al di là della criticità e della negatività connesse alla carenza di struttura, di personale e di risorse, vi è anche un lato buono: mi riferisco all’assoluta professionalità del personale che ho incontrato, dai massimi dirigenti agli operatori”. A cosa fa riferimento il ministro? “Ho trovato qui una straordinaria attivazione del lavoro, ho visitato la pizzeria, la falegnameria, ma anche una serie di strutture dove i detenuti lavorano”. Una carriera da magistrato, alle spalle 40 anni di lavoro da pm, il ministro aggiunge: “Niente quanto il lavoro fa superare ozio e disperazione. Per altro qui ci sono detenuti che vengono retribuiti, io spero che questa parte di Poggioreale che è in via di sviluppo aumenti e venga diffusa agli altri istituti carcerari, perché non tutti sono in grado - specie per ragioni logistiche -, di attuare questa straordinaria opera attuata qui”. E non è tutto. All’interno del carcere più affollato d’Italia (tra i più antichi d’Europa), il ministro incontra il direttore della casa circondariale Carlo Berdini, il capo del Dap Carlo Renoldi, il provveditore regionale Lucia Castellano, per fare il punto sui progetti di ammodernamento: prima una visita al reparto Genova (fresco di restyling), poi in quelli più critici, infine una visita ai reparti dove si svolgono attività decisive per garantire la riabilitazione dei reclusi: falegnameria, pizzeria, cucina e il laboratorio di pittura (sotto la guida del maestro Lello Esposito). Una macchina in movimento come emerge anche dal protocollo tra il carcere napoletano e il teatro San Carlo, che consente a 15 detenuti di frequentare percorsi formativi come tecnici (tanto da ricevere un attestato di formazione), mentre oggi è prevista addirittura la messa in scena di Cavalleria, in un progetto di teatro per il sociale. Ma torniamo al commento a caldo di Nordio: “Mi ha gradevolmente sorpreso perché molto spesso ci sono dei pregiudizi, non vogliamo nascondere le criticità del sistema penitenziario e della mancanza di risorse, la mia visita è sintomatica di un’attenzione primaria che ministero e governo dedicano al sistema carcerario. Per questo dobbiamo prendere atto di una formidabile evoluzione sia nella educazione del personale, sia nella normazione verso il recupero del detenuto. Nulla quanto il lavoro e lo sport, sempre nell’ambito della certezza della pena che deve essere eseguita, possono riscattare un detenuto, secondo quando imposto dalla Costituzione”. Poi è toccato ai sindacati di polizia penitenziaria (Uilpa, Sinappe, Uspp, Cisl e Cgil) chiedere interventi contro il sovraffollamento delle carceri, contro “turni massacranti”, come ha spiegato in un comunicato stampa Ciro Auricchio, segretario regionale dell’Unione sindacati di polizia penitenziari. Ma restiamo alla realtà del carcere intitolato a Giuseppe Salvia. Uno scenario complesso, nel corso del quale sono tanti i detenuti in transito, in attesa di giudizio, dopo essere stati raggiunti da misure cautelari. Basta un’immagine di vita ordinaria, lungo via nuova Poggioreale, per rappresentare il contatto tra mondo di fuori e mondo di dentro. Sono da poco passate le cinque di ieri pomeriggio - e sono decine i giornalisti e gli operatori che attendono di incontrare il ministro del governo Meloni -, quando all’ingresso del penitenziario si presenta un uomo accompagnato da una donna, che ha in braccio una bambina di pochi anni. L’uomo si presenta ai piantoni, mostra i documenti e accenna alla fine del suo permesso. Si volta, dà un bacio alla moglie e un bacio sulle labbra alla figlia, chiedendole di “fare la brava”. Entra in carcere, sa che lo attende una cella, mentre la figlia guarda il padre che sparisce nell’androne di Poggioreale. Ha un sorriso sulle labbra e una speranza che vale più di ogni altro commento: rivedere presto il padre, magari con un diploma o un attestato di lavoro in tasca. Napoli. Nordio a Poggioreale: il carcere più infernale d’Italia diventa un modello da seguire di Ciro Cuozzo Il Riformista, 4 novembre 2022 Solo cose belle. Così Poggioreale, il carcere del sovraffollamento con oltre 2.200 detenuti reclusi rispetto alla capienza di poco superiore alle 1.500 unità, diventa una casa circondariale modello perché ha la falegnameria e la pizzeria, luoghi che coinvolgono poco più del 10% dei detenuti in attività lavorative che, precisazione assai superflua, prevedono anche un (misero) corrispettivo economico. Avrà sicuramente visto un altro carcere il neo ministro della Giustizia Carlo Nordio. Le sue parole dopo la visita di un’ora a Poggioreale (in mattinata ha visitato Regina Coeli a Roma) fanno quasi venire la pelle d’oca. Anni di denunce sprecati. Segnalazioni di celle sovraffollate, anche con 12 detenuti che usufruiscono di un solo bagno e, se va bene, di una doccia, il tutto separato con un muretto, alto poco più di un metro, da cucina e mini-dispense, cadute nel vuoto. Denunce inutili anche quelle relative a detenuti che da mesi aspettano una semplice radiografia e chiedono solo di ricevere una assistenza sanitaria adeguata. Tutto questo Nordio o non l’ha visto o preferisce ometterlo nelle dichiarazioni rilasciate alla stampa. Sarebbe interessante sapere quali padiglioni ha visitato l’ex magistrato. “Sicuramente ci sono molti problemi connessi alla carenza di strutture, di personale e alla carenza di risorse” si è limitato a dire al termine della visita condotta insieme al capo del Dap Carlo Renoldi, alla provveditrice regionale Lucia Castellano, al direttore di Poggioreale Carlo Berdini e al comandante Gaetano D’Iglio. Qui “vi è anche un lato buono - ha sottolineato il ministro - l’assoluta professionalità del personale che ho incontrato, dai massimi dirigenti fino agli operatori. Poi c’è una cosa che ritengo fondamentale nelle carceri: una straordinaria attivazione del lavoro” ha aggiunto forse senza conoscere la reale percentuale di detenuti che davvero lavorano nel carcere di Poggioreale. “Ho visitato - racconta entusiasta - la pizzeria, la falegnameria ed una serie di strutture dove i detenuti lavorano e non vi è niente quanto il lavoro che possa riparare dall’ozio e anche dalla disperazione. Sono detenuti, tra l’altro, che vengono retribuiti (e ci mancherebbe, ndr). Io spero che questa parte di Poggioreale aumenti sempre di più e che si diffonda anche negli altri istituti carcerari. Non tutti - ha spiegato Nordio - sono in grado, per ragioni logistiche, di attuare questa straordinaria opera che invece è stata attuata qui”. “Non c’è nulla quanto il lavoro e lo sport - aggiunge - fermo restando la certezza della pena, che possa recuperare e rieducare il detenuto secondo quanto impone la nostra Costituzione”. Nessuna parola sulle criticità. Nessuna parole sul numero esiguo di educatori, medici di reparto, psicologi e psichiatri. Nessuna parola sul numero dei suicidi, 74, registrato dall’inizio del 2022 nelle carceri di tutta Italia (a Poggioreale ad agosto un 43enne si è tolto la vita). Milano. Al Cpr si cuce le labbra col filo di ferro per protesta di Eleonora Dragotto milanotoday.it, 4 novembre 2022 Un uomo si è cucito le labbra con del fil di ferro in segno di protesta. A denunciare l’episodio, avvenuto nella serata di mercoledì 2 