L’anno peggiore per i suicidi in carcere di Gabriele D’Angelo L’Essenziale, 3 novembre 2022 Almeno 73 detenuti si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno. Molti erano stati condannati per reati minori e sarebbero usciti di lì a poco. Quasi uno su quattro aveva meno di trent’anni. Il 2022 sarà l’anno con più suicidi nelle carceri italiane: sono già 77 le persone che si sono tolte la vita negli ultimi dieci mesi, 4 tra i poliziotti penitenziari e 73 tra i detenuti. Di questi, 65 si sono impiccati, otto si sono asfissiati con il gas, un altro si è tagliato le vene ed è morto dissanguato. Quasi uno su quattro (20) aveva meno di trent’anni. I più giovani, due detenuti di Milano San Vittore e Ascoli Piceno, ne avevano appena 21. L’ultimo suicidio è avvenuto nel carcere di Siracusa il 29 ottobre. Gli agenti hanno trovato l’uomo impiccato nella sua cella. Aveva 34 anni. Il dossier Morire di carcere di Ristretti Orizzonti (il giornale della casa di reclusione di Padova e dell’Istituto di pena femminile della Giudecca) conta anche 23 detenuti morti per cause ancora da accertare. I suicidi, insomma, potrebbero esser anche di più. Nella casa circondariale di Foggia ci sono stati quattro suicidi: “La criminalità organizzata controlla l’istituto, il territorio e le istituzioni non rispondono, la struttura è sovraffollata, inadeguata sia a livello di spazi che di personale e servizi sanitari. È una tempesta perfetta”, spiega il garante dei detenuti della Puglia, Piero Rossi. Morti annunciate - Molti dei detenuti che si sono suicidati erano in carcere per reati minori e sarebbero usciti di lì a poco. Tabet Abderraim era stato arrestato per resistenza a pubblico ufficiale, dopo una lite scoppiata perché non aveva pagato il biglietto del treno. Poche ore dopo il suo arrivo al carcere di Brindisi gli agenti lo hanno trovato in cella con un cappio al collo. Aveva 22 anni. Un altro ragazzo era stato arrestato per lesioni e minacce, gli rimanevano appena otto mesi di carcere ad Ascoli Piceno. Si è impiccato nella sua cella legando le lenzuola alla finestra del bagno. A fine aprile un altro detenuto si è impiccato con i lacci delle scarpe nella casa circondariale di Foggia. Sarebbe uscito a giugno, poco più di un mese dopo. Alessandro Gaffoglio, invece, aveva 24 anni ed era finito nel carcere di Torino per aver rapinato due supermercati, per un bottino di circa mille euro. Non aveva precedenti, era la sua prima volta in cella. Ha resistito due settimane, poi si è soffocato con un sacchetto di nylon. Molti detenuti avevano già tentato il suicidio, erano tossicodipendenti o soffrivano di problemi psichici. Alcuni aspettavano da mesi un posto in una Rems, le residenze per l’esecuzione delle misure di sicurezza destinate ai colpevoli di reato con disturbi mentali: “A San Vittore oggi ci sono nove detenuti con problemi psichici. Dovrebbero stare in una clinica, non in un carcere”, osserva il garante dei detenuti di Milano, Francesco Maisto. Uno di loro era Giacomo Trimarco, 21 anni appena, che soffriva di disturbo borderline della personalità ed era in cella per aver rubato un telefonino. Si è ucciso il 31 maggio asfissiandosi con il gas. Otto mesi prima il tribunale di Milano aveva stabilito la sua incompatibilità con il carcere. Simone Melard aveva 44 anni ed era nel carcere di Caltagirone per aver rubato un telefonino e un portafoglio, che aveva poi restituito ai legittimi proprietari. Anche lui soffriva di gravi disturbi psichiatrici e da tempo era in lista d’attesa per entrare in una Comunità terapeutica assistita (Cta) per essere curato. Una donna che lo conosceva ha inviato questa testimonianza all’associazione Antigone: “Era un soggetto fragile, viveva di elemosina e più volte l’ho visto rovistare tra i rifiuti. Spesso veniva picchiato per divertimento dai bulli del quartiere. A giugno avevano postato un video su TikTok in cui dormiva in pigiama in un cassonetto dell’immondizia. Quando l’ho saputo ho pensato che fosse una morte annunciata. La costituzione dice che la pena dovrebbe rieducare il condannato. E invece Simone in quel carcere ha perso la vita”. Fragili e soli - La maggior parte dei suicidi avviene nelle carceri più grandi e sovraffollate d’Italia, quasi sempre nelle case circondariali. Questi istituti sono pensati per detenuti in attesa di giudizio o con pene inferiori a cinque anni. Ma spesso ospitano anche condannati con pene gravi e definitive, che vengono lasciati in queste strutture non attrezzate per detenzioni così lunghe: “Le case circondariali sono il portone d’ingresso al sistema penitenziario, quindi sono i primi istituti che si riempiono oltre la capienza”, spiega il garante dei detenuti del Lazio, Stefano Anastasia. A Foggia, Regina Coeli e Monza il tasso di affollamento si aggira attorno al 150 per cento. Il 30 settembre nel carcere di Lecce c’erano 1.125 detenuti, per una capienza regolamentare di 796. Le carceri sono strapiene, ma manca il personale che dovrebbe sorvegliarle. Secondo il segretario di Uilpa Polizia penitenziaria, Gennarino de Fazio, “servirebbero almeno altri 18mila agenti, la metà del fabbisogno totale, che è di 36mila”. Manca anche chi dovrebbe occuparsi della salute mentale dei detenuti, un aspetto cruciale per la prevenzione dei suicidi. Secondo l’associazione Antigone in media nelle carceri italiane lo psichiatra c’è solo per dieci ore a settimana ogni cento persone, lo psicologo per venti ore. Nelle prigioni dove si sono registrati più suicidi questi numeri scendono. A Palermo, per esempio, psichiatri e psicologi ci sono solo per 5,1 ore a settimana. Carenze che rendono ancora più instabile la già precaria salute mentale di chi è in carcere. Nei primi otto mesi dell’anno ci sono state 10,5 diagnosi psichiatriche gravi ogni cento detenuti. Un quinto dei carcerati assume stabilizzanti dell’umore, antipsicotici e antidepressivi, mentre quasi quattro su dieci fanno uso regolare di sedativi o ipnotici. Secondo gli ultimi dati dell’Organizzazione mondiale della sanità in Italia si uccidono 0,67 persone ogni diecimila abitanti. In carcere questo numero sale a 13 ogni diecimila detenuti. Dentro, insomma, ci si suicida venti volte in più che fuori. Durante il suo discorso d’insediamento alla camera, Giorgia Meloni ha dedicato qualche parola anche alla questione carceri: “Queste morti sono indegne di un paese civile, come indegne sono spesso le condizioni di lavoro degli agenti di polizia penitenziaria”, ha detto la presidente del consiglio. Qualche giorno dopo il suo ministro della giustizia, Carlo Nordio, ha assicurato: “Le urgenze del carcere saranno una delle mie priorità”. Per risolverle entrambi hanno parlato di un nuovo piano di edilizia penitenziaria. Secondo Anastasia è una falsa soluzione: “Negli ultimi 25 anni la capacità dei nostri istituti è aumentata di 15mila posti. Ma nello stesso periodo è aumentato anche il numero di detenuti. I posti non basteranno mai, costruire nuove carceri non serve a niente”. Per la coordinatrice nazionale di Antigone, Susanna Marietti, bisognerebbe invece “ripensare le politiche penali, quelle che decidono chi finisce in carcere”. I suicidi salgono a 73. Nordio visita Regina Coeli e Poggioreale di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 novembre 2022 A Termini Imerese si è impiccato un uomo di 45 anni e 5 figli. Secondo Eurostat il tasso suicidario è più alto tra i detenuti in custodia cautelare. Come promesso, questa mattina il ministro della Giustizia Carlo Nordio si recherà, accompagnato tra gli altri dal capo del Dap Carlo Renoldi, in visita al carcere romano di Regina Coeli (dove fino a qualche giorno fa era detenuto il giovane pakistano che dorme ininterrottamente da mesi, considerato in quell’istituto un “simulatore” e mai sottoposto ad adeguati accertamenti medici). Nel pomeriggio poi, il Guardasigilli si trasferirà a Napoli per un’altra toccata e fuga alla casa circondariale di Poggioreale. Entrambi gli istituti di pena, come tutti purtroppo, hanno vissuto il dramma dei suicidi in cella, come quello di Francesco Iovine, 43enne anoressico che, quando ad agosto si è tolto la vita nel reparto sanitario di Poggioreale, pesava appena 43 chili. Una lunga lista di morti evitabili a cui ieri si è aggiunto il 73esimo suicidio, avvenuto nel carcere di Termini Imerese, Palermo. Il più alto numero che si sia mai registrato nelle carceri italiane. L’uomo che si è impiccato nei bagni dell’istituto siciliano aveva 45 anni e cinque figli, era rientrato da due giorni in carcere perché ai domiciliari aveva picchiato sua madre. Scontava appunto una pena per maltrattamenti sulla moglie ed aveva avuto problemi di tossicodipendenza. Le cronache locali parlano di una disabilità ma dalla Casa circondariale arriva la smentita parziale: aveva “solo” una protesi al ginocchio, dicono. Rimane il fatto che, come fa notare l’associazione Antigone, in Italia “in carcere ci si uccide oltre 21 volte in più che nel mondo libero”. “Il tasso di suicidi è oggi pari circa a 13 casi ogni 10 mila persone detenute: si tratta del valore più alto mai registrato”, scrive Antigone che calcola: “Quasi il 50% dei casi sono poi stati commessi da persone di origine straniera. Se circa un terzo della popolazione detenuta è straniera, vediamo quindi come l’incidenza di suicidi è significativamente maggiore tra questi detenuti”. Inoltre, “dalle poche informazioni a disposizione, sembrerebbe che circa un terzo dei casi di suicidi riguardava persone con una patologia psichiatrica, accertata o presunta, e/o una dipendenza da sostanze, alcol o farmaci”. È interessante infatti confrontare questi dati con il tasso di suicidi nella popolazione libera: nel 2020 uno studio dell’Iss calcolava che l’Italia, “con un tasso grezzo di 8,2 per 100.000 abitanti (su tutte le età) resta uno dei Paesi con la mortalità per suicidio più bassa d’Europa, quasi la metà rispetto alla media dei Paesi dell’Ue”. Mentre l’Eurostat e il Consiglio d’Europa hanno calcolato che nel 2020 il tasso dei suicidi nella cittadinanza era di 0,6 ogni 10 mila persone, mentre tra i detenuti condannati il tasso saliva a 7,9 e tra i prigionieri in custodia cautelare si arrivava a 19,1. Eppure, c’è chi fa peggio dell’Italia anche in questo campo: la Francia per esempio, con i sui 43,1 suicidi ogni 10 mila detenuti e con 175 carcerati suicidatisi in cella nel 2020 (numero assoluto più alto di quell’anno) è in questo senso uno dei Paesi peggiori d’Europa. Prima della Francia, al top di questa triste classifica, ci sono solo Repubblica Ceca, Lettonia e Austria. Ma il dato non può e non deve consolarci. Ergastolo ostativo: rispettare l’individuo, anche se mafioso di Lucio Leante L’Opinione, 3 novembre 2022 Bisogna affermare il principio liberale che l’educazione non può e non deve realizzarsi mai contro la volontà e la libertà interiore dell’educando, quando questi non vuole essere educato, accettando le conseguenze del suo rifiuto. Ne deriva che la funzione rieducativa della pena, prevista dalla nostra Costituzione, non può e non deve realizzarsi contro la volontà del detenuto rieducando. Se questi, come fanno i mafiosi irriducibili, non manifesta tale volontà dissociandosi dalla sua subcultura e organizzazione mafiosa e collaborando concretamente con lo Stato e persiste, invece, nella volontà di fare guerra allo Stato, quest’ultimo non può e non deve cercare di “rieducarlo” per forza. Non deve nemmeno fingere di averlo rieducato, quando il rieducando non riconosce l’imperio e la superiorità delle sue leggi. Lo Stato liberale deve rispettare la volontà e la libertà di coscienza interiore di ogni individuo, anche quando si tratti di un mafioso e la sua coscienza morale sia perversa e incompatibile con il sentimento della comune umanità e con le leggi dello Stato. Davanti a quella libertà interiore, sia pure perversa, la maestà dello Stato deve cedere, anche se ciò significa lasciarlo in galera a vita e dover registrare un fallimento dello Stato per non avere potuto realizzare la funzione rieducativa della pena. Viceversa, sarebbe un riconoscimento della parità o addirittura della inferiorità e debolezza dello Stato liberale rispetto a quello Stato anti-Stato che è l’organizzazione mafiosa in guerra con lo Stato liberale ed i suoi principi. I tentativi di rieducazione forzata sono tipici degli stati totalitari. Lo faceva Mao durante la sua sanguinosa “Rivoluzione culturale”. Ma uno Stato liberale non può e non deve nemmeno tentare di educare o rieducare nessuno con la forza. Né fingere di avere rieducato un mafioso irriducibile per non ammettere un suo fallimento empirico. Anche perché in questo caso il mafioso, la sua subcultura e la sua intera organizzazione anti-statale interpreterebbero quella finzione come una vittoria e una conferma della loro superiorità culturale e politica sullo Stato liberale di diritto. La vita detenuta è una lunga marcia attraverso la notte di Luigi Mollo* Il Dubbio, 3 novembre 2022 Chi torna in libertà inizia una seconda carcerazione fatta di negazioni lavorative e personali. Poetica. Ecco che le carceri/mercanti sono le gabbie di uccelli/detenuti, e i detenuti/uccelli vengono addestrati a far ritorno nelle loro gabbie/celle. Questa è l’amara realtà, e finché il carcere non cambierà prospettiva, il reinserimento e il recupero del reo resteranno sempre un fallimento dello Stato Italiano. Il reo, la cui condanna diventa definitiva dopo il terzo grado di giudizio, dovrebbe subire solo la privazione della libertà ed iniziare il percorso di recupero previsto dalla Costituzione, ma le attuali violazioni della dignità e i trattamenti inumani hanno portato quest’ultimo a commettere gesti di autolesionismo nell’ordine delle migliaia, e decine di suicidi di cui tanto si parla ma per i quali a pochi importa. Tanto era solo un delinquente! Domando a voi: avete mai visto come muore un uomo in carcere? Io sì, da marzo ad agosto per ben tre volte. Chiudono immediatamente tutta la sezione, si attendono le autorità di turno e d’improvviso vedi la forma di un corpo in una barella, chiuso in due grandi sacchi neri, giunti a metà da nastro per pacchi portato via frettolosamente. Poi tutta quell’aria ristagnante torna normale, come se non fosse accaduto nulla. Questo come può essere classificato? Un problema politico? Lo stesso Parlamento non ha mai mostrato reale interesse ad un’esecuzione della pena con modalità legali, nonostante l’attuale voragine in cui versano gli Istituti Penitenziari Italiani sia sotto gli occhi di tutti i perbenisti. Un problema di opinione pubblica? Nessuno pensa che per il reo che riottiene la propria libertà, inizia una seconda carcerazione costituita da negazioni lavorative e personali. I perbenisti conoscono la realtà del carcere? È un ambiente difficile, se non sei strutturato e forte per sopportarlo la tua mente finisce per esserne distrutta. Il tempo infinito, il dover aspettare per ricevere qualsiasi cosa logora. E poi c’è la solitudine, il senso di abbandono, lo sconforto, il sentirsi continuamente sbagliati, la sensazione di essersi rovinati la propria vita e di non avere più alcun un futuro. Perdi la speranza e se in quel momento sei solo ti lasci andare alla disperazione e commetti atti terribili. Nonostante io creda fermamente che sia giusto ‘pagare’ per quanto commesso, penso che sia altrettanto giusto e fondamentale, avere la possibilità di ricostruire una vita dietro le quinte, lontana dai giudizi. Ribadisco che, quando un detenuto ritorna in libertà ancora vivo ma senza soldi, casa, famiglia, con il nulla con cui è entrato, torna inevitabilmente a delinquere e scatta quella terribile cosa che è la recidiva. C’è bisogno di una maggior collaborazione con la società esterna, il detenuto non è sempre e solo una persona da cui stare alla larga, non è un mostro né per forza un delinquente è spacciato. È una persona che ha sbagliato, ha pagato e che molto spesso ha solo tanta voglia di riscatto. La certezza della pena non è solo carcere. E i tempi biblici del paese di santi poeti e navigatori per attuare un piano adeguato per l’edilizia penitenziaria, lasceranno spazio a nuove lesioni commesse per mano dello Stato sul detenuto materiale umano. Un pensiero particolare a chi mi ha dato l’opportunità di iniziare un percorso di studi universitari in carcere e di poterlo continuare attualmente, auspicando ad un futuro lavorativo per i diritti e doveri delle persone private della libertà personale, a chi lotta con idee di carta e penna ogni giorno, a tutti gli uomini di potere che possono migliorare le condizioni detentive. La vita detenuta è una lunga marcia attraverso la notte, e si avanza verso un vuoto senza nessuno sbocco. Non si vive, si mantiene in vita solo un corpo che non ti appartiene più perchè è diventato di proprietà del ministero di Grazia, talvolta dell’Ingiustizia *Corso di laurea in Scienze politiche, relazioni internazionali, diritti umani, Università degli Studi di Padova, Progetto Università in carcere Entrate in carcere e ditemi se questo è uno Stato di diritto: le condizioni dei detenuti sono inaccettabili di Giovanni Varriale Il Riformista, 3 novembre 2022 La relazione annuale a firma del garante regionale per i detenuti Samuele Ciambriello, getta ancora una volta nello sconforto più totale gli operatori del diritto. Sono svariate le preoccupazioni che emergono da quest’ultima relazione: si va dal dato del sovraffollamento (le carceri italiane sono le più sovraffollate d’Europa), dal tasso di suicidi sempre in aumento, fino alla carenza di personale nelle strutture carcerarie addirittura nel Carcere di Poggioreale vi è carenza di agenti di Polizia penitenziaria. Sono dati quelli sciorinati dal Garante che devono allarmare e preoccupare operatori del diritto e non. Basti pensare che il 30 % dei detenuti ristretti nelle carceri italiane è ancora sub iudice, il 35% con un residuo pena da scontare sotto i 3 anni e che 1/3 dei detenuti è stato condannato per delitti di droga e che 1/4 di costoro è tossicodipendente. Ebbene, non posso non soffermarmi proprio su questi ultimi dati che ad avviso dello scrivente rappresentano alla perfezione il fallimento del sistema giustizia così come regolato. Infatti, analizzando questi dati si evincono due fondamentali criticità: la prima è che qualora si applicasse scrupolosamente il codice di procedura penale, le carceri non patirebbero questo sovraffollamento; in secondo luogo che la maggior parte dei detenuti nelle carceri italiane è imputato di reati in tema di stupefacenti e che, quindi, il continuo inasprimento delle sanzioni in tema di detenzione e spaccio degli stupefacenti, non ha risolto in alcun modo il problema. Invero è evidente, come vi sia, in contrasto con quanto previsto dal codice di procedura penale, un abuso eccessivo della applicazione