novembre al Cpr di via Corelli, è la rete Mai più lager - No ai Cpr. Il giovane - come spiegato da due attiviste del movimento - ha circa 30 anni, viene dalla Tunisia e in Italia ha moglie regolare e un figlio. Nonostante voglia fare domanda di asilo, si trova detenuto al Cpr, dove insieme a un altro gruppo di persone da qualche giorno sta facendo uno sciopero della fame. Le condizioni dei detenuti - “Al momento nel Cpr di via Corelli ci sono 72 persone - riferisce l’attivista -. Tutti vengono lasciati in uno stato di totale abbandono, perché anche solo comunicare con un operatore è complicato, visto che il poco personale presente (ci sono solo 3 operatori per ogni 100 persone) deve lavare i panni, portare in infermeria chi ne ha bisogno e distribuire i pasti”. I detenuti non riescono nemmeno a sapere quando è prevista la loro udienza e ad essere critica è anche la situazione sanitaria. “Ci sono diversi tossicodipendenti - continua Ilaria, nome di fantasia dell’attivista di Mai più lager -. Fino a qualche giorno fa, al Cpr era presente anche un malato oncologico, che siamo riusciti a far liberare grazie all’intervento del garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale”. Come già denunciato in passato, al Cpr di via Corelli non sono infrequenti i tentativi di suicidio e gli atti di autolesionismo. E a mancare è anche l’assistenza medica specialistica. “C’è una persona - precisa Ilaria - che da ieri non riesce a muoversi perché molto probabilmente ha una gamba rotta e ancora non è stata portata in ospedale. Tra i detenuti, poi, c’è anche un uomo con gravissimi problemi psichiatrici, dal quale gli avvocati non riescono nemmeno a farsi nominare, perché lui rifiuta di parlare con chiunque e sbatte ogni oggetto per terra. Anche questa persona viene lasciata senza la necessaria assistenza psichiatrica”. Nessuna associazione, né tanto meno la stampa, ha possibilità di accedere al Cpr di via Corelli, dove lo scorso settembre un poliziotto è morto suicida e dove le proteste non si contano. A giugno l’ex senatore Gregorio De Falco (Centro Democratico) era entrato nel centro per un’ispezione e aveva poi denunciato in un dossier “condizioni inumane”, chiedendo la chiusura di questi luoghi, dove le persone vengono detenute senza aver commesso alcun reato. Campobasso. Diritti dei detenuti, la Garante regionale incontra la direttrice del carcere seitorri.it, 4 novembre 2022 La Garante regionale dei Diritti della Persona, Paola Matteo, ha incontrato la Direttrice della casa circondariale di Campobasso, la Dottoressa Antonella De Paola. L’incontro ha rappresentato un prezioso momento di confronto sui principali interventi messi in atto in favore dei soggetti privati della libertà personale e sulle misure da attuare per la tutela dei diritti dei detenuti. Dopo un approfondimento sugli aspetti organizzativi della struttura carceraria, sui temi relativi al trattamento rieducativo personalizzato della persona ristretta con un’attenzione particolare ai progetti di formazione che, nella nostra regione, andrebbero potenziati e soprattutto sul reale reinserimento lavorativo, la Garante ha offerto la massima collaborazione alla dottoressa De Paola. “Ho manifestato alla Direttrice la mia piena disponibilità a collaborare in tutte le iniziative e gli aspetti legati alla tutela dei diritti delle persone recluse. Ritengo che la collaborazione inter-istituzionale, indirizzata a obiettivi comuni e condivisi, rappresenti il modo migliore per intraprendere iniziative volte alla tutela dei diritti delle persone private della libertà personale” ha affermato l’Organismo regionale di Garanzia. “Vorrei lanciare un appello alle forze politiche affinché il carcere torni ad essere un tema prioritario al centro del dibattito politico attuale perché sono tanti i problemi che affliggono il sistema penitenziario in Italia. Sottolineo la necessità e l’importanza di aprire un dialogo con tutte le forze politiche e con gli enti locali e regionali. Anche coloro che nella vita hanno commesso degli errori, devono sapere che le istituzioni non li abbandonano perché anche dal carcere si può ricominciare una nuova vita rispettosa della dignità e dei diritti della persona” ha concluso Paola Matteo. L’appuntamento presso l’istituto penitenziario di Campobasso ha consentito alla Garante regionale dei Diritti della Persona di fare il punto della situazione con la Direttrice e di avviare un proficuo rapporto di collaborazione, allo scopo di orientare al meglio i futuri interventi a favore dei diritti dei detenuti, mettendo sempre al centro la persona con i suoi diritti e i suoi doveri. Taranto. I detenuti producono la birra artigianale col pane raffermo Gazzetta del Mezzogiorno, 4 novembre 2022 Il progetto è stato chiamato “Riscattarsi con gusto”. Sarà una birra chiara dove la materia prima sostituirà in parte il malto d’orzo. Si chiama Birra Pugliese ed è la birra del riscatto sociale e del reinserimento delle persone carcerate nel mondo produttivo. Il progetto è stato presentato oggi nel carcere di Taranto alla presenza del direttore reggente della struttura penitenziaria, Luciano Mellone, del presidente onorario dell’Associazione Mondo Birra Piero Conversano e del direttore del progetto “Riscattarsi con gusto”, il birraio Espedito Alfarano. Il progetto prevede la sperimentazione produttiva di una birra artigianale preparata dai detenuti con il pane che altrimenti finirebbe nella pattumiera. “Sarà una birra chiara, dove - è stato spiegato - la materia prima recuperata (il pane, appunto) va a sostituire in parte il malto d’orzo, conferendo profumi e sapori di crosta di pane a una bevanda”. L’incremento di attività lavorative all’interno delle strutture penitenziarie, attraverso attività imprenditoriali come il birrificio, possono così diventare uno strumento che facilita non solo il reinserimento, ma può fornire occasioni d’impiego al termine della pena, con conseguente abbattimento del rischio di recidiva. Le birre prodotte da Birra Pugliese sono esclusivamente birre artigianali legate al territorio, ovvero realizzate con materie prime coltivate in Puglia, ad alta fermentazione, non pastorizzate e non filtrate, rifermentate in bottiglia o in fusto. “Un progetto - ha osservato il direttore Mellone - tipicamente pugliese sin dal nome, che coniuga alcuni dei tratti distintivi della nostra terra come l’attenzione alla ricerca della qualità attraverso l’uso di materie prime a filiera corta e la capacità di saper intuire le tendenze del mercato, rappresentate dall’attenzione alle birre artigianali. Infine, una peculiarità tutta tarantina: fare del lavoro la più importante occasione di riscatto e di attenzione verso gli altri”. Vercelli. Le “cose recluse” in una mostra fotografica raccontano storie e vita in carcere di Andrea Zanello La Stampa, 4 novembre 2022 Storie e vite raccontate attraverso le immagini degli oggetti in cella e le parole di chi li ha costruiti. Verrà inaugurata oggi pomeriggio, alle 17, 30 nello spazio Gioin in via Laviny 67 a Vercelli, la mostra fotografica “Cose recluse”, organizzata dal Centro territoriale per il volontariato insieme con il Tavolo carcere di Vercelli. I volontari e le volontarie del Tavolo carcere, dopo la proiezione del film “Aria ferma”, hanno scelto di realizzare una seconda iniziativa di sensibilizzazione rivolta alla città. L’esposizione infatti nasce dalla volontà del Ctv, nel corso del 2022, di sostenere l’attività di promozione dei tavoli di animazione territoriale, per creare un ponte tra il dentro e il fuori del carcere. La mostra è curata da Mariangela Ciceri e da Daniele Robotti, autori del libro fotografico omonimo, che ha scatti realizzati all’interno del carcere di Asti. Si parte da cinque aspetti: l’ingresso, la detenzione, la riabilitazione, il lavoro, la spiritualità e la gestione del tempo. L’idea è mostrare come la detenzione attivi nei detenuti fantasia e creatività. Nel volume ci sono immagini ed interviste. Ma ad essere rappresentati sono solo gli oggetti che ricostruiscono spaccati di vita detentiva, dove ogni cosa, dallo spazio all’oggetto, cambia e va riadattata a regole, necessità e bisogni. Senza mostrare il detenuto per sfuggire ad ogni tipo di stereotipo. Paradossalmente un cesto per la frutta realizzato in carcere e tenuto in cella non è diverso da quello che la maggior parte della gente ha in casa. Gli scatti saranno esposti a Vercelli. Spiegano i curatori dell’esposizione: “Ogni cosa reclusa che un detenuto costruisce ha un contenuto simbolico e identitario. Diventa la voce di un’esperienza, in mezzo a tante altre esperienze, un mezzo per uscire dalla passività e per dare un contributo a sé e agli altri. Con gli scatti fotografici e i testi che li accompagnano abbiamo cercato di mostrare “cose recluse”, ma anche gli uomini reclusi, con quello che dalle loro gestualità quotidiane emerge”. La mostra sarà visitabile fino al 18 novembre nelle giornate di venerdì, sabato e domenica, dalle 16 alle 19. Sarà possibile incontrare e conoscere i volontari che operano in carcere. Saranno organizzate, inoltre, visite dedicate alle scuole, su prenotazione, grazie al supporto dei volontari del Servizio civile Universale di Ctv e del Comune di Vercelli. Le classi delle Superiori parteciperanno a laboratori. All’inaugurazione, organizzata col patrocinio del Comune, oggi saranno presenti i curatori. Prenotazioni: contattare Sara Ghirardi al 340.2272114, o scrivere a tavolocarcerevercelli@gmail.com. Genova. La meta di Rocìo che ha fatto amare il rugby ai detenuti di Massimo Calandri La Repubblica, 4 novembre 2022 Ex giocatrice in Serie A, genovese di origine peruviana, una volta a settimana entra nella prigione di Marassi: “Erano diffidenti, ma li ho conquistati: il loro entusiasmo è simile a quello dei bambini che faccio giocare”. Giura che tra bambini e detenuti non ci sia differenza. “Lo stesso sorriso. Lo sguardo che si illumina, quando cominciano a giocare”. Rocìo Ruiz è un’educatrice genovese di origine peruviana: 47 anni, un passato da atleta e un presente ancora su un campo da rugby, accanto a una banda di piccoli - dai 18 mesi ai 4 anni e mezzo - che tutti i pomeriggi della settimana si rincorrono squittendo felici. Tranne il venerdì. Perché quel giorno Rocìo supera una dopo l’altra 5 porte blindate, cercando di ignorare il rumore freddo dei chiavistelli, gli sguardi curiosi attraverso le sbarre. Si ritrova nel cortile del carcere di Marassi. Con 12 cerchi di plastica, una muta di maglie, 8 palloni ovali. E 24 uomini dai 20 ai 50 anni che stanno finendo di scontare condanne per reati comuni, quasi tutti con problemi di tossicodipendenza alle spalle. I cerchi, sistemati a terra, servono a indicare la posizione di ciascuno. “Mettetevi in riga: dovete passarvi la palla dal primo all’ultimo, nel più breve tempo possibile”. Venti secondi. “Troppo lenti. Trovate un accordo, lavorate insieme. Ognuno scelga il ruolo più adatto alle sue caratteristiche, non dimenticate che siete una squadra”. Sedici. Al terzo tentativo sono già scesi a 13. Quando finalmente abbattono il muro dei 10 secondi, scoppiano in urlo liberatorio. Esultano anche alcuni reclusi che fanno il tifo dalle finestre, sui tre piani degli edifici intorno. “Bravi”, dice Rocìo. “Ora giochiamo sul serio. Mi raccomando: le regole, prima di tutto”. Sono 15 anni che il rugby è stato introdotto in diverse prigioni italiane, nella speranza di contribuire al riscatto dei detenuti. È la disciplina sportiva che più di tutte celebra la solidarietà, il sostegno, il rispetto. Anche e soprattutto nei confronti dell’avversario. Si avanza e ci si difende insieme, senza scorciatoie. Era cominciato, come racconta Antonio Falda nel libro Per la libertà. Il rugby oltre le sbarre, nell’istituto penale per minori di Nisida, 2007. Poi le carceri di Torino, Bologna, Frosinone, Bollate, Porto Azzurro, Monza, Terni, Firenze, Livorno. Ragazzi, uomini che grazie anche a una palla ovale sono cambiati. Ma è la prima volta che ad allenarli è una donna. Rocìo ha giocato in mischia in serie A, nelle Vespe di Cogoleto: sa cosa vuol dire placcare, battersi senza paura. “Però quando per la prima volta sono entrata nell’istituto ho provato un senso di angoscia. Le porte che si chiudevano alle tue spalle, un silenzio impressionante, i discorsi degli agenti della polizia penitenziaria - non guardare nelle celle, non parlare con nessuno, se qualcuno si comporta in maniera aggressiva fatti subito da parte e interveniamo noi: sembrava di essere in un altro mondo”. Fino a quel cortile, dove la stavano aspettando ma non erano per niente convinti. “La prima volta qualcuno si è acceso una sigaretta, c’era chi brontolava, altri ha cominciato a calciare con violenza e senza motivo i palloni: uno è addirittura finito al di là del tetto”. Li ha trattati come i suoi bimbi del mini-rugby: con pazienza, attenzione. “Poco alla volta si sono avvicinati. Hanno ascoltato. C’era la stessa voglia di stare all’aria aperta, di giocare, comunicare. A quelli che avevano voglia di fumare ho detto: va bene, nessun problema. Però lo facciamo nel “terzo tempo”, alla fine dell’allenamento”. Il venerdì successivo erano di nuovo lì. Questa volta scalpitanti. “Con un entusiasmo commovente, contagioso”. Rocìo è accompagnata da Federico Ghiglione, presidente dell’associazione che durante la settimana si occupa dei piccolissimi e di quelli più grandicelli della Superba Genova. Insieme a loro un responsabile della cooperativa Biscione, che con la Asl 3 ha avviato un programma educativo-terapeutico per usufruire delle misure alternative. “Al termine del secondo appuntamento c’è stata la consegna delle maglie: una alla volta, con una stretta di mano. Chi ha ringraziato, chi si è messo a piangere per l’emozione. Chi ha promesso: le cose che sto imparando le voglio portare con me quando uscirò di qui”. L’altro giorno, poi. “Un agente chiama un ragazzo: “È arrivata la lettera della Procura, puoi andartene”. Quello risponde: “Dopo. Ora lasciatemi giocare”. Il sorriso. “Lo stesso dei miei bambini. Felicità”. Le dispiace solo una cosa: “Non abbiamo il permesso di lasciare i palloni da gioco. Così ogni volta ce li portiamo via. Però prima glieli facciamo firmare: è un modo per custodire un po’ della loro allegria, e speranza”. Monza. La Cooperativa sociale “Farsi prossimo” e il progetto per l’incontro tra detenuti e figli di Emanuela Niada ilbullone.org, 4 novembre 