della misura cautelare in carcere che, si potrebbe dire, quasi, non essere più extrema ratio bensì la prima scelta sia da parte delle Procure che dei Giudici che le applicano senza batter ciglio. È evidente quindi che più che la riforma del codice di procedura penale e del codice sostanziale sarebbe necessario un approccio culturale diverso rispetto a quello fin ora avuto da parte in particolar modo delle Procure che invocano sempre all’utilizzo delle misure cautelari più stringenti e dei Giudici che ne concedono con troppa leggerezza e facilità l’applicazione. Altro problema sconfortante è rappresentato dalla presenza di un’elevata percentuale di detenuti con un residuo pena inferiore ai tre anni, probabilmente dovuto non solo a quanto poc’anzi evidenziato ma anche al cattivo anzi pessimo funzionamento del Tribunale di Sorveglianza che, almeno a Napoli, non ha personale a sufficienza per l’enorme mole di lavoro che deve fronteggiare quotidianamente. Infine, il tema della droga e della percentuale di detenuti per reati in materia di stupefacenti o di coloro che ne fanno uso è la dimostrazione del fallimento delle politiche giudiziarie degli ultimi anni che hanno solo aumentato i limiti edittali nel massimo o nel minimo per tali reati, quando probabilmente sarebbe stata necessaria una politica diversa di prevenzione, di ascolto soprattutto in quelle realtà difficili in quei quartieri abbandonati ove, per l’appunto, i cittadini si trovano quale unica scelta di vita la delinquenza e l’abuso di sostanze stupefacenti. I dati fin qui sciorinati sono solo alcuni di quelli riportati nella relazione del garante che raccontano di una realtà carceraria sempre più degradata, ove quotidianamente vengono violati tutti i diritti costituzionali dei detenuti in carcere. Basti pensare che spesso e volentieri per aver un mero permesso premio un detenuto che si trova in condizioni di ottenerlo potrebbe aspettare anche oltre un anno a causa della mancanza del personale all’interno delle strutture carcerarie e questo al giorno d’oggi, in uno stato di diritto, è inconcepibile. Adolescenti che tentano di impiccarsi in cella: a quando un codice penale per i minori? di Damiano Aliprandi Il Dubbio, 3 novembre 2022 Lunedì scorso, un detenuto adolescente di 17 anni ha tentato di suicidarsi con un cappio ricavato dalle lenzuola nel carcere minorile di Quartucciu, in provincia di Cagliari. A salvarlo dalla morte sono stati gli agenti di polizia penitenziaria presenti in istituto che sono prontamente intervenuti. Due settimane prima, questa volta nel carcere minorile di Torino, un altro adolescente è stato salvato in extremis da un tentativo di suicidio. Siamo giunti a 74 detenuti che si sono tolti la vita dall’inizio dell’anno, ma i tentativi di suicidio sono un dato ulteriore che fa comprendere il crescente malessere all’interno delle carceri italiane. “I detenuti minori sono i più fragili e perciò l’attenzione va decuplicata”, ha commentato il segretario generale della Federazione nazionale della sicurezza Cisl della Sardegna, Giovanni Villa, ringraziando soprattutto gli agenti penitenziari per il loro lavoro spiegando che si tratta “dell’ennesima vita salvata all’interno di un istituto penitenziario”. Ed è vero. Se non abbiamo raggiunti numeri di suicidi ancora più drammatici, il merito è degli agenti. Ma non può essere tutto scaricato su di loro. Come merge da più rapporti sulla detenzione come quelli elaborati da Antigone, emerge chiaramente come le condizioni di detenzione siano elementi che influiscono sull’eziopatogenesi di questi gesti estremi: gli istituti penitenziari ove si sono registrati i più alti numeri di episodi di autolesionismo e di tentato suicidio sono infatti, emblematicamente, quelli con il maggior tasso di sovraffollamento nonché quelle carceri laddove l’assistenza psichiatrica e psicologica è carente. Ma questo è ciò che riguarda il carcere per adulti. Dall’altro lato, il disagio minorile trova ancora risposta nel medesimo Codice Rocco che, con la sua filosofia totalitaria - come ha ben spiegato il presidente di Antigone Patrizio Gonnella - “è permeato di un’idea di pena e di società che nulla ha a che fare con qualsivoglia riflessione pedagogica e con la centralità dell’essere umano, tanto più se questo è un soggetto in evoluzione e in corso di maturazione psico-fisica”. Per questo, le nuove conquiste sul terreno pedagogico ed educativo, - ha sottolineato sempre Gonnella “ci consiglierebbero di sottrarre i minori a qualunque codice penale per adulti, ovviamente a maggior ragione a quello attualmente in vigore perché privo di una qualsiasi attenzione ai bisogni della persona accusata di un reato, tanto più se ancora in fase di crescita”. Da qui l’idea di un codice penale per i minori, proprio perché le carceri minorili non posso sempre essere la risposta, solo per fare uno dei tanti esempi, al delitto di oltraggio commesso da un adolescente. Il rispetto degli altri finisce per pretenderlo rinchiudendo un ragazzo dietro le sbarre. Così lo si punisce, ma non si educa. La giustizia meloniana è un manifesto del pensiero illiberale di Giovanni Fiandaca Il Manifesto, 3 novembre 2022 I primi atti del governo illuminano il finto garantismo, repressivo e carcerocentrico. Tipologie di reato discrezionali, segni di derive securitarie, rinvio delle pene sostitutive, citazioni a sproposito di Falcone e Borsellino. Caro Nordio, che delusione. Confesso la delusione, peraltro non solo mia. Rientro tra quanti si erano illusi di poter prendere sul serio alcune dichiarazioni programmatiche del nuovo ministro della Giustizia, in linea del resto con precedenti prese di posizione dello stesso Nordio sempre di segno tendenzialmente liberale. Sintetizzabili all’incirca così: la quantità dei reati va sfoltita, anche perché l’inflazione penalistica è causa delle lungaggini processuali; occorre sfatare il pregiudizio che sicurezza e buona amministrazione dipendano dalle leggi penali; lo spazio della pena carceraria va ridotto; il sistema penitenziario attuale è criminogeno. Affermazioni di questo tipo appaiono di fatto smentite, in verità, da tre decisioni contenute nel recente decreto legge varato come primo atto normativo di questo governo meloniano. Com’è intuibile, ci si riferisce innanzitutto all’introduzione del nuovo reato di raduno pericoloso, inserito nel codice penale all’art. 434 bis. Ce ne era davvero bisogno, o si tratta dell’ennesima fattispecie manifesto che questa volta il neonato governo di destra-centro ha voluto subito emanare per attestare anche simbolicamente l’intento politico di interpretare in chiave iper repressiva la tutela dell’ordine pubblico, accontentando così i settori più autoritari e punitivisti del suo elettorato di riferimento? Ma il nuovo reato è discutibilissimo pure nella strutturazione tecnica: riesibisce il volto del vecchio diritto penale di polizia, utilizzabile con una discrezionalità confinante con l’arbitrio. Riassumo - sperando di farlo con chiarezza - i due punti più critici, cominciando dal fatto punibile: esso consiste nella invasione arbitraria di terreni o edifici, da parte di più di cinquanta persone, allo scopo di organizzare un raduno, quando dallo stesso può derivare un pericolo per l’ordine o l’incolumità o la salute pubblici. Dal punto di vista strutturale, ci troviamo di fronte a un reato cosiddetto di pericolo concreto, dal momento che la disposizione normativa demanda al giudice, e prima ancora agli organi inquirenti, il compito di verificare nei singoli casi se il raduno avvenga - appunto - in modo pericoloso, cioè potenzialmente lesivo degli interessi collettivi predetti. Solo che il vero problema sta proprio qui: cioè nella difficoltà oggettiva di accertare di volta in volta, sulla base di criteri empirici certi, se una situazione di effettiva messa in pericolo incomba realmente, o sia ipotizzabile soltanto in astratto. Stante questa difficoltà, sussiste allora un rischio più che concreto che il nuovo reato si presti a usi polizieschi e giudiziari volti a controllare e limitare indebitamente la libertà di riunione. Il secondo punto assai discutibile, esposto senz’altro a una obiezione di costituzionalità, riguarda il trattamento sanzionatorio: mentre la pena detentiva per gli organizzatori e promotori è prevista in misura abbastanza rigorosa in quanto fissata nello spazio da tre a sei anni (con l’aggiunta di una pecuniaria e di una confisca obbligatoria), per i meri partecipi all’invasione è invece stabilita soltanto una diminuzione di pena (non essendone specificata l’entità, vale la regola generale di cui all’art. 65 del codice, e cioè una diminuzione non eccedente un terzo). A ben vedere, è qui che si annida una manifesta incostituzionalità alla stregua del principio di ragionevolezza-proporzione: in base a tale principio, essendo sensibilmente diverso il disvalore delle rispettive di condotte dei soggetti che rivestono un ruolo apicale o quello di meri partecipanti, il corrispondente trattamento punitivo dovrebbe risultare marcatamente differenziato già nelle soglie edittali astratte: cosa che non avviene nel caso di specie, essendo (inspiegabilmente in base ai princìpi) la condotta di partecipazione al raduno ridotta a una sorta di circostanza attenuante. Ci sono i presupposti per una possibile declaratoria di incostituzionalità. L’altra parte contestabile del decreto legge concerne la decisione di ripescare, traducendola in norma vigente, la pessima riscrittura della disciplina dell’ergastolo ostativo votata da un ramo del precedente Parlamento ma poi accantonata. Con questa mossa il nuovo governo ha, verosimilmente, mirato a un duplice obiettivo: prevenire l’imminente intervento della Corte costituzionale previsto per l’8 novembre, potenzialmente sfociante in un temuto sbilanciamento in termini garantistici a favore degli ergastolani mafiosi; lanciare un messaggio politico di maggiore prontezza ed efficacia decisionale, rispetto alla precedente legislatura, nel riaffermare le esigenze di un inflessibile contrasto alla criminalità mafiosa. Ciò fino al punto che la presidente Meloni è sembrata veicolare una falsa comunicazione pubblica: ha cioè detto di avere nella sostanza confermato l’ergastolo ostativo, evocando a sproposito la memoria di Falcone e Borsellino, mentre le cose non stanno affatto così. La soluzione normativa contenuta nel decreto, lungi dal confermare la disciplina esistente sino a oggi, apre varchi nella direzione dischiusa dalla Corte costituzionale. Si tratta però di varchi mal concepiti, insufficienti a ovviare davvero ai profili di illegittimità evidenziati dalla Consulta: sui motivi per i quali il testo normativo in questione continua a risultare di dubbia costituzionalità mi sono soffermato, ampiamente, in un precedente articolo su questo giornale cui rinvio (cfr. il Foglio del 10 marzo 2022). Qui mi limito a ribadire un rilievo critico tutt’altro che secondario, relativo alla parte in cui il testo suddetto prevede - tra le condizioni dell’accesso da parte del mafioso “non collaborante” ai benefici penitenziari e alla liberazione condizionale - elementi specifici che consentano di escludere il pericolo di ripristino di collegamenti con la criminalità organizzata, anche “indiretti o tramite terzi”. Orbene: si può effettivamente provare il dato negativo costituito dalla insussistenza di un futuro pericolo di ripristino di relazioni mafiose, persino in forma indiretta o tramite terze persone? Si tratta, a ben vedere, di una prova empiricamente impossibile. Se così è, la previsione legislativa di un tale accertamento probatorio equivale, nella sostanza, a rinnegare le stesse indicazioni della Consulta (cfr. anche V. Zagrebelsky, Se l’ergastolo è fuorilegge, La Stampa, 31 ottobre 2022). Riteniamo, pertanto, che persistano ragioni per considerare tutt’altro che chiusa la tormentata vicenda dell’ergastolo ostativo. Critiche, infine, suscita la terza decisione in tema di giustizia contenuta nel decreto legge, cioè il rinvio in blocco dell’entrata in vigore della riforma penale Cartabia. È già stato rilevato che questo rinvio avrebbe dovuto essere circoscritto soltanto a quelle nuove norme processuali, la cui concreta applicabilità - come segnalato dall’insieme dei procuratori generali - esige accorgimenti organizzativi. Ma perché rinviare anche l’applicazione delle nuove pene sostitutive a opera del giudice della cognizione, il cui effetto positivo sarebbe da subito consistito in un sollecito contributo a quella riduzione di spazio della pena carceraria, che, almeno in teoria, starebbe a cuore anche al nuovo Guardasigilli? Questo rinvio può d’altra parte risultare non solo poco opportuno, ma anche di dubbia legittimità costituzionale per un insieme di motivi ben illustrati da Gian Luigi Gatta in un dettagliato intervento tecnico (pubblicato in Sistema penale, 31 ottobre 2022). Ma non è, forse, infondato il sospetto che questa decisione di postergare la riforma Cartabia sottintenda l’obiettivo politico di modificarne alcuni contenuti normativi, riorientandoli in una dimensione più repressiva e carcerocentrica. Se così dovesse accadere, saremmo a maggior ragione autorizzati a concludere che Carlo Nordio predica bene, ma razzola male. Ergastolo e processo: il quadro dopo le mosse del governo di Mario Chiavario Avvenire, 3 novembre 2022 È stretto e in salita il binario verso una giustizia più umana. Ergastolo ostativo e rinvio della riforma del processo penale Due questioni distinte e non confondibili, ma non a caso accomunate, tra loro e con quella della risposta legislativa ai rave party, in un decreto legge all’insegna di “legge e ordine” e “tolleranza zero”. Molto specifica la questione dell’ergastolo ostativo, anche se non sono pochissimi coloro che vi sono assoggettati: più di 1.250 persone, secondo le ultime stime. Va premesso che da tempo, in Italia, l’ergastolo, nella sua versione “semplice”, pur restando sanzione pesantissima, non è più un “fine pena mai”, giacché di regola anche agli ergastolani, dopo 26 anni di detenzione, può essere concessa la liberazione condizionale. Non così, però, se l’ergastolo è, appunto, “ostativo”, ossia “di ostacolo” a fruire di ciò che normalmente si ammette per altri, il che accade agli autori di delitti particolarmente gravi (di mafia, ma non solo di mafia), a meno che prestino collaborazione alle autorità investigative o giudiziarie. Corte europea dei diritti dell’uomo e Corte costituzionale hanno condannato l’attribuire un effetto tanto discriminante a una condotta collaborativa che a giudizio di queste Alte Corti, se prestata, non sempre assumerebbe di fatto il valore di un distacco reale dalla delinquenza mentre la mancata collaborazione potrebbe non derivare necessariamente dal mantenimento di legami malavitosi. Cedu e Consulta, nondimeno, pur nel rimettere a una valutazione in concreto le decisioni sulla concedibilità della liberazione, hanno fatto chiaramente intendere che severi criteri di valutazione s’impongano specialmente quando manchi quella collaborazione, il che non può non implicare l’intervento di controlli effettivi a tutto campo, senza che possano avere carattere preminente le sole certificazioni di “buona condotta” carceraria rilasciate dalla magistratura di sorveglianza. Nel 2021 i giudici della Consulta, pur potendo farlo, non si sono però spinti fino a dichiarare, sic et simpliciter, incostituzionale la normativa vigente (a quelli di Strasburgo ciò era ed è addirittura precluso) ma, riservandosi un giudizio a posteriori, hanno dato 18 mesi di tempo al legislatore per elaborare una nuova normativa rispettosa delle indicazioni e delle motivazioni da essi addotte. Cosa che il Parlamento non è riuscito a fare nella scorsa legislatura, interrottasi quando un testo era stato approvato dalla sola Camera. Alla data dell’8 novembre fissata per constatare il seguito della sua pronuncia, la Corte sembrava dunque destinata a ritrovarsi al punto di partenza, ma le cose cambiano con il decreto legge del governo Meloni, che quel testo ha inglobato con poche modifiche. Formalmente, il compito assegnato al legislatore sembra adempiuto in extremis; tuttavia il discorso non è chiuso. Da un lato infatti, quel testo, da certi punti di vista, potrebbe non rispettare tutte le indicazioni della Corte: lascia perplessi, tra l’altro, il richiedere all’ergastolano “non collaborante” la prova di qualcosa di praticamente impossibile da dimostrare, come la certezza di che non ci siano più contatti tra lui e un contesto di criminalità organizzata. A dar corpo al timore che si vogliano aggirare piuttosto che attuare le indicazioni della Consulta, è il proposito - che la stessa premier sembra fa suo - di introdurre emendamenti più restrittivi in sede parlamentare di conversione del decreto in legge. Staremo a vedere gli sviluppi, con una sola certezza: prima o poi i giudici costituzionali dovranno pronunciarsi nuovamente nel merito (e stavolta, speriamo, senza altri … rilanci di palla). Quanto alla riforma del processo penale, nella sua quasi totalità sarebbe dovuta entrare in vigore il primo novembre e invece viene differita in blocco alla fine dell’anno. Determinante, secondo quanto ha spiegato lo stesso guardasigilli Nordio, l’unanime “grido di dolore” dei 26 procuratori generali delle Corti d’appello, resisi conto che l’organizzazione giudiziaria non era in grado di fronteggiare, con gli strumenti a disposizione, la transizione dal vecchio al nuovo. Difficilmente contestabile, pertanto, la scelta del ministro. Né merita un’aprioristica sfiducia il suo impegno perché in due mesi almeno l’essenziale vada a posto, rispettando gli obblighi legati al Pnrr. Pure qui sono tuttavia affiorate, nella maggioranza, intenzioni di emendare in Parlamento punti qualificanti della riforma e, forse, di bloccarne l’attuazione anche oltre il 30 dicembre. A correre rischi potrebbero essere specialmente gli incentivi alle alternative al carcere e alla “giustizia riparativa”, la cui immediata attuazione tramite stralcio, non avrebbe verosimilmente comportato grandi difficoltà organizzative. E si sa che queste misure sono espressioni di una concezione della giustizia attenta al principio di rieducatività delle pene (art. 27 Cost.), pur senza rinunciare a difendere società e vittime dei reati e riducendo, anzi, meglio della mera repressione la propensione alla recidiva. Purtroppo esse sono indigeste ai cultori del “buttar via la chiave” delle celle. Con una situazione di crescente drammaticità di vita e di relazioni negli istituti penitenziari, sottolineata in modo sconvolgente dal continuo stillicidio di suicidi, il ministro Nordio - che non si è mai mostrato contagiato da quegli slogan - avrà molto da impegnarsi. Garantisti e securitari, ecco il patto nel centrodestra di Errico