2022 Laura Landini è figlia di una cara amica. Ha studiato lingue e lavora da anni nelle risorse umane della Cooperativa sociale Onlus Farsi prossimo. Di recente, insieme ad altri giovani amici volontari, ha creato un nuovo progetto per avvicinare i figli ai genitori detenuti per mezzo del gioco e della lettura. Laura Landini è figlia di una cara amica. Ha studiato lingue e lavora da anni nelle risorse umane della Cooperativa sociale Onlus Farsi prossimo. Di recente, insieme ad altri giovani amici volontari, ha creato un nuovo progetto per avvicinare i figli ai genitori detenuti per mezzo del gioco e della lettura, in uno spazio creato appositamente per l’incontro e stabilire così una relazione proficua. In questa intervista Laura me lo racconta con entusiasmo e passione. Laura, quando è nato il vostro progetto e dove operate? “È nato nel 2019 da un gruppo di amici che già operavano nel volontariato in contesti detentivi. Abbiamo maturato insieme l’idea di unirci in un progetto che rispecchiasse non solo le nostre competenze, ma soprattutto la voglia di migliorare un contesto spesso, purtroppo, al margine della società. Ci unisce il desiderio di operare nel sociale facendo rete. PensiamocInsieme fa parte integrante dell’Associazione Nazionale di Azione Sociale, che persegue fini di solidarietà caritatevole”. A chi vi rivolgete principalmente? “All’infanzia e, in particolare, a quella che si trova in contesti di fragilità. Promuoviamo esperienze di sostegno e valorizzazione della famiglia. Di recente abbiamo firmato un protocollo d’intesa con la Casa circondariale di Monza per la gestione della Ludoteca, di modo che possa divenire un luogo in cui la realtà carceraria venga, in qualche modo, “filtrata”. Questo permette ai detenuti di incontrare i propri figli in uno spazio protetto e di aiutarli a costruire tra loro una relazione serena. Cerchiamo anche di creare qualcosa di diverso dall’ordinario, organizzando feste di fine anno scolastico, feste del papà o di Natale”. In che modo potete rendere la Ludoteca uno spazio gradevole? “Grazie al Rotaract di Monza abbiamo raccolto del materiale per poter ridipingere la Ludoteca, così da renderla uno spazio neutro e rilassante. Inoltre, abbiamo intenzione di creare un piccolo spazio biblioteca, nel quale i detenuti possano trovare libri nelle proprie lingue di origine, così da poterle leggere insieme ai loro bambini”. Come mai hai fatto questa scelta? Che cosa ti ha spinta? “Ho sempre avuto la passione dei bambini: ho fatto la baby-sitter mentre studiavo e la maestra di sci ai bambini piccoli. Quando ho deciso di intraprendere un’esperienza di volontariato, ho cercato qualcosa con cui non mi ero mai confrontata e di cui non avevo un’idea chiara. Di questa esperienza mi ha colpito, soprattutto, il fatto che, in un luogo come il carcere, dove coesistono tante limitazioni, pregiudizi, nel quale la realtà è distorta e dove, principalmente, vi è sofferenza, con poco, si riesce a fare davvero tanto. Non sono necessari grandi gesti per fare la differenza. Per esempio, noi all’interno non svolgiamo il ruolo né di baby-sitter, né tanto meno di educatori, ma siamo lì per permettere l’accesso a quel luogo e per aiutare il genitore a ritrovare il modo di comunicare e interagire con i propri figli, anche semplicemente attraverso il gioco o la lettura di un libro”. Anche noi con il Bullone siamo stati in alcune carceri e abbiamo avuto una breve esperienza. Credo sia molto delicato dover gestire dei bambini che hanno vite affettive così difficili. Che problematiche hai incontrato? “Devo dire che siamo stati sempre accolti molto bene. La cosa più importante che cerchiamo di trasmettere anche ai nuovi volontari è quella di entrare con una mentalità aperta, senza pregiudizi, con curiosità, ma con rispetto. È sicuramente un ambiente molto difficile, ma capace di dare molte soddisfazioni. Vorremmo poter collaborare all’interno di altri carceri”. Quanti volontari siete? “Per ora 7, ma siamo alla ricerca continua di nuovi volontari. Da poco abbiamo partecipato all’evento Fa’ la cosa giusta e, devo ammettere che tante persone si sono mostrate interessate. Attualmente stiamo facendo dei corsi di formazione per poter selezionare nuovi volontari e iniziare a collaborare con loro. In più, abbiamo il preziosissimo appoggio dei ragazzi del Rotaract di Monza”. Che bello sentire dei giovani sensibili a queste tematiche così complesse e faticose. Ci vuole grande apertura, disponibilità e un gran cuore... “Ci dà tanta soddisfazione vedere che bastano cura, attenzione, gentilezza e disponibilità per ottenere subito la riconoscenza di questi bambini e dei loro genitori che vivono situazioni dolorose”. La pace e la fionda, in corteo tutti i colori dell’arcobaleno di Goffredo Buccini Corriere della Sera, 4 novembre 2022 La manifestazione in programma domani a Roma. Si condanna l’aggressore e si “rispetta” la resistenza ucraina, ma il rispetto è diverso dal sostegno ai combattenti. La storia non si ripete, dicono. Dunque, calma, bisogna certo resistere alla tentazione di apporre l’etichetta di appeaser al variegato mondo in procinto di manifestare a Roma per la pace. Dagli anni Trenta del secolo scorso a oggi, il movimento pacifista proprio dentro la storia è cresciuto. E non merita di essere ridotto ai miserabili tatticismi con cui gli inglesi Chamberlain e Halifax e il francese Daladier si illusero di poter placare le ambizioni criminali di Hitler. È tuttavia difficile non prevedere che domani, nella canonica piazza San Giovanni, avrà luogo una specie di f estival dell’ossimoro accompagnato dall’orchestra delle migliori intenzioni. Le parole belle da dire, in questi frangenti, sono sempre molte e molto vacue: non si tratta di vincere la guerra ma di vincere la pace; non si è equidistanti ma equivicini. Per chi poi volesse accostarsi un po’ alle terrene concretezze, ecco due proposizioni sempre sulla linea del sole oscuro e dell’acqua asciutta: quindi, con l’Ucraina, sì, ma anche per una tregua che cristallizzi lo status quo nei territori invasi; accanto a Zelensky, certo, però senza mandargli più neppure una fionda. Per tacere della non piccola componente di intransigenti apostoli della resa che al presidente ucraino rimproverano tout court di non essere scappato: “Avesse fatto le valigie, la guerra sarebbe già finita”, insiste qualche opinionista. Del resto, sono tali e tanto diverse le componenti già mobilitatesi nei giorni scorsi in un centinaio di città italiane da poter gareggiare per densità di incoerenze con un’assemblea delle sempre invocate e ben poco efficaci Nazioni Unite (il cui segretario generale, ricordiamolo, fu salutato da Putin a suon di bombe mentre visitava Kiev). La piazza terrà assieme motivazioni nobilissime, che si richiamano esplicitamente al magistero di Papa Francesco, “tacciano le armi”, e retropensieri pelosi, che fanno sorridere l’ambasciatore di Putin in Italia, Razov. Marceranno per l’occasione, anche se a debita distanza politica e forse fisica, chi, come il segretario del Pd, Enrico Letta, s’è speso in una chiara scelta atlantista sin dall’invasione del 24 febbraio e chi, come il capo pentastellato Giuseppe Conte, ha fatto saltare il governo Draghi esattamente sul tema del no alla difesa armata di Kiev, salvo mascherarlo poi sotto l’implausibile argomento del no all’inceneritore di Roma. È anche una fiera del sacrosanto. Chi può essere contrario alla pace? Chi può ascoltare senza timore le ricorrenti minacce sull’uso di armi nucleari, ormai uscite dalla dimensione dell’assurdo ed entrate assurdamente in quella del possibile nel discorso pubblico e in quello diplomatico? Su quest’ovvia trincea, il network di Europe for Peace tiene assieme 600 sigle e realtà, laiche e cattoliche. I sindacati. I partiti in piazza senza bandiera. Ma non pare così agevole superare formidabili contraddizioni nelle parole d’ordine di giornata. Si condanna l’aggressore, certo, e si rispetta la resistenza ucraina. Ma il rispetto è diverso dal sostegno che, infatti, è riservato al “popolo ucraino”, non ai suoi combattenti (la Cisl ha giustamente chiesto che si rendesse esplicito almeno un passaggio sul diritto all’autodifesa degli ucraini). Si chiede “l’immediato cessate il fuoco” glissando sul ritiro della Russia dai territori che ha occupato e dove continua a stuprare, saccheggiare, deportare civili. Importanti intellettuali di area cattolica si spingono a sostenere l’istituzione di entità russo-ucraine per lo sfruttamento delle ricche risorse nei territori contesi. Fuori dal coro l’appello di MicroMega , che al grido di “Putin Go Home!” chiede l’intangibilità dei confini dell’Ucraina, così come definiti dal Memorandum di Budapest del 1994; e chi, come ad esempio il Mean di Marco Bentivogli e Angelo Moretti, il primo sit-in è andato a farlo il 13 ottobre a Castro Pretorio, davanti all’ambasciata russa. Molti puntano con una certa ipocrisia sul sempiterno cavallo di battaglia della “potente azione diplomatica”. Verso chi? E come, se uno dei due soggetti non ha intenzione di restituire ciò che ha rubato? Sarebbe stupido appuntare l’etichetta di “putiniani” a una massa di ragazzi e ragazze che sfileranno con le bandiere arcobaleno e che costituiscono il risultato forse più sano di ciò che abbiamo insegnato ai nostri figli in settant’anni di pace europea: il ripudio della violenza. Ma sarebbe ragionevole superare almeno nella loro generazione quello strabismo che nel 1968 spinse molti dei loro padri e nonni a scendere in piazza per il Vietnam e non per Praga. E che ancora imprigiona parte della sinistra italiana dentro uno schema da Guerra Fredda, con un solo imperialismo da contrastare, quello Usa: Putin avrà “esagerato”, d’accordo, ma gli americani che l’hanno stuzzicato, allora? E qui il catalogo si dipana dalla guerra di Corea in avanti nel nome del più schietto benaltrismo. La storia non si ripete, certo. Ma qualcosa dovrà pur insegnare l’appeasement di Monaco ‘38: almeno come vada tracciata una linea oltre la quale avventurarsi non è solo immorale, è anche pericoloso. “Il Cremlino intensificherà le sue campagne di disinformazione”, prevedono gli analisti di Foreign Affairs: “Bisogna rafforzare le forniture d’armi all’Ucraina per riportare i suoi confini a prima dell’invasione. Qualsiasi risultato minore aumenterebbe le prospettive di un’altra guerra in futuro”. Per capire le reali intenzioni di Putin basterebbe guardare alla Moldavia oggi: alla costruzione di un possibile cambio di regime in favore di Mosca praticato coi soldi ai separatisti di Ilan Shor, al ricatto energetico, alla leva sull’enclave filorussa della Transnistria come nuovo Donbass, all’ostilità per le richieste moldave d’ingresso nell’Unione europea: un copione già visto che dovrebbe illuminarci su quanto il dittatore di Mosca sia partner plausibile nel processo di pace. Pare saperlo meglio di ogni altro chi l’espansionismo russo l’ha avuto sempre come dirimpettaio, la premier finlandese Sanna Marin (non a caso bersaglio di una feroce campagna social): “Il solo modo per finire la guerra è che la Russia lasci l’Ucraina”, ha detto senza girarci attorno. Mostrando di conoscere forse il vecchio ammonimento di Mark Twain secondo il quale la storia non si ripete, ma talvolta fa rima con sé stessa. Il disarmo nucleare, prima che si apra il “vaso di Pandora” di Francesco Vignarca* Il Manifesto, 4 novembre 2022 Oltre ad aver portato distruzione e morte nelle città ucraine e possibili conseguenze catastrofiche indotte su gran parte del mondo la criminale invasione di Putin ha avuto come effetto il blocco immediato (o meglio un pesante arretramento) di qualsiasi progresso internazionale su disarmo e politiche di pace. Lo dimostrano le decisioni di aumento robusto della spesa militare, che si vanno a sommare ad un trend già in decisa crescita. L’unico aspetto sul quale ci si poteva aspettare una ripresa di ipotesi disarmiste, o quantomeno di controllo della proliferazione, era invece quello legato agli arsenali nucleari. Proprio perché, a causa dell’evidente minaccia di escalation, non si potevano più considerare esagerazioni o ipotesi di scuola i continui allarmi della società civile (per troppo tempo snobbate come allarmiste o visionarie). Ma al posto di far crescere il rifiuto a priori di qualsiasi ipotesi di guerra nucleare, con conseguente pressione verso lo smantellamento degli arsenali, le continue minacce e gli annunci retorici degli ultimi mesi hanno invece normalizzato l’idea di utilizzo dell’arma più distruttiva mai costruita dall’uomo. A partire sicuramente da Putin (e forse ancor dai toni accesi di Medvedev), ma con il “rilancio” altrettanto pericoloso - pur più sottile - di coloro che, anche in Occidente, si sono dilungati in analisi militari sulla opportunità e le conseguenze di un utilizzo circoscritto delle testate nucleari. Pericoloso quando si è di fronte ad un “vaso di Pandora” impossible da richiudere, se davvero qualcuno deciderà di lanciare un ordigno (qualsiasi ne sia la potenza distruttiva o la prospettiva in termini di piani miliari). Ma il problema vero non è la retorica, quanto alcune scelte politico-militari che nemmeno davanti al baratro hanno avuto il coraggio di scardinare questo sistema di falsa sicurezza. Pensiamo alle esercitazioni strategiche annuali che la Russia ha confermato per queste settimane, così come la simmetrica conferma da parte della Nato delle grandi manovre “Steadfast Noon”: una settimana di “esercitazioni di deterrenza” che ogni anno coinvolge aerei e personale militare degli Stati dell’Alleanza. Denominata “attività di addestramento ricorrente e di routine” per sminuire il fatto che lo scopo della missione è quello di addestrarsi ad uccidere in massa di civili. Attività che potrebbero favorire escalation ed incidenti (non a caso gli Usa hanno cancellato una esercitazione con missili balistici a marzo) legittimando la pericolosa retorica nucleare della Russia e sminuendo gli sforzi per isolare politicamente Putin. Che si è guardato bene dal condannarle, proprio perché consolidano la sua posizione. Non a caso tutti gli Stati nucleari e i loro alleati (tra i quali, purtroppo, anche l’Italia) hanno votato settimana scorsa contro una Risoluzione nel Primo Comitato Onu a sostegno del Trattato di Proibizione delle Armi Nucleari Tpwn (passata con 124 voti favorevoli). E addirittura votando contro o astenendosi (come l’Italia) su una