Novi Il Dubbio, 3 novembre 2022 Meloni e FdI si prenderanno i reati “espresso”, come quello sui rave party che la premier ha appena rivendicato, e la stretta sul carcere. FI e Nordio proveranno a consolarsi con qualche riforma liberale. È un compromesso storico inedito sulla giustizia. In cui a rischiare di più sono, in ogni caso, le tutele costituzionali. Volenti o nolenti lo schema è scritto. Fratelli d’Italia, e la Lega, si prenderanno la politica delle sanzioni, dei reati fulminei. Forza Italia, e Carlo Nordio bilanceranno con riforme del processo garantiste. Nella giustizia siamo già a una precisa divisione dei compiti, a uno strano patto di desistenza governativo. Sul fronte più restrittivo è Andrea Delmastro, figura chiave per Giorgia Meloni a via Arenula e fresco di giuramento da sottosegretario, che spiega: “Nessuna fretta nel reato sui rave party, abituatevi a un livello di velocità tale per cui la politica darà risposte rapide ai problemi dei cittadini”. E con una filosofia altrettanto sbrigativa è proprio la presidente del Consiglio, su Facebook, a rivendicare la misura approvata nel decreto di lunedì scorso: ne vado fiera, dice, “perché l’Italia - dopo anni di governi che hanno chinato la testa di fronte all’illegalità - non sarà più maglia nera in tema di sicurezza”. Meloni precisa il concetto: “È giusto perseguire coloro che - spesso arrivati da tutta Europa - partecipano ai rave illegali nei quali vengono occupate abusivamente aree private o pubbliche, senza rispettare le norme di sicurezza e, per di più, favorendo spaccio e uso di droghe”. Fino a un inno alla velocità intonato sul filo dell’indifferenza alle forzature costituzionali: “Le strumentalizzazioni sul diritto a manifestare lasciano il tempo che trovano”. Anche se la premier almeno aggiunge: “Vorrei rassicurare tutti i cittadini che non negheremo a nessuno di esprimere il dissenso”. Almeno. Insomma, al netto degli aggiustamenti su pena massima, intercettazioni e tipizzazione del reato, su cui il viceministro Francesco Paolo Sisto rassicura, Meloni pianta una vistosa bandiera sulla politica dei reati ad hoc. E Forza Italia? E Nordio? Sono pronti a cercare di prendersi le loro soddisfazioni sulle garanzie nel processo e su altro, ad esempio la revisione dell’abuso d’ufficio, che pure la premier dà per certa (“bisogna mettere mano a quelle norme”, ha detto a Bruno Vespa nel libro in uscita di qui a qualche ora”). E poi, magari, il divieto per i pm di fare appello sulle assoluzioni, possibilmente la separazione delle carriere, magari un ritocco alla Severino nelle sue parti sfacciatamente incostituzionali. Schema facile, semplificazione estrema: la giustizia del centrodestra di governo si annuncia così. Una ripartizione ordinata, ma che sa di compromesso. Giustizialismo e garantismo insieme. Da una parte la pena certa, che vuol dire spesso carcere certo, dall’altra il diritto penale processuale garantista. E Nordio dovrà navigare in questo strano patto di desistenza. Che non sarà sempre liscio, intendiamoci. Sarà una pax giudiziaria a responsabilità limitata. Basti citare l’interrogazione depositata poco fa dalla primissima linea che gli azzurri schierano al Senato sulla Giustizia, Pierantonio Zanettin: chiede a Nordio cosa intenda fare, il governo, “per far fronte alla drammatica situazione del sistema carcerario italiano”. Tenuto conto che “i suicidi in carcere hanno già raggiunto il numero di 74, è quindi già stato superato il triste primato del 2009, anno in cui i suicidi erano stati complessivamente 71”. Il tutto accompagnato da un’illuminante chiosa: “Pare evidente che su questo impressionante aumento di casi ha inciso una politica ispirata ad una concezione carcerocentrica, che ha finito con aggravare l’annoso fenomeno del sovraffollamento”. Ecco, qui in realtà Zanettin avverte Fratelli d’Italia in vista dell’esame a cui il decreto Rave party-ergastolo-Cartabia sarà sottoposto a Palazzo Madama: dice, tra le righe, “non fate scherzi”. Cioè non vi approfittate della legge di conversione per intervenire sul decreto penale di Cartabia ben oltre il già previsto rinvio dell’entrata in vigore al 30 dicembre. E non crediate di potervi andare a impicciare delle norme garantiste inserite dalla ex ministra sul fronte dell’esecuzione penale. In particolare sulla possibilità che sia il giudice del processo a prevedere già in sentenza la commutazione della condanna al carcere in una misura extramuraria (domiciliari o servizi sociali). Ecco, qui ci si gioca molto. Fratelli d’Italia, all’epoca della stesura del decreto attuativo di Cartabia, era all’opposizione, non ha votato il parere favorevole in Parlamento e ha contestato il ricorso alle misure alternative per i reati con pena massima fino a 4 anni. Possibilità che in realtà già esisteva ma che, grazie a Cartabia, può essere concessa senza che il condannato debba magari “assaggiare la cella” prima di ottenere la pena extramuraria. Zanettin avverte Giorgia Meloni e il partito della premier che loro, i berlusconiani, di scherzi simili non vogliono sentir parlare. Il che dimostra come il patto fra securitari e garantisti esiste, ma non è stabile. Richiederà continue piccole prove di forza. “Manette, manette!”: la risposta ai reati più comoda (e più inutile) di Tiziana Maiolo Il Riformista, 3 novembre 2022 Omicidio stradale, femminicidio, cyberbullismo: la norma sui rave ne porta alla mente altre decine sui cui si sono esercitati a destra e a sinistra. La prevenzione è troppo faticosa, meglio la propaganda. “Occorre eliminare il pregiudizio che la sicurezza e la buona amministrazione siano tutelate dalle leggi penali. Questo non è vero. L’abbiamo sperimentato sul campo, soprattutto quelli come me che hanno fatto per quarant’anni i pubblici ministeri”. Aveva appena giurato fedeltà alla Costituzione nelle mani del Presidente Mattarella, Carlo Nordio, ed era da pochi minuti il nuovo ministro guardasigilli del governo Meloni, quando pronunciando queste parole si impegnava per una “forte depenalizzazione” e una “riduzione dei reati”, soprattutto per velocizzare i processi. E anche sfoltire un po’ le carceri e quella piaga tutta italiana dei suicidi. È passata solo una settimana e un decreto del governo ha creato una nuova fattispecie di reato. Un frettoloso scombiccherato decreto introduce il reato di “occupazione musicale” di proprietà privata come risposta a botta immediata a un fatto di cronaca, ne porta alla mente decine di altri cui si sono esercitati governi di destra e di sinistra. E altrettanti Parlamenti, pronti a legiferare con le agenzie di stampa tra le mani. Esilarante, pur in presenza di fatti tragici, fu il dibattito che seguì alcuni episodi di teppismo di ragazzi che si divertivano a tirare sassi dai ponti autostradali sulle auto di passaggio. Ci furono parecchi che seriamente proposero un reato specifico per i sassi dal ponte. Sono molti gli esempi delle scorse legislature in cui, fallito ogni tentativo di sfrondare un codice nato già in epoca “pesante” come fu quello degli anni del fascismo in cui fu creato il codice Rocco, sono spuntati come funghi nuovi tipi di reato ad appesantire le ipotesi già esistenti. Il più clamoroso degli ultimi è quello dell’”omicidio stradale” del 2016. Ma potremmo ricordare degli stessi anni la nuova legge sul cyberbullismo piuttosto che quella sul caporalato o sul “femminicidio”. Per non parlare del decreto Zan. Stiamo parlando di fenomeni gravissimi su cui è giusto intervenire, da parte dello Stato, così come dagli Enti locali e anche del Terzo settore. Ma soprattutto sulla prevenzione, fondamentale, sugli omicidi stradali, per il controllo delle condizioni fisiche e mentali con cui ci si mette al volante. Non per sanzionare il comportamento di chi beve un bicchiere di troppo o assume sostanze psicotrope, ma per impedire che si salga in auto nelle condizioni conseguenti ai comportamenti, ubriachi o sballati. Così è importante avere la capacità di saper fermare, magari anche con l’uso del braccialetto elettronico, lo stalker pericoloso che può trasformarsi in omicida. Naturalmente poi, in presenza di reati, il codice penale deve farla da padrone. Ma la domanda è: non esistono già da sempre le norme del codice penale che puniscono i fatti più gravi? Non esiste già il gioco delle attenuanti e delle aggravanti per tipicizzare ulteriormente comportamenti e situazioni? C’è poi un altro problema, anzi una statistica affermata non solo in Italia: mai l’aggravamento delle pene ha dissuaso alcuno dal commettere il reato. E bisogna ammettere che tutti questi nuovi reati, che arricchiscono ipotesi già esistenti, sono finalizzate sostanzialmente a un aumento delle pene. È così anche in questa nuova fattispecie sulle occupazioni coniata sulla scia del rave party di Modena, problema tra l’altro risolto anche con la vecchia legge e con sanzioni amministrative. Qualcuno può immaginare i ragazzi arrivati da tutta Europa per la musica e un po’ di sballo, consultare freneticamente il codice penale lungo il viaggio per conoscere la pena rischiata? E magari tornare indietro per paura della nuova legge? La creazione del reato di “omicidio stradale” nel 2016 dal governo Renzi (che pure aveva tentato anche qualche depenalizzazione) è l’esempio dell’inutilità dell’inasprimento delle pene. I morti sulle strade sono ancora migliaia, l’ultimo proprio ieri, e i dati parziali e un po’ propagandistici diffusi dall’Anci segnalano un’apparente diminuzione del numero delle vittime, ma solo negli ultimi due anni a causa delle restrizioni conseguenti all’epidemia da covid e la scarsa circolazione stradale. Pare però che le forze politiche, quasi tutte, non si rassegnino. Certo, la prevenzione è più faticosa, impegnativa e costosa. Più facile la propaganda. Quella di Fratelli d’Italia quando era all’opposizione, e oggi quella del Pd, i cui governi hanno più di altri rimpinzato il codice penale di norme vessatorie e inutili, oggi dall’opposizione. Servisse almeno per seminare anche nella sinistra più forcaiola qualche briciolo di senno. Una volta, nelle campagne elettorali, si promettevano riforme sociali, oggi solo manette. Ma che Paese è mai questo? Coraggio, ministro Nordio, faccia quel che ha detto dopo il giuramento. In fondo anche quelle sue parole erano una sorta di giuramento. Luigi Manconi: “Non è stato di polizia ma i segnali sono brutti” di Aldo Torchiaro Il Riformista, 3 novembre 2022 “Un governo che presenta una componente che definirei di anarchismo di destra e di libertarismo reazionario. Sul piano culturale mi preoccupa l’insieme dei messaggi”. Libertà limitata e diritti negati. Reati vecchi e nuovi. Primi passi verso una democratura o forse no: soltanto una democrazia autoritaria. Parliamo delle prime mosse (e dei primi scivoloni) del governo Meloni con il Professor Luigi Manconi, già docente di sociologia dei fenomeni politici ed ex parlamentare. Manconi, ha presente quando Ortega y Gasset quando diceva: “Stava succedendo che non capivamo cosa stava succedendo”? Le vorrei chiedere una mano per scongiurare questa condizione. Che succede all’Italia conquistata da Giorgia Meloni? Secondo me avviene una cosa chiarissima. Davanti all’enormità dell’impegno che devono affrontare e già in difficoltà rispetto alle misure economico-sociali che devono assumere, hanno scelto la via più facile: intervenire sui processi che formano l’opinione pubblica. Cioè sui meccanismi che contribuiscono a determinare il senso comune. Ed emerge questa ambizione di Giorgia Meloni, che a mio avviso era già visibile in alcuni messaggi precedenti, come quelli contenuti nel suo discorso di insediamento, nel cambiamento dei nomi dei ministeri e infine da queste ultime misure: l’ambizione di lasciare una traccia per così dire culturale. Giorgia Meloni appartiene a quel ceto politico-culturale che ritiene che in Italia abbia dominato e domini l’egemonia culturale della sinistra e il politically correct. E dunque si pone l’obiettivo di rovesciarne il segno. Di lasciare un’impronta nei processi di formazione della mentalità collettiva. Questo suo esordio è tutto concentrato su questo progetto. Di posizionamento tattico più che di strategia? È in parte opportunismo, in parte una strategia. Vuole rafforzare il suo rapporto con l’elettorato ma con l’aspirazione a produrre un mutamento ideologico. Cioè a definire una fisionomia del suo governo capace di contrastare quel fantasma rappresentato dalla presunta egemonia della politically correct, che in realtà è questione che riguarda solo una minoranza. L’aspetto tattico c’è, perché il provvedimento sui rave piace al suo elettorato, però se lo vediamo insieme a tanti altri messaggi, o al fatto di ripetere ossessivamente “Nazione”, cancellando la parola Paese e ignorando la parola Repubblica, possiamo considerarlo come parte di uno stesso programma di riscrittura culturale. Anche la neolingua, come aveva previsto Orwell... Anche la neolingua fa la sua parte, certo. Ma quando lei mi chiede cosa sta succedendo, io vedo un altro elemento: se mettiamo insieme oltre a quanto abbiamo appena detto anche il reintegro dei sanitari no-vax e l’abolizione del tetto al contante, a mio avviso viene fuori un altro aspetto molto interessante: una componente che definirei di anarchismo di destra e di libertarismo reazionario. Che come noto negli Stati Uniti ha un notevole seguito e che in Italia si è manifestato particolarmente durante la pandemia. È il seme del trumpismo, la stessa radice... Sì, il trumpismo ha anche questa componente forte, tra le sue leve. Questa componente di libertarismo reazionario, insofferente alle regole, concentrato su l’individualismo proprietario e contrario a ogni universalismo - due cose che hanno un notevole collegamento - si vede nitidamente nei due provvedimenti del contante e dei sanitari no-vax. Infatti come viene motivato il provvedimento sul contante e quello sul covid? I soldi sono miei e ne dispongo come voglio. E il corpo è mio e quindi ne faccio ciò che meglio credo. Questo assunto libertario, che in sé è anche apprezzabile, viene piegato in senso reazionario quando si impernia sul rifiuto delle regole a partire da quelle sulla tutela della salute pubblica. Torniamo alla manipolazione delle masse di Ortega y Gasset. Ho sentito Alessandro Milan riferire di aver ricevuto a Radio24 centinaia di mail di protesta. Ascoltatori che gli intimano di non disturbare il governo. Cosa sta succedendo, nella pancia del Paese? C’è voglia di autoritarismo? Marco Tarchi anni fa ha scritto un libro: “Esuli in patria”. Raccontava dei fascisti e del loro modo di vivere nell’Italia repubblicana, sentendosi come stranieri nel sistema democratico. Per biografia o per tradizione orale sono tantissimi quelli che discendono da quella storia, dalla sconfitta del fascismo. Persone che si sentivano escluse dalle vicende successive alla Liberazione. La vittoria di Giorgia Meloancora ni è stata l’epifania della rivalsa, per loro. Una rivincita. E questo spiega le pretese come ad esempio quella di dettare la linea a un giornalista come Milan. Come nasce una democratura, anche così? Con ampio consenso? Sicuramente il favore dei cittadini è determinante e non c’è dubbio che tutte le mosse di Giorgia Meloni incrementano questo favore. Detto questo, la democratura è altra cosa. Richiede delle modifiche del quadro politico nel senso della rottura costituzionale e lacerazioni nella struttura dello Stato di diritto. Eventi che, grazie al cielo, non sono accaduti e non credo avverranno. Siamo ai primi giorni... Non prevedo l’instaurazione di una democratura. Vedo, piuttosto, una Italia dove potrebbe affermarsi un’opinione pubblica e una politica di tipo autoritario, senza rotture costituzionali. Nell’alveo della democrazia? Sì. Anche perché noi in questo momento vediamo la prima fase del governo. Poi, avrà ben altre gatte da pelare. Certo le premesse non sono le migliori... No anzi, sono le peggiori. I più realisti del re, che sono annidati in particolare nei giornali, hanno lodato prima dell’insediamento, l’equilibrio e la moderazione di Giorgia Meloni. Equilibrio e moderazione stracciati in quattro mosse. Quali? Cosa c’è di saggio nel designare Fontana e La Russa come vertici delle istituzioni? Cosa c’è di saggio nei provvedimenti in campo giuridico che inventano un nuovo reato? Un reato pericoloso, liberticida... Preferisco riservare questo termine ad altre e più temibili misure, e non escludo che ciò possa accadere. Come definirebbe allora il nuovo reato? Il testo di questa norma palesemente non è stato scritto da un maestro di scienza giuridica. È un testo analfabetico sotto il profilo del diritto, perché viola uno dei principi fondamentali del diritto stesso, ovvero la tassatività. È un reato generico, approssimativo nella formulazione, che si può prestare a qualunque abuso. Inclusa l’occupazione di un liceo... Appunto, certo, con due classi che occupano una struttura edilizia che presenta magari qualche parte fatiscente, si applica perfettamente la misura dei sei anni di pena, consentendo con questo l’intercettazione a grappolo di sedicenni e diciassettenni che si cercano per concordare un aperitivo. E non è Stato di polizia, questo? Manteniamo la calma. Si può arrivare a dire che se questa tendenza si rivelasse quella prevalente nella produzione legislativa, il rischio di arrivare a quell’autoritarismo che dicevo è molto forte. Però con questa norma non si entra ancora in uno Stato di polizia, perché questa è soprattutto una norma scema, scritta con i piedi che presenta, certamente, il pericolo di gravi abusi. Anche l’attacco alla cancellazione dell’ergastolo ostativo va in quella direzione. Che altro è, se non la lesione dello Stato di diritto? Sì, è quella cosa lì: una lesione dello Stato di diritto. Una cosa incommensurabilmente grave, ma non è l’instaurazione dello Stato di polizia. È l’avvio di un processo. Se seguissero altri fatti simili, certo le conseguenze sarebbero nefaste. A cosa pensa? Si sente parlare della riforma dell’art.27 della Costituzione per abolire la finalità rieducativa della pena. Se ci fosse anche questo, certo che ci avvicineremmo al precipizio. Sul piano culturale, mi preoccupa l’insieme dei messaggi. Perché condizionano l’opinione pubblica. La potenza performativa di questi messaggi rischia di cambiare in profondità il senso comune. Non trasformano solo le leggi, ci sta dicendo, ma incidono sulla matrice culturale della società? L’articolo 27 non è una legge. È un principio che attiene alla nostra cultura millenaria, è una sintesi dell’umanesimo. È l’esito di una storia che si chiama civiltà. È l’idea che l’essere umano possa avere coscienza di sé e possa cambiare. Minare alle basi questo principio, affermando l’irredimibilità di una parte degli esseri umani, significa rinnegare il pensiero fondativo del nostro mondo. Sull’inciviltà del sistema carcerario la fanno facile: più carceri e più celle per tutti... Io sono anziano. È da almeno 50 anni che sento parlare di nuove carceri. Sa quanto ci vuole a farle? Dai 15 ai 20 anni. Se siamo in emergenza oggi, e siamo sotto osservazione degli organismi internazionali per mancanze gravi sul piano dei diritti umani, rimandare la soluzione di vent’anni non mi sembra molto serio. E poi più carceri spesso significa più carcerati... Sì, abbiamo un’ampia letteratura scientifica che lo dimostra. Ogni volta che aumentano le prigioni, in tutti i paesi del mondo, aumenta la popolazione detenuta. È un dato inoppugnabile. Nel caso in cui si realizzasse questa distopia, avremmo più carceri più sovraffollati. Soprattutto se come sembra si vuole aumentare il numero dei reati, negando quell’idea sacrosanta, difesa a lungo dallo stesso Carlo Nordio, per cui va invece incrementata la depenalizzazione. A suo parere cosa sta succedendo a Nordio, visto che lo tira in ballo? È una situazione ineffabile. Alla lettera: nel senso che non può essere detta. Nordio pochi mesi fa aveva solennemente dichiarato che l’ergastolo ostativo è un’eresia rispetto alla Costituzione. Noi tutti, trepidi garantisti, gli abbiamo creduto. Da due giorni aspettiamo un suo sussulto, un flatus voci, una qualunque cosa. Se questa non arrivasse, dobbiamo mobilitarci per chiedere che Nordio sia rimesso in libertà. Dal governo che lo tiene in pugno? Si deve trovare evidentemente in una situazione di impedimento forzato. Tutti i garantisti ne devono chiedere il rilascio immediato. Mitja Gialuz: “Sbagliato rinviare la riforma Cartabia per intero” di Valentina Stella Il Dubbio, 3 novembre 2022 Intervista all’avvocato e ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Genova: “Aver congelato anche la parte del testo relativa alle sanzioni spingerà gli imputati a chiedere rinvii in attesa che entrino in vigore le norme più favorevoli” Mitja Gialuz, avvocato e ordinario di Diritto processuale penale all’Università di Genova, ha fatto parte della Commissione ministeriale coordinata da Giorgio Lattanzi, e istituita dall’ex guardasigilli Marta Cartabia per l’elaborazione, tra l’altro, degli schemi di decreto legislativo recanti modifiche in materia di indagini preliminari. Dunque proprio quella parte di riforma su cui si è concentrato il “grido di dolore delle Procure” - come ha detto l’attuale ministro Carlo Nordio in conferenza stampa - che ha comportato il rinvio dell’entrata in vigore della riforma del processo penale al 30 dicembre. Professore, che ne pensa di questo rinvio? Lo giudico sbagliato sul piano tecnico e potenzialmente foriero di problemi più gravi di quelli che risolve. La riforma contiene diverse disposizioni favorevoli agli imputati, sia di natura sostanziale, sia di natura processuale. L’effetto pratico del differimento sarà quello di determinare molti rinvii dei processi su richiesta degli imputati in attesa dell’entrata in vigore. Se questi rinvii non venissero concessi potrebbero sorgere dei problemi di legittimità costituzionale. Il viceministro Sisto ha detto che sarebbe stato troppo complicato individuare solo la parte che meritava il rinvio, con i tempi così stretti... La valutazione del viceministro è più che rispettabile ma si sarebbe potuto semplicemente scrivere una norma transitoria per disciplinare le questioni relative all’entrata in vigore delle misure sulle indagini preliminari. L’auspicio è che in sede di conversione si intervenga solo sulle disposizioni transitorie. Il procuratore Umberto Monti ha sollevato però un’altra questione dalle pagine del Fatto Quotidiano: la riforma estende la procedibilità a querela per molti reati, anche gravi... Si tratta di una scelta perfettamente in linea con la legge delega che era stata approvata a larghissima maggioranza, anche da forze politiche che oggi supportano il governo Meloni, Lega e Forza Italia in primis. E che va nella direzione giusta, quella di limitare in concreto il numero di processi penali, considerato che la strada della depenalizzazione non sarà praticabile, viste le prime mosse del governo. Dobbiamo capire che la macchina della giustizia è ingolfata: non ci si può lamentare dell’inefficienza e poi scagliarsi contro norme che consentono di ridurre le pendenze. Lei auspica una sorta di self-restraint da parte del Parlamento nella fase di conversione. Però è la stessa riforma che prevede di poter fare delle modifiche dopo l’entrata in vigore... La riforma Cartabia prevede delle modifiche correttive e integrative, nei due anni successivi all’entrata in vigore. Totalmente diversa sarebbe invece una riscrittura di alcune parti della riforma prima della sua entrata in vigore. Non vorrei si pensasse a interventi volti a ridimensionare l’ambito delle pene sostitutive o a ridurre la possibilità di accedere alla giustizia riparativa. Oppure a un indebolimento dei controlli del giudice sulle scelte del pm. La preoccupazione deriva dal fatto che è una riforma di sistema, e toccare qualche norma rischia di aprire il vaso di Pandora. Per di più si tratta di misure concordate con la Commissione europea per raggiungere quei target che l’Italia, non il governo Draghi, si è impegnata a raggiungere. Segnalo poi che i rinvii che verranno richiesti nei prossimi mesi ridurranno il numero di processi definiti nel 2022, e ciò potrà produrre effetti negativi anche nel primo semestre del 2023. Questa riforma è stata per mesi nelle mani della Commissione ministeriale, composta, tra l’altro, da magistrati, poi è passata all’Ufficio legislativo di via Arenula, sempre composto da magistrati, dove è rimasta pure lì per mesi. Possibile che nessuno si sia accorto che mancava la norma transitoria per le indagini preliminari? La riforma Cartabia è un cantiere molto complesso. La crisi del governo ha portato ad una accelerazione e quindi può darsi che in quei passaggi qualcosa sia sfuggito. E però anche l’Anm, così come le Procure generali, avevano il testo, almeno in bozza, in mani da mesi. Possibile che ci si sia ricordati di sollevare il problema a pochi giorni dall’entrata in vigore? È una scelta ad orologeria? Non credo ci sia stata una macchinazione o la volontà di sollevare il problema solo all’ultimo. Penso ci sia stata una fortissima preoccupazione, forse esagerata, da parte della magistratura, che ha colto l’enorme portata della riforma soltanto dopo la pubblicazione in Gazzetta Ufficiale (17 ottobre, ndr). Si tratta di una manovra molto ampia che cambia il modo di lavorare, e impone a tutti gli uffici, a cominciare dalle Procure per arrivare alle Corti di Appello, un profondo ripensamento dei moduli organizzativi. Lei prima parlava di depenalizzazioni. Invece il governo ha introdotto un nuovo reato. Che ne pensa di questo avvio in materia di giustizia? Che è segnato da una certa contraddittorietà rispetto a quelli che erano stati i proclami del ministro della Giustizia. Nordio ha una storia di garantismo, tuttavia le prime misure illustrate da lui in conferenza stampa sono all’insegna della centralità del carcere e di una visione del diritto penale che, nel caso del nuovo reato del 434- bis, è assai preoccupante. Perché? Mi pare una fattispecie indeterminata, introdotta con decreto legge e scritta in una maniera piuttosto involuta, che punisce con pene draconiane chi si introduce in uno spazio privato o pubblico ‘ per organizzare’: è come se si punisse il sopralluogo. L’indeterminatezza è tanto più grave perché si incide su una delle libertà fondamentali su cui si regge la nostra democrazia, ossia la libertà di riunione. In questa fase storica occorrono più garanzie, meno carcere e più effettività delle sanzioni sostitutive e tempestività delle misure alternative al carcere. Dopo la norma sui rave Nordio è in trincea: “Faccio il ministro per realizzare le mie idee” di Valerio Valentini Il Foglio, 3 novembre 2022 Il mezzo pastrocchio lo ha indispettito: da Piantedosi neppure un consulto. Le critiche degli amici giuristi non lo hanno lasciato indifferente: ad alcuni ha anche risposto in privato. La Meloni lo marca stretto e critica le sue nomine a Via Arenula, Forza Italia promette di stanarlo a suon di emendamenti. Perché, dopo dieci giorni, il Guardasigilli già sbuffa. Agli amici veneziani che gli facevano gli auguri, ha detto che “se ho accettato di fare il ministro, è perché credo che alcune cose che ho sempre detto si possano realizzare davvero”. E forse sembrava una frase di circostanza. Invece sono passati dieci giorni, e già Carlo Nordio sbuffa. Le critiche degli amici giuristi lo hanno colpito. Ad alcuni ha pure risposto, privatamente, confidando insofferenza. Del resto il mezzo pastrocchio sulla norma anti rave lo ha colto di sorpresa. Dal collega Matteo Piantedosi si aspettava quantomeno un consulto. E invece, siccome secondo Giorgia Meloni già troppo si era discusso sull’ergastolo ostativo, in Cdm, quando si è arrivati alla trattazione del decreto legge illustrato dal ministro dell’Interno, Nordio s’è limitato a condividere lo scetticismo di chi, come Antonio Tajani, aveva odorato subito puzza di bruciato. Solo che poi il testo è stato licenziato con sbrigatività. E più col piglio e la vaghezza giuridica di un prefetto, viene notato a Via Arenula, che non con l’accortezza pignola di un giurista. D’altra parte è vero che a certe liturgie romane, l’ex magistrato trevigiano, ha già lasciato intendere che faticherà ad abituarsi. E non solo per la difficoltà di trovare uno spritz dignitoso, nei bar del centro della capitale. La sua venetitudine il neo Gardasigilli l’ha dimostrata portandosi, come capo di gabinetto, quell’Alberto Rizzo di cui Nordio ha apprezzato assai la capacità di dirigere il tribunale di Vicenza. Più che un semplice magistrato, un manager. Sessantatré anni, altoatesino di Bressanone, la sua mentalità asburgica l’ha manifestata in questi anni stilando delle tabelle di produttività per i colleghi in toga, a cui lui poi chiedeva come mai quel certo numero di sentenze previste per il mese passato non era stato raggiunto. E non serve conoscere gli arcana imperii di Via Arenula, per immaginare quanto poco l’arrivo di un simile papa straniero sia apprezzato dai mandarini ministeriali. Né è passata inosservata la scelta della sua vice, Giusi Bartolozzi, magistrato di lungo corso con una legislatura alle spalle nelle file di Forza Italia e una lunga consuetudine con Nordio stesso. La stima tra i due, costruita negli anni, è resistita perfino a certe differenze di vedute sui temi etici, dacché Bartolozzi votò in dissenso dal gruppo a favore di quel ddl Zan che invece Nordio non ha mancato di stigmatizzare. E tanto è bastato a innescare le paranoie dei patrioti di FdI, che l’autorevolezza e l’indipendenza del nuovo ministro della Giustizia la vivono un po’ come un ingombro. E forse un possibile cortocircuito politico deve temerlo anche Meloni, se alla fine ha scelto di spedire a Via Arenula un abile manovratore come Andrea Delmastro Delle Vedove. Che a diventare sottosegretario non ci teneva granché, se è vero che agli amici aveva confidato di sperare nella presidenza della commissione Antimafia, ma che alla fine ha dovuto dire il suo “obbedisco” a cose fatte, avendo scoperto il suo nuovo incarico direttamente dalle agenzie, mentre era in treno. E sa che ora si ritroverà lì, col ruolo scomodo di chi deve marcare un uomo spigoloso, evitando che si saldi un asse garantista nei corridoi del ministero tra il Guardasigilli e il suo vice, il forzista Francesco Paolo Sisto, che per cultura garantista è di certo più vicino a Nordio di quanto non lo sia il giustizialismo di FdI. E allora, in questa strana danza di posizionamenti, è fatale che proprio da FI si alzino le voci di delusione, dopo il passo falso sui rave. “Fare legislazione penale, peraltro tramite decretazione d’urgenza, sulla base dell’ansia di inseguire la cronaca dei giornali, è un metodo poco saggio, e potenzialmente pericoloso. Rischiamo di assecondare questa deriva panpenalistica che lo stesso Nordio ha sempre stigmatizzato”, dice Pierantonio Zanettin, senatore azzurro, già membro del Csm, che col Guardasigilli condivide comuni origini venete. E che forse proprio in virtù di una lunga conoscenza resta stupito: “Non potrò che presentare degli emendamenti al decreto”, spiega. “Sia per abbassare il massimo della pena, così da escludere l’utilizzo delle intercettazioni in fase di indagine; sia per definire meglio la fattispecie di reato, che mi pare troppo generica, chiarendo che non si tratta di una norma liberticida”. E ci sarà da vedere, allora, quali saranno i pareri del governo, su simili proposte, visto che Meloni ieri l’ha rivendicata con fermezza, altro che modifiche, dopo che già il leghista Nicola Molteni aveva messo in guardia: “Noi difenderemo la norma in Parlamento”. Insomma c’è un motivo, se Nordio sbuffa. E si capisce anche perché Carlo Calenda, sorridendo, si dice già pronto a “offrirgli asilo politico”. Scherza, certo. Invece l’impegno a vedersi a pranzo, per una mangiata e una sfida a colpi di citazioni di Churchill, per il quale entrambi hanno un’ossessione, il ministro e il leader di Azione l’hanno preso davvero, il giorno del voto di fiducia al Senato. “Del resto Nordio era nel Partito liberale: che c’entra, lui, con Colle Oppio?”. Spataro: “Nordio è garantista, dovrebbe lasciare il governo” di Liana Milella La Repubblica, 3 novembre 2022 L’ex procuratore: “Esistono già molte norme che disciplinano lo svogilmento di manifestazioni” Per decreto, il governo Meloni crea un reato ad hoc contro chi partecipa ai rave party. Pena da 3 a 6 anni, via libera alle intercettazioni. Per ragioni di ordine pubblico. Armando Spataro, da ex procuratore, che impressione le fa? “Francamente sono senza parole. Molti giuristi hanno già ben spiegato quanto sia inaccettabile un intervento che, con pene così elevate, introduce un reato assurdo per condotte che nella stragrande maggioranza dei casi non determinano certo atti di violenza o pericoli collettivi. Peraltro esistono già molte previsioni di tipo amministrativo e penale che disciplinano organizzazione e svolgimento di manifestazioni collettive, nonché interventi preventivi delle pubbliche autorità. Quando si verificano cessioni di stupefacenti, oltraggi, resistenza a pubblico ufficiale, si tratta di condotte già individualmente punite”. Meloni dice che “finalmente la legge sarà rispettata”... “E non ha senso dirlo. È vero invece che con il “decreto rave” - un altro titolo che passerà alla storia - potrebbero diventare punibili manifestazioni di dissenso politico, di solidarietà, di protesta legittima: il rischio è quello di violare principi costituzionali come la libertà di manifestare garantita dall’articolo 17 della Costituzione che può essere compressa solo per motivi di sicurezza o pubblica incolumità. Lo hanno già denunciato costituzionalisti come Azzariti, Flick e altri”. C’erano davvero i presupposti “di necessità e urgenza” per approvare il decreto? “Questa è un’altra questione importante. È vero che l’abuso dei decreti è purtroppo parte della storia politica degli ultimi tre decenni ed è stato praticato da governi di diversa maggioranza politica. Ma qui si rasenta il confine della ragionevolezza, né vedo necessità o urgenza in questa previsione. Ma il populismo spesso spinge verso l’assurdo. Spero rispettosamente in un intervento delle istituzioni preposte alla verifica della legittimità e dell’urgenza, condizione dei decreti”. Basteranno 50 persone riunite per qualsiasi iniziativa pubblica o privata, e tutti potranno essere messi sotto controllo dal giorno dopo. Parliamo magari di centinaia di persone. Siamo di fronte a una legge liberticida? “Sì, lo penso proprio. Mi viene in mente una battuta forse impropria: se l’immagina i reparti preposti all’ordine pubblico impegnati a contare i partecipanti arrivando magari a 49 e chiedendosi se un giovane di passaggio potrebbe essere il cinquantesimo? Fortunatamente abbiamo nel nostro Paese organi di polizia d’eccellenza, anche preposti all’ordine pubblico. Lo si è visto proprio a Modena”. Stiamo entrando in uno stato di polizia? Stiamo forse tornando al codice Rocco? O peggio siamo di fronte a un’iniziativa dal sapore putiniano? “Il codice Rocco, al di là del contesto in cui è nato, era ben più razionale e coerente. Oggi basta un tweet del presidente del Consiglio o di un ministro per rassicurare cittadini e giuristi: “State tranquilli, nessuna libertà costituzionale e nessun diritto saranno violati! Finalmente la legge sarà rispettata”. E continua l’apposizione delle bandierine identitarie in nome della “sicurezza”, il “brand” più abusato di questi anni, anche e soprattutto nel campo dell’immigrazione, ove rappresentanti di governo sembrano voler tranquillizzare i cittadini che hanno contribuito ad allarmare in modo ingiustificato”. Parla dei migranti condannati ad affogare nell’indifferenza? “Non si può dire che non ci si curerà degli immigrati salvati dalle navi delle Ong straniere perché dovrebbero occuparsene gli stati di bandiera. Convenzioni internazionali, Costituzione e leggi nazionali prevedono il diritto di tutti all’asilo e l’obbligo di assistenza nei confronti di chi - salvato in mare - dev’essere trasportato con urgenza nel porto sicuro più vicino: dal Mediterraneo, dunque, agli stati costieri, non in Norvegia o in Germania. Altro, ovviamente, è impegnarsi per un accordo che coinvolga tutti i paesi europei, ma rispettando i diritti di chi lascia il suo paese solo per una speranza di vita dignitosa”. Il nuovo reato, il 434-bis, viene inserito nel codice delle leggi antimafia. Ragazzi che hanno la sola “colpa” di aver partecipato a un rave finiranno schedati e intercettati come un boss... “Questo pericolo esiste, ma per gli atti di competenza dell’autorità giudiziaria è auspicabile, se il decreto fosse convertito così com’è, che i magistrati sappiano interpretare la norma in modo conforme alla Costituzione. È prevedibile ovviamente l’accusa di agire secondo i propri orientamenti politici”. Le intercettazioni. Il neo Guardasigilli Nordio, prima della sua nomina, aveva annunciato che in Italia ce ne sono troppe. E che sono inutili. Ora firma anche lui il decreto. Ma si può intercettare un manifestante che non ha commesso reati, per la sola colpa di essere in strada? “Non ho praticamente mai condiviso il pensiero del ministro, specie in occasione dell’ultimo referendum abrogativo che ha sostenuto. Peraltro Nordio ha anche denunciato l’eccesso del “panpenalismo”, ma ora approva il nuovo reato di “rave party”. Nego con convinzione che le intercettazioni in Italia siano troppe, ma aggiungo di aver sempre riconosciuto, a certe condizioni, il diritto all’elettorato passivo dei