seconda Risoluzione che ribadiva “la profonda preoccupazione per le conseguenze catastrofiche delle armi nucleari” sottolineando “che è nell’interesse della sopravvivenza stessa dell’umanità che le armi nucleari non vengano mai più utilizzate, in nessuna circostanza”. La risoluzione esortava inoltre gli Stati “a compiere ogni sforzo per eliminare totalmente la minaccia di queste armi di distruzione di massa”. Per questi voti i Paesi occidentali, che tanto richiamano criteri ed ideali di pace e giustizia, non si sono fatti alcun problema ad allinearsi alla Russia di Putin, confermando che al momento nessuno vuole abbandonare l’architettura degli arsenali nucleari, che garantisce potere e predominio, nonostante un pericolo di guerra atomica distruttiva mai così vicino. E sono stati probabilmente gli alleati degli Usa ad impedire un cambio positivo della dottrina nucleare statunitense opponendosi ad una posizione di “no first strike” (rinuncia al primo colpo nucleare) ipotizzata da Biden in campagna elettorale. Sarebbe stato un passo avanti positivo ed innovativo (diversamente da quanto scritto da alcuni giornalisti disattenti non era mai stata adottata). Alleati che hanno appoggiato anche il dispiegamento anticipato di qualche mese delle nuove bombe “tattiche” B61-12, che arriveranno anche in Italia per un utilizzo sui nuovi cacciabombardieri F-35. Prospettive non rosee: per questo che la Piattaforma della grande Manifestazione per la pace di domani, sabato 5 novembre chiede esplicitamente il disarmo nucleare globale. Bisogna mettere le armi nucleari fuori dalla storia prima che distruggano l’umanità, e la strada più concreta e realistiche per arrivarci, soprattutto dopo il varo del “Piano di Azione” di Vienna dello scorso giugno, è quella dell’adesione al Trattato Tpwn, che deve diventare obiettivo politico prioritario. *Coordinatore Campagne - Rete Italiana Pace e Disarmo Migranti. “Vi racconto i viaggi della speranza dall’inferno del Cara di Crotone” di Michele Usuelli* Il Dubbio, 4 novembre 2022 È giovedì 27 ottobre, e alle 8 di mattina il porto di Crotone è affollato. Il pattugliatore Frontex ha attraccato con 109 migranti, sulla banchina, gli operatori di Croce Rossa fanno scendere dalla nave una persona alla volta. Ciascuno riceve un braccialetto numerato, chi è scalzo riceve un paio di ciabatte, tutti vengono sottoposti a triage clinico. Dopodiché vengono fotosegnalati dalle forze dell’ordine e scompaiono all’interno dei bus che li trasporteranno all’Hotspot/ C. A. R. A. (Centro Accoglienza Richiedenti Asilo) di Crotone. La procedura è abbastanza rapida. Tra un’ora è previsto l’arrivo della nave Diciotti con 650 persone a bordo. Il giorno dopo, ne sarebbero arrivate altre 60. Mi chiamo Michele Usuelli, sono un medico pediatra e, dal 2018 a oggi, sto vivendo una esperienza politica come consigliere regionale della Lombardia. La Croce Rossa faticava a trovare dottori disponibili a lavorare nel centro accoglienza e così, da due settimane, sono il responsabile medico del Cara di Crotone. Per dare credibilità a un mandato di natura elettiva, ritengo, si debba cercare di toccare con mano le cose di cui ci si occupa nelle aule della politica. Con questo obiettivo, negli ultimi anni, ho gestito un reparto di pediatria e neonatologia in Afghanistan; ho fatto per due volte il medico di bordo sulle navi di ricerca e soccorso nel mar Mediterraneo e, durante la pandemia, ho lavorato in un reparto Covid. Il 27 ottobre, finito lo sbarco della Frontex, seguo i tre autobus che trasportano i migranti fino all’entrata del Cara. Ufficialmente, questo luogo, avrebbe solamente funzione di Centro Accoglienza per Richiedenti Asilo, ossia quella struttura di prima accoglienza, pensata per ospitare le persone, giunte in Italia illegalmente, che intendano formulare richiesta di protezione internazionale. Un HotSpot, invece, ha una funzione diversa: prendere in carico (in teoria per brevissimi periodi) tutti i migranti sbarcati per poi procedere all’identificazione, alla raccolta delle impronte digitali e alla registrazione dei dati personali. In poche parole, quindi, al Cara dovrebbero essere trasferiti migranti da un precedente soggiorno in Hotspot, non direttamente dallo sbarco e, tuttavia, il centro accoglienza di Crotone, funge, in caso di bisogno, anche da Hotspot. Le persone appena sbarcate non hanno diritto di muoversi liberamente. Vengono divisi gli uomini singoli dalle donne/ nuclei familiari per poi essere tutti sostanzialmente chiusi a chiave in grossi capannoni piantonati all’esterno dalla polizia. Alle persone viene fornito cibo, acqua e pannolini per i bambini e, in caso di bisogno, una visita medica e la somministrazione di medicinali da parte dello staff sanitario del campo. Dal punto di vista della protezione internazionale, l’iter è già iniziato: al momento stesso dello sbarco, durante la prima identificazione da parte dell’ufficio immigrazione della questura, il migrante manifesta per la prima volta la sua volontà di richiedere protezione internazionale, quasi sempre senza avere alcuna nozione legale di ciò che questo comporti o precluda. Il secondo passo (quello più importante) sarà l’inizio della pratica per l’ottenimento del cosiddetto “modulo C3”: un documento per mezzo del quale il migrante formula ufficialmente domanda di protezione internazionale. La compilazione del modulo avviene presso l’ufficio immigrazione della questura presso il Cara o per chi lo abbandona in qualsiasi questura (ma in quel caso è molto complicato essere ricevuti); il “C3” richiede circa un’ora e il tutto avviene in presenza di un interprete o un mediatore culturale. Dall’inizio della procedura “C3” al suo termine, passano molti mesi e solo a quel punto, la persona riceverà un permesso di soggiorno temporaneo di 6 mesi, rinnovabile fino alla convocazione in commissione territoriale. Con il modulo “C3” in mano è possibile dopo due mesi iniziare a lavorare legalmente. Fino a quel momento egli non possiede nessun documento. Se soggiorna presso il Cara. ed esce fuori (come è facoltà degli ospiti adulti, che possono abbandonare il campo la mattina e rientrare la sera), può sempre essere fermato e trattenuto in questura fino al momento in cui se ne accerti lo status. Inoltre, senza questo tipo di documentazione, è impossibile per il migrante lavorare, con la conseguenza che viene alimentata l’illegalità, il mercato nero e il caporalato, essendo un’urgenza indifferibile per il migrante iniziare il prima possibile a ripagare il debito contratto per le ingentissime spese di viaggio nonché per il sostentamento dei propri familiari rimasti nel paese di origine. Un sedicenne afghano mi ha raccontato che il viaggio per lui è costato 12.000 euro, percosse e sevizie incluse. Per l’ottenimento del modulo “C3”, poi, è necessaria una marca da bollo da 16 euro e una fototessera da 5 (spese non previste dal capitolato di appalto per i centri di accoglienza) che in genere, secondo l’interpretazione delle prefetture, sono a carico del migrante e quindi da sottrarre dal cosiddetto “pocket money”, che ammonta a 2,5 euro al giorno per ciascuno. Sta ai singoli enti gestori dei Cara (come avviene nel virtuoso caso di