magistrati, auspicando però la necessità di agire sempre coerentemente con i principi in cui si crede e che sono stati pubblicamente sventolati. Ma se quei principi vengono negati nel contesto politico in cui si opera, il rimedio è uno solo: la scelta altrettanto coerente di onorevoli dimissioni. Ovviamente è solo il mio pensiero”. In un solo decreto il governo Meloni lancia un chiaro messaggio, serve più carcere, anche se siamo arrivati a 75 suicidi. Tant’è che sfida la Corte costituzionale con le norme sull’ergastolo ostativo. Con le quali dalla galera non uscirà più nessuno... “Anche questa questione viene affrontata dal governo in modo da far credere che, senza il decreto, mafiosi e delinquenti condannati per gravi reati non potrebbero mai scontare l’ergastolo e a loro sarebbero automaticamente applicabili i benefici penitenziari. Alcuni magistrati si associano a questo “grido d’allarme” in difesa del doveroso contrasto alle mafie che ne risulterebbe penalizzato. Ma le cose non stanno affatto così e numerosi giuristi, non afflitti dal populismo dilagante, lo hanno spiegato. La presunzione assoluta di eterna pericolosità non esiste nel nostro sistema e per vincerla, oltre alla collaborazione, non possono certo essere previsti parametri impraticabili come quello secondo cui spetterebbe al condannato dimostrare l’assenza di pericoli di futuri collegamenti con ambienti criminali: una probatio diabolica”. L’Anm ringrazia il governo per aver bloccato la riforma penale di Cartabia. Che si ferma non solo per le nuove regole sulle indagini preliminari, ma anche per le misure alternative alla detenzione. E Meloni già annuncia modifiche. I suoi colleghi hanno sbagliato? “Gioire per questo rinvio è sbagliato perché determina il grave rischio di rivisitare importanti norme proprio sulle pene frutto di condivisibili raccomandazioni di istituzioni sovranazionali e della nostra Consulta, oltre che di attenzione al garantismo reale e non a quello di facciata. E del resto anche l’appello dei 26 Procuratori generali, da qualcuno strumentalizzato, si limitava a chiedere solo una disciplina transitoria”. Disfunzioni della giustizia: ecco perché sto con Nordio. Nella speranza che possa porre rimedio di Giuseppe Di Federico Il Riformista, 3 novembre 2022 Carlo Nordio è il nuovo ministro della giustizia. Le critiche da lui mosse all’assetto e funzionamento della nostra giustizia sono in buona misura le stesse che sono evidenziate dalle ricerche sul campo che ho condotto in Italia e all’estero negli ultimi 50 anni. Come studioso sono quindi d’accordo con lui sull’esigenza di eliminare le conseguenze nefaste che sotto il profilo funzionale e della protezione dei diritti civili derivano dall’inapplicabile principio Costituzionale della obbligatorietà dell’azione penale. Un principio che trasforma, ipso jure, qualsiasi decisione dei pubblici ministeri, per discrezionale che sia, in un atto dovuto di cui il singolo pubblico ministero (pm) non può essere chiamato a rispondere neppure nei moltissimi casi in cui le sue iniziative procurano a cittadini innocenti danni irreversibili di ordine sociale, economico, politico, familiare e della stessa salute. Sono d’accordo con lui sull’esigenza di dividere le carriere dei giudici e pm per evitare, tra l’altro, che i controlli sulle attività di indagini e sull’iniziativa penale del pm siano esercitate da un suo collega e non da un organo terzo. Sono d’accordo con Nordio sull’inappellabilità delle sentenze di assoluzione, un istituto creato 231 anni fa (nel 1791) nel bill of rights della Costituzione Usa che tra i principi a garanzia del giusto processo stabilì il diritto del cittadino a non essere processato due volte per lo stresso reato. Un principio che muove dalla costatazione che di fatto il pm ha molti più poteri e risorse del cittadino e che quindi sia necessario proteggere il cittadino giudicato innocente da ulteriori iniziative penali di natura persecutoria promosse dalla pubblica accusa. Sono d’accordo con Nordio anche su altre riforme da lui auspicate soprattutto nel settore della giustizia penale, come ad esempio quelle che svincolino la pubblica amministrazione e gli eletti a cariche pubbliche dai paralizzanti timori e dalle devastanti conseguenze generati dal permanere, nell’attuale forma, di reati come l’abuso di ufficio e il traffico di influenze. Per queste ragioni ho deciso di votare Carlo Nordio nelle recenti elezioni e di votare anche, per la prima volta, il partito che meritoriamente lo proponeva come ministro della giustizia. La speranza è che possa almeno in parte porre rimedio alle disfunzioni della giustizia che lui stesso ha evidenziato nei suoi scritti e nelle sue interviste. Gli ostacoli che incontrerà sulla sua strada sono numerosi, a cominciare dalle resistenze che incontrerà nel suo stesso ministero ove i magistrati che gestiscono tutte le posizioni direttive (circa 100) si sono sempre allineati alle aspettative dell’Anm e del Csm che sono decisamente contrari alle proposte di riforma di Nordio. Un ministero, cioè ove il ministro della giustizia è di fatto, un “ministro a sovranità limitata”, come ha più volte affermato Giuliano Vassalli, che quell’esperienza l’ha vissuta in prima persona. Una postilla. So benissimo che anche in partiti diversi da Fratelli d’Italia vi sono parlamentari che condividono le mie analisi sui problemi della giustizia e forse su alcuni aspetti prospettano soluzioni più simili alle mie. Nessuno di loro aveva, tuttavia, la concreta prospettiva di divenire ministro della giustizia. Spero che anche dall’opposizione possano “dare una mano” al nuovo Ministro guardasigilli. Ma sulla Giustizia basta trucchi e illusioni ottiche di Sergio Lorusso Gazzetta del Mezzogiorno, 3 novembre 2022 Non di rado i governi sono caduti sulla giustizia, questa volta invece è la giustizia a inaugurare l’azione dell’esecutivo. Il decreto-legge varato lunedì dal Consiglio dei ministri accorpa due temi assai lontani tra loro ma entrambi di estremo rilievo. Da un lato, la cd. “riforma Cartabia”, voluta dal precedente Guardasigilli per rendere più efficiente l’esercizio della giurisdizione, riducendone i tempi, e portare a casa i fondi del PNRR, con l’opportuno differimento - in assenza di adeguate norme transitorie, cui pure si sarebbe dovuto pensare stante l’ampia portata dell’intervento normativo - dell’entrata in vigore al 30 dicembre 2022, per consentire agli uffici giudiziari di farsi trovare pronti a gestire le tante novità introdotte. Il termine originario di 15 giorni, un po’ distrattamente concepito, era visibilmente troppo ridotto per una riforma dalle tante ricadute sul piano organizzativo. Se mai si sarebbe potuto pensare a un differimento frazionato, che estrapolasse le norme non immediatamente operative, ma si è preferita la via più semplice. Naturalmente ora occorre attivarsi prontamente, non essendo possibili ulteriori proroghe se non si vogliono perdere irreparabilmente i fondi europei. Dall’altro, la questione spinosa del cd. “ergastolo ostativo”, quella forma di ergastolo pervasivo, introdotta nel nostro ordinamento giusto 30 anni fa all’indomani della strage di Capaci, orientata (essenzialmente) a contrastare la criminalità organizzata e che si traduce nell’impossibilità per il condannato di fruire dei benefici normalmente concessi ai detenuti, tranne che non diventi un collaboratore di giustizia (con una residuale eccezione). Si tratta tecnicamente di una “presunzione legale assoluta di pericolosità sociale”, che traccia una linea netta rispetto all’ergastolano “comune” il quale può invece accedere a tutta una serie di benefici previsti dalla legge nell’ottica rieducativa, condensata nell’art. 27 comma 3 Cost., che caratterizza il nostro ordinamento. Ma come si può parlare di rieducazione e di reinserimento, ci si chiede, rispetto a un condannato - pur se per reati di estrema gravità - se gli si preclude ogni possibilità di risocializzazione (naturalmente da parametrare alle specificità del singolo caso)? E come si può collegare un trattamento più favorevole alla collaborazione, non sempre autentica bensì strumentale al raggiungimento dell’obiettivo? Il tema è scottante perché vede, sul fronte opposto, le esigenze di tutela della sicurezza dello Stato rispetto a fenomeni criminali devastanti e tristemente famosi. La questione si complica se consideriamo che sul punto sono intervenute sia la Corte costituzionale - sottolineando come la finalità rieducativa della pena debba essere garantita sempre, anche nei confronti di chi ha commesso reati gravissimi, e come sia irragionevole la disparità di trattamento istituita tra condannati alla stessa tipologia di pena (l’ergastolo) - che la Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale distingue tra pena perpetua “comprimibile” e “non comprimibile” ritenendo solo la prima in linea con l’art. 3 Cedu. La Consulta si è espressa in termini molto netti ingiungendo al legislatore, dopo un ennesimo rinvio, di provvedere ed è proprio da questo diktat che nasce il provvedimento - fotocopia sbiadita del disegno di legge approvato dalla Camera nella scorsa legislatura - varato lunedì dal governo allo scopo di disinnescare l’incombente intervento della Corte costituzionale calendarizzato per l’8 novembre. Da un primo e sommario esame delle norme emerge come ci si discosti non poco dagli input rinvenienti dalla Corte: non solo si irrobustisce sensibilmente il novero dei reati per cui il regime differenziato che esclude i benefici potrà operare, ma dietro un apparente ammorbidimento delle condizioni che legittimano il superamento dell’”ergastolo ostativo” si cela una moltiplicazione di requisiti alternativi di nuovo conio, il cui onere dimostrativo - spesso pressoché impossibile - spetta all’interessato. Un artificio legislativo, che rimuove le cause della presumibile illegittimità costituzionale per sostituirle con un regime solo in apparenza migliorativo ma, se si vuole, ancora più stridente con gli orientamenti della Consulta e della Corte europea. Unica consolazione, l’eventualità che si intervenga in sede di conversione - come la stessa premier Giorgia Meloni ha detto nel presentare il provvedimento alla stampa - superando incongruenze e criticità e, con esse, le illusioni ottiche normative che producono. Com’è nato il pasticcio di Meloni e Piantedosi sui rave di Ermes Antonucci Il Foglio, 3 novembre 2022 La norma contro i raduni illegali approvata dal governo è stata scritta in fretta e furia per volontà del ministro dell’Interno. Nessuna collaborazione con il Guardasigilli Carlo Nordio, che ne sarebbe stato all’oscuro fino all’arrivo in Cdm. Tutto troppo in fretta. Così è nato il pasticcio della norma anti-rave, approvata lunedì dal Consiglio dei ministri e già bocciata da decine di giuristi per la sua incomprensibilità tecnica e i suoi potenziali pericoli per la libertà dei cittadini. La norma, come ricostruito dal Foglio, è stata scritta in fretta e furia per volontà del ministro dell’Interno, Matteo Piantedosi. E’ stato il nuovo ministro dell’Interno ad attivarsi, dopo aver ricevuto la segnalazione che il capannone in cui a Modena si stava svolgendo il rave era a rischio crollo. A differenza di quanto riportato da diversi giornali, Piantedosi non si è affatto limitato a recuperare dal cassetto le norme elaborate dal suo predecessore, la ministra Luciana Lamorgese, ma ha fatto scrivere dal suo ufficio legislativo un testo completamente nuovo. Un testo che introduce un nuovo articolo al codice penale (il 343-bis), che però non definisce l’oggetto del reato, usa un linguaggio tautologico, prevede concetti vaghissimi. “Un caso assoluto di analfabetismo legislativo”, l’ha definito ieri su queste pagine il professor Tullio Padovani, luminare del diritto penale. Il risultato di una norma scritta in maniera così pedestre è che essa potrà essere interpretata con ampia discrezionalità dai magistrati ed essere applicata anche ai casi di occupazione di edifici scolastici e universitari. Persino il deputato di Fratelli d’Italia, Federico Mollicone, in un’intervista a La7 ieri ha ammesso che “questa norma può essere applicata giustamente ai palazzi occupati pubblici o privati”. Questo nonostante nella relazione illustrativa del provvedimento si legga che “l’intervento normativo mira a rafforzare il sistema di prevenzione e di contrasto del fenomeno dei grandi raduni musicali, organizzati clandestinamente (c.d. rave party)”. Non solo. Prevedendo una pena fino a sei anni per gli organizzatori dei raduni in terreni ed edifici altrui, con la presenza di almeno cinquanta persone, il nuovo reato consentirà agli inquirenti anche di svolgere intercettazioni. Una grande pesca a strascico, che potrebbe finire per riguardare centinaia di persone, anche i partecipanti, per i quali viene prevista una pena “diminuita”. E viene da sorridere immaginando uno squadrone di agenti di polizia giudiziaria mentre ascolta le conversazioni o legge le chat di centinaia di ragazzini o adulti che intendono partecipare a un rave party. Anche la ministra Lamorgese, come ricordato nelle ultime ore, un anno fa aveva dichiarato di voler intervenire sul tema in seguito all’episodio del rave organizzato a Viterbo. “Sono convinta che serva un intervento normativo per rafforzare il sistema di prevenzione e contrasto”, disse. Secondo quanto ricostruito dal Foglio, effettivamente la ministra Lamorgese fece elaborare dai suoi uffici una nuova norma. Questa, però, non prevedeva la creazione di un nuovo reato, ma aggiungeva un’aggravante all’articolo del codice penale che già oggi permette di intervenire nei casi di raduni illegali. Si tratta dell’articolo 633, che punisce “chiunque invade arbitrariamente terreni o edifici altrui, pubblici o privati, al fine di occuparli o di trarne altrimenti profitto”. “La proposta non prevedeva un reato autonomo, ma si innestava sull’articolo 633 del codice penale. Inoltre le pene erano più basse”, riferiscono ambienti vicini all’ex ministra Lamorgese. “Il testo approvato lunedì dal Consiglio dei ministri costituisce un’assoluta novità. L’intervento proposto all’epoca dal ministero dell’Interno andava a modificare l’articolo 633 del codice penale”, confermano diverse fonti vicine all’allora Guardasigilli Marta Cartabia. Pur essendo più basse, però, le pene previste dalle norme proposte da Lamorgese consentivano comunque il ricorso alle intercettazioni, e proprio su questo emerse una frizione con l’ex ministra della Giustizia, perplessa sul possibile utilizzo di uno strumento di indagine così invasivo per contrastare i raduni illegali. Alla fine, così, la proposta avanzata dal ministero dell’Interno venne accantonata dal governo Draghi. Un accantonamento, spiegano oggi, “frutto di normali interlocuzioni tra i ministeri”. Proprio ciò che sembra essere mancato in occasione dell’approvazione della norma voluta da Piantedosi, della quale il nuovo Guardasigilli Carlo Nordio sarebbe addirittura rimasto all’oscuro fino all’arrivo in Consiglio dei ministri. Norma anti raduni, penalisti in trincea. Sisto: intervenire in Parlamento di Francesco Machina Grifeo Il Manifesto, 3 novembre 2022 Per il Viceministro la norma va tipizzata: occupazioni delle scuole e manifestazioni di protesta civile devono essere evidentemente escluse dalla norma. Dopo il sollevamento delle opposizioni ma anche dei penalisti italiani, si registra una prima apertura del Governo sulla nuova fattispecie di reato di “Invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”, approvata con decreto legge, lunedì scorso, dal primo Consiglio dei ministri presieduto da Meloni. Nata come norma anti rave party, sull’onda del raduno dei giorni scorsi a Modena, la fattispecie, per come scritta, è stata considerata troppo “generica” e dunque passibile di applicazioni anche in ambiti diversi, come: occupazione delle scuole o università, manifestazioni di piazza o semplice feste. A preoccupare anche la formulazione del testo nella parte in cui, con riferimento all’occupazione, afferma che il reato scatta dalle 50 persone in su (dunque ben lontani dai raduni di migliaia di soggetti al centro delle cronache) e che la fattispecie è integrata quando “può derivare un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. Con una valutazione dunque probabilistica rimessa sostanzialmente ai prefetti. Una lettura però bocciata dal Governo. Il ministro dell’Interno Piantedosi: “Credo sia interesse di tutti contrastare i rave illegali. Trovo invece offensivo attribuirci la volontà di intervenire in altri contesti, in cui si esercitano diritti costituzionalmente garantiti a cui la norma chiaramente non fa alcun riferimento”. Mentre sul parallelo con la manifestazione di Predappio, afferma: “È una pagliacciata” che tuttavia si “svolge sotto il controllo delle Forze di polizia”. A riprova però che nel Governo ci sono sensibilità diverse, arriva la presa di posizione, a Radio24, del neo Viceministro della Giustizia, ed avvocato di lungo corso, Francesco Paolo Sisto: “Se necessario, la norma contro i rave party sarà resa più tipica, tassativa e puntuale nel corso del dibattito parlamentare per evitare disinterpretazioni che ne possano tradire il senso. L’intenzione è quella di colpire i rave, ossia situazioni in cui, soprattutto a causa del largo uso di sostanze stupefacenti, si creano pericoli concreti per l’ordine e la salute pubblica”. “Proprio l’uso di sostanze stupefacenti - ha proseguito - può essere utilizzato come elemento per tipizzare la fattispecie. Una cosa è certa: le occupazioni delle scuole e le manifestazioni di protesta civile devono essere evidentemente escluse dalla norma. Non ci sarà un ‘ravismo’ generalizzato delle manifestazioni di protesta. La libertà di pensiero, come Forza Italia da sempre sostiene, non può essere e non sarà conculcata”. Quanto alla possibilità di intercettazioni, per Sisto “non devono essere possibili, come la stessa Presidente Meloni ed il ministro Tajani hanno ritenuto; e meno che mai quelle preventive. L’unico sistema certo per ottenere questo risultato è quello di portare la pena a un livello che ne inibisca l’uso”. Mantengono la guardia alta i penalisti. Pur concedendo al Ministro Nordio la patente di autentico liberale e garantista sottolineano che con due sottosegretari pesanti politicamente come Andrea Delmastro di FdI e Andrea Ostellari della Lega, gli spazi di movimento per il Guardasigilli si riducono. Il presidente della Camere penali Gian Domenico Caiazza su Twitter: “Piantatela di chiamarla norma anti-rave. È una radunata sediziosa aggravata. Intercettazioni consentite anche per i semplici partecipanti. Ecco cosa succede quando le norme penali le facciamo scrivere ai prefetti di polizia. Non scherziamo con il fuoco”. E poi in una dichiarazione all’Adnkronos, spiega: “Col nuovo reato sono possibili le intercettazioni per tutti, perché la pena prevista è superiore a 5 anni, e il codice di procedura penale prevede che le intercettazioni sono consentite per tutti i reati con la pena massima superiore a 5 anni, o se si vuole non sono consentite per reati con la pena massima inferiore a 5 anni. E qui si tratta di un reato che prevede una pena massima fino a 6 anni”. “Dicono - aggiunge - che questo vale per gli organizzatori e non per i partecipi, ma non è così, perché nella norma si dice solo che se si è partecipi la pena è ‘diminuita’, dunque ci troviamo di fronte a quella che tecnicamente si chiama una ‘diminuente’, non una pena diversa. Se avessero detto ad esempio che per i partecipi la pena è fino a tre anni, allora effettivamente non sarebbero state consentite le intercettazioni nei loro confronti”. Per l’avvocato ed ex sindaco di Milano Giuliano Pisapia siamo di fronte ad una “norma lunare”. “Per come è scritta - afferma - può riguardare qualsiasi contestazione e non credo crei più sicurezza e dissuada dai rave party”. Inoltre, aggiunge, “è una norma controproducente. Lo prova quanto accaduto a Modena, dove non ci sono stati episodi di violenza nel rave party, e grazie al dialogo e al confronto tra le migliaia di ragazzi, le forze dell’ordine e il sindaco, dopo due giorni di musica, i giovani hanno lasciato il capannone in ordine e pulito”. Ma cosa prevede la norma contenuta nell’articolo 5 del decreto. Come detto, introduce il reato di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”, prevede pene per gli organizzatori o i promotori dei raduni che vanno dai tre ad un massimo edittale di sei anni di reclusione o multe che oscillano tra i mille e i 10.000 euro. La norma aggiunge inoltre che “per il solo fatto di partecipare all’invasione la pena è diminuita”. Il rischio di avere una condanna è dunque anche per chi partecipa all’evento: nei loro confronti il giudice, al termine del processo, deve applicare una diminuzione che può arrivare fino ad un terzo rispetto al massimo della pena prevista. La norma si applica quando più di cinquanta persone invadono in modo “arbitrario” terreni o edifici, pubblici o privati e da ciò ne può derivare “un pericolo per l’ordine pubblico o l’incolumità pubblica o la salute pubblica”. La nuova disciplina, prevista all’articolo 434-bis del Codice Penale, dispone la “confisca delle cose” utilizzate per commettere il reato nonché quelle “utilizzate per realizzate le finalità dell’occupazione”. Nel testo viene poi apportata una modifica al Codice antimafia disponendo le misure di prevenzione personali per chi si macchia del nuovo reato. Ciò consentirà l’applicazione della sorveglianza speciale di pubblica sicurezza per gli indiziati. “Si dice rave si scrive raduni, la nuova truffa delle etichette” di Eleonora Martini Il Manifesto, 3 novembre 2022 Intervista. Parla Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica. “Una norma pericolosa. La nuova fattispecie è in controtendenza rispetto allo spirito nobile di Pio La Torre, che con le misure di prevenzione voleva aggredire i gravi reati di profitto. Il nuovo art. 434-bis lascia troppa discrezionalità nel distinguere il reato da un diritto costituzionale”. “Una pericolosa truffa delle etichette”. Così Stefano Musolino, segretario di Magistratura democratica, definisce il nuovo reato di “invasione di terreni o edifici per raduni pericolosi per l’ordine pubblico, la salute o l’incolumità pubblica”, introdotto per decreto legge e punito con la reclusione da tre a sei anni. Dal proposito di depenalizzare all’introduzione di un nuovo reato, il passo è stato troppo breve. È la prima smentita oppure una misura che segue coerentemente la linea di pensiero “garantista” del ministro Nordio? All’indomani della sua nomina, avevo riconosciuto a Nordio il merito di aver parlato subito di depenalizzazione. Perciò questo primo intervento che introduce una nuova fattispecie di reato - peraltro con un decreto legge, come se vi fosse una situazione di indifferibile urgenza che non consente di attendere il passaggio parlamentare - stona parecchio con i suoi propositi. Siccome credo che sia giusto interpretare la scelte operate dal ministro come fondate su presupposti di serietà e affidabilità, il nostro timore è che la depenalizzazione di cui parlava Nordio fosse funzionale a tutelare i colletti bianchi coinvolti nel processo penale. Mentre, in questa logica securitaria tipica delle politica giudiziaria delle destre, si continui l’azione penale nei confronti delle classi più disagiate. Però i rave non sono solo frequentati da classi disagiate. Sono semplicemente un’altra forma di incontro e di divertimento (incluse le sostanze) che predilige luoghi non codificati... Infatti questa norma l’abbiamo definita “la truffa delle etichette” perché non è anti rave ma anti raduni. Prendendo spunto da questo ultimo rave di Modena, si è introdotta una norma molto pericolosa. Se qualcuno concedesse un capannone per l’evento, il rave party sarebbe legale. Ma il reato introdotto con l’art. 434-bis del codice penale è procedibile d’ufficio o solo su querela? È procedibile d’ufficio ma pretende che vi sia un’”invasione”, l’occupazione arbitraria di uno spazio contro la volontà di chi lo detiene. Ciò che è preoccupante è che lo spazio può essere privato o pubblico, quindi anche una piazza. È considerata “invasione” quella di coloro che, organizzando un raduno, una festa o anche una manifestazione di protesta in una piazza, impediscono ad altri di usufruire di quello spazio. In sostanza, si tratta di un’”occupazione arbitraria” che impedisce a chi ne ha diritto di accedere o fruire di quello spazio: nel privato è il titolare del terreno o dell’edificio, per gli spazi pubblici chi ne ha diritto sono tutti gli altri cittadini. Dunque è una legge che confligge con l’articolo 17 della Costituzione? Siamo ai limiti. Perché l’articolo 17 definisce come unici limiti alla libertà di riunione il pericolo per l’incolumità e per la sicurezza pubblica. Ed è proprio questa valutazione di “pericolo”, che è prognostica e non già verificata, che lascia troppi margini di discrezionalità alla polizia giudiziaria. Inoltre, l’articolo 5 del nuovo decreto legge prevede che all’articolo 4 del cosiddetto Codice antimafia (decreto legislativo 159/2011), ossia al catalogo delle fattispecie che giustificano l’applicazione delle misure di prevenzione, vada aggiunto anche questo nuovo 434-bis. Purtroppo il populismo penale di cui questa norma è figlia sta snaturando quella che era la tendenza nobile delle misure di prevenzione da Pio La Torre in poi, utilizzate - anziché per contenere la marginalità sociale e l’opposizione politica come era nell’epoca fascista - per aggredire i gravi reati di profitto e i patrimoni accumulati illecitamente. Misure che vennero poi estese alle mafie. E invece questo catalogo si sta arricchendo sempre più di fattispecie che nulla hanno a che fare con quella nobile logica. Un magistrato che intendesse applicare questa nuova norma quali problemi si troverebbe ad affrontare? Come ho già detto, si è costituita - non so quanto consapevolmente - una norma che lascia troppa discrezionalità nel distinguere un diritto costituzionalmente garantito da un reato. Sulla riforma Cartabia, lei crede che ci fossero delle effettive difficoltà per l’immediata entrata in vigore? Credo di sì, ma si potevano applicare immediatamente gli articoli 2 e 3 che intervengono in maniera deflattiva e facendo diventare punibili a querela alcuni reati oggi perseguibili d’ufficio, e intervengono anche sulla decarcerizzazione. E si potevano invece differire le norme esclusivamente processuali, per le quali ci sarebbe effettivamente bisogno di norme transitorie. E invece in questo modo molti magistrati saranno costretti a sollevare questioni di legittimità costituzionale, perché si evidenzia un controsenso del sistema che doveva essere evitato: ci saranno persone che verranno condannate in base a norme che è previsto diventino a breve più favorevoli agli imputati. E dunque il timore è che non si intervenga solo con norme transitorie ma anche su norme che avevano questa efficacia deflattiva e di decarcerizzazione della sezione penale. La morte di Ugo Russo, per i pm di Napoli è stato “omicidio volontario aggravato” di Adriana Pollice Il Manifesto, 3 novembre 2022 Il rapinatore quindicenne ucciso da carabiniere nel 2020. Il padre della vittima: “Da quasi tre anni io e la mia famiglia subiamo insulti e pressioni di ogni tipo perché continuiamo a chiedere verità e giustizia”. La notte tra il 29 febbraio e il primo marzo del 2020 Ugo Russo, 15 anni, è sullo scooter con un amico nel borgo Santa Lucia, a Napoli, hanno una pistola giocattolo senza tappo rosso. Individuano un’auto di lusso: dentro un ragazzo di 23 anni con la fidanzata, al polso ha un Rolex. Il complice resta sul motorino, Russo arriva dal lato del guidatore per rapinare l’orologio. Il ventitreenne, C. B., è un carabiniere fuori servizio ma con sé ha l’arma di ordinanza, l’estrae e spara due colpi in rapida successione: uno va a vuoto, l’altro colpisce Russo alla spalla. Il quindicenne, ferito, indietreggia, si volta e scappa verso il complice sullo scooter. C.B. rimette in moto l’auto, la sposta in modo da rimettere il ragazzo in linea di tiro ed esplode altri colpi di pistola: uno dei proiettili raggiunge Ugo sotto lo sterno, l’altro alla testa, vicino l’orecchio, uccidendolo sul colpo. Il ragazzo si accascia vicino al motorino, lontano dalla berlina dove tutto è iniziato. A dirlo sono le telecamere di sorveglianza della zona, a due passi dalla sede della regione Campania, e le perizie depositate dalla procura di Napoli. Il 6 ottobre i pm Simone De Raxas e Claudio Siragusa hanno notificato l’avviso di conclusione indagini: l’analisi balistica e medica, acquisite nella formula dell’incidente probatorio, avranno valore di prova da utilizzare nel processo. Ci sono voluti due anni e otto mesi per conoscere le risultanze dell’indagine. Oltre due anni in cui i genitori hanno lottato per avere “verità e giustizia”. Acquisite le perizie, l’ipotesi di accusa diventa “omicidio volontario” con le aggravanti di aver approfittato delle circostanze di tempo e di luogo tali da ostacolare la difesa (art. 61 comma 1 n. 5), dell’abuso di potere (art. 61 comma 1 n. 9) e di aver commesso il delitto ai danni di un minore (art. 61 comma 1 n. 11 quinques). Dalle indagini dunque è emerso che ci sono state due fasi nella sequenza dell’omicidio: il ferimento nel tentativo di rapina e quindi l’uccisione del ragazzo “mentre è in fuga” scrivono testualmente i pubblici ministeri. I legali del carabiniere, tuttora in servizio in una località del Nord, fanno sapere: “Rispettiamo le conclusioni a cui è pervenuto il pm fermo restando che non le condividiamo e siamo certi di dimostrare durante il processo una versione alternativa”. Gli avvocati presenterà memorie difensive poi toccherà al gip. “Per la mia famiglia, per mia moglie e i miei altri figli sono stati e sono anni difficilissimi. Abbiamo sopportato il dolore della perdita di Ugo insieme a pressioni e insulti di ogni tipo perché continuiamo a chiedere giustizia. Nulla potrà restituirci Ugo, ma chiediamo che il processo arrivi presto” racconta il padre Enzo, che è arrivato a incatenarsi davanti al tribunale a maggio 2021. Stamattina alle 12 ci sarà una conferenza stampa in piazza Parrocchiella convocata dalla famiglia del ragazzo ucciso “per prendere parola” sulla chiusura delle indagini. “Se questi anni sono sembrati interminabili - spiegano gli attivisti del comitato Verità e giustizia per Ugo Russo - è per la continua aggressione morale subita dalla famiglia. Una parte dei media e dell’opinione pubblica è sembrata molto più interessata alla permanente criminalizzazione di un ragazzo di 15 anni piuttosto che a comprendere cosa fosse successo. A pochi è importato approfondire se a Ugo fosse stata applicata una pena di morte senza processo, come sembrava indicare fin da subito il luogo del ritrovamento del corpo e il colpo alla nuca”. E infine: “Auspichiamo una riflessione pubblica sul futuro dei ragazzi dei quartieri popolari ma anche sulla formazione del personale a cui i corpi di sicurezza mettono un’arma in mano”. Filippo Graviano, nessun permesso premio per il capomafia: “Non collabora” Corriere del Mezzogiorno, 3 novembre 2022 La Cassazione respinge l’istanza presentata dagli avvocati del boss ergastolano: “Mantiene ancora contatti con la famiglia”. Nessun permesso premio per il capomafia Filippo Graviano, condannato all’ergastolo perché tra i mandanti delle stragi del 1992 e 1993 e per l’uccisione di don Pino Puglisi. La Cassazione ha rigettato l’istanza di permesso premio nonostante “la regolare condotta carceraria e il percorso scolastico”. Perché, secondo i giudici, la sua dissociazione dalla mafia è solo di facciata e ha mantenuto “rapporti con i familiari”, tra i quali ci sono parenti “convolti in logiche associative”. La Cassazione ha confermato il “no al permesso” del Tribunale di sorveglianza di L’Aquila. Il verdetto - In particolare, il verdetto 41329 depositato oggi dalla prima sezione penale della Cassazione relativo all’udienza dello scorso 6 luglio, ha ritenuto corretta l’ordinanza emessa dai giudici aquilani. Il provvedimento rilevava che “il detenuto aveva sottoscritto una dichiarazione di dissociazione, cui non aveva fatto seguito una collaborazione con gli inquirenti”. Nel caso di Graviano, “la considerazione dei gravissimi reati commessi è stata unita al rilievo che non ne era seguita una effettiva presa di distanza ed anzi - scrive la Cassazione - erano stati mantenuti i contatti con i familiari pure già coinvolti nel medesimo contesto di criminalità organizzata”. Napoli. Emergenza carceri, Carlo Nordio nell’inferno di Poggioreale: oggi la visita lampo di Giuseppe Crimaldi Il Mattino, 3 novembre 2022 Lo aveva annunciato all’atto del suo insediamento a via Arenula: tra le priorità del ministro della Giustizia devono esserci le risposte alla questione penitenziaria italiana: Il carcere non può essere crudele e inumano, perché si andrebbe contro la Costituzione e i principi cristiani”. Carlo Nordio ha mantenuto la promessa, e oggi - in quella che rappresenta la sua prima uscita ufficiale in veste di Guardasigilli - visiterà la casa circondariale di Poggioreale. In realtà quella di oggi sarà una giornata intensa per Nordio, che entrerà prima, in mattinata, nell’istituto penitenziario romano di Regina Coeli e nel pomeriggio varcherà la soglia della casa circondariale Giuseppe Salvia. Nei due istituti, il Guardasigilli - informa una nota del ministero - incontrerà una rappresentanza del personale amministrativo e di Polizia Penitenziaria e, successivamente, farà visita ai reparti detentivi. Più nel dettaglio, ecco il programma: alle 9,45 inizia la visita a Regina Coeli, dove il ministro sarà accompagnato dal Capo del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria Carlo Renoldi, del direttore generale del personale e delle risorse Massimo Parisi, del provveditore regionale reggente Pierpaolo D’Andria, del direttore dell’istituto Claudia Clementi e del comandante del reparto di Polizia Penitenziaria Maria Lancieri. Nel pomeriggio, alle 15,30, è previsto l’arrivo all’istituto di Poggioreale: ad accompagnarlo, oltre al capo del Dap, ci saranno il provveditore regionale per la Campania Lucia Castellano, il direttore dell’istituto Carlo Berdini e il comandante Gaetano Diglio. “Si tratta delle prime visite del neo ministro della Giustizia, come aveva anticipato nei giorni scorsi intervenendo alla cerimonia di presentazione del Calendario 2023 del Corpo di Polizia Penitenziaria: “Il carcere è una delle mie priorità, ho deciso che la mia prima visita esterna - aveva detto il 27 ottobre scorso - sarà in alcune carceri in particolare difficoltà”. Prova del nove per il Guardasigilli, che toccherà con mano l’inferno Poggioreale. Inutile snocciolare i dati già noti da anni sul sovraffollamento, sul numero dei detenuti che si suicidano o compiono atti di autolesionismo, le aggressioni ai danni degli agenti della Penitenziaria. Tutti argomenti che rientrano nel lungo cahier de doleance che da anni i garanti per i diritti dei detenuti, le associazioni (a cominciare da Antigone) e gli organismi di rappresentanza sindacale presentano, di volta in volta, a chi assume l’incarico di ministro della Giustizia. Da anni a sollevare queste emergenze è Emilio Fattorello, ex segretario regionale del Sappe e oggi componente del consiglio nazionale dell’Osapp (Organizzazione sindacale autonoma della polizia penitenziaria) con competenza per il distretto della Campania. Solo qualche mese fa, ad agosto, Fattorello aveva scritto al prefetto, al procuratore della Repubblica di Napoli e ai vertici delle istituzioni penitenziarie locali per denunciare le carenze strutturali, ambientali, idrico-sanitarie, microclimatiche compresi locali sanitari (ambulatori), lo stesso centro clinico di Poggioreale che risulta essere in condizioni precarie per quanto riguarda i requisiti previsti dalla stessa Asla con precise prescrizioni tecnico-sanitarie che non risultano essere rispettate. Nordio nelle due ore che trascorrerà a Poggioreale (dalle 15,30 alle 17,30) avrà anche modo di incontrare i vertici amministrativi della casa circondariale più affollata d’Italia, e le rappresentanze della Polizia Penitenziaria. Poggioreale resta il simbolo nazionale delle criticità del sistema penitenziario: condizioni da terzo mondo per la maggioranza dei reclusi, con assenza di docce nelle celle di alcuni reparti, mancanza di sale destinate alla socialità nella maggior parte delle sezioni, presenza di ballatoi che riducono sensibilmente gli spazi a disposizione della popolazione detenuta. Terni. Sciopero della fame di due detenuti anarchici e presidio al carcere Sabbione di Nicoletta Gigli Il Messaggero, 3 novembre 2022 Una venticinquina di anarchici si sono dati appuntamento martedì primo novembre alle 10 davanti al penitenziario per dare la propria solidarietà a due pezzi da novanta dell’anarchismo internazionale, in sciopero della fame a oltranza per l’abolizione del regime 41 bis. A dare il via alla protesta, il 20 ottobre, Alfredo Cospito, uno dei leader del movimento anarchico italiano, fino al maggio scorso detenuto a Sabbione nella sezione alta sicurezza 2 e poi trasferito a Sassari in regime di 41bis con l’accusa di strage contro la sicurezza dello Stato. In solidarietà alla lotta di Cospito, dal 25 ottobre, ha iniziato lo sciopero della fame a oltranza anche Juan Antonio Sorroche Fernandez, ex primula rossa dell’anarchismo internazionale. Fu arrestato a maggio 2019 ed è detenuto in regime di alta sicurezza nel penitenziario di vocabolo