Crotone) contrattare con la prefettura la possibilità di utilizzare una voce del capitolato di spesa pari a 1,6 pro capite pro die euro per persona, con l’obiettivo di fare fronte a queste spese. Una volta ottenuto il modulo “C3”, si attende la convocazione da parte della commissione territoriale del richiedente asilo, la quale (ed anche qui passano molti mesi) è chiamata a esprimersi circa l’ accettazione o il respingimento della domanda di protezione. Quasi tutti i Paesi di provenienza sono considerati degni di protezione, ad eccezione dei cosiddetti “paesi sicuri” come ad esempio Marocco, Tunisia, Senegal, Ghana ed Egitto coi quali sussistono accordi bilaterali con l’Italia che permettono il rimpatrio. Questo, dal punto di vista legale, è il viaggio della speranza di chi vorrebbe proseguire la propria vita in Italia. Infine, va segnalato che la retorica del “vengono tutti in Italia” è profondamente menzognera. Vi sono molte tratte e diversi paesi di primo ingresso, ma anche tra chi sbarca in Italia, moltissimi non chiedono la protezione nel nostro Paese e si avviano verso la frontiera a Nord; Al Cara di Crotone (ed in un Cara in Puglia), è presente EUAA, agenzia della Unione europea che gestisce i ricollocamenti volontari: una quota di migranti provenienti da paesi considerati particolarmente a rischio vengono ricollocati in altri paesi (soprattutto Francia e Germania); EUAA applica anche il trattato di Dublino riguardo ai ricongiungimenti familiari: se hai uno zio in Svezia, lo puoi raggiungere legalmente. Invece del blocco navale, il nuovo governo potrebbe impegnarsi per far funzionare al massimo ed in tutti i Cara i servizi di ricongiungimento familiare e ricollocazione volontaria. Serve però passare da propaganda e retorica della invasione al governo dei fenomeni. Chissà se saranno in grado. *Consigliere Regione Lombardia di +Europa Migranti. L’Ue gela la premier: “Soccorrerli è un dovere” di Carlo Lania Il Manifesto, 4 novembre 2022 A Giorgia Meloni il benvenuta a Bruxelles lo dà un portavoce della Commissione europea e non è proprio un abbraccio caloroso. La premier italiana è stata preceduta dalle notizie che arrivano dal Mediterraneo, dove da giorni le navi di tre ong con in tutto mille migranti a bordo aspettano inutilmente un porto dove sbarcare. Una situazione che a Bruxelles viene monitorata con attenzione e che desta preoccupazione. Seppure felpate, come si conviene, le parole del portavoce non lasciano però dubbi sul messaggio che le istituzioni europee vogliono mandare al capo del governo italiano: “Ricordiamo che salvare le vite a rischio in mare è un obbligo morale e legale per gli Stati membri secondo il diritto internazionale, indipendentemente dalle circostanze che hanno portato le persone a ritrovarsi in una situazione di difficoltà”. E poi, come risposta indiretta alle polemiche di Roma che chiede un maggiore coinvolgimento dell’Europa, sempre il portavoce ricorda come ormai da cinque mesi sia attiva una piattaforma per il ricollocamento dei migranti alla quale hanno aderito 21 Stati Ue e tre associati. “Al momento si registrano 8.000 offerte di rilocalizzazioni - ha proseguito - Il meccanismo può essere utilizzato anche per redistribuire i migranti al momento bloccati sulle navi al largo dell’Italia”. Come a dire: l’impegno europeo c’è. E’ tutto quello che l’Europa poteva e doveva dire sull’argomento. E c’è da scommettere che gli stessi concetti a Meloni li abbia espressi la presidente della Commissione Ue Ursula von der Leyen durante l’incontro a quattro occhi tra le due. Non a caso al termine, solo l’italiana sceglie di affrontare l’argomento con i giornalisti che l’aspettano: “Abbiamo parlato di flussi migratori, della richiesta italiana, diciamo, di un cambio del punto di vista - dice -. Anche questa è una materia ovviamente molto delicata è importante, una materia sulla quale ho trovato orecchie disponibili all’ascolto”. Certo il biglietto da visita con cui Meloni si presenta a Bruxelles aiuta. Non ci sono solo le tre navi delle ong bloccate fuori dalle acque territoriali italiane in condizioni sempre più a rischio, ma anche la polemica con la Germania, Paese di bandiera della Humanity One. Nei giorni scorsi la Farnesina ha chiesto che siano i tedeschi a farsi carico delle persone tratte in salvo dalla ong, richiesta alla quale Berlino ha però risposto a brutto muso: “Tocca all’Italia prestare velocemente soccorso alle persone a bordo”. Non a caso la stessa posizione dell’Unione europea. La questione è stata affrontata ieri a Berlino dal ministro degli Esteri Antonio Tajani con la collega Annalena Baerbock alla quale ha ripetuto le richieste italiane: “Vogliamo solo che si rispettino le norme, questo non è un problema con la Germania, è un problema con tutti”, Per poi spiegare: “Noi chiediamo che tutte le navi che raccolgono persone in mare, giustamente perché questo prevede il diritto di navigazione, quando chiedono di attraccare in un porto italiano devono dirci chi c’è a bordo, quanti sono, da dove vengono, ci serve una relazione completa sulle persone, questo riguarda la sicurezza nazionale”. Tutte operazioni che in realtà già da anni vengono svolte dalle forze dell’ordine una volta che i migranti si trovano a terra. Intanto le condizioni di vita a bordo della Ocean Viking (234 migranti salvati), della Humanity One (179 tra i quali 100 bambini) e della Geo Barents (572) si fanno sempre più difficili. A peggiorare le cose ci si mettono anche le previsioni meteo che segnalano tempeste e onde alte fino a sei metri. “È disumano e contro il diritto internazionale lasciare i sopravvissuti bloccati in mare per oltre una settimana e prolungare le loro sofferenze”, ha detto ieri Mirka Schafer, advocacy officer di Humanity One, mentre Sos Mediterranée, la ong a cui fa capo la Ocean Viking, ha annunciato di aver chiesto un porto sicuro a Grecia, Spagna e Francia. “Siamo di fronte a un’emergenza assoluta - ha avvertito il coordinatore della ricerca e soccorso della nave, Nicola Stalla - e ogni ulteriore giorno di attesa potrebbe avere conseguenze potenzialmente letali”. Migranti, l’ultima sfida: “Devono chiedere asilo sulle navi delle Ong” di Alessandra Ziniti La Repubblica, 4 novembre 2022 La nuova strategia di Piantedosi per vincere il braccio di ferro sui mille naufraghi in mare da giorni. Così, anche se l’Italia ne autorizzasse lo sbarco, la gestione ricadrebbe sui Paesi di bandiera. Richiesta di protezione internazionale a bordo delle navi umanitarie per radicare la responsabilità della gestione dei migranti soccorsi in capo allo Stato di bandiera. Solo in questo caso l’Italia potrebbe acconsentire a concedere il porto di sbarco, far scendere a terra le persone e mandarle subito nel Paese europeo che, a questo punto, vaglierebbe le richieste di asilo, si farebbe carico dell’accoglienza e degli eventuali rimpatri di chi non ha diritto. È nelle regole del diritto d’asilo che il tecnicissimo ministro dell’Interno del governo Meloni Matteo Piantedosi sta cercando la via di fuga per uscire, tenendo il punto, dall’impasse che - è solo questione di giorni - si presenterà: con le tre navi a ridosso delle acque territoriali italiane che cercano riparo dal maltempo, i