Sabbione. L’anarchico spagnolo, ritenuto responsabile di un attentato alla sede della Lega di Treviso, quattro mesi fa è stato condannato in primo grado a 28 anni di carcere. Era accusato di attentato a fini terroristici con l’utilizzo di ordigni, micidiali ed esplosivi, con l’aggravante di voler colpire le forze dell’ordine, e per fabbricazione di ordigni esplosivi. “Dal 20 ottobre - si legge nella nota dei promotori del presidio - il compagno anarchico Alfredo Cospito è in sciopero della fame nel carcere di Sassari contro il regime di 41 bis nel quale è stato sottoposto lo scorso maggio, dopo dieci anni di detenzione in alta sicurezza. L’inedita decisione di rinchiudere un anarchico in 41 bis è solo la punta dell’iceberg della svolta autoritaria in atto in Italia, una svolta inaugurata con la strage nelle carceri del marzo 2020, proseguita con le inchieste contro le lotte sindacali, con gli operai della logistica accusati di “estorsione” nei confronti del padrone perché chiedevano aumenti salariali, lo stillicidio di sorveglianze speciali, la condanna di Juan Sorroche a 28 anni di carcere e la Cassazione del processo scripta manent”. Di fronte al penitenziario ternano la solidarietà degli anarchici anche ai “detenuti di media sicurezza del carcere di Terni protagonisti della rivolta dello scorso 16 ottobre”. Intanto in cella Juan Sorroche, sotto controllo medico quotidiano, non ha intenzione di interrompere lo sciopero della fame. Rimini. Carcere, una nuova vita è possibile di Paolo Guiducci ilponte.com, 3 novembre 2022 Il responsabile carcere Caritas racconta il ruolo dei volontari all’interno dei Casetti. Spesso la casa circondariale di Rimini finisce sotto i riflettori per l’alto numero di ospiti e le difficili condizioni che ne derivano - che in estate fanno parlare di sovraffollamento. Ma dietro questi numeri vivono volti, storie, persone. Ed è a questa umanità reclusa che Caritas dal 2006 offre il proprio servizio. Anzi, un accompagnamento, dentro e fuori dal carcere. Del Progetto “area carcere” (finanziato da Piano zona sociale salute e del benessere di Rimini nord), di cui Caritas è capofila, Viola Carando è l’”educatore ponte”. “Presto servizio con Caritas in carcere dal 2011, da un anno svolgo il compito di educatore ponte il collante tra gli enti che operano in carcere, la Direzione dei Casetti, e l’area educativa della casa circondariale. È la direzione stessa che ci permette a caritas e a tutti gli altri enti e associazioni di entrare in carcere e di operare in maniera sinergica per il recupero dei carecrati, perché tutte le persone abbiano una seconda possibilità. Personalmente seguo detenuti sia singolarmente sia in gruppo, in particolare il gruppo di ascolto e dialogo ‘Caffè corretto’, al martedì: ci si autoesplora attraverso la condivisione con gli altri. Si lavora sulla ristrutturazione del pensiero, si ricostruiscono nuovi orizzonti umani”. Il “Progetto Carcere” riunisce tante sigle, coordinate da Caritas. Una vera squadra? “Riunisce al suo interno una cordata di soggetti del Terzo Settore: la coop. Millepiedi, la coop. Centofiori, che si occupa prevalentemente di interventi per persone tossicodipendenti. Poi la Papa Giovanni XXIII che svolge un ruolo fondamentale con il progetto Cec, e l’associazione ‘Dire Uomo’. Composta da psicoterapeuti e psicologi, affianca uomini maltrattanti verso minori, famiglia e donne”. Quale servizio svolge questa cordata? “Il gruppo opera all’interno della casa circondariale grazie ad una istruttoria annuale del Comune di Rimini. La squadra coopera fruttuosamente assieme ai Servizi socio-sanitari per rendere un servizio multifunzionale. La bellezza di questo intervento è anche la capacità di dialogo e coordinamento tra associazioni e cooperative diverse per storia e sensibilità ma animate tutte dallo stesso obiettivo: potenziare le attività educative, pedagogiche e terapeutiche all’interno dei Casetti, per questi uomini reclusi”. La Caritas è impegnata in carcere dal 2006. Che ruolo recita? “Soprattutto il ruolo di coordinamento tra i vari enti, e attraverso l’educatore ponte mette a disposizione il supporto all’area educativa d’istituto, affianca cioè il funzionario giuridico pedagogico, la figura istituzionale che opera interno struttura. Caritas svolge dunque una funzione di mediazione e cerniera tra i detenuti e il resto dei servizi all’interno istituto, e opera di mediazione all’interno del gruppo di lavoro, e facilitazione con il mondo esterno. Oltre all’educatore ponte, un secondo operatore - Annalisa Natale - si occupa dello sportello carcere, l’ascolto settimanale aperto ai detenuti, per confrontarsi su diverse questioni: amministrative, giuridiche e di orientamento ai servizi all’interno del carcere stesso che magari non sono facili da comprendere con le situazioni di confusione mentale e solitudine che vivono i detenuti”. Oltre ai due operatori, ci sono i volontari... “Venti persone animano la vita penitenziaria, portano avanti attività di gruppi dialogici e di confronto, che permettono di riunirsi settimanalmente per riflettere e confrontarsi sui proprio vissuti, con finalità riparativa e di revisione dei percorsi di devianza. Tutti i volontari sono adeguatamente formati. Ogni mese è prevista la supervisione con lo psicoterapeuta. Ma è fondamentale sentirsi parte di un gruppo ed essere allineati sui servizi proposti in carcere e sulle situazioni difficili da affrontare. Non si può essere battitori liberi. Deve emergere uno sguardo positivo nei confronti di chi ha sbagliato e merita una seconda chance, e va rincorso l’abbattimento della recidiva, con percorsi di qualità che possono essere proseguiti fuori dalle sbarre”. Quali sono i temi principali da affrontare con i detenuti? “In prima istanza l’assenza di relazioni familiari, la solitudine, l’isolamento, difficoltà che si possono arginare solo se si crea una comunità. Questa comunità è un cuore che viene scaldato dai volontari con i gruppi di dialogo e le attività fuori dal carcere su richiesta dei detenuti stessi e dei loro familiari, un affiancamento finalizzato a percorsi di reinserimento e inclusione, condivisione anche fuori dal carcere di un piccolo cammino fatto insieme”. Il reinserimento in società è decisivo e parte da lontano... “Sul fronte del lavoro il grande interlocutore è Enaip Centro Zavatta, con il responsabile Raffaele Russo (nella foto con il gruppo detenuti impegnati nel progetto ‘Impastare la felicità’). Dentro al carcere sono organizzati percorsi di formazione. Ma scontata la pena - è strategico proseguire per riappropriarsi della vita fuori dalla devianza. Il ruolo del Consorzio Sociale Romagnolo (coinvolgendo coop e terzo settore) è fondamentale per il reinserimento di chi cerca una seconda possibilità”. C’è anche una seconda squadra di volontari che opera nella casa circondariale... “Sono volontari di espressione diocesana, con cui ci si incontra periodicamente 1 volta mese: Rinnovamento Spirito, Comunione e Liberazione, suore francescane suor Gabriella, e don Nevio Faitanini, il cappellano istituto. Anche il Vicario generale Don Maurizio si occupa dell’aspetto pastorale carcerario”. Non si parla mai del corpo di polizia penitenziaria... “In realtà svolge un ruolo strategico e di grande rilevanza. Il suo è un lavoro prezioso - a stretto contatto con Direzione della casa circondariale e area educativa - oscuro ma molto delicato”. Reggio Emilia. Teatro-carcere, presentati due spettacoli realizzati con i detenuti 24emilia.com, 3 novembre 2022 Il teatro come strumento per riflettere, ‘tirarsi fuori’ e raccontarsi, lavorare e relazionarsi con gli altri, e allo stesso tempo impiegare in maniera costruttiva il tempo trascorso in carcere. E’ questa la scommessa fatta dal Comune di Reggio Emilia insieme alla compagnia teatrale Mamimò e all’Istituto penitenziario di Reggio Emilia per dare vita, all’interno della casa circondariale della città, a laboratori teatrali rivolti ai detenuti. Laboratori che nei prossimi giorni presenteranno i loro esiti attraverso due spettacoli teatrali in cui alcuni carcerati sono coinvolti, come attori o spettatori. Hanno detto - Progetto e spettacoli sono stati presentati questa mattina nel corso di una conferenza stampa alla quale hanno preso parte l’assessore al Welfare Daniele Marchi, la direttrice degli Istituti penitenziari di Reggio Emilia Lucia Monastero e il responsabile dell’Area educativa della stessa Casa circondariale Massimo Castagna, l’attrice Cecilia di Donato e il regista Fabio Banfo del Teatro Mamimò. “I due spettacoli - ha detto l’assessore Daniele Marchi - sono l’esito di un percorso che si è dispiegato lungo due direttrici, la prima delle quali è quella di accorciare la distanza tra l’universo carcerario e la città, condividendo progettualità e favorendo laddove possibile il dialogo tra dentro e fuori. Il secondo obiettivo è fare in modo che il tempo trascorso in carcere sia un tempo utile per la persona detenuta, in grado di dare corpo e sostanza all’indirizzo sancito dalla Costituzione italiana che vede nella pena un momento di rieducazione e riabilitazione, nel quale la cultura, e in questo caso particolare il teatro, sono elementi fondamentali”. Le rappresentazioni - Venerdì 4 novembre andrà in scena lo spettacolo “House we left” (letteralmente “la casa che abbiamo lasciato”) che racconta la storia di alcune “donne, di transgender che hanno lasciato le loro case a causa di errori commessi durante le loro vite. Il carcere è ora il luogo dove vivono. Vivono, ma non sono. Per il mondo non esistono più, sono in un luogo che cancella l’esistenza dalla società”. Questo il tema dello spettacolo che venerdì sarà riservato ai detenuti e si volgerà all’interno del carcere di Reggio, mentre nei giorni successivi sarà proposto al teatro Orologio per tutti coloro che vogliono essere coinvolti in questa riflessione. È scritto e diretto da Alessandro Sesti, in scena Cecilia Di Donato accompagnata dai musicisti del gruppo Greasy Kingdom Andrea Tocci, Debora Contini, Filippo Ciccioli”. Lo spettacolo sarà replicato per il pubblico al teatro Piccolo Orologio, sede del Mamimò, lo stesso 4 novembre e il 5 novembre alle ore 21 e il 6 novembre alle ore 17. Lunedì 7 novembre, alle 19, presso la palestra del carcere (ma aperto anche agli esterni) andrà invece in scena lo spettacolo “Il bene e il male”, nato da laboratori di musica e teatro svolto con alcuni detenuti. Lo spettacolo nasce nell’ambito del coordinamento Teatro carcere dell’Emilia-Romagna che ha dato vita al progetto “Miti e utopie” per approfondire il tema del Bene e del Male attraverso alcuni personaggi e situazioni mitiche come la cacciata dal paradiso, Don Giovanni, Faust, Prometeo ed Eracle, con testi tratti dall’Antico testamento, da Molière, Marlowe e Pavese. Le scene saranno infatti intervallate da lettere che i detenuti hanno scritto ad alcuni miti classici e moderni scelti da loro - ad esempio Dante, Cleopatra, Giulio Cesare, Marilyn Monroe, Nelson Mandela - le cui vite sono state contraddistinte dal tema del bene e del male, rendendoli appunto dei miti. Lo spettacolo vuole quindi generare una riflessione su che cos’è un mito, su come nasce e come si alimenta e su quali sono i limiti positivi e negativi che un mito può e a volte deve abbattere, per diventare un mito universalmente riconosciuto attraverso lo spazio e il tempo. Regia di Fabio Banfo, assistenti alla regia Federica Pisano, Danae Pilotti, Francesco Zanlungo, montaggio e luci di Marco Merzi, fotografie di Gianluca Luppi, docenze musicali di Andrea “Satomi” Bertorelli, coordinamento di Cecilia Di Donato. Parteciperanno i detenuti del corso attori: Marco, Bruno, Angelo, Francesco, Mirco, Antonino, Giampietro, Antonio, Salvatore e i detenuti del corso musica: Bruno, Angelo, Giampietro, Marco, Francesco, Pietro, Davide. Le iniziative sono sostenute dalla Regione Emilia-Romagna che ogni anno assegna ai Comuni sedi di carcere finanziamenti destinati alla realizzazione di progetti e laboratori per un attivo utilizzo del tempo detentivo, tramite azioni di ascolto, supporto e accompagnamento delle persone ristrette, soprattutto per promuovere attività per il miglioramento degli aspetti relazionali dentro gli istituti penitenziari. L’obiettivo è migliorare la qualità delle relazioni interpersonali, contribuire a ridurre e contenere le tensioni create dal regime della vita detentiva, acquisire e conseguentemente esercitare regole di convivenza e di legalità preziose nella prospettiva del reinserimento sociale offrendo occasioni di incontro, svago e possibilità di ascolto attraverso attività formative, culturali, sportive, socio-ricreative. Genova. Teatro dentro le mura: verso una società inclusiva al Festival del Teatro Akropolis articolo21.org, 3 novembre 2022 Giovedì 3 novembre dalle ore 15 alle ore 17.30 nell’Auditorium Ex Manifattura Tabacchi di via Bottino 6 a Sestri Ponente (Genova) nell’ambito del Festival Testimonianze Ricerca Azione del Teatro Akropolis su invito dei direttori artistici del Teatro Akropolis Clemente Tafuri e David Beronio si svolgerà la presentazione della tesi Teatro dentro le mura, un varco verso una società inclusiva, alla presentazione degli studenti del Liceo artistico statale Klee Nicolò Barabino delle classi 3 e 4 accompagnati dalle professoresse Claudia Campanella e Barbara Mignone. L’autore Roberto Rinaldi dialogherà con Vincenzo Fagone ex detenuto attore della Compagnia della Fortezza che testimonierà la sua esperienza vissuta nella Casa Circondariale di Volterra. Questa destra feroce, un animale a tre teste di Fausto Bertinotti Il Riformista, 3 novembre 2022 Neo-conservatore nell’impianto economico-sociale: una sorta di agenda Draghi; reazionario sui temi della persona, dei diritti; corporativo nei confronti dei ceti che considera la propria base sociale. Bisognerà tenersi lontani dalla suggestione di attendersi dalla destra vincente ciò che non sono. Eppure c’è chi si ostina a chiedere di “dare vita ad un partito conservatore di modello europeo, impianto liberale, culturalmente avanzato...”. La destra è uno strano animale politico a tre teste: neoconservatore nell’impianto economico-sociale; reazionario sui temi della persona, dei diritti; corporativo nei confronti dei ceti che considera la propria base sociale. Fa un’operazione opposta a quella che Benedetto Croce consigliava ai liberali dopo la caduta del fascismo, quella di lasciare il liberismo in economia e tenersi il pensiero liberale. Se si pensa di dover fronteggiare un avversario difficile, la prima cosa da fare è cercare di capire bene chi è, di quale pasta è fatto, specie se esso si produce in un nuovo contesto. Il governo Meloni e la soggettività che lo esprime sono un avversario difficile per le forze che vi si oppongono e non solo per la disarmante debolezza del campo che queste compongono. Il nuovo governo è il governo della destra, della destra contemporanea. Per un verso esso richiama un balzo all’indietro, a un indietro molto lontano nel tempo, dato che da allora mai la destra si è presentata in Italia con l’ambizione di affermarsi da sola, duramente e interamente come tale. Quando ha concorso alla vittoria dello schieramento di cui faceva parte svolgeva una funzione di complemento, altri lo guidavano e ne forgiavano l’immagine, si pensi per tutti al berlusconismo. Solo negli anni ‘50 la restaurazione anti operaia, l’innalzamento della frontiera anticomunista, il governo liberista della ristrutturazione, la “Costituzione tradita” e la collocazione internazionale atlantista nella Nato potevano indurre a parlare di un governo di destra. Ma oggi la destra vincente non è una citazione di un lontano passato, è la destra contemporanea, lungo un filo che connette, pur in presenza di differenze anche significative, tutte le destre in occidente, dagli Usa, al Brasile, all’Est europeo. Bisognerà dunque tenersi lontani dalla suggestione di attendersi da loro, come dalla nostra destra vincente, ciò che non vogliono, né possono, diventare. Eppure c’è chi si ostina a chiedere di “dare vita ad un partito conservatore di modello europeo, impianto liberale, culturalmente avanzato, con ampie aperture pur mantenendo certi valori fondativi dell’idea di nazione”. Forse Cavour, ma una formazione così non esiste in nessun paese in tutto l’occidente. La destra vuole vincere e quando vince è tutt’altra bestia. È uno strano animale politico a tre teste: neoconservatore nell’impianto economico-sociale; reazionario sui temi della persona, dei diritti; corporativo nei confronti dei ceti che considera la propria base sociale. Fa un’operazione opposta a quella che Benedetto Croce consigliava ai liberali dopo la caduta del fascismo, quella di lasciare il liberismo in economia e tenersi il pensiero liberale. La nuova destra, la destra della nostra contemporaneità, così diffusa in Occidente, quella oggi vincente in Italia è questo strano, forte e minaccioso animale politico. I molti esponenti borghesi che dalle pagine dei più grandi quotidiano gli rivolgono appelli affinché diventi come piacerebbe a loro sono destinati a restare delusi. Del resto quando sono stati ascoltati dal centrosinistra affinché si separasse dalle radici della sinistra, comunista e socialista, e dal suo popolo per diventare “forza di governo” si è visto come è finita. È questa destra reale dunque quel che va fronteggiato; inutile attendersi dei regali. Sul terreno dell’economia, nel suo nucleo centrale, la sua politica resta ancorata alla sostanziale continuità con quella praticata in Europa, e in Italia, in tutto questo ultimo e lungo periodo. Chiamala, se vuoi, agenda Draghi. La collocazione internazionale, scelta con la svolta per candidarsi a governare il paese, ne fa da ombrello con l’opzione atlantista e la collocazione piena nell’Europa reale, fino alla politica di guerra ormai stabilmente adottata. Sul piano sociale, il governo Meloni attinge al classico e al neoclassico della destra in tutto il suo farsi, populista e liberista insieme. Essa perciò è disposta a venire in soccorso alla povertà estrema a condizione di mettere fuori dall’intervento pubblico la povertà ordinaria, il disagio sociale, il mondo del lavoro intero e tutta la diseguaglianza. Sui temi della persona, dei diritti, del riconoscimento delle diversità e della differenza, il governo di destra propone una scelta apertamente reazionaria. Essa intende realizzare una politica che non solo costituisca una rivincita storica sulle culture e le conquiste nate del biennio-rosso ‘68- ‘69, ma un vero e proprio rovesciamento della cultura che vive nella Costituzione repubblicana. Del resto è stato scritto molto autorevolmente che allora fu proprio l’antifascismo che si è fatto Costituzione. Perciò è necessario intendere bene che l’offensiva di cui il