quasi 1.000 migranti in forte sofferenza, le condizioni sanitarie che precipitano, i rischi per la tenuta della sicurezza a bordo che potrebbero giustificare la dichiarazione d’emergenza da parte di qualche comandante per forzare la mano. Meloni: “ Cambio di posizione dell’Italia” - Piantedosi sa di non potersi permettere di perdere il suo primo braccio di ferro con le Ong, “navi pirata” le ha definite Giorgia Meloni. E sta lavorando per blindarsi dal rischio di vedersi costretto (come sempre è accaduto con Salvini ministro dell’Interno), magari da un magistrato, a far entrare le navi. Sarebbe uno smacco insopportabile per Giorgia Meloni che ancora ieri a Bruxelles, nel suo primo incontro europeo, ha annunciato “un cambio della posizione dell’Italia, per cui la priorità diventa una priorità già prevista nelle normative europee, che è la difesa dei confini esterni. E ho trovato orecchie disponibili all’ascolto”. Quanto siano effettivamente disponibili le orecchie degli altri Paesi europei è tutto da vedere. A cominciare dalla Germania che - dopo aver invitato l’Italia a soccorrere rapidamente le navi umanitarie - si è vista recapitare una richiesta di informazioni da Farnesina e Viminale tra cui appunto quella sulla eventuale domanda di protezione internazionale avanzata dai 184 migranti a bordo della Humanity 1. Una richiesta retorica visto che mai nessun migrante ha chiesto asilo prima di scendere a terra. Le regole dell’asilo - Cosa che però la legge consente ed è proprio lì che si insinua la strategia di Piantedosi per aggirare il trattato di Dublino: le navi sono infatti territorio dello Stato di bandiera, dunque chi chiede asilo a bordo è come se lo facesse in quel Paese che a questo punto dovrebbe farsene carico sgravando l’Italia. Che così, se dovesse autorizzare l’approdo delle navi umanitarie, non sarebbe costretta a tenersi nessuno dei migranti. Una soluzione che terrebbe ferma la linea dura del governo Meloni, eviterebbe all’Italia la censura per eventuali trattamenti disumani nei confronti delle persone salvate e metterebbe ancora una volta gli altri Paesi europei di fronte alla responsabilità della condivisione della gestione dei flussi migratori. Andando ben oltre quel meccanismo di redistribuzione su cui è stato trovato un accordo faticoso che porta via dall’Italia un numero minimo delle persone sbarcate. L’approccio con gli altri Paesi europei - Un cambio di strategia che Piantedosi ha annunciato ieri agli altri Paesi del gruppo Med5, Cipro, Grecia, Malta e Spagna. “Rafforzare i canali di ingresso regolari nella Ue per contrastare il traffico dei migranti riducendo sia i naufragi sia i profitti criminali”. Al ministro degli Esteri Antonio Tajani il compito di ammorbidire, dopo lo scambio di mail tra Berlino e Roma, la collega tedesca Baerbock: “Con un Paese amico come la Germania dobbiamo collaborare. L’Italia non si tira indietro quando si tratta di salvare vite umane, ma le regole vanno rispettate, dobbiamo sapere chi c’è a bordo”. Le ong: “Il capitano di una nave soccorre, non identifica” - Capita l’antifona, anche le Ong cambiano strategia: la Ocean Viking ha chiesto aiuto a Spagna, Grecia e Francia. “Il capitano di una nave che soccorre persone in mare - dice Alessandro Porro, presidente di Sos Mediterranée - non è obbligato a identificarle ma a soccorrerle. La prassi prevede che l’idenficazione sia effettuata al momento dello sbarco dalle autorità competenti”. Le succursali in Tunisia dei trafficanti di uomini. “Mille euro per la traversata” di Salvo Palazzolo La Repubblica, 4 novembre 2022 Il racconto dei sopravvissuti svela il nuovo business. Le indagini del Servizio centrale operativo della polizia per arrivare a chi organizza le rotte. “Uno è della Costa d’Avorio - ha sussurrato il testimone - so che da qualche tempo vive in Tunisia. Si fa chiamare Sec”. Un altro è tunisino: “Mohamed”, ha raccontato un secondo testimone ai poliziotti della squadra mobile di Agrigento. “C’è un terzo trafficante, molto attivo, si occupa di fare arrivare i migranti in Tusinia, a Sfax”. Viene descritto così: “È un uomo di colore che parla bene il francese, non è molto alto. Ha i capelli rasati, età fra i 30 e i 32 anni”. Eccoli i nuovi signori della tratta che stanno trasformando alcune zone della Tunisia in attivissimi hub criminali. A svelare tanti indizi sono stati tre migranti sopravvissuti all’esplosione che il 21 ottobre ha causato la morte di due bambini, su un barcone in mezzo al mare: arrivati a Lampedusa su una nave della Marina Militare, hanno accettato di parlare con gli investigatori della polizia e hanno fornito notizie ritenute di grande importanza per le indagini sul traffico di uomini che imperversa nel Canale di Sicilia. “Prima, dalla Tunisia partivano esclusivamente magrebini - spiega chi indaga - oggi invece partono tantissimi sud sahariani”. I tunisini provano a fare una concorrenza spietata ai libici. Innanzitutto, con una politica dei prezzi. Sempre più bassi. “Io ho pagato duemila dinari tunisini”, ha svelato un testimone. “Io ne ho pagati tremila”, ha messo a verbale un altro. Ci vogliono fra 600 e 1500 euro per arrivare in Italia dal “varco” tunisino verso Lampedusa. “Il viaggio è durato tre giorni - spiega uno dei superstiti - a noi è successo che la barca di ferro dove eravamo circa quaranta si è fermata all’improvviso. Uno dei senegalesi che la conduceva ha provato a riavviare il motore, ma una scintilla è finita sulle taniche della benzina, che sono esplose”. Qualcuno si è lanciato in acqua, non c’è stato invece nulla da fare per due bambini: Halima aveva nove mesi, Mael quasi due anni. Le parole dei testimoni hanno già consentito alla procura di Agrigento oggi diretta dall’aggiunto Salvatore Vella di arrestare due scafisti senegalesi, loro avrebbero provocato la scintilla che ha causato l’esplosione. Intanto, la procura di Palermo indaga sui trafficanti tunisini, che provano ad essere più prudenti dei libici. “Non danno appuntamenti - ha detto uno dei testimoni - quando è il momento di partire vengono loro a prenderti nei campi o a casa”. Anche le comunicazioni telefoniche sono ridotte al minimo indispensabile, per evitare le intercettazioni, che sono state il vero punto di forza delle indagini delle procure siciliane con lo Sco, il servizio centrale operativo della polizia. Il salto di qualità criminale i tunisini lo stanno facendo allargando la clientela. Ecco che allora viene ritenuto importante il racconto del testimone originario della Costa d’Avorio, che ha parlato di un punto di raccordo a Sfax: “L’uomo di colore che parla bene francese gestisce una vera e propria base. È una casa in centro, c’erano già 15 persone quando sono arrivato. Ci hanno caricati su un camion e siamo andati in una campagna fuori città. Lì, due tunisini davano indicazioni e organizzavano tutto. Intanto, arrivavano anche altre persone di colore”. Da quella campagna, il gruppo si è diretto a piedi verso una spiaggia. “Abbiamo camminato circa due ore. Poi, abbiamo aspettato che si facesse sera per salire sull’imbarcazione”. La spiaggia della partenza dovrebbe essere nei pressi della città di Mahdia, a quasi due ore di strada da Sfax. Ora, è caccia ai trafficanti.