governo della destra sta gettando le basi è stata favorita dalle manomissioni che la Costituzione ha patito nell’ultimo quarto di secolo e dalla sua riduzione a costituzione liberale invece che democratica quale essa ha voluto essere. La differenza investe prepotentemente la politica e ha un nome potente, eguaglianza. Nella pratica di governo e nella cultura politica che si è affermata nell’ultimo ciclo e in particolare proprio e drammaticamente dal centro-sinistra, proprio questa è stata dismessa così da offrirsi ora, ad armi spuntate, al tentativo della destra di perseguire la Grande Rivincita. Rafforzata dalla vittoria elettorale, messo in campo un governo così organicamente di destra da essere senza precedenti, essa vuole dispiegarsi a tutto campo con un forte investimento simbolico e ideologico. La lente d’ingrandimento posta su come si chiamano le cose costituisce un indicatore della tendenza. Basta ad illustrarle, una per tutte, la parola merito scagliata contro la formazione, l’educazione, l’istruzione. Merito è una parola maledetta perchè nasconde sotto il velo dell’oggettività una concreta propensione alla strutturazione della diseguaglianza fino all’esclusione. Il padrone ha usato, nelle politiche salariali, gli “aumenti di merito’ per spezzare l’unità del mondo del lavoro, per fissare una propria gerarchia contro la crescita e la diffusione della professionalità. La scuola di classe l’ha usata, anche senza dichiararlo, per svuotare la rivoluzione sociale segnata in Italia dall’ingresso, per la prima volta nella sua storia, dei figli dei lavoratori, dei contadini, degli operai nella scuola fino all’università. Quel merito, messo sopra alla scuola, è una pietra su una prospettiva che, seppure solo enunciata e avviata tra mille difficoltà, ha dato la possibilità a tanti insegnanti e studenti di provate a far vivere una scuola per tutti e per tutte, malgrado le leggi e le tante Gelmini. La destra vuole ora richiudere quella porta, cominciando proprio dalla definizione del ministero. Altro che picconare il lungo e ancora incompiuto ‘68. È don Milani, è “lettera a una professoressa”, che si vorrebbero cancellare. Loro stanno sempre con i Pierino e contro i Gianni e ora il governo è loro. “Voi dite che Pierino del dottore scrive bene. Per forza, parla come voi. Appartiene alla ditta” scrivevano in “lettere a una professoressa”. Gianni, no - scrivevano - perciò lo escludevano. Gianni c’era ieri e c’è oggi magari con la pelle scura e avendo cominciato a parlare in un’altra lingua. Il vostro merito lo condannerebbe provando a nascondere in quel concetto la discriminazione sociale che si produce. Cose di destra. L’unione di cultura e pratica fa di questa destra una realtà forte e forte dell’inesistenza di una alternativa di sinistra. Ogni suo avvio di e già cosa ci accinge a fare questa destra al governo. L’attacco al reddito di cittadinanza, invece che al caro bollette annuncia il suo liberismo sociale antipopolare. In mare contro i migranti già è all’opera l’osceno rilancio del muro salviniano. Sulla piazza tornano i manganelli della polizia contro i manifestanti pur se in formazione ridotta. Sulla giustizia un ministro come Nordio innalza un monumento al carcere. Questa destra dunque al governo non si contiene per niente, piuttosto si radicalizza. La sinistra politica non c’è più come da ultimo ci hanno detto le elezioni e come ci ha detto il dibattito parlamentare sulla costituzione del governo Meloni nel quale l’unica forza di opposizione si è rivelato il partito di Conte. Inutile contare sulle divisioni interne alla maggioranza di governo. Il capo del governo ne è il principe che ha incorporato tutta la destra mangiandosi la lega di Salvini, nullificando il centro e lasciando spazio a qualche ininfluente bandierina soltanto. È proprio l’opposizione, dunque, che va reinventata nella paresi sociale come nella cultura politica. Bisognerebbe ritrovare le parole di un programma e di un’alternativa di società. Anche per questa parte le parole dovrebbero essere pietre. Non tutte necessariamente nuove. Alcune antiche dovrebbero essere condotte a vita nuova. È il campo della battaglia delle idee. Pace, giustizia, libertà per riaprire il grande scontro di civiltà il cui obiettivo, oggi più acuto persino che nel passato, è il “pieno sviluppo della persona umana”, di qualsiasi persona. Le politiche, e in specie proprio quelle che non si vogliono arrendere al presente, quelle che vogliono riaprire la contesa dopo la sconfitta, vivono solo se capaci di dare una risposta efficace al tema della forza. L’opposizione sociale al governo della destra è una sfida decisiva. Nel conflitto sociale si giocherà la parte principale della contesa che la destra ha aperto. Nella nascita e nella vita di un movimento popolare si vedrà se parole come pace, eguaglianza, diritti sono proprie pietre. Berlino: l’Italia soccorra i migranti. Grana sull’eurodebutto di Meloni di Marco Galluzzo Corriere della Sera, 3 novembre 2022 Roma: dateci informazioni su chi c’è a bordo. Oggi la premier a Bruxelles, in arrivo 7,3 miliardi. È la sua prima missione all’estero. È nel cuore della Ue. Viene per rassicurare la Commissione sull’Ucraina: piano finanziario, assistenza militare, ricostruzione, sanzioni contro Mosca; nessuno scostamento dalla linea del governo Draghi. Viene per offrire garanzie di prudenza nel bilancio dello Stato, intende restare nei parametri concordati con le istituzioni europee. Viene infine per chiedere che la Commissione acceleri sulla definizione concreta di un corridoio dinamico al prezzo del gas e che si prenda in seria considerazione un piano, come fu per il Covid, di assistenza europea alle imprese di quegli Stati che non hanno lo stesso spazio finanziario di Berlino. Superando le resistenze della Germania. Arriva, però, con una grana diplomatica: la Germania protesta ufficialmente contro l’Italia sul salvataggio dei migranti della nave Humanitas, chiedendo al nostro Paese di intervenire con urgenza per salvare la vita a centinaia di minori. La Farnesina replica che al momento lo sbarco non è consentito e di “aver inviato la richiesta di avere un quadro compiuto della situazione a bordo della Humanity 1 in vista dell’assunzione di eventuali decisioni”. L’Italia chiede “informazioni sulle persone presenti a bordo della nave, se vi siano persone vulnerabili e se sia stata già avanzata richiesta di protezione internazionale”. Giorgia Meloni oggi incontrerà la presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, e la presidente del Parlamento, Roberta Metsola. Meloni ripartirà dopo una cena con Charles Michel, il presidente del Consiglio. Tornerà in Italia comunque, metaforicamente, a mani piene: fra fondi di coesione non spesi dagli Stati dell’Unione e fondi non utilizzati del RepowerEu, in tutto all’Italia dovrebbero arrivare 7,3 miliardi di euro (4,8 più 2,5). In questo caso non si tratta di una richiesta, ma di un accordo europeo in via di perfezionamento, e sono fondi che potranno essere dirottati subito sul caro energia. Il premier avrà accanto a sé il nuovo consigliere diplomatico, Francesco Maria Talò, il ministro degli Affari europei, Raffaele Fitto, che ha lavorato alla preparazione della missione, e l’ambasciatore presso la Rappresentanza a Bruxelles, Piero Benassi. Uno dei temi più delicati sarà quello che chiedono molti Stati che non hanno lo spazio di bilancio della Germania, che ha varato un piano di mitigazione dei prezzi dell’energia da 200 miliardi di euro. Noi non ce lo possiamo permettere, e dunque Meloni insisterà sull’opportunità di un progetto sulla falsariga del programma Sure, con emissioni di debito europeo a bassissimo costo. Argomento di cui hanno parlato ieri anche il nostro ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti e il suo omologo tedesco, Christian Lindner, a Berlino. Il titolare del Mef ha evidenziato “l’importanza che l’Ue abbia una politica e una strategia energetica comuni maggiormente incisive”. Fra i temi degli incontri di Meloni anche la possibile rimodulazione del Pnrr, tema sul quale la Commissione potrebbe concedere alcune modifiche per la crisi energetica. Ieri Meloni ha avuto tre colloqui internazionali, con il premier giapponese Fumio Kishida, con quello spagnolo Pedro Sanchez e con il polacco Mateusz Morawiecki. Sono anche uscite delle dichiarazioni rilasciate nell’ultimo libro di Bruno Vespa. Partendo dal presupposto che il “Superstato europeo non ha funzionato” la premier conferma anche la sua idea di Ue, quella di “un’Europa confederale in cui non faccia Bruxelles quello che può fare meglio Roma e viceversa. Abbiamo avuto un’Europa invasiva nelle piccole cose e assente nelle grandi”. Quindi, sul suo personale destino: “Non sto qui per sopravvivere guardando i sondaggi. Tra 5 anni non voglio essere rieletta a ogni costo. Se vivi nel terrore di non essere rieletta, sei destinata a non combinare niente”. Di sicuro non aiuta lo scontro diplomatico con Berlino. La Germania infatti ha “risposto per iscritto” che “le organizzazioni civili impegnate nel salvataggio di migranti forniscono un importante contributo al salvataggio di vite umane. Salvare persone in pericolo di vita è la cosa più importante. Sulla nave Humanity 1, battente bandiera tedesca, ci sono 104 minori. Molti di loro hanno bisogno di cure mediche. Abbiamo chiesto al governo italiano di prestare soccorso”. Migranti. Meloni sfida l’Ue: “O Berlino se ne fa carico o per noi sono navi pirata” di Ilario Lombardo La Stampa, 3 novembre 2022 Oggi la premier a Bruxelles per negoziare su Pnrr, fondi di coesione e bollette. Alta tensione sulla concorrenza: “Imporre le gare è incostituzionale”. Giorgia Meloni è stata informata in serata della risposta data dal governo tedesco al ministro dell’Interno Matteo Piantedosi. Per Berlino i migranti della nave Humanity One vanno portati in salvo. È un dovere umanitario, che non dipende da quale bandiera sventoli sull’imbarcazione della Ong. La presidente non ha voglia di controreplicare, e preferisce lasciare che a farlo sia il prefetto che oggi siede a capo del Viminale. Ma è difficile credere che abbia cambiato idea rispetto a quanto sostenuto con Bruno Vespa appena pochi giorni fa: “Se fai la spola tra le coste africane e l’Italia per traghettare i migranti violi apertamente il diritto del mare e la legislazione internazionale - dice Meloni - Se poi una nave Ong batte bandiera, poniamo, tedesca, i casi sono due: o la Germania la riconosce e se ne fa carico o quella diventa una nave pirata”. Per effetto della direttiva di Piantedosi la Humanity One è ancora al largo. Da dieci giorni. Giorni in cui Meloni ha anticipato i suoi piani sull’Europa a Vespa, per il nuovo libro La grande tempesta: sui migranti, sull’energia, sulla concorrenza, sulla riforma del Patto di Stabilità. La premier ha convinzioni chiare che intende portare sul tavolo dei negoziati con l’Unione, “con franchezza, senza avere paura e soggezione di nessuno”, come dice ai collaboratori. Il debutto sarà oggi pomeriggio. A Bruxelles, Meloni incontrerà Ursula von Der Leyen, Charles Michel e Roberta Metsola, presidenti delle tre principali istituzioni europee, Commissione, Consiglio e Parlamento. La scelta della prima tappa all’estero è altamente simbolica. L’Europa resta la casa dell’Italia. Meloni però avrebbe l’ambizione di ristrutturarla. Come e con chi? Questo è il punto. La premier dovrà convincere i presidenti che la destra italiana non è quella incendiaria contro l’euro di qualche anno fa (Meloni e Matteo Salvini erano per abbandonare la moneta unica), né contro i diritti, sull’esempio degli amici del cuore polacchi e ungheresi. Il menù dei dossier di cui discutere è lungo. E sull’immigrazione la cronaca di queste ore certo non aiuta una discussione serena. La Commissione ha pronta una proposta sulla redistribuzione, per quote tra i Paesi membri e su base volontaria, che al governo non piace. Meloni chiede il “ripristino dell’operazione Sophia” che nella terza fase, sostiene, “prevedeva di estirpare il sistema organizzativo del contrabbando di esseri umani”. È il cosiddetto “blocco navale”, proposto da Fratelli d’Italia. Oggi ne parlerà a Bruxelles, dove sarà accompagnata da Raffaele Fitto, l’uomo che per lei ha coltivato i rapporti in Europa, e che ha saldato l’asse del gruppo dei conservatori, tenendolo lontano dall’ultradestra populista di Salvini, Marine Le Pen e i tedeschi di AfD. Fitto torna nella capitale belga nelle vesti di ministro degli Affari Ue, della Coesione territoriale e del Pnrr. Il Piano nazionale di ripresa e resilienza sarà la portata principale degli incontri in agenda. Assieme ai negoziati sul gas e sull’energia. Dalla campagna elettorale a oggi, l’idea di Meloni resta sempre la stessa: il Pnrr va rimodulato alla luce dei forti rincari del costo delle materie prime e delle bollette. Su 230 miliardi di euro previsti dal Next Generation Eu, 120 miliardi sono destinati alle opere pubbliche. Calcolando rincari medi del 35%, i costi sono schizzati di 40 miliardi di euro. “L’Europa ce li può garantire? - si chiede retoricamente Meloni - No. Allora dobbiamo cercare insieme una soluzione ragionevole”. Cambiare gli obiettivi del Piano, ridurre i progetti a cui sono destinati i fondi, è la strada, difficile, che hanno in mente a Palazzo Chigi. Meloni, però, non potrà fare solo richieste. Dovrà anche dare qualche spiegazione. Per esempio: cosa intende fare della riforma sulla concorrenza, che ha lacerato la maggioranza del governo Draghi e a cui lei si è opposta, in difesa di balneari e tassisti. Sempre nel libro di Vespa, la premier attacca la direttiva Bolkestein, sulle licenze per le spiagge: “Vogliono costringere noi a fare le aste nel 2023, mentre altri Paesi hanno prorogato le concessioni. Questa disparità è incostituzionale”. Meloni torna su un argomento caro a FdI: il primato del diritto nazionale su quello internazionale. Ci sono due proposte di legge a sua firma. Oggi, tra i suoi fedelissimi si cerca di minimizzare quelle tesi. Sono posizioni di mesi fa, sostengono, che non saranno rivendicate in fase di trattativa con l’Ue. Sulla concorrenza però vorrà vederci chiaro innanzitutto la presidente della Commissione Von der Leyen, perché è una riforma a cui sono vincolati i finanziamenti del Pnrr. Con lei Meloni punterà ad allargare la discussione e portarla anche sull’energia. Sul tetto al prezzo del gas, sul disaccoppiamento con le altre fonti rinnovabili e su un nuovo Recovery dedicato. Su quest’ultimo punto la Germania e i Paesi del Nord sono gelidi. Non vogliono nuovo debito comune, come è stato per la pandemia, e allo stesso modo non sono così favorevoli a rivedere il Patto di stabilità. Sarà la guerra in Ucraina l’argomento con cui Meloni tenterà una mediazione: l’aggressione russa che, come ha fatto il virus, ha stravolto la vita degli europei. Nella speranza che da Bruxelles arrivi il via libera a un’altra proposta italiana: di destinare al caro bollette parte dei fondi di coesione 2014-2020 non spesi. Iran. Accusa per le 2 giornaliste arrestate: “Sono spie della Cia”. di Marta Serafini Corriere della Sera, 3 novembre 2022 Oltre mille persone a processo a Teheran. Niloufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, tra le prime a seguire la vicenda di Mahsa Amini, si trovano nella prigione di Evin. Secondo le autorità iraniane sono state addestrate in Paesi terzi tra cui Italia e Turchia. In manette, additate come agenti Cia. Due giornaliste iraniane, Niloufar Hamedi e Elaheh Mohammadi, tra le prime a seguire la vicenda della morte di Mahsa Amini, sono state accusate dal ministero dell’Intelligence di essere spie addestrate dagli Usa. Hamedi è stata la prima a riferire del ricovero in ospedale della giovane di origini curde, postando su Twitter la foto dei genitori che ha suscitato indignazione e scatenato le prime proteste; Mohammadi ha coperto il funerale della 22enne a Saqez, nel Kurdistan iraniano. Entrambe sono state successivamente arrestate e si trovano nella prigione di Evin nella capitale. Mohammadi è stata presa il 22 settembre e il suo avvocato ha detto che le forze di sicurezza hanno sfondato la sua porta e portato via oggetti personali come il suo telefono e laptop. In un comunicato delle Guardie Rivoluzionarie e del Ministero dell’Informazione di venerdì scorso Niloufar Hamedi di Shargh ed Elaheh Mohammadi sono accusate di essere agenti della Cia e di essere state addestrate in precedenza in alcuni paesi terzi, tra cui Italia, Turchia, Paesi Bassi, Sudafrica ed Emirati Arabi. Nel comunicato si legge che il “regime mafioso degli Stati Uniti e dei suoi alleati, Israele e Arabia Saudita, hanno organizzato corsi di formazione per alcuni individui in questi Paesi, dove hanno ospitato consapevolmente o inconsapevolmente i corsi. E hanno rilasciato visti sotto la copertura del turismo o dell’istruzione”. Il documento specifica anche che “Teheran ha informato alcuni di questi governi attraverso la cooperazione di intelligence che hanno con l’Iran”. Il quotidiano riformista Shargh per cui le giornaliste lavorano sabato ha definito false le accuse rivolte a due giornaliste. Sul quotidiano indipendente Etemad è stato pubblicato un appello firmato da oltre 300 giornalisti, fotografi e attivisti dei media iraniani per il rilascio delle due colleghe. “La libertà dei media non è solo un diritto dei giornalisti, ma anche della società”, si legge nella lettera. E ancora: “La nostra società ha il diritto di sapere cosa sta succedendo in modo tempestivo, senza censure o filtri, e ha anche il diritto di interrogare qualsiasi persona o istituzione che causi inefficienza, corruzione o violi la legge”, continua la dichiarazione. Dalla morte di Amini, il 16 settembre, l’Iran è sconvolto da dure proteste di piazza che non accennano a diminuire e alle quali il regime ha risposto con una violenta repressione. Più di un migliaio le persone arrestate, tra cui decine di giornalisti. Mille persone saranno processate nella sola Teheran per avere preso parte alle proteste. Lo hanno annunciato funzionari della magistratura iraniana, come riporta Irna, facendo sapere che andranno a processo individui che hanno compiuto “azioni sovversive” e hanno avuto un ruolo centrale nelle dimostrazioni. “Coloro che intendono scontrarsi con il regime e sovvertirlo sono dipendenti dagli stranieri e saranno puniti in linea con la legge”, ha affermato il capo della Magistratura iraniana Gholam-Hossein Mohseni Ejei alludendo al fatto che alcuni manifestanti potrebbero essere condannati con l’accusa di avere collaborato con governi stranieri. “Senza dubbio, i nostri giudici affronteranno i casi delle recenti rivolte in modo accurato e rapido”, ha aggiunto Mohseni Ejei. Minacce dunque e intimidazioni che non fermano però la piazza iraniana.